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L’umanesimo davanti a noi

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Scenari di guerra

Scenari di guerra

L’umanesimo davanti a noi

Di questi tempi si parla molto di umanesimo, e ci sono eccellenti ragioni per essere contenti di questa circostanza. Significa aver capito che la scienza e la tecnica non possono da sole risolvere i problemi degli esseri umani. Questo articolo di fede, che ha condizionato i due secoli della modernità che ci siamo lasciati alle spalle, chiede di essere riconsiderata. Questo cambiamento di prospettiva, vale la pena di rilevarlo, non dipende da un fallimento, ma da una riuscita. La scienza e la tecnica, ben lungi dal non mantenere le loro promesse, le hanno realizzate fin troppo bene: Kant profetizzava che non si sarebbe mai trovato un Newton capace di spiegare la nascita di un filo d’erba, ma oggi ci misuriamo con i problemi della ingegneria genetica; sino a pochi decenni orsono i robot facevano parte della fantascienza, mentre oggi sono il nostro pane quotidiano. Se fino a non molto tempo fa scienza e tecnica potevano aumentare la nostra forza, ma non riuscivano a supplire alla nostra intelligenza, e l’anima sembrava il contrario dell’automa, ora l’automa appare sempre più intelligente, il che, per motivi che non sono chiari, sembra decretare che siamo sempre meno intelligenti.

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È di qui che prende l’avvio Scienza Nuova e il suo progetto di un umanesimo per i nostri tempi, avendo chiare due circostanze.

La prima è che ciò con cui abbiamo a che fare è un progresso, un segno del fatto che l’umanità va verso il meglio. Siamo molto più numerosi oggi di un tempo, molti di noi sono più longevi, i nuovi lavori sono meno noiosi e inumani dei vecchi, che col tempo spariranno e ci sono buone ragioni per pensare che in tempi sperabilmente non troppo lunghi sarà così in tutto il mondo.

La seconda è che quello che si manifesta nell’incrocio tra l’umanesimo e la tecnologia non è una l’alienazione dell’umano, bensì la rivelazione delle sue caratteristiche più profonde. Pensare un essere umano privo di tecnica, infatti, significa pensare un animale particolarmente svantaggiato. È la tecnica che ci permette di avere una cultura, di coltivare dei sentimenti disinteressati, di avere il tempo per riflettere e deliberare, cioè di essere umani. La natura, di per sé, ci suggerisce solo di nutrirci, riprodurci e fuggire i predatori, e ci consegna a una vita solitaria, povera, pericolosa, brutale, e breve.

Sembrano due circostanze banali. E invece, a ben vedere, la maggior parte dei discorsi che facciamo intorno al mondo suppongono che si vada verso il peggio e che scienza e tecnica siano delle false amiche del genere umano.

L’emergenza ambientale, il malessere sociale, la scomparsa delle comunità tradizionali non sono forse il bel risultato della crescita tecnologica che ha devastato l’ambiente, distrutto posti di lavoro, e sostituto la società con i social network? Non è forse contro questo mondo nuovo che sorgono fenomeni di segno diversissimo, accomunati solo dal rifiuto del modello di sviluppo che abbiamo seguito sin qui? Ora, se così fosse, l’umanità avrebbe buttato le migliaia di anni di storia di cui conserva memora, e gli evi ancora più lunghi che sono caduti nell’oblio.

Fortunatamente, però, il catastrofismo è una posizione tragica ma non seria. La crisi ecologica è sicuramente un problema per l’umanità e non per la natura (è strano che i critici dell’Antropocene non facciano caso alla circostanza), ma se si pone oggi è perché una parte crescente di umanità è più sensibile ed evoluta, e meno distratta dalle guerre. Le macchine ci porteranno via i lavori faticosi ed alienanti, ma sta a noi inventare nuovi lavori che ne prendano il posto, e farci pagare per il valore che produciamo sul web. E siamo sicuri che la socialità sul web sia tanto peggiore della mortifera vita in un paese o alla catena di montaggio?

L’umanità è sicuramente un legno storto da cui difficilmente si potrà trarre qualcosa di perfettamente diritto, ma resta l’unica misura dei nostri valori, e coloro che cedono al catastrofismo commettono, semplicemente, l’errore di pensarsi degli umani migliori di quelli che sono. Se abbandoniamo il presupposto illusorio di una umanità originariamente perfetta, e degradata dalla società e dalla tecnica, ci accorgiamo che, tutto sommato a sorpresa, l’umanità va verso il meglio, e che, senza questo progresso, parlare di “umanità” avrebbe ben poco senso. Ma, se è così, se c’è un significato e un fine della storia, allora l’umanesimo non è semplicemente dietro di noi, come un passato (spesso immaginario) da rimpiangere o verso cui far ritorno, ma davanti a noi, come un compito da realizzare.

Per farlo, non basta dotare di un supplemento d’anima la scienza e la tecnica, “umanizzarle”, come si dice un po’ curiosamente, quasi che fossero prodotti di un dio o del caso, ma comprendere che gli esseri umani sono l’incontro tra i bisogni di un organismo spesso insufficiente e le risorse tecniche inventate per supplire alle insufficienze e soddisfare i bisogni. L’organismo detta i fini e le urgenze (un meccanismo può essere acceso, spento e poi riacceso, un organismo o è acceso o è spento, per sempre), il meccanismo trova i rimedi e potenzia le risorse; l’organismo senza meccanismo non sarebbe umano (come dicevo più sopra, la nuda vita senza tecnica non è vita umana), il meccanismo senza organismo non avrebbe scopo. Possiamo costruire una macchina per fare il sushi, e un’altra per distribuirlo, ma non ha senso una macchina consumatrice di sushi, e se le prime due esistono e hanno un senso è perché la terza non ne ha.

Il vecchio umanesimo, insomma, si aspettava troppo dall’umano, e il suo fallimento ha generato il catastrofismo degli ultimi due secoli.

Il nuovo, pur non ponendo limiti al miglioramento dell’umanità, si fa meno illusioni, e riconosce l’essenza dell’umano in questo incontro tra meccanismo e organismo, cioè, anche, tra produzione e consumo. Nel momento in cui la produzione si avvia verso la totale automatizzazione, è chiaro che tutto quello che abbiamo intorno a noi, e che rende la nostra vita più lunga e piacevole di quella dei nostri antenati, ha trovato la propria origine, prima che in un Prometeo che ha rubato il fuoco agli dei, in un Epimeteo che voleva arrostirsi una salsiccia, e che proprio per questo avvertiva l’urgenza di dominare il fuoco.

Maurizio Ferraris

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