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I legami tra Resistenza e lotta di classe. Alcune riflessioni di Claudio Pavone
perché proprio ora in Italia sono forti le rivendicazioni operaie e sindacali. Affondando le sue radici nella Resistenza, la classe operaia si costruisce un’identità storicamente più solida poiché fondata su origini “gloriose”. Sottolineando il proprio contributo alla lotta partigiana, poi, essa spera di ottenere riconoscimenti di merito e vantaggi. Per fare questo, è necessario che scopi della lotta partigiana e scopi della lotta sindacale coincidano: sia Malaguti sia Adele Faraggiana – ma anche i molti altri memorialisti di parte comunista e socialista – operano in questo senso nei loro testi.
I legami tra Resistenza e lotta di classe. Alcune riflessioni di Claudio Pavone
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Per approfondire la tematica dei legami tra Resistenza e lotta di classe, può essere interessante recuperare brevemente alcune tra le riflessioni fatte a proposito di questi argomenti da Claudio Pavone. Nel suo importante volume Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza Pavone affronta la Resistenza leggendola come guerra civile, guerra patriottica e guerra di classe. Dal suo studio emerge come, in effetti, la componente operaia sia stata una presenza numericamente non trascurabile nella lotta partigiana. Nonostante la Resistenza si fosse affermata come movimento interclassista e solidale, i partiti di sinistra, e soprattutto il Pci, mantenevano vive le opposizioni di classe attraverso la stampa clandestina, con cui chiamavano il proletariato alla lotta per la democrazia contro la classe capitalista, che aveva permesso al regime di affermarsi. Pavone infatti afferma:
Durante la Resistenza, e non solo in Italia, la coincidenza dei due nemici – della patria e della classe – fu messa in forse dalla politica di unità nazionale, necessariamente interclassista, seguita dai maggiori partiti della sinistra. È possibile tuttavia cogliere, soprattutto nei quadri comunisti, un travaglio volto a non far annegare nell’unità nazionale ogni opposizione di classe. Il proletariato veniva così caricato di un sovrappiù di responsabilità nazionale, assunta come coincidente con «i suoi interessi economici [che] non possono essere difesi, né le sue rivendicazioni conseguite, se la nazione perisce». […] La «lotta per l’indipendenza nazionale» veniva perciò ricongiunta alla lotta di classe contro l’alta borghesia indigena in quanto asservita e alleata all’imperialismo straniero.271
271 CLAUDIO PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 314.
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Come ben fa notare Pavone, da un atteggiamento simile deriva che, per il proletariato, il fascismo coincide esattamente con il capitalismo: le figure del padrone e del fascista si uniscono e rappresentano insieme il nemico unico da combattere. Non si può negare che i ceti dirigenti abbiano effettivamente appoggiato Mussolini nella sua scalata al potere, e abbiano tratto vantaggi dalla sua politica economica. Il fascismo – con il suo autoritarismo di destra e con l’uso della violenza contro le sinistre – si era ingraziato il ceto padronale: all’epoca del biennio rosso, l’intervento delle brigate nere negli scioperi era guardato di buon occhio non solo dai padroni, ma anche dal governo stesso. Il Pci sfruttava queste connivenze tra classe dirigente e fascismo per condurre la forza della lotta partigiana, una volta sconfitto il regime, anche contro il ceto padronale, in modo da ottenere condizioni contrattuali più vantaggiose, e un ruolo nella gestione statale.
La dirigenza del Pci manteneva carica l’arma dell’insurrezione proletaria soprattutto per incutere un certo timore nelle forze politiche opposte. Nella realtà dei fatti, il progetto di Togliatti non era la rivoluzione, ma una democrazia progressista moderata e orientata al socialismo. Al contrario, agli occhi del proletariato e dei militanti di base – incalzati dal partito e dalla propaganda comunista – l’obiettivo finale della lotta doveva essere l’ instaurazione di una vera
e propria repubblica socialista, sul modello dell’URSS:
Dell’aspettativa che la caduta del fascismo travolgesse con sé anche il capitalismo non esisteva soltanto una versione dotta, catastrofista e terzinternazionalista, della quale si trovano formulazioni esplicite anche nello PSIUP e tracce evidenti nel Partito d’Azione […]. Esisteva anche una versione vissuta attraverso l’immediata identificazione del fascista con il padrone e l’aspettativa di un mondo nuovo, del socialismo e del comunismo […]. In pari tempo, le cautele tattiche del Partito comunista potevano incrociarsi con le richieste operaie di immediati e riformistici miglioramenti. Se per il partito la mediazione stava nell’elaborata linea togliattiana della democrazia progressiva, per una parte almeno della base operaia la mediazione, o se si preferisce, il superamento delle contraddizioni poggiavano in notevole misura, come meglio si vedrà in seguito, sul mito dell’URSS e sull’attesa dell’arrivo del Barbisun o Baffone che fosse. Mito e attese a loro volta coesistevano spesso con la richiesta del ristabilimento delle condizioni elementari della democrazia, dentro e fuori la fabbrica. Agiva la memoria storica che l’autoritarismo del padrone di fabbrica, rafforzatosi durante la guerra del ’15-18, aveva offerto un modello al fascismo.272
272 Ivi, pp. 351-352.
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