5 minute read

Di nuovo al fronte

Next Article
Il Caso Emergency

Il Caso Emergency

Tornai da Timor con il volo non-stop più lungo del mondo, Singapore-New York, 18 ore filate. Fa un certo effetto rivedere i grattacieli di Manhattan dopo mesi di foreste equatoriali. Sapevo tuttavia che sarebbe durata poco. Il dispiegamento nel Darfur procedeva spedito e nel giro di settimane, avrei preso anch'io la via del Sudan. Non avevo smanie di nuove avventure: semplicemente non avevo scelta.

Poco dopo il ritorno a New York mi chiamò la portavoce UE Cristina Gallach. Hola Andrea, sono venuta con Mr. Solana per alcune riunioni, vieni domani per il breakfast al Palace se puoi. Il giorno successivo, di buon mattino, andai all'hotel sulla Madison con discreto anticipo. Ero assai curioso di sapere cosa aveva da dirmi, probabilmente un incontro di cortesia, ma forse qualcosa di più. Durante le visite di Solana, di tempo per incontri privati ce n'era sempre poco.

Advertisement

Queridisimo - iniziò davanti al caffè americano, che feci finta di bere anch'io - tenemos que hablar de Afghanistan. Innanzitutto mi disse che la missione di polizia europea, lanciata pochi mesi prima - denominata EUPOL e simile a quella di Skopje - aveva avuto un inizio stentato. Il primo comandante, un generale delle forze speciali tedesche GSG9, stava per lasciare e sarebbe stato rimpiazzato da Ji.irgen Scholz, lo stesso con cui avevo lavorato in Macedonia. Buona parte del personale dirigente sarà azzerata - mi disse -e c'è una posizione che potresti ricoprire, se te la senti.

Sarebbe bene che andassi - aggiunse - non solo perché hai già lavorato con il nuovo capomissione, ma anche per il fatto che proprio un italiano potrebbe essere nominato come rappresentante speciale dell'Unione a Kabul. Mi raccontò un retroscena di poche settimane prima. L'Italia aveva perso due nomine UE su cui aveva

puntato con determinazione; di ciò lo stesso Prpdi, in una riunione comunitaria, aveva protestato veementemente con Solana, il quale doveva riparare con il primo posto di peso che si fosse reso disponibile. L'Afghanistan, appunto, dove il mandato dell'inviato Francese Vendrell, ex alto funzionario ONU catalano, era in scadenza. Cristina aveva già in tasca un paio di nomi di potenziali candidati per quel posto, mi chiese se li conoscessi e se ne avessi degli altri.fit for the job.

Ci pensai un po' sopra, nel corso della giornata. Tra Darfur e Afghanistan non so dov'è peggio - dissi tra me - ma alla fine decisi di optare per la proposta europea.

Dopo una breve telefonata a Bruxelles col colonnello Bruzzese (sempre lui) diedi la disponibilità. Nel giro di una quindicina di giorni, grazie anche al sostegno del capo dell'ufficio UE della Farnesina Lamberto Zannier, si formalizzò l'incarico. I.:avventura afghana poteva iniziare.

Lasciai il passaporto al consolato la mattina del 24 dicembre, ricevendo assicurazioni che il visto sarebbe stato pronto in pochi giorni. A Natale m'invitò provvidenzialmente a cena Giandomenico Picco, parlammo fino a tarda notte nella sua villa in Connecticut. Dalle finestre si vedeva fioccare come da tradizione; ne vedrai tanta di neve a Kabul - disse prima di spiegarmi tante cose di quel Paese che era rimasto nel suo cuore. Picco aveva fatto parte dello speciale team UN incaricato di negoziare il ritiro dei sovietici dall'Afghanistan, operazione fiore all'occhiello del decennio di Javier Pérez de Cuéllar alla guida delle Nazioni Unite. È un gran popolo, imparerai molte cose, rimarrai affascinato dalla loro cultura e tradizioni, sono contento che vai, tienimi informato. Mi salutò così davanti al treno AM-TRACK che tornava a Manhattan nella notte.

In effetti gli afghani che avevo conosciuto mi erano sempre andati a genio. Fieri, eleganti, ospitali, aperti. La mia migliore amica ONU era proprio un'affascinante afghana-tagika, Shayma Daneshjo, conosciuta vent'anni prima in Namibia. Trascorsi con lei i giorni successivi. Mi introdusse presso l'ambasciatore Zahir Tanin, ex giornalista della BBC divenuto rappresentante di Kabul alle Nazioni Unite. Fu lui a darmi il visto ed un forte incoraggiamento durante un incontro prima di Capodanno.

Dal Kennedy chiamai l'amico Micaletti ad Al Fasher. Si stava adoperando per una mia sistemazione adeguata in Darfur. Perdonami Oriano - gli dissi di corsa al telefono - non vengo più, sono destinato a Kabul, cerchiamo di combinare un ritorno a New York nello stesso periodo, così ci vediamo. Ah però- esclamò dall'avamposto nel Sahara - sarai contento immagino, in Afghanistan ci mandano quelli di razza. Grazie per il complimento Oriano, ma non credo sia proprio così; mi sa che di questi tempi ci mandano i più fessi.

Appena atterrato a Fiumicino, accesi il cellulare italiano. C'erano dieci chiamate senza risposta, tutte dallo stesso numero. Chi sarà mai? Pensai tra me. Rispose Giovanni Mameli, un maggiore veronese. Sono settimane che le suore canossiane ti cercano - mi disse felice di avermi finalmente rintracciato - sarebbero molto contente se potessi presenziare al bicentenario della nascita di santa Maddalena, è domenica, ossia domani, qui a Verona, vedi tu.

Il giorno successivo era fissata la partenza per Kabul, con sosta di un giorno a Bruxelles per rapido briefing. Mancavo molto da Roma e di cose da fare ne avevo parecchie, decisi di andare egualmente. Arrivai in treno a Modena all'una di notte, ora classica in cui sveglio mia cugina Brunella nei blitz al Nord. L'indomani raggiunsi Verona. La cerimonia era imponente; una gran folla nonostante la pioggia battente, attendeva di accedere alla basilica di San Zeno dalla porta centrale. Provvidenzialmente, avevano predisposto un maxi-schermo nella chiesa inferiore.

Andiamo in fretta, passiamo dalla porta laterale - mi disse Mameli appena sceso dal taxi - il tuo posto è in prima fila, così mi hanno detto le suore, e mi fece strada tra i fedeli. Dietro di me i capifamiglia discendenti diretti della Santa, Sigifredo di Canossa e Pieralberto degli Albertini. Mi guardarono un po' sorpresi, giustamente. Perché loro dietro ed io avanti? Così aveva dettato il protocollo delle canossiane. Dopo la messa ci spostammo alla casa madre, dove salutai varie religiose timorensi, poi di corsa, nuovamente alla stazione.

Alle 20 ero finalmente al check-in del volo di Bruxelles. Avanti a me c'era una vecchia conoscenza di missioni, il colonnello dei carabinieri Luigi Bruno. Dopo anni in prima linea, finalmente andava a ricoprire un incarico «da scrivania» al comando UE. Ah, ti

This article is from: