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«Quella disperata vita animal-giunglare»
«Quella disperata vita animal-giunglare»568
Il lato scherzoso della guerriglia partigiana non è il solo tema evidenziato nella narrazione dai memorialisti ossolani.
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La Resistenza assume i contorni positivi dell’allegria, della burla ai danni dei fascisti, oppure diventa occasione di formazione individuale, quando si descrivono i momenti di pausa tra gli scontri, la vita di banda. Nelle fasi di tensione, invece, l’immagine generale del partigianato che emerge dai ricordi è completamente diversa. Per “momenti tesi” si intende la battaglia, il rastrellamento, il contatto diretto con la precarietà della vita, con la morte dei compagni. In quelle fasi, il fulcro dei ricordi di tutti i memorialisti non evidenzia più la crescita dell’individuo, bensì una regressione quasi bestiale. Prima di tutto, è la precarietà della vita partigiana stessa a trasformare l’uomo in animale. La vita all’addiaccio, sempre in fuga, in un clima di continuo sospetto e paura soprattutto durante i rastrellamenti è uno dei primi elementi che concorrono a dare l’impressione di una vita “selvatica”:
Non dormiamo mai due notti di seguito nello stesso posto, non si rimane a lungo di giorno nei paesi. Il bosco è il nostro domicilio. Bautich si è munito di grosse coperte per coprirci di notte, perché il nostro letto è ormai la nuda terra, o qualche volta il duro pavimento rozzo di qualche baita non bruciata completamente dal vandalico nemico.569
La vita lontano dalla civiltà, continuamente a contatto con la natura fa sì che i partigiani si trasformino in bestie, assumendone i comportamenti e le peculiarità. Mario Manzoni usa addirittura similitudini animali per descrivere gli atteggiamenti che i partigiani assumono nella realtà della guerriglia: «scattiamo come lepri»,570 «ci obbliga a grattarci in continuazione come le scimmie».571 Nel testo di Manzoni, in particolare, ci sono molti riferimenti al mondo animale anche nei nomi di battaglia: si trova un Leone, un Lupo, un Cucciolo. La scelta del nome partigiano traendolo dal lessico animale sottolinea che per resistere alla realtà partigiana sono indispensabili le capacità tipiche dell’istinto bestiale; i partigiani ne sono consapevoli. Per esempio, si deve essere in grado di vivere in completa
568 BEPPE FENOGLIO, Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi, 1994, p. 59. 569 E.OLIVA, Ragazza partigiana, cit., p.73. 570 M.MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., p. 35. 571 Ivi, p. 97.
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simbiosi con la natura circostante, che può offrire riparo e viveri. Manzoni descrive comportamenti molto più simili a quelli istintivi di un animale che di
uomo:
Renzo e Paolo si buttano nel faggeto che scende verso la Cannobina; Mosca con Achille salgono in vetta allo Zeda e, dopo che Mosca durante la notte scende verso Intragna, Achille si unisce a Nando e Ghiffa. Si rintanano in una grotta e ci restano per dodici giorni senza muoversi! Buon per loro che a un certo punto una capra passa proprio davanti alla grotta, la catturano uccidendola all’arma bianca per non fare rumori, e ne mangiano il fegato ancora caldo.572
La fame è la condizione che maggiormente contribuisce ad avvicinare l’uomo all’animale: in quella situazione di bisogno materiale estremo non si applicano nemmeno le norme della convivenza civile, familiare e affettiva. Ecco le reazioni alla fame del gruppo partigiano di cui fa parte Francia:
La fame la stanchezza incominciarono a dare i loro brutti risultati. […] Alcuni tentavano di aggrapparsi con le mani alle rocce o ai ciuffi d’erba per aiutarsi a tirare avanti, ma poi si accasciavano esausti. Sorpassando parecchi di loro la situazione si fece più grave: alcuni mollavano le coperte, altri gli indumenti personali per poter trascinare le armi, per altri ancora la camicia addirittura diventava un peso di cui ci si doveva liberare. La debolezza provocata dalla fame trasformava il peso di una camicia in un peso enorme.573
Durante la “carestia” della repubblica ossolana, Ester Maimeri racconta un episodio in cui si verifica l’annebbiamento momentaneo dei valori familiari a causa della scarsità di viveri:
In treno, mentre vado a Domodossola, non si sente parlare che di cibo. Vicino a me, un uomo si dispera: «Avevamo fatto un po’ di pane con l’ultima farina rimasta e ho picchiato mio figlio perché l’ho sorpreso con in mano un pezzettino. Capite? Ho picchiato mio figlio per un tozzo di pane!». Non riesce a darsi pace e continua a ripetere che ha picchiato il suo bambino per un pezzetto di pane.574
Nella difficoltà causate dalla fame oppure nei momenti più tesi, i partigiani perdono anche la loro stessa dignità di uomini, abbandonandosi alla disperazione. Descrivendo il proprio gruppo durante la fuga dai Tedeschi, Fortini evidenzia la bestialità dell’uomo affamato, braccato e consapevole della propria fine che si lascia andare ad impulsi incontrollati:
572 Ivi, p. 80. 573 B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 99. 574 E. MAIMERI PAOLETTI, La staffetta azzurra. Una ragazza nella Resistenza. Ossola 1944-1945, cit., p. 39.
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Ci dettero un po’ di brodo caldo e un pezzo di pane. Mentre distribuivano da mangiare, tutti urlavano come bestie. Erano affamati e disperati. Sapevano che non c’era via d’uscita. O la fuga verso i monti più alti, ai valichi della neve; o il combattimento senza speranza contro i fascisti che presto o tardi sarebbero venuti su per la strada della valle.575
La trasformazione dell’uomo-partigiano in una creatura quasi animale è accentuata dalla dimensione della guerriglia stessa e soprattutto dal contatto con la morte. Durante gli scontri a fuoco, i testimoni descrivono se stessi come presi da una eccitazione che a volte spinge verso la risata, a volte diventa incontrollabile e quasi selvaggia, tanto da non poterla dominare. Bruno Francia racconta di canti propiziatori, urla selvagge:
Ci stavamo incamminando seguendo i Georgiani quando Kira rivoltosi a noi disse: «Andiamo a dar loro “il mazzolin di fiori che vien dalla montagna”» e intonò la canzone. […] L’attacco dei georgiani aveva già scatenato un violento fuoco nemico. Kira col mortaio sulle spalle cantava: «È la guardia Rossa che marcia alla riscoss…» ma non potè terminare la strofa […]. Godio che già all’inizio della battaglia si scatenava, lanciò urli come un selvaggio. […] Ci si buttò all’assalto gridando: «Viva l’Italia! Morte al fascismo!» Monza, in testa, incitò tutti gridando: «O Gravellona, o morte!». 576
E ancora, l’euforia di Elsa Oliva:
All’alba del 13 di settembre del 1944, giunge l’ordine del comando di divisione di occupare Gravellona. Tutti pronti sotto Casale Corte Cerro attendiamo impazienti il segnale per partire all’attacco. Siamo entusiasti ed irrequieti; i miei compagni mi baciano sulla fronte, come sempre prima di partire per un combattimento; hanno cara questa consuetudine perché, dicono, gli porto fortuna.577
E nel mezzo di uno scontro, mentre si aspetta la colonna fascista da colpire, Elsa vede il suo compagno Giulio decidere un’azione estrema e affrontarla con una rabbia ferina, tale da trasformarlo in una belva:
– Vieni, mi dice Giulio con gli occhi fuori dalle orbite, scendiamo da quella parte che facciamo un’imboscata, li ammazziamo tutti, quei cani. So che è inutile tentare di ricondurlo alla ragione. È una pazzia affrontare noi due soli la lunga colonna […]. Senza fiato arriviamo in fondo alla collina. Abbiamo entrambi alcune bombe a mano. Prepariamo i caricatori, ci appostiamo dietro un muretto ed aspettiamo. Ecco che spuntano sul nastro bianco della strada. Sento Giulio gemere come una belva ferita.578
575 F.FORTINI, Sere in Valdossola, cit., pp. 189-190. 576 B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., pp. 61-62. 577 E.OLIVA, Ragazza partigiana, cit., p. 51. 578 Ivi, p. 163.
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L’euforia selvaggia che tutti i memorialisti ricordano di aver provato nel contesto della battaglia è una reazione tipicamente umana, quasi inconsapevole, alla morte, che negli scontri diventa un’eventualità concreta, palpabile. Alla paura della morte si può rispondere con la fuga oppure con l’azione. Per l’istinto di autoconservazione, l’uomo è portato razionalmente a fuggire il pericolo; quando lo vuole affrontare, deve uscire dalla razionalità e abbracciare tutta una serie di emozioni che fanno parte del suo lato più primitivo. La guerriglia, inoltre, spinge ancor più il partigiano verso la condizione bestiale perché sviluppa in lui le abilità tipiche dell’animale nel pieno della caccia: deve essere svelto, attento a rumori e odori. Un esempio è Ester Maimeri che – raccontando la fuga in bici dal posto di blocco fascista – dice: «Ho i sensi all’erta, occhi e orecchie ben aperti».579 Negli scontri, è l’istinto che guida il partigiano, prima della tattica militare:
Ero disarmato, senza forze e senza volontà, ma prevalse l’istinto e mi trovai a correre curvo, zigzagando su per il pendio, nel folto della vegetazione. L’arma continuò a sparare, ad irrorare il bosco e seminò lo scompiglio.580
In guerra, ogni valore umano perde d’importanza se paragonato alla possibilità di perdere la vita. La metamorfosi animalesca non si riscontra solo nel combattente, ma in tutte le figure coinvolte nel contesto bellico. Adriano Bianchi racconta di una giovane donna punita dai partigiani per essere stata con i fascisti, descrivendola in questi termini:
In una di queste, spaurita, trovai una ragazza rapata a zero che avevano trascinato fin lì, dopo l’umiliante punizione inflittale per essere stata con le Brigate Nere. Sembrava un animale e ne aveva gli odori. Mobile e inquieta faceva qualunque cosa senza ritegno, rispondendo sì sì sì, no no no, a chi le faceva domande, senza che le sue risposte avessero un senso, spasmodicamente tesa al solo scopo di compiacere e di salvare la pelle, a qualsiasi prezzo.581
Come si vede da questa descrizione, la dimensione della guerriglia – mettendo in gioco la vita stessa di chi vi è coinvolto – stravolge il sistema di valori umani che regolano il vivere della comunità. Al primo posto sta la sopravvivenza materiale e fisica, di fronte alla quale tutti gli altri elementi che identificano l’uomo, diversificandolo dalla bestia, perdono d’importanza. La società intera precipita quindi in una condizione ferina, in cui le leggi della natura
579 E.MAIMERI PAOLETTI, La staffetta azzurra¸ cit., p. 167. 580 A.BIANCHI, Il ponte di Falmenta 1944, cit., p. 178. 581Ivi, p. 128.
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primitiva scavalcano le norme di convivenza civile e sociale: il più forte torna ad avere il sopravvento sul più debole. Senza le norme sociali a regolare i rapporti umani, le reazioni alla paura della guerra sono quindi libere di sfogarsi, senza controllo. Ancora Bianchi fa interessanti osservazioni sulla natura umana quando è libera dalle briglie sociali e posta in una situazione critica come può essere quella della guerra:
Spaventa la debolezza che può travolgere uomini apparentemente normali e miti e li può condurre con relativa facilità alla ferocia.582
L’animalità, che sostituisce poco per volta la razionale umanità del giovane ribelle e anche il suo sistema di valori civili, diventa il comportamento più comune adottato per rispondere al contesto della guerriglia. Perdere la propria sfera razionale permette di avere l’incosciente coraggio di affrontare la morte, e poi di darla agli altri, senza sentirne il peso, la colpa. In altre parole, scontro dopo scontro il partigiano medio matura quasi l’abitudine alla morte, all’omicidio. Se i primi caduti suscitano una reazione negativa nei memorialisti, poco per volta sparare, uccidere, avere a che fare con cadaveri in ogni momento della giornata diventa una regola che non fa più stupore. Ed è forse la mancanza dell’orrore di fronte alla morte che dà al partigiano la triste consapevolezza della sua condizione bestiale.
Si deve ricordare che l’immagine della morte nel ricordo dei partigiani ritorna in modo continuo, ossessivo. Fa eccezione solo il testo di Vandoni. Nei suoi racconti la morte compare in poche occasioni. Quando accade, è descritta con i toni dell’estremo sacrificio patriottico e si mantiene sempre nella edulcorante dimensione cristiana di passaggio al regno di Dio, giustificando così la presenza e il ruolo del sacerdote memorialista. Negli altri scritti, invece, la morte si può considerare come uno dei personaggi principali del racconto: si vedono cadaveri che scorrono nelle acque dei torrenti, corpi mezzi dissotterrati emergere dai terreni incolti, oppure penzolare da forche improvvisate. Per fare un esempio, Bruno Francia ricorda di aver scambiato un cimitero per un orto coltivato, così accecato dalla fame del momento. La reazione di fronte alla morte è fredda, quasi inesistente:
582 Ivi, p. 121.
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«Guarda – dissi a Giovanni Venturini indicando un campo cintato con uno steccato di legno nel mezzo di un prato – sembra un orto…» Sperai di trovare qualche verdura da poter masticare cruda dal momento che avevo mangiato una sola volta il giorno prima. «Ehi! – fece Giovanni, che si trovava di alcuni passi più vicino al presunto orto – Qui non ci sono verdure, ma croci…» «Cosa? Croci!?» Gli domandai sorpreso. «Sì, croci di legno» precisò. Rimanemmo un momento a guardare, poi gli dissi: «Andiamo, dai, tanto è la stessa cosa…». 583
I memorialisti considerati attraversano quasi tutti una prima fase di rigetto verso l’immagine della morte; in quei momenti è ancora vivo il loro lato umano, in cui i valori morali acquisiti hanno un effetto civilizzante. Alcuni ricordano addirittura un senso di rifiuto per l’uso delle armi. È il caso di Mario Manzoni che riflette sul suo battesimo del fuoco, poiché per la prima volta ha ucciso a sangue freddo:
Per la prima volta ho dovuto sparare a un uomo così, a tu per tu. D’altra parte penso a cosa mi sarebbe successo se “lui” fosse riuscito a prendermi. […] Ma le armi ci servono per combattere coloro che della guerra fanno una professione e un tornaconto, anche con il “suo” appoggio, mentre noi nel farlo sentiamo ripugnanza, soprattutto quando succedono di questi incidenti, e continuiamo solo perché speriamo in un futuro senza necessità di guerre per avere diritto a un’esistenza civile.584
Insomma, la giusta causa della liberazione e il contesto bellico permettono l’uso delle armi e giustificano anche gli omicidi. La colpa delle efferatezze compiute dai partigiani viene trasferita interamente sui fascisti, i principali colpevoli della guerra. Manzoni non si sente intimamente responsabile per i morti, la sua coscienza è tranquilla:
Penso con tristezza e rammarico a dove ci sta portando questa maledetta guerra, e dentro mi aumenta lo sdegno verso chi l’ha causata e vuol continuarla a tutti i costi, benché la fine sia ormai segnata.585
Aristide Marchetti, al contrario di Manzoni, non sa mettere così facilmente a tacere la propria coscienza, e si rende conto della bestiale situazione in cui tutti, partigiani e fascisti, sono piombati. Ovviamente, anch’egli si lascia trasportare nelle battaglie dall’eccitazione. A freddo però nota con orrore di aver sviluppato una assurda e grottesca dimestichezza con la morte, che non suscita in lui nessuna
583 B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 98. 584 M.MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., p. 40. 585 Ivi, p. 56.
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