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Capitolo diciottesimo: la società di fronte agli avvenimenti

Non resta ora che affrontare l’ultimo quesito che ci siamo posti all’inizio di questa ricerca,quello relativo all’atteggiamento assunto da parte della società civile nei confronti delle tematiche esaminate nel corso del nostro viaggio nel 1938.Consideriamo questa la parte più delicata del nostro lavoro.Se fino ad ora ci siamo potuti avvalere di una documentazione ufficiale concreta (le pagine dei vecchi giornali,i verbali delle sedute del parlamento),in quest’ultima fase dobbiamo,per così dire,‘navigare a vista’basandoci su indizi,testimonianze,impressioni e deduzioni.Per riuscire ad addentrarci più in profondità nella lontana realtà del 1938 abbiamo anche preso in considerazione alcune circostanze sulle quali i giornali non si sono soffermati. Nel definire i sentimenti e i comportamenti di una popolazione si rischia di commettere degli errori perché inevitabilmente si tende alla generalizzazione.Le valutazioni che si danno finiscono col colpire senza dicrimine:nel nostro caso c’è il forte pericolo di accomunare antisemiti irriducibili e persone che hanno dato invece prova di grande solidarietà. Nelle nostre disamine terremo sempre ben presente questa insidia. Per ogni ‘caso’esaminato porteremo prove,se esistenti,testimonianze e indizi pro e contro ogni tesi proposta. I termini ‘società’,‘popolazione’e ‘opinione pubblica’risultano troppo vaghi.Per questo motivo abbiamo distinto e preso in considerazione diverse categorie:la classe politica,gli intellettuali,gli uomini di Chiesa,la ‘gente comune’.

La classe politica e burocratica

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Riguardo ai comportamenti e alle posizioni assunte dalla classe politica abbiamo ampiamente riferito esaminando i fatti appresi dalla stampa dell’epoca.L’analisi delle varie testate ci ha permesso di scoprire le differenze e le sfumature nell’interpretazione della realtà a seconda dell’ideologia dei diversi schieramenti politici. Affrontiamo ora il tema della responsabilità.Sono gli uomini che detenevano il potere politico i responsabili delle scelte inerenti la politica d’asilo.Questo perché,come si è visto,la definizione di questa politica e le opzioni pratiche sono state di tipo verticistico e non il frutto un iter politico democratico.

Johannes Baumann1 La personalità più autorevole nel 1938 è stata senza ombra di dubbio il Consigliere Federale Johannes Baumann,Capo del Dipartimento Federale di Giustizia e Polizia,il quale assolveva in quell’anno al suo turno di Presidente della Confederazione.Le decisioni che riguardano gli Ebrei sono maturate all’interno del suo dipartimento,e in particolare nella Divisione di Polizia diretta da Heinrich Rothmund.Le medesime direttive sono poi state adottate dal Consiglio Federale e da questo imposte a tutti i livelli della società attraverso decreti, comunicati stampa e circolari.

Giuseppe Motta Giuseppe Motta faceva parte del Consiglio Federale fin dal 1911. L’uomo politico ticinese,che ricopriva allora la carica di Ministro degli Esteri e dirigeva il Dipartimento Politico Federale,era persona di grande carisma e godeva di notevole prestigio e potere.Le sue opzioni e le sue decisioni erano tenute in gran conto e sicuramente erano in grado di spostare l’ago della bilancia a favore di una soluzione o di un’altra.Il suo modo di concepire la realtà era caratterizzato da una forte avversione nei confronti del comunismo,da un rispettoso timore della Germania nazista e da sentimenti di amicizia e simpatia verso l’Italia fascista.In politica interna,pur in mancanza di sue esplicite dichiarazioni in merito,si può ritenere molto verosimilmente che egli condividesse la diffusa apprensione per il ventilato pericolo di ‘inforestieramento’e ‘giudeizzazione’della Svizzera.La politica da lui promossa rispondeva in modo pragmatico a queste preoccupazio-

ni.All’espansionismo tedesco,che rappresentava una grande preoccupazione,ha opposto la ‘difesa spirituale del paese’e soprattutto la politica di ‘neutralità della Svizzera’basata sulla salvaguardia dell’indipendenza nazionale e su rapporti di amicizia e collaborazione con i paesi confinanti.Alla prospettiva dell’arrivo di profughi ebrei ha reagito cooperando attivamente con i suoi colleghi di governo alla realizzazione di una politica rigorosamente restrittiva.Va ricordato che è stato lo stesso Giuseppe Motta (in qualità di supplente del Capo del Dipartimento di Giustizia e Polizia,Baumann) a presentare al Consiglio Federale il rapporto in seguito al quale il Governo Svizzero ha ordinato,in data 19 agosto 1938,agli organi di confine «di respingere le persone provenienti dalla Germania che vorrebbero penetrare in Svizzera senza essere in possesso di documenti sufficienti».2

Enrico Celio Se rivolgiamo lo sguardo al Canton Ticino e consideriamo i fatti dal punto di vista cantonale ci rendiamo conto che c’è stato un tentativo di scaricare su Berna la responsabilità delle scelte e della politica adottata.Ciò corrisponde ai fatti,e va sottolineato che il Dipartimento Cantonale di Polizia si è sempre scrupolosamente attenuto alle direttive ricevute in occasione di Conferenze intercantonali di polizia,o tramite lettere circolari del governo centrale,senza sollevare contestazioni di sorta all’indirizzo della politica svizzera d’asilo. A questo punto merita un approfondimento la figura di Enrico Celio sulla quale abbiamo ampiamente riferito in precedenza riportando le esternazioni fatte in Gran Consiglio e nei messaggi inviati al Parlamento ticinese. Non risulterebbe difficile,in base a quanto emerso,catalogare Celio come antisemita e come persona priva di sentimenti umanitari.Il giudizio non può tuttavia essere univoco e la complessità e i chiaroscuri del personaggio ci aiutano a non cadere nel manicheismo e a capire come allora stavano le cose. In occasione del suo intervento in Gran Consiglio,avvenuto il 14 luglio 1938,Enrico Celio aveva accompagnato i pregiudizi e gli stereotipi antiebraici con le parole:«ho pietà per questa povera gente, ma…».Si potrebbe pensare che questa sia una frase subdola,di comodo,pronunciata ad arte per controbilanciare le pesanti affermazioni del suo discorso,ma la realtà risulta essere più complessa di quanto non possa apparire.Nell’archivio di Bellinzona abbiamo tro-

vato nella scatola nr. 89, che conserva documenti del Dipartimento di Polizia del 1938,un fascicolo3 che contiene anche una copia di una lettera dattiloscritta indirizzata al Vescovo di Lugano Monsignor Angelo Jelmini.4 La carta è la stessa velina rosa di altre copie di lettere del Dipartimento (firmate dal Consigliere di Stato direttore e dal suo segretario),e anche il carattere tipografico della macchina da scrivere corrisponde.Da quanto scrive il mittente di se stesso si può desumere con relativa certezza che a stilare la lettera sia stato lo stesso Capo del Dipartimento di Polizia Enrico Celio.Oltre a ciò,il contenuto della missiva ripropone pensieri già da costui espressi in altre occasioni:nei resoconti dipartimentali 1937 e 1938,nelle dichiarazioni in Gran Consiglio,e nella corrispondenza con il direttore del Liceo di Lugano,Francesco Chiesa,che verrà esaminata più avanti.Nella lettera indirizzata al Vescovo di Lugano il mittente rende manifeste le sue convinzioni,le sue scelte e i suoi sentimenti.Al Vescovo,che gli ha raccomandato di rilasciare ad alcuni ebrei un permesso di soggiorno,risponde che difficilmente potrà esaudire la richiesta.Per spiegare i motivi che stanno alla base della sua non favorevole risposta afferma:

non è certo la buona volontà che mi manca, ma solo la possibilità, perché il nostro paese, al quale vogliamo tutti tanto bene, ha oggi delle penose dure esigenze che spesso debbono far tacere il cuore.

Queste esigenze derivano dal fatto che:

il Ticino ha un grave patrimonio etnico da difendere in seno alla Confederazione e che, per nessun prezzo al mondo, la percentuale di ebrei stabiliti durevolmente nel nostro Cantone può essere aumentata. Su questo punto nessuna discussione è possibile.

Questo lo afferma categoricamente,nonostante egli ritenga che «il porgere una mano amorevole a questi poveri infelici» (gli ebrei) «sia opera di fiorita carità cristiana».Dopo essersi dilungato nella spiegazione delle direttive della Confederazione in materia di accoglienza, confida al Vescovo il suo disagio:

Occorre poi tener presente che fra poche settimane si accentuerà l’esodo degli ebrei dall’Italia. E saranno altre centinaia e migliaia di istanze di poveri infelici! Vorrei non poterci pensare per passare in pace le Feste del Santo Natale!

Cosa si può desumere dalla lettura di questa lettera.Si può pensare che nella mente di chi l’ha scritta albergano dei valori.Questi valori sono ‘l’amor patrio’,‘il patrimonio etnico da difendere’,‘l’umana solidarietà’ e ‘la carità cristiana’.Alcuni di questi valori sono fondamentali e validi in ogni tempo indipendentemente dalle circostanze,altri sono contingenti e legati al momento storico.‘L’amor patrio’,come veniva allora retoricamente magnificato,era spesso una versione,indubbiamente più dignitosa e più moderata,del nazionalismo che tanto consenso riscuoteva in Europa.‘Il patrimonio etnico da difendere’era una trasposizione moderata,e apparentemente più rispettabile,del razzismo che in quel periodo impregnava di sé la mentalità dominante. Quando si è trattato di gerarchizzare i suoi valori,Enrico Celio (sempre che sia corretta l’attribuzione della paternità della lettera che stiamo esaminando) ha subordinato ‘la solidarietà’e ‘la carità’,ossia i valori più nobili e profondi,ma non legati a quel preciso momento storico.Eppure dalla lettera inviata al Vescovo si percepisce chiaramente che l’uomo politico sentiva amarezza per la politica che riteneva di ‘dover’realizzare,tanto da confessare che tutto questo non gli avrebbe fatto passare un Natale tranquillo. Di fronte all’antisemitismo la posizione di Enrico Celio risulta molto complessa.È innegabile che coltivasse pregiudizi antiebraici.Nelle varie occasioni nelle quali si è espresso,egli non cita mai stereotipi antigiudaici di stampo cristiano,nonostante egli si riconosca in un partito e in un’ideologia legati alla Chiesa cattolica.Ne manifesta però numerosi di stampo ‘laico’,qualificando gli ebrei «una razza dominatrice» e considerando l’ebraismo un’entità invadente e pericolosa per la società, sia dal punto di vista economico e culturale sia da quello dell’identità. Per questi motivi la politica di rifiuto dell’accoglienza ai profughi adottata dalla Svizzera è da lui integralmente condivisa e applicata rigorosamente.Per contro va sottolineato che egli non palesa in nessun momento sentimenti di odio o di ostilità verso gli ebrei.Se si presta fede alle sue parole,si può ritenere esattamente il contrario.

Abbiamo considerato il caso di Johannes Baumann e di Giuseppe Motta e ci siamo soffermati ad analizzare la complessa figura di Enrico Celio perché il loro caso risulta emblematico e rispecchia appieno la situazione nella quale si sono trovati molti politici svizzeri che hanno contribuito alla politica allora applicata. Sicuramente il loro non è stato un momento facile.Le mire espansioni-

stiche dei paesi totalitari spaventavano.D’altronde non vi erano forti segnali di contrapposizione da parte delle democrazie occidentali nei confronti degli appetiti nazifascisti:proprio nel 1938 vi sono stati in questo senso inequivocabili cedimenti con l’abbandono anglofrancese della Spagna repubblicana e dei Sudeti.L’idea di trovarsi soli,accerchiati da regimi nazisti e fascisti,li ha indotti a scelte e comportamenti che non potessero in nessun modo irritare i potenti paesi vicini.Si può dar loro atto che le decisioni da essi prese nei confronti degli ebrei non sono di regola state dettate dal desiderio di nuocere.Per questo,sul piano soggettivo,è sicuramente un’iperbole accomunarli ai loro omologhi in Germania che hanno agito in base a un rabbioso odio razziale. Questo non li affranca però dalle responsabilità oggettive che spettano loro,perché la politica di chiusura della Svizzera ha avuto gravi conseguenze su un grande numero di ebrei che,per gli ostacoli posti alla loro fuga,non sono riusciti a salvarsi dallo sterminio nazista. E non li esonera neppure dalla responsabilità di avere,con le loro scelte,scritto una pagina tutt’altro che esemplare della storia della Svizzera,vanificando in parte la fama di paese ospitale e umanitario di cui il Paese aveva fino ad allora meritatamente goduto.Un altro ‘rimprovero’che si può rivolgere loro è di aver messo il paese in una situazione difficile e assai imbarazzante oltre mezzo secolo più tardi.

Due personaggi antitetici: Heinrich Rothmund e Paul Grüninger

Heinrich Rothmund Il nome del capo della Divisione di Polizia del Dipartimento Federale di Giustizia e Polizia si incontra di frequente quando si indaga nella politica svizzera d’asilo a cavallo della seconda guerra mondiale.Quasi tutte le istruzioni che riguardano i profughi,inviate agli organi periferici (governi cantonali,polizie regionali e di confine,ambasciate all’estero),portano la sua firma.5 Egli ha presieduto le riunioni degli organi di polizia e di governo nelle quali veniva stabilita la politica d’asilo e dalle quali partivano gli ordini di chiusura delle frontiere.Oltre a ciò si è impegnato anche nella divulgazione della dottrina che stava alla base delle scelte di esclusione degli ebrei dall’accoglienza.6 Rothmund è considerato la persona chiave della politica svizzera d’asilo,tanto da avere,con la sua vistosa presenza,messo in ombra responsabilità che

spettavano alle istanze politiche e a personalità di più alto livello.A Rothmund non è mai stato contestato in vita il suo comportamento. Per approfondire la conoscenza di Rothmund,si segnala il libro di Heinz Roschewski.7

Paul Grüninger Il Capo della polizia cantonale di San Gallo è una delle poche figure pubbliche che abbia sollevato obiezioni sulla restrittiva politica d’asilo nelle famose riunioni di polizia presiedute da Rothmund. Nell’adempimento delle sue funzioni,eludendo i divieti ufficiali,ha favorito l’entrata nel paese di molti profughi provenienti dall’Austria dopo l’Anschluss,salvando la vita a circa tremila persone.8 La sua attività umanitaria gli ha procurato,nel 1939,un procedimento penale,la sospensione dalla carica,il licenziamento e una condanna per violazione del segreto d’ufficio e falsificazione di documenti.È morto in povertà nel 1972 senza poter essere ‘testimone’della sua riabilitazione,avvenuta solo negli anni novanta.Per saperne di più sulla vicenda di Grüninger si consiglia la lettura del libro di Stefan Keller. 9 Paul Grüninger è stato riconosciuto ‘Giusto tra le Nazioni’dallo Yad Vashem e un albero in sua memoria è stato piantato nel Viale dei Giusti a Gerusalemme.

Gli intellettuali e uomini di scuola

Quanto detto riguardo ai politici vale anche,e a maggior ragione,per gli intellettuali e gli uomini di scuola.Chi più di loro dovrebbe rappresentare la coscienza della società ed essere capace di produrre un pensiero elevato da proporre come modello alla popolazione.Sono loro,con il loro esempio,che in gran parte forgiano la pubblica opinione. Nei paesi democratici,in particolare negli Stati Uniti,in Inghilterra,in Olanda,in Belgio e nei Paesi scandinavi,vi sono state nel corso del 1938 (e in special modo in novembre in occasione della ‘notte dei cristalli’) numerose proteste espresse da associazioni di scrittori e intellettuali. Queste civili prese di posizione contrastano con il desolante silenzio degli ambienti intellettuali svizzeri:di essi la cronaca non registra nessuna petizione e nessuna critica verso le persecuzioni antisemite in Germania o contro la politica discriminatoria adottata in Italia enei vari paesi dell’Europa Orientale.Non vi sono state,da parte

loro,neppure contestazioni alla restrittiva politica svizzera d’asilo. Se guardiamo alle iniziative che occupavano in quel momento l’Associazione degli Scrittori svizzeri,sembra proprio che i letterati elvetici,troppo occupati a caldeggiare la diffusione di opere di mistica patriottica,come il libro di Meinrad Inglin, Giovinezza di un popolo, non si siano accorti,o non abbiano voluto accorgersi,del dramma che si stava consumando a poca distanza da loro. Non vi sono state,dunque,proteste collettive né,a quanto ci risulta,si sono levate voci isolate di singoli uomini di cultura svizzeri o ticinesi.

Francesco Chiesa, scrittore, poeta e uomo di scuola Tra le carte custodite all’Archivio di Stato di Bellinzona si trova la documentazione relativa a un carteggio tra Francesco Chiesa e le Autorità cantonali.10 Francesco Chiesa può essere sicuramente considerato lo scrittore e poeta più rappresentativo e più amato della Svizzera italiana di quell’epoca.Egli è anche uomo di scuola e nel 1938 ricopre la carica di direttore del Liceo-Ginnasio cantonale di Lugano. Negli ultimi giorni del mese di novembre egli si trova di fronte a un problema che lo angustia,e per questo motivo scrive di proprio pugno una lettera indirizzata al Dipartimento della Pubblica Educazione. Oggetto delle sue preoccupazioni è il fatto che l’introduzione delle leggi razziali in Italia ha indotto un certo numero di famiglie ebree italiane a rivolgersi all’istituto luganese per iscrivervi i figli espulsi da tutte le scuole del Regno,onde permettere loro di continuare la formazione interrotta bruscamente. Francesco Chiesa non è favorevole all’accettazione delle suddette richieste,e così esprime ai suoi superiori le sue perplessità:

La questione deve essere esaminata da parecchi punti di vista, fra i quali questo:non sarebbe augurabile che il Liceo cantonale, per un soverchio afflusso di studenti ebrei, acquistasse un carattere ed una nomea particolare. È pure da evitare che la nostra scuola sia eccessivamente gravata da elementi stranieri, anche perché si avvererebbe la necessità di sdoppiare classi e di aumentare gli oneri del paese.

La risposta,giunta circa un mese più tardi,non proviene però dal Dipartimento della Pubblica Educazione.È il Capo del Dipartimento di Polizia Enrico Celio che,con una lunga lettera,si incarica di fornire tutti i ragguagli e le istruzioni del caso sottolineando che «prima che scola-

stica,la questione è di polizia,in quanto nessuno straniero può inscriversi a corsi dei nostri istituti (sia pubblici,sia privati) se prima non ha chiesto ed ottenuto il permesso di soggiorno».In mancanza di questo «l’accesso alla scuola dovrebbe essere puramente e semplicemente rifiutato,in quanto non può trattarsi che di stranieri presenti abusivamente sul nostro suolo.Basterebbe che tali studenti fossero denunciati alla polizia,e sarebbero immediatamente allontanati dalla Svizzera […] se del caso anche con arresto».Sarà quindi sufficiente «che tutti gli studenti siano obbligati a rivolgersi alla polizia,e la questione sarà risolta già in base alle rigide disposizioni di polizia vigenti» senza che la Direzione del Liceo-Ginnasio «si trovi nella penosa situazione di toccare delle scottanti questioni».Per contro deplora:«per gli ebrei che già sono al beneficio di permessi di dimora temporanea,o di domicilio,riteniamo vi sia ben poco da fare».Al Direttore del Liceo si richiede anche di collaborare,sia nell’esigere l’esibizione del permesso di dimora da «chi si presenta per chiedere l’iscrizione o il permesso di assistere ai corsi»,sia segnalando a un agente della Polizia di Lugano «i casi abusivi» constatati. L’intenzione dell’Autorità è,in ogni modo,quella di risolvere la questione «con criteri molto restrittivi,anzi solo in casi veramente eccezionali,sarà concesso il soggiorno per frequenza delle nostre scuole». E quindi il direttore Francesco Chiesa «non avrà più motivi di preoccuparsi di un eventuale congestionamento delle classi». Segue un secondo carteggio relativo alla questione del permesso di concedere agli studenti ebrei dimoranti all’estero la facoltà di presentarsi a Lugano per assolvere agli esami di licenza ginnasiale o di maturità liceale.Anche in questo caso Celio rassicura Chiesa garantendo che le Autorità sono decise a concedere il «minimo indispensabile»:a richieste di autorizzazioni che vanno oltre le rigide limitazioni fissate dalla legge «ben inteso,noi rifiuteremo il permesso»,mentre laddove le disposizioni di polizia non le impediscono «una limitazione sarebbe certo augurabile».

Gli uomini delle Chiese

La posizione della Santa Sede e dei movimenti cattolici è stata esaminata nei precedenti capitoli,nei quali abbiamo anche cercato di evidenziare le modalità con cui la stampa confessionale ticinese ha divulgato il pensiero espresso da La Civiltà Cattolica.

È impensabile che l’antigiudaismo di Roma non abbia avuto la sua influenza sull’opinione pubblica,anche perché oltre alla stampa questo ‘tema’veniva capillarmente riproposto durante la predicazione nelle chiese e l’insegnamento del catechismo nelle scuole.A questo proposito possiamo fornire una testimonianza diretta,addirittura posteriore all’epoca della quale stiamo parlando:negli anni cinquanta,anche a noi, prima generazione di bambini del dopoguerra,durante l’ora di religione alle elementari,è stata somministrata,con linguaggio colorito e con descrizioni piuttosto raccapriccianti,buona parte della classica aneddotica sull’argomento:il deicidio,la perfidia degli ebrei e la maledizione perpetua che loro è destinata. Nel 1938 non si sono registrate prese di posizione da parte della gerarchia cattolica o protestante svizzera per indurre i fedeli a dar prova di solidarietà verso i perseguitati di religione ebraica.A quanto si è potuto apprendere dalla stampa,il consiglio della Chiesa evangelica riformata si è preoccupato esclusivamente del destino degli ebrei di religione cristiana,in favore dei quali ha organizzato una colletta.11 Per parte cattolica,il Sinodo dei Vescovi svizzeri,nel suo messaggio ai fedeli in occasione della festa federale di ringraziamento,12 in settembre,non spende una parola a proposito dei profughi che vengono respinti alla frontiera.Eppure,in quei giorni,il problema era drammatico e scottante e non sarebbe risultato fuori luogo chiamare i fedeli a dar prova di carità cristiana e di fraterna solidarietà. Un discorso a parte merita il Vescovo di Lugano,Angelo Jelmini,che sappiamo essersi prodigato per aiutare ebrei in fuga nel Ticino.Ne fa fede la già citata lettera della vigilia di Natale 1938,il cui autore è con ogni probabilità Enrico Celio.È pur vero che nel suo messaggio natalizio13 neppure il Vescovo di Lugano parla esplicitamente degli Ebrei. Tuttavia,un accenno indiretto si scorge quando rivolge un pensiero a «quelli che,fuori dei confini della nostra patria,soffrono per la guerra e le persecuzioni» e quando con parole particolarmente accorate esorta i fedeli ad esercitare la carità.

La gente comune

Le parole proferite nell’intimità delle famiglie,nelle aule scolastiche, nei luoghi di lavoro e di svago,nelle osterie e tra amici sono incorporee e lasciano tracce impalpabili ma non per questo meno profonde e

durature.Esse costituiscono ‘il rumore di fondo’che caratterizza l’atmosfera che regna nella società.Indagare la natura di quest’atmosfera non è affatto semplice,ma si può tentare per lo meno di ricostruirla e di cercare di comprenderla almeno parzialmente. Alla domanda,se all’epoca in Svizzera,e più in particolare nel Ticino, circolassero sentimenti e pregiudizi antiebraici,pensiamo di poter dare una risposta positiva.La conferma principale ci arriva dall’alto,ossia dalle gravi parole pronunciate dal presidente del governo cantonale,il Consigliere di Stato Enrico Celio,in Gran Consiglio,il 14 luglio 1938, che ha dichiarato di «rilevare puramente una verità di fatto» affermando che «La nostra popolazione generalmente considera l’ebreo, indipendentemente dalla sua nazionalità,come uno straniero».Vi sono però anche altri indizi.Uno di essi è che il lettore di mezzo secolo fa, secondo quanto ci è stato confermato da molte persone anziane,tendeva generalmente a condividere l’ideologia e i giudizi espressi dal suo giornale.Quali fossero risulta in modo netto dall’analisi della stampa. Un altro sta nel fatto che,specialmente in quegli anni,grandissima influenza avevano le suggestioni che giungevano al popolo dalle autorità politiche,e queste,come si è visto,palesavano una concezione tutt’altro che positiva riguardo agli ebrei.Oltre a ciò,la circostanza che il Ticino fosse un cantone a prevalenza cattolica parla a favore della presenza di pregiudizi antigiudaici di stampo religioso. Un ulteriore indicazione si può dedurre dagli stereotipi e dai preconcetti che ancora oggi circolano tra di noi:per molti decenni essi sono rimasti latenti e privi di una connotazione emotiva,ma di recente,in seguito alle vicende note sotto la denominazione ‘oro ebraico’e sotto la spinta del tragico conflitto mediorientale,sembrano essersi di colpo risvegliati.14 Si tratta ora di stabilire se vi siano stati odio e disprezzo.A questo proposito vi sono elementi di prova contrastanti. Una circostanza a favore dell’assenza (o forse sarebbe più corretto dire dell’irrilevanza) di una vera e propria ostilità antiebraica nella popolazione ticinese sta nel fatto che,nel corso dell’anno 1938,la cronaca non ha registrato nessun atto concreto di violenza verbale o fisica contro ebrei da parte di cittadini singoli. Un fattore che invece avvalora la tesi opposta è senz’altro la campagna antisemita svolta sulle pagine dell’Idea Nazionale. Essa svela che anche nei gruppi di estrema destra presenti sul territorio ticinese l’odio antiebraico di stampo nazifascista aveva attecchito e che vi era nel

Cantone almeno un gruppo di persone che nutriva contro gli ebrei un’avversione dettata da motivi economici.Si tratta di una parte dei commercianti che,furenti per il calo dei loro affari,pensavano di aver trovato nella politica antisemita uno strumento per liberarsi dai loro concorrenti.Va tuttavia sottolineato il fatto,non trascurabile,che le organizzazioni di estrema destra avevano una consistenza limitata:i fascisti erano un esiguo gruppo e la Lega Nazionale alle elezioni non è neppure riuscita a raggiungere i mille voti,cifra che corrisponde a due o tre punti percentuali. Per contro si può senz’altro affermare che esistevano anche persone che agli ebrei hanno rivolto sentimenti di simpatia e solidarietà.Costoro si concentravano in particolar modo negli ambienti che gravitavano intorno alla Libera Stampa, all’Avanguardia e al Popolo e Libertà. Un esempio di comportamento solidale lo si è incontrato nella cronaca di novembre:è il caso di quel giovane docente ticinese che si è messo nei guai con la polizia di frontiera italiana per aver cercato di aiutare amici ebrei a trasferire in Svizzera i loro averi. Per il resto della popolazione vi è da supporre l’esistenza di sentimenti piuttosto tiepidi e sfumati,che spaziano dall’antipatia fino alla pietà. Rimane da stabilire quale sia stato l’atteggiamento assunto di fronte all’arrivo dei profughi o,per essere più precisi,all’eventualità del loro arrivo in misura consistente. L’impressione che si può trarre dalla lettura dei giornali dell’epoca è l’esistenza di un consenso diffuso verso l’operato globale del governo nazionale.Le aree di dissenso appaiono assai limitate e non certo tali da impensierire le Autorità. Si può dunque supporre,con un buon margine di certezza,che anche per la politica d’asilo la popolazione abbia condiviso le scelte di Berna.Queste d’altronde coincidevano con la difesa di quelli che, dalla gente,erano sentiti come i propri concreti interessi immediati. Vi era di certo poca propensione alla prospettiva di condividere con altri la propria terra e le sue risorse.Da non trascurare è anche la paura di trovarsi in casa un ospite sgradito che potrebbe mettere in pericolo il tenore di vita raggiunto e che potrebbe diventare un concorrente nella corsa all’alloggio e al posto di lavoro. Tuttavia il dramma degli Ebrei,e le notizie che allora si leggevano quotidianamente sui giornali erano tali da scuotere anche il più ostinato degli indifferenti.Per questo,pur in presenza di una condivisione delle scelte della politica federale verso i profughi,la popolazione

non ha mancato di esprimere riserve e dissensi in ordine alla loro realizzazione pratica. Anche qui la testimonianza ci arriva dalle parole di Enrico Celio che, come abbiamo visto in precedenza,ha affermato che «la somma di tenacia e severità» esercitata dall’autorità per ostacolare l’afflusso dei profughi è stata «resa più onerosa dall’incomprensione che vige,sia nella popolazione,sia in molte autorità,del grave problema.Il privato cittadino,che si è commosso davanti ad un caso umanitario o ad un caso particolare» tende a trascurare «le gravissime esigenze del nostro patrimonio etnico e del nostro mercato del lavoro».15 Con questa sua recriminazione Celio si riferiva di certo al malcontento suscitato tra i cittadini e tra le autorità politiche comunali,che si trovavano a contatto diretto con situazioni dolorose,dai rifiuti nel concedere i permessi di soggiorno ai profughi che si trovavano in gravi difficoltà. Persino alcuni membri del parlamento cantonale,tra cui i commissari di gestione,non hanno mancato di invocare maggiore elasticità. Si può dunque concludere che,nonostante tutto,la popolazione ticinese non fosse insensibile alle sofferenze ed era capace,in caso di necessità,di mettere da parte l’indifferenza e di produrre slanci di solidarietà. Ciò è confermato anche da due fatti avvenuti successivamente.Nel corso della guerra vi sono state proteste di cittadini contro le espulsioni.16 Molti si sono limitati ad esprimere anonimamente il loro disappunto dopo aver visto transitare i camion che trasportavano i profughi, trenta per volta,verso la frontiera.17 Vi è però anche una supplica delle donne di Ponte Tresa18 inviata nel 1943 a Enrico Celio,che all’epoca non era più in Ticino,ma ricopriva a Berna la carica di Presidente della Confederazione.Nella lettera le autorità vengono scongiurate,con accorate parole,di revocare l’ordine di espulsione dei profughi,il cui destino suscitava nella popolazione «un senso di sgomento e di spavento».Un esempio ancora è l’accoglienza molto generosa riservata ai profughi d’Ungheria nel 1956;ma in quest’ultima occasione,a differenza di quanto avvenuto nel 1938,vi è stato l’incoraggiamento delle autorità,della stampa,della radio e del clero. Uno degli argomenti principali portati a sostegno della politica restrittiva d’asilo è stato quello di insinuare che la popolazione non avrebbe sopportato l’arrivo di profughi ebrei per timore che ciò avrebbe aggravato la piaga della disoccupazione.Questa preoccupazione non proveniva però dai diretti interessati.Non si hanno notizie di proteste dal fronte dei disoccupati stessi,e neppure da parte del partito socialista

che maggiormente li rappresentava a livello politico.Questo spauracchio,sventolato dalle autorità più che altro per avvalorare il proprio punto di vista,riusciva a inquietare soprattutto chi dal problema stesso non era direttamente coinvolto,ma che temeva un’evoluzione verso una situazione conflittuale all’interno della società. Anche il paventato pericolo che l’arrivo di molti ebrei avrebbe scatenato un antisemitismo violento e di conseguenza disordini sociali, non è da ritenersi un argomentazione valida.Con questo non intendiamo affermare di avere la certezza che il popolo sarebbe rimasto immune di fronte a un’infezione di antisemitismo virulento.A certe condizioni è purtroppo probabile che ciò sarebbe potuto accadere. Considerando la situazione nel suo insieme,si può ragionevolmente supporre che all’interno della collettività vi sia stato un margine di disponibilità all’accoglienza che non ha avuto modo di esprimersi.Si potrebbe discutere sui motivi che hanno impedito a questa disponibilità di affiorare,ma sarebbe forse ingiusto imputarne alla popolazione la responsabilità primaria.L’atteggiamento restio nei confronti di chi chiedeva soccorso,più che il frutto di una predisposizione intrinseca o di sentimenti malevoli,sembra essere stato piuttosto un comportamento indotto dall’alto,e favorito forse anche da una alquanto diffusa abitudine di pensare solo a se stessi,e ai propri interessi immediati,senza curarsi troppo degli altri e senza sentirsi in qualche modo responsabili del loro destino.Sentimenti questi,assai incoraggiati dall’interpretazione che allora veniva data alla politica svizzera di neutralità. Le poche voci dissenzienti venivano di regola fatte tacere19 oppure venivano redarguite,come ha fatto Giuseppe Motta nel suo discorso tenuto in Parlamento il 14 dicembre del 1938. 20 Questo tuttavia non significa che la popolazione non abbia motivo di ripensare criticamente i fatti di allora perché il popolo è in ogni caso corresponsabile degli atti del suo governo.Questo è tanto più vero nel caso si tratti di paesi democratici. È un dovere civile vigilare sull’operato dei governanti a cui si è delegato il potere.Quando costoro non operano nel senso delle aspirazioni della popolazione,i cittadini hanno il dovere di chiederne conto.Se, di fronte a precisi fatti,essi non lo fanno,significa che sono d’accordo, oppure,se non lo sono,vuol dire che c’è qualcosa ,nell’esercizio della democrazia,che non ha funzionato a dovere. Se guardiamo a quel periodo,vediamo che si è adottata una politica restrittiva non solo in tema di asilo ai profughi.Anche in questioni vita-

li come la libertà di stampa e d’associazione non si è andati in direzione di un ampliamento,bensì verso una riduzione dei diritti.Alla stampa,e tramite essa al cittadino,è stato richiesto «di imporsi una disciplina volontaria nell’espressione dei suoi pensieri,per il bene del paese».21 Quella che abbiamo considerato è stata un’epoca nella quale in Svizzera si è molto parlato di democrazia e di libertà,ma all’atto pratico ci si è preoccupati poco di praticarle nella loro pienezza.L’insegnamento che si può trarre da questa esperienza storica è che il dare carta bianca alle autorità,l’abdicazione dalla responsabilità e il sacrificio della libertà,possono portare a conseguenze molto gravi.Gravi come la tragedia degli ebrei respinti alla frontiera negli anni del nazismo.

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