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Conclusione

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Introduzione

Introduzione

CONCLUSIONE

Nonostante le opzioni in Valcanale riguardino un territorio regionale molto ristretto, esse presentano, tuttavia, un notevole interesse storico, poiché, insieme con il progetto di trasferimento dei sudtirolesi, questione molto più dibattuta e conosciuta sia a livello accademico che pubblico, esse vanno inserite e spiegate nel quadro politico e ideologico particolarmente interessante dei due totalitarismi nazista e fascista. Un aspetto forte e portante dell’ideologia delle dittature affermatesi in Europa fra gli anni ’20 e ’30 persegue infatti l’obiettivo di trasformare la massa in un corpo unico e compatto, in perenne movimento, piegata alla volontà del capo e destinata a seguirlo senza possibilità di differenziarsi né mediante le singole individualità né per le peculiarità regionali142 . Una politica, questa delle dittature, che venne resa possibile dalla mancata soluzione dei problemi nazionali antecedenti la Prima Guerra Mondiale: basti pensare alla questione balcanica o alle turbolente nazionalità del centro Europa in perenne conflitto con l’autorità asburgica. Problemi a risolvere i quali non bastò certo, nel primo dopoguerra, il principio di autodeterminazione dei popoli di Wilson, che trovò solo parziale applicazione, di modo che ogni stato europeo si ritrovò di nuovo a dover a fare i conti con le sue minoranze linguistiche interne.

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In particolare, a causa della disgregazione dell’impero austro-ungarico, gruppi minoritari tedeschi si formarono nell’est Europa, nei Balcani e in Italia. Una realtà davvero scoraggiante per tutti quegli stati che avevano fatto della nazionalità il principio base della loro esistenza. In questo contesto, lo sviluppo dell’ideologia nazista, aiutata da una propaganda martellante che si richiamava all’unità di tutto il popolo tedesco nella Grande Germania, trovò terreno fertile in queste comunità e così Hitler decise di risolvere il problema in maniera quasi scientifica, dapprima ricorrendo alla diplomazia, successivamente con la forza, trascinando il mondo nell’apocalisse della Seconda Guerra Mondiale. Sono ben quindici gli accordi firmati dalla Germania con gli Stati che presentavano minoranze tedesche. Per fare degli esempi, il patto Molotov-von Ribbentrop, che prescriveva, fra l’altro, il trasferimento nel Reich dei tedeschi residenti in Polonia; il trattato per lo spostamento nel Reich dei 137.000 tedeschi della Bukovina e della Dobrugia, regioni nel nord della Romania cedute all’URSS nel 1940; il protocollo per il trasferimento dei tedeschi

142 Manuale di storia del pensiero politico, a cura di Carlo Galli, il Mulino, Bologna, 2011, pp. 489.

abitanti in Lettonia per risolvere la questione baltica. Fra questi accordi rientrano anche le “opzioni” del 23 ottobre, firmate dai due gerarchi Hitler e Mussolini. Va sottolineato in ogni modo che la Germania nazista non fu l’unico Stato a stipulare accordi per lo spostamento in blocco di intere comunità. Altri stati europei, come la Grecia e la Turchia che si accordarono nel 1923 per il trasferimento dei turchi dalla Tracia, oppure la Turchia e la Romania che decisero, nel 1936 di far traslocare più di 67.000 turchi dalla Transilvania meridionale alle regioni sotto il controllo di Ankara, non si preoccuparono di ridefinire le artificiali linee di frontiera tracciate dopo la Grande Guerra ma preferirono firmarono trattati che, in ossequio ai principi di nazionalità e sulla base di “civili” accordi internazionali, decisero a tavolino di trasferire un totale di quasi due milioni di persone nel giro di vent’anni, costringendole ad abbandonare in fretta e furia il territorio sul quale vivevano da generazioni, per emigrare in patrie lontane e molto spesso sconosciute. Nel nostro caso, data la limitatezza del territorio e della popolazione residente, certi parametri da “macrostoria” non sono utilizzabili, ma la tragicità dell’evento e le conseguenze sociolinguistiche che seguirono, possono essere tranquillamente confrontate con altre situazioni in scala maggiore. La consapevolezza dei risultati deleteri che questo tipo di scelte politiche comportarono spinsero gli Stati, nel secondo dopoguerra, a considerare in maniera diversa le minoranze etniche, ritenendole un importante elemento tradizionale da salvaguardare, sia dal punto di vista linguistico, che strettamente culturale. Allo stesso modo, nell’Europa Unita di oggi, un cittadino su sette parla una lingua che non è quella ufficiale. Compito delle istituzioni statali è quello di salvaguardare queste differenze evitando di ricadere nell’errore dell’omologazione totale.

In questo lavoro ho cercato di analizzare la questione e le sue conseguenze, sia da un punto di vista storico-diplomatico, che da uno strettamente “umano”, sperando di aver dato un contributo alla conoscenza non solo del mio territorio e della sua storia, ma anche dei motivi per cui la salvaguardia delle identità minoritarie è importante anche in un contesto più ampio quale quello europeo attuale, senza che ciò debba per forza comportare il rischio di cadere nel localismo e nella retorica del “piccolo è bello”.

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