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4.4 I dubat nelle fonti coloniali

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4.2 Olol Dinle

4.2 Olol Dinle

composti da bombe a mano legate a bottiglie di benzina, realizzarono incursioni nella boscaglia, riuscendo a contrastare i reparti esploranti britannici73. Al confine tra il Kenya e il Galla Sidama, un distaccamento di dubat del primo gruppo riuscì a resistere contro un battaglione sudafricano, nonostante questo fosse supportato da carri armati e aviazione74 . Dalla fine di gennaio, a Liboi, sul confine tra Somalia e Kenya, dubat e altri irregolari somali riuscirono a contrastare una colonna nemica, che riuscì a sbloccarsi solo il 4 febbraio, grazie a supporto di reparti sudafricani sopraggiunti in seguito. Costretti a ripiegare, i somali rimasero nella boscaglia, per continuare azioni di disturbo contro i successivi invii della forza d’invasione. A partire dal 10 febbraio, però, i britannici intensificarono l’attività dell’aviazione e dell’artiglieria. I combattenti somali cominciarono a capire che, contro tutta la potenza aerea e corazzata, i loro comandi, che disponevano solo di due aerei, non potevano più fare niente. In parte si rifugiarono nella boscaglia, per proseguire una certa attività di guerriglia con le bottiglie incendiarie e le dotazioni, ma in numeri considerevoli cominciarono a disertare75. L’ottavo gruppo dubat perse il 60% degli uomini, mentre il terzo venne quasi annientato76. Il generale e storico Pietro Maravigna, ha sintetizzato così queste ultime battaglie dei dubat e degli altri reparti somali:

“Negli avvenimenti esposti emerge una circostanza, della quale non si può negare l’importanza: lo sbandamento dei reparti indigeni […]. Il somalo merita in ogni caso le attenuanti poiché si dimostrò-è giusto affermarlo-animoso, disciplinato e volenteroso sino al momento in cui si convinse che ogni sforzo ed ogni sacrificio contro i mezzi prevalenti del nemico erano inutili. Soltanto allora avvenne il collasso morale e con esso si ebbero le

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manifestazioni d’indisciplina e lo sbandamento dei reparti. «Carne contro ferro non buono!» Nella sua puerile schiettezza, il somalo aveva sintetizzato il dramma vissuto”

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Sulle vicende avvenute in Africa Orientale durante il secondo conflitto mondiale, i testi consultati, per ovvie ragioni, differiscono enormemente da quelli sulla campagna contro l’Etiopia. Questi sulla caduta delle colonie sono più tecnici e complessi, molto focalizzati sui deficit tecnologici, i problemi di rifornimenti e le colpe strategiche che gravarono sulle forze armate italiane nelle colonie del Corno d’Africa. La propaganda presente nei primi è sostituita

73 Ivi, pp. 222-223 74 Alberto Bongiovanni, La fine dell'Impero. Africa Orientale 1940-1941, Milano, Mursia, 1974, p. 57 75 Ivi, pp. 231-232 76 Ivi, p. 236 77 Pietro Maravigna, Come abbiamo perduto la guerra in Africa, Roma, Tosi, 1949, p. 141

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in questi da un profondo senso di amarezza, come può emergere già da un titolo come L’impero tradito.

Sentimenti viziati di colonialismo continuano ad essere presenti, soprattutto nel lavoro di Maravigna. Le poche notizie sui dubat e gli altri reparti somali, da quanto riportato nei testi, suggeriscono che, nonostante si siano trovati in un conflitto esattamente opposto rispetto a quello contro l’Etiopia, e siano stati quindi schierati con le forze armate che, questa volta, subirono (e non inflissero) la superiorità tecnologica in campo bellico, resistettero comunque per qualche tempo, con la stessa tenacia e determinazione riscontrata in testi e documenti di epoca precedente, quando queste truppe, insieme ai reparti fascisti, combatterono per l’occupazione della Somalia settentrionale, per vigilare i confini della colonia somala e per occupare l’Etiopia. Le diserzioni, che avvennero dopo combattimenti di tipo guerrigliero nelle boscaglie, contro i britannici, sono descritte dagli stessi autori come un evento inevitabile, dettato da una certa consapevolezza dei somali sulla insanabile disparità di forze in campo.

Dopo aver cercato di tracciare un quadro del ruolo dei reparti somali, in particolare dei dubat, dalla conquista dell’Etiopia al crollo dell’Africa Orientale Italiana, l’ultimo paragrafo di questo lavoro adopererà i testi di epoca fascista che trattano i dubat per cercare di analizzare le idee che avevano i colonizzatori su questi combattenti e le modalità con cui li descrivevano.

4.4 I dubat nelle fonti coloniali

Nel corso di questa ricerca, sono stati trovati e consultati diversi testi dove sono presenti descrizioni dei dubat, alcuni dei quali sono già stati citati. Tre di questi sono monografie specifiche, mentre altri presentano delle parti a loro dedicate78 .

78 I lavori adoperati per questa parte riguardano, nella quasi totalità, la guerra d’Etiopia. Gli autori erano militari dell’esercito, camicie nere o giornalisti che seguirono le truppe di Graziani. I testi specifici sui dubat sono i seguenti: Cimmaruta, Ual Ual, op. cit.; De Vecchi Di Val Cismon, Dubat. Gli arditi neri, op. cit.; Pomilio, Con i dubat, Fronte Sud. Nei seguenti altri volumi, sono stati riscontrati spazi significativi o contenuti particolarmente importanti per inquadrare il punto di vista fascista sui dubat: Agostini, Colonne, op. cit.; Achille Benedetti, La guerra equatoriale con l'armata del maresciallo Graziani, Milano, casa editrice Oberdan Zucchi, 1937 Alfio Berretta, Abbiamo sempre vent’anni. Quaderno somalo, Milano, Edizioni moderne italiane, 1939; Carlo Boidi, Legionari universitari sul fronte somalo, Milano, Sperling & Kupfer, 1937; Giuseppe Colombo, Mitraglieri neri, Milano, La Prora, 1939; De Monfreid, La guerra nell’Ogaden, op. cit.; Sandro Sandri, Sei mesi di guerra sul fronte somalo, Milano, Bertarelli, 1936 Francesco Savà, Ospedale da campo in Somalia. Racconti della guerra in Africa, Firenze, Bemporad, 1937; Sandro Volta, Graziani a Neghelli, 2 ed., Firenze, Vallecchi, 1936 167

Tutti i testi sono estremamente celebrativi verso i dubat. I combattenti erano considerati e, di conseguenza, sono descritti nei testi, non solo come appartenenti a reparti molto efficaci nelle operazioni, ma anche come sprezzanti del pericolo e delle avversità. Essi sarebbero inoltre stati particolarmente spietati con i nemici. Un tratto comune individuato da tutti gli autori, in linea con gli ideali razzisti dell’epoca, è la loro appartenenza a una sorta di casta guerriera, razzialmente pura. Nei testi viene spesso riportato che tra di loro mancava la disciplina propria degli ascari regolari, ma tale carenza era resa superflua dai loro pregi unici. Queste qualità, molto enfatizzate, non risparmiavano i dubat però dal razzismo feroce e dal paternalismo, da parte dei loro stessi ammiratori o presunti tali. In alcuni testi sono riportati anche dei dialoghi di alcuni dubat. Questi sono comunque sempre molto semplici e funzionali al punto di vista dell’autore, quindi è difficile stabilire se siano realmente avvenuti. La lettura di un testo del giornalista Sandro Volta, ad esempio, fornisce una descrizione che presenta, tutti insieme, molti di questi elementi ricorrenti:

“[…] ero stato ospite del Primo gruppo bande, dove avevo potuto conoscere i dubat meglio di qualsiasi altra truppa di colore: sono soldati differenti da tutti gli altri, fanfaroni razziatori indolenti, e impareggiabili quando si tratta di giuocare la vita, magari uno contro dieci. I dubat appartengono in genere a cabile nobili[…]il lavoro non è fatto per loro[…]sarebbe grave sbaglio pretendere di farne dei lavoratori: guerrieri e basta.[…]considerano la guerra come condizione naturale di vita. In questo sentimento non c’è niente che possa paragonarsi al patriottismo dei popoli civili; è la guerra per la guerra, la guerra per la razzia, la guerra per sterminare quanti più possibile nemici. E c’è un disinteresse assoluto in questo loro istinto perché alla stessa razzia non li spinge il desiderio del tornaconto, ma piuttosto l’ambizione di ritornare al villaggio con le spoglie del vinto: ho visto dubat spartirsi una povera futa di abissino[…]. I dubat sono per lo più estremamente giovani, hanno corporatura sottile, addirittura gracile, ma modellata come statuette di bronzo: una grazia quasi femminea è in tutti i loro gesti, di un’eleganza incredibilmente raffinata.[…]al momento buono essi sanno fare sul serio. Quando si diceva ad uno di essi: «Tu avere paura di abissini?», ci sentivamo rispondere: «Io paura? Se trovare cento abissini, pum pum pum, io ammazzare tutti»[…]A Dolo vivevano nei

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tucul del villaggio con le loro giovani spose, tutte vestite di seta e anelli d’argento alle braccia, altrettanto ambiziose e con altrettanto coraggio[…].”79

Vista questa descrizione, che è capace di offrire un quadro d’insieme, si possono dividere i diversi aspetti emersi in due nuclei, differenti ma strettamente connessi negli autori del tempo, siano essi militari, camicie nere o giornalisti di regime: quello dell’elogio, e della dichiarata ammirazione da un lato, dall’altro lato, quello del paternalismo e del razzismo.

Per quanto riguarda il primo, oltre allo sprezzo del nemico, i dubat vengono caratterizzati anche per la resistenza al dolore causato dalle ferite. Una camicia nera scrisse di aver incontrato un dubat con il braccio lacerato. Il somalo non si lamentava, manteneva un atteggiamento molto fiero e teneva con l’altra mano quello che restava del braccio80. Un

ufficiale medico osservò che i dubat feriti cercavano di farsi ricoverare il meno possibile, soprattutto se confrontati a quanto facevano gli ascari regolari, per tornare a combattere con i loro compagni: “Erano rari questi dubat ricoverati. Preferivano sopportare il male della boscaglia e restare là, distesi sulla stuoia, in attesa che il malessere passasse e che le forze ritornassero”81. Un autore che, sempre in funzione del suo fanatismo e della propaganda fascista, mostra anche il vero volto della guerra, è il giornalista Alfio Berretta, direttore del quotidiano Somalia Fascista. Nel suo libro Abbiamo sempre vent’anni. Quaderno somalo, sono infatti presenti alcune foto di dubat uccisi. Le immagini sono particolarmente forti, perché mostrano corpi maciullati e casi di evirazione (o almeno dichiarati tali dalla propaganda). La funzione di mostrare i corpi dei dubat, oltre ovviamente a sottolinearne lo spirito di sacrificio, era dettata dalla volontà di dipingere come feroci gli armati etiopici, che i fascisti massacrarono con metodi criminali nel corso dell’invasione del loro paese82. Il generale delle camicie nere forestali Agostini, nel descrivere un recupero di dubat uccisi mesi prima dagli etiopici, scoperti nel corso dell’avanzata della sua colonna, sottolinea la sua (dichiarata) umanità e quella delle sue forze, che comprendevano un misto di camicie nere e dubat:

79 Nel testo non è specificato il carattere ambizioso delle mogli dei dubat. Volta, Graziani a Neghelli, op. cit., pp. 79-82 Una parte di questa descrizione di Volta, è riportata nel testo Il colonialismo italiano da Adua all'impero degli storici Luigi Goglia e Fabio Grassi. In quel lavoro, viene però riportata come proveniente dalla voce “Dubat”, curata dallo stesso Volta, per una antologia di epoca fascista dal titolo Combattere, a ulteriore conferma del carattere guerriero e spietato che veniva attribuito ai combattenti somali. Cfr. Goglia, Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all'impero, op. cit., pp. 364-365 80 Boidi, Legionari universitari sul fronte somalo, op. cit., p. 131 81 Savà, Ospedale da campo in Somalia. Racconti della guerra in Africa, op. cit., pp. 77-80 82 Berretta, Abbiamo sempre vent’anni. Quaderno somalo, op. cit., p. 177 169

“Gli scheletri dei dubat, che trovammo sparsi nella località, furono da noi amorosamente raccolti e, con solenne cerimonia, tumulati, nella chiara riconoscenza delle nostre truppe indigene, che, com’è noto, considerano altamente doveroso il seppellimento dei compagni Caduti”83 .

Da quanto riportato nel testo La guerra equatoriale con l’ armata del maresciallo Graziani, anche un comandante etiopico, catturato nel corso delle azioni sul Dagnerei, avrebbe espresso agli italiani la sua ammirazione per le azioni svolte, contro i suoi stessi reparti, dai dubat84 .Un altro giornalista, Sandro Sandri, definito da Del Boca un “ultra-fascista”, che oltre a scrivere nel corso delle operazioni sul fronte somalo partecipò ad alcuni combattimenti, essendo provvisto di armi da fuoco insieme alla macchina da scrivere, nel suo testo sottolinea i compiti di questi combattenti, diversi da tutti gli altri85. Le loro azioni d’assalto venivano precedute da nuotate lungo i fiumi. Inoltre, i dubat, a differenze dei combattenti somali di Olol Dinle, che agivano collegati da terra via radio con gli aerei, stando a Sandri detestavano l’aviazione: i bombardamenti degli aerei, infatti, erano visti dai dubat come un disturbo, dato che, avendo gli aerei un micidiale impatto distruttivo sul nemico, privavano i somali di alcune occasioni di combattere86. Il testo presenta la descrizione più fascistizzata, tra quelle lette, dei dubat. Gli armati, di cui anche Sandri sottolinea la bellezza fisica, sono descritti come maleducati. Dato che per questo aspetto erano stati criticati da un ufficiale, il giornalista fanatico rispondeva che la maleducazione della “giovane ragazzaglia somala, impetuosa e guerriera, spavalda e urlante” mostrava, in realtà, un eccellente esempio di forza e “suprema strafottenza”. Sempre per Sandri, tale insolenza era pure perfettamente adeguata alle operazioni contro gli etiopici, perché la guerra non era attività adatta per “damerini”87. Da queste espressioni, emergono quindi delle rappresentazioni dei dubat non solo visti come efficaci in guerra e valorosi, ma anche come portatori di quella indisciplina tipicamente fascista, costantemente esplicitata e rivendicata dagli stessi, da Mussolini a semplici squadristi.

Come anticipato, tutta la copiosa celebrazione, che si è qui cercato di sintetizzare con diversi estratti, veniva da un punto di vista paternalista e razzista.

83 Agostini, Colonne, op. cit, p. 143 84 Benedetti, La guerra equatoriale con l'armata del maresciallo Graziani, op. cit., p. 28 85 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. II: La conquista dell’impero, op. cit., p. 420; Sandri, Sei mesi di guerra sul fronte somalo, op. cit., pp. 69-71

86 Ivi, p. 74 87 Ivi, p. 86

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Il testo Mitraglieri neri è stato scritto da un ufficiale che comandò alcuni ascari somali nel corso delle operazioni. Nonostante non fosse un ufficiale dei dubat, il suo reparto venne aggregato a una di queste formazioni, che descrisse con estremo paternalismo:

“Più che un reparto militare, la banda di Dubat del Tenente Stancari era una grande famiglia di giovanotti neri stretti come un sol uomo attorno al loro Comandante. Rare volte come nel caso di questo bravo ufficiale, l’appellativo di «padre» che i militari indigeni sogliono attribuire al loro ufficiale è stato usato con maggiore proprietà. Un padre giovane e allegro […] che era insieme fratello ed amico nel senso più lato e bello delle parole. Governare degli indigeni non è compito semplicissimo: alla quantità di caratteri più o meno vivaci o pigri […] bisogna aggiungere la mentalità primitiva e poco civile di tutti, ciò che rende seriamente difficile l’agire con vera serena giustizia, col tatto e con l’abilità indispensabili a chi vuole raccogliere buoni frutti della sua fatica”

88 .

Dello stesso paternalismo si fecero portavoce i giornalisti armati al seguito di Graziani Pomilio e Sandri. Il primo riteneva che i dubat avessero dei “cuori eternamente bambini”. Nonostante il loro orgoglio, davano molta importanza ai loro ufficiali bianchi, ritenendo gli armati di Dinle, a sua volta descritto dal fascista come un leader nato e “somalo di classe”, meno fortunati di loro, data l’assenza di ufficiali italiani nel loro reparto89. Nel testo di Sandri, su questo punto, i pochi ufficiali al comando dei dubat, come Bechis, vengono descritti come individui straordinari. Sono accostati dall’autore ai domenicani, per la loro capacità di vivere lontani dal mondo europeo. Prosegue dichiarando che per “capire” e “amare” i dubat, era necessario vivere con loro e comprenderne la mentalità, fatta di “piccole cose” e di una estrema sensibilità, che non bisognava mai fraintendere90. Gli ufficiali, data la sensibilità dei loro speciali combattenti, secondo Pomilio si sarebbero occupati anche di tematiche non

88 Colombo, Mitraglieri neri, op. cit., p. 67 Il paternalismo dell’autore emerge anche da una descrizione che lo stesso fece del rapporto tra il tenente dei dubat e una bambina somala, figlia di uno dei suoi uomini morto per proteggerlo. Colombo riporta che, in punto di morte, il dubat chiese al tenente di occuparsene. Il tenente se ne prese cura e le diede dei vestiti di tipo occidentale. Nell’opera La formazione de l’impero coloniale italiano, Vol. I: Le prime imprese coloniali, la rinascita coloniale, è invece presente una fotografia del governatore Rava che accarezza dei bambini somali. La didascalia riporta che i bambini erano figli di dubat rimasti uccisi. I 7 bambini nella foto erano tutti vestiti esattamente come i dubat, con fute e turbanti bianchi. Cfr. Colombo, Mitraglieri neri, op. cit., p. 70; La formazione de l’impero coloniale italiano, Vol. I: Le prime imprese coloniali, la rinascita coloniale, op. cit., p. 379 89 Pomilio, Con i dubat, Fronte Sud, op. cit., pp. 60-65 90 Sandri, Sei mesi di guerra sul fronte somalo, op. cit., pp. 69-73 171

strettamente militari, ascoltando i loro combattenti somali per questioni amorose, ad esempio91 .

Dato che sfortunatamente non sono presenti le versioni dei dubat, ma solo quelle fasciste, è impossibile poter leggere alcuni pareri dei somali sui loro ufficiali e sul rapporto che si creava, descritto in modo tanto propagandistico e viziato da un esplicito senso di superiorità.

Si possono però trovare spunti importanti su questo e altri aspetti in alcuni lavori scientifici su altre truppe africane, impiegate durante il colonialismo europeo.

Grazie ai lavori di Alessandro Volterra e di Irma Taddia, è possibile leggere le testimonianze orali degli ascari eritrei sul colonialismo fascista raccolte quando il colonialismo era finito da alcuni decenni, e le opinioni espresse non erano filtrate da uomini di regime. In queste testimonianze, che pure presentano certi problemi interpretativi come, ad esempio, il fatto che siano state raccolte molto tempo dopo, da individui che potevano anche avere una visione idealizzata del passato, si possono conoscere diversi punti di vista di reduci. Alcuni si dichiararono nostalgici del colonialismo e del periodo in cui combatterono per gli italiani, altri erano invece stati offesi da episodi di discriminazione e razzismo subiti in quel periodo92 . Sullo specifico rapporto soldato africano-ufficiale coloniale, passando alle truppe africane impiegate dai tedeschi durante il primo conflitto mondiale, Karin Pallaver, in uno dei suoi libri, affronta anche la questione degli askari e del loro rapporto con il proprio comandate, il celebre generale Paul Emil von Lettow-Vorbeck. Ammirato anche dai suoi avversari, LettowVorbeck, comandante delle Schutztruppen (forze di protezione) in Africa Orientale Tedesca, fu l’ultimo generale tedesco ad arrendersi

93 :

“La questione della fedeltà dei soldati africani al loro comandante è stata vista come una delle principali motivazioni alla base del successo della campagna di Lettow-Vorbeck. In realtà, il fatto che gli askari fossero legati al loro comandante principalmente da un sentimento di devozione è un’interpretazione che è stata apertamente criticata; i soldati africani combatterono su entrambi i fronti, non solo con Lettow-Vorbeck, e la motivazione principale che li teneva legati al loro comandante era l’ottimo trattamento

91 Pomilio, Con i dubat, Fronte Sud, op. cit., pp. 20-22 92 Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei, op. cit., p. 104; Irma Taddia, Autobiografie africane. Il colonialismo nelle memorie orali, Milano, Franco Angeli, 1996, pp. 156-157

93 Pallaver, Un’altra Zanzibar. Schiavitù, colonialismo e urbanizzazione a Tabora(1840-1916), op. cit., pp. 159 e 170

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economico che i soldati ricevevano, che era di gran lunga migliore di quello che potevano ricevere svolgendo altri lavori”94 .

Anche per i dubat, nonostante una narrazione tanto idealizzata, fattori come le paghe, unite ad un sentimento anti-etiopico derivante dalle incursioni che gli stessi praticarono nei territori di confine a danno delle popolazioni somale, dovettero influire sulla loro determinazione, piuttosto che il tanto divulgato attaccamento del fedelissimo combattente per il l’”ufficialepadre-domenicano”, divulgato dai combattenti e dalle penne di regime.

Oltre al paternalismo, in certe letture emerge invece un razzismo esplicito, brutale, volto a chiarire che, anche in casi di combattenti straordinari, la superiorità del bianco continua ad esistere.

Il famoso autore francese De Monfreid, portavoce della causa fascista durante la guerra d’Etiopia, dal suo testo risulta molto colpito dall’eccellenza dei dubat. Essi sono però, nello stesso libro, costantemente accostati ad animali. I somali, per il francese, erano “alti e snelli, nervosi ed agili come felini”. In un punto della sua narrazione, De Monfreid parla di un allarme diffuso nell’accampamento dei somali e di come i dubat reagirono, continuando a proporre paragoni ispirati al mondo animale:

“Il drammatico segnale di tromba dell’allarme produce l’effetto di un calcio in un formicaio: i dubat escono da tutte le parti. I piccoli tucul ne vomitano un gran numero.[…]quel disordine pochi minuti dopo si orienta[…]tutte bande allineate[…] stupefatto […] appare risultato di un istinto piuttosto che di un ammaestramento […] nella selvaggia natura dei somali esistono elementi di coesione analoghi a quelli che si notano nelle comunità d’insetti, nei banchi di pesci e negli stormi d’uccelli migratori”

95 .

L’autore che, più esplicitamente di tutti gli altri, sottolinea ed esalta il razzismo verso i dubat, parlando chiaramente dell’importanza della segregazione, fu il tenente De Vecchi. L’ufficiale riporta che i suoi combattenti somali vedevano migliorate le loro condizioni grazie al colonialismo. I dubat dovevano rimanere in un rapporto di subordinazione, anche se era giusto trattarli bene96. Si commuoveva nel vedere un soldato italiano che offriva dell’acqua a uno dei suoi combattenti somali ma, allo stesso tempo, era per lui soddisfacente vedere un reparto di camicie nere armate con fucili più moderni di quelli che aveva in dotazione il suo

94 Ivi, p. 169 95 De Monfreid, La guerra nell’Ogaden, op. cit., pp. 90-92 96 De Vecchi Di Val Cismon, Dubat. Gli arditi neri, op. cit., p. 106 173

stesso reparto di dubat, dal momento che la differenza di armamento era simbolo di una gerarchia razziale, rivendicata dal fascista97 .

Suo padre, nel 1941, usava invece proprio i dubat per rivendicare non solo quelli che secondo lui erano i pregi del razzismo, ma la sua necessità:

“La caratteristica di questa truppa è la sua bravura, e questa fondamentale qualità guerriera è condizionata al fattore razza. Non si concepisce dubat che non sia della pura razza somala[…]Oggi la Somalia non può andare disgiunta dall’idea del dubat, figlio di una gente che ha saputo, attraverso le vicende millenarie, restare etnicamente pura: di una gente che ha fatto del principio razzista la sua legge sociale e politica per la preservazione delle sue alte qualità morali e fisiche. Se mai mancassero alla dottrina razzista argomenti storici alle sue proposizioni, la gente somala potrebbe offrirle la sua chiara e mirabile storia.[…] Come nelle vecchie carte le regioni inesplorate segnavano l’hic sunt leones[…] s potrebbe oggi scrivere con alto traslato a esaltazione della loro razza e a glorificazione dell’Impero di Roma, hic sunt dubat”98 .

Il razzismo, da sempre presente nell’ideologia fascista ma potenziato e ancora più rivendicato dalle leggi razziali del 1938, veniva proiettato dall’ex governatore della Somalia su quei reparti scelti somali da lui istituiti circa 17 anni prima.

I dubat vennero conosciuti in Italia anche grazie alle loro raffigurazioni su diversi prodotti. Una pagina presente su un importante sociale network, intitolata proprio come l’opera di Giorgio De Vecchi, presenta diverse fotografie dei combattenti o ad essi collegate, postate da diverse persone, tra cui anche somali. Nella pagina, tra le tante immagini condivise, sono presenti anche raffigurazioni dei dubat su alcuni quaderni scolastici, e le immagini di un libro per ragazzi, intitolato Dubat all’erta!99. Il nome dubat venne adoperato per una marca di polvere da sparo e per un tipo di cioccolatino, come mostrato da alcune foto presenti sulla pagina Dubat. Gli arditi neri. Come invece riporta una monografia sul quartiere Vomero di

97 Ivi, pp. 123-124 98 De Vecchi Di Val Cismon, “I dubat, neri bersaglieri di Somalia”, in Africa Italiana, Roma, Istituto Fascista dell’Africa Italiana, gennaio-febbraio 1941, pp. 2-3

99 Giuseppe Scortecci, Dubat all’erta!, Milano, Rizzoli, 1935

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