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Alpini versus parà
from SENZA PACE
con la popolazione. A ciò va aggiunta una diffusa stanchezza di per sé, direi fisiologica, per la presenza internazionale che, sotto diverse forme, ha occupato due terzi degli ultimi trenta anni. Certo, come obietta qualcuno, alla partenza delle forze di pace si potrebbe accentuare l'instabilità, lo pensano anche gli stessi afghani. Ma, sempre questi ultimi, ritengono che si tratterebbe di inevitabili assestamenti e che comunque non si possa vivere sotto tutela vita natural durante. La piena sovranità ha un prezzo, e sono molti i Paesi che l'hanno dovuto pagare, a volte anche caro. Le ripetute aperture del presidente Karzai ai talebani sono il segno che l'Afghanistan è pronto ad incamminarsi su un sentiero ripido e tortuoso - la coabitazione con i seguaci meno radicali del mullah Omar - pur di voltare pagina e affrancarsi dal protettorato USA-NATO. Inequivocabili le sue parole al «Washington Post» nello scorso novembre: It's not desirable for the Afghan people lo have 100. 00 or more foreign troops going around the country endlessly. Finanche l'opinionista principe della stessa testata, David Ignatius, titolava in quei giorni: Afghans want their country back - and American should listen.
Alpini versus parà
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In molti Paesi si è discusso se stare o meno in Afghanistan; spesso il dibattito ha anche investito le unità da utilizzare e con quale modus operandi. Da noi se ne è sempre parlato piuttosto genericamente, ogni sei mesi, in occasione del voto parlamentare sul rifinanziamento o, sommariamente, in occasione di attacchi e perdite nelle file dei soldati tricolori.
Le dissertazioni su metodi operativi sono sempre state riservate agli addetti ai lavori, fuori dalla portata del grande pubblico. Ci ha pensato un militare, Fabio Mini, a portarle alla ribalta. Platealmente. In un articolo di due pagine su «L'espresso» del luglio 2009, l'ex comandante NATO in Kosovo rifletteva sull'operato dei paracadutisti, impiegati per la prima volta a livello di brigata in Afghanistan. Secondo il generale-bersagliere, la Folgore «ha creduto a chi facendo leva sul suo spirito di corpo reclamava il riscatto dell'onore nazionale macchiato da precedenti contingenti, comandanti e governi ritenuti
imbecilli ed incapaci solo perché avevano sparato e si erano fatti sparare meno degli altri».
In altre parole, Mini sosteneva che i parà avevano autonomamente adottato un nuovo modulo operativo - più sortite, maggiore controllo del territorio - che ha avuto ripercussioni negative. «Quattro mesi di questo atteggiamento hanno contribuito ad alterare equilibri fragilissimi. Hanno creduto che la missione si sarebbe conclusa con la loro operazione: nell'apoteosi» - così concludeva sullo storico settimanale romano l'ex capo di KFOR.
Parole forti, che scatenarono un putiferio. In privato. Unica presa di posizione fu la difesa appassionata dei compagni d'arma da parte del deputato PDL e medaglia d'oro al valor militare Gianfranco Paglia. Per il resto silenzio. «La sostanziale assenza di reazioni - commentò Nico Piro del TGJ sul suo blog Tashakor - è il segno di come in Italia il tema Afghanistan sia trascurato. Una carenza bipartisan che, prima o poi, arriverà al dunque, con esiti prevedibilmente disastrosi».
Da Kabul seguivamo con una certa preoccupazione l'escalation di scontri "Che vedevano coinvolti i parà. Molti di questi episodi risultavano peraltro noti anche in Italia. Nonostante l'assenza di un corrispondente sulla piazza (all'ufficio di Nuova Delhi fu data competenza solo dalla metà del 2009) l'ANSA, grazie.alla estesa rete di contatti dell'esperto di difesa Vincenzo Sinapi, era riuscita a dar conto dei principali combattimenti avvenuti ad Herat e dintorni. Tuttavia, i re~roscena, legati alle iniziative di singole unità, erano conosciuti da una cerchia ristretta di persone.
Illuminante, pochi giorni dopo la pubblicazione dell'articolo polemico, fu un dibattito sulle missioni di pace organizzato dalla rassegna estiva «Cortina InConTra», al quale fui invitato insieme a Toni Capuozzo e Franco di Mare. Il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, ospite d'onore della serata, nel suo intervento non fece mistero del diverso approccio che ogni brigata adotta nei teatri operativi. Riferendosi all'Afghanistan, pur senza entrare direttamente nella polemica trattata da «L'espresso», il deputato forzista fece notare alcune differenze d'impostazione tra alpini e paracadutisti.
Da lì, capii che le parole di Mini - su cui si poteva o meno essere d'accordo - avevano sollevato un problema reale: come affrontare la

missione militare, come misurarsi con la deteriorata situazione sul terreno. Condannare sic et simpliciter quanto sostenuto dall'ex comandante del Kosovo sarebbe stato come mettere la testa sotto la sabbia.
Parlammo fino a tarda notte con il vice alla Difesa, durante un pranzo offerto dal presidente di Elettronica Enzo Benigni e al quale era presente anche il capo di Stato maggiore della marina Paolo La Rosa. Crosetto, piemontese di Cuneo, lui stesso sottotenente di complemento nel 2° reggimento della Taurinense, non poteva non avere un debole per gli alpini. Oltretutto, al ministero è circondato da generali con la penna, da qualche anno in vari posti chiave di via xx Settembre. Ma è anche vero che aveva visitato ripetute volte l'area di responsabilità degli italiani, spingendosi - in mimetica, soldato tra soldati - fino all'ultimo avamposto tricolore. Ci disse che gli alpini erano più attenti a seguire le direttive impartite dai vertici romani. Tenere le briglie ai parà - osservò ancora Crosetto - non sempre risultava impresa facile.
Gli ufficiali sul terreno hanno un certo grado di autonomia; logico che ognuno porti la propria fisionomia e quella dell'unità che guida.«Porsi e non imporsi» è stato ad esempio il leitmotiv del generale Veltri nel periodo di comando della Sassari, non escludendo naturalmente scontri che hanno dovuto affrontare anche loro. «Tutto quello che si è raggiunto con grandi sforzi può essere perso drammaticamente nel giro di un minuto se si commette qualche errore», ammoniva il comandante sassarese intervistato da Barbara Schiavulli su «Il Messaggero».
In realtà, ogni nuova brigata che si dispiega deve fare i conti con alcune variabili esterne: in primis le direttive NATO-ISAF, ma anche la maggiore o minore forza degli insorti e la buona stagione, foriera di rinnovate offensive dei guerriglieri. Tutti fattori che possono interferire, anche notevolmente, con le direttive nazionali.
La Folgore, oltretutto, arrivava con un reggimento in più, per controllare aree più vaste. Un numero maggiore di scontri era da mettere in preventivo. È quindi presumibile che i baschi amaranto - presenti nel semestre aprile ottobre 2009 - siano incappati in un periodo particolarmente delicato, ma è anche possibile che ci abbiano aggiunto del loro. Erano quasi al debutto - l'ultima presenza in teatro risaliva all'invio per quattro mesi del reggimento a Khost nel 2003 - e volevano mostrare di che pasta sono fatti. Niente di strano.

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