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Anno I Numero 2 - Ottobre 2009


Direzione • Organizzazione • Relazioni Comunicazione

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EDITORIALE 04

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Tempo di bilanci di Stefania Nirchi Ospite Scientifico Prof. Fabio Bocci Università degli Studi Roma Tre Classificare l’immaginario cinematografico. Proposte pedagogiche ed educativo-speciali per la formazione e per la ricerca.

RUBRICHE TRAMA

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Fondamenti teorici del Diversity di Mariolina Ciarnella

SIPARIO

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Comunicare attraverso la Musica e il Cinema di Davide Rossini

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Comunicazione: parola polisenso e ambigua? di Enrico Zuccaro

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Le Istituzioni alle prese con le nuove forme di comunicazione di Andrea Mastrofrancesco

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La nuova socialità attraverso il web di Stefania Nirchi

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La comunicazione nei Sistemi di Gestione Aziendali di Gianluigi Pezzulo

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Comunicazione politica: il marketing di Obama di Chiara Foglietta

PUNTO

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Lifelong learning come leva per l’innovazione e la trasformazione delle organizzazioni. Il caso del Laboratorio di Metodologie Qualitative nella Formazione degli Adulti dell’Università Roma Tre. di Paolo Di Rienzo

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Università e sviluppo territoriale di Stefania Capogna

FEATURES 57

A Small World: cronaca di un mondo che ci stringe di Dario De Santis

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Tempo di bilanci Tempo di bilanci. Sono trascorsi solo tre mesi da quando sono stati messi on line i primi contributi alla rivista QTimes; ed è davvero un lasso di tempo piuttosto breve per esprimere valutazioni. Eppure, qualche riflessione è dovuta, non certo sui risultati, che dovranno essere giudicati dai nostri lettori, quanto piuttosto sulla forza e sull’entusiasmo esercitati dal gruppo di studiosi e professionisti che hanno creduto in questo progetto. Non è senza timori e riserve anche da parte di chi scrive che si è dato vita alla rivista. La possibilità che la collaborazione tra esperti di settori diversi, si risolvesse alla fine nella creazione di uno dei noti «arcipelaghi», all’interno del quale le varie ‘isole’, pur vicine tra loro, finiscono per non toccarsi mai, ci era ben presente. E invece, il rischio della caduta nel paventato ‘insularismo’ sembra proprio essere stato sventato. Mi spiego meglio. Dalla rivista non sono assenti - e mai dovranno esserlo - interventi e contributi prettamente settoriali: il rispetto e la valorizzazione dei saperi specialistici sono canoni indispensabili per non cedere a facili eclettismi e per mantenere alta la qualità del confronto tra le varie discipline, nei limitati contesti e nei modi in cui l’interazione si rivela opportuna e proficua. Al tempo stesso si sente anche la necessità di avere contributi che sono il risultato di indagini trasversali o multidisciplinari. Sento però di dover precisare che se si vuole riconoscere qualche merito al progetto posto alla base di questa rivista, il successo di questi mesi di lavoro non è da vedersi soltanto in questo, cioè nella presenza, accanto a studi di impianto tradizionale, di numerosi contributi multidisciplinari da parte di ciascun Autore.

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Il vero successo dell’iniziativa, almeno dal punto di vista di chi scrive, si è registrato piuttosto nella qualità e nella quantità dei rapporti che la vita della rivista ha reso necessario attivare con tante componenti del mondo accademico, nella valorizzazione di antichi e nuovi legami di collaborazione, nello studio e nella ideazione di iniziative aperte a svariati ambiti scientifici, nella nuova rete di contatti esterni con la sfera professionale, infine nell’immenso arricchimento che produce il lavoro comune. In concreto, l’attività di redazione non si è esaurita nell’‘attesa passivà dei contributi, ma, al contrario, ha imposto (per il taglio impresso alla rivista) richieste o proposte di collaborazione, che hanno investito molteplici ambiti di studio. Questo atteggiamento ha destato prima curiosità, poi interesse, da parte di gruppi di studiosi e di professionisti con i quali non si erano mai, in precedenza, condivise esperienze di lavoro e di ricerca. Questo dialogare comune ha portato ad una condivisione di intenti e al suggerimento di percorsi potenzialmente comuni.


Anche in forza di questo la rivista ha subito alcune evoluzioni di struttura, per renderla ancor più interattiva e dinamica. Allo schema classico delle sezioni divise in: Editoriale; Rubrica, Articoli; e Focus, si è preferito, mantenendo lo spazio per l’editoriale, creare tre rubriche nelle quali far confluire i vari contributi. Le rubriche, che troverete in home page, Trama, Sipario e Punto, sono state pensate come macrosezioni capaci di ospitare articoli e lavori eziologicamente affini, ma in sostanza diversi. Troverete nella parte centrale della home page una tab. strip. nella quale abbiamo pensato due spazi distinti per contenere: comunica attraverso QTimes (uno spazio dove ciascuna persona fisica, associazione, ente, PA, possano comunicare le proprie iniziative utilizzando la nostra rivista); pubblica i tuoi lavori (spazio dedicato alla pubblicazione di tesi di laurea, dottorati, manoscritti, progetti grafici, e così via). I primi frutti delle attività cui ho fatto un sommario cenno saranno già visibili in questo secondo numero della rivista. Ai nostri lettori lasciamo giudicare se il nostro lavoro risulta di qualche interesse. Per quanto ci riguarda, una sola cosa possiamo dire: l’entusiasmo e la passione nati dall’attività svolta, non solo nel gruppo redazionale, ma anche negli studiosi e nei professionisti dei più vari ambiti che hanno aderito con stimolanti suggestioni al progetto, e quindi l’apertura culturale - e umana - che ne è derivata, hanno costituito la più ambita delle ricompense possibili e lo stimolo ad andare avanti con la stessa passione che ci contraddistingue.

L’"Istituto Etico per l’Osservazione e la Promozione degli Appalti", di seguito “Associazione”, è una organizzazione non profit ed ha come scopo quello di professionalizzare gli attori strategici che a vario titolo gravitano nell’alveo dei procedimenti ad evidenza pubblica rendendo, anche indirettamente, beneficio ai fruitori dei procedimenti medesimi.

Cattedra di Filosofia del diritto di Scienze Politiche di Roma “ La Sapienza” Cattedra di Istituzione di diritto pubblico di Sociologia di Roma “La Sapienza” Direttivo PRESIDENZA Federico Tedeschini Teresa Serra Francesco A. Caputo Anna Cataleta Luca Di Fazio

Presidente Onorario Referente Accademico Fondatore e Presidente (legale rappresentante) Primo Presidente Vicepresidente

DIREZIONE Dario De Santis

Direttore Generale

Contatti Segretariato e Amministrazione segretariato@ieopa.it Telefono: 06.8540107 - 06.8543713 Fax: 06-8549708

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classificare l’immaginario cinematografico. proposte pedagogiche ed educativo-speciali per la formazione e per la ricerca Prof. Fabio Bocci Università degli Studi Roma Tre

Premessa In questo intervento si illustrano alcune proposte di classificazione di film dal contenuto narrativo particolarmente interessante ai fini della formazione in ambito pedagogico, didattico ed educativo speciale, frutto di ricerche condotte da chi scrive nell’arco degli ultimi dieci anni. Prima di procedere alla descrizione delle classificazioni e degli ambiti in cui sono state (o sono) applicate, ci interroghiamo sulle ragioni che sottostanno alla scelta di avvalersi della narra-

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zione cinematografica1 come medium per analizzare il pedagogico. Le risposte a tali quesiti sono molteplici e, naturalmente, sono guidate anche dall’orientamento scientifico-culturale di chi si interroga e cerca risposte. Dal nostro punto di vista (che è un punto di vista pedagogico) le principali ragioni sono tre. Innanzi tutto perché si tratta di un mediatore estetico (Gardou, 2006) che, proprio in virtù della sua forma estetica - ricca di una consistente eterogeneità di riferimenti metaforici e simbolici - è in grado di provocare intenzionalmente il pensiero critico del fruitore (Agosti, 2003). Inoltre, per il fatto che il cinelinguaggio, in quanto forma espressiva che attraverso il film registra elementi di realtà (Laporta, 1979), cattura e riflette la realtà «con tutte le sue contraddizioni, inquietudini e incertezze e costituisce quindi un mezzo per immergersi in questa realtà» (Angrisani, Marone, Tuozzi, 2001, p. 10). Infine, conseguentemente agli aspetti appena declinati, la terza ragione riguarda il fatto che le narrazioni cinematografiche, grazie alla forma estetico-espressiva che caratterizza il cinelinguaggio - i trucchi magici di cui parla Morin (1962): la mobilità della macchina da presa, l’accelerazione o la dilatazione del tempo, l’uso dei primissimi piani...- agiscono sullo spettatore-fruitore immergendolo nella narrazione (Maragliano, 1996) attivando una sorta di incantamento (Musatti, 2000). L’immersione e l’incantamento sostengono l’immaginazione nel processo di ri-configurazione della realtà (Kracauer 1962; Lumbelli, 1974) innescato dai meccanismi psicologici di identificazione e di proiezione con quanto sta accadendo sullo schermo (Gemelli, 1928; Musatti, op. cit; Balazs, 1955). Il cinelinguaggio, dunque, è in grado di suscitare nello spettatore quella modificazione della condizione psichica riscontrabile anche nelle persone che si trovano in situazioni d’apprendimento. Si tratta, secondo la nota definizione di Dieuzeide (1966), di un orientamento aspettante, che genera l’interesse e


incrementa lo stato di allerta (arousal) dello spettatore. Questi - giovane o adulto che sia - vive intensamente (sul piano cognitivo ma, soprattutto, su quello affettivo ed emotivo) la partecipazione all’esperienza filmica, percependola come un evento significativo e motivante. Successivamente, una volta emerso dallo stato d’incantamento, lo spettatore rielabora i contenuti e i vissuti esperiti durante la visione. In sintesi: • durante la visione della pellicola si attivano nello spettatore i meccanismi tipici del pensiero narrativo (Bruner, 1993): il coinvolgimento emotivo, la curiosità, l’orientamento aspettante; • in seguito, la persona si avvale delle procedure e delle modalità di ragionamento tipiche del pensiero paradigmatico (Bruner, op. cit.): l’esplicitazione di sensazioni personali, la rilevazione consapevole di eventi, fatti, episodi e comportamenti descritti nel film, la loro identificazione e classificazione; oppure l’analisi, l’interpretazione e la generalizzazione di certi accadimenti osservati. Siamo all’interno di una situazione che possiamo definire di tensione conoscitiva, che l’atto formativo trasforma in processo di apprendimento2. Nel caso del cinelinguaggio, ciò avviene perché tale modalità di incontro, elaborazione e analisi delle informazioni, delle conoscenze e dei saperi veicolati dal film, consente agli spettatori di porsi collettivamente e sinergicamente di fronte a determinati fenomeni. Nel caso dei processi educativo-didattici e formativi, i partecipanti alla fruizione filmica (insegnanti, formatori, educatori, studenti) hanno l’opportunità di mettere in campo i propri vissuti (ricchi di aspettative, di valori, di convinzioni, di esperienze pregresse) e, per tale ragione, non si limitano a fornire e/o a ricevere spiegazioni. In effetti, grazie al cinelinguaggio, essi mettono in gioco i personali stili di elaborazione delle informazioni, nonché i repertori strategici che sono loro più congeniali; si incrementano

così le probabilità che si attivino le funzioni creative3 appartenenti al potenziale personale dei singoli e dei gruppi coinvolti. Tutto ciò è reso possibile proprio dalle caratteristiche di fiction che connotano il film. Ci troviamo di fronte a una rappresentazione della realtà che non è del tutto reale ma che, nel contempo, coinvolge attivamente lo spettatore come se fosse all’interno della realtà. Gli spettatori (l’insegnante e l’allievo, il formatore e il formando) assistendo a una vicenda percepita come non del tutto vera, ma che potrebbe esserlo, che non li riguarda direttamente, ma che potrebbe anche riguardarli, sperimentano una differente via per l’elicitazione e l’esplicitazione del proprio sistema di convinzioni e di valori, delle personali aspettative, delle paure, nonché dei repertori conoscitivi in merito a situazioni specifiche e potenzialmente problematiche (come, ad esempio, nel caso delle disabilità, della salute mentale, dell’interculturalità, del disagio giovanile, ecc...). Esposte nella loro essenzialità le ragioni che rendono il cinelinguaggio un mediatore pedagogicamente utilizzabile in campo formativo, procediamo ora ad illustrare alcune possibili classificazioni di repertori filmici. Prima Proposta. Rappresentazione degli Insegnanti nella Storia del Cinema La prima proposta di classificazione di film prende avvio da una ricerca sulle Rappresentazioni degli Insegnanti nella Storia del Cinema (Progetto RISC 2) iniziata da chi scrive nel 1997 (Bocci, 1998), sistematizzata nell’ambito del Dottorato di ricerca in Pedagogia (XII ciclo) e ulteriormente ampliata negli anni 2000-2006 (Bocci, 2001; 2002; 2006). Sul piano metodologico, si è proceduto nel modo descritto qui di seguito. 1. In primo luogo si è effettuato un vaglio della letteratura in merito agli studi sulle caratteristiche personali e professionali dell’insegnante (tra questi si citano: Grasso, 1954; Zavalloni,

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1961; Ballanti, 1975; Santoni Rugiu, 1981; Groppo e Zanzottera, 1982; De Fort, 1994). 2. Sulla base dei dati emersi dal vaglio della letteratura sono state identificate delle categor ie e sviluppati alcuni indicatori che caratterizzano la figura degli insegnanti (Tabella 1). categorie

bas Kiarostami 1987); Pink Floyd- The Wall (A. Parker, 1988); Nuovo cinema Paradiso (G. Tornatore, 1988); L’attimo fuggente (Dead Poet’s Society, P. Weir, 1989); Compiti a casa (Mashgh - E Shab, A. Kiarostami 1989); Un angelo alla mia tavola (An Angel at My Table, J. indicatori

paziente, buono, equo, gentile, imparziale, equilibrato, appassionato, creativo, competente, motivato, ottimista, coraggioso, colto, aggiornato, disponibile, aperto, qualità personali e professionali, stile relazionale

empatico, generoso, comprensivo, cooperativo, simpatico, amichevole vs impaziente, pessimista, parziale, egocentrico, trascurato, dipendente, esaltato, incompetente, disorganizzato, ripetitivo intollerante, distaccato, schivo, mal disposto, disapprovante, punitivo

Tabella 1.stile Categorie e indicatori sulla figura degli direttivo,Campion, autoritario, flessibile, 1990); democratico, lassista. La Scuola (D. Luchetti, 1995) d’insegnamento insegnanti emersi dal vaglio della letteratura

3. Successivamente è stata condotta una ricerca per l’identificazione di film, nazionali e internazionali, che avessero per soggetto la figura dell’insegnante. 4. In seguito, è stata realizzata una banca dati denominata RISC 2 - Rappresentazioni dell’Insegnante nella Storia del Cinema (Bocci, 2003) - che raccoglie informazioni sui film che rappresentano la figura dell’insegnante. Le diverse caratterizzazioni degli insegnanti proposte dai film catalogati nel database sono state poi classificate in tipologie sulla base delle categorie e degli indicatori già individuati mediante il vaglio della letteratura. L’elenco che segue mostra una esemplificazione degli esiti di tale classificazione: Autoritari: Zero in condotta (Zéro de conduite, J. Vigò, 1933); I quattrocento colpi (Les 400-coups, F. Truffaut, 1959); Gioventù, Amore e rabbia (The Loneliness of the Long Distance Runner, T. Richardson, 1962); If (L. Anderson, 1969); Another Country-La Scelta (M. Kanievska, 1984); Dov’è la casa del mio amico? (Khaneh-ye doust kojast?, Ab-

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[prof. Sperone]; Ritorno dal nulla (The Basketball Diaries, Scott Kalvert, 1995); Le ceneri di Angela (Angela’s Ashes, Alan Parker, 1999). Direttivi: Gli anni in tasca (L’argent de poche, F. Truffaut, 1972) [La maestra Petit]; Mignon é partita, (F. Archibugi, 1988). Flessibili: Gli Anni in tasca (L’argent de poche, F. Truffaut, 1972) [maestro Richet]; Goodbye Mr. Holland (Mr. Holland Opus, S. Herek, 1995); Ricomincia da oggi (Ça commence aujour d’hui, B. Tavernier, 1999); Essere e avere (Être et avoir, N. Philibert, 2003). Democratici: La Scuola (D. Luchetti, 1995) [prof. Vivaldi]; Auguri professore (R. Milani, 1997) [prof. Lipari]. Lassisti: Teachers (Arthur Hiller, 1984); La Scuola (D. Luchetti, 1995) [prof. Mortillaro]. Incompetenti: L’uccello migratore (Steno, 1972); Professore venga accompagnato dai genitori (M. Guerrini, 1974); Io e Annie (Annie Hall, W. Allen, 1977); Classe mista terza A (F. Moccia, 1996).


Dipendenti: Il maestro di Vigevano (E.Petri, 1963). Coraggiosi: Il seme della violenza (Blackboard Jungle, R. Brooks, 1955); Il principio superiore (Vyssi Princip, J. Krejcik, 1959); Diario di un maestro (V. De Seta, 1972); Conrack (M. Ritt, 1974); Don Milani (I. Angeli, 1975); The Principal - Una classe violenta (C. Cain, 1987); Arrivederci Ragazzi (Au revoire les enfants, L. Malle, 1987); La forza della volontà (Stand and Deliver, R. Menendez, 1988); Mery per sempre (M. Risi, 1989); Il dottor Korczak (Korczak, A. Wajda, 1990); Pensieri pericolosi (Dangerous Minds, J. N. Smith, 1995); Don Milani, il priore di Barbiana (A. e A. Frazzi, 1997); Del Perduto amore (M. Placido, 1998); Non uno di meno (Yi Ge Doubu Neng Shao, Z. Yimou, 1999); Lavagne (Takhete Siah, S. Makhalbaf, 2000). Creativi: El professor Hippie (F. Ayala, 1969); Paolo Barca, maestro elementare, praticamente nudista (F. Mogherini, 1975); L’attimo fuggente (Dead Poet’s Society, P. Weir, 1989) [Prof. Keating]. Buoni: Cuore (D. Coletti, 1947); Saluti e Baci (M. Labro e G. Simonelli, 1953); La Scuola (D. Luchetti, 1995) [prof.ssa Maiello]; Cuore (L. Comencini, 1985); Matilda 6 mitica (Roald Dahl’s Matilda, D. De Vito, 1996); Madadayo - Il compleanno (A. Kurosawa, 1993); Esaltati: All’ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front, L. Milestone, 1930); Niente di nuovo sul fronte occidentale (All Quiet on the Western Front, D. Mann, 1979); Bianca (N. Moretti, 1984); Anime Fiammeggianti (D. Ferrario, 1994). 5. Infine, i film identificati e classificati, una volta reperiti (in VHS o in DVD), sono stati utilizzati per la costruzione di una videoteca sulle rappresentazioni degli insegnanti da utilizzarsi in sede formativa, in particolar modo con gli studenti del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria che pre-

para i futuri insegnanti. I film selezionati, inoltre, sono stati adoperati per realizzare dei cortometraggi tematici mediante il montaggio di alcune sequenze significative; tali prodotti sono stati presentati in occasione di convegni o corsi di formazione. Seconda proposta. Cinema e scuola nella capitale. C’era una classe a Roma Presentiamo ora un ulteriore sviluppo di questo tipo di classificazione dell’immaginario cinematografico, in virtù del quale è stato possibile allargare lo sguardo ed ampliare le possibilità di analisi. In effetti, se nel progetto RISC2 si offriva una fotografia delle singole tipologie nelle quali confluivano le rappresentazioni dei diversi insegnanti scaturite dai film individuati, questa nuova proposta è finalizzata a rilevare l’evoluzione dei personaggi o degli eventi oggetto di interesse facendo riferimento al modello ecologico di sviluppo umano proposto da Urie Bronfenbrenner (1986). Per ecologia dello sviluppo umano l’autore intende lo studio dell’interazione tra l’individuo e l’ambiente (intesi come sistemi), con particolare attenzione al progressivo adattamento tra l’organismo umano che cresce e l’ambiente che lo circonda, oltre che alle modalità in cui tale interazione è influenzata da forze che appartengono ad ambiti sociali e fisici più remoti. Nella Figura 1, si offre una rappresentazione di tale modello ecologico-sistemico.

Figura 1. Esemplificazione del modello ecologico di sviluppo umano

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Il microsistema comprende tutte le attività, i rapporti, i ruoli, le persone con cui il soggetto preso in considerazione entra in contatto nel momento dell’osservazione e dell’analisi. Come viene esplicitato successivamente (Figura 2), nel nostro caso la classe scolastica in cui agiscono i protagonisti dei film analizzati costituisce il principale microsistema di riferimento. Il mesosistema è un sistema composto da più sistemi. Nel nostro caso la scuola è un mesostistema, poiché è un insieme di classi e di altre componenti (le segreterie, la presidenza, la stanza o il gabbiotto dei bidelli, ecc...) che interagiscono costantemente tra loro. L’esosistema è rappresentato da tutte quelle situazioni ambientali nelle quali il soggetto non partecipa direttamente ma che hanno comunque una influenza specifica sulle sue azioni, decisioni, convinzioni, ecc... Nel nostro caso, ad esempio, il lavoro e lo stile di vita dei familiari, il gruppo di pari frequentato fuori dalla scuola, ecc... Il macrosistema costituisce il sistema di coerenza di tutti gli altri sistemi, l’elemento che «li mantiene uniti pur nella loro diversità e nel contempo li differenzia dai vari microsistemi, mesosistemi, esosistemi di altre realtà o di altri paesi per ragioni di tipo politico, religioso, culturale, socioeconomico, ideologico» (Olmetti Peja D., 1988, p. 19). Nel nostro caso il macrosistema è Roma, città millenaria, unica, inimitabile. L’ipotesi di utilizzare questo modello per la classificazione di film sulla vita scolastica e i suoi attori principali (insegnanti, studenti, ecc...) ha trovato una prima possibilità di concretizzazione in occasione del convegno Contemporaneamente… Roma al cinema, tenutosi nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre il 27 Novembre 2006, dove chi scrive ha presentato una relazione dal titolo: Cinema e scuola nella capitale. C’era una classe a Roma. Sul piano procedurale, sono stati individuati inizialmente una serie di film che hanno per soggetto la vita scolastica - con tutti i dinami-

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smi e le interazioni che la caratterizzano - e come sfondo la città di Roma. Dalla indagine effettuata avvalendosi di manuali specialistici di Cinema (Dizionari, monografie, ecc…) e per mezzo di motori di ricerca dedicati (ad esempio my movies o internet movies database), sono state identificate le seguenti pellicole4: Maddalena Zero in condotta (V. De Sica, 1940); Mio figlio professore (R. Castellani, 1946); Bravissimo (L. F. D’Amico, 1955); Belle ma povere (D. Risi, 1957); Il Maestro (A. Fabrizi, 1958); L’uccello migratore (Steno, 1972); Diario di un maestro (V. De Seta, 1972); Professore venga accompagnato dai suoi genitori (M. Guerrini, 1974); Porci con le ali (P. Pietrangeli, 1977); Ecce bombo (N. Moretti, 1978); L’insegnante balla… con tutta la classe (G. Carmineo, 1979); Sogni d’oro (N. Moretti 1981); Zero in condotta (G. Carmineo, 1983); Bianca (N. Moretti, 1984); Compagni di scuola (C. Verdone, 1988) (5); Mignon è partita (F. Archibugi, 1988); Il nodo alla cravatta (A. Di Robilant, 1991); Nella mischia (G. Zanasi, 1994); La scuola (D. Luchetti, 1995); Compagni di branco (P. Poeti, 1996); Classe mista Terza A (F. Moccia, 1996); Auguri professore (R. Milani, 1997); La classe non è acqua (C. Calvi, 1997); Come te nessuno mai (G. Muccino, 1999); Caterina va in città (P. Virzì, 2003); Ricordati di me (G. Muccino, 2003); Tre metri sopra il cielo (L. Lucini, 2004); Notte prima degli esami (F. Brizzi, 2006). A questo punto, coerentemente con il modello ecologico di Bronfenbrenner, si è ritenuto significativo - sul piano dell’analisi pedagogica - approfondire le diverse pellicole focalizzando l’attenzione non tanto sulle caratteristiche o sui tratti che connotano come tipici i protagonisti o come tipiche le situazioni, quanto soffermare lo sguardo sui rapporti che i diversi soggetti della narrazione intrattengono tra loro e con i contesti (sistemi) in cui si trovano ad agire. In questo modo è possibile cogliere, in chiave evolutiva, lo sviluppo (psicologico, affettivo, socio-relazio-


nale, professionale, ecc…) dei protagonisti della vicenda narrata. Infatti, lo sviluppo della persona «non dipende dalla qualità di una singola esperienza, ma dalle connessioni e dalle relazioni che ogni sistema è capace di attivare in rapporto alle varie altre esperienze» (Olmetti Peja, op. cit, p.5). Per tale ragione, in questa proposta di classificazione sono stati presi in considerazione un numero maggiore di soggetti da sottoporre ad analisi pedagogica: oltre agli insegnanti anche gli studenti, i presidi, i bidelli, la famiglia, ecc… Tutti questi soggetti sono stati osservati rispetto al costrutto di transizione ecologica. Per transizione ecologica s’intende «il passaggio del soggetto da una situazione a un’altra, oppure da un cambiamento di ruolo o da entrambi questi elementi. Nell’accezione utilizzata da Bronfenbrenner questo passaggio, significativo nella vita di qualsiasi individuo […] si verifica ogni volta che i soggetti entrano in contatto con nuovi ambienti, nuovi ruoli, nuovi rapporti» (Olmetti Peja, op. cit., pp. 19-20). Nel nostro caso le transizioni sono state colte facendo riferimento a due dimensioni (Figura 2); le relazioni che i diversi personaggi instaurano tra loro, nella classe, nella scuola e con la città; gli itinerari che mettono in relazione il/i protagonista/i con Roma. Come vedremo negli esempi che ci apprestiamo a proporre, gli itinerari si manifestano come le metafore più significative e palesi delle transizioni ecologiche vissute dai personaggi delle storie narrate.

Figura 2. Ipotesi di applicazione del modello ecologico alle narrazioni cinematografiche su Roma e sulla scuola

Si propongono ora alcune esemplificazioni: Relazioni Insegnanti Il professor Lipari (interpretato da Silvio Orlando), in Auguri professore, attraversa un momento di crisi professionale che lo porta ad avere un atteggiamento distaccato verso l’insegnamento e la scuola. L’incontro con Luisa, una ex allieva (interpretata da Claudia Pandolfi) ora divenuta insegnante, si rivela decisivo per il docente il quale, investito di nuova energia, può transitare dal vicolo cieco della crisi ad una rinnovata motivazione. Il maestro De Angelis (alter ego di Albino Bernardini, interpretato da Bruno Cirino), in Diario di un maestro, giunge a Roma dalla Sardegna. Grazie all’incontro con gli allievi difficili di Pietralata scopre il valore di una didattica commisurata alle caratteristiche degli alunni e comprende che chi ha meno deve ricevere di più. Per tale ragione elabora una didattica innovativa, arricchita da materiali, da strumenti, da scoperte, da esplorazioni del territorio ecc..; una didattica funzionale alla crescita degli allievi e non mirata alla loro selezione. Studenti Caterina Iacovoni (interpretata da Alice Teghil), in Caterina va in città, si trasferisce con la famiglia (il padre è insegnante) da Montalto di Castro a Roma e si iscrive nel prestigioso liceo Visconti. Qui entra in contatto con una realtà per lei del tutto nuova; i suoi compagni di classe, infatti, sono schierati in gruppi tra loro contrapposti e le relazioni interpersonali sono possibili solo se ci si dichiara di parte. Caterina prova ora l’uno ora l’altro schieramento (politicizzato il primo, modaiolo il secondo), sperimentando in prima persona quanto sia difficile essere accettati per quello che si è realmente, in special modo quando si è adolescenti e le posizioni sembrano essere nette, indiscutibili, inviolabili. Attraverso questa esperienza Ca-

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terina acquisirà una maggiore consapevolezza di sé e dei meccanismi che spesso regolano le relazioni umane tra pari ma, anche, tra adulti. Dirigenti Egisto Petracco (interpretato da Aldo Maccione), in Professore venga accompagnato dai suoi genitori, è un professore intransigente che non intende cedere al clima di contestazione studentesca che ha attanagliato il suo liceo Manzoni (siamo nel pieno degli anni Settanta). Contesta apertamente, a sua volta, il preside Gustavo Negroni (Jaques Dufilho) accusandolo di lassismo e di incompetenza. Divenuto, infine, egli stesso preside sperimenterà sulla propria pelle le difficoltà della leadership comprendendo la differenza tra autoritarismo e autorevolezza. Itinerari Bidelli Il bidello Orazio Belli (Aldo Fabrizi), in Mio figlio professore, tutti i giorni nell’ultima ora compie il giro delle aule per annunciare la fine delle lezioni. Questo iter quotidiano scandisce la vita della scuola e diviene la metafora narrativa di un percorso esistenziale apparentemente immutabile, fatto di piccoli gesti dal grande valore simbolico, non fosse altro per il fatto che accompagnano i grandi mutamenti della Storia. Non a caso la storia personale di Orazio, che è vedovo e impiega tutte le sue risorse per far studiare il figlio e farlo divenire professore nel liceo dove egli lavora, s’intreccia con le vicende della Roma prefascista, fascista e post bellica. Insegnanti I viaggi del professor Lipari da Roma alla cittadina di provincia in cui è stato destinato per il suo primo incarico d’insegnamento, rappresentano la metafora della precarietà che ha segnato, e segna ancora oggi, la vita di molti insegnanti

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costretti ad estenuanti spostamenti quotidiani per veder realizzata la propria vocazione pedagogica. Il maestro Ubaldo Impallato (Alberto Sordi), in Bravissimo, conduce tutti i giorni nei campi adiacenti la periferia romana i bambini a lui affidati con l’intento di mostrare ai suoi allievi le bellezze agresti della Capitale ma, anche, con lo scopo di raccogliere qualche verdura commestibile. Un modo ingegnoso per sbarcare il magro lunario di insegnante precario. Studenti Luca Molinari (Nicola Vaporidis), in Notte prima degli esami, dopo l’incontro con il prof. Martinelli, detto la Carogna (interpretato da Giorgio Faletti), padre di Claudia che lo ha appena respinto come innamorato, attraversa Roma per raggiungere gli amici che lo attendono. La sequenza cinematografica si snoda dal dialogo notturno con il professor Martinelli, che gli suggerisce di ripassare Leopardi, all’ingresso a scuola la mattina dopo, giorno dell’esame di maturità. Tutto l’itinerario che compie Luca in una Roma estiva, deserta e trasognata è accompagnato dai versi e dalle note della canzone di Antonello Venditti Notte prima degli esami che fanno da contrappunto ai pensieri di Luca sulla propria vita. Luca, infatti, intuisce che l’attimo che sta vivendo è un momento cruciale di passaggio (noi diciamo di transizione) dall’adolescenza all’età adulta. Lo testimonia questa riflessione autobiografica del protagonista: «Quella notte è andata così... Non ho baciato Claudia e non c’è stato il lieto fine. Eppure me la ricorderò per sempre, perché era una notte speciale... Ma io la magia di quella notte, come spesso succede nella vita, non l’ho più ritrovata...». Per ragioni di spazio, ci fermiamo qui nel presentare esempi. Tuttavia, a nostro avviso, meritano di essere citate come metafore di transizioni ecologiche la gioiosa, festante, emozionante corsa di Silvio (Silvio Muccino) dopo aver fatto l’amore per la prima volta con una sua compagna di scuola in Come te nes-


suno mai e, in Mignon è partita, la disperata corsa di Giorgio (Leonardo Ruta) bloccata dalle sbarre del cancello in cui, ormai divenuto adolescente, non passa più. Vale la pena citare anche la fuga dall’istituto di neuropsichiatria infantile del gruppo di ragazzi ricoverati in Il Grande Cocomero (F. Archibugi, 1993). Benché non si tratti di un film sulla scuola, questa narrazione è intessuta di riferimenti educativi (soprattutto in rapporto all’azione medico-pedagogica di Marco Lombardo Radice)6. La corsa dei ragazzi, inseguiti vanamente dagli infermieri e guardata con ostilità dai passanti di una San Lorenzo pigra e assolata, incontra infine lo sguardo e le braccia accoglienti di Arturo (il medico alter ego di Lombardo Radice) che accompagna tutto il gruppo di giovani a mangiare la pizza. A nostro avviso la fuga dei ragazzi rappresenta, metaforicamente, una transizione ecologica, in quanto esprime il desiderio e il bisogno di affrancarsi dalla condizione di malattia che, classificando le loro diversità, finisce con l’imprigionare la loro umanità. Quest’ultimo riferimento ci consente, inoltre, di passare ad una nuova proposta di classificazione che ha per soggetto i film sulle disabilità. Terza proposta. Percorsi di analisi cinematografica per conoscere le disabilità Questa terza proposta di classificazione di film significativi sul piano pedagogico concerne le pellicole che trattano il tema dell’handicap, della disabilità, del disagio mentale e, più in generale, delle diversità. L’interesse verso questo tema si è sviluppato tra il 1998 e il 2005 grazie ad una serie di lavori pubblicati nella rubrica Altri sguardi della rivista AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici). Successivamente il lavoro di ricerca ha trovato una sistematizzazione con il saggio Percorsi di analisi cinematografica per conoscere le disabilità pubblicato sulla rivista Difficoltà di Apprendimento (Bocci, 2005) e con ulteriori lavori (Bocci, 2006; 2008).

Lo sguardo del cinema sulle diversità è molto rilevante. Il cinelinguaggio, infatti, è un mediatore narrativo che favorisce uno sguardo sensibile alle diversità e aperto all’inconsueto insito nell’umano. In tal senso, la visione di un film che abbia per soggetto le disabilità o le diversità, nella loro accezione più ampia, costituisce «un’occasione significativa per acquisire nuovi elementi per una maggiore e rinnovata consapevolezza in merito a ciò che è altro da noi; rappresenta, dunque, un’opportunità di crescita, di sviluppo - culturale, sociale, politico - e di miglioramento (in senso civico) individuale e collettivo» (Bocci, 2008, pp. 121-122). La raccolta, la classificazione e l’analisi di film che hanno per soggetto le disabilità e le diversità, nelle loro multiformi espressioni, consentono in sede educativo-didattica e formativa di: • osservare situazioni, luoghi, storie di disabilità inserite in contesti storici diversificati; • rilevare l’evoluzione di costumi, di atteggiamenti e di valori nei confronti delle disabilità; • entrare in contatto con alcune caratterizzazioni delle disabilità o di altri disturbi della salute (mentale e non), e/o con certe raffigurazioni delle possibili variabili ambientali e personali che intervengono nella strutturazione, o almeno nella manifestazione, di un disagio; • raccogliere informazioni su modalità di prevenzione, intervento, presa in carico le quali per quanto veicolate da una forma espressiva artistica qual è il cinelinguaggio, e pertanto non esaustive - possono offrirsi come occasione di approfondimento su quadri normativi, aspetti operativi, classificazioni internazionali, ecc. Per quel che concerne la sistematizzazione dei dati inerenti le pellicole individuate, i film sono stati classificati per tipologie di deficit, di disturbo o di difficoltà; le informazioni riguardanti ciascun film sono ulteriormente organizzate tenendo conto delle seguenti voci: parole chiave, decade, titolo, regista, anno (si vedano le tabelle 2, 3a, 3b, 4, 5).

Anno I - Numero 2 - Ottobre 2009

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DISAGIO MENTALE parole chiave

decade

titolo film, regista, anno

Quaranta

Rebecca la prima moglie (A. Hitchcock, 1940); Il sospetto (A. Hitchcock, 1941); Settimo velo (C. Bennet, 1945); Io ti salverò (A. Hitchcock, 1945); La muraglia delle tenebre (C. Bernhardt, 1947); La fossa dei serpenti (A. Litvak, 1948).

Cinquanta

Harvey (H. Koster, 1950); L’ammutinamento del Caine (E. Dmytrik, 1954); Il medico dei pazzi (M. Mattoli, 1954); Siamo uomini o caporali (C. Mastrocinque, 1955); Improvvisamente l'estate scorsa (J. L. Mankiewicz, 1959).

Sessanta

Ragazzi per un’ ora (J. Cates, 1960); Psycho (A. Hitchcock, 1960); Che fine ha fatto Baby Jane (R. Aldrich, 1962); Marnie (A. Hitchcock, 1964); Deserto rosso (M. Antonioni, 1964); Ciao Pussycat (C. Donner, 1965); Il collezionista (W. Wyler, 1965); Diario di una schizofrenica (N. Risi, 1968); Bob e Carol e Ted e Alice (P. Mazursky, 1969).

disturbi psichiatrici, psichiatria, Settanta nevrosi, schizofrenia,ps icanalisi, suicidio, follia, pazzia, istituti di cura, ospedali Ottanta psichiatrici, depressione

Diario di una casalinga inquieta (F. perry, 1970); Provaci ancora Sam (W. Allen, 1972); Una Moglie (J. Cassavetes, 1974); Nashville (R. Altman, 1975); Qualcuno volò sul nido del cuculo (M. Forman, 1975); Quinto potere (S. Lumet, 1976); Alta tensione (M. Brooks, 1977); Il tocco della medusa (J. Gold, 1977); Equus (S. Lumet, 1977); Io e Annie (W. Allen, 1977); Sinfonia D'autunno (I. Bergman, 1978); Brood, la setta. La covata malefica (D. Cronenberg, 1979). Gente comune (R. Redford, 1980); Vestito per uccidere (B. De Palma, 1980); Mon oncle d'Amerique. Mio zio d'America (A. Resnais, 1981); Il sapore dell'acqua (O. Seunke, 1982); Una lama nel buio (R. Benton, 1982); Un incurabile romantico (M. Brickman, 1983); Zelig (W. Allen, 1983); China Blue (K. Russell, 1985); Duet for One (A.M. Konchalovsky, 1986); Hannah e le sue sorelle (W. Allen, 1986); The Man Who Mistook His Wife for a Hat (C. Rawlence, 1987); Lo strizzacervelli (M. Ritchie,1987); Terapia di gruppo (R. Altman, 1987); Il male oscuro (M. Monicelli,1989); Jacknife (D. Jones1989).

Novanta

Risvegli (P. Marshall, 1990); Bud Boy Bubby (R. De Heer, 1993); Fight-Club (D. Fincher, 1999); Il giardino delle vergini suicide (S. Coppola, 1999); Terapia e pallottole (H. Ramis, 1999).

Duemila

Memento (C. Nolan, 2000); K-PAX (R. Kelly, 2001); A Beautiful Mind (R. Howard, 2001); L'avversario (N. Garia, 2002); Spider (D. Cronenberg, 2002); La meglio gioventù (M.T. Giordana, 2003); Reign over me (M. Binder, 2007)

Tabella 2. Film sul disagio mentale

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DISTURBI POST TRAUMATICI DA STRESS. Esposizione a disastri parole chiave

decade

titolo film, regista, anno

Sessanta

Il signore delle mosche (P. Brook, 1963)

gravi incidenti

Settanta

Airport '77 (J. Jameson, 1977)

Novanta

Alive. I sopravvisuti (F. Marshall, 1992)

disastri naturali

Cinquanta

Stromboli, terra di Dio (R. Rossellini, 1950)

Sessanta

Terremoto (M. Robson, 1974)

Novanta

E la vita continua (A. Kiarostami, 1991)

Venti

Metropolis (F. Lang, 1926)

Settanta

Sindrome Cinese (J. Bridges, 1979)

Duemila

Through a Child's Eyes: September 11, 2001 (A. Schatz, 2002); 9-11: The Teens' Perspective (S. Joffe, 2002); Telling Nicholas (R. Witney, 2002); 11 Settembre (Registi Vari, 2002)

Quaranta

Germania anno zero (R. Rossellini, 1948); Il ragazzo dai capelli verdi (J. Losey, 1949)

Cinquanta

Giochi proibiti (R. Clement, 1952)

Sessanta

L'infanzia di Ivan (A. Tarkowskij, 1962)

Settanta

Il tamburo di latta (V. Schlondorff, 1979)

Ottanta

Bashu il piccolo straniero (B. Beizai, 1989)

Novanta

Europa Europa (A. Holland, 1990); Alan e Naomi (S. Vanwagenen, 1991); Prima della pioggia (M. Manchewski, 1994)

disastri provocati dall'uomo

guerre

Tabella 3a. Film sui Disturbi Post Traumatici da Stress

DISTURBI POST TRAUMATICI DA STRESS. Esposizione a violenze parole chiave

decade

titolo film, regista, anno

Settanta Padre Padrone (P. e V. Taviani, 1977); The Child Stealer (M. Damski, 1979) violenze familiari

Ottanta

Santa Sangre (A. Jodorowsky, 1982); A distanza ravvicinata (J. Foley, 1986); Circle of Violence: A Family Drama (D. Greene, 1986); Salaam Bombay (M. Nair, 1988)

violenze familiari

Novanta Bad Boy Bubby (R. de Heer, 1993)

aggressioni

Anno I -(M. Numero 2 - Ottobre 2009 15 Novanta Cape Fear - promontorio della paura Scorsese, 1991); La corsa dell'innocente (C. Carlei, 1992); Un mondo perfetto (C. Eastwood, 1993); Il viaggio di Felicia (A. Egoyan, 1999).


DISTURBI POST TRAUMATICI DA STRESS. Esposizione a violenze parole chiave

decade

titolo film, regista, anno

Settanta Padre Padrone (P. e V. Taviani, 1977); The Child Stealer (M. Damski, 1979) violenze familiari

Ottanta

Santa Sangre (A. Jodorowsky, 1982); A distanza ravvicinata (J. Foley, 1986); Circle of Violence: A Family Drama (D. Greene, 1986); Salaam Bombay (M. Nair, 1988)

violenze familiari

Novanta Bad Boy Bubby (R. de Heer, 1993)

aggressioni

Novanta Cape Fear - promontorio della paura (M. Scorsese, 1991); La corsa dell'innocente (C. Carlei, 1992); Un mondo perfetto (C. Eastwood, 1993); Il viaggio di Felicia (A. Egoyan, 1999). Duemila Io non ho paura (G. Salvatores, 2003)

abuso

Dieci

Giglio infranto (D. W. Griffith, 1919)

Trenta

M, il mostro di Dusseldorf (F. Lang, 1931)

Sessanta Mouchette (R. Bresson, 1967) Ottanta

Mammina Cara (F. Perry, 1981); Il colore viola (S. Spielberg, 1985)

Novanta Olivier, Olivier (A. Holland, 1992); L'amore molesto (M. Martone, 1995); Festen (T. Vintenberg, 1998); Happiness (T. Solondz, 1998); Zona di guerra (T. Roth, 1999)

violenza scolastica Novanta America The Violent (DOC, L. Munoz Jr, 1996) Duemila Bowling for Columbine (M. Moore, 2002); Elephant (G. Van Sant, 2003); Gorno: An American Tragedy (O. Assiran e L. Norris, 2004) Tabella 3b. Film sui Disturbi Post Traumatici da Stress DISABILITÀ SENSORIALI parole chiave

cecità, cieco, ipovedente tiflologia, minorato della vista, Braille...

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decade

titolo film, regista, anno

Venti

Le due orfanelle (D. W. Griffith, 1922); The Man Who Laughs (P. Leni, 1927).

Trenta

Luci della città (C. Chaplin, 1931); L'angelo delle tenebre (S. Franklin, 1935); La luce che si spense (W.A.. Wellman, 1939).

Quaranta

La donna della spiaggia (J. Renoir, 1947); Musica nelle tenebre (I. Bergman, 1947).

Cinquanta

L’uomo nell’ombra (L. Landers, 1953); Magnifica ossessione (D. Sirk, 1954); La storia di Esther Costello ( D. Miller, 1957).

Sessanta

Gli occhi della notte (T. Young, 1967); In fondo al buio (T. Richardson, 1969).

Settanta

Terrore cieco (R. Fleischer, 1971); Slok (J. Landis, 1971); Profumo di donna (D.Risi, 1974).

Ottanta

Eclissi parziale (J. Jires, 1982); Le balene d'agosto (L. Andreson, 1987); Le stagioni del cuore (R. Benton, 1985); Non guardarmi non ti sento (A. Hiller, 1989).

Novanta

Gli amanti del Pont-Neuf (L. Carax (1991); Blue (D. Jarman, 1993); Nel profondo paese straniero (F. Carpi, 1997).

Duemila

Dancer in the dark (L. Von Trier, 2000); Daredevil (M.S. Johnson, 2003);

Trenta

La sfinge (P. Rosen, 1933)); Love Begins at Twenty (F.McDonald, 1936)

Quaranta

Johnny Bellinda (J. Negulesco, 1948)

Cinquanta

Mandy (A. MacKendrick, 1953); Sogno d'amore (G. Douglas, 1955); Mandy, la piccola


ipovedente tiflologia, minorato della vista, Braille...

Sessanta

Gli occhi della notte (T. Young, 1967); In fondo al buio (T. Richardson, 1969).

Settanta

Terrore cieco (R. Fleischer, 1971); Slok (J. Landis, 1971); Profumo di donna (D.Risi, 1974).

Ottanta

Eclissi parziale (J. Jires, 1982); Le balene d'agosto (L. Andreson, 1987); Le stagioni del cuore (R. Benton, 1985); Non guardarmi non ti sento (A. Hiller, 1989).

Novanta

Gli amanti del Pont-Neuf (L. Carax (1991); Blue (D. Jarman, 1993); Nel profondo paese straniero (F. Carpi, 1997).

Duemila

Dancer in the dark (L. Von Trier, 2000); Daredevil (M.S. Johnson, 2003);

Trenta

La sfinge (P. Rosen, 1933)); Love Begins at Twenty (F.McDonald, 1936)

Quaranta

Johnny Bellinda (J. Negulesco, 1948)

Cinquanta

Mandy (A. MacKendrick, 1953); Sogno d'amore (G. Douglas, 1955); Mandy, la piccola sordomuta (A. Mackendrick, 1952); Insieme (L. Mazzetti, 1956); La storia di Esther Costello ( D. Miller, 1957)

Sordità, Sordo, sordomuto, minorato dell'udito, ipoacusia, Sessanta lingua dei segni... Settanta

Pluriminorazioni

Urlo del silenzio (R. E. Miller, 1968); Psych out. Il velo sul ventre (R. Rush, 1968) Tommy (K. Russel, 1975); Silent Victory: The Kitty 'O Neil Story (L. Antonio, 1979)

Ottanta

I falò (F.U. Murer, 1985); Figli di un Dio minore (R. Haines, 1986); Oltre il silenzio (K. Arthur, 1988); Città dolente (H. Xiaoxian, 1989)

Novanta

Nel paese dei sordi (N. Philibert, 1992); Occhi per sentire (R. Greenwald, 1993); Dove siete? Io sono qui (L. Cavani, 1993); Goodbye Mr Holland (S. Hereck, 1995); Il silenzio del mare (T. Kitano, 1991); Il guerriero Camillo (C. Bigagli, 1999)

Duemila

Sound and Fury (J. Aronson, 2000);

Sessanta

Anna dei miracoli (A. Penn, 1962)

Settanta

Il paese del silenzio e dell'oscurità (W. Herzog, 1971); Tommy (K.Russel, 1975); Anna dei miracoli (P. Aron, 1979)

Ottanta

I DeBolts (J. Korty, J. Else, 1981); Oltre il dolore, oltre la pena (A. Elers-Jarleman, 1983)

Tabella 4. Film sui Disturbi sensoriali

D IS T U R B I N E U R O P S IC O L O G IC I parole chiave Dislessia, disturbo specifico di apprendimento

decade

titolo film, regista, anno

Cinquanta

Er drengen dum? (E. Fiehn, 1954)

Ottanta

Just another stupid kid (S. Ellis, 1984)

Novanta

Il buio nella mente (C. Chabrol, 1995); Utbor – oppøret (S. Andresen, 1996).

Duemila

Den Bästa sommaren (U. Malmros, 2000)

Ritardo Mentale, Venti difficoltà cognitive, sindrome di Down... Cinquanta

The Broken Gate (P. Scardon, 1920) A Home of Their Own (W. Davidson, 1958)

Sessanta

Non torno a casa stasera (F.F. Coppola, 1969)

Settanta

Tim. Un uomo da odiare (M. Pate, 1979)

Ottanta

Malcom (N. Tass, 1986)

Novanta

L’Ottavo giorno (J. Van Dormael, 1996)

Duemila

Ti voglio bene Eugenio (F. J. Fernandez, 2001); Mi chiamo Sam (J. Anno I - Numero 2 - Ottobre 2009 Nelson, 2001)

Sessanta

Corri libero e selvaggio (R.C. Srafian, 1969)

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Ritardo Mentale, Venti difficoltà cognitive, sindrome di Down... Cinquanta

Autismo, sindrome di Asperger, sindrome di Rett (7)

The Broken Gate (P. Scardon, 1920) A Home of Their Own (W. Davidson, 1958)

Sessanta

Non torno a casa stasera (F.F. Coppola, 1969)

Settanta

Tim. Un uomo da odiare (M. Pate, 1979)

Ottanta

Malcom (N. Tass, 1986)

Novanta

L’Ottavo giorno (J. Van Dormael, 1996)

Duemila

Ti voglio bene Eugenio (F. J. Fernandez, 2001); Mi chiamo Sam (J. Nelson, 2001)

Sessanta

Corri libero e selvaggio (R.C. Srafian, 1969)

Settanta

Looking for Me (J. Adler, 1970)

Ottanta

Mater amatissima (J.A. Salgot, 1980); Estate (P. Groning, 1986); The Boy Who Could Fly (N. Castle, 1986); Rain Man (B. Levinson, 1988).

Novanta

Mama (Z. Yuan, 1991); Foto di famiglia (P. Saville, 1993); La voce del silenzio (1993)

Duemila

All your difference (R.C. Williams, 2003)

Tabella 5. Film sui disturbi neuropsicologici

Anche in questo caso i film individuati e classificati per mezzo della ricerca sono stati utilizzati, nella loro integrità o mediante montaggi tematici, in diverse occasioni formative e culturali, quali: convegni, laboratori di pedagogia speciale del Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria (Bocci, 2003), corsi di formazione per operatori nel campo della salute e così via. Quarta proposta. Cinelinguaggio, disabilità e rappresentazione sociale della Salute. Un modello di analisi per la ricerca e per la formazione L’ultima proposta di classificazione presentata in questa sede costituisce un ampliamento e un raffinamento del lavoro precedentemente condotto ed è stata appositamente ideata in occasione di due Convegni organizzati dalla professoressa Marina D’Amato (Università Roma Tre) con la collaborazione della dottoressa Milena Gammaitoni: il primo, Finzione e mondi possibili. Per una sociologia dell’immaginario (dicembre 2007); il secondo, Incontri di Sociologia delle arti. Per una sociologia dell’immaginario (Marzo, 2008). Una volta raccolti, sul piano quantitativo, un gran numero di film sulle disabilità, successivamente classificati in rapporto alle tipologie

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di deficit o di disturbo, si è avvertita l’esigenza di elaborare un sistema di analisi che permettesse di porre in relazione un maggior numero di variabili presenti nelle diverse narrazioni filmiche. Al fine di corrispondere a tale esigenza si è ritenuto opportuno, dunque, sviluppare un nuovo modello di classificazione e di analisi. Sul piano procedurale la prima operazione è stata quella di interrogare l’ipotesi metodologica proposta da D’Incerti, Santoro e Varchetta (2000)8, i quali hanno sviluppato un modello di analisi dei film in relazione alla gestione delle risorse umane in ambito della sociologia delle organizzazioni. Gli autori hanno predisposto una mappa di riferimento (vedi Figura 3) che ha consentito loro di identificare e di sistematizzare in base a quattro coordinate (Persona, Hard, Soft, Organizzazione)9 alcuni grandi temi (come la leadership, l’empowerment, la complessità, la creatività, la negoziazione, il ruolo) individuando altresì una serie di film pertinenti da utilizzare in sede formativa. Successivamente la mappa di riferimento elaborata dagli autori è stata rielaborata da chi scrive alla luce del modello bio-psico-sociale dell’ICF (International Classification of Functioning), il nuovo sistema di classificazione della salute promulgato dall’OMS nel 2001


(vedi figura 4) e recentemente ampliato e aggiornato con la versione Children and Youth (2007). A differenza dei sistemi diagnostici utilizzati fino ad oggi, a livello nazionale e internazionale (ad esempio il DSM-IV o l’ICD-10), l’ICF focalizza l’attenzione sullo stato di salute della persona piuttosto che sul deficit, prendendo soprattutto in considerazione i fattori contestuali (ambientali e personali) come variabili fondamentali per comprendere la qualità di vita della persona stessa. L’ICF, dunque, offre una visione di persona «completa, globale, olistica, sistemica, non riducibile ai soli aspetti biologici, di abilità, sociali, o familiari. Tutti questi aspetti [della persona] interagiscono e originano stati di benessere o di difficoltà» (Ianes, Canevaro, 2008, p. 17).

Sulla base di questa rielaborazione è scaturito il nuovo modello di classificazione per l’analisi dei film che affrontano il tema delle disabilità, delle diversità e così via (Figura 5) (10).

Figura 3. Mappa di riferimento (D’Incerti, Santoro, Varchetta, 2000)

Figura 5. Un nuovo modello per l’analisi della rappresentazione sociale della salute

Figura 4. Il modello Bio-Psico-Sociale dell’ICF. Internationl Classification of Functioning (da Ianes, 2001).

Tale modello ha per fulcro il concetto di salute inteso come risultante della interazione delle quattro coordinate principali: Persona, Stabile (Hard), Dinamico (Soft), Fattori Contestuali, con altrettante dimensioni di analisi: Profilo di funzionamento, Rete dei ruoli, Cultura di appartenenza, Rete di relazioni. Dalla interconnessione di tutte queste variabili scaturiscono le seguenti possibilità di lettura: • nel quadrante in alto a sinistra Persona/Stabile (Hard) si prendono in considerazione le strutture e le funzioni corporee della persona in rapporto alle specifiche sindromi, ai deficit,

Anno I - Numero 2 - Ottobre 2009

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alle menomazioni sensoriali (autismo, sordità, cecità, ritardo mentale, ecc..); • nel quadrante in alto a destra Persona/Dinamico (Soft), si prendono in esame tutte quelle variabili inerenti la persona, come: l’apprendimento, la partecipazione sociale, l’autoefficacia, ecc... che sono dinamiche e, quindi, suscettibili di modificazione nel tempo a prescindere dalle condizioni strutturali della persona. In altri termini, una persona down può implementare il proprio senso di autoefficacia e di agentività attraverso il lavoro, avendo così un livello di partecipazione sociale qualitativamente soddisfacente nonostante la presenza di ritardo mentale; • nel quadrante in basso a destra Dinamico (Soft)/Fattori contestuali, si collocano tutti quegli aspetti ambientali che sono soggetti a innovazione e a cambiamento nel tempo sia in rapporto alla cultura di appartenenza sia in funzione della rete di relazioni presente in un determinato contesto. Ad esempio, per quanto riguarda il lessico utilizzato per denotare un soggetto con difficoltà, solo nel corso del Novecento questo ha subito notevoli mutamenti: si è passati da idiota a frenastenico, da handicappato a portatore di handicap, da disabile a diversabile fino alla dizione odierna di persona con bisogni educativi speciali. Lo stesso discorso vale per la normativa11 che si differenzia da nazione a nazione non solo in rapporto al tempo (dimensione diacronica), ma anche in ragione della cultura di riferimento (dimensione sincronica); • nel quadrante in basso a sinistra Fattori contestuali/Stabile (Hard), sono considerati tutti quegli aspetti ambientali strutturali, come la scuola, la famiglia, gli enti, le istituzioni, gli istituti (ad esempio quelli speciali). La presenza o l’assenza di questi fattori e la qualità della rete dei ruoli attivata influiscono notevolmente sulla qualità della salute e del benessere esistenziale di una persona.

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A questo punto è possibile immaginare una ri-classificazione dei film che trattano i temi della disabilità e della diversità a partire dalla ridefinizione del costrutto di salute come suggerito dall’ICF ma, anche, centrando l’analisi sul concetto di molteplicità (Canevaro, 2000) che caratterizza le storie delle persone handicappate, con disabilità, con disagio ecc... (ma non soltanto). In tal modo si può tener conto con maggior grado di accuratezza (e di autenticità) delle possibili interconnessioni che scaturiscono dall’incontro della persona con se stessa e con il mondo che la circonda (e viceversa). Forniamo ora una esemplificazione facendo riferimento a tre film spendibili in sede formativa: Anna dei Miracoli (Miracle Worker, Arthur Penn, 1962), può essere utilizzato per riflettere sul rapporto tra la pluriminorazione (cecità/sordità) (quadrante alto-sinistra) e le possibilità di apprendimento (quadrante altodestra) di una persona sordo-cieca (Helen Keller) coinvolta in un intervento educativo centrato sull’uso di linguaggi e di ausili specifici (quadrante basso-destra), all’interno di una famiglia (quadrante bassosinistra) che nonostante alcune iniziali (e comprensibili) resistenze supporta il processo di crescita della protagonista. Gli esclusi (A child is Waiting, John Cassavetes, 1963), consente di leggere la vicenda di Reuben (il bambino protagonista che ha un ritardo mentale) in rapporto alle sue possibilità di apprendimento supportate dal sistematico ricorso alle tecnologie (tra cui una macchina per insegnare) di cui si serve il dott. Clark direttore dell’istituto specializzato di Pomona. Questo film permette anche di constatare quale possa essere l’incidenza del sistema culturale di riferimento nella presa in carico della persona in difficoltà (Bocci, 2004).


La madre di David (David’s Mother, Robert Allan Ackerman, 1994), è un ottimo prodotto filmico che permette di focalizzare l’attenzione non solo sulla persona con disabilità ma, soprattutto, sul genitore e sulla famiglia. L’autismo di David fa da sfondo alla vicenda narrata che ha per protagonista Sally, sua madre. In tal senso è interessante indirizzare l’analisi sulla personalità della donna, sulla sua agentività, sul suo grado di partecipazione sociale (a causa dell’autismo del figlio si è via via isolata), nonché sulla normativa di riferimento (il film informa che negli Stati Uniti i bambini con handicap gravi devono essere istituzionalizzati), sui servizi e sugli enti assistenziali che, attraverso i loro operatori, devono garantire l’applicazione della normativa stessa. Quest’ultimo modello di classificazione proposto è in via di sperimentazione; pertanto le coordinate, le dimensioni, le voci e le analisi proposte sono in una fase di ulteriore elabora-

zione e di raffinamento. Ci è sembrato però significativo iniziare a proporlo, anche in questa sede, perché, a nostro avviso, riflette l’attualissima esigenza di allargare l’orizzonte di analisi rispetto alla cura delle persone in difficoltà e, più in generale, delle relazioni umane che qualificano il nostro essere nel mondo. Troppo spesso, infatti, osserviamo come sia la cura sia le relazioni umane corrano il rischio di essere delimitate, confinate e imprigionate all’interno di categorie predefinite troppo rigide per comprendere l’umanità dell’umano. Il cinelinguaggio, quale mediatore estetico che raccoglie e dinamicamente rielabora e restituisce l’immaginario collettivo, può rappresentare un ottimo simulatore per sottoporre le nostre convinzioni, i nostri valori, i nostri comportamenti e le nostre azioni ad un attento vaglio, al fine di migliorare la qualità del nostro modo di pensare e di agire. D’altronde, è proprio questo il fine ultimo dell’atto educativo e formativo.

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NOTE 1 Con tale locuzione s’intende includere non solo il prodotto filmico ultimato, ma anche tutto il processo di scrittura che accompagna la realizzazione di un film: la stesura della sceneggiatura (o delle sceneggiature) originali; la riduzione di testi letterari; la realizzazione di story-board, ecc... 2 É compito del docente o del formatore allestire ambienti del compito e curare le condizioni adeguate affinché si eliciti in chi apprende la giusta tensione conoscitiva che spinge ad un apprendimento significativo. D’altronde «il processo formativo consente proprio la realizzazione di una esperienza di miglioramento - che avviene a livello sia individuale sia collettivo - dovuta in gran parte alla cooperazione sinergica, sistematica e intenzionale di tre variabili altamente rilevanti sul piano pedagogico: a) il soggetto di conoscenza; b) ciò che la persona già conosce (in generale e in merito al soggetto oggetto di apprendimento; c) ciò che la persona sente (in rapporto al sé generale, al sé come soggetto di conoscenza in senso ampio, al sé come soggetto di conoscenza in quel preciso contesto e in riferimento a quello specifico soggetto oggetto di conoscenza)» (Bocci, 2006, pp. 378-379). 3 In questa accezione per creatività s’intende quella funzione del pensiero divergente che consente alla persona di produrre più risposte a partire da un singolo stimolo. Tale processo si differenzia da quelle modalità di ragionamento tipiche del pensiero convergente (proprie di una certa tradizione didattica e formativa), in cui sono fornite al formando una serie di stimolazioni ma è richiesta (e attesa) una singola (univoca) risposta. 4 Non figurano nell’elenco il film Notte prima degli esami oggi di Fausto Brizzi, distribuito nelle sale nel febbraio del 2007, e le serie Tv I Cesaroni (Francesco Vicario, 2006) e I Liceali (Lucio Pellegrini, 2008). 5 Questo film di Carlo Verdone è ambientato in una villa del litorale romano. Tuttavia i riferimenti scolastici che caratterizzano la narrazione appartengono ai vizi e alle virtù della città eterna. 6 In occasione del ventennale dalla prematura scomparsa di Marco Lombardo Radice chi scrive, avendolo conosciuto personalmente, ha voluto ricordarlo evidenziandone il profilo e l’impegno pedagogico-politico, in un breve articolo apparso sulla rivista Ricerche Pedagogiche (Bocci, 2009).

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7 Per quel che riguarda le sindromi dello spettro autistico recentemente è stato compiuto da chi scrive un più approfondito lavoro di classificazione, con il reperimento di 137 prodotti filmici tra lungometraggi, cortometraggi, film documentari e film Tv (Bocci, 2008). 8 L’autore desidera ringraziare il collega e amico Cesare Fregola, Analista Transazionale ed esperto dei processi formativi nelle organizzazioni (pubbliche e private) e nella scuola, per aver segnalato l’esistenza di questo modello. 9 Gli autori spiegano in questo modo le quattro coordinate: «Nel quadrante in alto a sinistra Persona/Hard, abbiamo collocato le voci afferenti all’individuo ma di origine più tipicamente strutturale; in quello in alto a destra Persona /Soft le voci sempre afferenti all’individuo ma legate a elementi sovrastrutturali, tipicamente culturali, emotivi, socio psicologici; nel quadrante in basso a destra Organizzazione/Soft abbiamo inserito quelle socio organizzative legate a elementi socio culturali; nel quadrante in basso a sinistra Organizzazione/Hard, le voci relative all’organizzazione secondo un punto di vista strutturale e formale» (D’Incerti, Santoro, Varchetta, op. cit., pp. 20-21). 10 Si precisa che, rispetto all’ICF, nel nostro modello la voce fattori contestuali fa riferimento solo a quelli ambientali mentre quelli personali sono inclusi nella voce Persona. 11 La normativa, ovviamente, è a cavallo tra i due quadranti inferiori in quanto è, al tempo stesso, dinamica (perché riflette le esigenze e le istanze di cambiamento che provengono dalla società civile) e stabile (in quanto nel momento in cui vige è l’espressione di una tradizione che si è consolidata proprio in virtù della norma espressa in legge). In proposito si veda Pascoletti, Gardin (1997). RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: AGOSTI A., Cinema per la formazione degli operatori dell’integrazione, in G.M. Cappai (a cura di), Percorsi dell’integrazione. Per una didattica delle diversità personali, FrancoAngeli, Milano, 2003; ANGRISANI S., MARONE F., TUOZZI C., Cinema e cultura delle differenze. Itinerari di formazione, ETS, Pisa, 2001; BALÀZS B., Il film: Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino, 1955;


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Italia, Firenze, 1994; DIEUZEIDE H., Le tecniche audiovisive nell’insegnamento, Armando, Roma, 1966; GARDOU C., Diversità, vulnerabilità e handicap. Per una nuova cultura della disabilità, Erickson, Trento, 2006; GEMELLI A., Interet des projections cinématographiques, in «Journal de Psychologie», 1928, pp. 596-606; GRASSO P.G., L’educatore come noi lo sogniamo, in «Orientamenti pedagogici», 1, 1954, pp.132-147; GROPPO M., ZANZOTTERA A., Rassegna degli studi e delle ricerche sull’analisi dell’insegnamento in Italia, in «Orientamenti Pedagogici», 3, 1982, pp. 469-493. IANES D., CANEVARO A., Facciamo il punto su... L’integrazione scolastica, Erickson, Trento, 2008; IANES D., Didattica speciale per l’integrazione, Erickson, Trento, 2001; KRACAUER S., Film. Ritorno alla realtà fisica, Mondadori, Milano, 1966; LAPORTA R., Cinema ed età evolutiva, La Nuova Italia, Firenze, 1979; LUMBELLI L., La comunicazione filmica: Ricerche psicopedagogiche, La Nuova Italia, Firenze, 1974; MARAGLIANO R., Manuale di didattica multimediale, Laterza, Roma-Bari, 1996; MORIN E., Il cinema o dell’immaginario, Silva, Milano, 1962; MUSATTI C., Scritti sul cinema, Testo e Immagine, Torino, 2000; OLMETTI PEJA D., Teorie e tecniche dell’osservazione in classe, Giunti, Firenze, 1998; OMS, Classificazione internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), Erickson, Trento, 2001; OMS, ICF-CY Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute -Versione per bambini e adolescenti, Erickson, Trento, 2007; PASCOLETTI C., GARDIN A., L’organizzazione dell’istituzione scolastica in funzione del processo d’integrazione dell’alunno con handicap, in P. Meazzini (a cura di), Handicap. Passi verso l’autonomia, Giunti, Firenze, 1997; SANTONI RUGIU, Il professore nella scuola italiana. Dal 1700 alle soglie 2000, La Nuova Italia, Firenze, 1981; ZAVALLONI R., Elementi per un profilo del maestro, in «Pedagogia e vita», 1, 1961, pp. 32.40.

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Fondamenti teorici del Diversity di Mariolina Ciarnella Dalla fine degli anni ottanta la letteratura internazionale sullo Human Resource Management ha visto fiorire numerose riflessioni teoriche su come le organizzazioni possano gestire, traendone profitto, la crescente eterogeneità della forza lavoro, del mercato, del business. A tali contributi per lo più provenienti dal mondo Nordamericano si fa riferimento globalmente impiegando l’espressione di Diversity Management. Posizione centrale in questi contributi assume l’individuo che viene considerato come una risorsa cardine del futuro e che necessita di un ascolto delle proprie peculiarità, delle proprie esigenze e dei propri bisogni che sono qualitativamente diversi rispetto al passato. In questi programmi “volontari” delle aziende, finalizzati a creare una maggiore inclusione degli individui, ma anche dei gruppi all’interno dell’ambiente organizzativo, il riconoscimento della centralità e della diversità del “capitale umano”, come vero patrimonio dell’impresa influenza l’approccio gestionale favorendo l’implementazione di sistemi, pratiche e politiche volte ad una effettiva gestione della diversità in azienda e tali da generare un effettivo vantaggio sostenibile nel lungo periodo dell’impresa. In sostanza le organizzazioni ricercano le strategie aziendali che diano al personale la possibilità di sviluppare e applicare all’interno del contesto lavorativo quello spettro più ampio e integrato di abilità e competenza che riflettono il genere, l’età, l’etnia, le culture e le pre-

gresse esperienze. Le aziende che investono in Diversity management non sono motivate esclusivamente da un impulso di giustizia sociale, ma dal creare sinergie, dal cercare di riflettere all’interno dell’organizzazione l’evoluzione del mercato e l’eterogeneità della clientela, dall’attrarre risorse qualificate e trattenere gli alti potenziali, dal contenere i costi di turn over del personale, dal fare emergere i potenziali inespressi, dal ridurre il tasso di demotivazione e di assenteismo dei dipendenti, dall’aumentare il numero di donne manager, dal migliorare l’immagine esterna dell’azienda, in breve dal raggiungere il profitto comprendendo le connessioni tra diversità e inclusioni e desiderando essere aziende più efficaci. In sostanza, quello del diversity management è un approccio che cerca di dare impulso ad un cambiamento culturale diffuso e di sviluppo organizzativo mirato alla creazione di organizzazioni multiculturali caratterizzate da un alto livello, sia dei networks informali sia dall’assenza di pregiudizi e di discriminazioni, da un maggior grado di identificazione organizzativa e da un basso livello di conflitti intergruppo: tutto ciò grazie ad una gestione proattiva delle diversità. Tuttavia alcune organizzazione ignorando tali applicazioni della diversità continuano ad occuparsene solo in termini di tutela dei diritti umani, in un ottica di mera conformità alle norme di legge. Il concetto di diversity va ben oltre il dettato della legislazione sulle pari opportunità di impiego. Il diversity management non è una variante contemporanea delle pari opportunità o delle azioni positive, anche se ne può essere considerata la naturale prosecuzione. Mentre le azioni positive e le pari opportunità sono di istituzione pubblica e affrontano tematiche di ordine pubblico, proponendosi il superamento di ogni forma di discriminazione dei diritti civili e costituzionali a danno di alcune categorie svantaggiate (non rivolgendosi, quindi, a tutte le persone in modo uguale), il diver-

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sity management, invece, va oltre il problema della discriminazione, perché mira a valorizzare i talenti individuali tenendo conto anche dei vantaggi che ne possono derivare all’organizzazione, cosa che invece non viene presa neanche in considerazione dalla logica delle pari opportunità. In effetti, l’esperienza Statunitense della gestione della diversità ha evidenziato come le organizzazioni hanno seguito o stiano seguendo un percorso che va dall’ignorare o resistere alla diversità, al focalizzarsi sui problemi associati ad essa, fino a giungere all’esplorazione delle possibilità da esse create. Le aziende in queste varie fasi della loro esperienza affronteranno un lungo processo di cambiamento culturale che le porterà a muoversi in vari stadi lungo la linea tracciata dal modello del “Equity Continuum” fino a raggiungere la posizione di “Employer of Choice”. A quest’ultimo livello, caratteristico delle aziende multiculturali, la diversità è promossa oltre gli stessi confini dell’organizzazione, viene riconosciuta l’importanza che questa assume nel contesto sociale e promosse iniziative di diversity a lungo termine in vista di un impatto positivo anche per la comunità globalmente intesa. Le organizzazioni che si trovano in questo stadio di evoluzione spesso sono quelle che adottano le pratiche migliori nella gestione delle risorse umane, cioè adottano processi di miglioramento continuo che aiutano a mantenere sistemi di selezione e di impegno equi; di formazione alla diversità e puntano alla retention dei loro migliori e più “diversi” talenti; adoperano degli adeguati sistemi di misurazione della diversità e controllano periodicamente i risultati ottenuti dai loro programmi. A differenza del Modello europeo di diversity management, in quello americano la misurazione delle politiche di diversity si richiama alla tecnica budgetaria, impiegata per qualsiasi altro elemento strategico organizzativo, enfatizzando il ruolo del reporting sistematico

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al CEO e il suo diretto coinvolgimento nelle decisioni e nei flussi di informazione. Chi gestisce le politiche di diversity management in azienda fornisce delle misurazioni che quantificano il ritorno degli investimenti e attestano al top management il conseguimento dei benefici di “bottom-line” e di nuovi flussi di reddito di ogni singola unità di business. In pratica, nella visione americana il diversity viene considerato come un asset qualificabile con un ROI misurabile. Ovvero, le organizzazioni oltre ad avere i più comuni indici di misurazione delle politiche di diversity (ad esempio indici di composizione del personale e del management), calcolano il ROI della diversità (DROI) su quattro aree considerate di interesse critico per la società: capitale umano, impegno del vertice, relazioni con fornitori, posizionamento sul mercato. Un’altra tecnica molto usata per misurare e quantificare l’impatto della diversità a differenti livelli e funzioni di business è la Diversity Balanced Scorecard. Questa tecnica permette di predire il valore economico aggiunto dalle risorse intangibili dell’organizzazione, come la diversità della forza lavoro, la cultura inclusiva dell’organizzazione e le buone pratiche di diversity management. Il pregio di questi metodi è la capacità di costruire dei solidi business case che accrescono le possibilità di avere un maggior impegno della leadership e le risorse necessarie per implementare con successo le iniziative di diversity. La progettazione, la pianificazione, l’implementazione di strategie di diversity comportano l’impiego di tempo e di denaro. La diversità non è quindi “cost free”, ma le


aziende che hanno intrapreso questo spesso lungo e difficile processo di cambiamento riscontrano vantaggi tali da accrescere, nel lungo termine, ma in alcuni casi anche nel breve, la loro competitività e la propria posizione sotto il profilo sia concorrenziale che economico finanziario. Per questo motivo le politiche di diversity iniziano ad essere percepite dalle organizzazioni come uno strumento per catturare il dividendo della diversità. Sebbene non si possa individuare un modello di gestione della diversità valido in assoluto per ogni tipo di organizzazione, è possibile individuare una serie di “fasi” e di interventi chiave nelle diverse aree organizzative, funzionali all’implementazione di tali politiche. Infatti questo quadro di riferimento evidenzia che nonostante la forte disparità nella progettazione e nell’implementazione di tali

programmi vi sono alcuni passaggi quasi obbligatori per le imprese che intendono operare in tale direzione. In particolare vengono individuati nove ambiti di intervento nell’alveolo dei quali le compagnie potranno introdurre l’oggetto e le sequenze che meglio si adattano alle caratteristiche del loro business, della loro cultura organizzativa della fase che stanno attraversando nonché delle risorse (economico finanziarie, temporali, umane) che hanno a disposizione. Questo riveste particolare importanza per l’ esportabilità e l’adattabilità di questi modelli a contesti diversi da quello nord-americano (per i quali sono stati teorizzati), come potrebbe essere ad esempio quello italiano che, se pur caratterizzato dalla presenza di filiali di multinazionali, si distingue per la presenza quantitativamente superiore di piccole e di medie imprese.

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Comunicare attraverso la Musica e il Cinema di Davide Rossini “La fonte musicale - che non è individuabile sullo schermo, e nasce da un «altrove» fisico per la sua natura «profondo» - sfonda le immagini piatte, o illusoriamente piatte, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita” I rapporti fra la musica e cinema, considerati nella loro natura essenziale di “linguaggio artistico”, mostrano delle peculiari ed evidenti affinità, in particolar modo, nella loro natura intrinsecamente progressiva e ritmica. Per un cineasta la musica può essere l’irrinunciabile collante di scene che si susseguono, il “leitmotiv” adatto ad una visione organica del lavoro cinematografico, talvolta è il mezzo principale che riesce a rendere visibili le profonde relazioni che si possono nascondere fra le diverse inquadrature, in altri momenti quell’elemento atto a creare interessanti e dinamici contrasti che possono dare spessore all’immagine; in definitiva, la musica si presenta non come una forma d’arte utilizzata per sublimare una “pellicola”, ma, diventa una parte integrante dell’opera. Il rapporto, infine, della musica con il pubblico rimane, di fatto, un complesso linguaggio che, principalmente, veicola informazioni di natura temporale ed emozionale. Prima di analizzare il contributo che essa dà alla totalità dell’opera cinematografica, in termini necessariamente brevi e non esaustivi, facciamo un sintetico quadro storico (tralasciando la musica utilizzata nel cinema muto), passando poi, ad

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analizzare gli altri elementi costitutivi di un lungometraggio. Nel 1926 con il “Don Juan” e, in particolare, nel ’27 con “Il cantante di Jazz” (The Jazz Singer-Warner Bros), Alan Crosland tenta una prima sincronizzazione fra l’audio di un grammofo no e l’immagine; ma, solo un anno dopo con il film “Luci di New York” di Bryan Foy si riesce ad inserire anche il parlato all’interno della “traccia” audio sincronizzata. Alla Fox, intanto, si sperimentavano le prime registrazioni del sonoro in “bande ottiche” (il Movietone” inventato da Theodor Case) che consentivano la registrazione dell’audio in presa diretta: un metodo efficace che, però, costringeva le immagini in una rigida schematicità non permettendo un ulteriore lavoro di montaggio del sonoro successivo alle riprese. La tecnica del playback (montaggio audio differito rispetto alle riprese) comincia ad essere universalmente adottata dagli anni ’50, grazie, inizialmente, a supporti magnetici che erano incollati sulla pellicola poi man mano sorpassati con tecniche sempre nuove che, negli anni, agevoleranno sempre più il lavoro di postproduzione fornendo all’audio “spazi creativi” sempre maggiori. La colonna (o banda) sonora comprende le voci, il rumore e la musica: negli anni ’80 la tecnologia, a partire dal Dolby Stereo (soluzione adatta a ridurre il rumore di fondo su una incisione),


è pienamente matura e tutti gli aspetti del sonoro vengono proposti con tecniche adeguate a far vivere un pieno coinvolgimento allo spettatore (un esempio su tutti è il film “Guerre Stellari” di George Lucas del 1977): sia per le immagini che, grazie a voci e rumori, assumono connotati realistici, sia per la possibilità di sfruttare il linguaggio musicale come opportunità artistica. “Nella sua attitudine a sparire subito, la musica riprende tuttavia l’esigenza in cui consiste il suo inevitabile peccato cardinale nel cinema: l’esigenza di esserci.” A questo punto possiamo fare una breve riflessione sulla musica e la sua natura di “struttura temporale” complementare e intimamente diversa rispetto alla “struttura spaziale” dell’immagine. La più piccola informazione visiva cinematografica è data dalla singola immagine (frame), la struttura spaziale è il fotogramma; la struttura temporale nel cinema è data dalla rapida successione dei singoli fotogrammi (1/24) che danno allo spettatore la percezione del movimento e quindi, una sorta di simulazione della realtà. Il Cinema, grazie al montaggio, al rapido susseguirsi dei fotogrammi, all’incalzare delle scene imita la natura del “divenire” tipica dell’arte musicale; ne simula la sua secolare struttura temporale fatta di melodie, motivi, ritornelli, variazioni inseriti in un contesto ritmico-temporale. In questa

prospettiva l’arte cinematografica può essere considerata una specie di simbiosi in cui le immagini statiche e la dinamica della musica assumono una cornice temporale univoca, una fusione di immagine e suono, pittura e musica; con il cinema si arriva, così, ad avere una struttura complessa a livello linguistico, una comunicazione fatta di spazio e tempo, un materiale quadridimensionale innovativo nel campo dell’arte. 1. Le funzioni comunicative della musica nel cinema Funzione informativa: grazie a semplici suoni, rumori, o complesse trame orchestrali è possibile dare coordinate storiche, geografiche ed ambientali con la possibilità di contestualizzare la scena rappresentata. Questa funzione poggia sull’esperienza dell’ascoltatore il quale deve saper riconoscere quella determinata melodia, o almeno, alcuni determinati stilemi linguistici per poter usufruire delle informazioni contenute nella comunicazione musicale. Funzione discorsiva: la parte musicale presenta un testo specifico che va ad integrare o ad interagire con la scena; può avere la valenza di un commento (comunicazione pubblicitaria o cinematografica) relativo ad un oggetto specifico e/o ad una situazione specifica o una

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funzione referenziale che assieme ad altri linguaggi presenti mira al rafforzamento comunicativo di uno o più elementi (ad. esempio una parola o un’immagine di cui potenziare il significato). Funzione identificativa: una serie di suoni serve ad identificare delle cose, delle persone (gruppi sociali) o dei fatti (ad. es. un inno nazionale). Funzione poietico-estetica: la poietica riguarda l’aspetto elaborativo-formale da parte dell’autore. In un film d’arte, ad esempio, l’autore potrebbe mirare a creare delle strutture musicali complesse ed elaborate alla ricerca di un materiale musicale di rilevanza estetica. La funzione estetica: è la capacità che ha l’ascoltatore di cogliere, capire ed apprezzare il prodotto della funzione poietica. Funzione mnestica: è la capacità della musica di evocare ricordi, relativi a situazioni, persone ecc. spesso molto lontani nel tempo. La funzione mnestica è una tecnica molto usata nel campo cinematografico assieme all’utilizzo del “leitmotiv” (sequenza melodica ricorrente): un esempio chiaro si ha in quelle colonne sonore in cui si associa un tema ad una situazione specifica sin dai primi minuti rendendo il legame suono-immagine una funzione mnestica-identificativa affidata alla musica. Un altro capitolo assai vasto ed interessante è quello delle varie funzioni d’induzione senso-motoria ed attivatrice di emozioni che si producono negli ascoltatori ed, in particolare, gli effetti che si producono all’atto della ricezione musicale. Da tempo sono note le capacità della musica di interagire sul sistema neurovegetativo e, senza addentrarci troppo nell’argomento, si può affermare che le stimolazioni sonore hanno due campi di azione principali di ordine pragmatico: 1) induzione sensoriale, 2) attivatrici di emozioni. In generale, si parte da un concetto piuttosto moderno che tende a considerare l’esperienza musicale non confinata solo ad un approccio meramente auditivo ma ad una relazione di tipo corporeo (sistema motorio-cinestesico, si-

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stema sensoriale della pelle e sistema uditivo). Questo ultimo aspetto, appena delineato, è conosciuto da anni nel mondo del cinema ed è diventato una materia fondamentale anche in campi diversi come, ad esempio, quello pubblicitario. Conoscere determinati meccanismi ha spesso dei risvolti importanti di tipo commerciale sia nella cinematografia (intendendo il film come un prodotto) sia nei contesti in cui la pubblicità è, di fatto, un elemento irrinunciabile. Molti autori importanti di colonne sonore o, compositori che hanno fatto proprie determinate ricerche, non a caso, sono spesso dei collaboratori preziosi in diverse situazioni commerciali dallo spot televisivo, alle composizioni originali commissionate da alcune note catene alberghiere, giusto per citare solo un paio di casi. Il rapporto fra Musica e Cinema, ancora oggi, rappresenta un terreno parzialmente inesplorato, una materia che, a monte, di una produzione saggistica importante ma non imponente, necessita di una trattazione omogenea ed organica che possa offrire dei punti fermi e delle linee guida chiare a chi, con amore e passione, voglia approfondire questo affascinante aspetto dell’arte moderna. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: MASALA F., Pubblico e Comunicazione Audiovisiva, Bulzoni, 1986; CHION M., L’audiovisione - Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 1997; DELEUZE G., L’Immagine-Tempo, Milano, UBU-Libri, 1988; MICELI S., La musica nel film - Arte e artigianato, Firenze, Discanto, 1982; MORIN E., Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Silva Editore, 1962; CANO C. E CREMONINI G., Cinema e Musica, Firenze, Vallecchi, 1991; BALÀZS B., Il film - Essenza ed evoluzione di un’arte nuova, Torino Einaudi, 1999; PIERCE J. R., La Scienza del Suono, Roma, Zanichelli, 1983.


Comunicazione: parola polisenso e ambigua? di Enrico Zuccaro

Che il temine “comunicazione” sia polisenso, ovvero possegga più significati ed accezioni, è un fatto indiscutibile. Basta aprire il “Grande Dizionario della Lingua Italiana”di Salvatore Battaglia (volume III, pagg. 446/447, per chi volesse controllare) per trovare conferma di quanto appena scritto. Sono infatti ben undici i significati di “comunicazione” che il Battaglia elenca nella sua monumentale opera, imprescindibile riferimento per chiunque intendesse conoscere al meglio la ricchezza e la potenzialità della nostra lingua. Da tali numerosi significati emerge però una sorta di equazione chiarificatrice: comunicare vuol dire essenzialmente “porre in rapporto, in relazione”. Comunicazione è quindi termine polisenso, ma non ambiguo.Da qui può snodarsi con più facilità il nostro discorso, la nostra analisi necessariamente sintetica e non solo per motivi di spazio. Anzitutto se comunicare equivale a correlare e dunque creare contatto, non pos-

siamo non chiederci come ciò avvenga. E qui la risposta immediata, ed in apparenza ovvia: si comunica grazie al linguaggio. Ma quale? Quello “comune”, quello “tecnico o specialistico”, quello “privato”, quello “pubblico”, quello “gestuale”? Ecco che la risposta, in apparenza ovvia, si complica non appena l’oggetto della nostra attenzione della comunicazione si sposta al linguaggio, suo fondamentale strumento di esecuzione. A fronte di più linguaggi esistono infatti molteplici e variegate forme di comunicazione, tutte dipendenti e condizionate dalle competenze linguistiche, e non solo, di ognuno di noi. Alla base di tali forme vi è però un dato imprescindibile, una sorta di denominatore comune che gli studiosi di settore chiamano “atto comunicativo”. Affinché esso abbia luogo devono essere presenti alcuni elementi: un emittente, un ricevente, un canale (esempio la voce, lo scritto, il gesto, l’immagine), un codice un messaggio. Tra queste cinque componenti della comunicazione, il “codice” è senza dubbio la più importante. È di tutta evidenza infatti che comunicare diventa possibile, allorché emittente e ricevente condividano il medesimo codice, ovvero, quell’insieme di regole che definiscono quali sono i modi ammissibili di confezionare messaggi in grado di essere recepiti. A tale schema in apparenza quasi meccanicistico come ogni scomposizione in fasi procedurali, sottostanno, a ben guardare, tutte le forme di comunicazione, siano esse più o meno complesse ed articolate. In sintesi estrema, utilizzando una espressione mutuata dal linguaggio radiofonico e di grandissima forza sintetica in questo contesto, potremmo affermare che “comunicare” voglia dire anzitutto porsi sulla medesima “lunghezza d’onda” rispetto a che ci sta ascoltando. Operazione da non poco, si obietterà. Noi consapevoli dei nostri tanti limiti, ci auguriamo di esserci riusciti in quanto appena scritto.

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Le Istituzioni alle prese con le nuove forme di comunicazione di Andrea Mastrofrancesco Con il miglioramento delle tecnologie comunicative ci siamo abituati sempre più ad essere continuamente “bombardati” di notizie, newsletter, sms, internet etc., ormai non siamo più noi a dover cercare le notizie, ma sono loro che cercano noi. Le istituzioni però (Stato, Regioni, Province, Comuni, etc. ), nella corsa alla notizia hanno deciso di partecipare più tardi del previsto. Solo negli ultimi anni, infatti, si sono lasciate coinvolgere, ed ecco che, si è assistito al proliferare di uffici stampa, siti internet, periodici cartacei ed altre molteplici forme di comunicazione. Questo ritardo però ha avuto i suoi effetti positivi, al punto che le istituzioni hanno avuto tempo e modo di metabolizzare le nuove forme di comunicazione, le hanno fatte proprie e ora riescono a sfruttare appieno le potenzialità a loro disposizione: i siti internet sono gestiti in modo lineare e coerente, aggiornati frequentemente e, soprattutto di facile consultazione. L’avvicinamento a queste nuove tecnologie comunicative ha permesso alle istituzioni di informare correttamente il cittadino e di far chiarezza sul proprio operato; viceversa ha permesso all’utente di avere delle istituzioni (spesso viste come qualcosa di poco affidabile) un’immagine più trasparente. In altre parole, quanto più chiara, diretta e accessibile è la comunicazione, tanto più può favorire il riavvicinamento delle due parti permettendo ad entrambe di far comprendere meglio le proprie esigenze e far tornare quella fiducia troppo spesso disattesa. Ovviamente la situazione non è tutta rose e fiori; attualmente c’è un solco tra le grandi realtà comunicative, in gran parte ad appannaggio di istituzioni nazionali e grandi comuni, e la situazione, spesso grave che troviamo nei piccoli comuni italiani. Per gestire e

governare al meglio questi processi ci vogliono comunicatori esperti e capaci, consapevoli dell’importanza dei loro compiti e, soprattutto, dell’intricato quadro legislativo entro cui sono chiamati a muoversi. Non c’è soltanto la Costituzione, ci sono le leggi regolamentate dal “diritto dell’informazione” e c’è la legge sulla privacy, che ha impegnativi risvolti sull’attività del comunicatore. Formazione professionale ed etica sono perciò due imperativi ai quali nessun addetto stampa/giornalista o aspirante tale può sottrarsi. Probabilmente per mancanza di fondi, o forse per la difficile comprensione dell’importanza dell’argomento spesso i comuni meno estesi non si dotano di una figura esperta, inserita nel ramo del giornalismo che possa coordinare e gestire un piccolo ufficio stampa. L’assenza di personale addetto e qualificato si ritorce contro la qualità dell’informazione, questo perché si ritiene l’ufficio stampa come qualcosa di secondario con mansioni semplici che può svolgere chiunque, a volte si preferisce avere all’interno dell’organigramma un giornalista compiacente piuttosto che professionale senza pensare che questa forma di clientelismo porta spesso a risultati disastrosi. L’ufficio stampa non è una spesa insostenibile; può funzionare anche con un solo impiegato qualificato che prenda la briga di far svolgere al suddetto ufficio la sua funzione primaria, ovvero quella di informare i cittadini, tramite il mezzo a loro più congeniale o più facilmente con l’utilizzo di diversi mezzi di comunicazione contemporaneamente secondo un strategia preventivamente studiata, perché nella comunicazione non ci si può permettere il lusso di improvvisare. Allora bisogna cambiare mentalità e chiedere a tutte le istituzioni di proporre una politica comunicativa nuova, chiara, trasparente e professionale, soltanto così la qualità dell’informazione potrà giovare sia a chi la comunicazione la crea e soprattutto a chi la riceve; John Maynard Keynes diceva che “La difficoltà non sta nel credere alle nuove idee, ma nel fuggire dalle vecchie“, potremmo dire che la corsa è già iniziata.

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La nuova socialità attraverso il web di Stefania Nirchi Molti sono gli studi di settore che ormai da tempo affermano che la società attuale è fortemente caratterizzata da una crescente penetrazione delle nuove tecnologie della comunicazione. A tale riguardo, il processo oggetto di studio di questo saggio è la nuova modalità del comunicare, che potremmo definire tecnologica. La comunicazione, infatti, oggi va intesa e interpretata a partire dall’evoluzione dei media; essa acquista spazi sempre più ampi in virtù di un processo evolutivo dei media (oralità, scrittura, stampa, mass-media, computer, reti telematiche, realtà virtuale, ecc.). Un tempo (fase dell’oralità), la comunicazione avveniva tra soggetti che condividevano una stessa dimensione spazio-temporale, cioè i soggetti erano calati in un ambiente sociale condiviso sia fisicamente che cognitivamente (psicologicamente). La comunicazione era, a sua volta, inserita in una dimensione simbolica condivisa dai soggetti (Ong, 1986). Infatti, non tutto era possibile comunicare: la comunicazione era sottoposta ai vincoli della religione e del segreto, che ne limitavano la circolazione. L’accesso avveniva solo attraverso riti di iniziazione. Possiamo dire che la comunicazione era soprattutto relazione tra due soggetti. Con la nascita della scrittura prima (soprattutto quella alfabetica) e con l’invenzione e la diffusione della stampa poi, la comunicazione subisce una prima trasformazione. Alla condivisione della dimensione spazio-temporale, grazie alla stampa è ora possibile comunicare a distanza; non solo comunicare a distanza, ma anche comunicare con il non contemporaneo: la comunicazione non avviene più tra soggetti inseriti in una dimensione spazio-temporale condivisa, ma avviene tra soggetti situati in luoghi e tempi diversi. Tra chi scrive (atto del comu-

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nicare) e chi legge (atto del comprendere) non c’è più condivisione, scambio, turno di parola, ma distanza: i due momenti sono separati. Ma appunto se da un lato la comunicazione perde qualcosa, almeno dal punto di vista della presenza degli interlocutori, dall’altro acquista spazi sempre maggiori, ovvero la comunicazione si apre alla dimensione ermeneutica, il che vuol dire che oltre a “giocarsi” in tempi e luoghi diversi, può essere interpretata e quindi essere esposta alla correttezza dell’interpretazione, all’incomprensione e all’inconoscibilità dell’altro. Se con la scrittura e la stampa la comunicazione subisce una prima trasformazione, con l’avvento dei mass-media e con lo sviluppo delle nuove tecnologie ne subisce una seconda. Pensare dunque al sociale significa pensare soprattutto alla comunicazione, ovvero alle modalità comunicative con le quali gli uomini decidono di stare insieme. Tuttavia osservata dal punto di vista dell’evoluzione mediale la comunicazione appare sempre più come dimensione autonoma, che si stacca dai soggetti divenendo realtà emergente che va oltre le singolarità. In questa prospettiva, sociale e individuale appaiono come due dimensioni separate. È la logica stessa della comunicazione a creare le condizioni di separazione fra dimensione sociale e dimensione individuale. Pensare al sociale in questi termini significa pensare ad un sociale sempre più astratto, in quanto svincolato dai presupposti della materialità; generalizzato, in quanto sempre meno caratterizzato dalle singolarità e specificità di ogni singolo individuo; mediatizzato, in quanto sempre più dominato dalla relazione uomomacchina (o tecnologia). All’interno di un sociale così caratterizzato (astratto, generalizzato e mediatizzato) che posto occupa l’individuo? E ancora: in che modo reagiscono i soggetti di fronte ad un sociale dominato dalla mediazione tecnologica della comunicazione? Esistono spazi intermedi caratterizzati da una comunicazione


meno astratta e meno generalizzata? Ma ad uno sguardo più attento il sociale appare una “realtà” ben più complessa. Se da una parte troviamo una realtà del sociale che prescinde in modo sempre crescente dai singoli soggetti, dall’altra incontriamo movimenti, nuove modalità relazionali, nuovi modi di “stare insieme” che sorgono entro la rete telematica “Internet”. Qui parliamo di tutti quei fenomeni come le chat, le e-mail, i MUDs, i forum telematici, che mettono in luce una straordinaria capacità dei soggetti di dar vita a nuove relazioni, indubbiamente mediatizzate, in quanto caratterizzate dalla mediazione tecnologica della comunicazione, ma meno astratte e meno generalizzate e più concrete. Concreto qui vuol dire che questo sociale, seppur mediatizzato da comunicazioni a distanza sincrone o a sincrone, vive e si nutre di queste relazioni che generano nuovi legami sociali. Certamente relazioni diverse rispetto al passato, ma non per questo meno importanti o meno significative. Infatti, queste relazioni, pur creando legami sociali deboli (effimeri, contingenti, instabili, ecc.) in quanto fondati sull’istantaneità comunicativa e sul caso, paradossalmente sono accompagnate da un’elevata intimità socio-comunicativa., che si caratterizza come una vera e propria messa a nudo della soggettività. È proprio attraverso queste relazioni che emergono quelle dimensioni di socievolezza, di nomadismo (desiderio dell’altrove) e di comunità che sono alla base di un’altra idea di sociale, o meglio di ciò che fa sociale. In queste relazioni non è in gioco la persona (l’identità sociale), ma l’individuo (la sua singolare identità). In questa nuova prospettiva viene meno la contrapposizione marcata tra ambiente virtuale e ambiente reale, tra identità on line e off line, portando ad una formulazione dell’identità in termini di relazione tra off e on line. In queste relazioni non c’è in gioco tanto l’appartenenza, ma piuttosto la fine dell’appartenenza; non l’immunitas (Esposito, 2000), ma la communitas (Esposito, 1998), ovvero il

contatto, il contagio, la contaminazione. Probabilmente, gli uomini in futuro troveranno altre forme comunicative (modalità di stare insieme) più sofisticate delle nostre oppure creeranno forme comunicative molto semplici tanto che le nostre discussioni e i nostri problemi appariranno agli uomini di domani semplici passatempi, senza tuttavia superare il bisogno di una nuova semantica per descrivere la società. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: BOCCIA ARTIERI, G., I media-mondo. Forme e linguaggi dell’esperienza quotidiana, Roma, Meltemi, 2004; ESPOSITO R., Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002; ESPOSITO R., Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, Einaudi, 1998; nuova ed. 2006; FLICHY, P. (1996), L’innovazione tecnologica. Le teorie dell’innovazione di fronte alla rivoluzione digitale, Milano, Feltrinelli, (ed. orig. 1995); LECCARDI, C., JEDLOWSKI, P., Limiti della modernità, Bologna, Il Mulino, 1999; LÉVY, P., Le tecnologie dell’intelligenza, Bologna, A/ Traverso, 1992, (ed. orig. 1990); LÉVY, P., L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspace, Milano Feltrinelli, 1996, (ed. orig. 1994); MANTOVANI, G., Comunicazione e identità, Bologna, Il Mulino, 1995; ONG, W. J., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986, (ed. orig. 1982).

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La comunicazione nei Sistemi di Gestione Aziendali di Gianluigi Pezzulo Un efficace processo di comunicazione è una delle esigenze fondamentali per la gestione di un’impresa. Al contrario, molti dei problemi che un’organizzazione riscontra all’interno o con i propri clienti possono essere spesso ricondotti ad una scarsa comunicazione. Anche per i noti standard volontari di gestione ISO della serie 9000, 14000 e OHSAS 18000 la comunicazione è uno dei requisiti fondamentali, con una duplice valenza: le norme si riferiscono alla comunicazione interna ed esterna. Per quanto riguarda la comunicazione interna, le finalità del requisito espresso dalla norma ISO 9001 (punto 5) e dalle norme ISO 14001 e 18001 al punto 4.4.3, sono essenzialmente tre: 1. Coinvolgimento, affinché il personale dell’impresa sia motivato nello svolgimento del proprio lavoro 2. Informazione, affinché i dipendenti abbiano tutte le informazioni necessarie per lo svolgimento del proprio lavoro. 3. Consapevolezza, affinché il personale sia informato sui principi, sulle politiche, sulle strategie che regolano e definiscono il comportamento dell’impresa. Allo stesso modo, al punto 4.2, la OHSAS 18001 prescrive che la politica deve essere comunicata a tutto il personale che lavora sotto il controllo dell’organizzazione, affinché sia consapevole dei propri obblighi individuali nel sistema di gestione della sicurezza. A seconda del tipo di struttura e del tipo di comunicazione da effettuare, l’organizzazione può scegliere il metodo che più ritiene efficace per raggiungere tale scopo. Occorre tener presente, tuttavia, che definire

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un metodo di comunicazione è funzionale alle necessità interne dell’organizzazione ed è necessario per una efficace gestione dei processi. La gestione delle non conformità o dei reclami, ad esempio, presuppone un efficace metodo di comunicazione: interna, che permetta la registrazione dell’evento, l’analisi delle cause la definizione del trattamento; ed esterna, verso i clienti e le parti interessate. Il presupposto della comunicazione è anche alla base di altri requisiti richiamati nella 9001, come ad esempio al punto 7.2, nella definizione delle esigenze implicite ed esplicite del cliente. La ISO 9001 afferma infatti che le organizzazioni devono stabilire ed attivare modalità efficaci per comunicare con il cliente in merito a: • informazioni relative al prodotto; • domande; • gestione di contratti o ordini e relativi emendamenti; • informazioni di ritorno da parte del cliente, inclusi i suoi reclami. L’azienda deve quindi mettere in atto un sistema di comunicazione che le permetta di ricevere e gestire le informazioni, in modo tale da riuscire a recepire anche le esigenze non espresse del cliente. Nonostante, quindi, la ISO 9001 non indichi esplicitamente la necessità di una procedura documentata, questa potrebbe essere opportuna, al fine di assicurare un’efficace gestione del processo di comunicazione con il cliente. Ancora più espliciti sono i riferimenti alla comunicazione che ritroviamo nei sempre più diffusi standard ISO 14001 e OHSAS 18001, dove Comunicazione, Partecipazione e Consultazione rappresentano un riferimento fondamentale del paragrafo 4.4. - Attuazione e Funzionamento. La norma ci dice che l’organizzazione deve, in relazione ai propri pericoli e al Sistema di Gestione di Sicurezza, stabilire, attuare e mantenere attive delle procedure per:


A) assicurare la comunicazione interna fra i differenti livelli e le diverse funzioni dell’organizzazione B) ricevere, documentare e rispondere alle richieste pertinenti provenienti dalle parti interessate esterne. Allo stesso modo fra i requisiti di attuazione e funzionamento di un Sistema di Gestione Ambientale c’è quello espresso nella ISO 14001:04 al paragrafo 4.4.3 - Comunicazione, in cui si definisce che l’organizzazione deve, in relazione ai propri aspetti ambientali e al proprio SGA stabilire, attuare e mantenere attive una o più procedure per: A)assicurare la comunicazione interna fra i richieste pertinenti provenienti dalle parti interessate esterne. E così, anche in fase di verifica di conformità agli standard di riferimento è inevitabile una valutazione da parte dell’auditor dei metodi adottati dall’azienda e dell’efficacia dei processi di comunicazione. La gestione di tale requisito verrà desunta dall’Auditor attraverso l’analisi e l’osservazione di registrazioni di qualsiasi tipo: affissioni in bacheca, verbali di riunioni, mail, fax, siti internet. Un valutatore attento infatti può osservare le strategie e le prassi comunicative dell’azienda già dall’inizio dell’Audit (dall’immagine aziendale intesa come presentazione dell’azienda: brochure, utilizzo di loghi, scelta delle immagini, arredamenti, abbigliamento del personale, fino alla distribuzione di norme di comportamento in caso di emergenza, regole sull’accesso dei visitatori, affissioni nei luoghi di passaggio e aree comuni delle regole dell’organizzazione, etc.). Il processo di comunicazione sottende alla gestione della maggior parte dei requisiti delle norme volontarie. In maniera implicita o esplicita, come su evidenziato, la comunicazione è funzionale all’applicazione degli standard. Un’accezione più generale del concetto di comunicazione è funzionale alla vita stessa dell’organizzazione aziendale.

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Comunicazione politica: il marketing di Obama di Chiara Foglietta Quando si parla di comunicazione politica, si fa riferimento al prodotto dell’interazione fra i tre attori della polis: il sistema politico (le istituzioni, i partiti, i politici), la cui natura influenza direttamente il tipo di comunicazione politica; il sistema dei mass media (le imprese di comunicazione, i giornalisti), uno dei principali sistemi di diffusione delle informazioni, e infine, il destinatario della relazione, il cittadino/elettore, considerato che è evidente che la finalità della comunicazione politica sia quella di trasmettere informazione per consolidare il consenso o per acquistarne in vista di un confronto elettorale. In questa definizione rientra l’origine e la trasformazione dei modelli dello spazio pubblico di Hannah Arendt1 e di sfera pubblica borghese di Jürgen Habermas2, teorie che vedono nel pubblico dei cittadini il depositario delle strutture e dei processi della democrazia, cioè del controllo e della gestione del potere. La storia della comunicazione politica inizia nello stesso momento in cui la filosofia greca comincia a riflettere sul potere, sull’autorità, sulla democrazia. Platone e Aristotele non usano mai il termine di comunicazione ma dall’osservazione e dall’analisi della realtà politica del loro tempo emergeva il potere della retorica, ovvero l’arte della persuasione. I pensatori greci attribuiscono alla retorica, dialettica e sofistica3 un ruolo fondamentale perché attraverso queste arti i cittadini si scontrano, discutono, collaborano, decidono: in altre parole, fanno politica. Ovviamente la comunicazione politica è legata alla realtà storica in cui gli attori interagiscono: Jay Blumler e Dennis Kavanagh4 propongono una prospettiva temporale della comunicazione politica, individuando tre grandi fasi dal secondo dopoguerra a oggi. La prima fase si colloca

nell’immediato dopoguerra, negli anni in cui la scena politica era dominata soprattutto dai partiti che svolgevano il loro principale ruolo di trasmissione di messaggi tra il sistema politico e i cittadini. In questo periodo era forte lo spirito di appartenenza e i cittadini tendevano a votare sulla base di identificazioni di gruppo. La seconda fase vede la nascita del mezzo televisivo e un graduale allentamento della fedeltà ai partiti. La televisione permette a tutti i soggetti politici di apparire in pubblico e di raggiungere ampi segmenti dell’elettorato, aumentando così le proprie possibilità d’impatto. La terza fase è ancora in atto e molte delle sue caratteristiche si stanno sviluppando in tempo reale. La televisione come mezzo d’informazione politica si è ulteriormente ampliata e nuovi canali di comunicazione stanno conquistando una parte molto importante della sfera pubblica e privata della politica, proponendosi come alternative all’informazione ufficiale di televisione, radio e giornali, tradizionalmente riconosciute dal potere. I nuovi modelli di comunicazione si basano, infatti, sull’estrema spettacolarizzazione dell’esperienza politica: ogni incontro del leader con i propri sostenitori diventa un evento, la cui copertura mediatica è fondamentale, e questo accade a livello nazionale ma sorprendentemente anche a livello locale. Si assiste dunque a una semplificazione “televisiva” del dibattito politico in pochi temi estremamente sintetici presentati dal leader di partito o dal principale candidato alla carica politica o amministrativa. Negli ultimi anni è emersa una fortissima tendenza alla personalizzazione politica: ciò che conta ora è la scelta del candidato, la sua capacità di essere leader e di saper guidare. Il dibattito non avviene più tra portavoce d’ideologie opposte, ma diviene uno scontro tra leader che incarnano i valori supportati in quel momento. Quest’atteggiamento rappresenta un tentativo di rispondere al sempre maggiore distacco dei cittadini dalla politica: attraverso una comunicazione veloce, dei partiti e dei mass-media per mantenere alto il grado di at-

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tenzione dell’elettorato. Il marketing diventa, per questo motivo, uno strumento necessario per analizzare il comportamento elettorale, riconoscere il potenziale elettore, trasmettergli un messaggio, aiutare il politico a essere più efficace nel dialogare con l’opinione pubblica. In senso dinamico il marketing politico può essere definito come l’analisi, la pianificazione, l’implementazione e il controllo di programmi volti a massimizzare la risposta in voti a ogni scadenza elettorale e a ottimizzare i contributi finanziari e il numero di sostenitori di un partito, di un programma o di un candidato, al fine di raggiungere gli obiettivi stabiliti. Gli strumenti per raggiungere tali scopi sono diversi: Philippe Maarek, nel suo manuale di marketing politico, divide gli strumenti del marketing in tre categorie: le tecniche tradizionali, le tecniche audiovisive, le tecniche di marketing diretto5. Le tecniche tradizionali sono a loro volta classificabili in due gruppi: le tecniche “interattive” e quelle “unidirezionali”. Le prime implicano contatti diretti tra il candidato e i suoi potenziali sostenitori, come i comizi di piazza, i banchetti e comitati di sostegno, gli incontri con gruppi e movimenti. Le tecniche “unidirezionali” classiche sono per lo più di natura scritta: la stampa di propaganda, il manifesto, i gadget. Le tecniche audiovisive sono legate in prevalenza al mezzo televisivo: realizzazione di spot, partecipazione alle tribune autogestite, a programmi di dibattito e a programmi culturali o d’intrattenimento. Le tecniche di marketing diretto sono state quelle che hanno registrato l’utilizzo più recente e più impressionante nelle campagne elettorali: il mailing, ossia l’invio tramite posta di messaggi a indirizzari mirati, a target selezionati previa analisi della composizione sociale dei collegi elettorali; il telemarketing. L’avvento dei nuovi media telematici, di rete e multimediali, ha ulteriormente ampliato la gamma della strumentazione di marketing diretto: dalla distribuzione di prodotti video e multimediali, ai siti internet dei vari partiti e comitati elettorali, all’uso di facebook.

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La prestigiosa Ad Age (Advertising Age), prima ancora che fosse eletto Presidente degli Stati Uniti, ha nominato Barack Obama “marketer dell’anno 2008”, al di sopra di marchi come Apple e Nike Il 44° Presidente degli Stati Uniti d’America ha stravinto grazie ad una comunicazione integrata a 360° che ha tenuto conto di tutti i media tradizionali e non convenzionali e di tutte le tecniche di visibilità e di contatto alternative e innovative, per questo si può dire, senza paure di smentite, che il senatore dell’Illinois ha cambiato le regole del marketing elettorale, divenendo ed elevandosi a vero e proprio “marchio” presente ovunque. Infatti, nel suo sito si leggeva: “Obama everywere”. Lo staff di Obama è stato abile a sfruttare le ampie possibilità comunicative di Internet garantendo presenza e visibilità al candidato attraverso myspace, facebook, blog, sito personale e youtube, così da stabilire sia un contatto più diretto con i potenziali elettori, sia la simpatia e il consenso soprattutto del mondo giovanile. Inoltre lo staff del Presidente ha creato operazioni e campagne di marketing virale con l’invio di sms, e-mail direttamente ai sostenitori che si erano iscritti sul sito del candidato, chiedendo anche la loro opinione, per esempio sulla scelta del suo eventuale numero due. In effetti, si è già iniziato a parlare del “caso Obama” come di un “case study” da manuale, non solo per chi si occupa di marketing elettorale e politico: sono oggetto di discussione il logo, che rappresenta il sorgere del sole; la creazione di un “brand Obama”; le strategie di merchandising e, soprattutto, la complessa e pervasiva campagna di comunicazione su Internet. Tra le opinioni più diffuse, c’è quella secondo cui Obama sarebbe riuscito a far sentire i potenziali elettori protagonisti di un cambiamento epocale. Rappresentativa è la scelta di inserire nel suo sito un grande “YOU”, nella scritta “Volunteer near YOU”, con la “O” ripresa dal suo simbolo. Analizzando la sua campagna elettorale si evince che la sua forza è stata la semplicità, la consistenza e la rilevanza. Semplice perché si è opportuna-


mente focalizzata su un concetto molto semplice qual è il “cambiamento”, che ha trainato la popolazione, convinta per il 70%, che gli USA stiano andando nella direzione sbagliata. Non si può chiudere un articolo sul marketing politico di Obama senza analizzare il suo slogan “Yes, we can”, che è forse lo slogan più incisivo, potente e collettivo di sempre, al pari solo di “I care” di Kennedy e “I have a dreem” di Martin Luter King. Semplicemente tre parole di uso comunissimo eppure potenti e profonde. Yes è la prima parola che sprigiona un potentissimo sentimento di ottimismo che deve essere la base e il punto di partenza di qualsiasi cambiamento. Obama vuole cambiare l’America e quindi il mondo, ma per farlo è necessario l’ottimismo della gente, la speranza di un futuro migliore, la fiducia. Un particolare importante è la virgola dopo la parola “Yes” che rappresenta una pausa, ossia dopo aver chiarito che è l’ottimismo il punto di partenza, la pausa segna un momento di riflessione, un momento in cui ognuno deve guardare dentro se stesso e capire se è dotato di questo sentimento positivo. We è la parola centrale. La sua posizione non è casuale perché “We”, infatti, significa noi, cioè tutta la comunità americana. Il popolo deve essere unito per poter effettuare un cambiamento, nessuno da solo può cambiare il mondo. L’ottimismo quindi è la base di partenza, ma è solo l’unione d’intenti e di sforzi che può far realizzare il cambiamento. Can è il verbo, la parola più intensa e potente di tutta la frase, che esprime due significati: poter e saper fare. In entrambi i significati, “can” esprime una volontà tenace e decisa di arrivare fino in fondo, ovvero di cambiare il mondo perché si è capaci di cambiare il mondo. Gli americani possono cambiare l’America e sanno come si cambia l’America. “Yes, we can” è un messaggio forte, intenso, che parla dritto al cuore della gente ed evidenzia che la popolazione americana ha votato Obama non solo per l’abilità del suo team che ha saputo usare strumenti innovativi del marketing poli-

tico ma soprattutto per la sua capacità di coinvolgere, di emozionare, di essere presente al fianco dell’americano medio, il quale oggi più che mai ha bisogno di sicurezza e avverte il bisogno di una svolta. NOTE 1 Nel suo libro Vita Activa. La condizione umana individua le tre condizioni dell’esistenza: il lavoro che assicura la sopravvivenza, la produzione che genera il mondo concreto in cui viviamo e lo spazio pubblico in cui gli individui interagiscono mediante la discussione cui segue l’azione come conseguenza prevalente. In questa dimensione lo spazio pubblico ha il significato politico di azione collettiva. 2 Nelle società industriali avanzate, il potere economico si intreccia con quello politico-statale, condizionandolo in maniera decisiva senza a sua volta sottostare a un controllo democratico. La tragica conseguenza di ciò è che, nel nostro tempo, è sparita la “sfera pubblica”, tema al quale Habermas dedica lo scritto del 1962 ”Storia e critica dell’opinione pubblica”, che indaga sui “mutamenti strutturali della sfera pubblica”. La sfera pubblica è quella specifica area della società borghese in cui un pubblico colto fatto di cittadini privati dibatte di questioni collettive di vario genere, sulla base della critica razionale e della “forza dell’argomento migliore”. 3 Corrente filosofica che pone al centro della sua riflessione l’uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica. 4 Blumler Jay G., Kavanagh Dennis, “The Third Age of Political Communication: Influences and Features”, Political Communication, 1999, Vol. 16, n° 3, p. 209-30. 5 Maarek, P., Communication et marketing de l’homme politique, Paris, Litec, 1992. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: ARENDT H., Vita activa, Bompiani, Milano, 1964; HABERMAS J., Storia e critica dell’opinione pubblica, Ed. Laterza, Roma-Bari, 1974; BLUMLER JAY G., KAVANAGH DENNIS, “The Third Age of Political Communication: Influences and Features”, Political Communication, Vol. 16, n° 3, p. 209-30, 1999; MAAREK, P., Communication et marketing de l’homme politique, Paris, Litec, 1992.

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Lifelong learning come leva per l’innovazione e la trasformazione delle organizzazioni. Il caso del Laboratorio di Metodologie Qualitative nella Formazione degli Adulti dell’Università Roma Tre. di Paolo Di Rienzo Ha acquisito il carattere dell’evidenza il fatto che i processi di apprendimento e di costruzione delle conoscenze, usciti dalla competenza esclusiva delle aule dell’istruzione formale, appartengono a una molteplicità di esperienze e che il corso dell’apprendimento si distende in situazioni nuove e in una dimensione del tempo spiraliforme. Tuttavia, con lo stesso grado di condizione fattuale, è pacifico constatare la difficoltà di adattarsi alla logica del cambiamento che attraversa, anche con interpretazioni diverse, i mondi dell’economia, del lavoro, della formazione, della politica. L’apprendimento inteso come cambiamento stenta ancora a essere riconosciuto come principio guida dei processi sociali, come elemento generativo e di qualità dei contesti, delle organizzazioni, delle pratiche (Di Rienzo, 2008b). La prospettiva adottata si richiama alla portata generativa del concetto di lifelong learning e riguarda l’adozione di tale concetto come categoria euristica per promuovere l’innovazione nell’ambito della ricerca e della formazione universitaria. La società conoscitiva impone un ripensamento dell’insieme delle politiche formative: la prospettiva del corso della vita e del lifelong learning apre potenzialità e orizzonti nuovi per l’istruzione e la formazione e al tempo stesso fa emergere la necessità di profondi cambiamenti sul piano teorico e su quello operativo nel campo della formazione permanente e della stessa formazione in età

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adulta, anche della formazione universitaria. L’università, nello specifico, si trova di fronte una domanda di formazione del tutto diversa da quella abituale, che è in relazione con l’esigenza di porre al centro dell’attenzione il valore dei soggetti e della conoscenza all’interno dei contesti organizzativi, risorse preziose che necessitano di sviluppo, di continua implementazione anche per anticipare gli effetti del cambiamento. In questo quadro emerge con forza la centralità dell’apprendimento, focus cruciale alla base della missione dell’università per la potenziale capacità di rispondere alle mutevoli e specifiche esigenze provenienti dal mondo del lavoro, dal tessuto economico e sociale (Alberici, 2007). Esigenze legate anche al rapido invecchiamento della popolazione. A partire da questo punto di vista, verrà ricostruito, nelle sue tappe salienti, il percorso scientifico e di ricerca che in questi anni ha contraddistinto le esperienze svolte nell’ambito delle attività del Laboratorio di Metodologie Qualitative nella Formazione degli Adulti (d’ora in poi anche MetQualFa) dell’Università Roma Tre. Contesto che si è recentemente arricchito dal momento che è stato istituito il Centro Interdipartimentale di Servizi per il Bilancio di Competenze. Il Laboratorio MetQualFa ha l’obiettivo di sviluppare e consolidare la ricerca teorica e i suoi aspetti applicativi in merito agli approcci ed ai metodi qualitativi nell’ambito della formazione continua, della formazione dei formatori, in generale della formazione degli adulti nella prospettiva dell’apprendimento permanente. Il Laboratorio è organizzato in due sezioni prevalenti di ricerca e di sperimentazione didattica specifici: Metodologie Biografiche in ambito formativo e Bilancio di Competenze. Nel corso degli anni, rispetto ad un discorso di tipo prevalentemente metaforico-evocativo sugli scenari della modernità, si sono sempre più definite concezioni, logiche, pratiche che si ispirano a prospettive teoriche diverse. E pur nella consapevolezza dei limiti di talune concezioni, colti negli eccessi produttivi-con-

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sumistici dell’informazione/conoscenza e nel rischio sociale dell’esclusione e dell’ineguaglianza delle opportunità, si è sostenuto d’altra parte il ruolo centrale dell’apprendimento permanente per favorire uno sviluppo in senso umano, legato essenzialmente alla promozione di pensiero critico, riflessivo e proattivo (Alberici, 2002). A fronte delle letture sulla modernità che, focalizzando l’attenzione sul ruolo della conoscenza e dell’apprendimento nella dimensione del lifelong learning, hanno sovente adottato in modo esclusivo un punto di vista economico-funzionale anche per descriverne i possibili sviluppi, la concezione che qui viene adottata sviluppa il concetto relativo al carattere generativo e trasformativo del lifelong learning, per i singoli e le organizzazioni sociali, se inteso in senso formativo secondo un approccio qualitativo. Si tratta di un diverso e in parte nuovo paradigma che -sostanzialmente definito dall’adozione del punto di vista che considera, nelle società complesse aperte ai processi democratici, l’apprendimento permanente come chiave per il cambiamento individuale e collettivo - si esprime peculiarmente nell’espansione reciproca delle possibilità e delle libertà degli esseri umani, a partire dal valore della capacitazione come condizione effettiva di esercizio della cittadinanza per lo sviluppo personale, sociale e la crescita economica (Alberici, 2008; Sen, 2001). Un paradigma caratterizzato dunque dalla dimensione culturale e centrato sul soggetto inteso come “soggetto epistemico” e sulle sue potenzialità generative. Il paradigma del lifelong learning richiede una generale adattabilità dei e nei sistemi formativi, al fine di porre le premesse per una qualificazione continua del profilo culturale (saperi, abilità, competenze) della popolazione. Nell’ambito dei sistemi di istruzione e formazione, l’università, su cui si concentrano le riflessioni del presente contributo, costituisce un caso di studio particolarmente interessante se colto nella dimensione del cambiamento finora delineata. Dalla lente

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di lettura dei processi che caratterizzano il sistema università secondo la prospettiva del lifelong learning, emergono, tra gli altri, nodi concettuali che mettono in luce con netta evidenza la complessità del rapporto tra adulti e saperi e in generale dei processi di apprendimento nella dimensione del corso di vita. Ciò contribuisce a delineare nuove direzioni e finalità della ricerca e della formazione universitaria. In primo luogo è necessario riflettere sulle metodologie e sui protocolli della ricerca e della formazione universitaria innovativi e più consoni al paradigma del lifelong learning, anche rispetto al problema della dispersione di studenti adulti lavoratori, che esprimono una domanda di apprendimento permanente. Un fenomeno di cui si ha conoscenza approssimata sia sul piano quantitativo sia su quello per più significativo della qualità e delle variabili ad esso relative. In questo senso, allo scopo di costruire un progetto formativo calibrato sulle caratteristiche dei soggetti e per questo dunque innovativo e individualizzato, la disponibilità di un quadro conoscitivo di riferimento costituisce una condizione di fattibilità. Uno studio di tale natura affronta alcuni tra i nodi e le dimensioni peculiarmente significativi: • motivazione; • percorsi di studio, di lavoro, di vita; • progettualità, aspettative; • blocchi, impedimenti, ostacoli personali o ambientali; • conoscenza delle carenze e delle difficoltà dei soggetti; • conoscenza e consapevolezza delle loro potenzialità; • sostegno alla rimotivazione; • funzione di riorientamento. In questa direzione è andata la ricerca relativa al progetto di Innovazione Didattica che ha interessato le attività del Laboratorio MetQualFa e che si riferisce propriamente alla individuazione e sperimentazione di attività realizzate con gli studenti (approccio biografico e bilancio delle competenze) in


funzione di orientamento, rimotivazione, organizzazione di servizi, opportunità per i diversi target della popolazione universitaria o comunque adulta (in funzione del rientro negli studi). Tale ricerca ha permesso di: • realizzare un “contatto” personalizzato tra la Facoltà/Istituzione e i soggetti in ritardo in difficoltà, “irregolari” rispetto ai corsi di studio; • fare emergere le variabili individuali del rallentamento o dell’abbandono degli studi, attraverso la pratica del Bilancio delle Competenze; • fare emergere le ragioni organizzative istituzionali del rallentamento o dell’abbandono degli studi; • produrre progetti individualizzati per la ripresa degli studi stessi; • consentire la progettazione di un modello di servizio permanente di Bilancio delle competenze da mettere a disposizione della Facoltà e/o dell’Ateneo. Dal lato della domanda universitaria relativa ad anni accademici recenti, i dati rilevati evidenziano l’esistenza di una realtà fenomenica inusuale: la presenza di adulti all’università acquisisce una rilevanza significativa e per certi versi strutturale. A leggere le rilevazioni statistiche dell’anagrafe studenti del MIUR emerge, nella nettezza di una tendenza che sembra consolidarsi nel tempo, che negli ultimi anni accademici (dal 2003-04 al 2007-08) la presenza della popolazione ultratrentenne ha assunto dimensioni stabili intorno al 10%. In questo caso, l’interpretazione del fenomeno sulla base delle misure strettamente quantitative potrebbe indurre a pensare alla definizione della domanda di formazione costituita da soggetti in ritardo rispetto alla norma dell’età stabilita dal passaggio all’università da parte degli studenti che completano il ciclo degli studi della scuola secondaria. Interpretazione rinforzata o comunque di solito basata su un’idea semplificata e deterministica dell’età adulta, legata a una concezione dello sviluppo lineare, definita da fasi e sequenze

giustapposte, alla luce delle quali la domanda di formazione universitaria degli adulti può essere letta come dettata da un bisogno compensatorio e di recupero. In questo senso una dilatazione della popolazione studentesca, un ampliamento della base dei fruitori dell’offerta verso fasce d’età non regolari conduce alla inclusione degli adulti dentro la categoria degli studenti ritardatari. Se non ché, ciò che appare come un’anomalia - che comporta il posizionamento del fenomeno degli adulti all’università nelle categorie dei tempi canonici di studio e di lavoro tuttora in uso nonostante il carattere sostanziale dei processi globali di cambiamento delle condizioni di vita - viene completamente ribaltata da un’interpretazione che, richiamandosi alla dimensione del lifelong learning, mette il luce, anche sulla base di strumenti conoscitivi di carattere non standard e volti alla comprensione in profondità della soggettività, la trasformazione di natura non semplicemente numerica della domanda di formazione espressa. Come viene sostenuto nel rapporto di ricerca PRIN “Accoglienza, primo orientamento e tipologia dell’offerta didattica per gli studenti adulti iscritti ai corsi di laurea di nuovo ordinamento”, gli studenti adulti che decidono di intraprendere il percorso di studi universitario rappresentano anche in modo peculiare l’emergere del desiderio di mettersi in gioco, di motivazioni per un processo di cambiamento «rivolto alla propria persona, diretto a fornire senso, energia e prospettiva allo sviluppo del sé e delle sue risorse interne» (Alberici - Catarsi - Colapietro - Loiodice, 2007, p. 13). Si è in presenza quindi di un fenomeno che si va definendo in una dimensione di vita sempre più strutturale orientata all’apprendimento lifelong, che fa riferimento a una trasformazione profonda dei modi di intendere i processi di apprendimento di formazione e di lavoro, il concetto di età adulta, la categoria del tempo legata ai concetti di durata e pervasività. L’impianto metodologico di natura qualitativa della ricerca che ha trovato rispondenza pratica nella messa in campo di

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metodi e strumenti pertinenti al bilancio di competenza e all’intervista biografica, peraltro frutto di una elaborazione e sperimentazione presso il Laboratorio MetQualFa dell’Università Roma Tre, ha consentito l’analisi e l’autoanalisi della domanda, la costruzione di storie biografiche, la definizione dei percorsi, la generazione dei progetti (Serreri, 2007). Il Bilancio delle competenze in quanto metodo di analisi delle competenze, delle attitudini e del potenziale dell’individuo in funzione di un progetto professionale e/o di formazione, può essere usato all’interno di un progetto di rimotivazione e di orientamento allo studio di studenti che hanno avuto un forte rallentamento, un’interruzione o un abbandono del loro percorso di studi universitari. Siamo in presenza, quindi, di un universo nei confronti del quale un approccio nell’ottica delle competenze appare, in linea di ipotesi, sufficientemente giustificato. La metodologia è di tipo qualitativo. Il soggetto viene “facilitato” dal consigliere di Bilancio nella ricostruzione del proprio passato e delle esperienze fatte. Ciò, al fine di individuare i punti forti ed i punti deboli in funzione della messa a punto di un progetto di sviluppo in campo professionale o nel campo degli studi. Gli strumenti che si utilizzano sono diversi e, rispetto al modello adottato, tutti di tipo qualitativo (storie di vita, griglie di autovalutazione, prove attitudinali, ecc.). In questo modo il soggetto rivisita e reinterpreta il proprio passato in funzione del futuro; futuro che viene “disegnato” nel documento di sintesi finale. Il rapporto con i soggetti del Bilancio è prevalentemente individualizzato e personalizzato, salvo alcuni momenti misti, individuali e di gruppo. Tale rapporto comporta una disponibilità e un coinvolgimento responsabile dei soggetti e quindi un intenso lavoro preliminare per creare le condizioni di fattibilità degli interventi (Serreri, 2001). La procedura si snoda in tre fasi: • prediagnostica; • di approfondimento; • di sintesi.

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Emerge un quadro diverso e rinnovato che in primis ridefinisce e amplia il concetto stesso di adulto e di adultità intesi, adottando come chiave interpretativa i fattori di cambiamento e transizione (Bresciani - Franchi, 2006), nel senso di descrizione dei processi di adultizzazione in una dimensione generale dinamica rispetto ai diversi contesti e in rapporto alla differenza di genere. In questo senso si interpreta la presenza, nei sistemi di istruzione formale e in particolare di formazione superiore, come quella universitaria, di una popolazione che per età, ruoli sociali, esperienze professionali e motivazioni non rientra in quella cosiddetta canonica (Alberici, 2007). Si tratta dunque di una popolazione universitaria che modifica il quadro conoscitivo dal punto di vista qualiquantitativo e che rappresenta più in generale la condizione di soggetti che esperiscono situazioni di vita e sistemiche mutate. Rispetto ai bisogni, alle aspettative e ai desideri, si può sostenere che è sempre più pregnante una richiesta di formazione di qualità che si esprime come domanda di crescita culturale, professionale, umana, che può realizzarsi se fondata sulla promozione e lo sullo sviluppo della competenza di apprendere ad apprendere. Ciò richiede una ridefinizione delle teorie e delle pratiche formative.


A partire da una questione centrale per i processi di innovazione e qualificazione dell’offerta formativa, anche per andare nella direzione di una progressiva flessibilità e individualizzazione dei processi di apprendimento, costituita dalla possibilità di riconoscere e valutare gli apprendimenti pregressi anche quelli di natura professionale ed esperienziale. Nella prospettiva del lifelong learning oggetto di riflessione non è più la questione relativa alla domanda se gli adulti apprendono, ma emerge con sempre maggiore evidenza la nuova complessità del rapporto tra adulti e apprendimento. Si tratta in effetti di un rapporto sempre più caratterizzato dalla pluralità delle dimensioni adulte, dalla molteplicità e incidenza dei contesti in cui essi si trovano e dal bisogno di senso da attribuire al loro conoscere e fare. L’apprendimento, da questo punto di vista, si realizza come processo continuo all’interno di una dimensione ecologica di sviluppo, che supera le tradizionali barriere e separazioni tra i contesti formali, non formali e informali (Di Rienzo, 2008a).Il sistema università, pur in considerazione dei processi di innovazione che da quasi un decennio e con diversi gradi di realizzazione lo vanno variamente caratterizzando (si consideri in proposito l’ampia documentazione che viene ricondotta al cosiddetto “Processo di Bologna” e a livello italiano il quadro normativo relativo alla riforma degli ordinamenti universitari) e al pari del complessivo sistema della formazione permanente, risulta arretrato e caratterizzato da politiche spontaneistiche e di breve respiro, rispetto alle necessità poste dal modello di cambiamento che vede il lifelong learning come suo fulcro. Un’inadeguatezza strutturale rispetto alla definizione delle condizioni e alla creazione dei contesti formativi affinché si possano orientare i processi verso l’acquisizione di competenze di natura complessa, come peraltro emerge in documenti abbastanza recenti, quale per esempio i cosiddetti Descrittori di Dublino, e il progetto rela-

tivo alla definizione delle competenze chiave (Rychen D. S. - Salganik, 2001). Ciò nonostante, a partire da una dimensione locale di ricerca come la sperimentazione di metodologie qualitative presso alcune università è possibile pensare di intraprendere altre direzioni. Dunque, l’approccio qualitativo con cui si definisce l’interpretazione formativa del lifelong learning è fortemente ancorato a evidenze empirico-sperimentali e allo stato attuale della ricerca presenta come elementi caratterizzanti: • la concezione temporale di natura complessa che, abbandonata la visione lineare, proietta i soggetti e le organizzazioni in una dimensione ecologica, storico-evolutiva e si esprime nell’idea ciclica del tempo: il passaggio insomma da un’idea di tempo semplificatorio, discontinuo, locale, rigido, a un’idea di tempo fluido, pieno di relazioni, vasto, elastico, flusso continuo di esperienze (Fabbri, 1990, pag. 22). • l’unità funzionale soggetto-ambiente: si tratta di centrare la formazione sul soggetto inteso come attore sociale, partecipe al processo di creazione dei significati, protagonista attivo nella costruzione di conoscenza e nel processo di apprendimento, incluso in modo costitutivo nei contesti di vita; il comportamento strategico dei soggetti è tale rispetto alla possibilità di essere lifelong learner (Di Rienzo, 2006); • la competenza di apprendere: radicale trasformazione dei concetti di saperi di base, di capacità e di abilità necessarie nei diversi contesti di vita, in direzione dell’emergere del concetto di competenza strategica che implica una dimensione dinamica e permanente dei processi formativi orientati alla promozione di apprendimenti di secondo livello. La competenza strategica consiste nella capacità e volontà di mobilitazione delle diverse risorse (biografica, matacognitiva, simbolica, emotivo-sociale) dell’individuo attraverso un’agire riflessivo e proattivo capace di produrre significato. L’esercizio di tale competenza è la condizione necessaria per rendere

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possibile lo sviluppo della potenzialità apprenditiva degli esseri umani durante tutta la vita (Alberici, 2004); • il valore generativo dell’esperienza: l’esperienza rimanda al contesto dei processi di cambiamento e l’apprendimento si comprende solo in ragione della relazione con quel contesto. Ne deriva che essere competenti nella prospettiva del corso della vita implica tra l’altro un’attenzione riflessiva nei confronti dell’esperienza. Tale disposizione, intesa come pratica di pensiero che consente di valutare gli abituali modi di conoscere/apprendere e di proiettare i soggetti in una prospettiva di cambiamento, al fine anche di trovare soluzioni più significative, promuove la competenza strategica di apprendere ad apprendere. Sapere mettere in atto pratiche di discussione, analisi, esame e cambiamento delle condizioni delle esperienze e delle ragioni profonde che definiscono il nostro modo di stare dentro tali situazioni, incide sulle dimensioni biografiche, metacognitive ed emotive della competenza strategica. Nella formazione orientata al lifelong learning, la possibilità di raccordare e di dare valore all’insieme complesso delle esperienze di apprendimento che annoverano dimensioni formali, non formali e informali, rappresenta la condizione necessaria per il riconoscimento del ruolo formativo e costitutivo dell’apprendimento continuo come esperienza vitale. Vanno in questa direzione le pratiche e i programmi di ricerca sul tema del riconoscimento e della validazione dell’apprendimento esperienziale, come del resto emerge dai modelli francesi VAPP (Validation des Acquis Professionnels et Personnels) e VAE (Validation d’Acquis de l’Expérience), e dal programma di ricerca APEL, Accreditation of Prior Experiential Learning, (Corradi - Evans - Valk, 2007); • l’ascolto come tecnologia formativa centrata sul sé: l’organizzazione dei percorsi formativi nell’ottica lifelong muove a partire dal riconoscimento del valore del soggetto e degli aspetti biografici (Alheit - Bergamini,

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1996) Si esprime in particolare attraverso la predisposizione di piani di accoglienza differenziati; individuazione di modelli di servizi, di strumenti di tipologie dell’offerta didattica specificamente finalizzati al migliore inserimento degli studenti adulti. Ciò rimanda ad una concezione della formazione che, in una prospettiva di lifelong learning, supera la visione funzionalistica dell’apprendimento e che è orientata alla promozione e allo sviluppo di meta competenze o competenze complesse, intese come risorse individuali e della società intera, che fanno in particolare riferimento alla possibilità/capacità di accedere ai saperi, alla conoscenza, all’apprendimento, durante tutto il corso della vita, come condizione per l’esercizio dei diritti di cittadinanza e per uno sviluppo di tipo democratico. NOTE 1 L’articolo è tratto da P. Di Rienzo, “Lifelong Learning e Università. Un quadro d’insieme sul contesto della ricerca”, in P. Di Rienzo (a cura di), Formazione degli Adulti e Università, Roma, Anicia, 2009. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: ALBERICI A., Imparare sempre nella società conoscitiva, Milano, Mondadori, 2002; ALBERICI A., Prospettive epistemologiche. Soggetti, apprendimento, competenze, in Demetrio D., Alberici A., Istituzioni di Educazione degli Adulti. 2 Saperi, competenze e apprendimento permanente, Milano, Guerini e Associati, 2004; ALBERICI A., Adulti e Università. Accogliere e orientare nei nuovi Corsi di Laurea, Roma, Anicia, 2007; ALBERICI A., La possibilità di cambiare. Apprendere ad apprendere come risorsa strategica per la vita, Milano, Franco Angeli, 2008; ALBERICI A., SERRERI P., Competenze e formazione in età adulta. Il bilancio di competenza, Roma, Monolite, 2003; ALBERICI A. - CATARSI C. - LOIODICE I. COLAPIETRO V., Adulti e università. Sfide ed innovazioni nella formazione universitaria e continua, Milano, Franco Angeli, 2007;


ALHEIT P. - BERGAMINI S., Storie di vita. Metodologia di ricerca per le scienze sociali, Milano, Guerini, 1996; BRESCIANI P.G. - FRANCHI M. (a cura di), Biografie in transizione. I progetti lavorativi nell’epoca della flessibilità, Milano, Franco Angeli, 2006; CORRADI C. - EVANS N. - VALK A (a cura di), Recognising Experiential Learning: Practices in European Universities, Tartu University Press (Estonia), 2007; DI RIENZO P., Apprendere ad apprendere. Una lettura per l’educazione degli adulti, Roma, Anicia, 2006; DI RIENZO P., “Una visione ecologica dell’apprendimento. Contesti formativi dell’apprendere ad apprendere”, in A. Alberici, La possibilità di cambiare. Apprendere ad apprendere come risorsa strategica per la vita, Milano, Franco Angeli, 2008; DI RIENZO P., “Pensiero riflessivo e processi metacognitivi nelle comunità di pratica. L’uso degli strumenti euristici nelle organizzazioni”, in A. Quagliata (a cura di), Competenze per lo sviluppo

delle risorse umane, Roma, Armando, 2008b; DI RIENZO P., Formazione degli Adulti e Università, Roma, Anicia, 2009; FABBRI D., La memoria della regina, Milano, Guerini e Associati, 1990; RYCHEN D. S. - SALGANIK L. H., Defining and Selecting Key Competencies, Seattle-Toronto-Bern, Hogrefe & Huber, 2001; SEN A., Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è sviluppo senza democrazia, Milano, Oscar Mondadori, 2001; SERRERI P., “Bilancio di competenze per studenti con percorsi di studio irregolari. Una risorsa per l’innovazione didattica”, in A. Alberici, La parola al soggetto, Milano, Guerini, 2001; SERRERI P., Riflessività, empowerment e proattività nei bilanci di competenza a lavoratori studenti iscritti all’università, in A. Alberici, C. Catarsi, I. Loiodice, V. Colapietro, Adulti e università. Sfide ed innovazioni nella formazione universitaria e continua, Milano, Franco Angeli, 2007.

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Università e sviluppo territoriale di Stefania Capogna1

1. Quale università Obiettivo di questo articolo è quello di riflettere su compiti e ruolo richiesti all’università della conoscenza. In considerazione del fatto che la gestione e la valorizzazione dell’informa zione e della conoscenza sono oggi ritenuti fattori strategici per lo sviluppo e la competitività di organizzazioni, territori e paesi, ci si rende facilmente conto come il tradizionale mandato sociale assegnato all’università, concernente didattica e ricerca, tende a vacillare in luogo di una pressione sociale più complessa e articolata che si estende alla capacità di operare come agente di valorizzazione economica e sociale della ricerca scientifica e di mediazione del trasferimento tecnologico. Sotto la spinta dei pressanti cambiamenti socio-economici e normativo-istituzionali degli ultimi dieci anni, le università hanno subito un significativo cambiamento interno che ha contribuito a mettere profondamente in crisi il tradizionale assetto didattico-pedagogico nato per servire le esigenze di una esigua élite di potere che doveva guidare il destino del paese. L’affermazione di un’università di massa, il proliferare dei corsi di laurea, l’irrigidimento del sistema concorsuale, la progressiva riduzione di risorse destinate alla ricerca, lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica ecc., chiedono di delineare nuove strategie di governo dell’università e della sua relazione con il territorio e con i diversi stakeholders di

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riferimento. Il quadro teorico che orienta la riflessione, dunque, è quello dell’università della conoscenza che, nel nuovo quadro normativo istituzionale e nell’attuale sistema di relazioni, richiede all’accademia di candidarsi ad essere attore di sviluppo e promozione territoriale. Processo ampiamente sostenuto e incoraggiato dalle politiche comunitarie che già alla fine degli anni ’80 hanno teso a privilegiare la dimensione locale come terminale di sviluppo da vitalizzare attraverso i processi di decentramento e verso cui orientare interventi di sostegno mirati (tendenza recepita dalla normativa nazionale solo dalla seconda metà degli anni ’90). In assenza di indicazioni normative precise e di specifiche linee di indirizzo si è assistito ad una ragguardevole varietà di soluzioni che ha portato a sperimentare modelli, strumenti e scelte organizzative di vario tipo, sia a livello regionale che a livello di singolo ateneo (da cui il proliferare di parchi scientifici3, di incubatori e di spin off4 universitari). In Italia, in particolare, questo processo di sviluppo è avvenuto in maniera disordinata e scarsamente integrata, contribuendo a creare una certa confusione in chi si occupa di trasferimento tecnologico e sviluppo territoriale a causa del proliferare dei luoghi/attori di governo deputati alla gestione di questi settori di intervento. L’elemento positivo che si può intravedere in questo stato di cose è nella varietà di esperienze rispetto alle quali un’analisi delle best practice sarebbe quanto mai auspicabile per valutare ipotesi di trasferibilità dei modelli e messa a sistema dei percorsi di innovazione avviati dal basso e con successo. In considerazione della rilevanza di questi temi, l’articolo5 si sofferma dapprima sulla definizione degli scenari di cambiamento che hanno maggiormente contribuito a questo processo (§ 2) per poi riflettere sul mandato sociale assegnato all’università del XXI secolo6 (§ 3) e sui diversi modi in cui questo si può esplicitare (§ 4). L’articolo si conclude con alcune riflessioni sull’inte-


ressante esperienza maturata nell’ufficio per il Parco Scientifico dell’Università di Roma Tor Vergata (§5). 2. Le traiettorie del cambiamento Per lungo tempo il processo di sviluppo scientifico e tecnologico è stato attribuito all’intuito di uomini geniali capaci di condurre ricerche complesse nel silenzio del loro laboratorio, in un clima culturale che considerava la società come ostacolo alla ricerca. In questa visione, si è affermata una sorta di superiorità della scienza e della tecnologia concepita al pari di un processo di “autodisvelamento”. Tuttavia, lo sviluppo tecnologico del secolo breve (il ‘900) ha messo in crisi questa visione, portando definitivamente alla rottura dei confini che istituzionalmente e concettualmente hanno da sempre garantito una rigida separazione tra scienza, tecnologia e società. Nel corso degli ultimi ’20 anni si è affermata una nuova sensibilità verso la dimensione sociale della scienza e ciò ha portato a focalizzare l’attenzione verso “il controllo delle molteplici dinamiche sociali, comunicative, decisionali e conoscitive che la rendono possibile” (D’Andrea, 2005, p. 11). Questo mutamento può essere compreso solo all’interno della più ampia transizione dalla società moderna alla società postmoderna caratterizzata da una doppia ricorrenza. 1. il passaggio paradigmatico da una visione razionale, lineare e unidirezionale della storia e delle relazioni sistema-attore; 2. il peso strategico assunto dall’informazione in quella che Castells (2001) definisce società della conoscenza: informazionale, reticolare e globale. Ed è proprio il delicato incrocio tra questi tre fattori (assolutamente immateriali) che contribuisce a determinare nuova conoscenza e competitività nel quadro delle relazioni globali. Nondimeno, la nostra conoscenza delle complesse relazioni tra scienza, tecnologia e società è ancora molto parziale. Lo sforzo che si

è fatto nel corso degli ultimi ’50 anni è stato proprio quello di entrare dentro la scatola nera (Latour, 1998) della ricerca per comprendere la natura di queste interazioni. Le scienze sociali infatti hanno avuto sempre un ruolo subalterno rispetto alle scienze della natura. Tuttavia, si sta affermando un vasto movimento di idee secondo cui le scienze sociali possono essere un supporto valido alle scienze della natura in particolar modo per tutti quegli aspetti relazionali, diffusivi e organizzativo-gestionali che accompagnano qualunque percorso di ricerca. Questo cambiamento di prospettiva si svolge all’interno di un nuovo clima culturale che riconosce la complessità7 come il tratto dominante della vita che si dispiega intorno a noi e che richiede nuove strategie interpretative, di ricerca e di organizzazione. Sulla scia di questi cambiamenti si vengono affermando anche nuovi modelli di management che mirano a valorizzare cooperazione, creatività e interdisciplinarità, spingendo i tradizionali modelli organizzativi di tipo verticistico a trovare nuove forme di autoorganizzazione. L’Università e il suo ruolo di produzione della conoscenza non è rimasto esente da questo processo trasformativo che mira a valorizzare i legami deboli esterni che l’università è in grado di attivare per sostenere e diffondere gli esiti di ricerca scientifica e tecnologica. In questo quadro può essere compreso anche il vivace dibattito interno all’accademia che si sviluppa sotto l’etichetta di III missione universitaria (soprattutto nel mondo anglosassone), volto a comprendere il modo in cui avviene la valorizzazione economica e sociale degli esiti di ricerca scientifica e tecnologica; il trasferimento tecnologico e la diffusione della cultura scientifica. 3. Quale funzione per l’università Storicamente le università sono nate e si sono istituzionalizzate sulla base del loro obiettivo primario, quello di diffondere l’alta formazione prima e formare la classe dirigente del

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paese poi. In breve a questo obiettivo se ne è aggiunto un secondo, quello della ricerca orientata alla scoperta. A parte rare eccezioni, questi due filoni di intervento si sono sviluppati in maniera parallela con scarse contaminazioni reciproche, secondo una tradizionale logica lineare e deterministica che si fonda su un prima acquisitivo e un dopo applicativo; sotto l’influenza di una pervasiva logica fordista, contraddistinta da un’organizzazione a compartimenti stagni, didattica e ricerca hanno teso sempre più a separarsi affermandosi come due distinte missioni universitarie piuttosto che come un’unica e articolata strategia finalizzata alla promozione di un solo obiettivo: quello della cultura scientifica. In questa visione, che è rimasta immutata negli ordinamenti didattici almeno fino alla fine degli anni ’90, è completamente assente l’idea di un’Università capace di agire in una logica di diffusione, trasferimento e pubblicizzazione così come auspicato da quel vasto movimento di idee che, oggi, attribuisce all’Università un ruolo di partecipazione allo sviluppo economico locale, nazionale e globale. Frutto di questa visione è la sempre più diffusa idea di dover innescare un meccanismo virtuoso tra didattica, ricerca e sistema economico-produttivo. Tuttavia, per attivare circoli virtuosi dove venga realizzata la terza missione universitaria, o meglio dove l’università possa fungere da attore di sviluppo locale attraverso la diffusione della cultura scientifica e tecnologica, è necessario agire una strategia integrata dove didattica, ricerca e diffusione convergano in un unico progetto di sviluppo dell’Ateneo. Questo, nondimeno, richiede un cambiamento radicale, non più una università “chiusa nei suoi fini, “una torre d’avorio”, organizzata secondo una logica taylorfordista su distinte e non comunicanti linee di attuazione: • la didattica che mira a licenziare un numero crescete di studenti senza minimamente guardare alla coerenza dell’offerta formativa rispetto alle esigenze del mondo lavoro, come evidenziano tutte le ricerche Excelsior;

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• la ricerca (di base e avanzata) che tende a rispondere a una “domanda interna” senza considerare (o facendolo solo in maniera casuale e irrisoria) eventuali collegamenti con il mondo economico-produttivo. È questa una università auto-legittimata che vive in funzione degli interessi dell’accademia e delle sue lobbies e minimamente interessata agli esiti dei propri output di produzione. Da tutto questo, come testimonia anche la crisi economica dell’ultimo anno, deriva un significativo scollamento tra profili formativi in uscita e bisogni espressi dal mondo del lavoro oltre ad un forte gap tra la produzione scientifico-accademica e richiesta di ricerca e tecnologia espressa dal settore economico e industriale. Al momento attuale, nondimeno, il concetto di terza missione universitaria si presenta quanto mai complesso da definire come anche l’analisi della letteratura di riferimento tende a mettere in evidenza (OECD 1996, 2002; Foray, 2006; Malerba, 2000; Netval, 2006). Da ciò ne deriva l’impossibilità di operazionalizzare il concetto per studiare i diversi modi attraverso cui avviare un processo di monitoraggio e valutazione dei servizi/attività che attengono a questo settore. In linea generale, con il concetto di III missione universitaria si intende la promozione di interventi che siano capaci di favorire la diffusione dei risultati dell’attività di ricerca affinché questi contribuiscano allo sviluppo socio-economico del territorio in una chiave locale e nazionale. Il tipo di interventi e la relativa modalità di gestione di tutte le attività ad essi connesse, tuttavia, è cosa quanto mai complessa e ancora non sufficientemente studiata e valutata. Pur in assenza di una visione di sistema e di una linea di indirizzo definita si può notare nei provvedimenti normativi degli ultimi dieci anni - che si inscrivono in una logica di decentramento e semplificazione amministrativa (L. 59/97, L. 196/97, L. 341/1990, L. 30/2001 ecc.) - una pressione crescente verso un ruolo di intermediazione e attivazione delle università; e una spinta al passaggio da un modo uno a un


modo due nella promozione della conoscenza. Frutto di questa visione è la sempre più diffusa idea di dover innescare un meccanismo virtuoso capace di integrare saperi, prospettive e competenze in ragione del fatto che nella società postmoderna l’innovatività si produce negli interstizi di confine tra ambiti diversi e richiama l’interconnessione di tre distinti sistemi storicamente tra loro distinti e non comunicanti: istruzione, università, lavoro. 4. Pensare l’azione universitaria Sulla scia di quanto sin qui detto, si può immaginare che l’università possa attualizzare la sfida della III mission in maniera differente a seconda del modo in cui il concetto viene tradotto in pratica (Lippi, Gherardi, 2006). Sembra infatti possibile asserire che le funzioni attribuite alla terza missione si pongano all’incrocio di due dimensioni: mercato e comunità, rispetto alle quali si può presentare una lettura più o meno ampia in ordine agli interessi dominanti, dando in esito una rappresentazione su una tavola ortogonale che si esprime nel seguente modello: “visione mercatista” versus” visione sociale/comunità”; “visione ristretta” versus “visione ampia”. Il modo in cui si intrecciano tali variabili concorrono a definire una rappresentazione più o meno riduttiva della funzione stessa, dando forma a quattro diversi modi di interpretare tale mission, con evidenti ricadute sulla relativa implementazione organizzativa e strategica approntata dall’università.

A

S

S.I

Ss.

- Visione mercatista +

-Visione ampia +

-Visione ristretta

-Visione sociale+

In una visione “mercatista e ampia” (nel quadrante in basso a destra), presumibilmente, si guarderebbe al territorio come spazio di speculazione selvaggia senza prefigurare possibili ricadute o scenari di lungo periodo, in un’ottica che tende a privilegiare il profitto immediato. In questo caso, si può tendere a favorire il rafforzamento di lobbies di potere economico industriale che hanno maggiori capacità di indirizzare ricerca e investimenti, in luogo di soluzioni innovative, divergenti e alternative e senza minimamente immaginare percorsi di emancipazione individuale e sociale che rischiano di divenire ostacolo agli interessi particolaristici. In una prospettiva “mercatista e ristretta” (nel quadrante in basso a sinistra), si può intravedere un’azione orientata esclusivamente al servizio alle imprese (S.I.), dove l’obiettivo della valorizzazione economica delle attività tende a guardare unicamente all’applicazione commerciale attraverso una lente puramente economicista dello sviluppo. In questo caso, la domanda di ricerca è “tirata” dalle imprese e le politiche e le strategie adottate tendono a sopperire a questa domanda. In ordine alla logica di “servizio alle imprese” si può privilegiare l’idea innovativa e la capacità di management attraverso servizi di supporto all’avvio di impresa e orientati a categorie svantaggiate o a requisiti di merito. In questo modo viene sostenuto il mercato senza considerare le ricadute sociali che l’innovazione e la cultura scientifica e tecnologica possono apportare alla collettività. In una “visione sociale di tipo ristretto” (quadrante in alto a sinistra), presumibilmente, trionferebbe uno stile assistenziale di sostegno alle imprese senza incidere sulla loro responsabilità e capacità di sviluppo e innescando, per questa via (come suggerito dalla teoria della complessità), un processo che a lungo andare tende a depauperare risorse e territorio e a incrementare la richiesta di assistenza inibendo la capacità proattiva di attori, organizzazioni e territori. In una “visione sociale più ampia” (quadrante in alto a destra), al contrario, il territorio è visto come luogo di

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scambi complessi e articolati con altri sistemi e sottosistemi che non è possibile controllare completamente, ma che si possono interpretare come opportunità. Molto rilevanti diventano i meccanismi di cooperazione che spingono gli attori sociali (individui e organizzazioni) ad auto-organizzarsi per agire attivamente nella “ragnatela” della complessità sistemica senza restarne soverchiati. In una prospettiva di questo tipo la terza mission considera il trasferimento tecnologico come aspetto di un contesto più esteso dato dal network territoriale e dalla sua capacità di governare la diffusione degli esiti di ricerca scientifica e tecnologica; in questo caso la dimensione sociale è parte integrante di questo processo di emancipazione collettiva che punta sulla partecipazione attiva e responsabile dei soggetti e del mondo economico produttivo. È chiaro che quelle rappresentate sono differenti configurazioni idealtipiche del modo di concepire e tradurre in pratica (Gherardi, Lippi, 2000) il concetto di terza missione universitaria, si tratta tuttavia di una riflessione doverosa e necessaria per comprendere quale possa essere la declinazione auspicabile e su cui investire, perché ciascuna porta con sé precisi rischi e opportunità. Infatti, a ciascuna delle prospettive assunte corrisponde un diverso processo di organizing (Weick, 1976) della relativa funzione universitaria, la quale non può prescindere dalle peculiarità dell’ambiente in cui è inserita. La prospettiva “mercatista” di terza missione, orientata prevalentemente in chiave economicista sia in termini più ristretti (intesa come puro trasferimento tecnologico, attraverso la promozione di spin off e brevetti), sia in risposta alle pressioni dei grandi gruppi industriali, è correlata al rischio di orientare la ricerca in campo meramente applicativo in considerazione del fatto che è questo a portare i prodotti/risultati più immediati, a scapito tanto della ricerca di base, da cui in un raggio di tempo più lungo derivano le cose più innovative, quanto dei settori di ricerca che non hanno un’immediata ricaduta in termini di applicazione commer-

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ciale, come ad esempio le scienze umanistiche e sociali. Una deriva di questo tipo può verificarsi nondimeno in territori molto vivaci sul piano economico e industriale. Di converso, il rischio connesso all’affermazione di una “visione sociale ristretta” è quello di avviare il circolo vizioso dell’assistenzialismo, del resto già molto diffuso nella cultura imprenditoriale nazionale e facilmente replicabile in contesti particolarmente deprivati. Le prime due sono logiche orientate al profitto a breve periodo; mentre la terza privilegia una logica redistributiva di tipo assistenziale. Il modello orientato ad una “visione sociale ampia” tende a valorizzare, al contrario, la dimensione territoriale in una prospettiva di sviluppo di medio e lungo periodo, favorendo l’attivazione e la partecipazione della comunità. Comunità considerata, in questo caso, risorsa capace sia di agire responsabilmente in ragione dell’innovazione e del progresso scientifico e tecnologico, sia di operare come catalizzatore di idee secondo una prospettiva di sviluppo glocale, al fine di valorizzare e connettere la dimensione locale con le opportunità offerte dalla globalizzazione dei sistemi. Nei primi due casi, presumibilmente, prevalgono negli attori istituzionali deputati allo sviluppo territoriale, competenze economico-commerciali e di marketing orientate alla valorizzazione economica sotto la spinta della moda del new public management che ha imperversato nella pubblica amministrazione per tutti gli anni ‘90, nel terzo caso dominano competenze giuridico amministrative guidate dal principio di conformità normativa retaggio della cultura burocratico amministrativa delle nostre istituzioni; mentre nell’ultima soluzione, orientata allo sviluppo di comunità, si affermano competenze strategico-previsionali, progettuali e di networking in una dialettica di valorizzazione dei legami deboli attraverso il processo di organizing delle attività in cui l’università si muove. In questa circostanza prevale il modello della rete all’interno della quale corresponsabilmente cooperano attori pubblici e privati e soggetti collettivi e indivi-


duali. Come insegna Weick, infatti, il territorio esiste solo nella misura in cui siamo in grado di interpretarlo e di attivarlo all’interno di cornici di senso (sensemaking) che ci permettono di interagire con esso, acquisendo risorse e legittimità e contribuendo alla sua modificazione. Il modo in cui l’Università interpreta e organizza la sfida della terza missione e le relazioni con l’ambiente in cui è inserita ne determina le scelte strategiche e le logiche organizzative da cui discende il modo di progettare le sue funzioni principali e il management interno. 5. Dalla teoria alla prassi Per quanto concerne la Regione Lazio, un’esperienza di significativo interesse è quella realizzata dall’Ufficio per il Parco Scientifico dell’Università di Roma Tor Vergata, fondato a partire da un progetto Adapt nel 1998. Obiettivo primario di questo ufficio è stato sin dalla sua genesi, l’emancipazione collettiva e territoriale perseguita con tenacia negli anni attraverso la costituzione di forti alleanze con le più varie espressioni collettive (scuole, associazioni, istituzioni, studenti ecc.) e l’economia locale. Questa politica di sviluppo ha portato, nell’arco di dieci anni, alla stabilizzazione di una struttura capace di esprimere grande vivacità progettuale. Al culmine di questo percorso di crescita, nel 2008, è stato avviato il progetto Spin Over“ Spazio per la per promozione dell’innovazione e di occupazione. e per la valorizzazione degli esiti di ricerca” (www. spinover.eu) che mira a sviluppare nell’ateneo un ambiente accogliente nel campo del trasferimento tecnologico e nella promozione di imprese innovative, attraverso la realizzazione di una struttura capace di garantire un’integrazione di funzioni, servizi e competenze orientate alla creazione di impresa e alla valorizzazione economica della ricerca scientifica e tecnologica. Con il progetto Spin over dunque si è costituito all’interno dell’Ateneo di Roma Tor Vergata un nuovo incubatore di imprese innovative. Questo incubatore universitario si

sviluppa su ottocento metri quadrati dove sono allestiti uffici e laboratori che si aggiungono ai 700 già esistenti (sono 12 le imprese impegnate nel campo dell’innovazione già insediate a metà del 2009). L’Incubatore Spin Over si presenta come una struttura di sostegno alla nascita e alla crescita di imprese che provengono dal mondo della ricerca e intendano sviluppare prodotti innovativi. Si presenta come un laboratorio dove ricerca pubblica e imprenditorialità, finanza innovativa e sviluppo tecnologico trovano un luogo ideale in cui confrontarsi con l’obiettivo di sviluppare iniziative nuove e condivise. Per questa via, questo Ateneo acquisisce uno strumento di lavoro capace di integrare cultura scientifica e cultura imprenditoriale con il fine di generare occasioni di crescita basate sulla produzione di nuova conoscenza. L’ufficio per il Parco Scientifico dell’università di Tor Vergata ha fatto della valorizzazione della ricerca scientifica, dell’innovazione e del trasferimento tecnologico una sua mission istituzionale perseguita con tenacia anche con la promozione di alte professionalità capaci di agire in questo spazio di interconnessione rispetto al quale ancora oggi le competenze vengono acquisite sul campo. A questo scopo, a novembre sarà avviato un corso di Alta Formazione per “Mediatori del trasferimento tecnologico”8 con l’obiettivo di colmare questo gap di professionalità e partecipare in maniera attiva al dibattito su funzioni e competenze dell’università del terzo millennio. È questa senz’altro una sfida con cui l’università del XXI secolo deve misurarsi per rinnovare il proprio mandato sociale in ordine a pressioni sociali più articolate e complesse. NOTE 1 Assegnista di ricerca presso ufficio per il Parco Scientifico, Università degli Studi di Roma Tor Vergata e professore a contratto di Laboratorio di Bilancio di competenze, Facoltà di Sociologia, Università Roma Sapienza. 2 Un’interessante rassegna normativa sui temi dell’innovazione e dello sviluppo è elaborata da Chiara Cavallaro

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ed è disponibile on line sul sito: www.issirfa.cnr.it 3 Sui Parchi scientifici si veda tra gli altri Panza 1993 e Lo Storto 2003. 4 Si distinguono tre diverse categorie di spin off: quelle da imprese, quelle istituzionali e quelli da ricerca. Per un approfondimento di veda, tra gli altri, D’amato e Silvani, 2002 e la Guida Spin off scaricabile dalla rete al seguente indirizzo: www.spinover.eu 5 La riflessione qui esposta si riferisce ad un più ampio percorso di ricerca svolto dall’ufficio per il Parco Scientifico dell’Università di Roma Tor Vergata (sotto la direzione scientifica del dott. Ciccone) con l’intento di comprendere le strategie di governo adottate dall’università, quale luogo supremo di produzione scientifica e tecnologica, per governare tanto il processo di socializzazione e valorizzazione economica della ricerca scientifica e tecnologica, quanto quello di diffusione della cultura scientifica. 6 Su questo argomento molto interessanti risultano i contributi di Ciccone; Potì e Romagnosi. 7 La teoria della complessità spiega i sistemi complessi (come anche quelli sociali) come sistemi le cui prestazioni e dinamiche sono il risultato dell’interazione spontanea tra numerosi e differenti attori, che co-evolvono muovendosi all’interno di un ambiente competitivo in continuo cambiamento. La teoria della complessità spiega che tali sistemi sono aperti, cioè interagiscono con l’ambiente e sono costituiti da reti di elementi più o meno complessi che interagiscono in modo locale e non lineare. Elementi fondamentali di questi sistemi sono: la ridondanza, cioè nessun elemento è indispensabile poiché manca una specializzazione unifunzionale; la resilienza, intesa come resistenza alle perturbazioni; la capacità adattiva, che indica l’adattamento all’ambiente; l’autoorganizzazione che proviene dal basso, attivata dalle stesse componenti del sistema. 8 Per maggior informazioni sull’Incubatore Spin over e sul corso di Alta Formazione per “Mediatori del trasferimento tecnologico”: www.parcoscientifico.eu RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: ANCARANI V., 1996, La scienza decostruita. Teorie sociologiche della conoscenza scientifica, Milano, Franco Angeli; BUCCHI M., Scienza e società, Il Mulino, Bologna, 2003; CICCONE S, Innovazione e sviluppo locale, Franco

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Angeli (in corso di pubblicazione); D’ANDREA L., Per una teoria sociologica dell’innovazione, Rivista Cerfe; D’ANDREA L., QUARANTA G., QUINTI G., Manuale sui processi di socializzazione della ricerca scientifica e tecnologica, Roma, Cerfe, 2005; ETZKOWITZ H., LEYDESDORFF L., “The Dinamycs of Innovation: From National System and “Mode2” to a Triple Elix of UniversityIndustry-Government Relations”, in Research Policy, Vol. 29, pp. 109-123, 2000a; FORAY D., L’economia della conoscenza, Bologna, Il Mulino, 2006; GHERARDI S., LIPPI A., Tradurre le riforme in pratica, Milano, Cortina, 2000; JORDI MOLAS - GALLART, Science and Technology Policy, Research, 2002; LATOUR, La scienza in azione, Comunità, Torino, 1998. LINA D’AMATO E ALBERTO SILVANI, La creazione di nuove imprese tecnologiche il fenomeno degli spin off accademici, in Brancati R., (a cura di), “Le politiche per le attività produttive. Le regioni e i nuovi strumenti”, Donzelli, Roma, 2002; LO STORTO C., (a cura di), Indicatori di performance dei Parchi Scientifici e Tecnologici Europei, DIEG Dipartimento Economicogestionale Facoltà di Ingeneria, Università di Napoli Federico II, 2003; MALERBA F., Economia dell’innovazione, Roma, Carocci Editore, 2000; MOLINAA., MICHILLI M., “Rome’s Telematics StrategyMaking Process: Sociotechnical Alignment and Clusters”, in Journal of Technology Transfer, 27, pp. 51-60, 2002; NETVAL, 2006, La valorizzazione della ricerca nelle università italiane. Quarto rapporto annuale. Dati relativi al periodo 2000-2005, disponibile on line http:// www.netval.it; OECD, 1996, The Knowledge-Based Economy, OECD/ GD(96)102, Paris, OECD; OECD, 2002, OECD Science, Technology and Industry Outlook, Paris, OECD; PANZA F. Parchi Scientifici e tecnologici, Ed. scientifiche Italiane, Napoli, 1993; POTÌ B. M E ROMAGNOSI S., L’attività di brevettazione nel sistema pubblico di ricerca in Italia, Franco Angeli (in corso di pubblicazione); WEICK K. E., Educational Organizations as Loosely Coupled System, in “Administrative Science Quaterly”, 21, pp. 1-19, 1976.


A Small World: cronaca di un mondo che ci stringe di Dario De Santis Stanley Milgram, sociologo di Harvard, nel 1967, attraverso un semplice esperimento, ideò un sistema per testare la mitica teoria dei sei gradi di separazione proposta dallo scrittore ungherese, Frigyes Karinthy, nel suo racconto “Catene” del 1929. Tutto nacque dall’ipotesi secondo cui bastano sei passaggi, ovvero non più di cinque intermediari, per entrare in contatto con qualsiasi abitante del nostro Globo. Milgram selezionò casualmente 160 americani del Midwest chiedendo loro di inviare una cartolina già affrancata ad un estraneo che abitava nel Massachussets (a diverse migliaia di chilometri di distanza). Ciascun mittente conosceva il nome del destinatario, la sua occupazione, e la zona geografica in cui risiedeva ma non l’indirizzo preciso. Per questo, fu chiesto a ciascun partecipante di inviare la cartolina ad una persona da loro conosciuta e che, a loro avviso, avesse maggiori possibilità di conoscere il destinatario finale. Quella persona avrebbe fatto lo stesso e così via fino a che la cartolina non fosse giunta al destinatario finale. In media per ogni destinatario furono impiegati dai cinque ai sette passaggi per recapitare la cartolina ed i risultati dell’esperimento di Milgram, definiti dallo stesso come “Teoria del piccolo mondo”, furono pubblicati su Psychology Today a conferma dell’esistenza dei sei gradi di separazione. Da allora partirono altre ricerche ed altre attività tese ad avvalorare e a diffondere le caratteristiche e le potenzialità della comunicazione del piccolo mondo e per citarne alcune tra le più celebri: il popolare gioco di società “i sei gradi di Kevin Bacon” lanciato nel 1990; la commedia teatrale di Broadway di John Guare “ i 6 gradi di separazione”; l’omonimo film del regista austra-

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liano Fred Schepisi con Will Smith e Donald Sutherland del 1993; Duncan Watts, Professore della Columbia University, che nel 2001 riprese l’esperimento della cartolina di Milgram sostituendola all’e-mail confermando un numero medio di intermediari di 6; i ricercatori di Microsoft Eric Horovitz e Jure Leskovec che nel 2006, sfruttando i log di conversazione attraverso MSN Messenger per monitorare la lunghezza dei legami necessari per connettere 180 miliardi di diverse coppie presenti nel database del sistema ha restituito un risultato medio pari a 6,6 gradi (Washington Post). Insomma, la quasi totalità delle ricerche condotte anche in altri campi hanno confermato che le reti del piccolo mondo sono molto diffuse in natura e costituiscono un modello di rete complessa, il cui studio trova applicazione in innumerevoli settori; dall’economia ai trasporti, dalla genetica all’epidemiologia, dalle neuroscienze agli ecosistemi, dalle comunità umane fino al Web 2.0 e le ultime applicazioni Internet. Nella sua pubblicazione “Link” Albert Laszlo Barabàsi, Docente di fisica teorica all’Università Notre Dame (Indiana, USA) descrive i sei gradi di separazione come prodotto della società attuale inteso come risultato dell’insistenza con cui amiamo tenerci in contatto. E’ vero! Creare e mantenere contatti interpersonali è ancora l’essenza della civiltà che scorre attraverso la comunicazione. Comunicare, però, è anche “scoperta”. Ogni comunicatore si avventura attraverso diversi percorsi di collegamento al destinatario, a volte noti e a volte meno. Ed allora può essere vero che la scoperta è tale quando avviene in un macrosistema, in ambiente sconfinato, libero e con regole elastiche. Interessante, ma non entusiasmante, è l’idea sì di poter raggiungere chiunque, ma anche di essere raggiunti da chiunque, in soli sei passaggi. L’evoluzione appare stringere i confini planetari, rischiando di svelare intimità e soprattutto di violare diritti umani fondamentali come la riservatezza. Ed infatti, proprio a tal proposito, l’Autorità Garante per la Privacy in una delle sue ultime relazioni, pur nell’enunciare il valore

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dei social network, lancia un serio monito agli utilizzatori, specialmente giovani, “che usano questi strumenti con spensieratezza e inconsapevolezza” avvertendo che le informazioni personali condivise online rischiano di restare nella rete per sempre e di causare - in un futuro non troppo remoto - danni per i giovani nel momento dell’accesso al lavoro. Ed allora, ciò che nella conduzione delle attività quotidiane della maggior di noi sembra prendere sempre maggior parte spazio e maggior tempo attraverso l’utilizzo di nuovi strumenti come Myspace, Badoo, Linkedin, Twitter e Facebook connotati da una strana terminologia ma anche da una spaventosa familiarità, come incide sulla vecchia teoria di Stanley Milgram? Come incidono sui gradi di separazione i social network del terzo millennio? Il piccolo mondo di Milgram tende a divenire micro? In un micro mondo riusciamo a starci tutti e, se sì, con quali garanzie? Risposte ancora difficili, che dovranno fare i conti con l’incontrovertibile e crescente avanzata di infrastrutture critiche come Internet ed il World Wide Web, e non solo, ma anche le evolute reti di fornitura elettrica, dei trasporti, biologiche e sociali (“Complex Networks: from biology to information technology” congresso internazionale). Non vi sono risultati di ricerca recenti che restituiscano dati certi sul rapporto tra i social network e i sei gradi di separazione del piccolo mondo ma in compenso nasce nel 2004 sul web un social network diverso, un club esclusivo per pochi eletti che si scambiano informazioni d’elite sul lusso e su eventi in ed affini. Il suo fondatore è lo svedese Eric Wachtmeister ed il nome del social network, indovinate un po’? Esatto! A small world. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: BARABÀSI A.L., Link. La scienza delle reti, Milano, Einaudi, 2004; KARINTHY F., Catene, 1929; MILGRAM S., Small world, in “Psychology Today”, n. 1, May, 1967. Figura 5. Un nuovo modello per l’analisi della rappresentazione sociale della salute


Pubblicazione trimestrale Reg. N° 564/09 V.G. Tribunale di Frosinone. N° iscrizione Editore ROC: 18775 Fondatore Dario De Santis Direttore Responsabile Stefania Nirchi

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