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Sotto la bandiera europea

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Il Caso Emergency

Il Caso Emergency

alla missione europea. Ero ritornato a Skopje esattamente quindici mesi dopo che l'avevo lasciata per andare a Nassiriyah. Dalla sabbia del deserto ai ghiaccio! i dei cornicioni.

Sotto la bandiera europea

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Per chi ha lavorato a lungo con le Nazioni Unite, soprattutto se in missioni di pace, l'approdo in ambienti comunitari riserva piacevoli sorprese. A cominciare dal luogo di lavoro. All'ONU comunemente ci si arrangia alla meglio, spesso in caserme semi-fatiscenti assegnate dalle autorità locali, dove i mobili rasentano l'antiquariato. Viceversa all'Unione europea tutto è moderno e di un certo lusso. Il solo bagno della villa a tre piani dove era ospitato il comando della missione europea era più largo dell'ufficio ONU di Pristina che per quattro anni avevo diviso con due colleghi. Ricordo di averci passato i primi tempi più del dovuto, contemplando la mastodontica vascaidromassaggio ed il luccichio di specchi e rubinetteria. Dopo pochi giorni, andando in aeroporto a bordo di una fiammante Audi A8 blu a ricevere una delegazione, l'inappuntabile autista Toni Petrovski mi chiese se gradivo il riscaldamento del sedile. Io, che a malapena avevo sentito parlare di quelle diavolerie moderne e che ero abituato a viaggiare nei modi più improbabili, scoppiai a ridere.

Ma a parte lo status UE, la città in sé era una svolta per la mia vita. Un benpensante che dovesse essere trasferito a Skopje da New York o Londra è pÒssibile che cada in depressione semi-istantanea. Approdandovi, dopo otto anni tra Tuzia, Pristina e Nassiriyah, si bacia per terra ogni nuova alba vissuta in quella terra. Così perlomeno fu per me.

Skopje è una piccola capitale europea, dove si vive piacevolmente. Io la definisco una Foligno con le ambasciate. Come la cittadina umbra ha Palazzo Trinci, anche la capitale macedone, prima del disastroso terremoto del '63, vantava palazzi liberty di pregio; ora è davvero tutta moderna. A misura d'uomo, ordinata, semplice, gente divertente, una certa vita notturna e sopratutto problemi zero. D'inverno si va a sciare nella vicina Mavrovo; d'estate, in due ore, ci sono le spiagge di Salonicco. In primavera ci si ritempra sul lago di Ohrid

e, alle brutte, si prende il comodo volo per Roma, assicurato per anni dalla mitica MAT. Il recente fallimento di quest'ultima ha lasciato nel panico parecchi viaggiatori; miracolosamente lo storico caposcalo Rados Nedié ( detto Rasko) si è riciclato alla guida della Montenegro Airlines, inventando su due piedi un Fiumicino-Podgorica-Skopje.

Ricordo di aver rimesso per la prima volta i mocassini dopo non so quanto tempo. Per troppi anni ero stato condannato a scarpe alte a causa di terreni fangosi e/o ultrapolverosi, pericoli di zanzare malariche, se non addirittura di serpenti. A Skopje finalmente se ne poteva fare a meno, anche se non sapevo quasi più come camminare con i mocassini. Erano dei Delgado, acquistati nell'elegante calle Florida di Buenos Aires vent'anni prima ed ancora in ottimo stato, proprio perché usati pochissimo. Riprendevo la tenuta semi-desert quando preso da nostalgie war-zone o quasi costretto da giornalisti in visita, tornavo nel vicino Kosovo. Avevo a disposizione una vecchia Land Rover a passo lungo riverniciata del colore azzurro dell'Unione e con targa EUR + stelline, grazie alla quale potevo spostarmi agevolmente nella dissestata strada che conduce a Pristina. Al comando KFOR regnava il veneziano Giuseppe Valotto, un generale molto rispettato in ambito NATO e benvoluto dalla popolazione locale; era sempre un piacere trascorrere qualche ora con lui e il suo team, si apprendevano cose utili da sapere per chi prestava servizio nel Paese confinante.

Con il capomissione svedese l'intesa fu subito ottima e si creò, fin dall'inizio, una simpatia ed amicizia che durano tuttora. Anche con l'austero generale Jtirgen Scholz i rapporti erano buoni; ogni mattina, allo staff meeting facevo il riassunto delle notizie locali e internazionali, oltre a informarlo delle notizie di rilievo che venivano fuori nel corso della giornata. Non aveva smanie personali di pubblicità e non era preso - contrariamente a tanti colleghi internazionali impiegati in altre spedizioni - dall'ansia di increase the visibility della propria missione. Quella di voler a tutti i costi conquistare le prime pagine dei rotocalchi è una febbre che ha contagiato molti plenipotenziari internazionali in zone di conflitto. In passato non era così. Allora si cercava di portare avanti nel migliore dei modi il mandato affidato, se ciò veniva riconosciuto dai media tanto meglio, ma se si rimaneva in ombra non era un dramma. Probabilmente ciò

scaturiva da una presenza più discreta delle forze di pace all'interno di un'area di crisi. In ~poche recenti si è andati invece meno per il sottile. Inondare le redazioni di comunicati stampa, anche per le più piccole attività di cooperazione o mediazione, ha secondo me sortito l'effetto opposto. Invece di generare maggiore consenso, una pubblica informazione ossessiva aliena le simpatie, genera sospetto e rischia di urtare l'orgoglio nazionale del Paese in difficoltà. Ma non tutti sono d'accordo.

Il primo impatto con la stampa locale, per rimanere in tema, non fu dei più semplici. Il nuovo addetto stampa di una missione diplomatica di rilievo proveniente da zone calde era in qualche modo presagio di nuvoloni in arrivo. La paranoia su possibili nuove guerre è sempre dietro l'angolo nei Balcani. Ma sopratutto il mio nome - per quanti ricordavano l'episodio - si legava ad una vicenda che aveva irritato particolarmente le autorità di Skopje. Nel febbraio del·2002 era riemersa una vecchia diatriba mai risolta (risalente ai tempi di Tito) relativa a 700 metri di confine tra Kosovo e Macedonia. Sollecitato, quale press officer ONU a Pristina, da alcuni giornalisti sulla vicenda, avevo dichiarato pubblicamente che ogni accordo tra Skopje e Belgrado (formalmente competente per i confini kosovari) non aveva validità fintanto che il Kosovo fosse rimasto sotto amministrazione internazionale. Sulla S!essa linea si era, in precedenza, schierato il genérale Keith Huber, capo delle forze USA dispiegate a ridosso della frontiera. Apriti cielo: i macedoni reagirono furiosamente, contestando l'autorità delle Nazioni Unite e dell'Alleanza atlantica in materia.

Io avevo agito, come comunemente accade, su input del direttore degli affari politici, l'ex ambasciatore maltese all'ONU Alexander Borg-Olivier. Data la delicatezza della questione, avrei dovuto tuttavia prendere tempo e coinvolgere tutti i vertici della missione sulla linea da seguire. Sebbene formalmente esente da colpa, fu certamente uno sbaglio da parte mia non aver pensato all'impatto di certe parole. Per settimane dovetti convincere i giornalisti locali che, in occasione di quell'incauta dichiarazione, non vi era stata da parte mia alcuna avversione verso il loro amato Paese.

Motore dell'ufficio era il trentacinquenne preparato e capace Jesper Tomsen. Un danese, in parte de-scandinavizzato da una gio-

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