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3.3 Impiego dei dubat in Somalia settentrionale

appartenenti alle bande di confine, erano chiamati anche con il termine dubor (non tradotto nelle fonti). I quadrupedi adoperati provenivano dalle regioni settentrionali, dove venivano indicati con il termine recub, o dal Somaliland britannico127. Il primo nucleo di dubor, comprendente 50 uomini, venne organizzato dal capitano d’artiglieria alpina Giuseppe Cimmaruta. Questi dubat cammellati erano stati istruiti da Cimmaruta a montare i cammelli come dei cavalli, mediante l’utilizzo di selle, staffe e redini. Cimmaruta apprese questo metodo dai Somaliland Camel Corps britannici. Tale modo di cavalcare l’animale differiva da quello dei meharisti, le truppe libiche italiane che cavalcavano il dromedario incrociando le gambe intorno al collo dell’animale, e dirigendolo facendo pressione con i piedi128. I dubor erano armati di moschetti da cavalleria. Il resto del loro equipaggiamento era il medesimo dei dubat appiedati, funzionale e leggero, quindi ridotto al minimo. Oltre alla cartucciera in pelle, i dubor portavano sui loro recub acqua, mangime e viveri in quantità tali da non appesantire l’animale, per disporre quindi della rapidità d’azione propria di tutti i dubat. Rispetto ai cammelli arabi, quelli somali erano disponibili a un prezzo inferiore e, pur essendo meno robusti, riuscivano a resistere meglio al clima della colonia129 .

Per quanto riguarda gli alloggi degli appartenenti alle bande di confine, in un testo viene riportato che i dubat, con le loro famiglie, vivevano in capanne a struttura conica tipiche dell’Africa Orientale, chiamate tukul. Queste erano diffuse in tutta la colonia130 .

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I dubat non si misurarono solo contro altri uomini nel corso dei loro servizi. Come descritto

nel testo di Cimmaruta, si verificarono diversi casi di attacchi contro i leoni, talvolta fatali per i dubat. I felini rappresentavano ovviamente una minaccia sia per le popolazioni che per il bestiame. In alcuni casi era ordinato ai dubat di sparare a vista su queste belve, per la protezione delle popolazioni e dei loro animali, ma il confronto con l’animale era vissuto dai dubat anche come una questione di onore e prestigio. Con toni molto enfatici, il testo riporta due casi di dubat che riuscirono ad eliminare un leone, rimanendo uccisi a loro volta. In uno di questi, lo scontro avvenne tra due dubat e due leoni. Uno dei due uomini rimase ucciso subito e l’altro, dopo aver abbattuto l’animale, si ricordò di riprendere i fucili, perché mai

127 Corni, Somalia italiana, Vol. II, op. cit., p. 216 128 Marco Pomilio, Un giornalista all'equatore : note di viaggio di 8000 km. attraverso la Somalia italiana, Firenze, Vallecchi, 1933, p. 108

129 Corni, Somalia italiana, Vol. II, op. cit., pp. 220-222 130 Maurizio Rava, Parole ai coloniali, Milano, Mondadori, 1935, p. 259

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avrebbe dovuto abbandonarli. Raggiunse i compagni e, prima di soccombere per le ferite riportate, chiese loro di riferire all’ufficiale che aveva riportato le armi, nonostante il confronto fatale con i leoni131 .

Nonostante la fonte sia parziale, forse viziata anche da finalità esotiste, è possibile che presso i combattenti somali, almeno in alcuni casi, venisse avvertito il bisogno di tutelare il bestiame e assolvere i compiti che erano stati loro affidati, anche contro animali molto pericolosi e difficili da abbattere come i leoni132. In ogni caso, nel corso delle operazioni militari a cui presero parte, come si vedrà nei prossimi capitoli, si verificarono diversi episodi che, nonostante siano molto enfatizzati dalla propaganda fascista, testimoniano un costante sprezzo del pericolo da parte dei dubat.

Dopo aver cercato di analizzare le caratteristiche dei dubat e i loro compiti di vigilanza lungo i confini, nel prossimo paragrafo verrà trattato il loro contributo in campo bellico prestato nel corso delle operazioni nelle regioni settentrionali della Somalia.

3.3 Impiego dei dubat in Somalia settentrionale

Come anticipato nel precedente paragrafo, l’arrivo in Somalia del primo governatore fascista, Cesare Maria De Vecchi, non fu solo uno spartiacque per la storia delle truppe arabo-somale della colonia. Sotto De Vecchi, venne realizzato un controllo violento ed effettivo della Somalia, e non solo per quanto riguardava i confini con l’Etiopia, che da quel momento erano presidiati dai dubat, ma anche con l’occupazione delle regioni settentrionali133. De Vecchi era

infatti contrario all’indirect rule, da lui considerato una debolezza caratterizzante l’approccio di tutte le precedenti amministrazioni coloniale italiane in Somalia e incompatibile con l’ideologia fascista.

131 Cimmaruta, Ual Ual, op. cit., pp. 31-33 132 Alcune foto scattate in questo periodo o precedentemente, ritraggono sia eritrei che somali, in alcuni casi ragazzini, con animali abbattuti. In una di queste, un ragazzino mostrava numerose proboscidi di elefanti essiccate, insieme al suo fucile. Il docente universitario invitò a riflettere su quanto fosse difficile per un ragazzino (e non solo) abbattere più elefanti con un fucile ottocentesco. Era fondamentale colpire l’animale al capo perché, nel caso rimanesse solo ferito, si sarebbe logicamente spaventato e imbizzarrito, risultando ancora più pericoloso e obbligando la persona a ricaricare, tempestivamente ma con la giusta calma, il fucile (Alessandro Volterra, comunicazione personale, 4 luglio 2018). 133 Hess, Italian colonialism in Somalia, op. cit., pp. 152-156 136

Dopo aver realizzato il disarmo delle popolazioni della Somalia centro-meridionale, rivolse la sua attenzione ai sultanati settentrionali, che erano dei protettorati dal 1889-1890. Già nel gennaio 1924, si lamentò con il Ministro delle Colonie Federzoni che il Sultano di Hobyaa, Yuusuf Cali, commerciava armi anche fuori dal suo territorio134. Nel maggio dello stesso anno, De Vecchi visitò il sultano e lo costrinse a fare atto di sottomissione e completa obbedienza. Nel 1925, gli italiani riuscirono a intercettare una lettera di Yuusuf Cali a Cismaan Maxamuud, che conteneva un invito a creare un fronte di resistenza comune contro il governo italiano. Nell’ottobre di quell’anno, Mussolini autorizzò De Vecchi ad avviare l’occupazione militare dei territori appartenenti ai sultanati settentrionali135. De Vecchi iniziò

un ciclo di operazioni contro il sultanato di Hobyaa (ottobre 1925- gennaio 1926) e contro il sultanato Majerteen (aprile 1926-febbraio 1927). In questa seconda parte delle campagne di De Vecchi, le forze armate vennero anche supportate dai concessionari “civili” (virgolettato nel testo) al seguito di De Vecchi, che si resero protagonisti di azioni particolarmente efferate136. Il 6 novembre 1927, il sultano Majerteen fece formale atto di sottomissione all’Italia, consegnando la sua spada a De Vecchi. Rinunciò a tutti i suoi diritti sultanali. Il governatore lo fece deportare a Muqdisho137 .

Tutto il peso delle operazioni venne supportato dalle truppe arabo-somale, in una guerra definita da Del Boca “fratricida”. Nello schieramento italiano, le perdite bianche furono irrilevanti, dato che persero la vita 3 ufficiali e 4 soldati (vennero inviate anche truppe dall’Italia), mentre morirono 97 ascari e 449 dubat138 .

I dubat, di recente costituzione al momento dell’avvio della cosiddetta “pacificazione” dei sultanati, vennero impiegati molto in questo periodo, subendo oltre 4 volte le perdite degli ascari. Da un riassunto di De Vecchi sulle operazioni effettuate al 13 settembre 1926, che espone le azioni nelle regioni settentrionali complessivamente (senza dividere gli avvenimenti

134 Il testo, pur sottolineando gli obiettivi bellici e in linea con gli ideali fascisti di De Vecchi, ostile fin da subito all’indirect rule applicato dagli italiani nella Somalia settentrionale, riporta che il governatore venne anche allarmato dai britannici, per quanto riguardava il sultano Hobyaa. Le autorità britanniche erano infatti convinte che, dopo la scomparsa di Hassan e del suo movimento, Cali Yuusuf potesse decidere di scatenare una nuova jihad contro il colonialismo. Battera, Dalla tribù allo stato nella Somalia nord-orientale. Il caso dei sultanati di Hobiyo e Majerteen. 1880-1930,op. cit., pp. 216-218 135 Hess, Italian colonialism in Somalia, op. cit., p. 152 136 Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, op. cit., pp. 170-171 137 Hess, Italian colonialism in Somalia, op. cit., p. 152 138 I comandi fascisti, oltre ad usare massicciamente i reparti somali, riuscirono a limitare moltissimo le perdite italiane grazie all’uso della marina e dell’aviazione. Tra gli eserciti dei sultanati, invece, si registrarono 1236 morti e 757 feriti. Non si conosce il numero delle vittime civili, che furono numerose. Del Boca, Italiani, brava gente?, op. cit., pp. 151-152 e 162

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del sultanato di Hobyaa da quelli del sultanato Majerteen), si apprende che il governatore fece in modo di impiegare, in ogni zona, dubat provvisti di “alta influenza politica di operazione, trattandosi di tutti elementi etnici somali e figli delle stesse famiglie da assoggettare o loro vicini”. L’azione politica preparata dai dubat avrebbe dato ottima riuscita, e per questo motivo era meglio privilegiare l’utilizzo delle bande di confine, rispetto agli ascari regolari

139 .

I dubat non erano solamente quindi percepiti (e utilizzati) dal governatore e dagli ufficiali come combattenti speciali, ma venivano anche considerati più idonei a diffondere la propaganda governativa verso la popolazione, con la quale condividevano il territorio di origine e, in alcuni casi, le parentele. Dal telegramma di De Vecchi, sembra che questo aspetto dei dubat determinò un loro impiego maggiore rispetto a quello degli ascari. Come verrà detto a breve, la loro efficacia politico-militare non fu però l’unico motivo che portò a un contributo tanto significativo.

Cimmaruta considerava l’occupazione del Sultanato Majerteen un “vero inno di gloria dei dubat”. I combattenti somali agirono sotto il comando del loro fondatore, il maggiore Bechis. Nel gennaio 1926, Bechis e i suoi dubat diedero la caccia a un importante leader combattente somalo, Omar Samantar140. Alcuni mesi prima, Samantar aveva inferto un durissimo colpo agli occupanti fascisti nel territorio del disciolto sultanato di Hobyaa. Nel corso di quell’occupazione, infatti, il capitano Carolei aveva assoldato Samantar per il suo grande ascendente verso il clan dei Daarood. Il 9 novembre, Samantar si introdusse nel presidio di Ceelbur insieme a un gruppo di insorti141. I resistenti uccisero circa 70 ascari e Carolei, comandante del presidio. Si impossessarono di 314 fucili, che a loro volta erano stati depredati dagli occupanti alla popolazione locale, di 2 mitragliatrici pesanti Fiat e di 100.000 proiettili. Dotata di questo arsenale, gran parte del quale gli apparteneva fino a poco tempo prima, la popolazione della regione di Ceelbur seguì in massa Samantar e i suoi combattenti142. Gli uomini che combatterono contro l’occupante fascista, sotto la guida di Samantar e di altri capi, vengono definiti, nelle fonti, in vari modi. Il governatore fascista, in modo dispregiativo, li ha indicati nel suo libro semplicemente come un insieme di “fuorilegge”. Si trattò invece di una vera e propria resistenza contro il colonialismo

139 AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 13, fasc. 13, copia di telegramma di De Vecchi di Val Cismon al Principe di Scalea, Muqdisho, 13 settembre 1926 140 Cimmaruta, Ual Ual, op. cit., p. 24 141 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. II: La conquista dell’impero, op. cit., p. 60 142 Ibidem

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fascista143. Questi uomini non avevano obiettivi sovversivi, ma lottarono solamente nel tentativo di preservare le istituzioni che avevano sempre servito, e che i fascisti annientarono, occupandone i territori. I capi, almeno alcuni, provenivano dalle classi dirigenti dei sultanati settentrionali. Omar Samantar, ad esempio, era stato un importante uomo di fiducia del sultano Majerteen, mentre Herzi Bogor, un altro capo della resistenza particolarmente importante, era figlio dello stesso sultano144 .

Bechis creò, a Beledweyne, dove aveva sede il suo Comando Bande, un “contrappeso” alla roccaforte resistente di Ceelbur145. La situazione era problematica per De Vecchi e gli italiani. Non solo nel territorio della colonia era presente un centro con numerosi uomini armati decisi a resistere ma, da quella località, i resistenti effettuavano razzie contro le popolazioni sottomesse al governo fascista e cercavano di portare nel loro schieramento quelle ancora indecise. Bechis coordinò da Beledweyne le azioni dei dubat per contrastare questo tipo di attività. Nelle intenzioni di De Vecchi, i dubat di Bechis dovevano quindi contrastare le razzie, impedire ai membri della resistenza di fuggire in territorio etiopico, mentre una colonna di ascari avrebbe rioccupato Ceelbur. In questo periodo però, alcuni combattenti anticolonialisti, appostati nella boscaglia, eliminarono il tenente colonnello Splendorelli, che procedeva in automobile, insieme a due ascari. L’ufficiale caduto era stato designato tempo prima come comandante di una colonna di ascari che avrebbe dovuto rioccupare Ceelbur. Il comando militare chiese al governatore un rinvio delle operazioni, data la morte di Splendorelli, ma l’attività della resistenza non accennava a diminuire. Da questo momento De Vecchi poteva contare unicamente su Bechis e i dubat, direttamente ai suoi ordini. Iniziò quindi a quel punto a prevalere il contributo dei dubat sulle operazioni in Somalia settentrionale146. Quindi, anche se il governatore aveva motivo di ritenere i dubat particolarmente idonei alle operazioni, fu la morte del tenente colonnello e la successiva richiesta di attendere del tempo, da parte dell’esercito, a spingere De Vecchi, deciso a colpire energicamente la resistenza a Ceelbur nel minor tempo possibile, a rivolgersi a Bechis e ai suoi dubat, che rispondevano direttamente a lui e non al comando dell’esercito. Bechis effettuò nuovi arruolamenti e diede disposizioni “severissime” ai dubat, che dovevano punire

143 De Vecchi, Orizzonti d’impero. Cinque anni in Somalia, op. cit., p. 276 144 Del Boca, Italiani brava gente?, op. cit., p. 151 145 Bechis viene indicato nel testo come “il più fedele interprete del pensiero del Capo”. Non è chiaro se l’autore si riferisse al fanatismo politico dell’ufficiale degli alpini a comando dei dubat o alle sue capacità di eseguire i compiti assegnatigli. Cfr. Angelo Piccioli (coordinati da), La nuova Italia d’oltremare. L’opera del fascismo nelle colonie italiane. Notizie, dati, documenti, Vol. I, Milano, Mondadori, 1934, p. 316 146 Ivi, pp. 313-316

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ogni offesa con rappresaglie efferate. Il maggiore venne a conoscenza di alcuni malumori tra le formazioni che continuavano a opporsi all’occupazione dei loro territori. Tra gli occupanti di Ceelbur, infatti, cominciarono ad emergere alcuni timori sulla possibilità che i fascisti soffocassero nel sangue la roccaforte. Molti di loro volevano abbandonare quindi Ceelbur, e Bechis era deciso a impedirlo. L’ufficiale aveva il compito di spezzare la resistenza premendo per riattivare le rivalità claniche, che, da parte di alcune popolazioni, erano state messe da parte per creare una resistenza comune147. In questo periodo, i dubat furono un mezzo di repressione ma anche di propaganda, riuscendo a inquadrare nei loro reparti molti individui che gravitavano nel campo della resistenza. I capi locali che decidevano di sottomettersi agli italiani dovevano consegnare le armi e denunciare i loro appartenenti che si erano resi responsabili di episodi di ribellione.148 Queste azioni portarono alla dissoluzione della roccaforte resistente: i dubat occuparono Ceelbur il 21 dicembre149. Bechis e le sue bande riuscirono a sconfiggere la resistenza nell’area, che perdeva la sua base e, oltre alle uccisioni, subì molte defezioni in seguito all’operato dei combattenti somali, ma Samantar era ancora vivo e attivo, con un certo numero di uomini.

Nel gennaio 1926, Bechis venne a sapere che Samantar e 250 combattenti della resistenza si stavano ritirando, perché incalzati dalle truppe, in direzione dell’Ogaden. Il comandante delle bande inviò tempestivamente in quella direzione alcune centinaia di dubat, per tagliare la strada alla formazione di Samantar. I dubat avrebbero dovuto intercettare i resistenti, possibilmente, prima che uscissero dal territorio italiano. I semplici gregari, alcuni dei quali erano stati appena arruolati, vennero diretti da loro capi comandanti dubat e da alcuni graduati ascari150. I dubat intercettarono i resistenti in territorio etiopico, decisero di attaccarli e seguì un violento combattimento. Un gruppo, guidato da uno jusbasci, si impossessò di una mitragliatrice dei resistenti dopo aver eliminato il servente dell’arma. A quel punto, l’obiettivo dello jusbasci diventò la seconda mitragliatrice. Si trattava delle mitragliatrici Fiat che alcuni combattenti della resistenza avevano conquistato a Ceelbur. Alcuni dubat, da poco arruolati e privi di esperienza in combattimento, non seguirono però i comandi del graduato, ma spararono continuamente con la mitragliatrice appena conquistata151. Per errore, eliminarono lo jusbasci. Questo fatto li sconvolse e li portò a fermarsi, mentre i resistenti

147 Ivi, pp. 317-318 148 Nel testo non viene riportata la sorte delle persone che venivano consegnate dai capi ai dubat. Ivi, p. 318 149 Ivi, p. 319 150 Cimmaruta, Ual Ual, op. cit., pp. 24-25 151 Ivi, pp. 25-26

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contrattaccarono. Due graduati, nonostante le ferite riportate, riuscirono però a riprendere il controllo dei sottoposti, che respinsero l’urto dei guerriglieri, anche se non riuscirono a eliminare Samantar. I dubat combatterono fino all’esaurimento delle munizioni, in seguito si ritirarono con i loro feriti e raggiunsero il resto delle bande, nei dintorni di Buslei152 . Rimasero uccisi circa 50 dubat, compresa la maggior parte dei loro capi. Gli uomini di Samantar, pur essendo in maggior numero, subirono perdite molto pesanti. I dubat portarono con loro anche molto bestiame sottratto ai resistenti. Nonostante gli errori dei neo arruolati e il fallimento dell’obiettivo principale, che consisteva nell’eliminare Samantar o almeno impedirgli di raggiungere il territorio etiopico, il comportamento agguerrito dei dubat in quello scontro fu, per Cimmaruta, un elemento che favorì alcune popolazioni somale ancora incerte a sottomettersi agli italiani153 .

Su questo ultimo punto, è opportuno specificare che anche in un telegramma dal Ministero delle Colonie (firma non leggibile) al Ministero della Guerra viene sottolineato il supporto di alcune popolazioni ai dubat, che in certi casi appoggiavano attivamente le stesse bande di confine negli attacchi contro i combattenti154 .

Notizie sulle capacità combattive dei dubat, oltre ad essere presente in diversi testi, sono state riscontrate anche in alcuni documenti d’archivio.

In una località chiamata Ellindra, reparti di dubat si scontrarono, il 15 maggio 1926, con numerosi armati, affiliati Herzi Bogor155 . L’uomo era il figlio del sultano Majerteen Cismaan Mahmud, e diventò un importante leader della resistenza contro l’occupazione fascista della Somalia settentrionale156 . I dubat erano in 40 e, pur disponendo di una modesta quantità di munizioni, riuscirono a resistere contro 200 resistenti. Una volta esaurite le cartucce, i dubat iniziarono a lanciare sassi contro gli uomini di Bogor, fino all’arrivo di rinforzi. Registrarono 3 perdite e ricevettero un encomio solenne dal governatore157 .

152 Ivi, p. 26 153 Ivi, pp. 26-27 154 AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 13, fasc. 14, telegramma dal Ministero delle Colonie (firma non leggibile) al Ministero della Guerra, Roma, 3 agosto 1926 155 AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 13, fasc. 13, telegramma di De Vecchi al ministro delle colonie, Muqdisho, 17 maggio1926 156 Hess, Italian colonialism in Somalia, op. cit., p. 153 157 Le perdite subite dai resistenti vengono indicate come corrispondenti a 32 morti e 68 feriti, ma riguardavano anche altri scontri avvenuti nello stesso giorno e nella stessa area. Non viene quindi indicato il numero di uccisioni effettuate dai dubat che attesero i rinforzi impiegando i sassi. Cfr. AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 13, fasc. 13, telegramma di De Vecchi al ministro delle colonie, Muqdisho, 17 maggio1926 141

Un telegramma del 4 agosto riporta che, alla fine di luglio, 130 dubat, sotto il comando di un tenente italiano, intervennero tempestivamente contro somali del sultanato Majerteen che avevano razziato “nostri sottomessi”. I dubat agirono insieme a 50 ascari eritrei contro una forza più che doppia rispetto a loro. Si susseguirono due giorni di combattimenti duri, al termine dei quali i dubat e gli ascari riuscirono a travolgere la formazione avversaria, costringendola alla fuga. Morirono 2 dubat, mentre i feriti furono 18 dubat e un ascaro. Tra i guerriglieri, rimasero invece uccisi in 40158 .

Del Boca scrive che un episodio riguardante i dubat molto pubblicizzato in Italia fu una loro sconfitta, avvenuta nella località di Qardho. I fatti vennero strumentalizzati dalla propaganda fascista per divulgare l’idea che i dubat somali erano pronti a sacrificarsi per il Regno d’Italia

159 .

A Quardho, nella prima metà di agosto 1926, era stato posto un presidio di 62 dubat al comando di Ascier Mohamed, un buluk-basci. La località era in una posizione strategica particolarmente importante per contrastare le attività della resistenza provenienti dalle regioni settentrionali. Nella notte tra il 9 e il 10 settembre, dato che i rifornimenti attesi dai dubat erano in ritardo di alcuni giorni e i dubat stavano digiunando da 24 ore, Mohamed inviò 5 uomini lungo la strada di Chelliet, con la speranza che incontrassero la carovana dei rifornimenti e ne affrettassero la marcia160. Appena i 5 lasciarono il fortino, vennero però eliminati, con colpi di fucile, da forze combattenti guidate da Ali Arbi, fratello di Herzi Bogor, che si erano appostate nella boscaglia circostante. Gli oppositori, in forze molto più numerose dei dubat, circondarono il fortino. Questo era privo di feritoie, ed era perciò impossibile, per i combattenti delle bande di confine, fare fuoco rimanendo riparati al suo interno161. I dubat uscirono quindi tutti sugli spalti del fortino e, opponendo un fuoco preciso, attento al risparmio delle munizioni come sempre veniva ordinato loro, riuscirono a uccidere molti assalitori. Questi però, grazie al numero molto superiore, nonostante le perdite, avanzarono fino a occupare il fortino. Seguì allora un combattimento corpo a corpo, nel quale i dubat, ad eccezione di alcune fucilate a bruciapelo, fecero ricorso ai billao, ai calci del fucile

158 AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 13, fasc. 14, telegramma dal Ministero delle Colonie (firma non leggibile) al Ministero della Guerra, Roma, 3 agosto 1926 159 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. II: La conquista dell’impero, op. cit., p. 62 160 Non è chiaro se i dubat dovevano portare loro i rifornimenti, perché più celeri della carovana, o se dovessero incitare la stessa carovana ad affrettarsi, dato il bisogno di viveri e acqua nel presidio. Pomilio, Un giornalista all'equatore : note di viaggio di 8000 km. attraverso la Somalia italiana, op. cit., pp. 109-110 161 Ivi, pp. 110-111

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e a pietre che staccavano dal fortino stesso. Il combattimento si concluse con l’uccisione di tutti i dubat, ad eccezione di 3, che si finsero morti in mezzo ai cadaveri dei loro compagni. I resistenti, dopo aver contato i loro morti, si riposarono162. Nel corso della notte, i 3 dubat sopravvissuti scapparono e raggiunsero il Comando Bande, che era stato spostato a Callis. Dissero che i loro compagni avevano mantenuto il giuramento prestato al Regno d’Italia, combattendo fino alla morte. Nel 1932, il sottosegretario al Ministero delle Colonie Alessandro Lessona fece erigere sul luogo una lapide, sulla quale era scritto che 59 dei 62 dubat si sacrificarono contro “soverchianti forze nemiche” per l’Italia163. Il paragrafo specifico di questo lavoro riguardante la percezione dei dubat da parte dei fascisti, e il modo che essi avevano di considerare e descrivere questi combattenti, concluderà il prossimo capitolo. Va anticipato che i fatti di Qardho vennero trattati come una sorta di Termopili dei dubat: quella che, pur non pregiudicando l’esito della campagna contro i sultanati settentrionali, era comunque una sconfitta, veniva qui celebrata perché considerata un sacrificio verso i colonizzatori, con un culto della morte particolarmente radicato nell’ideale fascista.

Dopo la fine delle operazioni in Somalia settentrionale e la dissoluzione dei sultanati, De Vecchi decise di continuare la sua lotta contro i somali che avevano deciso di opporsi all’occupazione fascista dei loro territori, e che erano riusciti a fuggire in territorio etiopico. Tutti questi uomini si erano concentrati a Gorrahei, ed erano diretti da alcuni importanti capi, come i precedentemente citati Samantar e Bogor. I resistenti in esilio avevano deciso di mettere da parte le rivalità precedenti, presenti sia a livello clanico che tra i due disciolti sultanati, per continuare una lotta comune contro gli occupanti fascisti. Il governatore, deciso a eliminare questa minaccia, sapeva che la roccaforte ribelle era troppo all’interno della regione etiopica dell’Ogaden per inviare truppe regolari comandate da ufficiali italiani. Inoltre, nel 1927, l’impero etiopico stava elaborando con l’Italia un patto d’amicizia. Per questa ragione, ricorse nuovamente ai dubat, che non facevano parte dell’esercito regolare,

162 Ivi, pp. 111-112 163 Ivi, pp. 112-114 Le fonti coloniali celebrano l’inferiorità numerica dei dubat che spesso caratterizzò gli scontri tra questi e i somali oppositori. Bisogna però sottolineare che i resistenti, trattati dalle fonti fasciste come terroristi, lottarono contro un nemico molto più potente, dotato di aerei, navi da guerra e artiglieria, mentre loro disponevano essenzialmente di fucili e, in pochi casi, di mitragliatrici fisse co nquistate alle truppe somale che combattevano per gli italiani. La disparità numerica era quindi effettiva a livello dei singoli scontri tra forti nuclei della resistenza e avamposti isolati di dubat, ma non rifletteva il complessivo quadro del conflitto. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. II: La conquista dell’impero, op. cit., p. 62 143

per effettuare un raid, alla fine del 1927164. I resistenti accampati disponevano ancora, all’interno del loro arsenale, delle due mitragliatrici Fiat sottratte agli ascari a Ceelbur. Vennero organizzati 400 dubat, con comando al capo Uarsama Botan. Partirono da Olassam e, dopo 4 giorni e una marcia di 350 chilometri, raggiunsero Gorrahei. Trovato il campo ribelle, i dubat attesero la notte per circondarlo. Occuparono i pozzi circostanti e un fortino, rimanendo immobili e in silenzio fino all’alba, quando aprirono il fuoco contro i resistenti accampati165. Gli uomini assaliti reagirono anche con le mitragliatrici, che costituivano per i dubat il pericolo principale e, di conseguenza, il primo obiettivo. Duecento dubat si gettarono contro queste armi per cercare di conquistarle, mentre l’altra metà, a sua volta divisa in due gruppi, si pose l’obiettivo di prendere Samantar, vivo o morto. I dubat riuscirono a ottenere le mitragliatrici, ma non catturarono Samantar, che fuggì nella boscaglia. All’alba del 28 novembre, dopo aver preso il bestiame dei combattenti presente nel campo, i dubat si avviarono verso la colonia. Dopo due giorni di marcia, si accamparono presso Scillave, anche per far riposare i loro feriti166. Nella notte, Herzi Bogor li attaccò con 600 uomini. Nel corso del combattimento notturno, da parte di entrambi gli schieramenti era molto difficile riconoscere i compagni dai nemici. Nella stessa notte venne ucciso il comandante dei dubat Botan. Con il giorno, i resistenti affrontarono in massa i dubat serventi delle mitragliatrici precedentemente sottratte a Gorrahei, che utilizzarono i numerosi corpi dei compagni morti intorno alle armi per proteggersi. I combattenti della resistenza non riuscirono a conquistare le due armi e, dopo molte perdite, si ritirarono167. I dubat continuarono a colpirli anche nel corso della ritirata. Il massacro di nemici ormai in fuga viene rivendicato nel testo di De Vecchi: i dubat, con “impeto guerriero”, inseguirono “i nemici in rotta trucidando quanti di loro furono incontrati”. I dubat riportarono le mitragliatrici Fiat che non erano riusciti a riconquistare circa due anni prima a Scillave, insieme ad altre armi nemiche e una importante quantità di bestiame. Nel raid di Gorrahei, morirono 108 dubat e 320 combattenti della resistenza somala168 .

164 Non è chiaro il motivo che rendeva, per gli italiani, meno rischioso usare gli irregolari dubat rispetto all’esercito. I combattenti somali erano infatti comunque dotati di un vestiario uniforme e ben riconoscibile. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. II: La conquista dell’impero, op. cit., p. 62 165 De Vecchi Di Val Cismon, Orizzonti d’impero. Cinque anni in Somalia, op. cit., pp. 276-277 166 Ivi, pp. 277-278 167 Ivi, pp. 278-279 168 Le mitragliatrici, considerate un trofeo molto importante dai dubat, vennero donate da De Vecchi al Comando Bande di Bechis. In seguito, una di queste armi venne regalata dal ministro delle colonie a De Vecchi. Herzi Bogor, nel 1929 morì di vaiolo in Etiopia, mentre Samantar sopravvisse, per prendere poi parte al con flitto italoetiopico in difesa del paese dove aveva trovato rifugio, sopravvivendovi. Cfr. De Vecchi Di Val Cismon, 144

Dopo la conquista dei sultanati, gli italiani impiegarono i dubat, in quei territori appena conquistati, anche per compiti molto diversi dalla vigilanza dei confini. Ai combattenti, insieme ad alcuni ascari, venne infatti affidata una serie di costruzioni di strade e fortini, oltre allo scavo di alcuni pozzi. I dubat sono descritti come uomini appartenenti a clan che vedevano negativamente il lavoro della terra e ogni attività che fosse estranea alla guerra, al commercio e alla pastorizia. Nonostante questo, grazie all’importanza che davano ai loro ufficiali e alle direttive di questi, si abituarono anche a impieghi faticosi e per loro sconosciuti e disprezzati fino a quel momento169. Fornirono un contributo importante anche in questo campo, costruendo delle piste camionabili. La strada più importante realizzata dai dubat collegava Beledweyne, sullo Shabelle, a Bender Cassim, sul golfo di Aden. I dubat si occupavano anche della manutenzione stradale. Dopo la stagione delle piogge, piccoli gruppi di dubat lasciavano i posti banda e le attività di ricognizione lungo i confini per togliere sassi eventualmente franati, che costituivano un ostacolo lungo i percorsi, riempire buche e scavare trincee ai lati della strada, per far defluire l’acqua170. Diretti dagli ufficiali, in questo stesso periodo costruirono dei fortini, ricavando la pietra dalle montagne e imparando a lavorare con il cemento. Infine, realizzarono dei pozzi, che in Somalia erano molto scarsi. Li scavarono dentro i fortini, nella boscaglia e nei luoghi più aridi. Il compito era particolarmente gravoso, anche perché avveniva spesso che i somali scavassero decine di metri senza trovare le falde acquifere. Dovevano quindi interrompere, dopo aver sacrificato tempo e fatica inutilmente, e ricominciare altrove.

Dopo che ultimavano queste tipologie di lavori, tornavano ai loro compiti tradizionali171 .

Si è cercato, con questo paragrafo, di affrontare il consistente contributo dei dubat nella conquista della Somalia settentrionale, che portò alla fine dei sultanati. Questa campagna, scatenata, diretta e voluta da De Vecchi e Mussolini, fu condotta da truppe composte, per la maggior parte, da somali, contro altri somali, come indicato nel testo di Del Boca, che definisce il conflitto come fratricida. Tra i somali, i dubat furono i combattenti più impiegati e che subirono più perdite.

Orizzonti d’impero. Cinque anni in Somalia, op. cit., p. 280; Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. II: La conquista dell’impero, op. cit., p. 63 169 Cimmaruta, Ual Ual, op. cit., pp. 35-36 170 Ivi, pp. 39-40 171 Ivi, pp. 40-41

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