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L'esilio ai confini del mondo 41 Bagni con brivido 44 Bom Dia Senhor

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Il Caso Emergency

Il Caso Emergency

A New York erano contenti che sapessi un po' di portoghese. Ti aiuterà, mi dissero prima di partire. In realtà è un bluff comune, per chi parla la lingua spagnola, quello di vantare una conoscenza del portoghese. Si legge con una certa facilità, ma al momento di dialogare quel che viene fuori è spesso un misto d'italo-spagnolo di difficile comprensione, nella migliore delle ipotesi esce un dialetto parlato al confine tra Argentina e Brasile. Difficilmente comprensibile a Timor.

Capire un portuguese-speaking è ancor più arduo. Non è la lingua facile che sembra. Ma a prescindere da questo, la diffusione del portoghese a Timor è un luogo comune. Lingua ufficiale secondo la costituzione, ma di fatto, gli under cinquanta non l'hanno mai parlato. La lingua in uso è il tetum, idioma locale infarcito di parole portoghesi. I giovanissimi si esprimono discretamente in inglese, la generazione di mezzo, cresciuta sotto il regime di Giacarta parla anche il bahasa, l'indonesiano. Insomma una babele. Anche gli sforzi di Lisbona con i 180 docenti del Programa de reintegraçào da lingua portuguesa non hanno dato finora i risultati sperati. Comunque fino al bom dia senhor ci arrivano tutti.

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Furono quelle frasi di rito che mi colpirono molto. Non che in altre parti del mondo non salutassero, ma quel pur semplice buongiorno denotava distintamente rispetto e buona educazione. Chissà, forse l'arretratezza, l'isolamento o le passate repressioni, sta di fatto che raramente mi era capitato di avere a che fare con un popolo così ben disposto con gli stranieri. Anche se spesso si comunicava ad intermittenza, quel feeling epidermico di vivere a contatto con persone amiche era palpabile nei rapporti con i timorensi. Non credo di ricordare persona che nei mesi lì trascorsi non mi abbia salutato con un cenno del braccio passando in auto o con un bom dia senhor, incontrandola per strada. Naturalmente, qualche screzio tra i locali e i membri della missione non poteva mancare. Furtarelli, scippi al più. Niente bombe o cecchini, si raccontava solo di qualche attacco ad auto UN in zone rurali con arco e frecce (non so se avvelenate).

Anche il rancore nei confronti dell'ex potenza occupante era contenuto. La storia di Timor ha delle similitudini con quella del

Kosovo. Tuttavia, mentre a Pristina e dintorni l'avversione a tutto ciò che rappresenta la Serbia è totale, in questo lembo di sud-est asiatico si guarda al passato con maggiore serenità - e sì che massacri etnici ve ne sono stati anche lì. Uno degli addetti alla pulizia della nostra casermetta spesso si presentava indossando una maglietta sdrucita con su scritto Si a la anexaçao. Non potevo credere che fosse una t-shirt dei tempi del referendum per l'indipendenza. Proprio così invece, se la mettevano i sostenitori della dominazione indonesiana. Chiesi ad un interprete se la persona in questione fosse talmente povera da non avere altro per vestirsi. Sicuramente il giovane non se la passa bene - mi rispose il collega timorense - ma non c'è niente di strano a girare così, non ci fa caso nessuno.In realtà, il referendum del '99 aveva registrato il 21,5 per cento di contrari all'indipendenza. Alcuni per antichi legami con l'Indonesia - collaborazionisti o gente in affari - altri semplicemente non credevano nella capacità, per un Paese così piccolo e sottosviluppato, di reggersi con le proprie gambe. Tesi, quest'ultima, condivisa anche da alcuni analisti internazionali.

Nel solo settore sanitario, tanto per citare uno spaccato della pubblica amministrazione, la partenza degli indonesiani aveva comportato il vuoto del personale medico e in buona parte anche infermieristico. Completamente senza dottori, dall'oggi al domani. Dovette venire in soccorso il vecchio Fide!, paladino del terzomondismo, inviando 350 cuban doctors. Un programma d'assistenza destinato a durare almeno sei anni, ossia per il tempo in cui i primi medici timorensi si saranno laureati all'Università dell'Avana.

Per tutte queste ragioni si era voltato pagina, cercando di dimenticare al più presto gli anni bui senza riaccendere vecchi conflitti. Viceversa a Pristina ancora oggi, a più di dieci anni dal ritiro dei serbi, sarebbe poco raccomandabile andare in giro con un Kosovo je Srbija stampato sul petto. Credo che ciò abbia a che fare anche con una diversa filosofia orientale. Un ex ambasciatore italiano in Vietnam, Alfredo Matacotta, racconta spesso di non aver mai notato freddezza nei suoi confronti dalle autorità di Hanoi e dalla popolazione per il fatto di essere sposato con una cittadina americana. Nessuno rinvangò mai vecchie storie di guerra né a lui né alla consorte Pamela. Capitolo chiuso. Senza dimenticare, ma guardando avanti. Nei Balcani ogni discorso inizia invece dal 1300 o giù di lì.

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