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1.3 Dai bashi-buzuk agli ascari eritrei. Le truppe della prima colonia italiana
fecero massiccio utilizzo di armati africani e arabi, di varie provenienze. Questo lavoro si propone di trattare sia le formazioni che furono costituite in Somalia, sia quelle che furono utilizzate in Somalia, anche se formate in altri territori. Il paragrafo successivo si sposterà quindi in Eritrea alcuni anni prima al 1889, per la precisione durante lo sbarco a Massawa del colonnello Tancredi Saletta, avvenuto nel febbraio del 1885. Da quel momento, attraverso la regolarizzazione di formazioni irregolari preesistenti all’arrivo degli italiani, gli ufficiali costituirono i reparti di ascari eritrei. Trattare queste formazioni non solo è necessario per diverse ragioni. Da un lato esse operarono in Somalia dall’inizio della colonizzazione italiana, a partire quindi dall’ultimo decennio dell’Ottocento82. Contribuirono quindi alle campagne di espansione coloniale in Somalia, ma non solo83. Esse costituirono anche, nonostante importanti differenze, un riferimento per la successiva formazione di reparti di ascari reclutati localmente nei territori dell’Oceano Indiano, composti con personale arabo-somalo. La regolarizzazione e il riordino degli ascari avvenne in tempi diversi in Eritrea (1889) e in Somalia(1905)84 . L’intreccio tra le due esperienze si riflette molto sullo studio delle fonti. Alcuni testi consultati che trattano gli ascari arabo-somali fanno diversi riferimenti e confronti con quelli eritrei, ad esempio per quanto riguarda il sistema e i nomi dei gradi e i regolamenti che li disciplinavano85. Come si vedrà nei successivi paragrafi, anche dopo la costituzione di reparti arabo-somali, gli eritrei vennero comunque impiegati in Somalia86. La loro storia si intrecciò quindi in vari modi anche con quella della Somalia coloniale e, in particolare, con quella delle sue truppe locali. Nel paragrafo seguente verranno tratti solo i primi anni della loro storia, una storia che accompagnò tutto il colonialismo italiano. Di questi primi anni si tratteranno soprattutto le caratteristiche che più contraddistinsero questi reparti, concentrando meno l’attenzione sui fatti bellici che li videro protagonisti in Eritrea, Etiopia e altre realtà, perché allontanerebbe di troppo l’elaborato dai suoi argomenti principali. Lo scopo è quello di presentare questi armati in vista del quarto paragrafo e dei prossimi capitoli che, tornando all’Oceano Indiano, tratteranno le vicende dei reparti eritrei in Somalia e dei reparti arabo-
82Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 37 83 Gli ascari eritrei non contribuirono unicamente all’espansione coloniale italiana in Somalia, ma furono impiegati anche in Libia e in Etiopia. Cfr. Alessandro Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, Milano, F. Angeli, 2005, p. 30 84 Massimo Zaccaria, Anch’io per la tua bandiera. Il V battaglione ascari in missione sul fronte libico (1912),Ravenna, Pozzi, 2012, p. 19 85 Cfr. Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, op. cit., pp. 96-97 86Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, p. 42 25
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somali regolarizzati sulla base delle esperienze eritree. Si può infine anticipare che tutti i soldati colonizzati furono accomunati anche da percezioni, raffigurazioni e trattamenti che i colonialisti italiani riservarono loro, figlie di una ideologia impregnata di paternalismo e di razzismo.
1.3 Dai bashi-buzuk agli ascari eritrei. Le truppe della prima colonia italiana
Il 5 febbraio del 1885, il colonnello Tancredi Saletta sbarcò a Massawa con 800 soldati italiani87. Nel gennaio di quell’anno furono imbarcati un battaglione dei bersaglieri, una compagnia di artiglieria e un plotone del genio88. Il giorno 20 del mese, solo dopo aver attraversato il Canale di Suez con i suoi uomini, l’ufficiale apprese che la destinazione, ignota fino a quel momento, era Massawa. Il Regno d’Italia aveva avuto “debite autorizzazioni” dalla Gran Bretagna. Nel Corno d’Africa cominciavano ad agire i francesi e gli egiziani, alleati dei britannici e “nominalmente sotto la sovranità” del decadente Impero ottomano, avevano difficoltà a “reggere il ruolo di protagonista”89. La potenza militare egiziana era messa a dura prova anche a causa delle relazioni anglo-etiopiche: pochi mesi prima, un trattato firmato con gli etiopici dall’ammiraglio Hewett aveva riportato “il territorio dei Bogos” al dominio dell’imperatore d’Etiopia YohannesIV90. Dal Sudan si era sviluppato un movimento fondamentalista, guidato da un leader chiamato Mahdi, che aveva ottenuto ampio consenso. L’obiettivo di questo movimento era combattere contro il colonialismo britannico e ottomano, fino alla sconfitta di Costantinopoli91. I miliziani mahdisti avevano attaccato e procurato perdite consistenti agli egiziani e ai britannici. Per questi era quindi positivo l’arrivo di “un nuovo alleato come l’Italia, che si potrà comunque tenere con la briglia corta e utilizzare, di volta in volta, per neutralizzare avversari, indigeni ed europei, troppo intraprendenti”92. Le uniche proteste provennero dai turchi, le cui minacce vennero attenuate
87Ivi, p. 3 Il numero dei soldati coinvolti nello sbarco è lo stesso indicato da Domenico Quirico, ma differisce da quello che riportò Del Boca, che corrispondeva a 1200 uomini. Cfr. Domenico Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, Milano, Mondadori, 2002, p. 21; Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 231 . 88 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 22 89 Ivi, p. 23 90Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 3 91 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 23 92 Ibidem
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dai buoni uffici britannici e dalle rassicurazioni, da parte italiana, che la sovranità ottomana su quelle coste del Mar Rosso sarebbe rimasta impregiudicata93. Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, quindi poco prima di giungere a Massawa, Saletta incontrò il colonnello egiziano Chermisde nel porto anglo-egiziano di Suakin. Saletta fece qui, grazie all’egiziano, un “corso accelerato” su Massawa, ottenendo informazioni tecniche e tattiche, dalla topografia della città alla pericolosa scarsezza di acqua. L’acqua veniva distribuita nella città da un commerciante arabo, che la trasportava in otri. Durante questi colloqui con Chermisde, Saletta sentì parlare per la prima volta dei reparti irregolari aggregati all’esercito egiziano. Chermisde li chiamò bashi-buzuk, termine traducibile dal turco con “teste sventate” o “zucche vuote”. L’ufficiale egiziano li descrisse come “plebaglia”, poco pagata e avida di “bustarelle”94. I loro
compiti principali, oltre alle esazioni delle imposte, consistevano nella scorta alle carovane e nella sorveglianza delle linee telegrafiche95. Si caratterizzavano per un abbigliamento eterogeneo e vistoso, molto distante da quello di una truppa regolare. Venivano reclutati in tutto l’impero ottomano e destinati a compiti di polizia, che spesso sconfinavano in episodi di razzia, mentre le partecipazioni alle operazioni belliche erano più rare96. Il reclutamento avveniva per mezzo di capi villaggio, chiamati naib, che, una volta radunati gli armati, si presentavano ai comandi dell’esercito regolare proponendo di partecipare con il loro contingente e assumere un grado proporzionale al numero degli armati di cui disponevano97 . Domenico Quirico, con uno stile molto pungente, parla dell’arruolamento come di un “contratto mercenario di tipo medievale”, accostabile alle compagnie di ventura europee, e dei capi come di “boss locali” provvisti di spirito imprenditoriale. Questi li vedevano come una sorta di armata al loro personale servizio, dei miliziani utili per esazioni, traffici illegali, che erano tenuti sotto controllo grazie alla licenza di saccheggio e con l’uso continuo del “bastone”98. Un bashi-buzuk poteva lasciare il reparto con una semplice domanda e il suo capo lo poteva licenziare senza riserva, anche se questo accadeva raramente: i capi erano
93Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 3 94Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 23-24 95Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 5 96 Ivi, p. 26 L’occupazione di Massawa avvenne senza sparare un colpo e in poche ore. Cfr. Ivi, p. 27 97Marco Scardigli, Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea 1885-1911, Milano, Franco Angeli, 1996, p.13 98Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 30-31 Può essere opportuno segnalare che il lavoro dettagliatissimo e curato del giornalista Domenico Quirico presenta termini come “capotribù” e, in casi come questo, descrive in termini molto dispregiativi alcune realtà dei colonizzati e precedenti alla colonizzazione. Dato che il lavoro è continuamente contrassegnato da una condanna del colonialismo, del fascismo e del razzismo, è possibile che l’autore abbia scelto di utilizzare un lessico in linea con l’epoca coloniale (anche fuori dalle citazioni) per immedesimare maggiormente il lettore su quel periodo storico.
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infatti pagati per mantenere il comando anche in base al numero di armati e, di conseguenza, a volte ricorrevano anche al trucco di lasciare nel libro paga gli uomini deceduti e invalidi99. Gli irregolari erano organizzati in reggimenti di 500 uomini, chiamati ortù100, a loro volta divisi in compagnie di 100 uomini101, comandate da uno sciumbasci, 102 detto anche jusbasci o bimbasci, 103e in buluk (plotoni), comandati da un bulukbasci. Lo sciumbasci o jusbasci era un grado accostabile a quello di sergente, il bulukbasci era invece accostabile a quello di caporale104. Come si vedrà, gran parte di questi termini turchi sopravvissero durante il colonialismo italiano105. La paga data loro dal governo egiziano, che era l’equivalente di 40 lire mensili, li rendeva “quasi benestanti”
106 .
Il testo di Quirico descrive quindi dei reparti irregolari, che avevano funzione ausiliaria dell’esercito egiziano. Tali uomini, pur essendo stipendiati dal governo egiziano, venivano reclutati e comandati da capi locali, che a loro volta si presentavano agli ufficiali egiziani per prestare i loro servizi, insieme a quelli dei loro armati, dietro compenso. Le forze egiziane presentavano quindi una unione tra truppe regolari e armate private locali, ma al servizio degli stessi egiziani.
Nei mesi successivi, Saletta e i suoi bersaglieri dovettero affrontare diversi problemi, tra questi: il clima torrido impediva l’utilizzo di baracche, che diventavano troppo calde, e imponeva di importare dall’India un legno abbastanza resistente al caldo, dato che i legni italiani erano inidonei; gli italiani dovevano cimentarsi in lezioni di arabo, per evitare di doversi affidare a interpreti che spesso svolgevano azioni di spionaggio per conto degli etiopici e degli egiziani. Su questo ultimo punto, nonostante il testo di Quirico riporti che le lezioni avrebbero potuto consentire di fare a meno degli interpreti, dato il tempo necessario per padroneggiare l’arabo, che richiede diversi anni, sarebbe stato impossibile, almeno nel
99 Ivi, p. 31 100 Ibidem 101Scardigli, Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea 1885-1911, op. cit., p.13 102Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 31 103Scardigli, Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea 1885-1911, op. cit., p. 13 104Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 31 105Scardigli, Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea 1885-1911, op. cit., p. 13 106 Un soldato italiano guadagnava invece 26 lire al giorno. Quirico motiva la condizione economica agiata degli irregolari, nonostante una paga tanto modesta, con il fatto che la società in cui vivevano era “in pratica ancora dedita al baratto e appena sfiorata da un’economia monetaria”. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 31
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breve periodo, agire in colonia senza il supporto degli interpreti107. Per risolvere il problema della carenza di acqua e fronteggiare le prime razzie etiopiche, gli italiani cominciarono ad espandere la loro azione verso villaggi limitrofi, come Saati. L’allargamento della zona da controllare e il conseguente bisogno di assicurare la sicurezza del territorio da qualunque sorpresa, impose l’invio di altri soldati dall’Italia e spinse Saletta ad integrarli con alcune bande indigene, composte dalle popolazioni Habab e con i bashi-buzuk108. Questa ultima scelta fu possibile anche perché gli egiziani, preoccupati sempre maggiormente dall’avanzata dei miliziani del Mahdi, ritirarono frettolosamente i loro presidi verso le zone più interne della regione. Gli irregolari si trovavano in tal modo disoccupati e potenzialmente predisposti a diventare un ulteriore problema per gli italiani. Pur sapendo delle loro scarse qualità, da Saletta ammesse nelle comunicazioni con il ministero, l’ufficiale trovava particolarmente importanti alcune loro caratteristiche: la conoscenza della lingua araba e amarica, la resistenza al caldo, la “capacità di vivere con poco” e la conoscenza del territorio. Oltre a risparmiare i soldati italiani da determinati oneri e pericoli, potevano quindi essere efficaci come guide, esploratori e interpreti109. Il colonnello italiano, diffidando di questi elementi, iniziò con un esperimento e ingaggiò solo 100 di loro, affidandone il comando ad un albanese di Janina di nome Aga Osman 110. Erano armati con fucili Remington, stessa arma adoperata al servizio degli egiziani. Questi fucili erano caratterizzati da robustezza e adatti a quei territori che gli italiani si apprestavano a colonizzare, dove la tecnologia bellica era in profittevole (per gli europei) ritardo”111. A maggio parteciparono ad una ricognizione verso una montagna non specificata. Metà di loro si lasciò disarmare dalla popolazione, non oppose resistenza e defezionò112. Il colonnello non rinunciò però al loro utilizzo. Organizzò una commissione composta da due ufficiali italiani e da Aga Osman al fine di colmare i vuoti della defezione con elementi scelti più accuratamente, mai fuori dai confini113. In questo periodo venne creato un altro corpo che, come gli ascari, fu successivamente costituito anche in Somalia. Si trattava
107 Ivi, pp. 29-30 108Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., pp. 3-4 109Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 30-31 110Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 4
111Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 32 112Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 4 113 Ibidem Nello stesso periodo, coltivava i rapporti con le popolazioni musulmane del bassopiano, gli Habab e i Beni Hamer, particolarmente avversi agli etiopici a causa delle razzie di questi ultimi. Si presentarono al comando italiano anche predoni e capi etiopici che avevano disertato, e quindi ricercati. Da questi contatti nacquero le prime bande, che fino al crollo dell’Africa Orientale Italiana affiancarono le truppe regolari degli ascari. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 38 29
dei carabinieri locali, chiamati zaptiè. Una parte dei bashi-buzuk, quella composta dai più anziani e chiamata orda interna, era adoperata per presidiare Massawa e zone vicine. Come aveva spiegato Saletta nelle comunicazioni con l’Italia, i carabinieri italiani avevano grossi limiti nell’espletare le loro funzioni di pubblica sicurezza nella colonia in espansione. I problemi erano analoghi a quelli dei soldati, che spinsero all’ingaggio degli irregolari al servizio ottomano: ignoranza delle lingue, poca resistenza al clima. Da questi irregolari dediti alla sicurezza interna, si decise quindi di creare dei reparti di carabinieri locali. Questi uomini erano pagati 45 lire al mese e, tra i primi compiti, si occuparono di contrastare alcuni problemi derivanti dalla prostituzione nella città di Massawa. I centri utilizzati per la prostituzione si erano infatti moltiplicati, con l’arrivo degli europei, e gli zaptiè dovevano allontanare donne che soffrivano (o sospettate) di mali venerei, per evitare i contagi tra le truppe114 .
In novembre, il generale Carlo Genè sostituì Saletta al comando e in dicembre gli egiziani abbandonarono definitivamente Massawa e le zone limitrofe imbarcandosi per l’Egitto. Quasi tutti gli irregolari rimasero e passarono al servizio del Regno d’Italia115. Genè ordinò un
censimento dei bashi-buzuk, che risultarono un migliaio. Si intensificò il dibattito sulla riorganizzazione116 . Nell’aprile del 1886, il ministero della Guerra117, seguendo l’esempio di altre potenze coloniali, propose per la prima volta di porli sotto il comando di ufficiali italiani. Questi ne avrebbero garantito un buon inquadramento tattico e la disciplina. I soldati italiani sarebbero stati adoperati per compiti più complessi rispetto alla scorta alle carovane e il servizio di guardia alle porte della città118. Genè si dichiarò però contrario a questa soluzione. Gli ufficiali italiani non conoscevano l’arabo, il tigrino e le lingue del bassopiano. Era inoltre difficile, per il generale, che un ufficiale lasciasse il suo reggimento per porsi al comando di una banda considerata “brigantesca”, perché composta da mercenari stranieri, e vista come sicuramente meno prestigiosa di un reggimento italiano, nella mentalità degli ufficiali di quel periodo119. Inoltre, un passaggio di comando dai capi locali agli ufficiali italiani avrebbe comportato la perdita, almeno parzialmente, di quella “meravigliosa mobilità”120. Il generale,
114Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 39 115Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 5
116Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 39 117Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 5 118Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 40-41 119 Ivi, p. 41 120Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 5 30
per scoraggiare le “velleità ministeriali”, scrisse che questi uomini percorrevano con estrema facilità dai 50 ai 60 chilometri a piedi, al seguito dei loro capi a cavallo. Non essendo gli italiani adatti a simili situazioni, la mobilità ne sarebbe risultata compromessa121. Vennero modificati l’armamento e il munizionamento, con dotazioni di moschetti Vetterli abbrunati senza baionetta e la consegna di cartuccere a nastro da portare alla cintola. Dato il grande numero di bashi-buzuk, pur confermando i capi locali, gli italiani nominarono un comandante supremo, che elevasse di fronte ai combattenti locali il prestigio italiano. Venne scelto il colonnello Begni, conoscitore dell’Egitto e delle sue forze armate, delle popolazioni costiere del Mar Rosso e della lingua araba122. Gli irregolari migliorarono in questi anni il loro rendimento in campo, e vennero usati contro guerriglieri e banditi nell’area123. Si distinsero particolarmente il 25 gennaio del 1887, quando un gruppo di 500-600 etiopici, guidati da Ras Alula “decide di iniziare la guerra tra Italia ed Etiopia”124. Questo scontro avvenne in seguito all’occupazione di Uaà da parte italiana : gli irregolari combatterono insieme a due compagnie italiane, e non si sbandarono nel corso degli scontri125. Il giorno successivo, avvenne però l’annientamento di una colonna italiana inviata in soccorso dei reparti a Saati, da parte etiopica. I testi di Quirico e Scardigli descrivono nel dettaglio questo episodio, che fu molto traumatico per gli italiani. La sconfitta e l’uccisione di tanti soldati, per mano di un contingente africano, rappresentò un grande colpo per il nascente colonialismo italiano126 . Questa sconfitta, dovuta anche a una sottovalutazione italiana del nemico, venne attribuita da alcuni ufficiali unicamente ai bashi-buzuk. Gli irregolari, avendo terminato le munizioni, le chiesero a un tenente italiano. L’ufficiale rispose loro che, data la conoscenza dei luoghi, potevano scappare, perché non disponeva di munizioni per loro. Dopo questa sconfitta, una commissione arrivò a concludere che i bashi-buzuk erano “alieni da una resistenza estrema quale seppero perpetrare i nostri, che il fatto della fuga fosse loro il più naturale del mondo”. Si cercò di coprire le colpe italiane scaricandole sui primi reparti coloniali che l’esercito
121Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p.41 122 Il nome del colonnello Begni non viene riferito.Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 5 123 Ivi, p. 6 124Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p.43 La parola “Ras” indicava un titolo nobiliare, politico e militare nella società etiopica. Si trattava di un governatore di una regione, con un grado accostabile a quello di generale. Cfr. Dominioni Matteo, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Roma-Bari, Laterza, 2008, GLOSSARIO
125Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 6 126 Cfr.Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 44- 48; Scardigli, Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea 1885-1911, op. cit., pp. 25-26 31
aveva cominciato ad impiegare127. Le formazioni vennero modificate con l’arrivo del generale Di San Marzano. Gli irregolari più giovani dell’orda esterna furono divisi in due specie di battaglioni, di nome halai, ognuno dei quali era diviso in tre tabur che, a loro volta, si dividevano in mezzi tabur. Il comando dei mezzi tabur rimase agli jusbasci, ma, per la prima volta, il comando di quattro tabur passò ad ufficiali italiani128 . Nell’aprile del1888 arrivò in colonia il generale Antonio Baldissera, che avviò una profonda riforma atta alla regolarizzazione dei reparti. Propose un progettodi riforma il 3 maggio del 1888 al ministro della Guerra. Egli vedeva i combattenti locali come “docili, devoti” ai capi e “amanti” della guerra 129. Era invece urgente risolvere il problema degli ufficiali e dei sottufficiali italiani: i reclutamenti sarebbero dovuti andare verso i migliori elementi, uomini che vedevano l’esperienza coloniale come una opportunità di vita e di carriera, disposti ad imparare l’arabo e remunerati maggiormente degli altri militari130. Con Baldissera si intensificarono i pregiudizi nei confronti delle popolazioni africane e, di conseguenza, la classificazione delle stesse, anche negli arruolamenti e all’interno dei reparti. Gli ufficiali italiani dividevano i popoli in “razze imbelli e guerriere”, dando alle seconde una “moderata approvazione razziale”. Consideravano come migliori combattenti gli assaortini e i sudanesi, mentre gli etiopici e gli Habab erano visti come dotati di una minore combattività e per questo indicati per compiti come l’esplorazione131. Impose in questo contesto multietnico “il suo metodo che segnerà tutta la storia degli ascari”132. Questo sarà particolarmente evidente ed esplicitato, come si vedrà nel prossimo paragrafo, in alcuni scritti sull’impiego degli eritrei in Somalia. Egli decise di comporre le unità più piccole, i buluk, con personale omogeneo per quanto riguardava etnia, religione, lingua e, se possibile, villaggio di provenienza133. Il fine era quello di sfruttare i profondi legami tra colonizzati. I buluk venivano però mescolati i battaglioni halai, a loro volta divisi in tre tabur, per impedire che “forti unità orizzontali creino vincoli pericolosi e spezzino la catena del comando134”. Tutti i reparti superiori al buluk vennero
127 Cfr.Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 46-47 128Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 6 129Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 58Punti di vista e conseguenti aggettivi come questi attraversarono tutto il colonialismo italiano, anche in Somalia e in epoca fascista, come si dirà nei capitoli sui dubat somali. 130 Ivi, pp.58-59 131 Ivi, p. 58 132 Ibidem 133 Ibidem 134 Ibidem L’articolo di Cesari parla invece di 4 tabur, ognuna delle quali era divisa in 2 nustabur.. Ogni nustabur si divideva in 4 buluk. Cfr. Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 10
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affidati al comando di ufficiali italiani, che erano tutti montati135. Le reclute comprendevano popolazioni e religioni molto diverse, dai copti ai musulmani agli animisti, spesso “nemicissimi tra loro136”. La classificazione colonialista era particolarmente sottolineata nella costituzione dei reparti di artiglieri. Venivano scelti i sudanesi, sia perché ritenuti, secondo le categorie razziali del tempo, da un punto di vista fisico, particolarmente forti e adatti allo scopo, sia perché era visto opportuno affidare i cannoni, armi particolarmente preziose, delicate e difficilmente sostituibili, ad una “stirpe ancor più estranea ed ostile a quella abissina”137. Questa scelta trovò alcune opposizioni e scetticismi. Il futuro governatore dell’Eritrea Ferdinando Martini, pur ammettendo le qualità dei sudanesi come soldati, affermò che non bisognava dotarli di cannoni. Martini considerava l’artiglieria europea come l’equipaggiamento che, più di ogni altro, influiva sul vantaggio di cui godevano gli europei contro gli africani, che, anche nei casi in cui riuscirono a procurarsela, secondo Martini si dimostravano incapaci di adoperarla. Un addestramento in tal senso era per lui imprudente e poteva procurare danni alle forze italiane138. Il progetto di Baldissera stabiliva che l’arruolamento doveva riguardare esclusivamente dei volontari, di età compresa tra i 16 e i 30 anni. Il comandante superiore era coadiuvato, per l’arruolamento, da una commissione formata da un ufficiale superiore, un ufficiale dei carabinieri, due ufficiali medici e un “notabile(sceicco, naib) della tribù cui appartiene il volontario, che constati l’identità del richiedente e risponda della idoneità morale”139. Nel documento, Baldissera adoperò, per la prima volta nel contesto coloniale italiano, la parola “ascari”140. Questo termine, di origine
araba141, identificò da allora i “soldati indigeni della Colonie”142. Lo stesso termine, la parola
135Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 10 136Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 60 137Gli etiopici erano accettati, ma rispetto ai sudanesi, agli eritrei, agli habab e ad altre popolazioni eranoi menoapprezzati.Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., pp. 96-97 138Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 65-66 139La data del progetto non è indicata, le pagine del documento citate seguono una pagina intitolata “Progetto Baldissera per il riordinamento degli Irregolari”. Questa pagina iniziale è preceduta da documenti datati 1888, l’ultimo dei quali del 9 novembre. Cfr. Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, Fondo L7-Eritrea, busta 88, fascicolo 12 (documenti digitalizzati per il Progetto Ascari, da qui in poi ProgAsc, realizzato dal Prof. Alessandro Volterra) 140 Ibidem Nel testo di Scardigli è riportato che gli arruolati dopo il progetto vennero denominati “ascari” per la prima volta; Quirico, poco prima di introdurre Baldissera e il suo progetto, scrisse che i bashi-buzuk erano prossimi “ad andare in soffitta. È Giunto il tempo degli ascari”. Cfr. Scardigli, Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea 1955-1911, op.cit., p.45; Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 54 141 Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’Impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005, p. 41
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“askari”, venne usato anche per alcune truppe composte da africani reclutati nelle colonie tedesche. Questi armati, nel periodo preso in esame in questo capitolo, corrispondente quindi alla fine del XIXᵒ secolo, avevano il ruolo, particolarmente importante, di scortare le carovane per proteggerle dagli attacchi dei predoni e per mantenere l’ordine tra le centinaia o migliaia di portatori che componevano la stessa carovana. Gli askari presenti nella carovana erano, solitamente, in un rapporto di 1 a 10 rispetto ai portatori143. Anche questi armati portavano un carico, più leggero di quello dei portatori e, come i portatori, erano retribuiti e ricevevano il posho, consistente nella quantità di viveri giornaliera o, in alternativa, nella quantità di stoffe o perle sufficienti per l’acquisto dei viveri. Il reclutamento degli askari coinvolgeva solitamente gli abitanti liberi della costa, detti wangwana. Il termine, generalmente usato per identificare gli uomini liberi, anche se più correttamente verrebbe tradotto con la parole “gentiluomo”, nell’ Ottocento non indicava una condizione sociale, ma collegava l’individuo a una provenienza costiera o urbana, vista in contrapposizione agli abitanti dell’interno, detti washenzi e considerati non civilizzati144. Tornando al contesto italiano, il progetto di Baldissera venne approvato, ma modificato in alcuni passaggi, come l’obbligo di arruolare unicamente volontari celibi145. Inoltre, la costituzione di reparti di esploratori misti tra italiani e africani e l’affiancamento di un ufficiale africano e un sottufficiale italiano al comandante di
compagnia nella gestione delle due mezze compagnie, furono altre proposte che non passarono. Questi ultimi punti erano particolarmente rivoluzionari per l’epoca, non solo per l’Eritrea. Con il progetto integrale si sarebbe arrivato a “mescolare bianchi e neri, colonizzati e colonizzatori” e “un bianco si sarebbe trovato a dipendere gerarchicamente da un nero! Improponibile eresia per la mentalità dell’epoca[…], non soltanto per l’esercito italiano ma per qualsiasi esercito del mondo”146. I gradi degli ascari eritrei, modificati parzialmente da quelli degli irregolari al servizio degli egiziani, diventarono i seguenti: ascaro (soldato),
142Hidalgo Stefano, Undici mesi a Cassala : 17 maggio 1895-18 aprile 1896, Torino : Tipografia Olivero, 1910, p. 4
143 Karin Pallaver, Un’altra Zanzibar. Schiavitù, colonialismo e urbanizzazione a Tabora (1840-1916), Milano, Franco Angeli, 2010, pp.49-50 144 Ibidem Per la storia e il ruolo dei portatori Cfr. Karin Pallaver , “L’incresciosa questione dei portatori: mobilità dei lavoratori e politiche coloniali nell’Africa Orientale Tedesca (1890-1916)” in Isabella Rosoni, Uoldelul Chelati Dirar (a cura di), Votare coi piedi. La mobilità sociale degli individui nell’Africa coloniale italiana, Macerata, Eum Storia Istituzioni, 2012, pp. 131-149 145Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 66 146 Ivi, pp. 60-66
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muntaz(caporale), bulucbasci (comandante di plotone, sergente) e sciumbasci (maresciallo, massimo grado degli ascari)147. Nel nominare lo sciumbasci, detto anche jusbasci, e il bulucbasci, gli ascari aggiungevano, dopo il nome proprio, la parola “aga”, dal turco “fratello148”. Gli jusbasci, oltre a ricoprire il massimo ruolo possibile per un militare africano o arabo al servizio degli italiani, avevano anche il compito di aiutare il comandante della mezza compagnia, solitamente un sottotenente o un tenente, e di sostituirlo quando era assente. I gradi degli ascari erano comunque solo associabili a quelli degli italiani, perché non c’era nessuna “corrispondenza gerarchica; nessuna autorità del milite indigeno su quello italiano”. Erano tenuti al rispetto e alla “deferenza” degli italiani senza distinzioni dei loro gradi149 . I comandi curarono anche la questione delle uniformi. Diedero a tutti gli ascari un copricapo, chiamato tarbusch, simile al fez ma più alto150, di colore rosso151. Questo copricapo era visto, dai tempi della dominazione egiziana, come un segno distintivo in quelle regioni, e “assegnarlo alla truppe significa quindi elevarle nella dignità e nella gerarchia sociale”152. Per gli ascari e per i loro familiari vennero anche creati dei campi famiglie. Questi villaggi, costituivano così un elemento di coesione in reparti formati da uomini differenti per religione, tradizioni, etnia e lingua. I campi erano governati sia dai regolamenti militari che da consuetudini e tradizioni, che ponevano l’ufficiale italiano anche nel ruolo di “capo e di giudice”153. La descrizione della popolazione di armati in uno di questi campi, chiamati senfer, fatta da Quirico, aiuta a comprendere la variegata composizione etnica dei reparti e anche il lessico coloniale dell’epoca, che il giornalista ha utilizzato spesso nel suo libro:
“Nei campi si distinguono facilmente le varie etnie presenti nei battaglioni; ecco i sudanesi alti, scuri, robusti, magnifici soldati che arrivano in colonia purtroppo solo come un rivoletto avaro perché la rivolta del Mahdi chiude le frontiere e l’Inghilterra li esige per rinvigorire le sue truppe indigene. E gli abissini[…]. E poi gli yemeniti e gli arabi, sedotti dal richiamo della paga sull’altra costa del Mar Rosso. Tra queste mille razzie,
147Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, op. cit., pp. 211-212 148Hidalgo, Undici mesi a Cassala : 17 maggio 1895-18 aprile 1896, p. 42 149Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1960, p. 96 150 Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, op. cit., p. 30 151Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 61 152 La questione dell’abbigliamento ebbe particolare importanza anche nei dubat somali, come si vedrà nei prossimi capitoli. Cfr. Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, op. cit., p. 30 153Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, op. cit., , p. 165 35
dialetti, religioni e culture si è creato una sorta di ragionato e tollerante bazar: ognuno prega a suo modo[…]”.154
Gli ascari erano sottoposti a una disciplina molto dura dagli italiani. Dovevano subire il supplizio del curbasch, uno staffile in pelle di ippopotamo155. Questo strumento è definito nel testo di Scardigli un “simbolo del rapporto bianchi/neri in colonia”. L’uso delle curbasciate per punire gli armati locali è una questione “in realtà molto complessa, si “sovrappongono costumi militari italiani” ancora presenti alla fine dell’ Ottocento a costumi locali come “il pagamento del prezzo del sangue”156. Gli italiani definivano il curbasch “L’unico dizionario utile in questi paesi”, e lo vedevano come preferito, dal punto di vista delle popolazioni locali, rispetto alle pene pecuniarie, oltre ad essere “strumento di autorità in un luogo dove non avevano valore i concetti europei di onore e di disciplina” e che imponevano quindi agli ufficiali di far valere la propria autorità attraverso la forza157. Gli ascari erano ben stipendiati, considerati dei “privilegiati” nella loro società. Un ascaro guadagnava 1 lira e 60 centesimi al giorno, un bulucbasci 2 e 70 e lo sciumbasci 5 lire. Ogni soldato, appena arruolato, riceveva 50 lire per il corredo. Se l’arruolato era un graduato di cavalleria, la cifra saliva a 150 lire, perché l’uomo doveva provvedere a procurarsi un muletto o un cavallo, e necessitava quindi di una somma maggiore per iniziare il suo servizio158 .
Il regolamento per le truppe eritree del 1893 servì di base al regolamento delle truppe somale, che arrivò diversi anni dopo, nel 1906159. Tuttavia, ci furono differenze molto importanti nella
154Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 68 155 Scardigli, Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea 1955-1911, op.cit., p. 39 156Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, op. cit., pp. 147-148 Sono di particolare interesse le testimonianze orali di reduci ascari raccolte da Alessandro Volterra, riguardanti anche le punizioni inflitte con il curbasch, risalenti però all’epoca fascista, periodo maggiormente analizzato dal testo di Volterra. Cfr. Ivi, pp. 148-151 157 Ivi, p. 148 158Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 69 La paga elevata unita ad una disciplina particolarmente dura contraddistinse anche le esperienze degli askarireclutati dai tedeschi. Il trattamento economico era “di gran lunga migliore di quello chepotevano ricevere svolgendo altri lavori”. Cfr. Pallaver, Un’altra Zanzibar. Schiavitù, colonialismo e urbanizzazione a Tabora (1840-1916), op. cit., p. 169 159Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., pp. 96-97 Quirico parlava invece di un regio decreto dell’11 dicembre 1892 che fece entrare gli ascari “ufficialmente nell’esercito”, anche se dal progetto di Baldissera, pur modificato, era di fatto nato “il primo esercito degli ascari” o “fanteria indigena”, con primo comandante Avogadro di Vigliano. Quest’ultimo ricevette infatti il comando del Reggimento di fanteria indigena, comprendente tutti i battaglioni di ascari riuniti, nel 1889. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 61e Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 10 Per l’introduzione delle singole caratteristiche presentate in queste ultime pagine, come l’uso dei campi per le famiglie e le punizioni con il curbasch, gli autori non indicano date precise, ma concordano nel 36
disciplina e in altri aspetti. Nel prossimo capitolo, che tratterà la costituzione dei reparti regolari della Somalia a partire da milizie locali preesistenti, i due Regi corpi di truppe coloniali verranno confrontati nelle loro differenze e nei loro punti comuni.
Il paragrafo seguente, che chiuderà questo primo capitolo, riguarderà le esplorazioni in Somalia degli anni ’90 dell’Ottocento. Gli esploratori italiani impiegarono ascari eritrei, dei quali si è cercato di fornire in questo paragrafo una presentazione, e ingaggiarono armati reclutati in Somalia e a Aden.
1.4 Esploratori, ascari e locali: contributo africano e arabo alle esplorazioni della Somalia
All’inizio del 1889, quando il Regno d’Italia assunse il protettorato sui sultanati di Hobyaa e Majerteen, le conoscenze sulla “costa dei Somali” e sull’interno, che stavano “per schiudersi alla nostra penetrazione commerciale e politica” erano ancora molto scarse, spesso contradditorie e a volte non veritiere160.Un testo di epoca coloniale attribuisce la maggiore responsabilità di questo stato di cose al Sultanato di Zanzibar, che per molto tempo aveva rappresentato l’ostacolo maggiore ad ogni tentativo d’infiltrazione europea. Anche con il suo declino erano comunque praticamente immutate le conoscenze che si possedevano sulla regione della futura colonia161. I problemi erano dati da questi fattori:
“Le asperità della costa, rocciosa e dirupata, la difficoltà degli approdi, il pericolo dei monsoni, che spiravano violenti, il senso di squallore e d’abbandono che il territorio presentava a chi si affacciava dal mare, più che la diffidenza e l’ostilità delle popolazioni, fanatiche e ribelli, erano stati gli ostacoli che fino allora avevano precluso ogni e qualsiasi tentativo d’approdo e di penetrazione”162 .
collocarli alle origini degli ascari. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 57-68; Scardigli, Il braccio indigeno. Ascari, irregolari e bande nella conquista dell’Eritrea 1885-1911, op. cit., pp. 43-45; Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, op. cit., pp. 147-148 160Enrico Baudi di Vesme, Le mie esplorazioni nella Somalia. Memorie inedite con introduzione e note a cura di Carlo Zaghi in Testi integrali dei grandi italiani d’Africa, Vol. I, Roma, Ministero dell’Africa Italiana, 1944, p. 7 161 Ibidem 162 Ibidem
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Il governo italiano aveva organizzato alcune spedizioni marittime, come quella della nave Volta. Ma in questi anni, la Società Geografica Italiana e la Società Africana d’Italia fornirono gli stimoli maggiori a esploratori e scienziati italiani163. Gli esploratori avevano ufficialmente compiti di natura scientifica, e infatti i loro testi sono ricchissimi di documentazione riguardante molteplici aspetti, come la geografia, la vegetazione, gli animali, le popolazioni (in questo caso, ovviamente, le descrizioni sono impregnate di razzismo e pregiudizi), ma spesso questi si mescolavano con compiti politici e militari. La Società Geografica diventò “pedina” della politica di penetrazione e “rapina” statale, contribuendo anche a divulgare teorie razziste sull’inferiorità degli africani164. Gli esploratori, che alla fine dell’Ottocento tennero “nella fantasia degli uomini il posto che oggi occupano gli astronauti”, sono stati spesso narrati e analizzati come figure eroiche. In realtà, nonostante ci fossero differenze tra i vari casi, le loro spedizioni furono spesso macchiate da crimini numerosi e efferati165. Queste esperienze non vennero affrontate solo da italiani. Gli esploratori impiegarono infatti massicciamente ascari eritrei e uomini reclutati in alcuni centri della Somalia o a Aden, come emerge dai loro stessi scritti166 .
L’ingegnere Luigi Robecchi Bricchetti, finanziato dalla Società Geografica, decise di penetrare la Somalia da sud. Sbarcò a Hobyaa nel maggio del 1890 e, primo europeo, riuscì a percorrere il litorale da Hobyaa a Caluula, inoltrandosi nel “paese dei migiurtini”. Alcuni mesi dopo ottenne un nuovo finanziamento dalla società, a sua volta “generosamente” foraggiata da Crispi “a condizione che le spedizioni abbiano anche carattere politico”, per attraversare la penisola somala da sud a nord, da Muqdisho a Barbara167. La sua opera Somalia e Benadir, particolarmente lunga e dettagliata, permette di seguire ogni tappa del suo viaggio e di ricavare alcune informazioni sugli uomini che ingaggiò per le sue esplorazioni. Dal porto di Brindisi partì, a bordo di un piroscafo della British India, alla volta di Aden, dove
163Ciasca, Storia coloniale dell’Italia contemporanea. Da Assab all’Impero, op. cit., pp. 281-282 164Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., pp. 418-419 165 Ivi, p. 421 166 Per questo paragrafo si sono analizzati i testi dei singoli esploratori più conosciuti, monografie su singoli personaggi e sull’esplorazione italiana in generale. Da segnalare che il contributo degli africani emerge, con maggiori o minori particolari, unicamente dagli scritti specifici sui singoli esploratori, siano essi stati fatti dagli esploratori stessi o da altri autori, mentre i testi che trattano, genericamente, le esplorazioni italiane, almeno tra quelli consultati, sono risultati in prevalenza poveri di informazioni sul contributo prestato dai locali alle esplorazioni.
167Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 420.421 38
arrivò nel gennaio del 1891168. In questa città egli compose la sua carovana, con uomini e cammelli:
“L’operazione più difficile e delicata, che diede anche occasione a molti incidenti comici, fu la scelta degli uomini per formare la mia scorta. Mi raccomandai all’uopo al mio vecchio interprete e ad altri miei conoscenti di Aden. La voce si diffuse come un baleno, e il giorno dopo davanti all’albergo stazionava una folla di alcune centinaja di Somali, e si credette per un momento che io avessi in animo di rinnovare in qualche recondita e misteriosa regione africana le gesta di Alessandro il Macedone o di altro conquistatore. Feci allontanare tutta quella ciurmaglia, e procedetti ad un lavoro di selezione fra i molti che mi si offrivano, giacché, tra costoro, non pochi erano incancreniti nell’ozio e nel vagabondaggio. È necessario stare in guardia dalle sorprese e dagli inganni; imperocchè i Somali, in Aden, costituiscono una società di mutuo collocamento e si rilasciano scambievolmente, e come se fosse la cosa più naturale del mondo, certificati di servizio, che servono a più persone, passando di mano in mano. Li interrogai ad uno ad uno sulle loro generalità, le loro attitudini, e a quale tribù appartenessero; e così riusciii, in due giorni, a metterne insieme venti, che assoldai al prezzo di trenta rupie mensili. Avevo preso come interprete, a cinquanta rupie al mese, certo Ahmed Ali della tribù Habr Tolgialo, che fu poi sostuito da Mahmud della stessa tribù, che mi aveva già accompagnato nel precedente viaggio da Obbia ad Alula”169 .
Lui e i suoi si imbarcarono sul piroscafo Paraguay, messo a disposizione dal governo italiano170. Partirono alcuni giorni dopo, iniziando un viaggio caratterizzato da numerose tappe. A Zanzibar, avvenne un tentativo di ammutinamento da parte dei somali reclutati ad Aden. Un certo Aden Alì, identificato dal Bricchetti come “capo” dei somali ingaggiati, pretendeva un aumento dello stipendio e degli anticipi, secondo l’italiano non dovuti, nonostante il contratto fosse stato stipulato in Aden171. Riuscì a convincere gran parte dei somali, che lasciarono la nave e scesero a terra, seguiti a nuoto dai pochi altri che in un primo tempo erano rimasti a bordo. Bricchetti temeva per la sua spedizione, messa in pericolo da uomini che avevano fatto dissolvere una scorta “faticosamente organizzata”. Decise di seguirli con l’interprete, modificando gli accordi: la cifra mensile sarebbe rimasta la stessa, ma lo stipendio complessivo non sarebbe stato unicamente quello della durata della
168 Robecchi Bricchetti Luigi, Somalia e Benadir, Milano, Aliprandi, 1899, p. 6 169 Ivi, p. 13
170 Ivi, p. 14 171 Ivi, p. 42
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spedizione, ma pari almeno a sei mesi. Nel testo emerge la sua riflessione sul rischio del contratto modificato in tal senso, che nel caso di una sua malattia lo avrebbe obbligato a trasferirsi in Europa per le cure e a stipendiarli senza motivo, e mettendo in guardia da quelle popolazioni che, dal punto di vista dell’esploratore, erano pronte a mancare negli impegni presi e ad abbandonare la persona che si erano impegnati a scortare.172Arrivati in una fortezza nei pressi di Muqdisho, dopo aver preso alloggio, lui e i suoi vennero aggrediti dalla popolazione locale, che cominciò a lanciare una grande quantità di pietre e, con archi e giavellotti, molte frecce. I suoi armati scaricavano i fucili senza porre fine alla situazione di pericolo173. Rintanatosi nel borgo e rimasto immobile mentre continuavano ad arrivare frecce e pietre, venne soccorso dai somali della sua scorta, che lo invitarono a ripararsi dietro di loro e a farsi scudo dei loro corpi. Robecchi Bricchetti elogia spesso i somali, secondo la solita visione colonialista:
“La squisita, delicata, sublime abnegazione, non rara in quelle popolazioni primitive, nelle quali la immensa anima della natura ha vigorosi palpiti di vita vergine e sana, mi commosse profondamente il cuore e mi intenerì fino alle lagrime, facendomi dimenticare il pericolo”174 .
Grazie a un intervento del governatore e alle scariche di fucile dei somali, la folla si disperse175. Più avanti nel viaggio, anche a Warshiek la carovana fu attaccata da una popolazione (accostata dall’autore agli “zingari”), definita “infima ed abbietta classe fra i Somali”. Li attaccarono in gran numero e di notte, riuscendo a ravvicinarli molto. Data l’assenza di tregua durante il confronto, i somali di Aden non ebbero modo di ricaricare i fucili, che usarono come armi bianche. Una volta scaricata la rivoltella, un urto fece svenire Robecchi Bricchetti. L’ultima cosa che ricordava dell’episodio era l’atterramento, mediante il calcio di un fucile, di un assalitore da parte di uno dei suoi176. Tempo dopo, in agosto, i somali di Aden minacciarono un nuovo ammutinamento, conoscendo i suoi progetti di attraversare la regione dell’Ogaden. Un naib conosciuto in precedenza, che conosceva le sue intenzioni di attraversare la regione, consigliò di rinunciare per le lotte che avvenivano nell’area tra diverse popolazioni, ma il parere venne considerato dall’italiano come una “esagerazione orientale”. I suoi uomini, che fino a quel momento lo seguirono e obbedirono ai suoi ordini, si opposero.
172 Ivi, p. 43 173 Ivi, p. 114 174 Ivi, p. 115 175 Ibidem 176 Ivi, pp. 128-130
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Affermavano che erano stati ingaggiati per fare un percorso più breve e che l’Ogaden era infestato dal pericolo delle razzie etiopiche. L’esploratore si rassegnò allora a percorrere la via più semplice dell’Harrar, rinunciando a quella che per lui rappresentava la “splendida ed ammagliante incognita”177. Arrivati a Barbara, prima di ripartire per Aden e poi per l’Italia, sciolse la carovana, provando “un senso di tenerezza per quella povera gente” che lo aveva seguito “fedelmente”, nonostante la rinuncia all’Ogaden
178 .
Nello stesso anno, il conte Enrico Baudi di Vesme si spinse da Barbara a Burco, fino al Somaliland centrale179.Il testo sulle sue spedizioni è abbastanza avaro nel fornire informazioni sui suoi armati. Era un capitano dell’esercito. Alla fine del 1890 si recò a Massawa, dove ricevette munizioni e armi, per poi spostarsi ad Aden, dove incontrò Giuseppe Candeo, che diventò suo compagno di viaggio180. Candeo era un ingegnere cartografo e lo scopo di questa spedizione di Baudi di Vesme, che lo portò a inoltrarsi nell’Ogaden, era unicamente politico: l’individuazione delle linee di comunicazione che collegavano l’Etiopia con le aree della Somalia che, gradualmente, passavano sotto il controllo italiano181. I due si recarono a Barbara, alla ricerca di personale per la loro carovana. Vennero aiutati da un interprete arabo di nome Said Hamet, e da un amico di quest’ultimo, di nome Fara Ali. Molti abitanti di Barbara erano però ostili ai due italiani e alla spedizione, grazie ad alcune autorità locali, che avevano cercato di dissuadere i somali dal prendere parte a una esplorazione che sarebbe stata piena di pericoli. Questi atteggiamenti vennero sostenuti dai britannici che controllavano la città, desiderosi di ostacolare le esplorazioni italiane182. Grazie a un intervento di Cecchi presso gli inglesi, la situazione si sbloccò, anche se dovettero accontentarsi di soldati e cammellieri che erano in gran parte gente di scarto, secondo l’esploratore183. Ingaggiarono come guida un certo Aden Ismail, pattuendo 150 lire da pagare al ritorno. Il 25 febbraio del 1891 partirono con 25 uomini e 15 cammellieri. Erano armati di fucili Wetterli184. Il conte nominò il capo-cammelliere Fara Ali responsabile del buon andamento della carovana,
177 Ivi, pp. 455-456 178 Ivi, p. 573 179 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 422 180 Ivi, pp. 75-76 181Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 422 182 Baudi di Vesme, Le mie esplorazioni nella Somalia. Memorie inedite con introduzione e note a cura di Carlo Zaghi in Testi integrali dei grandi italiani d’Africa, Vol. I, op. cit., p. 79
183
L’ufficiale non specificò ulteriormente questa espressione. Ivi, pp. 78-80 184 L’esploratore chiamava talvolta questi uomini “ascari”, anche se non si trattava delle truppe regolari all’epoca costituite in Eritrea e successivamente in Somalia, ma di individui ingaggiati in un centro controllato dai britannici. In alcuni testi, il termine veniva infatti adoperato in sostituzione di parole come “gregario” o “mercenario”. Cfr. Ivi, pp. 80-81
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minacciando di multarlo in caso di inadempienze. Baudi di Vesme marciava alla testa della carovana, mentre Candeo alla coda185 .
Già dalle letture dei testi riguardanti le esperienze di Ribecchi Bricchetti e Baudi di Vesme, nonostante gli autori abbiano dato una descrizione dei loro contingenti funzionale alla trattazione delle loro esplorazioni, emerge la funzione, indispensabile, che alcuni individui extraeuropei ricoprirono nella conoscenza di alcune regioni della Somalia.
Le letture riguardanti le esperienze di altri due esploratori, Eugenio Ruspoli e Vittorio Bottego, oltre a confermare l’importanza ricoperta da alcuni somali e da ascari eritrei nelle esplorazioni, mostrano ancora maggiormente il razzismo e la violenza che distinse il colonialismo italiano, già in questa fase.
Il principe Eugenio Ruspoli scelse l’esplorazione soprattutto per la caccia e per desiderio di “violente avventure”. Dopo un primo viaggio che accettò per scommessa con un conte polacco suo ospite, dal Mozambico all’Egitto, nell’estate del 1891 organizzò una spedizione da Barbara allo Schabelle186. Ad Aden organizzò la carovana, mettendo particolare cura nella scelta dei “capi-carovana, poiché importantissimo è il compito di questi; anzi oserei dire che il felice esito di ogni spedizione va per buona parte alla bravura dei capi-carovana”. Oltre ad avere delle buone doti guerresche, dovevano anche essere onesti, per evitare di correre “il rischio di mandare tutto a rifascio.”187Questa sorta di riconoscimento al contributo dei locali da parte del Ruspoli è particolarmente interessante. L’esploratore che, come si vedrà, fu un sanguinario e visceralmente razzista, aveva un ego particolarmente grande e una scrittura che Del Boca definiva come “già dannunziana”188. Il compito dei capi-carovana, almeno nella prima spedizione di Ruspoli, consisteva nella scelta e nel coordinamento degli uomini di scorta, nel vigilare al momento dell’acquisto dei cammelli e degli oggetti da commerciare durante l’esplorazione. Una volta giunti a Barbara, il principe acquistò 70 cammelli e arruolò 70 locali. Gli inglesi si comportarono diversamente con il principe, rispetto a quanto descritto da Baudi di Vesme: Ruspoli scrisse di relazioni molto cortesi, da parte britannica, che favorirono i suoi piani189. Quando il viaggio era iniziato da poco tempo, due dei suoi uomini appartenenti a due “tribù” diverse, litigarono per “essersi gettati a bere” sul cammello
185 Ivi, p. 83 186Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 423 187 Eugenio Ruspoli, Nel paese della mirra, Roma, Tipografia cooperativa romana, 1892, p. 12 188 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 424 189 Ruspoli, Nel paese della mirra, op. cit., p. 14
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utilizzato per il trasporto dell’acqua. Uno dei due sparò all’altro con il fucile, e il colpo oltrepassò il corpo dell’uomo colpendo anche un “cavaliere” (termine usato qui forse per intendere uno dei cammellieri). Gli altri uomini consegnarono a Eugenio Ruspoli quello che ritenevano il colpevole dello sparo. L’esploratore si accertò della sua colpevolezza dal “fucile esploso”, e lo consegnò ai britannici, lamentando la perdita di tempo che lo “sgradito incidente” causò alla spedizione190. Il 30 agosto, la carovana venne attaccata dalla popolazione degli Shaveli, nella valle del fiume Shabelle. Gli assalitori furono per Ruspoli almeno 1500 ma, essendo l’attacco avvenuto di notte, i suoi uomini non si resero conto di un tale numero. Il principe era sicuro che, altrimenti, lo avrebbero abbandonato. Gli armati reagirono invece con una forte potenza di fuoco, disperdendo gli aggressori. La carovana registrò 4 perdite, e la mattina dopo Ruspoli fece seppellire i cadaveri alle donne appartenenti alla popolazione che li aveva attaccati, che intanto erano venute a implorare la fine delle ostilità191. In seguito, Eugenio Ruspoli catturò ostaggi e impose tributi alle popolazioni che avevano ostacolato la spedizione, occupando un villaggio. L’occupazione, per Ruspoli, aveva il fine di dare sicurezza alla carovana”. In questo periodo, i componenti della sua carovana razziarono quanto riuscivano dai villaggi nell’area. L’autore, che ammise di aver preso ostaggi, su questo punto si dichiarò sorpreso e contrariato, dicendo di aver fatto il possibile per evitare questi saccheggi192. Fu proprio uno degli ostaggi, un religioso, a costringerlo a interrompere la spedizione, che “con ogni arte, con superstizioni e con la parola”, riuscii a spaventare i suoi combattenti, convincendoli che “il Signore non poteva permettere una simil cosa”. L’esploratore abbandonò e, con gli ultimi 6 uomini rimastigli, tornò a Barbara, per poi reimbarcarsi per Aden193. Il 6 dicembre del 1892 “disponendo di ingenti mezzi” decise di ritentare il viaggio da Barbara lungo il fiume Shabelle, questa volta con il piano di stipulare convenzioni per porre i sultani di Luuq e Doolow sotto protezione italiana194. In una lettera al padre, datata 25 marzo del 1893, riferiva di aver costituito una carovana che comprendeva 5 europei, 130 ascari e 130 bestie da soma (asini, cavalli e cammelli). Parlando degli uomini ingaggiati, li descriveva come soldati ancora privi del senso della disciplina195. In questa stessa lettera descrisse un fatto particolarmente atroce, che ebbe come protagonisti alcuni dei
190 Ivi, p.p. 15-16 191 Ivi, pp. 18-19 192 Ivi, pp. 19-20 193 Ivi, pp. 21-23 194Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 424 195 Eugenio Ruspoli, La spedizione Ruspoli. Lettere, in “Bollettino della Società Geografica Italiana”, Società Geografica Italiana, 1893, pp. 690-693 (mese e luogo non indicati) 43
suoi ascari. Nella lettura di questo racconto, oltre ad essere presente un episodio molto grave, sono disturbanti anche le parole e le osservazioni del Ruspoli. Queste permettono di cogliere particolarmente bene il razzismo dell’avventuriero (comune a molte persone dell’epoca)verso gli africani e, nello specifico, verso le donne somale. Alcuni ascari della carovana, durante la sua assenza, avevano infatti violentato una giovane sposa somala. La notizia si diffuse rapidamente nel villaggio e una folla reclamò, da quanto riferito, la testa dei violentatori o una somma di denaro “equivalente alla donna violentata”. Un ufficiale italiano, che faceva da vice a Ruspoli, rispose alla popolazione che non esisteva un paese civile europeo che tollerasse la giustizia sommaria, a prescindere dalla gravità di un comportamento196. Rifiutò anche di procedere con un “indennizzo”, dal momento che il capo della spedizione era assente. Assicurò comunque di fare giustizia sui colpevoli con un significativo numero di curbasciate(staffilate con strisce di pelle d’ippopotamo preparate ad hoc)”
197
. L’ufficiale permise al marito della ragazza di presenziare. Ruspoli proseguiva scrivendo che la ragazza, “relativamente belloccia”, fu accompagnata al loro accampamento per deporre le accuse. Per l’aristocratico “ella ebbe a esprimersi con una ingenuità tutta sua propria e primitiva[…]Fortuna che il colore del suo viso era tale da non rivelare l’interna emozione, arrossendo o impallidendo”198 .
Queste parole dimostrano che l’esploratore mancava di qualsiasi elementare rispetto per le popolazioni locali, e che fatti particolarmente gravi come questo venivano narrati a parenti (il padre, in questo caso), con toni molto razzisti e offensivi verso gli africani.
La spedizione superò lo Shabelle, arrivando fino a Burgi. Ruspoli desiderava risalire il fiume Omo, ma il 4 dicembre rimase ucciso da un elefante. Della spedizione sopravvissero in 41, che arrivarono a Brava 4 mesi dopo la sua morte199 .
L’ultimo esploratore che si è scelto di analizzare ed esporre in questo paragrafo è il capitano d’artiglieria Vittorio Bottego. Bottego, come le tre precedenti figure, è stato scelto perché impiegò africani al suo servizio, nel corso delle esplorazioni. Le descrizioni di questi uomini sono particolarmente dettagliate nei testi riguardanti le vicende di Bottego. Anche questo esploratore si distinse per azioni brutali verso le popolazioni.
196 Ivi, pp. 693-694 197 Il corsivo è presente nel testo. Cfr. Ivi, p. 694 198Ibidem 199Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 424 44
Bottego prestava servizio in Eritrea nel 1891 e da tempo meditava un viaggio esplorativo che presentasse dei rischi, essendo un individuo attratto dal pericolo e dall’ignoto. Viene tramandato che, in vista di questi progetti e desideri, si allenasse con marce molto dure e cercasse di abituarsi a mangiare qualsiasi animale200, come la carne di gabbiano e di avvoltoio201. Nel 1891 aveva compiuto alcune ricognizioni in Eritrea. Per la prima ricorse ad ascari regolari che il comando mise a sua disposizione. Partito da Massawa, doveva raggiungere Assab ma, nella regione dancala, ricevette l’ordine di rientrare, perché erano in atto incursioni etiopiche nella zona. A Massawa ricondusse quindi gli ascari dai loro comandanti, ma successivamente decise di stipendiare privatamente 10 uomini del luogo e di provvedere ai viveri e al necessario per fare il percorso precedentemente interrotto202 . All’inizio del 1892, gli arrivò la conferma dal ministro della guerra, il generale Pelloux, che era stato approvato un suo progetto per esplorare il corso del fiume Gùba. Sbarcò a Massawa il 14 di agosto e compose la sua carovana in perfetta sintonia con i metodi di Baldissera. Come scritto in una monografia sul Bottego, egli reclutò:
“[…]avendo cura di frammischiare le razze[…]con elementi Arabi, Somali, Galla, Sudanesi ed Assaortini, i quali nemici tra loro non daranno motivo di diserzioni e potranno inoltre sorvegliarsi a vicenda evitando così ribellioni di massa”203 .
La religione era però comune a tutti, ed era quella musulmana. Tale scelta fu fatta per “evitare durante il viaggio, complicanze dovute a differenze religiose, anche con le popolazioni” che avrebbero incontrato durante la spedizione. Il compagno di spedizione di Bottego era il capitano Matteo Grixoni204. La maggior parte dei 126 uomini di Bottego aveva prestato servizio per anni, assoldati da “Europei o capi africani”, combattendo nel Sudan e a Tedalì. Erano stati cacciati dalle forze armate per reati di varia tipologia205. Tra sudanesi, habab e
200Giotto Dainelli, Gli esploratori italiani in Africa, Vol. I, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1960, p. 587 201 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 426 202Dainelli, Gli esploratori italiani in Africa, Vol. I, op. cit., p. 587 203Campioni Silvio, I Giam Giam. Sulle orme di Vittorio Bottego, Parma, Casa editrice Luigi Battei, 1960, pp. 100-102 Tra i testi consultati, solo in un altro libro vengono citati individui somali inquadrati in reparti costituiti in Eritrea, a differenza delle altre etnie citate. Cfr. Hidalgo, Undici mesi a Cassala : 17 maggio 1895-18 aprile 1896, p. 42
204 Dainelli, Gli esploratori italiani in Africa, Vol. I, op. cit., pp. 588-589 205Campioni, I Giam Giam. Sulle orme di Vittorio Bottego, op. cit., p. 102 45
etiopici gli uomini erano 70, gli assaortini 40 e i somali 10206. La carovana si imbarcò e arrivò in Somalia, a Barbara, alla fine di settembre. Prima di iniziare l’esplorazione verso l’interno, divise gli uomini in 6 buluk di 20 uomini ciascuno, ognuno dei quali era posto al comando di un buluk-bascie di un muntaz. Rimasero “fuori rango quattro graduati per compiti di fiducia”207. In questa città, Bottego acquistò 50 cammelli e asini208. Alla fine di novembre, quando era accampata nella valle dello Shabelle, la carovana venne più volte attaccata da predoni, che ogni giorno portavano via dei cammelli. Bottego ordinò allora a 20 ascari di attraversare la sponda, per riprendersi almeno parte del bestiame, data anche la carenza di viveri. Alcune popolazioni di Arsi attaccarono il gruppo dei 20 ascari, lasciandone 6 superstiti209. Il 15 febbraio del 1893 Grixoni si separò, portandosi via 30 ascari, da Bottego. Successivamente, Bottego accusò Grixoni di vigliaccheria, mentre Grixoni dichiarò di essersene andato perché il comportamento di Bottego verso le popolazioni incontrate era stato deplorevole. Questi episodi non furono trattati dalla storiografia, sia in epoca liberale che in quella fascista, ma, secondo il parere di Del Boca, difficilmente mancano di fondamento, date le atrocità commesse durante la sua seconda spedizione. Le accuse di Grixoni furono stampate in poche copie, per ufficiali dell’esercito. Bottego continuò anche senza Grixoni e terminò l’esplorazione del Gùba210. I sacrifici degli ascari furono immensi. In una lettera al senatore Giacomo Doria, presidente in quegli anni della Società Geografica Italiana, Bottego raccontò che, esaurite le scorte, gli ascari mangiavano l’erba bollita, mentre lui si cibava di avvoltoi e scimmie. Cacciavano gli ippopotami, quando ne incontravano, e 2 ascari annegarono proprio cercando di cacciare uno di questi animali. Molti altri ascari morirono di fame o per sfinimento211. Il capitano d’artiglieria concludeva in questo modo la lettera:
“Di materiali non mi sono rimasti che questi: 3 bussole, una macchina fotografica con 600 pellicole impressionate[…] Dopo Lugh ho potuto preparare due antilopi, forse una sconosciuta, ed una decina di pesci. Tutto il resto l’ho perduto. Partito da Berbera con 126 uomini, sono arrivato a Brava con 46, me compreso. Gli altri sono morti di fame o uccisi o annegati o scomparsi”212 .
206 Giuseppe Dalla Vedova, La spedizione Bottego. Relazione sommaria, in Bollettino della Società Geografica Italiana, Società Geografica Italiana, p. 623 207Campioni, I Giam Giam. Sulle orme di Vittorio Bottego, op. cit., , p. 103 208 Dalla Vedova, La spedizione Bottego. Relazione sommaria, op. cit., p. 623 209 Ivi, p. 625 210Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 427 211Dalla Vedova, La spedizione Bottego. Relazione sommaria, op. cit., p. 800 212 Ivi, p. 802
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L’ultima spedizione di Vittorio Bottego, che si concluse con la morte dell’esploratore e di quasi tutti i suoi uomini, iniziò nel 1895 e durò circa 2 anni. Aveva come obiettivo dichiarato la scoperta delle sorgenti del fiume Omo, ultime incognite dell’idrografia della Somalia. In realtà, l’ufficiale italiano doveva anche effettuare una azione di spionaggio contro gli etiopici, ed era stato anche ipotizzato di sollevare alcune popolazioni contro gli Amhara, tramite la guerriglia, se fosse stato ritenuto praticabile213. Bottego era accompagnato dal sottotenente di vascello Lamberto Vannutelli e dal sottotenente di fanteria Carlo Citerni214. Furono i due soli
bianchi della spedizione a sopravvivere e, insieme, scrissero un libro molto minuzioso sulla spedizione. Il testo non tace sugli aspetti più brutali, che sono anzi raccontati, con una rivendicazione del disprezzo per gli africani e l’uso della violenza, senza alcuna censura. Il testo è particolarmente ricco di dettagli anche sugli ascari impiegati. Questa volta, dato il compito ancora più importante, Bottego poteva però disporre di ben 250 ascari, dando alla sua spedizione “la forza e l’armamento di una compagnia regolare”215. Anche in questo caso, la carovana venne costituita a Massawa. Appena Bottego arrivò nella città, si presentarono due ascari che avevano fatto parte della prima spedizione. Oltre a offrirsi volontari, si misero a cercare uomini per conto dell’esploratore, che aveva promesso loro un tallero per ogni nuovo reclutamento. Come per la prima spedizione, gli arruolati erano nuovamente, in molti casi, autori di piccoli reati ma anche di crimini efferati. Alcuni mostravano “come attestato di benservito” il foglio di congedo dai reparti di ascari regolari216. Erano stati espulsi per diverse ragioni, tra cui insubordinazione e ubriachezza, colpe ritenute “non troppo gravi per noi che andiamo in cerca di gente pronta ad ogni sbaraglio”217. In 70 vennero liberati da un penitenziario, con la promessa di venir lasciati liberi a spedizione ultimata218 . Oltre ai “ragazzi migliori di questo mondo” e ad autori di piccoli reati, erano presenti anche ergastolani. Alcuni si vantavano di aver ucciso più uomini sia nel corso di precedenti combattenti, che in azioni di rapina. Gli italiani procedettero alla suddivisione in buluk di quella “accolta di genti diverse
213Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 428 214Rinaldo De Benedetti, Vittorio Bottego e l’esplorazione dell’Omo, Torino, Paravia, 1932, p. 7
215Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 428 216 Lamberto Vannutelli, Carlo Citerni, Seconda spedizione Bottego.L’Omo. Viaggio d’esplorazione in Africa Orientale, Milano, Huoepli, 1899, pp. 17-18 Gli autori parlavano di “ascari”anche se di fatto i loro uomini non erano più, nella maggioranza, arruolati nelle truppe regolari della colonia quando vennero ingaggiati per la spedizione. Vennero forse considerati tali, almeno da Bottego e dagli ltri ufficiali. Alcune foto presenti nel testo, raffigurano infatti gli uomini armati in uniforme, comprensiva del tarbusch Cfr. Ivi, pp. 24-25 217 Ivi, p. 18 218De Benedetti, Vittorio Bottego e l’esplorazione dell’Omo, op. cit., p. 7 47
per razza, lingua e origine”219. A Baraawe vennero distribuiti i compiti specifici di cuochi, sarti, cammellieri, trombettieri e calzolai. Le descrizioni del testo riguardano sia gli ascari (o meglio, gli ex ascari assoldati) nella loro generalità sia alcuni di loro singolarmente. Il paternalismo coinvolge anche quelli a cui gli autori si dichiaravano più affezionati. Come in tutti i reparti di ascari, per la tutela delle diverse fedi, vennero anche arruolati un religioso islamico e uno cristiano. Il primo era stato condannato a 17 anni per tratta di schiavi, il secondo a 10 anni per furto220 . L’interprete proveniva dalla Dancalia. Considerato dagli italiani il più intelligente e onesto, requisiti indispensabili per ricoprire quel compito, secondo Vannutelli e Citerni sapeva scrivere in italiano ed era in grado di impagliare gli animali per le raccolte scientifiche, anche se nel testo non viene indicato dove avrebbe acquisito queste capacità221. Un bulukbasci, nato a Massawa e precedentemente al servizio degli egiziani, aveva girato molti paesi europei con un circo, all’interno del quale simulava “l’uomo selvatico” che si nutriva di animali crudi, come polli e gatti. Tornato a Massawa, era stato un ascaro e poi zaptiè, per poi ritrovarsi disoccupato. Conosceva tutte le lingue e i dialetti parlati dai soldati, parlava eccellentemente l’italiano e poche parole in francese. Per queste sue doti e per la sua fedeltà, era considerato dagli ufficiali italiani una sorta di “factotum” nella carovana, e svolgeva una specie di servizio di polizia all’interno di essa, perché gli armati erano ritenuti inaffidabili. Un Arsi chiamato Mohammed il Monchino, era stato invece “trovato” da Bottego durante la prima spedizione. Lo aveva seguito in Italia, dove aveva vissuto fino alla spedizione per l’Omo. Non desiderava ritornare in Africa, ma Bottego lo convinse promettendogli che lo avrebbe aiutato a trovare una moglie che poi avrebbe potuto portare in Italia.222 Dato che dormivano all’aria aperta, in molti si ammalarono di febbre ma nessuno di questi armati, definiti “esseri apatici”, diede ascolto al consiglio degli ufficiali di adoperare le tende.223. Gli etiopici venivano descritti come quelli più maldisposti alla marcia, perché “abituati fin dall’adolescenza a una vita di scorrerie e di rapina”. Per questo motivo, Bottego e i suoi li avevano accettati malvolentieri, a causa del numero relativamente basso dei reclutati di altra provenienza224. A Baraawe incontrarono il commerciante Mohammed Urkei,
219 Vannutelli, Citerni, Seconda spedizione Bottego. L’Omo. Viaggio d’esplorazione in Africa Orientale, op. cit., p. 24 La composizione multietnica degli uomini, la suddivisione in buluk (caratteri comuni a tutte le formazioni di ascari regolari) e la nomina dei graduati si riproposero come nella prima spedizione. Cfr. Ibidem 220De Benedetti, Vittorio Bottego e l’esplorazione dell’Omo, op. cit., pp. 7-8 221Vannutelli, Citerni, Seconda spedizione Bottego. L’Omo. Viaggio d’esplorazione in Africa Orientale, op. cit., p. 26 222Ivi, pp. 26-28 223 Ivi, p. 49 224 De Benedetti, Vittorio Bottego e l’esplorazione dell’Omo, op. cit., p. 39 48
indicato come un amico dei bianchi che aveva salvato alcuni esploratori da alcuni individui del suo stesso popolo, intenzionati a ostacolare gli europei. Grazie a lui, assoldarono 10 cammellieri somali con a capo un certo Omar Ab del Nur225. Dopo aver acquistato 120 cammelli, muli e ovini, verso la metà di ottobre, la carovana partì per Luuq226. La marcia da Baraawe a Luuq, che durò 37 giorni e costituisce la parte della seconda spedizione Bottego che concluderà questo capitolo (oltre Luuq, la spedizione proseguirà fuori dalla Somalia, in Etiopia), fu contraddistinta da episodi sanguinari da parte di “un manipolo di violenti”, come vengono indicati da Del Boca Bottego e i suoi armati. L’esploratore, determinato a procedere, prelevò ostaggi e impiegò “esclusivamente il deterrente delle armi da fuoco”. Questi metodi, come sottolinea lo storico nel suo testo, vennero attuati contro popolazioni “di fatto già suddite del governo italiano”227. Nel corso della spedizione, 11 ascari etiopici disertarono per unirsi agli Amhara. Alcuni vennero catturati e obbligati a seguire la carovana incatenati. Secondo De Benedetti, il loro obiettivo era sfruttare le armi in dotazione per depredare quei territori. La cosa non si può escludere ma, dato il carattere agiografico verso il colonialismo italiano e le descrizioni degli africani, è possibile che sia un tentativo di far ricadere la colpa dei crimini commessi unicamente sui colonizzati228. I conflitti con le popolazioni somale che cercavano di impedire l’avanzata della carovana videro un rapporto di forze particolarmente sbilanciato. Bottego e i suoi uomini avevano armi da fuoco e i somali disponevano di armi bianche. I somali seguivano gli spostamenti della carovana e, spesso, colpivano gli ascari con le lance. Durante una tempesta, ritenendo che i fucili, bagnati, non potessero funzionari, i locali scagliarono numerose frecce avvelenate, che vennero però ostacolate dalla zeriba e alle quali vennero opposte diverse scariche di fucile229. La mattina dopo, avendo visto le numerose frecce conficcate nella zeriba e conoscendo la pericolosità del veleno adoperato, il vantaggio numerico dei locali ostili e i rischi derivanti da questa situazione, gli ufficiali decisero di procedere con una rappresaglia230. Vennero impiegati 2 buluk che, dopo aver disperso i somali, li inseguirono. Gli ufficiali arrivarono a scrivere esplicitamente di “ammirare le buone qualità dei nostri galeotti, che si dimostrano non solo i più coraggiosi, ma
225 Vannutelli, Citerni, Seconda spedizione Bottego. L’Omo. Viaggio d’esplorazione in Africa Orientale, op. cit., p. 28 Questi cammellieri, presenti in una foto del testo, erano armati unicamente di lance e abbigliati con fute e sandali. Cfr. Ivi, p. 29 226De Benedetti, Vittorio Bottego e l’esplorazione dell’Omo, op. cit., pp. 7-8 227Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., pp. 428-429 228De Benedetti, Vittorio Bottego e l’esplorazione dell’Omo, op. cit., p. 40 229Vannutelli, Citerni, Seconda spedizione Bottego. L’Omo. Viaggio d’esplorazione in Africa Orientale, op. cit., p. 60 230Ivi, p. 64
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anche volenterosi e resistenti”. Parlando dei somali, Citerni e Vannutelli riportano che per “liberarcene non c’è di meglio che trattarli come selvaggina, a fucilate”
231 .
Con questo paragrafo si è cercato di descrivere l’operato di africani e arabi, siano stati essi ascari, ex ascari o individui ingaggiati con altre modalità, nel contesto delle esplorazioni. Il prossimo capitolo riguarderà invece il processo che portò alla costituzione degli ascari regolari somali e tratterà i loro impieghi e le loro caratteristiche. Il percorso fu molto più lungo di quello riguardante la regolarizzazione delle truppe eritree, in quanto, come verrà descritto, caratterizzato da alcuni limiti di carattere economico, ma partì ugualmente dall’ingaggio di alcune milizie presenti in Somalia da prima che arrivassero gli italiani.
231 Ivi, pp. 62-64
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Capitolo Due
DAI CHIROBOTOS AL REGIO CORPO: REPARTI ARABO-SOMALI
2.1 I miliziani irregolari chiamati chirobotos
Come si è detto nel precedente capitolo, in Somalia si arrivò a una regolarizzazione delle truppe locali in tempi più lunghi rispetto all’Eritrea. Come gli ascari eritrei, le truppe della Somalia vennero sempre comandate da ufficiali italiani. Questo non le accomunò solamente alla precedente esperienza eritrea, ma a tutta la storia del colonialismo e, in particolare, agli eserciti costituiti dai governi coloniali. Lo storico Paul Nugent, in un suo lavoro, riporta che, una volta indipendenti, molti paesi africani ereditarono dalle potenze europee degli eserciti relativamente piccoli e, quasi in nessun caso, una forza aerea e una marina. Inoltre, parlando degli ufficiali, quindi degli effettivi comandanti delle truppe africane, Nugent riportò che, fino alla decolonizzazione, “the officers had invariably been white whereas Africans could not rise above the rank of Non-Commissioned Officer (NCO)”1. I comandanti delle truppe coloniali, quindi, rappresentarono in ogni realtà africana un esempio concreto del controllo che il bianco esercitava sulle popolazioni colonizzate, anche nei confronti di individui che combatterono per le stesse potenze coloniali2 . Prima di costituire veri e propri reparti, come avvenne in Eritrea, gli italiani avviarono dei contatti con milizie locali che incontrarono appena arrivati in Somalia.
1 Paul Nugent, Africa since independence. A comparative History, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2004, p. 205 2 Parlando del concetto di superiorità europea, che i colonialisti europei cercarono di inculcare negli africani, reso particolarmente evidente nei rapporti di comando all’interno dei reparti, nelle colonie italiane e in tutte le colonie europee, è interessante rilevare che fu la prima guerra mondiale a intaccare questo concetto. Il conflitto mondiale rappresentò il culmine del colonialismo europeo. Le potenze sfruttarono enormemente le materie prime africane per sostenere gli sforzi bellici (come legname, rame e gomma) e i territori delle colonie per la produzione di derrate alimentari. Oltre allo sfruttamento economico, centinaia di migliaia di soldati africani e portatori, con una prevalenza dei secondi sui primi, combatterono nel corso della guerra, inquadrati da europei, sia in Africa che in Europa. Questo conflitto, come scritto da Karin Pallaver, da un lato depredò enormemente il continente africano di persone e risorse, ma segnò anche l’avvio del declino del colonialismo. Gli africani ebbero infatti modo di vedere i bianchi in situazioni di pericolo e vulnerabilità, quando non uccisi. Inoltre, il loro impiego contro eserciti europei, portò soldati africani a uccidere e catturare soldati che, pur appartenendo a eserciti nemici degli europei che li comandavano, erano anch’essi bianchi, provando ulteriormente la finzione del concetto di superiorità europea. Cfr. Pallaver Karin, Un’altra Zanzibar. Schiavitù, colonialismo e urbanizzazione a Tabora(1840-1916), op. cit., pp. 157-158 ep. 175 51
Alcuni mesi dopo la stipula dei trattati con il sultano di Hobyya e il sultano Majerteen, il 3 agosto del 1889, gli italiani arrivarono ad un accordo anche con Sayyid Khalifa bin Harub Al Busaid, divenuto sultano di Zanzibar dopo la morte di Sayyid Bargash3 . L’accordo, riguardante i porti di Kismaayo, Baraawe, Marka, Muqdisho e Warshiek, fu facilitato dai britannici. Esso prevedeva infatti che il sultano passasse i diritti a lui spettanti sui porti della regione del Banadir alla Imperial British East Africa Company che, a sua volta, li trasferì al Regno d’Italia il 18 novembre del 18894. Nel periodo delle trattative tra Italia, Zanzibar e Gran Bretagna per l’affitto dei porti, la marina da guerra italiana avviò alcune missioni per occupare il territorio intermedio tra i porti5 .Queste terre erano nominalmente sotto l’autorità dal sultano di Zanzibar ma, di fatto, controllate da numerosi capi locali. Costoro risiedevano in vari palazzi presenti nelle città stato lungo la costa. Detenevano il controllo dei pozzi d’acqua e avevano il diritto di esigere tributi dalla popolazione6. Come spiegato da Lee Cassanelli, questo sistema ebbe un ruolo particolarmente importante a partire dal 1873, quando il sultano di Zanzibar era Bargash. Egli infatti, sollecitato dai suoi consiglieri europei, in quell’anno emise un’ordinanza che proclamava la fine della schiavitù nei territori sotto il suo dominio. Nel 1876, con un decreto, il sultano vietò il commercio di schiavi, sia nell’interno che nelle zone costiere. Per rendere possibile l’applicazione di questi provvedimenti nel Banadir, Bargash aveva ordinato ai suoi governatori di costruire le garese, residenze fortificate, nei centri principali7. Cassanelli definisce come i primi focolai
3Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., pp. 413-414 Vi fu un cambiamento di rotta, per quanto riguardava l’espansione nell’Oceano Indiano, anche da parte della politica italiana, che negli anni precedenti era stata più cauta. Le trattative di Filonardi con Sayyid Khalifa vennero infatti, nei mesi precedenti, appoggiate dal Presidente del Consiglio Francesco Crispi. Cfr. Ibidem 4 Labanca,Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, op. cit., pp.87-88 Del Boca riportò nel suo testo, oltre all’intervento dei britannici, anche quello del principe di Bismark, sempre in favore dell’accordo tra Regno d’Italia e Sultanato di Zanzibar. L’autore non motivava le motivazioni di questa scelta, ma affermava che il governo italiano, nei mesi precedenti,aveva avviato trattative sia con Londra che con Berlino. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 414 Il testo di Trunji indica invece che nel 1892 il governo italiano affittò i porti del Banadir versando al sultano di Zanzibar 40.000 rupie più un pagamento annuale di 160.000 rupie. Cfr. Trunji, Somalia. The untold history 1941-1969, op. cit., p. XXX 5Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 416 6 Quirico, usando i termini “satrapi e satrapelli”, indicava che questi capi non erano tutti dotati del medesimo potere. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 208-209 7 Lee Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, Philadelphia, University of Pennsylvania press, 1982, p. 191 Come detto nel capitolo precedente, la sovranità del Sultano di Zanzibar è definita come limitata da tutti gli autori, da quelli di epoca coloniale ad autori contemporanei. Sulla presenza di importanti capi locali nell’area, che minavano il potere effettivo del sultano, l’antropologo Ioan Myrddin Lewis descrive il rapporto tra il sultano di Zanzibar e quello del clan somalo Geledi. Il sultano zanzibarita, pur essendo meglio armato di quello Geledi, aveva più difficoltà del secondo a dare effettività alla sua autorità (Lewis non spiega il motivo di questa situazione). L’equilibrio di forze era considerato importante dai due sultani e quando, nel 1870, il sultano di Zanzibar decise di costruire una sua 52
dell’anticolonialismo somalo diverse azioni condotte proprio contro questi castelli-fortezza, che simboleggiavano le ramificazioni del potere di Zanzibar. A Marka, ad esempio, nel 1873 i somali avviarono una campagna di proteste contro i soldati del governatore locale, rendendo pericolosissimo per loro avventurarsi fuori dalla garesa. Nel 1876, alcuni combattenti della popolazione dei Byamaal arrivarono a uccidere il governatore e il suo contingente di 40 soldati, mentre si stavano dirigendo da Marka a Muqdisho8 .
Nel 1890 era quindi questo il contesto politico nelle varie regioni dove la marina da guerra italiana eseguì le sue ricognizioni. I comandanti delle navi dovevano eseguire rilievi topografici, apprendere notizie sulle popolazioni delle coste e avviare rapporti con i capi locali. Questi rapporti prevedevano l’utilizzo di regali e promesse di protezione da un lato, dall’altro la minaccia velata di un’offensiva militare, che era rappresentata dalle stesse navi da guerra 9. Lo schema di queste operazioni era il seguente: le navi ancoravano davanti ai villaggi e facevano scendere a terra una delegazione. Questi uomini donavano oggetti, spesso di scarso valore per gli europei (nel testo di Quirico viene usato il termine “cianfrusaglie”), agli abitanti del luogo, recitavano una formula (secondo Quirico, non compresa dalla popolazione) con la quale assicuravano protezione e piantavano la bandiera italiana. Successivamente risalivano sulla nave, che partiva per ripetere analoghe operazioni in altri punti della costa10. Il 24 aprile del 1890, la nave Volta, al comando di Filonardi, arrivò davanti a Warshiek. Filonardi inviò una delegazione composta dal tenente di vascello Zavagli e alcuni marinai11. Secondo una fonte coloniale, la delegazione era accompagnata da un interprete arabo, di nome Sayyid Ahmed. Gli italiani e l’arabo non erano armati quando scesero a terra, ma avevano lasciato le loro carabine a bordo. Il tenente e l’interprete conversarono con tre uomini, due somali e un arabo, che chiesero ai marinai se fossero tedeschi. L’ufficiale rispose negativamente, spiegando che erano italiani, amici del sultano di
fortezza a Muqdisho, chiese il permesso e l’aiuto del sultano Geledi. Cfr. Ioan Myrddin Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, London, Wetview Press. Boulder & London, 1988, p. 38 8 Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600 -1900, op. cit., p. 198 9 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., pp.416-417 10Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 209 11 Ibidem La località di Warshiek, secondo Labanca , doveva essere in realtà uno dei porti ancora oggetto di trattative, in questo periodo. Del Boca scrisse che le trattative riguardavano quattro porti principali dei cinque totali, mentre le navi avviarono le ricognizioni e annessioni nell’hinterland. L’autore mancava però di elencare i porti che intendeva come principali. Cfr. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, op. cit., p. 88; Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., pp. 413-418 53
Zanzibar. Proseguì chiedendo se la popolazione avesse bisogno di qualcosa12. Affermò che offrivano caffè, formaggio, biscotti e zucchero. Se desideravano, i somali potevano mandare una canoa verso la nave, dove questi alimenti si trovavano, e portarli a terra13. Un arabo di nome Mohamed bin Abdallah bin Hamed Arrafighi, che aveva sposato una somala, figlia di un capo locale, diresse la popolazione contro la delegazione. I somali lanciarono molte frecce, uccidendo il tenente e un marinaio, e ferendone altri. Filonardi decise di ricorrere a una rappresaglia contro la popolazione, usando i cannoni navali. Dato che il fondo marino più prossimo alla località rischiava di scardinare la nave, gli italiani dovettero sparare a 3000 metri dalla costa14. I 56 colpi di cannone non colpirono nessuna persona a Warshiek, come dichiarò anni dopo Arrafighi, che derise l’incapacità italiana di adoperare l’artiglieria15. Nel
testo dello storico Lee Cassanelli vengono date alcune spiegazioni di questo episodio. Il sultano di Zanzibar Khalifa respinse ogni responsabilità, verso quelle popolazioni, per la presenza di “infedeli” lungo le coste. Questo prova quindi ulteriormente quanto il sultano di Zanzibar temesse i capi e le popolazioni locali. Inoltre, le autorità italiane che, dopo i fatti di Warshiek, investigarono sull’accaduto, appurarono l’estrema ostilità provata dai somali di quella zona contro il sultano zanzibarita, concludendo che i marinai italiani furono scambiati per tedeschi, e che questi ultimi erano percepiti dai locali come alleati del sultano di Zanzibar16. Il 7 marzo del 1891 Filonardi diresse il Volta in un altro punto della costa17 . A 150 chilometri da Muqdisho si trovava infatti una piccola località, chiamata El Ataleh18. Dopo aver concluso una trattativa commerciale con numerosi sultani dell’area, gli italiani erano stati autorizzati a prendere il controllo del centro, costruire una piccola fortezza e piantare la bandiera italiana. Era però necessario per Filonardi, alla luce degli eventi di Warshiek, appurare che, oltre ai sultani locali, pure la popolazione del luogo fosse favorevole. Nella zona si ripalesò Arrafighi, che minacciò di agire nuovamente contro l’equipaggio della nave
12 Giacinto Vicinanza, La Somalia italiana, Napoli, Tipi De Rosa e Polidori, 1910, p. 239 Non viene specificata ulteriormente la tipologia d’aiuto che il tenente proponeva di portare alla gente del luogo, né in questo testo né in quello di Domenico Quirico, che sembra aver adoperato questo stesso testo per descrivere l’episodio (non è possibile esserne certi, anche se è probabile, perché il testo di Quirico non indica le note nel testo, ma presenta solo la bibliografia alla fine, dove questo testo compare). Cfr. Ibidem; Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 209 13 Ibidem 14 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 209-210 15 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 417 16 I motivi che portavano i somali a percepire i tedeschi come alleati del sultano di Zanzibar non vengono specificati da Lee Cassanelli Cfr. Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., p. 199 17 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 210 18 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 417 54
Volta. Questo portò Filonardi a ingaggiare quelli che, per Domenico Quirico, furono i primi ascari somali. Erano una ottantina di ragazzi che costituivano la scorta di un capo locale. Ricevettero il compito di proteggere la zeriba da eventuali attacchi di Arrafighi e della popolazione. L’ingaggio di questi giovani avvenne tramite l’aghida Salem19 .
Questa parole necessita alcune anticipazioni, prima di venire analizzata nei suoi vari utilizzi in ambito coloniale. Il termine, non spiegato da Quirico, durante la ricerca per questo lavoro di tesi magistrale, è stato quasi sempre incontrato nelle poche fonti trovate riguardanti i chirobotos, dei quali verrà detto nel corso di questo capitolo. Esso assume però vari significati, talvolta abbastanza differenti. Quando verranno trattati i chirobotos, si vedranno anche tutte le differenze emerse nel definire gli aghida. Per il momento, è opportuno dire che, nella maggioranza delle fonti coloniali, per aghida si intendeva un individuo che aveva, sotto il suo comando, un certo numero di miliziani, e che queste figure erano presenti in Somalia sia prima che dopo l’arrivo degli italiani.
Tornando ad Ataleh, dopo l’ingaggio e la protezione ottenuta da questo primo reclutamento, tre sultani sottoscrissero un contratto con Filonardi. Quirico descriveva sia la versione araba, tradotta, che quella italiana.
I capi locali si impegnavano a porre se stessi e i loro sudditi sotto la protezione, il comando e l’autorità del Regno d’Italia. I diritti d’autorità sulle terre e sulle persone venivano ceduti, sempre nella versione in lingua araba, in cambio dei vantaggi derivanti dalla protezione degli italiani, che avevano da quel momento diritto di piantare la bandiera nazionale. In conclusione, si impegnavano a non intraprendere, senza autorizzazione italiana, alcuna relazione con qualsiasi straniero che si fosse recato nella zona.
Gli italiani affidarono al capo degli ascari, l’aghida Salem, il compito di mantenere l’ordine nel piccolo centro, che veniva ribattezzato Itala20. Nel suo testo, Lewis, non usa il termine aghida e non nomina Salem, ma cita il fatto che gli italiani lasciarono un loro “agent” arabo con una piccola guarnigione, composta da 20 soldati del luogo21. La versione italiana si rivolgeva proprio al capo e reclutatore dei primi ascari somali. Egli doveva impegnarsi a non
19 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 210 Il testo di Quirico presenta una alternanza di termini come “satrapi”, ”sultani” e “capi locali”, anche con i diminutivi, come “sultanelli”. Nel testo di Lewis è riportato che gli italiani, prima di sbarcare a El Ataleh, trattarono con “local Somali leaders”. Cfr. Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, op. cit., p. 52 20 Ivi, p. 211 21Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, op. cit., p. 52 55
scacciare gli stranieri che si fossero recati ad Itala, i quali dovevano invece essere nutriti ed ospitati. Non era ammessa la violenza verso i deboli, ma la popolazione andava condotta con equità (non specificato ulteriormente). Il suo dovere primario consisteva nella vigilanza dei suoi armati, affinché nessuno di loro facesse del male, e nel far costruire “la casa”. Questo termine, presente nella versione italiana del contratto che Quirico ha riportato nel suo testo, non è ulteriormente spiegato dall’autore22. Si riferisce probabilmente al fortilizio che i sultani autorizzarono gli italiani a far edificare. Per gli italiani era importante garantire un commercio libero per tutti e non gravato da alcun tributo. Nel caso non ci fossero acquirenti per le merci provenienti dall’interno, l’aghida doveva acquistarle a prezzi non troppo elevati, per attirare a Itala “una corrente di vitalità”. In conclusione, doveva mostrare giustizia e riguardo verso i suoi soggetti, per permettere alle popolazioni vicine di recarsi a Itala senza timori23. Dalla lettura di questo contratto, si possono notare i timori di Filonardi verso questo primo reclutamento. Egli considerò prioritario vigilare sull’operato della guarnigione, reclutata sul luogo, rispetto alla gestione dei commerci. Nell’agosto del 1892, dopo le trattative avviate negli anni precedenti, il governo italiano ottenne l’affitto della regione del Banadir dal sultano di Zanzibar, per poi subaffittarla alla società commerciale di Filonardi24 . Prima di passare alla gestione di Filonardi della colonia e ai primi miliziani arabi reclutati dalla sua società, si è scelto di fare un confronto tra questo primo reclutamento italiano in Somalia e il primo reclutamento di africani, da parte tedesca, in Africa Orientale, che avvenne nello stesso periodo, per analizzare differenze e analogie. Questo episodio è riportato dalla storica Michelle Moyd.
Nel maggio 1889, “a small and hastily assembled provisional army of African soldiers”, al comando di ufficiali tedeschi, venne impiegato nell’assalto di un forte nella zona della città di Bagamoyo, nell’attuale Tanzania. Il forte apparteneva e un importante commerciante carovaniero, Bushiri Bin Salim. Bushiri, con suoi affiliati, aveva osteggiato, dal dicembre 1888, le attività della Deutsch-Ostafrikanische Gesellschaft (DOAG), che era la compagnia commerciale europea dominante nell’area25. Questo assalto, che riuscì ad andare secondo i
22 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 211 23 Ibidem 24 Ibidem 25 Questo reparto venne chiamato Wissmanntruppe, dal nome del suo fondatore, il maggiore Hermann von Weissmann. In seguito, le truppe coloniali tedesche assunsero il nome Schutztruppe. Cfr. Michelle Moyd, Violent intermediaries. African soldiers, conquest and everyday colonialism in German East Africa, Athens (Ohio), Ohio University Press, 2014, p. 6
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piani dei tedeschi e a eliminare molti uomini di Bushiri, fu la prima azione compiuta da truppe coloniali tedesche in Africa Orientale. I soldati che vi presero parte erano sudanesi (i più apprezzati dagli ufficiali tedeschi), Shangaan (“Zulu”) e askari (reclutati localmente)26 . Dal testo della Moyd, soprattutto dai termini da lei usati per introdurre questa prima formazione militare africana, emerge una formazione composta in poco tempo, quasi improvvisamente, e per uno scopo ben preciso. Questo aspetto è presente anche nel primo reclutamento avvenuto in Somalia da parte italiana, con un ingaggio di giovani locali, ritenuto indispensabile per la sicurezza dell’equipaggio.
Nonostante questo aspetto comune, i tedeschi comandarono questi armati, che solo in parte erano stati reclutati localmente, insieme a sudanesi e Shangaan, per una azione maggiormente offensiva del compito che venne delegato ai primi somali arruolati dalla marina italiana. Il colonialismo è sempre, di fatto, una azione offensiva, dal momento che anche Filonardi e la marina italiana procedettero da subito all’occupazione di alcune aree e posero i somali al loro servizio, ma l’impiego fatto dai tedeschi consistette in un vero e proprio assalto. Un’altra differenza emersa dai fatti esposti da Moyd, consiste nel fatto che il primo reparto tedesco era già unicamente sotto il comando di ufficiali tedeschi, mentre invece gli italiani ricorsero a un capo locale, che manteneva il comando dei reclutati.
Proseguendo con la storia dei reclutamenti effettuati in Somalia meridionale dagli italiani, emerge che gli ingaggi riguardarono milizie già esistenti all’arrivo dei colonizzatori.
I testi e i documenti archivistici riportano che gli italiani incontrarono, nel Banadir (non specificando il luogo o i luoghi esattamente), al momento dell’affitto, una forza complessiva di 300 miliziani. Le descrizioni di questi uomini, in quasi tutti i pochi testi e documenti coloniali consultati in cui vengono citati, sono estremamente negative, soprattutto per quanto riguarda i primi tempi in cui arrivarono gli italiani nel Banadir27. A differenza di quanto detto per gli ascari eritrei impiegati nelle esplorazioni e di quanto si dirà su altri reparti somali, in particolar modo sui dubat, le fonti dei colonizzatori non descrivono questi armati alternando espressioni razziste e paternaliste con elogi, ma si abbandonarono sempre a critiche e insulti particolarmente duri, carichi di pregiudizi razziali e disprezzo sociale. I miliziani in questione erano arabi. In certi casi, le fonti li indicano come arabi “autoctoni” delle zone costiere del
26 Ivi, p. 36 27 (fondo, busta e fascicolo non indicati), RCTC Somalia (indicazione nel file del Professor Volterra), “Appunti per la storia del R. Corpo Truppe Coloniali” in La Somalia italiana (bollettino di informazioni del Governo della Colonia), n. 9, Mogadiscio, settembre 1925, p. 1
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Banadir, appartenenti quindi alla popolazione araba che abitava la Somalia28. In altri documenti, si fa riferimento anche a individui che migravano da alcune regione della penisola arabica, come l’Hadramaut, per compiere questa professione29. Vengono descritti come “male
armati, peggio equipaggiati e ancor peggio pagati”
30. Oltre ai pugnali e alle spade, questi individui erano provvisti di fucili molto obsoleti, anche confrontati con l’armamento dei bashi-buzuk: si trattava di armi ad avancarica, alcuni a miccia e altri a pietra focaia31 . Potevano anche far passare diversi anni senza esercitarsi, con i loro fucili, al tiro al bersaglio32. Come gli irregolari bashi-buzuk incontrati da Tancredi Saletta nel 1885 in Eritrea, erano privi di uniformi e vestivano in modo eterogeneo33. In una relazione del 1905 sulle truppe reclutate in Banadir, che inizia però descrivendo anche la situazione presente al 1892, questi “arabi raccogliticci” vengono presentati nel seguente modo, carico di disprezzo:
“[…]affamati, sporchi, e privi di qualsiasi decoro, erano anche mal retribuiti (3 talleri al mese) […] sì che la loro nomea di STRACCIONI [ stampatello nel documento] ancora oggi ha un’eco allorché si parla delle truppe del Benadir, tanto era sconfortante l’impressione che essi destavano in quanti avevano l’occasione di vederli e di sperimentarli”34 .
Un altro ufficiale, il capitano di vascello Locatelli, inviò al ministero degli Esteri una relazione, lamentando la presenza di elementi troppo giovani e di altri troppo anziani35 . I combattenti erano chiamati, sia dai loro capi che dal resto della popolazione, con il termine chirobotos, adottato anche dagli italiani. La parola (non viene specificata la lingua) era traducibile con “pidocchiosi”. Mentre i bashi-buzuk dell’Eritrea, secondo Quirico, riuscivano a vivere in una condizione abbastanza agiata anche con la paga modesta, i chirobotos
28 Archivio storico diplomatico del Ministero degli Affari Esteri (da qui in poi ASDMAE), Fondo Ministero dell’Africa Italiana (da qui in poi MAI), Vol. I, pos. 66/2, fasc 23, pagina di giornale (titolo del giornale non leggibile), 31 dicembre 1896 29 AUSSME, Fondo D3 Somalia, b. 12, fasc. 7, op. cit., 1905, p. 8 30 Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 37 31 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 214 32 Luigi Goglia, Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all'impero, 2. ed., Roma, Laterza, 1993, p. 116 33 RCTC Somalia, “Appunti per la storia del R. Corpo Truppe Coloniali”, op. cit., p.1 34 Nei documenti e nei testi coloniali italiani, la regione Banadir veniva indicata come Benadir. Archivio dell’ Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (da qui in poi AUSSME), Fondo D3 Somalia, b. 12, fasc. 7, “Notize sulle truppe coloniali del Benadir (Somalia italiana meridionale) del Capitano De Vita”, 1905, p. 1 Quirico, senza citare la fonte, indicava invece la paga come corrispondente a 2 talleri e 105 pais. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 213 35 Il termine adoperato era “sozzura”. Non è chiaro se Lovatelli intendesse che chirobotos fossero accomunati da carenze igieniche, se si trattasse di un giudizio morale o di entrambe le cose. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 213
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affrontavano invece una condizione di forte disagio, economico e sociale, in una regione dove un pacco di riso costava 6 talleri. Il prezzo veniva anche aumentato per i chirobotos, e poteva arrivare a 9 talleri. Questi uomini cercavano di attenuare la loro condizione di povertà dedicandosi a piccoli commerci. Era frequente vederli armati, al loro posto di guardia, affiancati a stoffe e a carne che mettevano in vendita. Nel libro dell’ufficiale Giacinto
Vicinanza è riportato che, in certi casi, le sentinelle tenevano ai loro piedi una capra uccisa, pronta per la vendita36. Altre volte, i chirobotos abbandonavano il posto di guardia temporaneamente, per recarsi direttamente al mercato nel tentativo di vendere i loro articoli. In quei casi, il miliziano lasciava il proprio fucile nelle mani di un ragazzino, che occupava armato la postazione della sentinella per il tempo che quest’ultimo trascorreva al mercato
37 .
Alcuni di loro commerciavano anche parte delle loro razioni di viveri. Nonostante questi commerci, secondo le fonti coloniali, non riuscivano ad uscire dalla condizione di ristrettezza, carenze igieniche e disprezzo da parte della popolazione locale (e degli italiani, mai velato). Quelli in difficoltà maggiore erano, ovviamente, i chirobotos con famiglia a carico38 . Un articolo del Corriere della Sera, oltre a ribadire l’abbondanza di vizi, anche in questo caso non specificati, sottolinea come fossero privi di ogni qualità necessaria a un soldato adeguato. Nonostante la paga misera, che viene qui indicata come equivalente a 8 lire mensili (alla fine del 1896), non erano esonerati dalle spese di vitto39 .
Se le fonti concordano quasi tutte in descrizioni tanto critiche e offensive, è opportuno sottolineare il carattere fortemente razzista dei colonialisti, incline a classificare le diverse popolazioni e a reificarle, come visto anche nel capitolo precedente, ad esempio nella descrizione di una ragazza somala abusata da alcuni ascari, che il principe Ruspoli fece in una lettera a suo padre40. A questo si sommava un classismo e un disprezzo per i meno abbienti che era molto diffuso presso gli ufficiali dell’epoca. Se non è possibile escludere che questi soldati locali, a causa della povertà e dei disagi, fossero disprezzati dalla popolazione e che furono da essa soprannominati con un termine tanto umiliante, allo stesso tempo si può ipotizzare che gli italiani proiettassero il loro disprezzo anche sugli altri colonizzati, o che enfatizzassero sentimenti diffusi presso la popolazione o parte di essa. Inoltre, dal momento
36 Ibidem 37 Ibidem 38 Goglia, Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all'impero, op. cit., p. 116
39 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, b. 66/2, fasc. 23, articolo del Corriere della Sera, 6-7 dicembre 1896 40 Eugenio Ruspoli, La spedizione Ruspoli. Lettere, in “Bollettino della Società Geografica Italiana”, pp. 693694
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che alcune di queste fonti trattano l’argomento dei chirobotos per poi descrivere i reparti di ascari somali regolari, costituiti dal 1904-1905, la descrizione di un punto di partenza tanto carente e deplorevole può anche essere funzionale ad una narrazione che mostra il colonialismo italiano come portatore di ordine e decoro tra le sue truppe locali, in luoghi dove, in altri periodi, i miliziani si sarebbero distinti unicamente in negativo. Bisogna poi ricordare che, come si vedrà, la situazione rimase invariata per diversi anni anche sotto il colonialismo italiano, soprattutto per motivazioni e limiti di carattere economico. Alcune descrizioni riportate sulle condizioni economiche dei chirobotos in epoca fascista, possono quindi in realtà descrivere uno stato di cose ulteriormente peggiorato dagli italiani. Su questo ultimo punto può servire anticipare che gli unici elogi a detti miliziani, trovati nel corso di questa ricerca, provengono da alcuni documenti del giugno 1896. Questi furono scritti a mano, negli stessi giorni degli eventi annotati, da Giacomo Trevis, un ex ufficiale che scelse di collaborare con Filonardi in Somalia e che comandò, nel 1896, 70 chirobotos durante una spedizione41. Del contenuto di questi documenti si dirà nelle prossime pagine, quando si vedranno alcuni casi di impiego, da parte italiana, dei chirobotos, ma, dopo descrizioni tanto degradanti e critiche, si può osservare che la fonte cronologicamente più vicina ai chirobotos, precedente alla regolarizzazione e quindi libera da intenti propagandistici atti a demolire tutto ciò che tale riorganizzazione precedette, è proprio la fonte che li descrive evitando le espressioni più offensive e discriminatorie.
Se queste erano le descrizioni, anche i loro compiti precoloniali venivano presentati in modo molto riduttivo. Un volume del secondo dopoguerra, chiaramente ancora impregnato dell’ideologia coloniale, descrive così le loro funzioni:
“[…] malamente provvedevano in qualche località del territorio somalo alla tutela dei privilegi sultanali ed alle esigenze dell’ordine interno […]. Servivano, più che altro, gli interessi dei capi locali con il precipuo compito di assicurare l’esazione dei tributi di cui esigue percentuali costituivano la loro paga”
42 .
41 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, pos. 66/2, fasc . 21, appunti di Giacomo Trevis, Barawe (Brava nel documento), 3 giugno 1896; Eugenio Del Monte, “Un pioniere africano. Giacomo Trevis”, in Rivista delle Colonie Italiane, (luogo non indicato), Sindacato Italiano Arti Grafiche, (anno non indicato), p. 470 42 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, op. cit., p. 140
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Queste percentuali sarebbero state appena necessarie alla sopravvivenza43. In un altro testo, di epoca fascista, i loro compiti sono definiti come irregolari e vaghi, consistenti, nella pratica, unicamente in razzie e nella riscossione di tributi44. Nel caso siano stati effettivamente questi i loro impieghi, il disprezzo della popolazione poteva essere quindi dettato più dal fatto che questa identificava i gendarmi con la tassazione e con la razzia, che sarebbe cosa molto diversa da un disprezzo dettato dalla povertà patita dai miliziani.
Passando all’argomento dei comandanti effettivi di questi miliziani, è opportuno iniziare dicendo che le fonti non concordano su una esatta definizione, come anticipato. Nella maggior parte dei documenti, il comandante dei chirobotos è indicato con il termine già incontrato di aghida45. Questa parola viene però tradotta e spiegata con termini molto diversi. In alcuni casi, gli aghida vengono indicati come capi locali che detenevano, nella pratica, il controllo dei chirobotos, a loro volta nominalmente invece sotto l’autorità del sultano di Zanzibar46. Una definizione per certi versi più specifica si può invece trovare nel testo di Vicinanza. Secondo l’ufficiale, a partire dalla costituzione del Sultanato di Zanzibar nel 1856, il sultano disponeva, in ogni località, di un aghida, che comandava le milizie armate, oltre a un wali, con funzione di governatore, e a un cadi, che amministrava la giustizia47. Una definizione abbastanza diversa è annotata nel bollettino della Somalia Italiana del 1925. In questo caso, l’aghida era definito come un grado militare equivalente a quello di jusbasci48 . Questo termine era usato, con una consuetudine presente solo in Somalia, per chiamare lo sciumbasci, massimo grado degli ascari regolari raggiungibile49. La regolarizzazione, come si vedrà nel terzo paragrafo, fu avviata a partire dal 1904-1905. Accostare l’aghida allo jusbasci poteva significare diverse cose. Si può ipotizzare una sorta di ridimensionamento della parola capo, alludendo forse al fatto che gli armati comandati da ogni aghida fossero in un numero
43 Edoardo Scala, Storia delle fanterie italiane, Vol.IV: Le fanterie italiane nelle conquiste coloniali, Roma, Tipografia regionale, 1952, p. 560 44 Corni, Somalia italiana, Vol. II, op. cit., pp. 190-191 45 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, b. 66/2, fasc. 23, articolo del Corriere della Sera, 6-7 dicembre 1896 46 Scala, Storia delle fanterie italiane, Vol.IV: Le fanterie italiane nelle conquiste coloniali, op. cit., p. 560; Corni, Somalia italiana, Vol. II, op. cit., pp. 190-191 47 Vicinanza, La Somalia italiana, op. cit., p. 13 Il glossario dei termini somali e arabi adoperati nel suo lavoro da Lee Cassanelli, dei tre termini suddetti, indica solo la parola wali, con una definizione che concorda con quella di Vicinanza. Cfr. Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, p. 286
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RCTC Somalia, “Appunti per la storia del R. Corpo Truppe Coloniali”, op. cit., p. 1 49 Allegato A “Avanzamento dei militari indigeni” del “Regolamento per il reclutamento e l’avanzamento dei militari indigeni” del Ministero delle Colonie-Ufficio Militare al Ministero della Guerra-Gabinetto, Roma 26 gennaio 1937, e allo Stato Maggiore, Roma, 29 gennaio 1937, in AUSSME, Fondo N11 -Diari storici II GM, b. 4154, fasc. VIII/4 (le date indicate erano due nel medesimo documento, sono state quindi associate ai due diversi destinatari)
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accostabile a quello che gli jusbasci somali si trovarono a dirigere, una volta istituiti gradi e reparti regolari in Somalia. Dall’altro lato, è possibile che questo paragone sia dettato da una tendenza, da parte del colonialismo fascista, a ricondurre (e ridurre) un ruolo politico e militare di comando, preesistente alla colonizzazione, nominalmente dipendente solo dal sultano di Zanzibar e spesso con ampia autonomia anche rispetto al sultano stesso, con un grado introdotto dagli italiani che, per quanto fosse il più elevato raggiungibile dagli ascari, rimaneva quello di un sottufficiale. L’aghida è la figura di comando che ricorre più volte nelle fonti, ma non è l’unico. Il capitano De Vita, nella sua relazione del 1905, afferma che i capi dei chirobotos erano indicati con il termine sciausc50. Questo grado viene equiparato a quello di sergente dalla relazione del capitano di vascello Onorato Buglione di Monale. La stessa relazione, anche se non li nomina, accenna alla presenza di altri gradi all’interno dei chirobotos51. In un articolo di epoca fascista, i 60 miliziani locali che composero una spedizione nel 1896 vengono indicati come comandati da uno sciausc e da un aghida52 . L’articolo non fa riferimento alla gerarchia tra le due figure. Confrontando le fonti consultate, sembra plausibile che lo sciausc fosse un graduato che aiutava l’aghida nelle funzioni di comando, in ogni caso a lui sottoposto.
Nonostante la presenza degli aghida e di alcuni gradi, stando alla consultazione delle fonti, i chirobotos mancavano di qualsiasi organizzazione militare53 . Nessun grado aveva un valore assoluto effettivo, dal momento che ogni graduato deteneva autorità esclusivamente sui propri sottoposti54. Nel testo di Quirico, questo aspetto viene spiegato più concretamente: gli armati non erano divisi in unità ma “semplicemente individuati in base a chi li comandava, e quindi venivano chiamati, al pari di una banda brigantesca, come gli ascari di questo o di quello”55 . Un’altra differenza sostanziale quindi con quanto visto in Eritrea, dove i bashibuzuk, anche prima della regolarizzazione che apportarono gli italiani, avevano comunque un sistema di gradi e di unità strutturato. Inoltre, i graduati arruolavano i propri uomini scegliendo tra amici
50 AUSSME, Fondo D3 Somalia, b. 12, fasc. 7, op. cit., 1905, p. 1 51 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, op. cit., p. 141 52 Del Monte, “Un pioniere africano. Giacomo Trevis”, op. cit., p. 474 53 Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 37 54Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, op. cit., p. 141 55 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 214
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e parenti. Come facevano i semplici combattenti, pure i graduati erano soliti farsi sostituire nel servizio da una persona qualunque, anche per diversi giorni e senza doverlo giustificare56 .
Questa era la situazione che Filonardi e gli italiani incontrarono al momento dell’affitto dei porti del Banadir e tale rimase, anche se con lievi modifiche, fino al 1904-1905, quando vennero istituiti i primi reparti di ascari regolari in Somalia57. Il prossimo paragrafo analizza l’impiego dei chirobotos da parte degli italiani, impiego che, in certi casi, avvenne anche con l’appoggio di ascari inviati dall’Eritrea. Prima di passare ai casi di impiego, si vedranno anche le motivazioni che spinsero i colonizzatori, per diversi anni, a mantenere invariata una situazione che, come detto, era considerata e ricordata molto negativamente.
2.2 I chirobotos impiegati dagli italiani
Se in Eritrea gli italiani avviarono la regolarizzazione delle truppe locali dopo pochi anni, in Somalia vennero invece mantenuti i reparti di chirobotos per oltre un decennio, nonostante la situazione fosse considerata, da parte italiana, molto critica. Per quali ragioni gli italiani, a cominciare dalla Società Filonardi, non modificarono questo ordinamento descritto come inadeguato e “primitivo”58?
Il volume dell’opera L’Italia in Africa del Ministero degli Esteri sottolinea le differenze tra le popolazioni nelle due diverse colonie, facendosi portavoce delle classificazioni di epoca coloniale che condizionarono gli arruolamenti, dettate dai pregiudizi razziali. Secondo questa tesi, i bashibuzuk che gli italiani ingaggiarono dagli ottomani, in poco tempo, attirarono molti etiopici. Questi avrebbero avuto insito un certo senso della disciplina militare, dovuto al fatto che in Etiopia erano sempre stati presenti leader capaci di radunare grandi gruppi di armati e che erano frequenti le mobilitazioni di massa, per motivi di guerra e di razzia59. Senza contare che, come detto nel primo capitolo, l’arruolamento degli etiopici nei reparti eritrei non fu sempre guardato con favore dai comandi italiani, il testo manteneva una visione razzista della
56 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, op. cit., p. 141 57 AUSSME, Fondo D3 Somalia, b. 12, fasc. 7, op. cit., 1905, p.1 58 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, op. cit., p. 139 59 Ibidem
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realtà locale, accostando, a quello che veniva definito nel testo “ceppo etiopico”, capacità belliche derivanti dalla pratica delle razzie. Parlando invece delle popolazioni eritree, un testo di Volterra permette di comprendere come alcune dinamiche locali influirono nella formazione dei reparti di ascari. Volterra parte dal fatto che in Eritrea esistono due modelli economici, a loro volta corrispondenti a due diversi ecosistemi: il modello pastorale o agricolo-pastorale è praticato prevalentemente nel bassopiano, contraddistinto da un clima secco e dalla savana; il modello dell’agricoltura, che si basa sull’utilizzo dell’aratro, è invece presente nell’altopiano, caratterizzato da un clima temperato e con due periodi, nel corso dell’anno, con piogge frequenti60. Per secoli, il possesso della terra è stato escluso ai musulmani, quindi l’agricoltura è stata praticata unicamente dai cristiani ortodossi. I musulmani invece, hanno una secolare tradizione pastorale, talvolta nomade. Il “confrontoscontro” tra pastori musulmani nomadi e contadini cristiani sedentari favorì lo sviluppo del chitét, indicato da Volterra come una chiamata alle armi generalizzata per tutti gli uomini in grado di combattere. Gli italiani osservarono e compresero questa pratica, legata alla difesa del territorio61. Sia chiaro che questa consuetudine non giustifica minimamente le etichette che gli italiani diedero alle popolazioni colonizzate e della penisola arabica, anche dopo la fine del colonialismo. Volterra espime infatti la sua perplessità sul concetto di cultura guerriera che, in molti testi di ex ufficiali, viene attribuita agli eritrei che combatterono con gli italiani:
“Mi sembra più corretto parlare di un’area dove diverse culture individuano il coraggio fisico come un elemento che, non solo qualifica positivamente l’individuo, ma gli permette di accrescere il proprio prestigio sociale”62 .
Si può quindi affermare che i colonizzatori, oltre a collegare direttamente ai diversi popoli determinate caratteristiche, influenti sulle loro scelte in materia di arruolamenti, compresero anche una consuetudine locale che, effettivamente, rese un considerevole numero di individui in un certo senso “abituato” all’arruolamento. Le popolazioni incontrate in Eritrea sono poi indicate, sempre nel volume dell’opera L’Italia in Africa, come più aperte nei confronti degli europei, soprattutto quelle cristiano-ortodosse, rispetto ai somali che, in una descrizione molto eurocentrica, sarebbero stati isolati dal resto del mondo per gran parte della loro storia, oltre
60 Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, op. cit., p. 29 61 Ivi, p. 30 62 Alessandro Volterra, Progetto Ascari. Dalla storia degli Ascari, la radice della Nazione, verso lo sviluppo. Per una ricognizione documentaria della storia degli Ascari (1931-1941), Roma, Edizioni Efesto, 2014, pp. 2930
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ad abbracciare una fede religiosa dipinta come intransigente e talvolta fanatica63. Queste ultime affermazioni sono utili a conoscere la considerazione che gli italiani ebbero, almeno fino a metà degli anni venti, dei somali. Tali convinzioni ebbero ripercussioni sugli arruolamenti dei somali anche quando venne costituito il Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia, come verrà detto in seguito. Oltre a queste idee sulle popolazioni somale e alle consuetudini eritree che, come analizzato da Volterra, facilitarono la costituzione dei reparti nella prima colonia, in Somalia pesarono però soprattutto alcuni limiti di natura economica. Questi ultimi su tutti costrinsero gli italiani a mantenere per diverso tempo i reparti chirobotos64. La società di Filonardi era stata infatti costituita con mezzi abbastanza modesti.
La situazione economica italiana, nel 1893, non era favorevole e, secondo Del Boca, fu questa ragione che portò il governo italiano ad applicare il sistema dell’indirect rule, delegando l’amministrazione della colonia ad una società commerciale
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. Con la convenzione dell’11 maggio 1893, il governo concesse alla Società Filonardi l’esercizio triennale dei porti e dei mercati del Banadir, garantendogli una sovvenzione annua di 300.000 lire. La società privata, dopo aver ricevuto dallo stato la delega all’esercizio dei porti, porti, avrebbe dovuto incrementare i commerci, oltre a fortificare le città costiere e dotare la colonia di un corpo poliziesco. La Società Filonardi era tenuta a versare al sultano di Zanzibar 160.000 rupie all’anno. La stessa società aveva anche diversi altri compiti, che comportavano ulteriori spese. Per esempio, doveva provvedere a versare l’appannaggio ai sultani di Hobyaa e Majerteen e applicare gli atti generali di Berlino e di Bruxelles inerenti la tratta degli schiavi e il commercio di armi da fuoco e alcolici66. Tra questi incarichi, c’era quello di garantire la sicurezza interna della colonia, dato il pericolo rappresentato da alcune popolazioni che
63 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, op. cit., p. 139 64 Ivi, p. 140 65 Non vengono date le cifre investite da Filonardi e non vengono specificati i problemi economici italiani in quell’anno. Si fa probabilmente riferimento alla crisi economica di fine Ottocento. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 567 Domenico Quirico citava anche, come motivo di questa scelta, i problemi derivanti dalla prima colonia, l’Eritrea, alludendo forse agli scontri che gli italiani ebbero con gli etiopici. In ogni caso, le risorse destinate all’Eritrea imposero al governo italiano di limitare quelle per il Banadir. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 211;Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, op. cit., p. 139 66 Del Boca descrive l’opzione, da parte italiana, di adottare l’indirect rule in Somalia per certi versi sensata, dal momento che dispensava le finanze statali da spese e rischi importanti ma, per altri aspetti, profondamente irresponsabile, perché affidava una colonia, secondo l’autore in preda alla miseria e al caos, ad una Società priva di capitali ed esperienza necessari ad amministrarla. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., pp. 567-568
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abitavano le zone circostanti i porti, definite nelle fonti come caratterizzate da ostilità verso gli italiani67. Il problema si pose il 10 ottobre del 1893 a Marka, quando un somalo uccise con una pugnalata il tenente di vascello Maurizio Talmone, appena sceso dalla nave Staffetta68 . L’assassino venne colpito da un ascaro con una fucilata e ucciso da un altro con il pugnale69 . L’autore somalo Abdisalam Issa Salwe definisce in uno dei suoi lavori l’omicidio di Talmone come il primo atto di resistenza somala alle interferenze italiane nella Somalia meridionale70 . Per rappresaglia contro l’omicidio, il capitano Edoardo Incoronato, comandante della Staffetta, fece sparare 135 granate dal mare contro la città di Marka. La popolazione venne poi costretta a consegnare alle forze italiane tutte le armi da fuoco71. Numerosi anziani che abitavano a Marka vennero arrestati e deportati in Eritrea72. Nonostante questa situazione, instabile per gli italiani, la carenza di capitali obbligò Filonardi ad affidare la sicurezza ai chirobotos, data l’impossibilità di creare un corpo di polizia più efficiente73. La Società
Filonardi non modificò l’ordinamento preesistente, comprese le paghe inadeguate. Gli italiani si limitarono ad aumentare il numero dei miliziani. Non sempre le fonti indicano il numero degli effettivi, ma Del Boca scrisse che arrivarono a 680 alla fine del 189374. Gli aghida e i graduati vennero mantenuti, ma il comando effettivo passò ai funzionari italiani che venivano inviati nelle varie località del Banadir75. Sulla relativa economicità di questo sistema, è particolarmente illuminante una lettera scritta dall’esploratore Ugo Ferrandi a Filonardi nel febbraio 1896. Parlando delle truppe da adoperare in colonia, secondo Ferrandi era meglio rinunciare a far sbarcare ascari eritrei da Massawa, che erano molto costosi. Per lui, gli arabi delle coste del Banadir erano abbastanza idonei ad essere istruiti militarmente. I loro aghida, sotto sorveglianza italiana, avrebbero potuto renderli utili76. Per quanto riguarda i loro impieghi in questo periodo, gli scritti di Giacomo Trevis consultati presso l’archivio del Ministero degli Esteri e un saggio sullo stesso Trevis sono stati particolarmente utili.
67 Renato Trevis, “Il capitano Ugo Ferrandi a Lugh”, in (non vengono indicati il nome della rivista, il luogo dell’edizione e la data), Luigi Cappelli editore, p. 287 68 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 568 69 Non viene specificato se i due ascari fossero eritrei o autoctoni. Vicinanza, La Somalia italiana, op. cit., p. 241 70 Abdisalam M. Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, London, New ed, 1996, p. 20 71 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., pp. 568-569 72 Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 20 73 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., pp. 568-569 74 Ivi, p. 569; Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 37 75 RCTC Somalia, “Appunti per la storia del R. Corpo Truppe Coloniali”, op. cit., p. 1 76 La lettera di Ferrandi sembrerebbe una risposta a una richiesta, da parte di Filonardi, di inviare nel Banadir reparti di ascari eritrei. Renato Trevis,“Il capitano Ugo Ferrandi a Lugh”, op. cit., pp. 203-204 66
Trevis, ex tenente di complemento, era impiegato nell’amministrazione di un istituto bancario a Roma quando, all’inizio del 1893, incontrò Filonardi. Scelse di partire per la Somalia e diventare collaboratore della omonima società commerciale77. Inizialmente operò a Zanzibar per il consolato italiano, distinguendosi nel salvataggio di una nave italiana che si era incendiata e nel sostegno che diede alle richieste di risarcimento fatte dagli armatori al tribunale consolare. Nel febbraio del 1895 raggiunse Filonardi a Muqdisho per coadiuvarlo con il lavoro alla società, mentre l’esploratore Ugo Ferrandi diventava agente della compagnia a Barawe. Nel saggio di Del Monte, viene citato uno scambio epistolare tra Trevis e Ferrandi, non datato ma molto probabilmente di questo periodo ( Trevis venne assassinato da un somalo a inizio 1897), dove il primo si lamentava del comportamento di un gruppo di chirobotos nel corso di una esplorazione da Muqdisho verso l’interno, in una non precisata area boschiva. Un certo numero di somali avevano attaccato Trevis e i suoi soldati arabi, ma solo cinque o sei affrontarono gli aggressori, riuscendo a respingerli, mentre tutti gli altri, dei quali non viene detto il numero, si rifiutarono di proseguire nell’avanzata. Dopo che i somali furono allontanati, Trevis e i chirobotos sotto il suo comando tornarono a Muqdisho78 .
Il primo scritto consultato all’archivio storico e diplomatico del Ministero degli Esteri è firmato da Trevis, datato 3 giugno 1896 ma si riferisce ad avvenimenti di inizio giugno 1895. Egli aveva infatti compiuto una escursione per fare visita al sultano dei Geledi79. Nel libro di Lee Cassanelli, quello dei Geledi è indicato come un clan80. Una fonte coloniale indica Gheledi come un centro agricolo popolato e poco distante da Muqdisho. Trevis fu il primo italiano ad arrivarci e a conoscere personalmente il sultano locale, partendo da Muqdisho l’8 giugno del 1895 e facendovi ritorno due giorni dopo. Il sultano lo trattò come reggente del governo della colonia. Inviò a Muqdisho, dopo aver conosciuto Trevis, un corriere con alcune lettere destinate al Re d’Italia Umberto I81. Giacomo Trevis partì da Muqdisho con una carovana composta da 9 cammellieri, 70 chirobotos e 6 “servi”. Dal spunto di vista di Trevis, gli ascari, nel corso della visita, furono insolitamente disciplinati e uniti, secondo lui perché
77 Del Monte, “Un pioniere africano. Giacomo Trevis”, op. cit., p. 474 78 Ivi, pp. 470-473 79 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, pos. 66/2, fasc . 21, appunti di Giacomo Trevis, Barawe, 3 giugno 1896 80 Nel testo, i clan erano definiti come le più grandi unità esogamiche della società somala. I matrimoni fuori da un clan erano sollecitati, perché permettevano di allargare i potenziali alleati che, in caso di bisogno, potevano essere chiamati. I clan costituivano anche unità territoriali, dal momento che ognuno di essi era associato ad un’area impiegata per i pascoli. Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., pp. 17-18
81 Del Monte, “Un pioniere africano. Giacomo Trevis”, op. cit., pp. 473-476 67
colpiti dal fatto che la popolazione fosse numerosa. Come loro solito, gli ascari si dimostrarono estremamente sobri e resistenti nella marcia82 .
Il secondo scritto di Trevis è firmato ma non è datato, anche se il testo del collaboratore di Filonardi indica che i fatti descritti avvennero nell’estate del 1895. Questo scritto è stato da lui intitolato “Spedizione contro gli Abgal (Dinle)”83. Nel giugno del 1895, un uomo e una donna somali, schiavi del clan Abgaal, sarebbero riusciti a fuggire e ad arrivare a Muqdisho. Trevis li fece liberare e offrì protezione, rifiutando le richieste di restituzione che arrivarono dal proprietario84. I somali del clan, per quella che il Trevis indica come rappresaglia, pur non entrando nella città, nei giorni seguenti uccisero un chiroboto e razziarono molto bestiame appartenente alla città di Muqdisho, compresi tre buoi di proprietà dello stesso Filonardi85 . Alla fine di luglio, Trevis ordinò a 90 chirobotos di prepararsi per una spedizione contro gli Abgaal, con l’obiettivo di recuperare il bestiame. Intendeva arrivare al pozzo di Eladde, a 24 chilometri da Muqdisho, dove gli Abgaal tenevano numerosi capi di bestiame. Per impedire ai somali di evitare lo scontro, divise gli ascari e le direttrici: lui, al comando di 60 soldati, avrebbe percorso la strada nell’interno; uno sciausc avrebbe diretto i rimanenti 30 lungo il mare. Trevis e i suoi riuscirono ad arrivare a destinazione. I somali fuggirono appena videro l’italiano con i suoi soldati arabi: Trevis sequestrò molti animali degli Abgaal (asini, cammelli, buoi) e fece arrestare dagli ascari 18 somali (uno di questi veniva indicato come “un capo” nello scritto)86. Durante il ritorno a Muqdisho, noncuranti dei suoi ordini, gli ascari saccheggiarono diverse capanne e spararono contro la popolazione. Il mattino dopo, alcuni Abgaal anziani si recarono a Muqdisho per restituire parte dei buoi precedentemente rubati. Affermarono che il furto era stato compiuto dagli Abgaal del villaggio di Dererta. I capi di Dererta non erano venuti, ma avevano consegnato agli anziani la refurtiva affinché venisse riportata a Muqdisho. Trevis fece liberare i somali arrestati e ordinò agli armati arabi di restituire quanto avevano rubato dalle capanne. Pianificò immediatamente dopo una
82 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, pos. 66/2, fasc . 21, appunti di Giacomo Trevis, Barawe, 3 giugno 1896 83 Ivi, appunti di Giacomo Trevis (s.d., riferiti al giugno 1895) Nel testo di Lee Cassanelli, gli Abgaal sono indicati come un clan. Cfr. Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., pp. 17-18 84 Trevis scrisse che il proprietario non si recò personalmente da lui, ma che fece sapere a lui direttamente che esigeva la restituzione degli schiavi fuggitivi. Cfr. Ibidem 85 Dal momento che Trevis nega che si sia verificato l’ingresso dei somali a Muqdisho, è possibile che il furto del bestiame “appartenente alla città” sia avvenuto nel territorio degli Abgaal. Quello che il colonialista definiva quindi come una ripercussione per la sua scelta di liberare degli schiavi, poteva in realtà essere un atto che gli Abgaal praticarono contro bestiame straniero nelle terre che il clan adoperava per i propri pascoli. ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, pos. 66/2, fasc . 21, appunti di Giacomo T revis (s.d., riferiti al giugno 1895) 86 Ibidem
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spedizione contro Dererta, a nord di Muqdisho. Uscì dalla città con 60 chirobotos (indicati qui come indisciplinati), 12 cammellieri e alcuni uomini indicati come servi. Dopo alcuni giorni di marcia, incontrati dei somali, inviò una guida per far loro presente che desiderava parlare e che, se si fossero rifiutati di ascoltarlo, i suoi ascari li avrebbero attaccati87. I somali lanciarono delle frecce contro la guida, e seguirono degli scontri. Nella narrazione dei fatti, Trevis parlò dei soldati arabi del Banadir in modo differente da quanto visto nelle altre fonti:
“Grandissima era l’eccitazione degli ascari: gridavano, cantavano, correvano ai cammelli e si caricarono di pacchi di cartucce.[…] Mi avanzava alla testa degli ascari sperando di poter parlamentare, quando una volata di frecce passò sulla nostra testa e un ascari dietro me cadde colpito da una di esse. Facemmo allora fuoco e i Somali[…]fuggirono precipitosamente. Diversi Somali caddero e non mi fu possibile impedire che atti di ferocia non fossero consumati su qualche ferito.[…] L’eccitazione degli ascari era indescrivibile. Era un continuo crepitare di fucilata in ogni direzione”88 .
Dopo questo scontro, Trevis optò per raggiungere il villaggio e occuparlo. I somali del luogo sopraggiunsero e cercarono di resistere, ma i cammellieri e gli ascari riuscirono, con i fucili, ad ucciderne due e a disperdere tutti gli altri. I soldati arabi sarebbero stati intenzionati a incendiare il villaggio somalo e le piantagioni della zona, ma Trevis avrebbe impedito sia gli incendi che i saccheggi. Nel villaggio si trovava uno schiavo incatenato che venne portato a Muqdisho e liberato, alcuni giorni dopo, da Filonardi, quando quest’ultimo rientrò nella città dall’Europa. L’episodio fu concluso proprio con alcune riflessioni sugli ascari arabi:
“Io e gli ascari eravamo sfiniti dalla fatica: avevamo percorso in 24 ore circa 100 kilometri, molti dei quali in terreno sabbioso e privo d’acqua e marciando l’intera giornata sotto un sole cocente. Se i somali ci avessero assaliti all’improvviso con impeto, approfittando della vegetazione, del loro numero e dello sbandamento degli ascari, avrebbero potuto causarci fortissime perdite.[…] In queste occasioni dovetti convincermi che i kiroboto sono un elemento difficilissimo a condurre. Eccitabilissimi prendono la mano con facilità e non trattarli con tatto e pazienza potrebbero essere causa di disordini gravi”
89 .
Negli scritti di Giacomo Trevis quindi i chirobotos sono descritti con una alternanza del soprannome dispregiativo con il termine “ascari”. Il razzismo e il senso di superiorità sono
87 Ibidem 88 Ibidem 89 Ibidem
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sicuramente evidenti. Questa fonte si discosta comunque dalle altre consultate perché ammette delle qualità combattive in quei reparti.
I chirobotos furono anche coinvolti in un evento, per alcuni di loro mortale, che per diversi autori segnò profondamente le relazioni tra i somali e gli italiani90. Quella che è ricordata nella storiografia italiana come la strage di Lafoole, trovò infatti un posto particolare anche nella tradizione orale somala. Il 1896 era infatti ricordato, almeno fino agli anni in cui Cassanelli scrisse il suo libro, come l’Axad Shekki, tradotto dallo studioso come “l’anno della domenica di Cecchi”. L’esploratore Antonio Cecchi, infatti, insieme a numerosi italiani e chirobotos, rimase ucciso da alcuni combattenti somali91. In seguito alla strage, gli italiani reagirono con una rappresaglia molto feroce, impiegando reparti di ascari locali ed eritrei. Nel corso di questa ricerca sono stati consultati documenti d’archivio riguardanti sia la strage che la successiva repressione. Prima di passare a questi, è però necessario soffermarsi sul contesto storico in cui il massacro avvenne.
A metà del 1896, la situazione nel Banadir era problematica per gli italiani. I pericoli per i colonizzatori provenivano sia dai confinanti etiopici, sia dalle stesse popolazioni locali, che opponevano una strenua resistenza alla presenza italiana in Somalia. In quei mesi, gli etiopici avevano infatti compiuto numerose incursioni nella zona di Luuq; individui somali avevano ucciso invece un ascaro a Warshiek e, in altre località, sempre per mano locale, si erano verificati furti di bestiame92. Nello stesso periodo, in seguito al fallimento finanziario della sua società, Filonardi perse il controllo dei porti del Banadir, che il governo italiano subaffittò
90 Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op.cit, p. 202; Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 749; Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 22 91 Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., pp. 202-203 92 Gian Carlo Corada, Angelo Del Boca (prefazione), Lafolè. Un dramma dell’Italia coloniale, Roma, Ediesse, 1996, p. 120 Luuq si trovava al limite della zona d’influenza italiana, ed era in un territorio conteso con gli etiopici. Dall’aprile del 1895, gli etiopici avevano riscosso alcuni tributi. Crispi, che sottovalutava il disegno espansionistico (verso i somali) e difensivo (nei confronti dell’influenza italiana) dell’imperatore etiopico Menelik II, diede incarico a Vittorio Bottego e ai suoi ascari di occupare Luuq per il tempo necessario a costruire una stazione commerciale. In questo stesso periodo, il governatore dell’Eritrea Baratieri aveva realizzato l’occupazione di Adwa e di Adigrat: i comandi italiani avevano capito che lo scontro contro gli etiopici sarebbe stato solo questione di tempo. Bottego e i suoi uomini, dopo aver compiuto numerosi massacri contro le popolazioni somale incontrate, arrivarono a Luuq il 19 dicembre. L’esploratore Ugo Ferrandi, direttore della stazione commerciale di Luuq, raggiunse Bottego nella località. I due esploratori diressero la costruzione di un forte, che venne ultimato il 27 dicembre. Ferrandi rimase a Luuq con 43 ascari, col compito di costituire un argine alle incursioni etiopiche; Vittorio Bottego proseguì la sua missione, di spionaggio e guerriglia camuffata da esplorazione scientifica, fino al cuore dell’Etiopia, dove rimarrà ucciso, insieme alla maggior parte degli ascari sotto il suo comando, in uno scontro con i soldati etiopici avvenuto il 16 marzo del 1897. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., pp.571-574 e pp. 746-747 70
in seguito alla Società Anonima Commerciale Italiana del Benadir, comunemente chiamata Società Commerciale Benadir93. Filonardi fece in tempo, forse per cercare di incassare quanto più denaro possibile e per creare problemi alla nuova amministrazione, a introdurre nuove tasse che, pur essendo previste nei trattati, diffusero notevole malcontento presso la popolazione locale, in particolar modo tra i commercianti indiani. Nonostante questo clima di tensione, l’esploratore Antonio Cecchi decise di organizzare una spedizione a Gheledi.94. Per
quale motivo? I suoi disegni si intrecciavano con un evento epocale, sia per la storia d’Italia che per quella del Corno d’Africa, accaduto solo pochi mesi prima. Il 1º marzo 1896, l’esercito etiopico, sotto la guida del negusa nagast (dall’amarico “re dei re”, imperatore) Menelik II, inflisse una pesante sconfitta all’esercito italiano nella battaglia di Adwa
95 .
L’evento, che in questo lavoro può essere affrontato solo in sintesi, fu importantissimo per molteplici ragioni. Dopo la battaglia di Isandlawna (nell’attuale Sudafrica) del 1878, in cui i combattenti della popolazione degli Zulu sconfissero gli inglesi, fu l’unico scontro che vide un popolo africano vittorioso su uno europeo96. Oltre ad essere quindi fondamentale per gli etiopici (ed estremamente traumatico per gli italiani), la vittoria, che venne in tutto il mondo interpretata come una vittoria dei neri sui bianchi, ebbe anche un importante significato in tutte quelle realtà geografiche, dagli Stati Uniti d’America al Sudafrica, dove la vita dei neri era segnata dal razzismo e dal potere dei bianchi. Per tutte queste persone, oppresse e discriminate, la vittoria etiopica rappresentò un faro di indipendenza e di resistenza97 . Questa
93 Trunji, Somalia. The untold history 1941-1969, op.cit. , p. XXXI Trunji indica, come periodo di gestione della colonia da parte della Società Benadir, gli anni 1896-1905. Tripodi riporta invece che, dal 1896 al 1898, la colonia fu amministrata direttamente dal governo italiano, che solo nel 1898 delegò la gestione alla Società del Benadir, gestione revocata nel 1905, come detto anche da Trunji. Cfr. , The colonial legacy in Somalia. Rome and Mogadishu. From colonial administration to Operation Restore Hope, op.cit., p. 27 Il possesso della colonia venne effettivamente preso dalla Società Benadir nel gennaio 1900. Cfr. Gian Luca Podestà, Il mito dell’impero. Economia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa Orientale 1898-1941, Torino, Giappichelli, p. 91 94 Non vengono specificate le tasse introdotte e i trattati di riferimento. Per questi ultimi, si può ipotiz zare che l’autore si riferisca agli accordi presi dal governo italiano con la società Filonardi al momento del subaffitto dei porti del Banadir. Corada, Lafolè. Un dramma dell’Italia coloniale, op. cit., p. 121 95 La battaglia di Adwa fu il culmine degli scontri tra Italia e impero etiopico, iniziati nel 1886, quando l’armata di Ras ( dall’amarico “testa”, il titolo nobiliare e militare etiopico immediatamente precedente a quello di sovrano,a sua volta chiamato negus) Alula annientò un battaglione italiano aTedalì, in seguito all’occupazione italiana di alcuni territori etiopici. Dallo sbarco di Massawa, gli italiani infatti cercarono continuamente di espandere la loro influenza ai danni del confinante impero. Nonostante il trattato di Wuchale, a cui i due paesi arrivarono nel 1891, che avrebbe dovuto stabilire i confini della Colonia Eritrea con l’impero etiopico, l’aggressività del colonialismo italiano non si attenuò. In seguito all’occupazione italiana della regione del Tigray, avvenuta alla fine del 1895, l’imperatore Menelik dichiarò guerra all’Italia. La battaglia di Adwa pose fine alle ostilità e alle mire italiane verso l’Etiopia. Cfr. Tekeste Negash, L’Etiopia entra nel terzo millennio, Roma, Aracne, 2009, pp. 70-77 Per le definizioni e traduzioni di negusa nagast e di ras Cfr. Bahru Zewde, A History of Modern Ethiopia 1855-1991-2. ed., Oxford: James Currey, Athens: Ohio University Press, Addis Ababa: Addis Ababa University Press, 2001, p. 275 96 Negash, L’Etiopia entra nel terzo millennio, op. cit., pp. 70-77 97 Zewde, A History of Modern Ethiopia 1855-1991, op. cit., p. 81 71
vittoria permise all’impero d’Etiopia di rimanere indipendente per un quarantennio dal colonialismo, prima dell’aggressione e dell’occupazione militare del suo territorio da parte delle forze armate dell’Italia fascista98. In Italia la sconfitta rappresentò un evento particolarmente traumatico, per gli stessi motivi che furono così significativi e importanti per gli etiopici e per tutti i colonizzati: l’esercito italiano si trovò ad essere l’unico esercito, composto da bianchi, ad aver subito una pesante sconfitta da un esercito africano. Crispi dovette dimettersi da presidente del Consiglio, il paese fu attraversato da una forte opposizione anticoloniale, che andava da chi chiedeva l’abbandono della colonia Eritrea, come i socialisti, a chi proponeva nella prima colonia l’adozione dell’indirect rule, come nel Banadir. La Corona e il nuovo governo, pur essendo ovviamente scossi dalla sconfitta, non cedettero99. Antonio Cecchi, inviato a Muqdisho in questi mesi con il compito di liquidare la Società Filonardi (la gestione sarebbe passata successivamente agli imprenditori cotonieri della Società del Benadir), temeva le ripercussioni della vittoria etiopica sui possedimenti italiani in Somalia. Era convinto che gli etiopici, alla luce del loro straordinario successo nel respingere l’aggressione italiana dall’Eritrea, avrebbero intensificato le loro azioni dall’altro lato, nell’Oceano Indiano, verso i confini della seconda colonia italiana100. Nonostante la presenza del forte di Luuq, difeso da un reparto di ascari al comando dell’esploratore Ugo Ferrandi, rappresentasse un discreto ostacolo alle incursioni, Cecchi lo riteneva insufficiente nel caso di una eventuale invasione etiopica. Gli etiopici consideravano inoltre Luuq come parte del loro territorio: in una circolare da loro inviata, nel 1891, a tutte le potenze europee,
98 Negash, L’Etiopia entra nel terzo millennio, op. cit., p. 70 L’esito dello scontro fu dovuto sia alle capacità tecnologiche e di leadership etiopiche che a negligenze da parte dei comandi italiani. L’impero etiopico arrivò allo scontro con un arsenale di tipo moderno molto avanzato. Dagli anni1855-1868, sotto il negusa nagast Tewodros, nel paese si era prestata molta cura alla realizzazione di un arsenale moderno, che negli anni ‘80e ’90 venne ampliato con armi europee(fucili moderni, mitragliatrici e artiglieria) donate e vendute da diversi paesi, come la Russia e addirittura l’Italia, nel periodo dei trattati. Da un punto di vista politico e di strategie militari, Menelik e sua moglie, l’imperatrice T’aytu, dimostrarono grandi abilità nella mobilitazione e coordinamento dei loro armati. Invece, i comandi italiani, nel corso della battaglia commisero molti errori nelle comunicazioni, operarono con un numero insufficiente di proiettili d’artiglieria, a sua volta imposto dalla carenza di muli per il trasporto, e dimenticarono i telegrafi ottici, che avrebbero permesso di comunicare in tempo reale con le colonne e che, secondo Quirico, avrebbero potuto ribaltare l’esito della battaglia. Cfr. Zewde, A History of Modern Ethiopia 1855-1991, op. cit., pp. 33-34; Daniel Headrick, Al servizio dell’impero. Tecnologia e imperialismo europeo nell’Ottocento( The Tools of Empire), Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 129-130; Daniel Headrick, Il predominio dell’Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo(Power over Peoples), Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 259-260; Negash, L’Etiopia entra nel terzo millennio, op. cit., p. 70; Emilio Bellavita, Adua. I precedenti, la battaglia, le conseguenze (1881-1931), Genova, Rivista di Roma, 1931, p.398; Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p.651; Giorgio Rochat, “Adua. Analisi di una sconfitta”, in Angelo Del Boca (a cura di), Adua. Le ragioni di una sconfitta, Roma, Laterza, 1997, p. 352; Domenico Quirico, Adua. La battaglia che cambiò la storia d’Italia, Milano, Mondadori , 2004, p. 329 99 Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, op. cit., pp. 82-83 100 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., pp. 741-742 72
essi affermavano che il confine con la colonia italiana non passava a Luuq, ma a Baardheere, 120 chilometri più a sud. Queste rivendicazioni e gli sconfinamenti nella zona, probabilmente, non erano unicamente dettati dalla volontà di riscuotere tributi, ma costituivano anche un tentativo di prevenire una eventuale occupazione italiana della regione di Harar101. Cecchi pensò allora di incontrarsi con il sultano dei Geledi, che controllava una regione abbastanza vasta lungo il fiume Shabeelle, per concordare con lui un piano di difesa comune contro gli etiopici, nel caso di una loro invasione102. Il commissario civile per il Banadir Emilio Dulio organizzò l’incontro tra il console Cecchi e il sultano. Lo zio del sultano rispose a Dulio che suo nipote era temporaneamente assente e che non si sentiva autorizzato a prendere una simile decisione al suo posto. Il console ed esploratore Cecchi decise comunque di procedere ad una esplorazione almeno fino alla sponda sinistra dello Shabelle, per osservare alcune coltivazioni locali ed eventualmente stipulare accordi commerciali con i capi della zona. Alcuni sciuba di Muqdisho assicurarono che quella zona era sicura. Le popolazioni che la abitavano non solo non avevano dato segno di ostilità verso gli italiani, ma avevano anzi custodito il bestiame della società Filonardi durante l’amministrazione appena conclusasi103. Cecchi compose quindi una carovana formata da 16 italiani, con gradi che andavano dal capitano di fregata a semplici marinai, e 70 chirobotos, comandati da due aghida. Gli italiani erano tutti su cavalli e cammelli, mentre gli arabi procedevano in parte a piedi e in parte su cammelli104. Un telegramma di pochi giorni successivo alla strage, inviato da Zanzibar a Roma, ricostruiva il massacro. Il pomeriggio del 25 novembre, la carovana guidata da Cecchi lasciò Muqdisho e, dopo alcune ore di marcia, si accampò nei pressi del villaggio di Lafoole105. Questo villaggio era il centro principale del clan Wa’daan, dove venivano commerciati i prodotti dell’interno con quelli della costa106 . All’una di notte, diversi somali (indicati in un telegramma come nomadi) attaccarono gli accampati, uccidendo sei ascari di sentinella. Gli italiani e gli arabi
101 Ivi, p. 742 102 Ibidem 103 Corada, Lafolè. Un dramma dell’Italia coloniale, op. cit., pp. 122-123 104 Ivi, p. 123 105 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, b. 66/2, fasc. 23, scritto di Marvasi (copia del telegramma di Dulio) al Ministero degli Esteri, Zanzibar, 2 dicembre 1896 106 Questo commercio riguardava diversi e variegati prodotti: dall’interno venivano commerciati cammelli (ritenuti all’epoca i migliori al mondo), buoi, capre, burro e miele; dalla costa provenivano invece tè e tabacco. Gli Wa’dan (italianizzati con Uadan, il nome originale è stato preso dal testo di Issa-Salwe) vengono chiamati con il termine improprio di “tribù” anche nel testo di Corada, nonostante lo stesso si caratterizzi per una ricostruzione meticolosa e per la condanna di ogni forma di colonialismo. Nel testo di Cassanelli, viene indicato invece come clan, in accordo con il testo di Issa-Salwe, anche se chiamato Wacdaan. Cfr. Corada, Lafolè. Un dramma dell’Italia coloniale, op. cit., pp. 123-124; Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., p. 310; Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 20
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reagirono con le loro armi da fuoco, uccidendo un certo numero di aggressori. Con il giorno, la carovana cercò di ripiegare su Muqdisho, ma i somali tornarono in numero molto elevato. Molti ascari rimasero uccisi, mentre altri fuggirono107. Secondo Marco Scardigli, anche se le esatte modalità della strage sono impossibili da ricostruire, non è da escludere che alcune sentinelle arabe potevano essere state corrotte dai somali, o addormentate con del sonnifero messo in latte successivamente offerto loro108. I morti furono 14 italiani, compreso Cecchi, e 18 arabi. Degli italiani, rimasero uccisi tutti gli ufficiali, a salvarsi furono un caporale timoniere e due marinai. Gli ascari feriti furono invece 17109. Come venne considerato il
comportamento degli ascari dagli italiani? Nella relazione del capitano De Vita del 1905, sulle truppe del Banadir, è scritto che, quando vennero attaccati a Lafoole, gli ascari si dimostrarono indisciplinati e terrorizzati. Molti di loro si sarebbero rifugiati dentro alcune tende, per poi rimanere uccisi dalle lance dei somali, che li avrebbero colpiti dall’esterno110 . Come riportato da Scardigli, che non escludeva questa possibilità, dopo il massacro non mancarono ipotesi italiane che incolpavano una parte dei chirobotos. I documenti consultati in archivio, che comprendono articoli del periodo, mostrano che la stampa non si soffermò sulle perdite subite dagli ascari, concentrandosi su quelle italiane . Un articolo del Corriere della Sera, più che descrivere la strage stessa, traccia un quadro del contesto in cui Cecchi, qui martirizzato e compianto, si era trovato ad operare. L’articolo riporta che a Muqdisho gli italiani trovarono molte difficoltà a reclutare 30 chirobotos, su 200 presenti, nonostante venisse loro raddoppiata la paga. Assieme a questi, vennero anche reclutati 20 somali, provenienti dal Sultanato Majerteen111. Tali armati sono qui indicati come abili all’uso di fucili a retrocarica. Questi uomini, guidati da Cecchi, furono radunati anche grazie all’aiuto del vali di Barawe, unico locale ad essere elogiato nell’articolo, descritto come uomo degno di molta stima112. Un articolo del quotidiano la Tribuna parla del fatto che tutti gli uomini della spedizione attaccata a Lafoole erano armati di carabine e provvisti di 3 scatole di munizioni, ad eccezione di un ufficiale che, considerando la spedizione al pari di una gita, aveva deciso
107 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, b. 66/2, fasc. 23, telegramma di Dulio trascritto e inviato da Marvasi al Ministero degli Esteri, Zanzibar, 2 dicembre 1896 108 Marco Scardigli, “Il provinciale d’Africa. Il Benadir e l’epistolario di Emilio Dulio (1885-1903)” in Studi Piacentini, 1995 109 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, b. 66/2, fasc. 23, telegramma di Dulio (trascritto e firmato da Marvasi) al Ministero degli Esteri, Zanzibar, 2 dicembre 1896
110 AUSSME, Fondo D3 Somalia, b. 12, fasc. 7, op. cit., 1905, p. 1
111 Ivi, articolo del Corriere della Sera, 6-7 dicembre 1896 112 Ibidem
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di non appesantirsi con oggetti superflui. Proseguendo con la lettura, emerge un particolare molto importante: la scelta di accamparsi a Lafoole, “origine di tutto il disastro”, venne presa dietro parere di un aghida. Dato che si trattava di un’area boschiva, molti somali riuscirono ad attaccare l’accampamento sfruttando alberi e cespugli come coperture113. Sulle sentinelle, nell’articolo viene detto che i somali le pugnalarono, non facendo perciò riferimenti all’uso di sonnifero e alle eventuali corruzioni. Sul seguito degli scontri, avvenuti la mattina dopo, viene però sottolineato che un numero esiguo degli ascari decise di “non abbandonare il posto loro stato assegnato”. Anche in questo caso, l’articolo è incentrato sull’eroismo degli italiani nel combattimento.114. Giacomo Trevis, poco dopo l’eccidio, scrisse che i chirobotos, efficienti nel servizio di guarnigione, sarebbero stati inclini a eccitarsi con troppa facilità fuori dalle mura dei centri dove svolgevano i loro servizi, e questo avrebbe facilitato gli attacchi ai somali115. Il commissario civile Dulio, invece, con un telegramma denunciava il fatto che gli arabi avrebbero sprecato enormi quantità di munizioni, sparando senza mirare accuratamente, nonostante le proteste degli italiani e i ripetuti inviti ad essere più cauti nell’utilizzo del munizionamento. A causa di questo comportamento, la carovana si sarebbe trovata con munizioni inadeguate116. Tutte queste accuse ai chirobotos, che andavano dall’addossare all’aghida il suggerimento di accamparsi in una zona che si dimostrò letale, allo spreco delle munizioni e alla fuga, nonostante le rassicurazioni di Dulio sul fatto di avere sentito sia i superstiti italiani che quelli arabi, sono impossibili da verificare, sia per il contesto storico delle fonti consultate sia per il fatto che molti dei protagonisti morirono in quell’evento. Oltre ai più volte menzionati fattori che potevano portare a simili dichiarazioni, come il razzismo, il disprezzo per i soldati arabi, può pesare anche, nel caso di Lafoole, un altro elemento, per certi aspetti collegato ai precedenti.
Gli italiani, di fronte alla sconfitta di Adwa e ad altri casi in cui registrarono perdite importanti, erano soliti scaricare gran parte (quando non integralmente) della responsabilità sui loro soldati africani e arabi. Questo avvenne per tutta la durata del colonialismo italiano, anche se Adwa, per ovvie e straordinarie ragioni, rappresentò probabilmente il caso più emblematico117 .
113Ivi, articolo de la Tribuna, 29 dicembre 1896 114 Ibidem 115 Ivi, appunti di Giacomo Trevis, Marka, 5 dicembre 1896 116 Ivi, articolo di giornale (titolo quotidiano illeggibile), 31 dicembre 1896 117(Alessandro Volterra, comunicazione personale, 4 luglio 2018). Anche Domenico Quirico, nel capitolo del suo libro sulla battaglia di Adwa, sottolinea come Baratieri, uno dei principali responsabili del disastro, inviò al 75
Dopo la strage, anche se nel testo non veniva specificato il giorno preciso, come previsto da Cecchi e Ferrandi, gli etiopici attaccarono a Luuq. Ferrandi, che seppe della morte del suo amico Cecchi da una lettera di Trevis, ricorda che fu particolarmente duro dover affrontare gli etiopici con l’aggiunta del lutto e della preoccupazione delle popolazioni vicine, anche se, in quella situazione, i somali non attaccarono gli italiani e gli ascari. Dopo 5 giorni e 5 notti di intensi combattimenti, Ferrandi e i suoi ascari riuscirono a respingere gli etiopici. In questo caso, il testo si sofferma maggiormente sull’eroismo di Ferrandi, sottolineando che egli adoperò personalmente un fucile per tutta la durata degli scontri, ma specifica anche che i suoi armati non disertarono, rimanendo nel forte a combattere fino alla fine delle ostilità118. Una volta saputo della strage, come riportato in un telegramma del 28 novembre, il commissario civile Dulio organizzò il recupero delle salme. Anche questo procedimento, come esplicitato dallo stesso Dulio, si distinse nella discriminazione. Il commissario, dopo aver inviato tutti gli ascari presenti nel Banadir nei pressi di Gheledi, per garantire la sicurezza da eventuali nuovi attacchi somali, invitò la popolazione di quel centro a dimostrare la lealtà al governo italiano recuperando i cadaveri. Pattuì con alcuni notabili locali che avrebbe dato loro (non è chiaro se ai notabili o alla intera popolazione) 200 lire per ogni corpo di italiano riportato, e 20 lire per ogni ascaro. Dulio richiese al Ministero degli Esteri di inviare tra 150 e 200 ascari eritrei a Muqdisho, dato che, per motivi non specificati, vi era l’ impossibilità di arruolarne altri localmente119 . Nelle fonti consultate nel corso di questa ricerca, riguardanti i recuperi dei corpi, questo episodio non viene più menzionato, non è quindi stato possibile sapere se quelle somme vennero pagate. Tale scelta testimonia che la discriminazione degli italiani verso i loro soldati locali arrivava anche alla considerazione data alle salme dei caduti e al loro recupero, che doveva avvenire dietro un pagamento dieci volte inferiore a quello riservato per il recupero dei morti italiani. Nei giorni successivi, ci furono altri scontri. In attesa dei rinforzi
ministero della guerra un telegramma che accusava gli ascari eritrei di essersi terrorizzati di fronte ai soldati etiopici. Le truppe eritree avrebbero, secondo la versione di Baratieri, abbandonato armi e munizioni per farsi catturare dagli etiopici da disarmati, sperando così di evitare l’evirazione. Questa sarebbe stata la causa principale della sconfitta: gli etiopici, pur disponendo di una minore capacità di fuoco, in seguito al comportamento degli eritrei si sarebbero motivati, riuscendo nella battaglia. Come scritto da Quirico, in accordo con le parole di Volterra, quello di Baratieri fu un tentativo di negare e riscrivere un evento. Tempo dopo, Baratieri stesso si pentì di aver inviato un telegramma che, come ammise, era vile e sciagurato. Secondo le stime di Del Boca, ad Adwa rimasero uccisi circa 1000 ascari eritrei, mentre 800 furono fatti prigionieri. Di questi, 406 vennero liberati con la mano destra e il piede sinistro amputati. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 206; Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 691 118 Cesare Cesari, “Ugo Ferrandi, il difensore di Lugh” in Gli annali dell’Africa italiana a cavallo tra il XIX e il XX secolo, Milano, Mondadori, giugno 1943, p. 458 119 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, b. 66/2, fasc. 23, articolo di giornale (titolo illeggibile), 31 dicembre 1896 76
eritrei, questi combattimenti vennero sostenuti dagli ascari locali. I comandi italiani, come indicato nel diario dell’ufficiale di marina Pietro Foscari, considerarono colpevoli dell’eccidio le popolazioni Wa’dan e Mursada. Vennero catturati dagli italiani 86 somali120. Con l’aiuto dei notabili di Muqdisho, gli italiani appresero che tra loro non vi era nessun Wa’dan, ma 14 Mursada. Gli italiani, supportati da un imam e da notabili locali, avviarono trattative con i capi Wa’dan, che desideravano liberare i Mursada. Diedero loro un ultimatum: se non avessero riportato i corpi entro le 10 del mattino del 2 dicembre a Muqdisho, avrebbero fucilato parte degli ostaggi. Trascorso questo tempo senza che la richiesta fosse accolta, per ordine di Dulio, un plotone di 12 ascari fucilò 5 uomini Mursada121. Diverse fonti documentano, dai primi di dicembre, gli invii di ascari eritrei in colonia. Il 4 dicembre, il ministro della Marina, Benedetto Brin, ordinò al comandante della nave Volta di partire da Napoli a Massawa, di imbarcare 200 ascari eritrei con ufficiali italiani, per poi farli sbarcare nel Banadir122. Un documento del 18 dicembre testimonia il recupero di alcuni corpi (tutti italiani) e della testa di Antonio Cecchi123. Lo stesso giorno, Dulio richiese ancora più ascari eritrei per compiere una repressione che fosse secondo il suo parere “efficace”: questi andavano da un minimo di 350 a 1200, se si voleva estendere la repressione al centro di Gheledi124. Il capitano di vascello Giorgio Sorrentino, nominato commissario straordinario per il Banadir, sbarcò a Muqdisho il 26 gennaio del 1897. Avviò una inchiesta che confermò la colpevolezza del massacro nelle popolazioni Wa’dan e Mursada. Vennero riconosciuti come istigatori due arabi, tra cui Abubaker, che era stato l’interprete di Filonardi. I due uomini erano stati danneggiati dalla liquidazione della Filonardi, e, secondo l’inchiesta, avrebbero aizzato le due popolazioni contro gli italiani. Le due popolazioni somale furono convinte dagli arabi che i colonizzatori avrebbero abolito la schiavitù e derubato loro delle terre lungo il fiume Shabelle125. Un documento di Sorrentino del 24 febbraio descrive una spietata rappresaglia, eseguita anche con reparti eritrei. Sfortunatamente, diversi termini e nomi di località sono illeggibili (almeno per chi scrive):
120 Corada, Lafolè. Un dramma dell’Italia coloniale, op. cit., pp. 16-127 Anche se manca ogni riferimento ai Byamaal nelle fonti italiane, bisogna segnalare che Abdisalam M. Issa-Salwe indicò nel suo lavoro, come responsabili della strage, alcuni combattent Wa’dan e Byamaal. Cfr. Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 22 121 Ivi, pp. 128-129 122ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, b. 66/2, fasc. 23, telegramma del ministro della marina Brin al comandante della nave Volta, Roma, 4 dicembre 1896 123 Ivi, telegramma di Marvasi al Ministero degli Esteri, Zanzibar, 18 dicembre 1896 124 Ibidem 125 Del Boca riportò che Abukare fu deportato a Massawa, non dicendo niente sulla sorte del secondo arabo, un certo Islam bin Muhammad. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., pp. 744-745
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“Ritenendo urgente decoro nazione, sicurezza colonia, atto rigore contro Wa’dan, principali autori eccidio Cecchi. […] ordinai a compagnia Eritrea […] circondare villaggio […] incendiare abitazioni[…] Sostegno ascari eritrei mandai compagnia suaheli […] ascari arabi occupare pozzi […] Trovandosi un capo con 70 somali. Il capo e un altro che tentò di fuggire furono presi fucilate, rimanente maggioranza donne e fanciulli furono condotte prigione Mogadiscio. Ascari ritirandosi, eseguite istruzioni, otturarono pozzi inquinando acque. Attendo Volta con ascari domandati. Credo equo proporre Regio governo considerare colonia Benadir stato guerra dal 26 novembre. Stabilirei quindi tribunale militare per punire indigeni istigatori ed autori massacro Cecchi. Colonia tranquilla”126 .
Il 20 aprile, dopo aver ricevuto due compagnie dall’Eritrea, Sorrentino guidò una spedizione punitiva indiscriminata ed efferata. Le truppe sotto il suo comando incendiarono Lafoole, Gellai e Res. Molte persone vennero fucilate e deportate127. Gli eritrei vennero supportati anche in questo caso da militi arabi e swahili. In uno scritto sulle devastazioni contro Gellai, Sorrentino esplicita che nel villaggio furono incendiate tutte le capanne e le coltivazioni, che la popolazione fuggì nella boscaglia e nessun abitante, anche di fronte all’incendio delle capanne, tentò di assalire gli ascari, qui chiamati “i nostri”. A Lafoole, gli incendi fecero esplodere numerose munizioni che i somali custodivano nelle capanne: per Sorrentino, si trattava di cartucce rubate a due compagnie da sbarco italiane, che il 27 novembre dell’anno precedente avevano tentato il recupero dei cadaveri. Nello stesso luogo, gli ascari trovarono anche effetti personali dei componenti della spedizione Cecchi, fatto che per Sorrentino toglieva ogni dubbio che incendi, massacri e devastazioni fossero riservati ai veri colpevoli: l’appartenenza allo stesso gruppo dei combattenti che uccisero gli italiani e gli arabi (che venga chiamato qabilah o “tribù”) costituiva, per questo ufficiale italiano e per tanti altri, elemento sufficiente per subire una punizione che andava dall’incendio della propria abitazione all’uccisione128. Sorrentino, ad un certo punto delle operazioni, comandò 140 arabi,
126 Questo è il documento, da un punto di vista cronologico, più antico della ricerca dove, insieme agli ascari eritrei e ai chirobotos arabi, viene specificata la presenza di combattenti neri reclutati nel Banadir, qui indicati con il termine “suaheli”. La parola faceva forse riferimento a certe popolazioni che il testo di Del Boca, distinguendoli dai somali, dagli arabi e dagli indiani che vivevano nel Banadir, indicava con termini impropri e inadeguati come “Bantu” e “negri”. In questo lavoro, quando non inseriti all’interno di una citazione, verranno indicati come ascari “suaheli” virgolettato. ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, b. 66/2, fasc. 23, scritto di Sorrentino al Ministero degli Esteri, Zanzibar, 24 febbraio 1897 127 In questo caso, non vengono specificati i luoghi di deportazione. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 745 128 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. I, b. 66/2, fasc. 28, scritto di Sorrentino al Ministro degli Esteri, Zanzibar, 6 maggio 1897
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50 swahili e 20 soldati del sultanato di Hobyaa, inviati dal sultano in appoggio agli italiani, per andare incontro a un reparto di eritrei, che nella boscaglia affrontava dei combattenti somali armati di archi e frecce appostatisi sugli alberi. Gli ascari e i combattenti del sultanato settentrionale riuscirono a infliggere perdite molto numerose ai resistenti locali. Al termine degli scontri, Sorrentino decise di donare a tutti i feriti 50 talleri, e diede la stessa cifra alla sorella di un ascaro morto, che non lasciava altri eredi. Il suo rapporto si conclude con una grande sottolineatura dei pericoli corsi, nella spedizione, soprattutto dagli ufficiali: i somali avevano sempre cercato di colpire prima i bianchi e, imbevuti di fanatismo religioso, erano pronti a cadere, pur di andare in paradiso129. Queste conclusioni sono particolarmente ridicole e contradditorie. L’azione venne infatti condotta nella massima parte da ascari, locali ed eritrei, che proteggevano i pochi ufficiali presenti. Oltre a questo, la situazione di enorme pericolo descritta nella chiusura del rapporto cozza, per certi aspetti, anche con la narrazione stessa della restante parte del documento. Gli ascari e gli italiani avevano armi da fuoco, a differenza dei somali, che agirono con archi. Come dimostrato a Lafoole, anche l’uso di armi bianche poteva comunque infliggere gravi perdite a uomini equipaggiati con fucili a retrocarica, ma ciò non toglie la disparità dei due equipaggiamenti. Inoltre, se nella spedizione del 20 aprile ci furono degli scontri nella boscaglia, la maggior parte delle operazioni si rivolse contro persone disarmate. Alla fine del testo, il rapporto contiene una pagina, fronte e retro, con una tabella. Questa veniva intitolata “Stato di proposte di ricompense pecuniarie ai graduati ed ascari che presero parte alla spedizione del 20 aprile 1897”. La tabella indicava, per ogni uomo proposto, le generalità, il grado, una somma di denaro (che era di 50 o di 100 talleri) e la motivazione. Le motivazioni descritte erano di vario tipo. Ad esempio, una indicava che un soldato era riuscito a uccidere e ferire alcuni somali, un’altra riferiva che un graduato aveva dimostrato spiccate capacità di leadership, che aveva trasmesso coraggio ai suoi uomini ed era stato un esempio per i suoi parigrado130 .
Nonostante la feroce risposta italiana, la resistenza nel Banadir non venne piegata131 . I Byamaal e i Wa’dan decisero di opporsi alle confische delle loro terre praticate dagli italiani. Pur potendo disporre di archi e lance contro le armi da fuoco, più o meno moderne, adoperate dagli ufficiali italiani e dai loro reparti di ascari, nonostante le alte perdite in vite umane,
129 Ibidem 130 Nel rapporto non sono presenti descrizioni atte a screditare gli ascari locali rispetto agli eritrei. Ibidem 131 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 745
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riuscirono a impedire agli invasori di raggiungere il controllo della riva occidentale dello Shabelle per molti anni132. Per tutto il decennio successivo alla strage di Lafoole, gli italiani rimasero sulla costa, e la loro politica coloniale fu segnata dall’incertezza e dalla indecisione. L’unica grande iniziativa in questo periodo verso l’interno fu, nel 1902, l’installazione di una guarnigione di ascari arabi, nei pressi di Baardhere. In questi anni, gli ascari del Banadir proseguirono i loro servizi soprattutto in azioni di prevenzione e repressione delle ribellioni133. I comandi italiani decisero di modificare il sistema ereditato dal sultano di
Zanzibar. Il prossimo paragrafo, partendo dalle prime modifiche, cercherà di affrontare questo percorso, che culminò con la creazione di un Regio Corpo di ascari, come fatto in Eritrea.
2.3 Dal Corpo delle Guardie del Benadir al Regio Corpo
Nel periodo 1898-1902, i chirobotos ebbero dei lievi aumenti di paga, mentre gli aghida erano tenuti, dagli italiani, a selezionare i combattenti in modo più restrittivo134. Queste modifiche, non ben approfondite nei pochi testi che le citano, furono comunque ricordate come provvedimenti di poco conto, in un periodo in cui non si fece praticamente nulla per dotare il Banadir di quelle truppe organizzate di cui gli italiani necessitavano, e che da tempo impiegavano in Eritrea135. Questi miliziani erano comunque essenziali per la sicurezza dei pochi italiani presenti in colonia. Quando l’amministrazione della colonia venne concessa alla Società, nel 1900, la situazione era molto difficile per i colonizzatori, come sottolinea Gian Luca Podestà136. Continuava a mancare il controllo effettivo del territorio. Il governatore Dulio, che era anche azionista della società, viveva a Muqdisho, mentre nelle altre località erano di servizio alcuni residenti italiani affiancati da piccoli reparti di ascari. Il territorio fuori dai centri continuava a rappresentare un pericolo per i pochi italiani presenti in colonia: “Nessun europeo poteva azzardarsi a mettere piede nell’interno se non con una forte scorta e,
132 Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 22 133 Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600 -1900, op. cit., pp. 204-205 134 I testi non dicono di quanto fossero i piccoli aumenti, né in cosa consistessero le maggiori garanzie richieste ai capi nelle selezioni. Cfr. Scala, Storia delle fanterie italiane, Vol.IV: Le fanterie italiane nelle conquiste coloniali, op. cit., p. 560 135 Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 37 136 Podestà, Il mito dell’impero. Economia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa Orientale 18981941, op. cit., p. 91
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a volte, avvenivano aggressioni anche all’interno delle località presidiate”137. Se quindi le fonti coloniali sono portate e dipingere eroicamente i pochi italiani presenti in colonia e a sottolineare i pericoli che correvano, Podestà conferma che tali pericoli erano presenti nella Somalia meridionale, oltre ad evidenziare il carattere frammentario dei territori effettivamente controllati. Gli ascari impiegati continuavano ad essere arabi . Infatti, questo emerge da una relazione di un ufficiale, indicato come tenente U. Bossi, citata da Scardigli e contenuta all’interno di una documentazione della Camera dei deputati inerente le condizioni e l’amministrazione del Banadir. La relazione, datata 3 dicembre 1902, descrive questo quadro:
“Non vi è un regolamento che consideri il reclutamento e gli obblighi degli ascari. Gli ascari sono reclutati tra gli arabi in ispecie di Mascate e dell’Hadramaut. Al cominciare dal monsone di nord-est molti arabi, spinti dalla miseria generale, emigrano lungo la costa d’Africa e si fermano volentieri nel Benadir dove esercitano il piccolo commercio ed il mestiere di soldato.[…]Tra gli ascari vi sono degli schiavi che non hanno nemmeno le doti del coraggio e dell’amor proprio che distinguono gli arabi, ma che servono per aumentare un po’ la paga dei loro padroni, graduati fra gli ascari o capi delle nostre azioni”
138 .
Nella già citata relazione del capitano di vascello Onorato Buglione di Monale, ancora il 2 febbraio 1903, viene segnalata dall’ufficiale l’inadeguatezza e la poca professionalità degli ascari impiegati dalla Società del Benadir. Vengono accostati ai bashibuzuk, disciolti molti anni prima, per quanto riguardava la disorganizzazione e la scarsa professionalità. Gli stessi mancavano delle “qualità soldatesche” presenti negli irregolari che l’esercito italiano ereditò in Eritrea dagli egiziani. La colonia Eritrea, dal canto suo, inviava i suoi efficienti reparti di ascari in aiuto ai funzionari e agli ufficiali italiani presenti nel Banadir, ma dopo un certo periodo li richiamava. Se è vero che, come per il caso della feroce rappresaglia eseguita dopo l’eccidio di Lafoole, il Governo dell’Eritrea inviò nel Banadir i suoi reparti in appoggio alle forze locali durante le operazioni contro la popolazione e i guerriglieri, lo stesso governo
137 Ibidem 138 Scardigli, “Il provinciale d’Africa. Il Benadir e l’epistolario di Emilio Dulio (1885-1903)”, op. cit., p. 249 Sulla questione della schiavitù durante la gestione della Società del Benadir si tornerà più avanti, in questo stesso paragrafo. Scardigli indicava il tenente come “U. Bossi”, mentre Del Boca, riferendosi a certe inchieste realizzate nel Banadir, sempre nel dicembre 1902, scrisse di un tenente che si sarebbe chiamato Gaetano Bossi, presumibilmente lo stesso citato da Scardigli, nonostante la discordanza sul nome proprio. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 778
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aveva fissato, per questi soldati, un periodo di tempo massimo molto limitato (non specificato) in cui potevano prestare servizio in Banadir, al termine del quale dovevano fare ritorno in Eritrea139. Nonostante queste due relazioni tanto negative, a cominciare dalla fine del 1902, secondo alcune fonti, vennero avviati alcuni lavori riorganizzativi. Nel novembre 1902 furono inviati nella Somalia meridionale i tenenti Marchini e Petrini. I due ufficiali
italiani riunirono i 600 ascari locali sotto il loro comando e formarono una compagnia mobile con altri 200 ascari. Aiutati da altri due parigrado, i tenenti Liotti e Ragusa, e dal furiere Petri, provvidero a rinforzare i presidi, e a istruire i nuovi contingenti140. A Muqdisho venne costituito un deposito contenente 500.000 cartucce. In poco tempo, il numero degli ascari venne portato a 1100141. Un documento del 1925 che descrive queste modifiche, esalta l’operato dei 4 tenenti e il fatto che operarono questa riorganizzazione e questi miglioramenti superando molte difficoltà, derivanti dalle limitate disponibilità della Società142. La fonte tace però su certi aspetti che, almeno sinteticamente, può essere opportuno indicare. Come descritto nelle memorie del tenente Bossi di fine 1902, tra gli ascari in servizio presso la Società del Benadir erano presenti anche degli schiavi. Durante il periodo della sua gestione, la Società fu sottoposta a tre commissioni d’inchiesta. Le accuse riguardavano inizialmente il cattivo utilizzo delle risorse: la Società, secondo le accuse dell’on. Guicciardini, ad esempio, era preoccupata unicamente di riscuotere i contributi governativi e i dazi doganali, ma si dimostrava scarsamente attiva nella realizzazione delle opere143. In seguito, la Società fu
139 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 141 140 Non vengono riportati i nomi dei 4 ufficiali e del furiere, come in altri casi. Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 37 141 Ivi, pp. 37-38 Non è chiaro il tempo impiegato dai tenenti per introdurre tutte queste modifiche, anche se Cesari scrisse che queste avvennero in poco tempo. Cesari scrisse anche che gli ascari vennero dotati di fucili Vetterli, mentre un’altra fonte datava questa dotazione alla fine di aprile del 1905. Dato che, per quanto riguarda l’armamento, ancora al 2 marzo del 1903, l’on. Santini dichiarò in Parlamento che gli ascari della Società del Benadir disponevano di fucili avariati, è più plausibile la seconda ipotesi, anche se forse, sotto l’operato dei tenenti, si provvide a fornire ad almeno una parte degli ascari i fucili a retrocarica, in sostituzione di armi molto obsolete. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 779; RCTC Somalia, “Appunti per la storia del R. Corpo Truppe Coloniali”, op. cit., p. 1 142 RCTC Somalia, “Appunti per la storia del R. Corpo Truppe Coloniali”, op. cit., p. 1 143 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 778 Sulle negligenze dell’amministrazione in campo economico, la descrizione fatta da Gian Luca Podestà è particolarmente efficace. I tecnici inviati dall’Italia, ad esempio, erano impiegati in questo modo: l’agronomo, che avrebbe dovuto studiare le possibilità agricole della colonia, ricopriva le funzioni di scrivano e curava l’orto della Società; il contadino non lavorava, dal momento che aspettava attrezzi che non venivano spediti in colonia; l’ingegnere, inviato per fare una documentazione delle risorse minerarie banadiriane, si occupò di restaurare alcuni edifici fatiscenti del governatore. Cfr. Podestà, Il mito dell’impero. Economia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa Orientale 1898-1941, op. cit., p. 91 82
accusata anche di praticare e tollerare la schiavitù144. Nel dicembre 1902, il giornale Il Secolo, il quotidiano italiano più attivo nella lotta contro lo schiavismo, pubblicò alcuni articoli di un ufficiale, il tenente Gaetano Bossi, e dell’esploratore Robecchi-Bricchetti, membro della Società Antischiavista d’Italia, su questo tema, oltre alla stampa di fac-simili di atti di compra e di vendita di schiavi145. Tra aprile e giugno 1903, Robecchi Bricchetti operò nel Banadir per conto della Società Antischiavista. L’esploratore si distinse in una inchiesta che fu, per Del Boca, particolarmente seria e meticolosa. Dai suoi censimenti emerse che gli schiavi erano molto numerosi. Nella sola Muqdisho, ad esempio, su 6.695 abitanti gli schiavi sarebbero stati 2095. Nelle campagne i numeri erano superiori, e le condizioni peggiori146. I pochi italiani facenti parte della Società del Benadir presenti in colonia, indicati da Del Boca come inferiori al numero di 20, cercarono di ostacolare l’inchiesta dell’esploratore, senza però riuscirci. Egli arrivò infatti a trovare, all’interno di atti notarili ufficiali della società commerciale, i certificati di compravendita e le quote che, per ognuno di questi contratti, venivano incassate e registrate da Mazzucchelli, cassiere della Società del Benadir147. Robecchi Bricchetti, che portò in Italia numerose prove (fotografie, catene, ferri), oltre ovviamente a riservare pesanti accuse alla Società, denunciava anche il fatto che il governo facilitò questa situazione, dati gli scarsi mezzi da esso destinati alla gestione della colonia148. La Società del Benadir, avrebbe infatti detenuto la gestione ancora per poco tempo. Nel dicembre 1903, la società nominò governatore della colonia il capitano Alessandro Sapelli, che aveva prestato servizio in Eritrea per 12 anni149. Tale nomina, in sostituzione di Dulio, tentava di migliorare la situazione degli imprenditori agli occhi del governo, ma questo, anche in seguito alle accuse di corresponsabilità, aveva già avviato le trattative con il sultano di Zanzibar e con i britannici per acquistare i porti del Banadir e assumere l’amministrazione diretta della colonia. Il passaggio effettivo sarebbe stato solo questione di tempo, come verrà visto in seguito150 . Sapelli decise di continuare il lavoro di modifica delle truppe locali, iniziato dai tenenti l’anno prima. Allontanò alcuni elementi, indicati nel testo del generale Edoardo Scala come uomini
144 Ibidem 145 Ibidem 146 Ivi, pp. 783-784 147 Ivi, p. 784 148 Ivi, pp. 784-785 149 Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., pp. 37-38 150 Del Boca non specifica i motivi che avrebbero portato il governo e vedere in modo particolarmente positivo Alessandro Sapelli. Dal momento che, come indicato da altri testi, l’ufficiale proveniva da un’esperienza in Eritrea molto lunga, quindi estraneo alla condotta criminale praticata in Banadir. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 780 83
reclutati senza la cura idonea, e li sostituì con elementi considerati più fidati151. Se questi criteri non vengono specificati dal generale, nel suo testo del 1952, è possibile che facesse riferimento al fatto che, ancora nel gennaio 1904, i combattenti continuavano a prestare i loro servizi insieme ad altri impieghi, almeno in numerosi casi. Ad alcuni ascari era assicurato, da alcune clausole presenti negli stessi singoli patti di arruolamento, il diritto di compiere il servizio di guardia da seduti e il permesso di farsi sostituire da amici o parenti nel caso che i commerci li obbligassero ad assentarsi152. Sapelli, dopo le sostituzioni, organizzò gli uomini in 6 compagnie, affidandone il comando al capitano De Vita. Ogni compagnia venne successivamente sdoppiata, formando 12 nuclei153 .
Con un decreto governatoriale del 15 aprile 1904, questo primo corpo regolare di ascari della Somalia meridionale venne denominato Corpo delle Guardie del Benadir154. De Vita venne in seguito raggiunto in colonia e affiancato da altri ufficiali italiani, 2 capitani e 8 tenenti155.Nel corso del 1904, agli ascari venne vietato di dedicarsi al commercio e ad altre attività extra156 . Gherardo Pantano, un ufficiale che venne inviato a comandare gli ascari a Marka in quell’anno, indica nel suo testo che i divieti di recarsi al mercato per commercio e il divieto di vendere le loro razioni al resto della popolazione furono accompagnati però da un aumento delle paghe, fino ad allora appena sufficienti per la sopravvivenza. L’ufficiale avrebbe anche dotato gli uomini di un abbigliamento di qualità migliore, anche se non chiaro se si trattasse già di uniformi o semplicemente di capi considerati dagli ufficiali più decorosi di quelli precedentemente adottati. Egli impose anche altre norme disciplinari, prima sconosciute agli ascari locali: il divieto di fare schiamazzi lungo le mura cittadine, l’obbligo di addestrarsi quotidianamente con fucile e bersagli e l’obbligo di ferma. Ci furono soldati che, non avendo accettato queste condizioni, vennero congedati. Quelli che rimasero raggiunsero, in breve tempo, dei risultati per Pantano soddisfacenti, ad esempio perfezionando la mira con i fucili, dopo che per diversi anni avevano quasi totalmente evitato l’addestramento con i bersagli. I
151 Non vengono specificati gli elementi che portarono Sapelli e i suoi a considerare un elem ento affidabile o non affidabile. Scala, Storia delle fanterie italiane, Vol. IV: Le fanterie italiane nelle conquiste coloniali, op. cit., p. 561 152 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 142 153 Scala, Storia delle fanterie italiane, Vol.IV: Le fanterie italiane nelle conquiste coloniali, op. cit., p. 561 154 AUSSME, Fondo D3 Somalia, b. 12, fasc. 7, op. cit., 1905, p. 1 155 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 142 156 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 222 84
graduati vennero istruiti, con successo, a tenere la contabilità dei reparti. Questa era resa molto difficile dall’”oscilar continuo” di talleri di Maria Teresa, rupie indiane e besa di Mascate, che si sommava alla richiesta, da parte dell’ufficio di revisione, di avere i rendiconti in lire italiane. 157. Il testo di Pantano descrive la sua esperienza a Marka, ma simili modifiche furono apportate in tutti i reparti del Banadir. Gli ufficiali sostituirono uno stato di cose poco professionale, comprendente (o almeno così descritto) anche secondi lavori, che non comprendeva un regolamento uniforme ma si basava su singoli patti di arruolamento, spesso diversi l’uno dall’altro, con un ordinamento ferreo158. La figura di soldato-mercante scomparve (o, almeno, il commercio venne bandito), per lasciare il posto a un ascaro più pagato e professionale, sul modello eritreo. Gli elementi arruolati furono arabi, con una “tolleranza” del 10% di somali159. Questa percentuale, che rimase invariata fino al 1915, secondo Del Boca era dettate da motivi di sicurezza160. A cosa erano dovute queste scelte in materia di arruolamento? La proporzione appare abbastanza singolare, soprattutto considerando due fattori: i somali rappresentavano il 90% della popolazione nella colonia; gli arabi presenti erano solo il 10 per cento, e per questo vennero arruolati anche molti mercenari dallo Yemen e da altri paesi della penisola arabica, nonostante tutte le critiche e le diffidenze riservate ai chirobotos e i costi aggiuntivi, derivanti dal trasporto via mare in Somalia degli uomini arruolati nella penisola arabica. Come in Eritrea, anche in Somalia i colonialisti italiani classificarono ed etichettarono le popolazioni da arruolare secondo pregiudizi razziali. Le descrizioni dei combattenti per nazionalità, pur venendo da un volume del secondo dopoguerra, sono utili a capire le diverse caratteristiche che gli italiani attribuirono agli arabi e ai somali, e come queste classificazioni influirono sugli arruolamenti in Somalia. Veniva data questa descrizione degli yemeniti:
“Vanno compresi entro questa qualificazione anche gli elementi di vari gruppi sud-arabi diversi dallo Yemen, da cui si attinge, fin dalle origini delle nostre truppe coloniali, particolarmente in Somalia, perché erano soldati di mestiere, sempre disposti ad emigrare […] Più vicini per attitudini mentali ai dominatori europei di quanto lo fossero le genti autoctone africane[…] I gradi erano conferiti con estrema misura e dopo lunghi anni di lodevole servizio; ciò valeva a mantenere l’elevatissimo prestigio. Frammisti a genti
157 Gherardo Pantano, Ventitré anni di vita africana, Firenze, Casa editrice militare italiana, 1932, pp. 211-214 158 Cesari, Contributo alla storia delle truppe indigene della colonia Eritrea e della Somalia italiana, op. cit., p. 38 159 AUSSME, Fondo D3 Somalia, b. 12, fasc. 7, op. cit., 1905, p. 1 160 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 788 85
africane i Yemeniti non potevano nascondere il convincimento della propria superiorità razziale nei confronti dei «neri» cui sempre si accompagnavano i lontani e…non lontani, purtroppo, ricordi degli schiavi.[…] Estranei, specialmente i più giovani, al Paese in cui prestavano servizio, risultavano poco adatti a compiti isolati mentre offrivano le più ampie garanzie di tranquillità, coraggio e di serio adempimento, se opportunatamente inquadrati161”.
La descrizione prosegue elencando alcuni difetti, che però potevano essere trascurati, come la tendenza a esaurire subito le razioni. Per l’autore, a differenza di quanto facevano gli eritrei, gli arabi non sarebbero però stati inclini a sprecare il denaro.162Gli ufficiali reclutatori italiani si recavano ad Aden per l’ingaggio dei mercenari da inviare in Somalia. I britannici, che detenevano il controllo di Aden, non erano sempre favorevoli a questi arruolamenti, che in alcuni casi richiesero, da parte degli italiani, il costo ulteriore di bustarelle163 . L’ ufficiale Gherardo Pantano, nel corso di un arruolamento effettuato ad Aden, corruppe un capo della polizia, come viene ammesso nel testo, che però non specifica la sua nazionalità. Stando sempre al suo libro, i britannici erano contrari alla emigrazione di uomini che abitavano il territorio sotto il loro protettorato, ma permettevano intese con i capi locali di zone vicine. I candidati, descritti da Pantano come uomini in età giovane, venivano visitati da un medico. Quelli che erano considerati idonei, venivano inviati in un’isola e alloggiati in alcune baracche di legno. Un appaltatore provvedeva al loro sostentamento in questo periodo, prima che venissero imbarcati per la colonia italiana, fornendo loro datteri, pesce, riso e burro164 . Questi uomini combattevano nei reparti di ascari in Banadir dopo aver accettato una ferma di almeno due anni e senza più potersi dedicare al commercio durante il servizio, ma le paghe permettevano adesso di accumulare una somma che, al ritorno nei paesi d’origine, si rivelava abbastanza importante165. Per questo motivo, gli arabi erano soliti rimanere nel Banadir solo fino al termine della ferma, per poi fare ritorno in Yemen e negli altri paesi arabi, dove riuscivano a condurre una vita più agiata. Questo ovviamente era un problema per i comandi italiani. L’addestramento dei soldati, pur variando da caso a caso, richiedeva sempre
161 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 81 162 Ivi, p. 82 163 Il testo non specifica se il denaro dato di nascosto fosse per gli ufficiali britannici o per alcuni capi locali, che favorivano gli arruolamenti nonostante il pericolo di essere scoperti dagli inglesi. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 223 164 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 238-239 165 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 222- 223 86
investimenti, da parte degli ufficiali, in termini di tempo e di energie. Dopo che gli ascari venivano perfezionati nella mira e che le squadre sviluppavano un buon livello di coesione, gran parte di loro abbandonava il reparto e la colonia per far ritorno nella penisola arabica, e ai comandi non rimaneva che ritornare ad Aden e ricominciare da capo166 . Nonostante questo grosso inconveniente e i costi del trasporto via mare da Aden alla Somalia, i comandi evitarono a lungo, salvo la suddetta percentuale del 10%, di arruolare i somali. Ovviamente, anche per i somali, il colonialismo italiano aveva redatto da tempo una sorta etichetta, con i soliti stereotipi e pregiudizi. Il principe esploratore Ruspoli, nella sua opera del 1892, ad esempio, si esprime in modo molto critico su questo popolo e sul suo impiego bellico. Questo concentrato di razzismo e di generalizzazioni viene supportato da paragoni con gli arabi, a loro volta percepiti, classificati e descritti con la stessa mentalità:
“Come soldato non ha che un valore decorativo; poiché in parata è marziale e bellissimo. Ottenuto un favore od un beneficio dal padrone, gli giura cento volte fedeltà e gli promette con la più grande passione di volersi far uccidere ai suoi piedi. Sul momento sarà sincero, ma dimentica presto le promesse, e se qualche volta difende il padrone lo fa per difendere se stesso.[…] i Somali hanno tutte le cattive qualità dell’Arabo, senza possederne le buone. Se l’Arabo è molle, mite di carattere e facilmente si affamiliarizza, ma non si disciplina; il Somalo al contrario non si affeziona mai, né tampoco si può disciplinare. Le tristi esperienze fatte ultimamente dalla Germania, hanno consigliato questa ad abbandonare l’elemento Somali per le colonie. L’Inghilterra non si serve dei Somali che solamente per la polizia, sempre però sotto il comando di inglesi o indiani167.”
In un altro testo, viene menzionata la suddivisione delle popolazioni in clan, che spesso combattevano tra loro, come ostacolo alla creazione di reparti somali168. La relazione di De Vita, oltre a ribadire le sua sicurezza sulla presunta tendenza dei somali alla diserzione e al tradimento, pur riconoscendo negli stessi una valida resistenza nelle marce, indica anche un motivo più pratico. I pochi somali ammessi negli ascari del Banadir, provenivano infatti, in massima parte, dalla Somalia settentrionale, perché gli ufficiali preferivano impiegare, contro le popolazioni somale meridionali, uomini che si sarebbero trovati “in terra straniera e quindi senza comunanza d’interessi e di aspirazioni con gli abitanti del paese dove sono trattenuti in
166 Ivi, p. 223 167 Ruspoli, Nel paese della mirra, op. cit., pp. 53-54 168 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 83
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guarnigione”. Da De Vita si apprende anche che, in un periodo non precisato, ma indicato come anteriore all’anno in cui scrisse la relazione (1905), furono arruolati uomini indicati come “Maniema, comunemente conosciuti come Suahili”. Il secondo termine, effettivamente, è stato trovato, nel corso della ricerca, nei documenti riguardanti le rappresaglie che seguirono alla strage di Lafoole, come precedentemente detto. Per quanto riguarda i Manyema, invece, De Vita si sbagliò, dal momento che questo nome indica una popolazione proveniente dalla regione del Manyema, in Congo. L’ufficiale espresse critiche anche per questi uomini, indicati con termini quindi generici e impropri, affermando che diedero un pessimo rendimento, pur essendo fisicamente molto resistenti, e che per questo si rivelarono discreti nell’utilizzo dei cannoni. Concluse citando il fatto che anche i tedeschi, in Africa Orientale, arruolavano uomini appartenenti a queste popolazioni, ma a suo parere i risultati erano mediocri169 . Quest’ultimo caso, come i paragoni con gli arabi di Ruspoli e altre numerosissime affermazioni, dimostrano particolarmente bene come i colonialisti “incollassero” determinate caratteristiche a più popolazioni. La forza fisica e la conseguente idoneità ad essere impiegati nei reparti di cannonieri, ad esempio, in Eritrea era collegata ai sudanesi, nel Banadir a questi uomini, che venivano chiamati col nome di una lingua, a sua volta diffusa in numerose realtà dell’intero continente africano. Se le credenze razziste e la
superficialità erano molto diffuse presso gli italiani, più concretamente, si può dire che i comandi si trovarono ad affrontare in questi anni alcune rivolte locali in Somalia, e contro queste popolazioni scelsero di impiegare uomini provenienti da altre realtà. Gli arabi, secondo quanto indicato da una relazione del Ministero degli Esteri sul Banadir, erano considerati convenienti perché erano musulmani come la popolazione somala, e questa comunanza di credo avrebbe impedito di urtare i colonizzati, ma, allo stesso tempo, le origini differenti avrebbero impedito la nascita di legami particolarmente stretti, che avrebbero potuto portare più facilmente a diserzioni e rivolte contro i pochi italiani presenti in colonia, vale a dire gli ufficiali e i funzionari. Infatti, anche con la regolarizzazione degli ascari, i militari italiani che vennero inviati in Somalia furono unicamente gli ufficiali preposti al comando degli stessi ascari. Non vennero inviati soldati semplici e graduati italiani170. Il Corpo Guardie del Benadir ebbe il suo battesimo del fuoco contro i combattenti del clan dei Byamaal, nel maggio 1904171. Questo clan, come indicato nel primo paragrafo di questo capitolo, aveva
169 AUSSME, Fondo D3 Somalia, b. 12, fasc. 7, op. cit., 1905, p. 8 170 Ministero degli affari esteri-Direzione centrale degli affari coloniali, Benadir, Roma, Tipografia del Ministero degli affari esteri, 1911, p. 150 171 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 223 88
condotto azioni anche contro un governatore del sultano di Zanzibar, nel 1876. Desideravano difendere, dal sultano prima e in seguito dagli italiani, l’indipendenza dei loro territori, che comprendevano le dune costiere tra Jesiira e Mungiya e, nell’interno, alcuni terreni fertili lungo lo Shabelle172. Inoltre, il clan era deciso a opporsi ad alcuni decreti governativi italiani del 1904, che contrastavano la schiavitù173 . All’interno dell’economia dei nomadi Byamaal, infatti, la schiavitù aveva un certo peso. Gli appartenenti a questo clan erano infatti contrari al lavoro nei campi, che era riservato ai loro schiavi. Dal lavoro di questi, i Byamaal ricavavano cereali, che scambiavano sul mercato di Marka con tessuti e utensili di ferro. Avevano quindi il timore di perdere, a causa dei provvedimenti italiani, la forza lavoro che gli permetteva di accumulare prodotti che garantivano un importante commercio174. Nel maggio 1904, i capi Byamaal decisero di condurre una guerra contro gli italiani e i loro ascari. Le loro armi da fuoco erano poche e obsolete. Impiegarono quasi unicamente i billao, gli archi e le lance. I combattenti del clan erano soliti creare un veleno, detto uabaio, da una radice chiamata merheddo: la radice veniva tritata e bollita, insieme a gomma e aloe. Veniva in tal modo ottenuta una pasta, con cui venivano unte le frecce. La sostanza conteneva del glucosio cristallino che, se ancora fresca nel momento in cui la freccia colpiva un corpo, provocava una paralisi cardiaca che poteva uccidere un adulto in pochi minuti175. I Byamaal iniziarono l’assedio di Marka all’inizio di maggio del 1904. La popolazione di questa città, impossibilitata a lasciare le mura del centro, cominciò a soffrire la fame e venne decimata da una epidemia di beri-beri. Di fronte a questa emergenza, il 22, una colonna composta di 300 ascari del Corpo Guardie, due tenenti e un funzionario italiani, partì da Muqdisho in direzione Marka, su ordine del comandante del Corpo, il capitano De Vita. Gli ascari inflissero 57 morti e 150 feriti ai somali, senza perdere un solo uomo, in alcuni scontri avvenuti nelle vicinanze della città. Nonostante queste sconfitte, i Byamaal proseguirono l’assedio per mesi, costringendo la Società del Benadir a rifornire la popolazione e gli ascari che presidiavano quella città. Viveri e medicine venivano portate via mare, nei periodi in cui la navigazione
172 Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., p. 223 173 Ivi, p. 225 Cassanelli non specifica ulteriormente questi provvedimenti. Almeno sulla carta, il governo italiano impose la lotta contro la schiavitù fin dai tempi della Società Filonardi. Forse il libro si riferisce a provvedimenti presi dal governo dopo le gravissime vicende riguardanti la Società del Benadir, descritte nell’opera di Del Boca. 174 Parlando degli schiavi, questi non appartenevano allo stesso clan e, da quanto indicato nell’opera di Del Boca, si sarebbe trattato di uomini non facenti parte della popolazione somala e araba del Banadir, pur essendo africani. Analogamente alla relazione di De Vita, queste persone sono però indicate con il termine, generico e improprio, di “ bantù”. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 787 175 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 220-221 89
non era impedita dal monsone di sud-ovest176. Il capitano Gherardo Pantano venne inviato a Marka nell’ottobre 1904, per prendere il comando degli ascari asserragliati e sbloccare l’assedio della città. Con i suoi soldati, organizzò numerosi raid fuori dalle mura177. Gli ascari occuparono, inizialmente, alcune dune che sovrastavano la città, usate dai Byamaal come punti d’osservazione. I somali attaccarono gli ascari, ma vennero affrontati e respinti. Questo incoraggiò le truppe, che erano barricate nella città da mesi e non osavano nemmeno uscire dalle mura, dato il terrore di venire uccisi dai combattenti. Dopo questa azione, Pantano inviò gli ascari fuori dalle mura quotidianamente, cambiando direzione d’attacco ogni giorno, infliggendo pesanti perdite ai guerriglieri. Durante una di queste rapide operazioni, gli ascari scoprirono un granaio dei Byamaal: Pantano inviò sul luogo la popolazione maschile della città, sotto scorta di alcuni ascari, affinché si rifornisse di granaglie. In questo modo, soldati e civili di Marka tolsero importanti quantità di alimenti ai guerriglieri, mitigando la fame che, nonostante gli aiuti via mare, stava mettendo in ginocchio la popolazione locale178. In seguito, gli ascari cominciarono a saccheggiare buoi e pecore dei Byamaal, fornendo alla popolazione carne fresca. Alcune popolazioni Byamaal, particolarmente vicine alla città e quindi molto danneggiate da questi saccheggi operati da Pantano e dai suoi ascari, si sentirono costrette a intavolare trattative con l’ufficiale italiano. Lui fece entrare e ricevette alcuni capi a Marka. In seguito ad un incontro con Pantano, i capi impegnarono il loro clan a cessare l’assedio, a frequentare nuovamente il mercato di Marka. Si impegnarono inoltre a fare propaganda presso i Byamaal più lontani dalla città, affinché pure loro rinunciassero alla lotta contro gli italiani179 . Quindi, nel gennaio 1905, l’assedio di Marka ebbe termine180. Nel marzo di quell’anno, la colonia passò sotto il diretto controllo del governo. I reparti vennero riorganizzati in 3 compagnie della forza, ciascuna, di 456 ascari e 5 ufficiali italiani. Il corpo
176 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 787 177 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 224-225 178 Pantano, Ventitré anni di vita africana, op. cit., pp. 216 -217 179 Ivi, p. 217 180 Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 788 Non è ben chiaro, dai testi consultati, come sia possibile che i Byamaal, pur non riuscendo ad infliggere nemmeno una perdita agli ascari inviati da Muqdisho nel maggio 1904, opposero un assedio per diversi mesi, costringendo i comandi italiani ad intervenire sulla guarnigione di Marka stessa, inviando Pantano. Si può ipotizzare che, dato l’alto numero di resistenti somali, i reparti di ascari riuscissero a disperderli, anche grazie alle armi da fuoco che ai Byamaal mancavano, ma, una volta che i reparti tornavano a Muqdisho, i numerosi combattenti riuscivano nuovamente a prendere il controllo del territorio circostante le mura cittadine e ad assediare Marka. In ogni caso, il testo di Del Boca riporta che, alla fine dell’assedio, nel gennaio 1905, su 5000 abitanti di Marka ne rimasero meno di 1000. Gran parte era riuscita ad evadere verso Barawe e Muqdisho, via mare; i 1200 morti veniv ano attribuiti alla fame e alle malattie, mentre l’autore non indicava le persone, tra ascari e popolazione, che sarebbero state eliminate dai combattenti del clan somalo. Anche il libro di Pantano non fa alcun riferimento ad ascari e civili effettivamente uccisi dagli assedianti. Cfr. Ibidem; Pantano, Ventitré anni di vita africana, op. cit., pp. 216 -217
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venne rinominato Regio Corpo di Truppe Indigene, e contava anche di una compagnia di cannonieri181. In questo periodo, tutte le precedenti armi in uso erano state sostituite con i fucili Vetterli. Il governo emanò, nel maggio 1906, il Regolamento Organico per la Somalia meridionale, che affidava la sicurezza della colonia al Regio Corpo Truppe e a reparti di polizia182. Le percentuali di volontari da arruolare per popolazione erano adesso indicate nel modo seguente: 70% arabi, 10% di somali (possibilmente del Nord) e 20% indicato con “altre stirpi”. Le proporzioni potevano essere variate esclusivamente a favore dell’elemento arabo183”. L’espressione “altre stirpi” intendeva con molte probabilità gli eritrei. Gli invii di ascari dalla prima colonia, infatti, continuarono anche dopo la costituzione del Regio Corpo in Somalia e, ancora in epoca fascista, alcune relazioni consultate mostravano una “Suddivisione della forza delle razze” del Regio Corpo indicando arabi, somali ed eritrei
184
. Sull’invio di ascari eritrei in Somalia meridionale in questo periodo, il Professor Volterra mostrò, molto gentilmente, un documento particolarmente interessante, che conserva nel suo studio, presso l’Università Roma Tre. Nel 1908, il ministro degli esteri Francesco Tittoni, inviò un telegramma al Governo dell’Eritrea:
“Mi adopero presso Consolato di S.M. Aden per arruolamento altri cinquecento ascari oltre mille già quasi arruolati. Nel dubbio che questo nuovo arruolamento non sia possibile in tutto o in parte prima chiusura costa prego V.E. telegrafarmi quanti ascari Eritrea musulmani volontari potrebbero essere inviati al Benadir in modo arrivino colà nel maggio185”.
Gli eritrei vennero richiesti, almeno in questa situazione, solo per necessità, quindi nei casi in cui fossero presenti delle falle negli arruolamenti effettuati in Aden. Queste potevano verificarsi, ad esempio, a causa degli inglesi, che non furono sempre disponibili a permettere gli arruolamenti, come aveva riferito il Professor Volterra nel corso del suo ricevimento. Nel caso fosse necessario ricorrere a loro, il ministro Tittoni richiese esplicitamente che i soldati fossero di religione musulmana, probabilmente per gli stessi motivi precedentemente citati,
181 AUSSME, Fondo D3 Somalia, b. 12, fasc. 7, op. cit., 1905, p. 2 182 RCTC Somalia, “Appunti per la storia del R. Corpo Truppe Coloniali”, op. cit., p.1 183 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 96 184 Cfr. ASDMAE, Fondo MAI: Vol. I, pos. 89/14, fasc. 53, “Relazione sull’andamento generale del R. Corpo nel III trimestre dell’anno 1927-V” del Comando del R. Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, Muqdisho, dicembre 1927, p. 32; AUSSME, fondo D3, b. 5, fasc. 53, 1907(ProgAsc) 185 Archivio privato Alessandro Volterra, documento non fascicolato, copia di telegramma di Tittoni al Governo dell’Eritrea, 12 aprile 1908
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presenti nella relazione del Ministero degli esteri del 1911: gli italiani cercavano di impiegare soldati che provenissero da altri paesi, rispetto alla popolazione somala, ma che abbracciassero la stessa fede, per non offenderla.
I gradi erano i medesimi degli eritrei, con l’aggiunta del uachil, che indicava un ascaro “scelto”. La successione divenne perciò la seguente: ascaro (soldato semplice), uachil (soldato scelto), muntaz (caporale), buluk-basci (sergente) e jusbaci (maresciallo)186. Come detto precedentemente, il massimo grado raggiungibile dai militari arabi e africani inquadrati dagli italiani era detto sciumbasci in Eritrea e jusbasci in Somalia. In un documento consultato nel corso della ricerca, risalente al 1940, in una nota, viene riferito che esclusivamente in Somalia era ancora presente, dopo alcuni decenni dalla costituzione degli ascari nella colonia, la consuetudine di chiamare in questo modo lo sciumbasci187. Gli jusbasci ricoprirono, come in Eritrea, un ruolo particolarmente importante. Erano individui che prestavano servizio da diverso tempo, forti quindi di una lunga esperienza. Rappresentavano il punto di contatto, fondamentale per i comandanti italiani, degli ufficiali con la truppa. In caso di temporanea assenza dell’ufficiale italiano, lo jusbasci lo sostituiva. Questi uomini, oltre a possedere qualità genericamente espresse dai regolamenti (dal 1906 in poi) come “energia, intelligenza, operosità”, dovevano possedere una buona conoscenza della lingua italiana, proprio per permettere di far comunicare gli ufficiali con le truppe. Era ovviamente molto importante che durante le operazioni, ad esempio, agli ascari arrivassero gli ordini degli italiani il più possibile precisi188. Se i combattimenti rappresentavano sicuramente le situazioni maggiormente rischiose, e in cui era quindi fondamentale che la truppa capisse le richieste impartite, per gli ufficiali era importante venire compresi dai soldati colonizzati anche in tutte le altre situazioni, che andavano dall’addestramento alle disposizioni disciplinari. La lingua era certamente una barriera che gli jusbasci, grazie ad un certo livello di conoscenza dell’italiano, contribuirono ad attenuare. Come riferito anche in un testo italiano filo-
186 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., pp. 96-97 187 Senza che venga spiegatala motivazione, nella stessa nota è scritto che sarebbe stato auspicabile porre fine alla consuetudine di chiamare il grado, nella sola in Somalia, in questo modo. Cfr. Allegato A “Avanzamento dei militari indigeni” del “Regolamento per il reclutamento e l’avanzamento dei militari indigeni” del Ministero delle Colonie-Ufficio Militare al Ministero della Guerra-Gabinetto, Roma 26 gennaio 1937, e allo Stato Maggiore, Roma, 29 gennaio 1937, in AUSSME, Fondo N11-Diari storici II GM, b. 4154, fasc. VIII/4 (le date indicate erano due nel medesimo documento, sono state quindi associate ai due diversi destinatari) 188 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 97
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coloniale, gli jusbasci tenevano nelle mani il “polso della situazione”, forse meglio degli stessi ufficiali italiani: con uno jusbasci militarmente valido, il corretto funzionamento del reparto era assicurato. Erano poi tenuti a conoscere singolarmente tutti i militari arabo-somali della compagnia di appartenenza, non solo quindi gli uomini sotto il loro comando, ma tutti quelli comandati dall’ufficiale italiano di riferimento, e a vigilare sulla loro condotta, in particolare su quella dei buluk-basci e dei muntaz189 . I reparti del Banadir avevano numeri e suddivisioni che variarono nel corso della loro storia. Una relazione del Ministero degli esteri permette una fotografia abbastanza dettagliata del 1907, anno quindi molto vicino alla costituzione del Regio Corpo. Le compagnie erano comandate da un capitano o, più raramente, da un tenente anziano; le centurie, suddivisioni delle compagnie, erano comandate dai tenenti; le mezze centurie dagli jusbasci; i buluk dai buluk-basci. I numeri dei volontari arabo-somali impiegati in colonia variavano. Ad esempio, sono indicati come corrispondenti a 2158 nel 1907, divisi un 4 compagnie di fanteria e una di cannonieri. 190. Gli uomini avevano accettato la ferma di due anni, rinnovabile. Le compagnie non avevano lo stesso numero di effettivi. Inoltre, una compagnia poteva trovarsi integralmente concentrata nella sua sede principale, o inviare dei distaccamenti in altri centri. Di conseguenza, cambiava anche il numero di centurie in cui si dividevano le stesse191. La prima compagnia, di stanza a Muqdisho, ad esempio, contava 921 uomini, divisi in 6 centurie. Tutta questa forza non era concentrata a Muqdisho, ma contava una compagnia schierata ad Ataleh (ribattezzata Itala), e due diversi buluk schierati, rispettivamente, a Warsheekh e a Gezira. La seconda compagnia, in servizio a Marka, non aveva alcun distaccamento, ed era composta da 5 centurie, come la terza, schierata a Barawe. La quarta aveva sede a Jumboo, con 3 distaccamenti. Infine, la compagnia di cannonieri, contava 124 uomini, ed era comandata da un tenente d’artiglieria. I suoi 124 uomini erano divisi in 4 centurie di 31 uomini ciascuna. Ne vennero schierate 3 a Muqdisho e una a Marka192. A Luuq e Baardhere erano invece schierati dei presidi detti “irregolari”, comandati dai rispettivi residenti. Questo nome indicava presidi formati da truppe arruolate in soprannumero a quelle del Regio Corpo193. Il moschetto, che costituiva insieme alla baionetta l’armamento individuale degli ascari, era considerato efficace contro le
189 Ivi, pp. 96-97 190 Ministero degli affari esteri-Direzione centrale degli affari coloniali, Benadir, op. cit., pp. 150- 151 Nel corso dell’elaborato, quando disponibili, verranno dati altri numeri per l’anno di riferimento. 191 Ibidem 192 Ivi, pp. 151-152 193 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 143
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popolazioni, dato che queste potevano opporre quasi solo armi bianche. In ogni caso, essendo soggetto facilmente a guasti non riparabili, vista la mancanza di operai in colonia, nella relazione viene indicato che l’ufficiale Giovanni Cerrina Feroni ne proponeva la sostituzione con fucili più recenti. L’artiglieria disponeva di 10 cannoni, precedentemente in uso presso la marina, e 8 mitragliatrici Gardner194 .
Le paghe annuali, che vennero stabilite nel 1905, espresse in lire erano le seguenti: 176, 4 per un ascaro; 252 per un muntaz; 327, 6 per un buluk-basci; 630 per uno jusbasci195. In realtà, nonostante questi dati, gli stipendi degli ascari e dei dipendenti dello stato coloniale in Somalia erano pagati in talleri e, dal 1910, in rupie italiane. Prima di indicare gli stipendi degli ascari del Banadir in questa valuta, è perciò necessario affrontare la questione delle politiche monetarie. In Somalia, la moneta più utilizzata era il tallero di Maria Teresa. Questa era affiancata da alcune monete divisionarie adoperate nei commerci dell’Oceano Indiano occidentale, come le monete di rame del Sultanato di Zanzibar, di Mombasa e dell’Oman, chiamate besa. I colonizzatori introdussero nuove monete di piccolo taglio (da uno, due e venticinque centesimi), in base al rapporto di 150 centesimi per tallero196. Il valore dei centesimi era arbitrario, e non corrispondeva a quello che avevano in Italia. Nel 1909, queste monete furono ritirate, e sostituite con delle nuove bese in bronzo, in tagli da uno, due e quattro centesimi, sempre nel rapporto di 150 centesimi per tallero. Dal 1 luglio 1911, il tallero venne suddiviso in 100 bese, e non più in 150. I motivi della modifica furono probabilmente dettati dai commerci della Somalia all’interno dell’Oceano Indiano, affinché venisse rispecchiato il rapporto decimale tra la rupia indiana e i centesimi, introdotto dai britannici nelle colonie del Kenya e dell’Uganda, a partire dal 1905197. Gli italiani avevano
infatti da tempo cercato di coordinare le loro politiche monetarie in Somalia con quelle britanniche, e di creare una “unione monetaria dell’Oceano Indiano”, che avesse come valuta comune la rupia indiana. I britannici rifiutarono però fin dal 1898. Gli italiani introdussero quindi, nel 1910, una nuova moneta d’argento, la rupia italiana. La moneta conteneva una quantità di argento superiore al tallero di Maria Teresa, ed era anch’essa divisa in 100 bese.
194 Ministero degli affari esteri-Direzione centrale degli affari coloniali, Benadir, op. cit., pp. 151-152 195 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 104 196 Karin Pallaver, “Da moneta straniera a moneta nazionale: Prima Guerra Mondiale, politiche coloniali e circolazione monetaria in Eritrea e Somalia”, in Donatella Strangio (a cura di), Africa. Storia, Antropologia, Economia, Migrazioni, Roma, Nuova Cultura, 2018, pp. 114-115 197 Ivi, p. 115-116
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Gli stipendi degli ascari (come di altri dipendenti dello stato coloniale), che fino a quell’anno erano pagati in talleri, vennero fissati in rupie italiane. Il tasso fisso di cambio fu 1 tallero= 1,3928 rupie, per evitare oscillazioni causate dalle variazioni dei tassi di cambio. Gli ascari passarono quindi da un salario mensile di 9 talleri a uno di 12,53 rupie198. Nel dicembre 1911, gli stipendi per gradi in rupie italiane vennero quindi indicati dai decreti governativi come segue: 12,6 per ascaro; 13, 5 per uachil; 16,8 per muntaz; 21 per buluk-basci; 37,8 per jusbasci. Chi prestava servizio oltre un biennio, tempo minimo obbligatorio per chi accettava la ferma, riceveva un premio di 3 rupie per ogni rafferma annuale fino alla quarta inclusa199 .
A differenze degli eritrei, gli ascari arabo-somali ricevevano gratuitamente il vestiario. Esso comprendeva il tarbusc, una tenuta di tela bianca e due di tela greggia, tutte composte di pantaloncini e camicia, una giubba e una fascia. I militari non somali potevano essere raggiunti nel Banadir dai familiari, se autorizzati dai comandanti italiani200 .
I regolamenti delle truppe arabe e africane della Somalia era modellato su quello degli ascari eritrei anche per quanto riguardava le sanzioni disciplinari, ma presentava una importante differenza. Gli arresti si dividevano in arresti semplici (da 1 a 30 giorni) e arresti di rigore(da 1 a 15 giorni, solo per gli jusbasci). I soli buluk-basci potevano invece subire la consegna al campo, da 1 a 8 giorni. Tutti gli ascari, uachil, muntaz e buluk-basci potevano essere trattenuti in prigione per un periodo compreso tra 1 e 15 giorni201. Gli ascari e i uachil erano potevano subire i ceppi da 1 a 5 giorni, mentre i muntaz e i buluk-basci erano passibili di sospensione del loro grado. I rimproveri e le espulsioni potevano riguardare tutti i gradi. Le ritenute sulle paghe erano, per grado, le seguenti (indicate prima dell’introduzione delle rupie): da 10 bese a 2 talleri per ascari, uachil e muntaz; da 25 bese a 3 talleri per i buluk-basci; da 1 a 10 talleri per gli jusbasci202. Furono introdotte delle norme molto diverse per quanto riguarda la fustigazione. Come detto nel primo capitolo, i lavori di Alessandro Volterra e Marco Scardigli sottolineano la diffusione delle punizioni corporali all’interno dei reparti eritrei. Lo staffile adoperato, chiamato curbasch, venne tristemente ricordato in alcune testimonianze orali raccolte da Volterra, risalenti all’epoca fascista. Nel regolamento del 1906, la fustigazione
198 Ibidem 199 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 105 200 Ibidem 201 Espressioni come “arresto di rigore” e “consegna al campo” non venivano specificati. Cfr. Ivi, p. 116 202 Ibidem
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non venne invece contemplata per i somali. Gli italiani ritenevano che i somali considerassero passibili di questo provvedimento solo gli schiavi, e che perciò sarebbe stata impossibile per loro comprendere una punizione di questa tipologia. Le norme sui combattenti somali differirono anche in materia di saluto. Gli eritrei erano infatti tenuti a salutare ogni persona incontrata, anche nel caso di capi e notabili della sua stessa provenienza, nel modo esatto che veniva impartito loro dagli ufficiali italiani. I regolamenti del colonizzatore dovevano quindi influenza il modo di salutare degli eritrei non solo nei confronti degli stessi italiani, ma anche verso altri colonizzati, se considerati di un certo rango203. I somali, al contrario, erano ritenuti particolarmente fieri e suscettibili, individui che mantenevano sempre, anche rispetto ai loro capi una “rispettosa freddezza, alinea da ogni esagerato ossequio” come l’inchino. A loro non venne perciò imposto un tipo di saluto particolarmente riverente, perché, secondo i comandi, questo avrebbe potuto indispettirli e offenderli. Nonostante il disprezzo generale dei somali per i lavori pesanti e per le pulizie, il regolamento impose a tutti gli ascari, senza esclusione, di eseguire i lavori richiesti dalle esigenze militari, come la costruzione di trincee, il trasporto di munizioni e le pulizie degli accampamenti. Nonostante questa disposizione, molti ascari che provenivano da contesti privilegiati, di nascosto da ufficiali e graduati, pagavano, con denaro o cibo, commilitoni di origini più modeste o ragazzini del luogo per essere sostituiti in alcuni lavori, come le pulizie delle scarpe degli ufficiali204. I sistemi dei campi famiglie e il rispetto (per quanto sia possibile parlare di rispetto da parte dei colonialisti italiani) delle religioni, musulmana nel caso degli arabo-somali, accomunarono entrambe le esperienze, in tutti gli aspetti205 .
2.4 Alcuni casi di impiego del Regio Corpo
Il Regio Corpo venne impiegato, a partire dall’inizio del 1907, contro alcune nuove rivolte dei Byamaal206. Di questi eventi, verrà detto nel prossimo capitolo. Le truppe locali, oltre ad un aiuto eritreo, vennero infatti affiancate da alcuni reparti irregolari somali, costituiti dagli italiani per affiancare gli ascari. Il prossimo capitolo si concentrerà sui dubat di epoca
203 Ivi, pp. 116-117 204 Ivi, p. 117 205 Ivi, pp. 117-120 206 Scala, Storia delle fanterie italiane, Vol.IV: Le fanterie italiane nelle conquiste coloniali, op. cit., p. 561 96
fascista, ma partirà da queste esperienze e queste formazioni, che anticiparono alcune caratteristiche dei dubat.
Gli ascari della Somalia, sempre nel 1907, furono protagonisti di uno scontro con gli etiopici. Nel dicembre di quell’anno, oltre 2000 soldati etiopici, provenienti dallo Harar, raggiunsero la località di Ceel Bardaale, a 100 chilometri dal forte di Luuq, dove costruirono una zeriba, piantarono la bandiera imperiale etiopica e iniziarono a razziare le popolazioni della regione207. Il governatore della colonia, Tommaso Carletti, ordinò al capitano Molinari, in servizio a Luuq, di prendere contatti con il comandante etiopico per ottenere la restituzione di eventuali prigionieri somali e la cessazione delle razzie ai danni di popolazioni sotto influenza italiana208. Gli ordini del governatore, che si trovava in Italia, non arrivarono in tempo, ma un reparto di ascari intercettò comunque gli etiopici. L’11 dicembre, i capitani Bongiovanni e Molinari, alla guida di 113 ascari (90 arabi e 23 somali), stavano operando contro dei furti di bestiame da parte della popolazione locale, quando incontrarono dei somali, spaventati dagli etiopici, che li avvisarono della presenza della zeriba e delle razzie operate dal contingente etiopico209 . Il capitano Bongiovanni inviò in esplorazione, per localizzare la zeriba segnalata dai civili, un gruppo di 300 somali che, pur non facendo parte degli ascari, si era aggregato al reparto per aiutare i militari a recuperare il bestiame. Questi uomini localizzarono la zeriba etiopica, che venne attaccata dagli ascari. L’attacco a sorpresa degli arabo-somali mise in fuga gli etiopici nella zeriba, che fuggirono nella boscaglia210. A quel punto, gli etiopici vennero attaccati da alcuni locali, che però ebbero la peggio, perché armati solo di lance. Gli spari attirarono un reparto di cavalleria etiopica che era impegnato in una razzia nelle vicinanze211 . Gli ascari, in numero molto inferiore agli etiopici, vennero sommersi dagli armati nemici. La stragrande maggioranza degli arabo-somali morì212. Un testo riferisce di 94 morti, compresi i 2 ufficiali; un altro, confermando la morte dei due italiani, riporta che 40 ascari vennero uccisi in combattimento, mentre altri 43 morirono per fame, stenti e in seguito alle ferite nella boscaglia della zona, dopo che lo scontro ebbe luogo. Le fonti differiscono quindi per 9
207 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I: Tomo II: Avvenimenti militari e impiego. Africa Orientale(1868-1934), Vitale Massimo Adolfo (testo di), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1962 , p. 200
208 Ibidem 209 Ivi, p. 201 210 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., pp. 24-25 211 Ivi, p. 25 212 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I: Tomo II: Avvenimenti militari e impiego. Africa Orientale(1868-1934), Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 201 97
caduti, ma in ogni caso il prezzo in vite umane del reparto fu altissimo213. Dopo lo scontro intorno alla zeriba, che venne distrutta, si verificarono decine di piccoli scontri nella boscaglia. Nel testo di Quirico è riportato di uno jusbasci, Idris Garimed, che, avendo perso l’arma, combatté a mani nude, riuscendo a strangolare 3 etiopici prima di venir eliminato. Gli ascari e i due ufficiali riuscirono ad uccidere 500 etiopici. Il giornalista conclude la narrazione di questo episodio dicendo che esso originò, nei villaggi somali, una storia di cento leoni che, per difendere il loro branco, erano riusciti a mettere in fuga migliaia di predoni214. Un ascaro arabo, evirato e ferito da numerosi colpi di sciabola, riuscì a sopravvivere e venne impiegato come guardia carceraria a Muqdisho215. Un distaccamento inviato da Barbara, che contava 50 ascari, recuperò unicamente le salme dei due ufficiali, che vennero seppelliti a Luuq216. Il 5 aprile 1908 venne emanata una legge sul nuovo ordinamento della colonia, che prese il nome di Somalia Italiana. La difesa della colonia era assegnata agli ascari, ora raggruppati nel Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana (RCTC Somalia), sempre comandati da ufficiali dell’esercito italiani; al Corpo di Polizia, composto da agenti locali comandati da ufficiali dei carabinieri e alle navi della marina217. Gli ascari dei carabinieri, anche in Somalia chiamati zaptiè, presentarono, già da questo periodo, delle percentuali maggiori di somali, che arrivavano fino al 35%218 . Le truppe della Somalia vennero aumentate in quell’anno, anche con l’invio di 598 eritrei. Il RCTC Somalia si trovò così, in quell’anno, a contare 3500 ascari e 44 ufficiali. Il primo comandante supremo delle truppe (in precedenza, i capitani e i tenenti comandavano le singole compagnie, ma non era presente un comando unificato) fu il maggiore Antonino di Giorgio, che con il Regio Corpo occupò la regione del basso Shabeelle219. Nel 1912, venne istituita anche in Somalia la Milizia Mobile, che esisteva in Eritrea dal 1894. La Milizia Mobile era composta da ascari congedati, che venivano
213 Ibidem; Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., p. 25 214 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 231 Data l’enfasi di questo ultimo punto, è necessario ricordare che il testo di Quirico non presenta le note, ma solo una bibliografia finale. Non si può quindi capire se lui abbia preso questo episodio da un’opera attendibile o eccessivamente propagandistica. L’autore confuta però spesso, nel suo libro, fonti eccessivamente parziali, mentre la diffusione del racconto nei villaggi somali è indicata come un dato plausibile. 215 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I: Tomo II: Avvenimenti militari e impiego. Africa Orientale(1868-1934), Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 201 216 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., p. 25 217Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 145 218 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., p. 141 219 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 145
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richiamati e istruiti (o meglio, nuovamente istruiti, dato che erano stati militari) alle armi due volte all’anno, per due periodi di 12 giorni ciascuno. Ogni comando di presidio fissava queste chiamate nei periodi più favorevoli per gli ex ascari, in base alle loro attività (commerci, agricoltura, pastorizia). Gli uomini iscritti alla Milizia venivano pagati, durante i periodi di addestramento, con le stesse somme del grado ricoperto in precedenza, oltre a un premio di 11 rupie e 14 bese220. Gli ascari della Somalia parteciparono anche alla conquista della Libia. Vennero impiegati sia nel corso del conflitto italo-turco (1911-1912), che, a partire dal marzo 1913, nelle operazioni contro la guerriglia libica che seguì alla vittoria degli italiani contro gli ottomani221. Una unità, chiamata I Battaglione Benadir, composta da 750 uomini, venne impiegato in Cirenaica, contro alcune popolazioni che opposero una guerriglia alla occupazione italiana del territorio222. I suoi volontari, che oltre agli arabo-somali comprendevano anche eritrei, effettuavano operazioni di ricognizione nel deserto, e contribuirono alla ricostruzione di un castello turco, oltre alla costruzione di strade e fortificazioni. Una compagnia, a Misda, si occupò della scorta alle carovane provenienti dalla regione di Garian, oltre a contribuire alla costruzione di una pista camionabile che collegava Garian e Misda223.Vennero inviati anche altri battaglioni, i numeri II,III e IV, detto “Battaglione Somalo” nel corso del 1914224. Questo ultimo battaglione, in particolare una sua centuria somala, in uno scontro nei pressi dell’altopiano di Eljabel Elgharbi, secondo un testo coloniale si distinse particolarmente contro i guerriglieri locali, che attaccarono gli ascari ma vennero costretti a ripiegare. Il Battaglione registrò 5 feriti, quasi tutti appartenenti alla centuria somala, che era stata adoperata per la protezione dell’artiglieria. Questi ascari rimasero in Libia per alcuni mesi, occupandosi soprattutto di scortare carovane di camion e di cammelli nel deserto. Nel luglio 1915, nel corso di uno scontro con i resistenti locali, gli ascari persero 19 uomini225. Soldati arabi, somali, etiopici ed eritrei contribuirono a conquistare la terza colonia del Regno d’Italia, la Libia226. Alcuni documenti consultati presso
220 Ivi, p. 146 Sulla Milizia Mobile in Eritrea Cfr. Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, op. cit., p. 31 221 Ibidem Le operazioni in Libia continuarono anche in epoca fascista. Il RCTC Somalia tenne reparti impegnati in Libia fino al 1927. Cfr. Scala, Storia delle fanterie italiane, Vol.IV: Le fanterie italiane nelle conquiste coloniali , p. 572 222Scala, Storia delle fanterie italiane, Vol.IV: Le fanterie italiane nelle conquiste coloniali , pp. 562-563 223 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., p. 65 224 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico-militare. L’Opera dell’esercito. Vol. I, Tomo I: Ordinamento e reclutamento 1885-1943, Vitale Massimo Adolfo (testo di), op. cit., p. 146 225 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., p. 71 226 L’elenco di questi popoli si riferisce sia al fatto che i reparti della Somalia Italiana, come detto nel corso del capitolo, erano spesso rinforzati da eritrei ed etiopici, provenienti dalla prima colonia. Oltre a questo, in Libia 99
l’archivio del Ministero degli esteri provano che uomini del RCTC della Somalia vennero anche impiegati per formare i reparti di ascari della nuova colonia, a partire dal 1912. Ogni fascicolo della posizione 115/1, riguardante gli ascari eritrei e somali in Libia, è titolato “Ascari eritrei e somali in Libia”, e contiene documenti sia sugli invii del RCTC Somalia che del RCTC Eritrea. Il primo documento sull’invio di graduati dalla Somalia alla Libia per la costituzione di ascari locali, datato 18 marzo 1912, fu inviato al Ministero degli esteri dal Ministero della guerra, e ha come oggetto proprio “Graduati arabi della Somalia per la Libia”:
“Il Comando del corpo di occupazione della Libia […] fa notare che l’arruolamento degli arabi locali, già assai difficile per se stesso, presenta maggiore difficoltà dovendo adibirsi come istruttori dei graduati eritrei. Com’è noto all’E.V. questi sono per la maggioranza cristiani, e quindi non consigliabili, e quelli musulmani sono male accetti perché ritenuti di razza inferiore essendo di razza negra e di sangue misto. Sorge perciò la necessità e la convenienza di ricorrere al Regio Corpo di Truppe Coloniali della Somalia per avere l’elemento adatto. È ben vero che quelle truppe sono assai scarse, ma si ritiene che togliere una sola cinquantina di graduati ed ottimi ascari anziani da poter promuovere graduati, non possa scompaginare quei reparti, né essere di danno alcuno […] Naturalmente si dovrebbe porre nella scelta la massima cura, tenendo responsabili i comandanti di compagnia dell’elemento men buono che venisse inviato. Devono escludersi in modo più assoluto i Somali, quelli di sangue misto e a maggior ragione i Suaheli e i Galla. La scelta deve cadere essenzialmente sugli arabi puri dell’Adramaut ed anche dello Yemen (questi ultimi anche per motivi di propaganda politica) possibilmente appartenenti alle cabile più guerriere. Gli Asceraf sarebbero i più desiderati. La loro ferma sarà di un anno e la paga sarà identica ai graduati eritrei che si trovano in Tripolitania. Naturalmente la spesa di trasporto, vestiario ecc. graverà sul bilancio della Libia”227 .
Dalla lettura di un documento in partenza del Ministero degli Esteri di alcuni giorni dopo, che ripresenta le questioni razziste, emerge il desiderio, da parte del Ministero, di invii per la Libia anche dalla Somalia, e non solo dalla prima colonia228. Il 27 marzo, il governatore della
vennero impiegati anche gli ascari del RCTC Eritrea. Sull’impiego degli ascari eritrei in Libia, Massimo Zaccaria ha scritto un testo specifico. Le operazioni in quel contesto sono state affrontate anche nel lavoro di Alessandro Volterra, nonostante lo stesso sia concentrato maggiormente sulla successiva campagna d’Etiopia. Cfr. Zaccaria, Anch’io per la tua bandiera. Il V battaglione Ascari in missione sul fronte libico(1912), op. cit.; Volterra, Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941, op. cit., pp. 43-71 227 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. II: Libia, pos. 115/1, fasc. 8, telegramma del Ministero della guerra al Ministero degli esteri, Roma, 18 marzo 1912 228 Ivi, telegramma in uscita del Ministero degli esteri (firma non leggibile), Roma, 23 marzo 1912 100
Somalia Italiana De Martino inviò una risposta in cui esprimeva la sua volontà di inviare ascari in Libia, presentando però una serie di problemi che, a suo parere, si sarebbero posti sempre in ambito razziale:
“Devo però richiamare seriamente l’attenzione di V.E. sull’aspetto politico dell’atto che si verrebbe a compiere. Difatti, pure che degli ascari consentano di prendere parte ad una azione ostile contro altri arabi con i quali spesso vantano discendenza comune, e il semplice rifiuto sarebbe pericoloso esempio, resterebbe il dubbio che dovessero poi, nel momento del bisogno prevalere sugli impegni assunti i sentimenti di religione e di razza. […] questo dubbio si avvalora dal fatto che tali sentimenti sono forse più forti nelle razze più pure, alle quali fa riferimento l’E.V. D’altra parte non ignoro che questa colonia, a differenza dell’Eritrea, ha la sua difesa fondata sopra arabi mussulmani liberamente ingaggiativisi ed è mio dovere segnalare all’E.V. le possibili cause e le eventualità che potrebbero urtare lo stato di cose raggiunto tra difficoltà non poche229”.
Dopo pochi giorni, De Martino comunicò che, dopo alcuni colloqui con il comandante del RCTC Somalia, che a sua volta aveva interpellato gli ufficiali a capo dei vari reparti, che non erano presenti “individui di razze pure” che fossero degli ascari semplici. Egli avrebbe dovuto quindi, per soddisfare le richieste dei ministeri della guerra e degli esteri dal punto di vista razziale, inviare 50 graduati, cosa che avrebbe comportato un danno importantissimo per il Regio Corpo della colonia. Oltre a ribadire alcuni dei rischi presenti nel telegramma del 27, il telegramma di De Martino sottolinea l’importanza di quei graduati all’interno del Regio Corpo, che, risparmiando molti problemi alla madrepatria, erano riusciti a mantenere i semplici ascari fedeli alla colonia a all’Italia, nonostante “i tentativi fatti per eccitare l’animo degli ascari230”. Il giorno dopo, il governatore informò circa la sua volontà di inviare al Comando del Corpo di Operazioni in Tripolitania 50 cammellieri, montati, perfettamente addestrati ed equipaggiati, insieme ai due tenenti che li comandavano in colonia, per assicurarne la massima efficienza. Tale reparto veniva offerto nonostante ricoprisse un ruolo molto importante in Somalia, a testimoniare il fatto che De Martino non desiderava rifiutare
229 Ivi, telegramma del governatore della Somalia De Martino al Ministero degli esteri, Muqdisho, 27 marzo 1912 230 Ivi, 30 marzo 1912 Riguardo ai tentativi nominati, che avrebbero portato gli ascari a rompere i loro servizi con la colonia, essi non vengono specificati. Si può ipotizzare un riferimento agli scontri con le popolazioni locali e contro i seguaci del Mullah, di cui verrà detto all’inizio del prossimo capitolo. 101
un aiuto alle operazioni libiche231. La risposta del Ministero degli Esteri, pur riconoscendo un certo valore alle obiezioni del governatore De Martino, fu la seguente:
“Questo Ministero[…]non può disconoscere il valore delle obiezioni in esso contenute: perciò è del parere che[…] molta cautela, e gradualmente, nell’attuazione del concetto di inquadrare, con graduati arabi del R. corpo di truppe della Somalia, gli elementi indigeni della Libia che si presentani volontari per militare al nostro servizio. Non si ritiene però di dover rinunciare a questo esperimento perché, qualora i graduati a ciò destinati siano scelti con oculatezza fra i più adatti per purezza e nobiltà di razza, per autorevolezza e per provata fedeltà alla nostra causa, non si può non sperarne dei buoni risultati. E infatti, per quanto riguarda i vincoli di razza e di religione che potrebbero impedire agli arabi al nostro servizio di combattere contro gli arabi assoldati dai turchi, si deve osservare che le lotte fra le tribù arabe sono normali nel loro paese, ed il fatto stesso che noi ci accingiamo a reclutare arabi in Libia, significa che non riteniamo il vincolo di razza sia un impedimento: lo stesso può dirsi del vincolo di religione, e si può aggiungere che gli arabi da noi reclutati per la Somalia sanno benissimo di dover ivi combattere contro popolazioni mussulmane. Non v’ha dubbio che i graduati arabi della Somalia siano più adatti degli Eritrei ad inquadrare gli arabi della Libia, i quali mal si adattano ad essere comandati da questi ultimi che, o sono cristiani, o sono di razze nere spregiate, o se anche d’origine araba sono secondo essi stessi di stirpe inferiore e impura. Infine questi arabi, originari dell’Jemen e dell’Hadramut, e da qualche anno al nostro servizio, hanno avuto campo di apprezzare tutti i benefici del nostro dominio in confronto di quello turco; e perciò, e per la grande affinità di razza e di religione con le popolazioni libiche, saranno certamente un prezioso strumenti di efficace propaganda in nostro favore, molto meglio degli eritrei232 .
Non sono state trovate ulteriori risposte di De Martino sull’argomento, ma è possibile che la richiesta, alla fine, sia stata accolta. Un altro documento di alcuni mesi dopo, infatti, riferisce di un graduato arabo, quindi della categoria richiesta dai ministeri, che era stato destinato a un battaglione di ascari libici di Tripoli. Il graduato in questione aveva perso ad Aden la partenza del piroscafo per Tripoli e, per questo motivo, nel telegramma del Ministero della Guerra
231 Ivi, 1 aprile 1912 232 Ivi, telegramma del Ministero della guerra al Ministero degli esteri, Roma, 17 aprile 1912 102
emerge l’urgenza di imbarcarlo sulla prossima imbarcazione che sarebbe partita da Muqdisho233 .
Questa serie di documenti, con cui si è optato di concludere questo capitolo sugli ascari arabosomali, possono essere visti come un efficace sunto della storia del primo periodo delle truppe reclutate in Somalia, che si è cercata di analizzare nel capitolo, anche se gli stessi aspetti caratterizzarono anche le esperienze successive. In questi documenti emergono le difficoltà affrontate nella costituzione di reparti regolari efficaci, che in quell’anno non erano più considerati, da politici e militari (in questo caso, dal Ministero della Guerra e da quello degli Esteri), come truppe scadenti, se confrontate con quelle eritree. Sempre nelle risposte di De Martino, emerge l’importanza rivestita nella colonia dai graduati, considerati dal governatore fondamentali per evitare problemi di una certa importanza presso le truppe che si erano costituite in colonia, dato il peso ricoperto dai graduati all’interno dei reparti. Su tutto, come sempre, dalla lettura emerge però il razzismo che contraddistinse il colonialismo italiano (e non solo). Questo era esplicitato dalla ripetizione del termine “razza”, dalla divisione degli individui in “razze pure” e “inferiori”, dalla convinzione che le discriminazioni fossero presenti anche negli altri popoli, in questo caso i libici. Concretamente, questa suddivisione e classificazione degli altri popoli, portava, in maniera sistematica, a formare i reparti in base alle popolazioni e alle religioni da queste adottate. Tale sistema fu da subito adottato in Eritrea, dove, ad esempio, i cannoni erano riservati ai sudanesi, perché ritenuti i più ostili verso gli etiopici e i più adatti a custodire delle armi tanto importanti; nella Somalia meridionale, dove le popolazioni locali vennero affrontate e, la maggior parte delle volte, massacrate da uomini che fossero, il più possibile, provenienti da altri luoghi, ma che abbracciassero la stessa religione dei somali, l’Islam, per evitare di offendere chi, tra gli abitanti della colonia, fosse meglio disposto dagli italiani; infine, nei documenti sui graduati del RCTC Somalia destinati ad istruire gli ascari libici, emerge che anche nella terza colonia, l’imperativo rimaneva il medesimo delle precedenti esperienze, vale a dire impiegare uomini idonei, per provenienza e religione, a formare truppe che, secondo due ministri dell’Italia giolittiana, sarebbero state disposte a farsi addestrare solo da graduati rientranti nelle categorie razziali che tanto contraddistinsero l’operato degli italiani nella formazione dei reparti.
233 ASDMAE, Fondo MAI, Vol. II: Libia, pos. 115/1, fasc. 7, telegramma espresso di Stato del Ministero della guerra, Roma, 3 novembre 1912
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Il prossimo capitolo, che si concentrerà sull’epoca fascista, si focalizzerà maggiormente sui reparti irregolari costituiti in Somalia, che affiancarono il RCTC.
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Capitolo Tre
LE BANDE IRREGOLARI SOMALE IN EPOCALIBERALE E LE BANDE DI CONFINE SOMALE DEI DUBAT DURANTE IL COLONIALISMO FASCISTA
3.1 Le bande ausiliarie degli ascari contro i daraawish
Questo capitolo, come quelli che seguiranno, presenteranno le vicende dei reparti dubat, le bande di confine somale che vennero costituite in Somalia in epoca fascista, e che affiancarono da quel momento gli ascari, in colonia e nel corso della campagna d’Etiopia. I dubat furono un corpo con caratteristiche peculiari, sia per quanto riguarda la loro storia, dalla costituzione agli impieghi in campo bellico, che per le modalità e gli spazi con cui la storiografia fascista li trattò. Nel corso dei prossimi capitoli, il lavoro si concentrerà maggiormente su questi reparti, per alcuni motivi definiti nell’introduzione a questa tesi di laurea magistrale, che si collegano direttamente al tipo di fonti che affrontano questi reparti e ai risultati della consultazione negli archivi. Prima di introdurre la costituzione dei dubat, avvenuta per decisione del primo governatore fascista della Somalia, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, tra la fine del 1924 e l’inizio del 1925, il presente paragrafo affronterà l’impiego di altri reparti, di costituzione precedente, che vennero pure impiegati in appoggio agli ascari in servizio nella Somalia meridionale, durante l’epoca liberale.
Gli ascari della Somalia furono infatti affiancati da reparti ausiliari, esterni al Regio Corpo, che, come i dubat, erano genericamente definiti con il termine “banda” e, aspetto più importante, composti da somali.
Queste esperienze caratterizzarono le operazioni che gli italiani e i loro reparti di ascari attuarono contro alcune sollevazioni dei Byamaal e di altri clan somali. A partire dal 1907, i clan della Somalia meridionale intrecciarono le loro lotte con quella di un importante leader guerrigliero somalo: vennero infatti appoggiati da Sayyid Mahammad Abdulle Hassan e dal suo movimento politico-religioso1 . Data l’importanza di questo personaggio, prima di procedere con l’impatto che ebbero le sue azioni sugli ascari, e che porteranno gli italiani a
1 Scala, Storia delle fanterie italiane, Vol.IV: Le fanterie italiane nelle conquiste coloniali, op. cit., p. 561 Questo personaggio venne soprannominato dagli inglesi Mad Mullah (“il mullah pazzo”). Nei testi, sia in quelli italiani che in quelli inglesi, sia di epoca coloniale che in lavori scientifici, è spesso chiamato in questo modo, o semplicemente come Mullah. In questo lavoro, egli verrà invece indicato semplicemente come Hassan. 105
costituire le bande irregolari somale, è opportuno tracciare un quadro sintetico della sua storia e di quella del suo movimento.
Hassan era nato nella valle Sa’madeeqa, vicino alla città di Buuhoodle, nella Somalia settentrionale2. Questa regione faceva parte del protettorato del British Somaliland3. Hassan fu una figura molto complessa e importante nella storia della Somalia. Cassanelli lo descrive come eroe nazionale somalo, guerriero, poeta e leader religioso4. Fin dall’adolescenza, Hassan si dedicò assiduamente agli studi islamici, arrivando ad imparare il Corano a memoria a 14 anni. Viaggiò in molti centri islamici, e, durante un soggiorno alla Mecca, incontrò Shaykk Mohammed Salah, fondatore della tariqa (confraternita) Salahiya. Hassan entrò a far parte di questa confraternita, ritenendo la dottrina di Salah, molto radicale, come l’approccio alla religione più affine alle sue convinzioni. Tornò in Somalia nel 1895, a Barbara, città che faceva parte del British Somaliland, con il compito di veicolare gli insegnamenti di Salah e di rappresentare nel paese la tariqa5. Qui si scontrò con un altro ordine religioso, la tariqa Qadriya, ma anche con l’amministrazione britannica6. Hassan, che considerava le altre tariqe somale come decadenti e corrotte, predicava infatti una dottrina estremamente rigida, condannando alcune abitudini che si erano diffuse presso i somali, come, ad esempio, il consumo di alcolici e tè e l’utilizzo dell’erba eccitante kat. Hassan cominciò inoltre a mettere in guardia i somali contro i missionari cristiani e gli inglesi, considerati una minaccia all’identità religiosa locale7. I britannici sostennero la Qadriya e altre confraternite contro la Salahiya, e, alla fine del 1897, chiusero il centro religioso che Hassan aveva aperto a
2 Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 24 Issa-Salwe indicò il 1856 come anno di nascita di Hassan, mentre Lewis il 1864. Cfr. Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 24; Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, op. cit., p. 65 3 Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, op. cit., p. 65 4 Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., p. 36 Per il percorso storico di Hassan, che in questo lavoro può solo essere sintetizzato Cfr. Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, op. cit., pp. 63-92; Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., pp. 19-32 5 Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 25 Il termine shayyk indica un individuo che ha facoltà di trasmettere gli insegnamenti religiosi; tariqa, tradotto da Cassanelli come “Way”, indica invece, all’interno della religione islamica, un dato ordine, i cui membri si considerano fratelli. Cfr. Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., pp. 285-286 6 Ivi, p. 26 7 Lewis informa che il consumo di alcolici tra i somali si diffuse in seguito alla presenza degli europei. Del Boca invece non specifica se il consumo di tè e dell’erba stimolante fossero collegati con il colonialismo. Cfr. Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, op. cit., p. 67; Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 790 106
Barbara8. Dal 1898, Hassan si ritirò presso il clan dei Dulbhanata che, a differenza di altri clan e della popolazione di Barbara, avevano rifiutato i contatti con i britannici. Lui e i suoi seguaci costruirono una moschea e un centro per l’insegnamento di tipo Salahiya. In questo periodo dialogò con diversi clan, riuscendo a porre fine a precedenti controversie che li dividevano e a creare una opposizione comune contro il colonialismo e i somali che lo avevano accettato9. Hassan cominciò a chiamare i suoi seguaci con il termine darwiish, generalmente usato per indicare un praticante del sufismo, ma in questo caso inteso per sottolineare una fratellanza e un comune obiettivo, che andavano oltre le appartenenze ai clan che contraddistinguevano e dividevano la società somala10. La lotta di questo movimento si rivolse contro gli eserciti britannico, etiopico e italiano11. Ogni darwiish, secondo quanto riferito dalle testimonianze orali raccolte da Cassanelli nel Banadir, oltre ad essere seguace di Hassan, doveva possedere un’arma da fuoco, ed essere disposto a condurre una vita all’insegna della guerriglia12. La disponibilità di armi da fuoco, che non fu una costante dei gruppi somali resistenti al colonialismo, come visto nel capitolo precedente, era quindi considerata, nella memoria dei somali meridionali intervistati da Cassanelli, come un elemento qualificante ed essenziale tra le file dei daraawiish. Hassan infatti, almeno dal 1898, si preoccupò di fornire ai suoi militanti armi da fuoco a retrocarica. In tutto il continente africano, nonostante gli alti prezzi, i costi di spedizione e di trasporto, e le restrizioni imposte di governi delle potenze coloniali, che temevano una diffusione delle armi da fuoco presso gli africani, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento era possibile procurarsi fucili a retrocarica13. Questi erano generalmente fucili precedentemente in uso presso eserciti europei che, una volta rimpiazzati da modelli successivi, venivano venduti a imprenditori privati che li commerciavano in tutto il mondo. Hassan barattò per ogni fucile 5 o 6 femmine di
8 Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 26 9 Al momento della chiusura del centro Salahiya da parte britannica, le dottrine di Hassan non avevano incontrato molti consensi tra la popolazione di Barbara. Questo fu dovuto sia al rigore richiesto da Hassan per aderire alla sua tariqa, in un contesto in cui vi era già una tariqa consolidata (la Qadriya), ma anche a motivazioni economiche. A Barbara, infatti, sotto l’amministrazione britannica, il commercio ovino era diventato fiorente, grazie all’esportazione di pecore verso Aden. Questo aveva permesso l’affermarsi, nella città, di molti commercianti locali che consideravano come pericolosi e contrari ai propri interessi gli insegnamenti di Hassan e la sua ostilità verso gli europei. Cfr. Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, op. cit., pp. 67-68 10 Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., p. 240 11 Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, op. cit., p. 70 12 Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., p. 241 13 Headrick, Il predominio dell’Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo(Power over Peoples), op. cit., pp. 118-120
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cammello14. I daraawiish combatterono a lungo contro tutte le forze straniere presenti in Somalia. Nel corso delle azioni, distruggevano diversi villaggi somali considerati fiancheggiatori dei colonizzatori e attaccavano gli eserciti occupanti15. I britannici, che subirono perdite molto numerose contro questi guerriglieri, in gran parte tra le loro truppe indiane e i King’s African Rifles, riuscirono a sconfiggere il movimento armato solo nel 1920, con l’utilizzo dell’aviazione e dei bombardamenti. Fu determinante, per dare un definitivo colpo alle milizie di Hassan, anche l’ingaggio di popolazioni locali, avverse ai daraawiish, che a terra decimavano le forze dei resistenti con numerose incursioni. Il leader combattente
morì di polmonite nel 1921, quando le sue forze erano state sconfitte, dopo oltre venti anni di guerriglia anticolonialista. Finiva così il progetto di Hassan, che mirava a unificare i clan somali e a eliminare ogni presenza straniera in Somalia16. Se questo fu, in sintesi, il percorso di Hassan e del suo movimento, quale impatto ebbe il fenomeno dei daraawiish sulla colonia italiana e, in particolare, sulle truppe arabo-somale? Gli italiani, nel marzo del 1905, tentarono la via diplomatica con Hassan, cercando di arrivare ad una pace con il leader somalo che coinvolgesse anche Etiopia e Gran Bretagna. La tregua durò però solo fino all’inizio del 1908, quando i daraawiish ripresero la guerriglia17. Nella colonia italiana, il movimento darwiish
14 Ibidem Headrick indica con questo baratto la modalità con cui Hassan iniziò a procurarsi i fucili per avviare la sua lotta armata. Un autore di epoca coloniale riporta invece che, nel 1902, venne accertato un contrabbando di armi e munizioni per i daraawiish da Aden alle coste del Somaliland. Questo avvenne eludendo le autorità britanniche, presenti sia in Somaliland che in Aden. Quindi è plausibile che, dopo i baratti con i cammelli, Hassan abbia adoperato molto denaro, proveniente dai suoi stessi militanti e fiancheg giatori, per acquistare le armi da fuoco. Lewis sottolinea infatti che, dopo lo scarso successo delle sue dottrine radicali presso la popolazione di Marka, Hassan incontrò invece molti favori tra alcuni clan dediti alla pastorizia, che donarono molto bestiame e denaro. Cfr. Francesco Saverio Caroselli, Ferro e fuoco in Somalia, Roma, Sindacato italiano arti grafiche, 1931, pp. 21-22; Lewis, A modern history of Somalia. Nation and state in the Horn of Africa, op. cit., p. 68
15 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 235 I combattenti di Hassan riuscirono, per diversi anni, a vincere molti scontri contro le efficienti truppe britanniche, grazie alla conoscenza dei territori, alla capacità di sfruttare l’ambiente a loro vantaggio nel corso delle imboscate e a una rigida organizzazione. Inoltre, la convinzione di condurre una “guerra santa” (definizione data da Issa-Salwe), rafforzava i militanti, aumentandone la determinazione nei combattimenti. Cfr. Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., pp. 30-31 16 L’autore afferma che, a rallentare la svolta britannica decisiva contro le milizie di Hassan, pesarono le campagne in Sudafrica e la prima guerra mondiale, che impegnarono i britannici a tal punto che, nel British Somaliland, riuscirono a spezzare il movimento solo nel 1920. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 235-240 Anche Issa-Salwe si sofferma sull’efficacia degli aerei britannici nella sconfitta definitiva dei daraawiish, che non avevano pianificato nulla contro attacchi di questo tipo e si trovarono impreparati quando, simultaneamente, gli aerei bombardarono i vari avamposti dei daraawiish. Cfr. Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 36 17 Il 5 marzo del 1905, Hassan firmò a Illig un accordo con Italia, Gren Bretagna ed Etiopia in cambio della concessione, da parte degli italiani, del territorio del Nugaal. Questo trattato fu visto con favore sia dai britannici, che vedevano come spostata più a nord la minaccia dei daarawiish, sia dagli italiani, che dopo Adwa erano timorosi di avviare una nuova campagna militare in larga scala, e ritenevano che il nuovo stato-cuscinetto di Hassan nel Nugaal avrebbe posto fine alle lotte tra i due sultani del Nord, portandoli ad unirsi per il timore 108
intercettò e appoggiò nuove rivolte dei Byamaal, già durante il periodo di tregua con etiopici ed europei. Il leader incontrò, nella sua fortezza nel Nuugal, emissari Byamaal e di altri clan del sud che erano intenzionati a proseguire le lotte iniziate alcuni anni prima contro gli italiani. Questi combattenti, come detto nel precedente capitolo, a quel momento erano riusciti a opporre solo armi bianche avvelenate negli scontri precedenti e, pur riuscendo ad assediare la città di Marka per 9 mesi, negli scontri contro i reparti arabo-somali ebbero sempre la peggio18. Dal 1907, un certo numero di resistenti del Banadir, provenienti da diversi villaggi, cominciò a recarsi nel Nuugal per acquistare i fucili dai daraawiish19. Gli ascari della Somalia si trovarono quindi, a partire dal 1907-1908, ad affrontare una guerriglia dotata di armi da fuoco20. Cassanelli scrive che, probabilmente, le armi da fuoco in Banadir, nel 1907 e negli anni successivi, oscillarono tra le tre e le quattro centinaia. Si trattava di fucili Wetterli o modelli turchi, mentre le pistole erano più rare. I guerriglieri avevano nelle loro fila almeno due uomini capaci di riparare le armi21 . I daraawiish non portarono solo le armi da fuoco nelle resistenze del Banadir, ma anche una nuova modalità di condurre la lotta. Negli anni precedenti, solitamente, i somali, in gruppi numerosi, attaccavano con armi bianche interi reparti, mentre questi erano accampati o in marcia. Con i daraawiish, invece, la guerriglia acquistò una maggiore mobilità e la resistenza passò ad attacchi più rapidi e continui. Divisi in formazioni più veloci, i guerriglieri ora attaccavano in una zona, per poi colpirne un’altra. Questo passaggio nella storia della resistenza anti-coloniale in Benadir è sottolineato e descritto nel testo di Cassanelli in questo modo: “They were not a cluster of kinsmen defending a given territory; they were a mobile commando unit defending their own
rappresentato dal nuovo confinante. In realtà, l’obiettivo di Hassan e del movimento rimaneva quello di una Somalia libera da ogni interferenza straniera. Approfittò della tregua per rafforzare ulteriormente il suo arsenale e aumentare il numero dei suoi seguaci, reclutando nuovi miliziani anche tra alcuni clan della Somalia settentrionale. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., pp. 800-801 e 820 18 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 236 19 Cfr. Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., p. 241 20 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 236 21 Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 1600-1900, op. cit., p. 241 Il possesso di un’arma da fuoco, data la sua rarità ed efficacia nella guerriglia, conferiva all’individuo uno status e un ruolo importanti. L’autore riferisce che tutte le persone da lui ascoltate e intervistate nel corso dei suoi studi ricordavano con grande orgoglio i loro parenti che avevano posseduto armi da fuoco durante il colonialismo italiano. Inoltre, occorre sottolineare che le armi introdotte dai daraawiish non fecero cessare l’utilizzo di archi, lance e frecce, che continuavano a costituire un armamento diffuso nel Banadir, né l’arrivo delle dottrine di Hassan fece scomparire le altre forme di resistenza presenti nelle zone sotto controllo italiano. In questo paragrafo, quando specificato nelle fonti, verrà indicato se un particolare scontro avvenne contro i daraawiish o altra tipologia di resistente. In alcuni scontri avvenuti nel corso del 1908, ad esempio, i daraawiish affiancarono alcuni clan che combattevano con armi tradizionali. In ogni caso, dopo il 1908, i daraawiish costituirono la maggioranza di chi, nel Banadir, combatteva contro gli italiani. I guerriglieri affiliati al movimenti darwiish, nel Banadir, furono intorno alle due migliaia. Cfr. Ibidem 109
independence”22 . In questo periodo, a livello di singoli scontri, i reparti di ascari riuscivano comunque ad avere quasi sempre la meglio sui guerriglieri, nonostante la nuova organizzazione e i loro nuovi appoggi di uomini e armi da fuoco. Consultando il testo Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia, che elenca i singoli fatti d’arme avvenuti nella colonia anno per anno, le perdite delle truppe al servizio degli italiani erano sempre molto inferiori a quelle che infliggevano ai guerriglieri. Ad esempio, il 2 marzo del 1908, 600 ascari, dotati di 4 cannoni, vennero impiegati contro circa 1000 Byamaal che, in parte, erano armati con fucili Wetterli ricevuti da Hassan nel Nuugal. Le truppe riuscirono a disperdere i combattenti: gli ascari ebbero un morto e 4 feriti, mentre i Byamaal subirono 50 uccisioni23. Nonostante questi esiti favorevoli, gli ascari locali e i rinforzi che, come negli anni precedenti, venivano inviati dall’Eritrea, cominciarono ad essere logorati nel morale da questo tipo di conflitto. Infatti, daraawiish e altri resistenti, subito dopo essere stati sconfitti, anche pesantemente, in un dato luogo, riattaccavano altrove gli ascari e i loro ufficiali. Inoltre, questa lunga fase, terminata nel 1920, fu segnata da numerose atrocità, compiute da entrambe le parti. I daraawiish uccisero e schiavizzarono molti somali che non li appoggiarono contro gli italiani, incendiarono diversi villaggi e razziarono grandi quantità di bestiame24. Gli ufficiali italiani ordinarono agli ascari di agire con spietate rappresaglie. Le truppe uccisero persone disarmate e distrussero i loro villaggi, quando questi venivano anche solo sospettati di fiancheggiare la guerriglia. Nel luglio 1908, ad esempio, un reparto di ascari veniva impiegato per intercettare, tra Baardhere e Eima, un nucleo di daraawiish che aveva razziato il bestiame di un clan, dal momento che questo si era rifiutato di ribellarsi agli italiani. I guerriglieri avvistarono gli ascari e tesero loro un’ imboscata, per poi assaltare un accampamento italiano25. Gli ascari, con una elevata precisione di fuoco, riuscirono a mettere in fuga gli assalitori, infliggendo loro perdite numerose. In seguito, le truppe raggiunsero un villaggio, Dugiuma, che era stato forse costretto a offrire viveri e ospitalità alle milizie di Hassan, e lo incendiarono26.Oltre ad essere ovviamente una situazione estremamente critica per la popolazione, gli ascari e i loro ufficiali non si sentivano mai, effettivamente, padroni del controllo della situazione e dei territori, essendo sottoposti ad attacchi incessanti. Erano in grado di fronteggiare problemi che però si ripresentavano, senza alcuna tregua. Ogni piccola
22 Ivi, p. 242 Per queste ragioni, alcune persone intervistate da Cassanelli consideravano i daraawiish come shufta, termine traducibile con “bandito”. 23 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., pp. 25-26 24 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., pp. 236-238 25 Ivi, p. 237 26 Ibidem
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vittoria, spesso conclusa con episodi di rappresaglia feroce contro la popolazione, non era definitiva, e questo intaccava enormemente il morale degli arabo-somali, che si sentivano impiegati in un conflitto senza fine e brutale27. A questa situazione critica interna, si sommarono problemi di carattere esterno, per quanto concerneva gli invii di ascari dall’Eritrea e gli arruolamenti nella penisola arabica. Nella prima colonia, dato che i comandi italiani avevano deciso di inviare in Somalia una parte degli ascari congedati ma ancora a disposizione, appartenenti alla Milizia, alcune donne e preti locali si mobilitarono e protestarono contro questo provvedimento: gli italiani effettuarono alcuni arresti tra le persone che parteciparono alle manifestazioni, ma annullarono il bando di richiamo per i congedati e ritirarono i battaglioni eritrei che si trovavano già in Somalia, lasciando solo alcuni uomini ad occuparsi di addestrare nuove reclute yemenite28. Nonostante Quirico sottolinei solo le difficoltà presenti in Eritrea, problemi vennero riscontrati anche negli arruolamenti di ascari arabi, come emerge dalla lettura di alcuni documenti conservati presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Alla fine del 1911, a causa della guerra in Libia, gli italiani dovettero sospendere gli arruolamenti nella penisola arabica29. Per questa ragione, i comandi si adoperarono per arruolare ascari etiopici. Grazie alla legazione italiana di Addis Ababa, 100 etiopici arrivarono a Muqdisho nel giugno 1912. Non vennero però effettuati altri arruolamenti di etiopici, per ragioni politiche non precisate nel documento30 . L’arruolamento in massa di etiopici era stato proposto dal capitano Carlo Citerni, per più ragioni31. Secondo l’ufficiale, in seguito all’ espansione quotidiana dell’influenza italiana in Somalia meridionale, era necessario arruolare un numero maggiore di ascari. Senza che venga specificato il motivo, il documento prosegue dicendo che, con molta probabilità, nell’immediato futuro sarebbe stato impossibile reclutare nella penisola arabica. L’invio di truppe italiane era impossibile, soprattutto nelle regioni dell’interno, a causa delle condizioni climatiche, igieniche e di viabilità (Citerni ipotizza, al massimo, alcuni
27 Ivi, pp. 236-237 28 Ivi, p. 238 Quirico non riportò l’anno in cui si verificò questa protesta in Eritrea 29 Il documento non specifica la modalità in cui il conflitto italo-turco in Libia impedì gli arruolamenti nella penisola arabica. Cfr. AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 15, fasc. 5, Regio Corpo Truppe Coloniali-Comando Truppe, “Memorie storiche per l’anno 1912”, Awdheegle, 1 gennaio1913 (ProgAsc) 30 Ibidem 31 La proposta del capitano Carlo Citerni è allegata, in copia, a un telegramma dell’estate 1912. Anche se la copia non è datata, il contenuto del documento che la precede fa supporre che, nel 1912, la proposta fosse materia di discussioni tra gli ufficiali italiani. Il fatto che, nella proposta, Citerni parli di una prossima impossibilità ad arruolare ascari dalla penisola arabica, rende ipotizzabile che il piano di ricorrere agli etiopici venne redatto poco prima l’inizio del conflitto italo-turco in Libia, quindi intorno al settembre 1911. Cfr. Copia del telegramma di Citerni in AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 5, fasc. 8, telegramma del tenente generale capo di stato maggiore dell’esercito Pollio al Ministero della Guerra, Roma, 3 agosto 1912 (ProgAsc) 111
invii di soldati italiani lungo le coste)32. Oltre agli impedimenti ad arruolare altri ascari arabi, il capitano italiano considerava rischioso basare la difesa della colonia unicamente su soldati che, pur essendo di “razza differente” dalla popolazione, professavano la comune fede islamica. Egli temeva che il movimento darwiish potesse infatti attirare consensi anche tra gli ascari arabi, portarli a disertare e a sostenere i guerriglieri locali contro le autorità italiane. Gli ascari eritrei avevano prestato, fino a quel momento, un contributo molto importante alle campagne in Somalia meridionale, ma per ragioni politiche ed economiche era opportuno diminuire il peso gravante su queste truppe33. La soluzione, per Citerni, era rappresentata dalla possibilità di procedere all’arruolamento di etiopici, da lui ritenuti idonei sia per la Somalia che per la Libia. Secondo il capitano, nonostante i conflitti che avevano coinvolto Italia ed Etiopia, la popolazione del luogo sarebbe stata ben disposta verso l’Italia. Il sentimento filo italiano tra gli etiopici si sarebbe diffuso, per Citerni, grazie al fatto che questi avrebbero avuto modo di conoscere, aldilà del confine, il “contegno dei nativi dell’Eritrea” e le vittorie italiane contro i turchi34. Una volta ottenuto il consenso del governo etiopico, grazie ad un compenso ancora da pattuire, sarebbe stato relativamente facile arruolare ascari etiopici sia per la Somalia che per la Libia35. Un telegramma del 3 agosto 1912 inviato dal tenente generale Alberto Pollio al Ministero della Guerra, descrive alcune motivazioni per cui non era auspicabile ricorrere ad ascari etiopici e dava anche una proposta abbastanza rivoluzionaria per l’epoca, dati i pregiudizi dei comandi sui somali e i grandi limiti imposti ai loro arruolamenti nei reparti di ascari della colonia:
“[…] questo Comando […] è del parere […] che la radicale soluzione debba ricercarsi nell’utilizzazione dell’elemento somalo da noi dipendente. La nostra situazione attuale nella Somalia, come risulta dalle notizie periodiche, è tale da ispirare fiducia agli indigeni; la nostra occupazione è andata a mano a mano espandendosi verso l’interno si che oggi la protezione effettiva si esplica sopra tribù abbastanza numerose che non tarderanno ad accorgersi dei vantaggi derivanti dalla loro fedeltà, dalla realtà e persistenza del nostro dominio e potrebbero probabilmente fornire un contingente fidato […] Anche per quanto riguarda il mullismo, questo Comando non può che confermare
32 Ibidem 33 Ibidem Per quanto riguarda gli ascari eritrei, il documento di Citerni non specifica i motivi politici ed economici che imponevano di sospendere o limitare gli invii, ma è possibile che l’ufficiale facesse riferimento a quanto riportato nel testo di Quirico sulle manifestazioni che attraversarono la prima colonia in seguito alla proposta di inviare in Somalia alcuni ex ascari della Milizia. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 238 34 Ibidem 35 Ibidem
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[…] che per effetto della nostra azione di governo nella Somalia Meridionale e con la probabile concomitanza nostra ed altri in altri territori della Somalia, il Mullismo potrà perdere gradatamente d’importanza. Sembra invece necessario tener presente che, secondo ogni probabilità col progredire verso l’interno saremo costretti a guardarci sempre più dalle velleità Abissine e quindi non sembrerebbe del tutto opportuno lasciare la difesa della colonia affidata a truppe in cui prevalesse l’elemento Etiopico”
36 .
Il colonnello Alfieri, comandante del Regio Corpo, alcuni mesi dopo rispose a Pollio esprimendo un parere sfavorevole alla sua proposta di aumentare il numero di ascari somali, ribadendo alcuni stereotipi, molto radicati tra gli ufficiali. Per il colonnello italiano, ad eccezione di alcune qaba’il come i Byamaal, i somali sarebbero stati inidonei alle attività belliche. Nel documento si legge che “ questo era il parere di Guillain nel 1847, ed anche oggi si può accertarlo senza modificarlo affatto”, confermando un pregiudizio che attingeva anche da affermazioni fatte circa 70 anni prima da un esploratore francese. Per Alfieri, la percentuale del 10% non poteva assolutamente essere superata, se non per le centurie destinate al servizio di polizia lungo la costa e il Gùba37. Data la diffusione dell’ideologia di Hassan nelle regioni settentrionali, inoltre, Alfieri vietò nuovi arruolamenti di somali provenienti da queste regioni. Il comandante del Regio Corpo era perplesso anche sugli arruolamenti di etiopici, dal momento che, nonostante tutti i problemi precedentemente sottolineati, gli arabi e gli eritrei continuavano ad essere gli ascari più adatti per la Somalia. Gli arabi, che durante il conflitto libico furono arruolati con maggiori difficoltà e in minor numero, in quel momento (dicembre 1912), data la fine delle ostilità, potevano tornare a fornire un gran numero di nuove reclute38. Furono necessari ancora alcuni anni per un aumento degli ascari somali, ma, nel lungo periodo delle operazioni contro i daraawiish e altri resistenti, gli ascari vennero comunque appoggiati da uomini locali, pur non essendo essi inquadrati all’interno dei loro reparti. Gli italiani escogitarono infatti un altro modo per aumentare le loro forze disponibili in Somalia, e, allo stesso tempo, contrastare la mobilità della guerriglia: vennero armate delle bande irregolari locali, affinché fornissero appoggio
36 AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 5, fasc. 8, telegramma del tenente generale capo di stato maggiore dell’esercito Pollio al Ministero della Guerra, Roma, 3 agosto 1912 (ProgAsc) 37 “Copia di rapporto del Comando truppe in data 9 dicembre 1912” in AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 5, fasc.9, documento scritto a mano e firmato, forse, da Pollio, Roma, 3 marzo 1 913 (ProgAsc) Alfieri non aveva motivato la percentuale più alta di somali ammessi nei reparti impiegati in compiti di polizia, ma questo dato concorda con quanto scritto da Palieri: nel suo testo, è riportato che tra gli ascari di polizia, detti zaptiè, la percentuale di somali corrispondeva al 35%. Cfr. Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., p. 141 38 “Copia di rapporto del Comando truppe in data 9 dicembre 1912” in AUSSME, Fondo D3-Somalia, b. 5, fasc.9, documento scritto a mano e firmato, forse, da Pollio, Roma, 3 marzo 1 913 (ProgAsc) 113
agli ascari39. Già nel novembre 1908, per coadiuvare i reparti arabo-somali nella protezione dei villaggi a nord di Gheledi e di Afgooye, i colonizzatori avevano costituito una banda con 400 abitanti di Gheledi. La banda fu ripartita in 4 centurie, a loro volta suddivise in 4 buluk. Questi irregolari, chiamati Suvughè, erano armati di lancia e billao. Il loro distintivo era costituito da una benda rossa che legavano intorno alle tempie40. Gli armati, nonostante il comandante ad honorem della banda fosse il fratello del sultano di Gheledi, erano effettivamente diretti da alcuni ascari: ogni buluk era comandato da un muntaz o da un ascaro anziano, ogni centuria da un buluk-basci e l’intera banda da uno jusbasci. La banda dipendeva dal residente italiano di Afgooye41. Se questi primi irregolari erano dotati di armi bianche, in altri casi gli italiani fornirono anche i fucili ai somali che, pur non essendo inquadrati nel Regio Corpo, decidevano di affiancare gli ascari contro i guerriglieri. Una esplicita proposta in tal senso, che poggiava sulla presenza, in Somalia, della istituzione chiamata gogle, descritta nel primo capitolo, è presente nella relazione del 1912 del senatore Giacomo De Martino, governatore della Somalia in questi anni. Egli proponeva di fornire i fucili ai gogle, che fino a quel momento erano armati di archi e lance, i fucili, per ottenere, dopo un addestramento, delle “bande celerissime” da 50 o 100 uomini ciascuna. Queste, comandate da capi locali ma stipendiate dagli italiani, sarebbero bastate per il governatore a contenere le aggressioni dei daraawiish fino al sopraggiungere dei reparti di ascari più vicini42. Milizie di questo tipo avrebbero permesso al Regio Corpo di estendere una tutela del territorio dalle incursioni e dalle razzie lungo un raggio d’azione maggiore. De Martino sconsigliava però di aggregare questi uomini al Regio Corpo stesso: i gogle erano infatti specializzati, da tempi precedenti all’arrivo degli italiani, a proteggere unicamente persone e averi appartenenti alla qabilah di appartenenza, e non sarebbe stato quindi conveniente il tentativo di impiegarli in compiti diversi43. De Martino proponeva dunque di sfruttare i miliziani contro gli oppositori, stipendiandoli e dotandoli di fucili, ma senza snaturare le loro funzioni originarie. Milizie di questo tipo furono effettivamente costituite, e gli italiani impiegarono anche i gogle, anche se in modo parzialmente diverso da quanto indicato nella relazione di De Martino. Ecco come
39 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 238
40 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., p. 103 41 Ibidem Nel testo non viene specificata la differenza tra comando effettivo della banda, sotto lo jusbasci, e dipendenza della stessa dal residente italiano di Afgooye. Probabilmente, l’autore De Martino intendeva dire che il funzionario italiano ne deteneva il controllo, decidendo, ad esempio, dove inviarla, ma, una volta in servizio e sul campo, era coordinata dallo jusbasci. 42 Giacomo De Martino, La Somalia italiana nei tre anni del mio governo. Relazione del senatore nobile Giacomo De Martino presentata al Parlamento dal Ministro delle Colonie Pietro Bertolini, op. cit., pp. 21-22 43 Ivi, p. 22
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vengono presentati questi reparti e le motivazioni che portarono alla loro costituzione, in una monografia sulle operazioni italiane contro la guerriglia dei daarwiish:
“[…] si comprese pure che, nelle condizioni di scarsa sicurezza e di insufficiente nostra tutela, non poteva pretendersi l’assoluto disarmo di quelle genti senza organizzare nuclei stessi per la propria difesa. Furono così formate le cosiddette «bande di cabila», piccole schiere di uomini scelti d’ogni tribù, fornite d’armi da fuoco dal Governo , sotto il comando di capi a noi fidi e col preciso compito di difendere villaggi e paesi e, soprattutto, il bestiame, dalle incursioni dei dervisc. Le «bande di cabila» fiancheggiavano, per così dire, l’altra istituzione delle «bande di gogle» trasformatesi in «bande armate per la difesa del confine» le quali, come veri e propri nuclei di irregolari, avevano finalità più vaste e meno strettamente legate alla difesa vicina dei singoli gruppi etnici. Infine, i così detti «gogle di polizia» completavano l’insieme di quella ottima organizzazione difensiva indigena. Erano costoro i «gendarmi politici della boscaglia», alla dipendenza diretta dei Commissari regionali e dei Residenti. Scelti pure con criterio etnico, fungevano, ad un tempo, quali agenti politici di collegamento con le rispettive tribù d’origine e quali agenti di polizia nell’interno d’ogni gruppo di popolazione, costituendo una rispettosa forza armata mobilissima alla dipendenza diretta delle Autorità politiche. Gogle e bande hanno reso servigi preziosi sempre e dovunque in tutta la Somalia e può dirsi che abbiano costituita la più efficiente arma per combattere il Derviscismo e assicurare la cosiddetta pace sociale anche fra le più selvagge e turbolente popolazioni somale.”44
Questa citazione è funzionale a capire alcune caratteristiche e compiti di queste milizie, ma presenta degli aspetti che è importante sottolineare, per quanto non sia semplice chiarirli. Partendo da questi ultimi, oltre al termina qabilah, l’autore, che fu governatore della Somalia in epoca fascista, adopera il termine improprio di “tribù”, e non è chiaro se tale termine sia considerato, nel testo, come sinonimo di qabilah o in riferimento a una diversa suddivisione degli abitanti della Somalia. Si è cercato di trovare, nei testi di Issa-Salwe, Cassanelli e Lewis, delle informazioni su queste milizie irregolari, ma i testi di questi autori non toccano questo argomento, quindi non è possibile fare un confronto. Diventa perciò difficile capire se gli
44 Caroselli, Ferro e fuoco in Somalia, op. cit., pp. 203-204 L’entusiasmo per queste milizie, composte da somali, non è coerente con la percezione che gli italiani, salvo alcune eccezioni (come il caso del tenente generale Pollio), avevano dei somali in questo periodo. Le fonti, infatti, anche se descrivono il contributo degli irregolari contro i daarwiish, furono scritte in epoca fascista, quando i reparti somali di dubat erano stati costituiti e i pareri sull’impiego dei somali erano profondamente mutati rispetto agli anni delle operazioni contro i daarwiish
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italiani scelsero questi miliziani irregolari suddividendo la popolazione in modo artificiale, o usando come riferimenti le effettive divisioni presenti nella società somala, siano esse indicate con il termine qabilah, presente nelle fonti italiane, o clan, adoperato dagli studiosi di cui sopra. Secondo un’altra fonte italiana, che affronta la questione del reclutamento dei gogle, questi erano scelti “ripartendo la forza numerica dell’organico in ogni Residenza” in misura proporzionale alla consistenza dei “gruppi etnici” compresi nell’ambito territoriale di ciascuna circoscrizione45. Anche in questo caso, non è chiaro se con l’espressione impropria “gruppo etnico” l’autore si riferisca a suddivisioni preesistenti al colonialismo o attuate dagli italiani. Aldilà dell’uso dei termini, è interessante comunque notare che gli italiani ingaggiarono in questa fase molti individui all’interno della popolazione somala, a differenza di quanto facevano per i loro reparti di ascari46. Inoltre, gli irregolari, grazie alla conoscenza del territorio e a un equipaggiamento leggero, erano capaci di spostamenti ed azioni più rapide delle truppe regolari. Questi uomini costituirono per Caroselli una forza particolarmente utile al contrasto dei guerriglieri, grazie alla mobilità nelle operazioni. Oltre all’opera di Caroselli, le altre fonti consultate in cui è possibile trovare alcune descrizioni di questi irregolari somali, si riferiscono quasi unicamente ai gogle. In un articolo del giornalista fascista Marco Pomilio, le bande di qabilah vengono descritte come formazioni costituite e armate, occasionalmente, per specifici compiti militari, in particolare contro i daarwiish, mentre le bande gogle e i gogle di polizia erano invece istituzioni stabili47 . I gogle rimasero anche durante il colonialismo fascista e, rinominati “ielalos”, nel periodo dell’amministrazione fiduciaria della Somalia48. Lo spazio loro dedicato, almeno nei lavori consultati, è abbastanza limitato, ma sempre molto celebrativo. Se nel testo di Caroselli viene sottolineata l’importanza dei gogle e
45 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico militare. I corpi armati con funzioni civili. Vol. IV, Massimo Adolfo Vitale (testo di), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1965, p. 58 46 La percentuale dei somali massima permessa all’interno del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia, negli anni della prima guerra mondiale, cominciò comunque ad aumentare. Del Boca scrisse infatti che il limite del 10% venne mantenuto fino al 1915. In un testo di epoca fascista viene riferito che, a causa del conflitto mondiale, nel 1917, gli italiani si trovarono costretti ad interrompere gli arruolamenti nella penisola arabica e, di conseguenza, ad aumentare la percentuale degli ascari somali, che fino a quel momento non poteva superare il 10%. Un altro testo riporta che nel 1920 vennero ripresi gli arruolamenti di yemeniti per i reparti di ascari della Somalia, dopo che questi erano stati interrotti nel corso del conflitto. I testi non specificano in che modo la prima guerra mondiale abbia impedito agli italiani di reclutare in Arabia, ma sottolineano che fu il conflitto a costringere i comandi ad aumentare la quota di ascari somali. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 788; Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., p. 103; Corni, Somalia italiana, Vol. II, op. cit., p. 192 47 Marco Pomilio, “Dubat. Scolte fedeli delle frontiere somale”, in Rivista delle colonie italiane, Bologna, Luigi Cappelli Editore, agosto 1933, p. 643 48 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico militare. I corpi armati con funzioni civili. Vol. IV, Massimo Adolfo Vitale (testo di), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1965, p. 58
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delle bande di qabilah nella lotta contro i miliziani di Hassan, in un altro testo viene riportato che, forse, i gogle furono l’istituzione “più perfetta tra quelle create per rendere serenamente scorrevole la vita delle popolazioni49. I miliziani gogle sono descritti dalle fonti coloniali come uomini scelti, sotto molti punti di vista, tra numerosi individui che si offrivano volontari per prestare il loro contributo alla causa italiana. Essi erano, per la visione razzista del periodo coloniale, dei somali di “razza pura”, caratterizzati da istinto guerriero, orgoglio, fedeltà e attenzione nell’esecuzione degli ordini. Il reclutamento attingeva tra le famiglie considerate dai colonizzatori come maggiormente influenti e prestigiose50. Questa rigida selezione non derivava esclusivamente dalle scelte italiane, ma da un incontro tra queste e i pareri dei capi tradizionali. Il particolare tipo di arruolamento sarebbe stato il fattore più determinante nei risultati eccelsi che i gogle avrebbero dato alle autorità coloniali:
“Elementi scelti, sotto la personale responsabilità dei capi riconosciuti, fra i giovani migliori e, possibilmente, nella famiglia stessa dei capi. […] raramente venivano proposti al residente elementi di scarto […]. Il sistema adottato non limitava la sua efficacia a provvedere le Residenze di gogle moralmente idonei ed intellettualmente capaci di adempiere a compiti che esigevano soprattutto prudente intelligenza; ma giovava a far sì che l’addestramento delle reclute ai servizi d’istituto richiedesse poco tempo e poche preoccupazioni, in quanto i nuovi arruolati potevano subito dar inizio all’attività di collegamento ed ai servizi generali d’ordine pubblico[…] Poiché in sostanza, la presentazione di una recluta al residente voleva dire che su di essa era stata concorde l’opinione di capi, notabili, ed anziani, onde agli effetti veniva subito riconosciuto, da parte della popolazione e soprattutto del proprio gruppo gentilizio, il prestigio connesso alla funzione cui erano destinati, sì che poteva accadere che un ragazzo, partito dalla boscaglia in compagnia di anziani per essere presentato all’Autorità, capitasse dopo pochi giorni, munito di un vecchio fucile ed ornato di un nastro rosso attorno alla testa (ché questa, con due fute bianche sottilmente bordate in tricolore, era tutta l’uniforme) a disciplinare fra la propria gente l’abbeverata di […] bestiame appartenenti a gruppi di
49 Queste espressione, impregnata di colonialismo, non si riferisce alla gogle precoloniale, ma a quella impiegata ed equipaggiata dagli italiani. Cfr. Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico militare. I corpi armati con funzioni civili. Vol. IV, Massimo Adolfo Vitale (testo di), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1965, p. 59 50 Corni, Somalia italiana, Vol. II, op. cit., p. 57
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diversa stirpe che di buon grado sottoponevano al giudizio dell’efebo armato le eventuali deroghe alle norme di precedenza nell’abbeverata”
51 .
Secondo l’autore, la popolazione non avrebbe temuto i fucili di vecchia fabbricazione detenuti dai gogle, dato che era a conoscenza del fatto che quelle armi non sarebbero state adoperate contro la popolazione stessa, ma per la sua protezione e per regolarne le attività. Il possesso dell’arma era però in grado di distinguere e conferire prestigio a ogni gogle da parte degli individui appartenenti al clan presso cui lo stesso gogle prestava servizio52. Oltre ad affiancare gli ascari nei combattimenti, i gogle vennero quindi impiegati dai governatori italiani come tramite tra i capi del clan di appartenenza e i residenti e commissari italiani. Essi sarebbero stati quindi percepiti e riconosciuti dalle popolazioni dei diversi clan come una sorta di simbolo del potere coloniale53. Il volume dell’opera L’Italia in Africa del Ministero degli Esteri sottolinea che la decisione di non dare un ordinamento di tipo militare ai gogle nel corso del colonialismo italiano, in accordo con quanto aveva proposto De Martino, non era dettata da disimpegno o trascuratezza di elementi tanto importanti per gli italiani, ma era dovuta alla volontà di preservare determinate caratteristiche che, secondo l’autore, le leggi militari avrebbero potuto intaccare”54 . Nel testo dell’ufficiale Mario Palieri, è possibile trovare, tra le sommarie descrizioni degli scontri, alcune notizie sulla presenza di gogle e bande di qabilah nelle operazioni contro i guerriglieri. Nel febbraio 1917, due bande di qabilah e un certo numero di gogle, per un totale di 600 uomini (di cui 200 armati di fucile), effettuarono delle operazioni contro i daraawiish a Beledweyne. Riuscirono ad eliminare 50 guerriglieri e a sottrarre agli avversari 280 cammelli e 25 fucili, perdendo 6 uomini55. Il testo indica poi che, nel 1920, una pattuglia formata da ascari e gogle, nei pressi di Ataleh, venne assalita da alcuni resistenti (non indicati come daraawiish). In quella situazione persero la vita 5 ascari e 5 gogle. Da Ataleh, venne inviata una centuria di ascari che arrestò i capi del clan da cui provenivano i responsabili dell’attacco ai soldati e ai miliziani filo-italiani, per poi
51 Ministero degli Affari Esteri, Comitato per la documentazione dell'opera dell'Italia in Africa, L’Italia in Africa. Serie storico militare. I corpi armati con funzioni civili. Vol. IV, Massimo Adolfo Vitale (testo di), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1965, pp. 58-59 52 Ivi, p. 59 Questo aspetto, pur essendo inserito in una descrizione filo -coloniale ed entusiasta dei gogle, è in accordo con quanto scritto da Cassanelli sul prestigio che conferiva, nella Somalia meridionale, il possesso del fucile. Cfr. Cassanelli, The shaping of Somali Society. Reconstructing the History of a Pastoral People, 16001900, op. cit., p. 241 53 Corni, Somalia italiana, Vol. II, op. cit., p. 57 54 Ibidem Riguardo all’ultimo punto, non è chiaro se l’autore si riferisca all’istituzione dei gogle precoloniale o al suo impiego da parte italiana. 55 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., pp. 30-31 118
infliggere una non precisata punizione all’intero clan56. Domenico Quirico sottolinea che le bande di qabilah e i gogle, pur essendo descritti nei comunicati ufficiali come innovazioni di successo, si dimostrarono, in alcune occasioni, inutili o addirittura dannose per gli italiani e per la popolazione somala che avrebbero dovuto proteggere dagli attacchi della guerriglia. Molti appartenenti alle formazioni irregolari usarono i fucili per compiere azioni di brigantaggio. In alcune zone, gli abitanti dei villaggi subirono sia le razzie dai daarwiish che quelle delle milizie armate e assoldate dagli italiani57. In altri casi, le bande mancarono nella protezione di alcuni villaggi di loro competenza, nel momento in cui era più importante una loro azione. Nel 1913, un nucleo darwiish, sotto la guida del fratello di Hassan, effettuò una spedizione punitiva contro i villaggi lungo la riva destra dello Shabelle che erano passati sotto la protezione italiana. Le bande dell’area erano assenti quando arrivarono i guerriglieri, che assassinarono donne e bambini e fecero 800 prigionieri, oltre a incendiare molte abitazioni58. Nel 1916, avvenne un episodio particolarmente grave per gli italiani e i loro reparti di ascari, non solo per le perdite subite, ma per il fatto che l’attacco venne condotto da somali anche grazie a fucili regalati loro dai colonizzatori59. Enda El, capo degli Hawadle, aveva infatti offerto agli italiani di collaborare, insieme alla sua banda, alle operazioni contro i daarwiish. La sua banda venne per questo motivo armata con fucili di tipo moderno60 . A Enda El, ottenuta la fiducia degli italiani, venne concesso di appoggiare il suo reparto al forte di Buuloburde, per rifornirlo di munizioni. In realtà, El e la sua banda, simularono solamente di combattere contro la guerriglia. Il capo del clan, al contrario, studiò il forte e le abitudini della compagnia di ascari che vi prestava servizio61. Il comandante della compagnia di Buuloburde, capitano Arrigo Battistella, in realtà diffidava di Enda El, perché era a conoscenza di suoi precedenti tradimenti ai danni degli inglesi e di Hassan. Aveva per questo inviato un corriere a Muqdisho, per chiedere di procedere all’arresto dell’uomo, ma non venne ascoltato62. Il 27 marzo, approfittando del fatto che la compagnia degli ascari era, quasi totalmente, fuori dal forte per raccogliere legna e fare provvista di foraggio, la banda di Enda
56 Ivi, p. 31 57 Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 238 58 I villaggi colpiti erano passati contro la loro volontà sotto influenza italiana. Cfr. Quirico, Squadrone bianco. Storia delle truppe coloniali italiane, op. cit., p. 238; Caroselli, Ferro e fuoco in Somalia, op. cit., p. 207 59 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., pp. 29-30 Nel testo è esplicitamente indicato che l’offesa avvenne da parte di uomini “armati con fucili da noi regalati”. 60 Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, Vol. I: Dall’Unità alla marcia su Roma, op.cit., p. 857 Gli Hawadle sono indicati da Issa-Salwe come una parte del clan degli Hawiye. Cfr. Issa Salwe, The collapse of the Somali State. The impact of the colonial legacy, op. cit., p. 99 61 Ibidem 62 Palieri, Note per la storia del Regio Corpo Truppe Coloniali della Somalia Italiana, op. cit., p. 29 119