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ISSN: 2038-3282

Anno III Numero 1 - Gennaio 2011


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EDITORIALE 04

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La professione insegnante in bilico tra malessere e voglia di resistere di Stefania Nirchi Ospite Scientifico Prof.ssa Alessandra Poggiani Università degli Studi “La Sapienza” di Roma Il nuovo contesto di mercato nell’era digitale e le sfide non colte

RUBRICHE SIPARIO

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Progettare per educare di Agnese Rosati

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Promuovere la prosocialità lungo l’arco di vita. Il ruolo delle agenzie educative. Parte seconda. Variabili psicologiche e fattori educativi di Savina Cellamare

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La valutazione di politiche socio educative. L’apporto della metodologia qualitativa. Parte seconda. I risultati dell’intervento e la valutazione interpretativa di Savina Cellamare, Roberto Melchiori

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Comprendere il Disturbo di Attenzione/ Iperattività. Parte seconda. Sintomi secondari: insuccesso scolastico e rifiuto sociale di Alessia Giangregorio

FEATURESSPAZIO A

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Donne e libertà nella cultura globalizzata di Stefano Caffari

SPAZIO A...SPAZIO A

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Public Affairs nel Governo Locale? Intervista a Dario De Santis, amministratore unico della Bridging Bureau srl di Daniela Nardacci

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La professione insegnante in bilico tra malessere e voglia di resistere

di Stefania Nirchi Un aneddoto del passato racconta che il giorno in cui Francesco De Sanctis divenne Ministro della Pubblica Istruzione, si diresse al ministero dimenticando però cosa andasse a fare. Mentre si accingeva ad entrare nell’edificio con aria preoccupata venne fermato dal portiere che gli chiese: “Scusi, lei dove va?”, “dal Ministro” rispose. Ma proprio in quello stesso momento si rammentò della nomina e aggiunse: “dal Ministro, che credo di essere io”. La morale celata dietro questo episodio è che la vita è intrecciata di tante circostanze paradossali, di episodi singolari e inaspettati, insomma di oramai conosciute antinomie. Questa breve riflessione, ci autorizza a ritenere, anche per l’argomento trattato in questo editoriale, il conflitto e l’avversità di atteggiamenti e modi i fare di una alta percentuale di docenti, il segno di un ampio e acuto malessere. Infatti pesante è la riforma che ha investito la scuola e di conseguenza importanti sono state le ripercussioni sulla classe docente, ancora una volta al centro di una forte trasformazione.

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Una trasformazione arrivata in un momento come quello attuale in cui i docenti vivono una fase della propria carriera caratterizzata dalla rottura di un equilibrio acquisito durante i diversi anni di insegnamento e che chiede loro di modificare gli schemi consueti di comportamento che si rivelano non più adeguati a far fronte alla situazione presente. Ed allora in un contesto come quello appena descritto la parola crisi è quella che meglio si addice ad illustrare questo scenario e che più di altri termini fa cogliere pienamente le contraddizioni del sistema di istruzione e di formazione non più in sintonia con i docenti ma proiettato, invece, verso decisioni non corrispondenti al modo di sentire e di agire degli insegnanti. Il termine crisi individua dunque il malessere dei docenti, originato dal mutamento non solo in termini di ordinamento e di curricolo ma anche dal loro stesso reclutamento iniziale che assume caratteristiche nuove: dalle ormai sembra obsolete SSIS, al tirocinio formativo attivo, che anche se fosse mille volte meglio di quello che è, non può bastare: è in itinere che bisogna ogni tanto potersi fermare, interloquire con i docenti stessi su un piano paritario, ricevere e inviare feedback in merito al conoscere-sentire-rapportarsi, sviluppare e approfondire capacità riflessive e metariflessive. E se questo implica precise scelte politico-istituzionali - che prevedano tempi e fondi per la formazione continua - implica anche la disponibilità degli insegnanti stessi a lasciarsi scompigliare le carte, ad accostarsi alla teoria, a patto che chi gliela propone la connette alla loro pratica in un gioco di reciproco arricchimento - a prevedere qualche direzione di cambiamento che non riguardi solo il ruolo professionale, ma il proprio ruolo nel mondo; imparando ad intraprendere una linea di resistenza orientata in direzione di impegno: pedagogico, sociopolitico, etico. Non addentrandoci qui nella comprensione dell’organizzazione di questa ulteriore modalità di formazione iniziale dei docenti, ciò che ci sta a cuore approfondire in questa sede


invece sono proprio i contorni di un mestiere troppo spesso tradito. L’atteggiamento di resistenza non oppositiva che si riscontra in questi anni negli insegnanti, come afferma Arundati Roy, non può essere “di facciata”, richiede la tensione alla coerenza e la continuità dell’impegno nella quotidianità didattica. Tuttavia è comprensibile che in questo smarrimento di senso, in questo patto infranto - quel patto che ha consentito cooperazione, condivisione tra il dentro e il fuori della scuola, negli anni che hanno reso solide le basi della nostra democrazia - gli insegnanti oscillano tra una sfiduciata dismissione culturale, che accompagna quella sociale; e una ostinata voglia di resistere che ha consentito alla scuola - nonostante la gestione catastrofica dei governi degli ultimi anni - di andare avanti comunque, tentando di tamponare e di neutralizzare i danni che gli strateghi delle politiche dell’istruzione producevano impunemente. A nessuno è stato presentato il conto di cambiamenti continui - traumatici o a colpi di cacciavite - che i docenti hanno subito protestando o non, ma spesso sostituendo all’opposizione una resistenza propositiva in termini di adattamento responsabile a tutte le novità positive e/o negative introdotte nel nostro sistema di istruzione. Richiamare allora i docenti a mantenere alta la motivazione, soprattutto in un momento delicato come quello attuale, che vede minato il proprio ruolo professionale, vuol dire lavorare affiancandoli: affinché l’esercizio critico di un pensiero eticamente fondato e ricco di emozioni e di passioni cessi di essere un richiamo pedagogico per diventare una pratica attraverso cui decostruire, indagare, decifrare, interpretare anche quello che sembra già trasparente, assunto e condiviso dalla stragrande maggioranza.

La costanza nell’impegno della quotidianità del proprio lavoro e il coraggio dell’utopia sono gli ingredienti che devono nutrire la nostra resistenza, per renderla capace di prefigurare un nuovo modello di professionalità consapevole, in termini ecologici, generativi e coevolutivi, direbbe Morin, del suo destino e del suo compito planetario, e perciò tesa a individuare, progettare e condividere inedite e inattuali direzioni di significato e di rotta. In altri termini una professionalità consapevole che rivendica progettualità e senso, che riesce a rendere pensabile il futuro come spazio da abitare e costruire, che è attratta dalla processualità e dal cambiamento. Quanto all’utopia, se l’educazione, quella scolastica in primis, rivendica un ruolo formativo ed emancipatorio nei confronti dei suoi interlocutori, non può scegliere o rassegnarsi a coincidere con l’esistente. Per porsi in termini di resistenza alternativa alle “passioni tristi” deve “osare” l’utopico, ricordando da un lato che “abitare il disincanto” vuol dire oggi, essere capaci di abitare lo spazio della problematicità “e starci produttivamente, senza viverlo come deriva” (Cambi, 2006); dall’altro, che, mutuando il pensiero del filosofo Lefebvre, l’utopia non dovrebbe spaventarci più di tanto perché, in fondo, è solo ... “il possibile di domani”! L’importante alla fine di ogni possibile ragionamento è che il mondo della scuola in generale e, i docenti nello specifico, hanno bisogno di convincersi che cancellare questa deriva di incultura in cui siamo sprofondati rappresenta una priorità per tutti coloro che credono che questo mestiere va riscattato, per far sì che si aprono inedite e creative possibilità e che la professione insegnati torni ad essere libera di poter diventare, come sosteneva Dewey, la più importante forza del cambiamento sociale.

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Il nuovo contesto di mercato nell’era digitale e le sfide non colte

Prof.ssa Alessandra Poggiani Università degli Studi “La Sapienza” di Roma La nascita prima, l’esponenziale diffusione poi e infine la pervasiva espansione dei nuovi media interattivi ed, in primis, della rete Internet ha negli ultimi vent’anni rivoluzionato la società, il mondo dell’economia e del management, rivelando scenari impensabili fino a pochi anni fa. Anche e soprattutto grazie alle nuove tecnologie, sono in atto profondi cambiamenti del contesto socio - economico e culturale che hanno impatti significativi anche nelle relazioni tra azienda e consumatori: per riprendere Don Peppers, sono proprio le relazioni che facilitano o impediscono lo scambio di valore e dunque la transazione - tra due soggetti. Il business diventa, dunque, strutturalmente multirelazionale ed in questo nuovo tipo di rapporto fra impresa e consumatori, questi ultimi stanno acquisendo una posizione di forza costringendo le aziende a farsi per davvero e non solo teoricamente marketing oriented. Tutto questo implicherebbe una trasformazione sostanziale dei modelli di business.

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Tuttavia, fuori dalle riviste di management, il mondo industriale “classico” non sembra ancora aver introiettato il concetto che non sembra più possibile (se si vuole risultare vincenti) finalizzare le proprie attività all’imposizione, alla persuasione all’acquisto, al controllo, e che al contrario le azioni di marketing dovrebbero essere concentrate sull’ascolto, la motivazione e il rispetto della soggettività degli individui (siano essi membri dell’organizzazione o clienti o come sempre più spesso accade - entrambi). In altre parole, il rapporto impresa consumatori deve tramutarsi da estrinseco, cioè fondato sulla delega all’azienda (si pensi, ad esempio, alle tradizionali politiche dei brand forti e affidabili), in intrinseco, ovvero basato sulla fiducia nella relazione tra l’individuo - cliente e le capacità dell’azienda (potremmo anche dire degli individui che compongono un’azienda) di comprenderlo. Con i nuovi strumenti a disposizione, il cliente oramai può abbandonare il ruolo sostanzialmente passivo nel rapporto con il proprio fornitore ed è in condizione di entrare direttamente nei processi di produzione e di progettazione dei prodotti a lui destinati: aziende e clienti sono (o meglio potenzialmente potrebbero essere) sempre più vicini. Tuttavia, dicevamo, sotto il profilo del business, nonostante l’imponente impatto della rivoluzione digitale in corso, il contesto della Rete non sembra essere stato ancora pienamente compreso nella sua essenza (e dunque sfruttato) dalla massa delle imprese, soprattutto delle Piccole e Medie Imprese, da sempre maggior tessuto produttivo del territorio italiano. Infatti, tralasciando alcune aziende che hanno nella Rete il loro punto di riferimento costante, vedi il caso di Apple (anche per la loro affinità merceologica), non sembrano ancora emersi nuovi modelli di business originali e disegnati appositamente per la “Rete” e non semplicemente “riadattati” da modelli più tradizionali. Per dirlo con altre parole, si continua a guardare con occhiali


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vecchi un mondo significativamente e radicalmente nuovo. Servirebbero, infatti, e soprattutto in un momento di contingenza economica negativa come quella attuale nuovi modelli di business interamente sintonizzati sul paradigma della Rete, capaci di implementare azioni di marketing che sappiano valorizzare compiutamente le opportunità tecnologiche ed il nuovo contesto competitivo, anche per le aziende merceologicamente distanti dal mondo della tecnologia e con limitate capacità di investimento nel marketing e nella infrastruttura tecnologica. Anzi, soprattutto le imprese con mezzi più limitati, le piccole imprese e le start up, che non possono accedere al marketing di massa e a canali distributivi capillari, possono in questa nuova epoca utilizzare queste nuove opportunità per accedere a mercati in altre epoche insperati. Per analizzare i cambiamenti che hanno maggiore impatto sulla vita delle imprese, vediamo in estrema sintesi quali sono gli spazi fondamentali che la Rete oramai occupa nel vissuto quotidiano dei consumatori: - È un potente strumento di informazione e comunicazione. Circa 1 miliardo e 800 mila persone sono attualmente connessi ad Internet nel mondo, pari ad oltre il 25% della popolazione mondiale. Nei paesi del Nord America (Canada e Stati Uniti) oltre il 75% della popolazione utilizza regolarmente internet, mentre in Italia, secondo il più recente rapporto CENSIS 1, ci si attesta intorno al 50%, che diventa però un 80% se si prendono in considerazione soltanto le fasce di popolazione più giovane. Tuttavia, questi numeri in realtà sottovalutano il fenomeno, considerando che Internet è solo “uno” dei nuovi media digitali che quotidianamente vengono utilizzati dai consumatori per connettersi alla Rete. Infatti, includendo tutti i devices che oggi consentono l’accesso al web - primi fra tutti i telefoni cellulari di ultima ge-

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nerazione c.d. smartphones è evidente come la Rete sia oggi il maggiore e più tempestivo mezzo di informazione e comunicazione a disposizione dei consumatori. - È sempre più un canale e un luogo di consumo. I dati Eurisko2 mostrano come gli acquirenti online in Italia si siano moltiplicati negli ultimi anni, diventando quasi 5 milioni e 400 alla fine del 2008 con un ampio potenziale di crescita. Giova ricordare, ad esempio, che a fine 2009 risultavano essere oltre 3 milioni i titolari italiani di un conto Paypal per le transazioni online. La Rete, in particolare, è divenuta il canale ideale per il consumo di prodotti editoriali, viaggi, musica e servizi finanziari. Facendo inoltre riferimento alle fasce più giovani della popolazione è dunque evidente


come una nuova generazione di consumatori stia prendendo il sopravvento, eleggendo il web come proprio “centro commerciale” elettivo. In sostanza, nessun operatore commerciale oggi può fare completamente a meno del canale di vendita online. - È uno strumento di innovazione della produzione. L’utilizzo del web non ha preso il sopravvento unicamente nel settore del software, dove ormai le tradizionali modalità di progettazione dei sistemi operativi e di protezione dei diritti di proprietà tradizionale (copyright) stanno lasciando spazio a nuove forme di condivisione e di appropriazione del valore (i cosiddetti copylefts), che trovano nei sistemi open source e nei social network il loro più potente catalizzatore.

Per venire al mondo delle imprese non high - tech, la collaborative innovation sta a poco a poco trasformando le logiche chiuse della produzione e apre scenari affascinanti per le aziende che intendono sviluppare i propri prodotti in sintonia con i clienti finali. Il cliente attraverso la rete può essere parte integrante della catena del valore dell’impresa, contribuendo significativamente alla ideazione dell’offerta introdotta sul mercato, a costi praticamente irrisori. La rete ha, infatti, innovato il modo in cui le imprese possono sviluppare i loro prodotti in pressoché ogni fase della produzione: Dalla generazione dell’idea: online si possono utilizzare community virtuali tematiche e/o questionari per i clienti registrati dove i clienti possono scrivere liberamente le proprie idee; Allo sviluppo del prodotto: grazie ai vari software disponibili sui portali aziendali, i clienti possono dare feedback all’azienda sulle idee di nuovi prodotti ed esprimere opinioni e suggerimenti sui prototipi che l’azienda sta sviluppando; Al test di prodotto: i consumatori possono provare il prodotto in fase beta, riducendo rischi di inserire sul mercato un prodotto sbagliato e/o risolvendo in anticipo eventuali criticità; Fino al lancio del nuovo prodotto: attraverso le comunità virtuali le aziende possono contare sui propri clienti sfruttando il viral marketing e il passaparola. Sulla Collaborative Innovation nel web basti citare i casi di Fiat 500, Ely Lily e Ducati3 per capire che non si tratta più strumenti che coinvolgono unicamente aziende d’avanguardia o ipertecnologiche. Dunque, questa epoca digitale, così come sommariamente descritta, fa ormai parte del contesto quotidiano dei consumatori e dimostra come la Rete rappresenti sempre più il luogo più proficuo per l’interazione tra imprese e mercato.

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La “Rete” è connotata da una serie di elementi peculiari e specifici, tra cui sicuramente la grande forza comunicativa e la spinta alla collaborazione. Ma qual è la vera unicità della Rete se non il fatto di mettere in relazione un numero illimitato di persone senza barriere di spazio e di tempo, in forma sincrona e asincrona? La centralità del momento relazionale in Rete finisce col porre ancora più enfasi sulle tecniche di marketing, come disciplina che si occupa della complessa e articolata gestione della transazione e dello scambio (che dunque presuppone una relazione) di informazioni e prodotti tra l’offerta e la domanda. È quindi cruciale - pensando al marketing oggi - comprendere appieno che, nell’epoca della Rete, l’interazione con il cliente diventa il vero must del successo di un business, ancora più di quanto già non fosse teorizzato dal customer - oriented marketing degli anni ‘90. La Rete ha creato le condizione per l’affermarsi di un nuovo consumatore/cliente che può esercitare il suo ruolo in modo attivo e più consapevole, forte della possibilità di intervenire direttamente nel processo (da quello informativo/comunicativo fino come abbiamo visto a quello produttivo). Inoltre, la Rete è il primo vero canale interattivo realmente globale della storia. Fino allo sviluppo della Rete infatti, nessuno aveva mai avuto la possibilità di collegare un numero indefinito di persone in tutto il mondo per condividere e scambiare istantaneamente informazioni, né tanto meno per acquistare beni e servizi. La relazione con i clienti quindi si fa totale, senza barriere geografiche, culturali e linguistiche. La multicanalità ovvero la più recente possibilità di collegarsi alla Rete non solo attraverso il PC fisso ma anche con altre tecnologie (telefonia cellulare, wifi, ecc), aumenta esponenzialmente la frequenza di accesso e le occasioni di uso in cui ciascuno può beneficiare del web, praticamente senza limiti spazio - temporali.

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Questi epocali cambiamenti si riflettono naturalmente nella trasformazione dei consumatori. “Il consumatore, anzi il consumATTORE, più attento e selettivo, più competente ed esigente, ha ormai conquistato un potere e una discrezionalità inimmaginabili sino a un recente passato. L’empowerment e la discrezionalità nuova del consumatore vengono esponenzialmente potenziati dalle tecnologie digitali che lo riscattano dal suo tradizionale ruolo passivo. Egli trova un ruolo più dialettico e rivendica, nei confronti di chi produce e vende, una proattività che intende esercitare fino in fondo. I nuovi supporti informatici e di comunicazione potrebbero consentire ora, se gestiti e finalizzati, di ampliare a dismisura la capacità di ascolto dell’impresa, di realizzare per la prima volta, nei fatti e non a parole, inedite forme di collaborazione, di co - creazione e partnership con il consumatore4. La serie di trasformazioni a livello sociale, economico e tecnologico che abbiamo prima menzionato hanno infatti generato un nuovo tipo di consumatore che vuole essere protagonista utilizzando al massimo il suo potere. Il cliente non è più un mero osservatore e destinatario del “mercato”. La crescente facilità di accesso alle informazioni dovuta primariamente alla diffusione della “Rete” ha rappresentato infatti una democratizzazione del flusso informativo: tutti hanno oramai la possibilità di trovare in tempo reale tutti i dati di cui ha bisogno per portare a termine un processo decisionale di acquisto o consumo. Inoltre, l’evoluzione costante delle tecnologie ha di fatto trasformato la comunicazione da uno strumento di massa ad una dimensione personale/personalizzata e le applicazioni tecnologiche si stanno orientando al soddisfacimento di questa nuova frontiera della comunicazione. Tutto questo suggerirebbe che le strategie aziendali si muovessero da un push - based marketing a un più attuale ed idoneo trust based marketing, ovvero un marketing basato sulla fiducia azienda - cliente.


I modelli di business e gli orientamenti del marketing cambiano costantemente, fin dagli albori della Rivoluzione Industriale. Oggi, soprattutto grazie alla rivoluzione digitale si sono aggiunti due nuovi ambiti ai tradizionali filoni del BtoB (Business to Business) e BtoC (Business to Consumer): il Customer to Business e il Customer to Customer. Come si è cercato di spiegare in questo articolo, questi due nuovi ambiti, ancorché ampiamente descritti e analizzati dalle riviste di management e utilizzati con successo dalle punte più innovative dell’impresa, rimangono sostanzialmente ancora inesplorati dalla grande massa delle imprese, e soprattutto delle PMI. Fra questo, il Customer to Customer è chiaramente la nuova frontiera. Il consumatore che si relazione con un altro consumatore ed influenza e determina la domanda. L’idea di immaginare il futuro è affascinante, ma è certo cosa non facile. Nessuno di noi osservatori può credere di sapere davvero cosa ci aspetta, soprattutto in un mondo volatile e in continua evoluzione come quello del mercato nella attuale congiuntura economica. Ma una cosa si può dire con qualche presunzione di certezza. Ciò su cui è opportuno puntare è l’ascolto. Ascoltare i cambiamenti che avvengono ed adottare tutti gli strumenti e i modelli che rendano possibile un dialogo autentico e interattivo con i propri clienti. I mercati sono conversazioni: questa è la principale tesi del Cluetrain Manifesto, fondamentale opera per i nuovi approcci di marketing. Crediamo che Levine e soci abbiano ragione: “Companies that assume online markets are the same markets that used to watch their ads on television are kidding themselves”5. In questo cambio epocale e nella attuale necessità di reinventare modelli per rilanciare i consumi e l’economia, le migliaia di piccole imprese che costituiscono la linfa del sistema economico italiano devono essere accompagnate in questa sfida.

Note: 1 CENSIS, Quarantatreesimo rapporto sulla situazione sociale del paese 2009, Editore Franco Angeli, 2009 2 Ricerca Netcomm - Gfk Eurisko Giugno 2009 3 Nel 2006 la Fiat lanciò un sito internet www.fiat500. com dove tutti i fan club e gli amatori della “vecchia” 500 potevano inserire i loro desiderata per lo sviluppo del nuovo modello e dove a tutti i clienti che si registravano Fiat chiedeva consigli e pareri sul prototipo della nuova 500 in via di realizzazione. La nuova Fiat 500, realizzata quindi con il contributo di tutti i “navigatori” che avevano partecipato alla comunità on line, venne poi lanciata sul mercato nel luglio 2007, con un grande successo. L’azienda farmaceutica Eli Lily ha da tempo costituito uno spin - off denominato InnoCentive che consente tramite un sito web e una comunity on line un dialogo professionale fra aziende di Ricerca e Sviluppo e ricercatori scientifici. In questo modo l’azienda può attingere ai talenti di una community globale di ricercatori scientifici senza doverli assumere, ma corrispondendo un premio o assumendo coloro che hanno portato le idee o le soluzioni ritenute più importanti e interessanti. Dal 2006 Ducati ha nel suo sito un punto di riferimento per i suoi clienti e appassionati con oltre 300.000 utenti registrati. L’azienda utilizza questo sito, come nel caso dello sviluppo della nuova Ducati Hypermotard per presentare ai propri clienti il concept di nuovo prodotto su cui richiede commenti e critiche prima di sviluppare i modelli. 4 G. P. Fabris, Societing, il marketing nell’età post moderna, seconda edizione, EGEA, 2009 5 Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls, David Weinberger, McKee Jake, The Cluetrain Manifesto, Basic Books, 2001.

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Progettare per educare

di Agnese Rosati Introdotta dal Regolamento sull’Autonomia Scolastica del ‘99, la progettazione educativa, da non confondere con la programmazione pur se con questa condivide scelte e contenuti, indica la volontà di personalizzare gli apprendimenti sulla base delle reali necessità dei soggetti coinvolti nei processi educativi (G. Mondelli, 2006). Parlare di personalizzazione in educazione significa ritagliare quell’abito che, avverte Édouard Claparéde, per essere modellato richiede cura dei dettagli, particolare attenzione e decisa sensibilità per poter “vestire” la persona. Non è sufficiente riferirsi a canoni precisi ed adoperare modelli standardizzati per sfoderare un taglio sapiente, o perlomeno questo non vale in educazione. Difatti osservare la persona, secondo un’istanza di integralità, non è l’equivalente di una misurazione corporea pur se dettagliata. Educatore e sarto lavorano con strumenti e materiali diversi. Se al sarto la qualità pregiata di un tessuto risalta all’istintivo tatto, per l’educatore l’impegno è maggiore. Servono difatti acutezza d’osservazione, spirito collaborativo e vivace motivazione in vista del rag-

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giungimento di obiettivi che permetteranno di svelare nella sua nudità1 i segreti dell’essere umano. Ciò consente di comprendere la delicatezza e la difficoltà che connotano il ruolo dell’educatore, il quale, differentemente dal sarto, non esaurisce il suo compito nella realizzazione di quell’abito che pur calca e asseconda le forme del corpo. L’educazione, difatti, fornisce cultura, dunque chiavi per leggere e interpretare la realtà e il tempo storico, trovando proprio nella cultura l’elemento capace di superare le differenze individuali in una unità di fondo che è garantita alla stessa cultura dalle forme primigenie, quali sono l’arte, la storia, la lingua, la scienza e la religione. La cultura, pertanto, in quanto inesauribile patrimonio e prodotto spirituale dell’umanità, diviene tratto che unisce gli uomini, i quali riconoscendosi in questo mondo simbolico significante trovano elementi forti di condivisione, quali lo sono quei valori che permettono di tratteggiare il panorama di senso di ogni intervento formativo. Educare non significa fornire ausili e supporti, ma far guadagnare autonomia al soggetto, condurlo per mano verso traguardi di significato della vita e dell’esistenza, tali da rafforzare in lui il senso di identità e di appartenenza che il riconoscimento dell’unità della cultura promuoverà. Di qui il bisogno di un’educazione capace di sfidare la crisi dei tempi, in grado di reggere all’ondata tempestosa di mode e nuovi dogmi, false ideologie e aleatorie verità che contribuiscono a far traballare l’Io post-moderno, attore suo malgrado di un’altra-modernità che procura incertezze, fa vacillare destini ed accentua la naturale fragilità umana (Z. Bauman, 2005, 2007, 2009). L’educazione, allora, dovrà orientare l’uomo per renderlo ancora una volta forte, fiducioso, in grado di non smarrire la centralità che risiede nel nucleo del proprio Io. Riabilitare cuore, cervello e intelligenza operativa: è questa un’esigenza e allo stesso tempo una priorità dell’intervento formativo,


capace di sollecitare il riscatto dell’uomo che avverrà nel momento in cui saprà riconoscersi artefice del tempo e del mondo, della cultura e della vita. Mode didattiche e pedagogiche (M. Mencarelli, 1987), prodotte da un sapere che si modella sull’esempio della liquidità che, osserva Bauman (2004), contagia la vita sociale, affettiva e personale, spesso trascurano natura e destino dell’uomo, poiché limitate ad una sua definizione che equivale ad una misurazione di competenze e di saper fare, nell’intenzione di fornire dei saperi che non hanno sempre possibilità di essere spesi nella realtà, per risolversi piuttosto in una somma di informazioni e conoscenze che non trova rispondenza nei bisogni personali, ben più profondi e da scovare, con sorpresa e desiderio, nell’anima. Il linguaggio dei sentimenti, quello che ha la propria radice biologica nell’amigdala, porta del sistema limbico nonché via d’accesso al segreto mondo delle emozioni, ha bisogno di cura e di rispetto per essere compreso, esige paziente ascolto, richiede impegno ed energie propositive da parte dell’educatore, il quale dovrà scegliere un percorso educativo tale da non trovare resistenza nei soggetti, bensì disponibilità e ospitale accoglienza. La personabilità (G. Catalfamo, 1987) per divenire personalità abbisogna di attenzione, premure, rispetto ed interventi congruenti tali da preservarne la singolarità soggettiva ed esaltarne la forza individuale. Ecco che anche la progettazione si spoglia di una veste anonima, impersonale, meccanica e priva di colore, per trasformarsi in un atto fiducioso di costruzione di sé. Affinché ciò possa accadere, però, vanno rispettati i bisogni di questo Io in fase di sviluppo, per una crescita volta a promuovere pienamente ciò che si è, nel doveroso rispetto di quelle conoscenze pregresse che costituiscono il bagaglio personale di sapere, la matrice cognitiva di cui ognuno dispone. Gli interventi formativi, pertanto, non possono esimersi da una saggia considerazione di più dimensioni, costituite

dai micro-contesti, quali lo sono la famiglia, il gruppo dei pari e la scuola, per allargarsi alla comprensione della società civile, macro-contesto di riferimento, nonché comune spazio d’incontro e ambiente di vita di ciascun individuo. Solo un’attenta e soppesata considerazione di queste realtà, permetterà all’educatore di intervenire davvero in senso formativo, per dare le risposte attese e le spiegazioni necessarie che contribuiscono a fare dell’azione educativa una concreta risposta alle molteplici richieste avanzate dalla società, dal mondo del lavoro e dall’economia più in generale. Ciò conferisce concretezza alla progettazione educativa nella convinzione che davvero ogni lezione (e dunque in questo caso ogni progetto) possa nascere da una domanda, per offrire una risposta interessante capace di incuriosire e di accendere la fiaccola dell’interesse e della motivazione. Se la progettazione rappresenta un lancio in avanti di quelle idee che contribuiscono a modificare l’esistente, diverrà d’altra parte nota di riferimento per un sapere impegnato, qual è quello pedagogico (G. Genovesi, 1998). La contestualizzazione, insomma, non rappresenta una scelta o una possibile chiave di lettura, per essere piuttosto necessità, la quale si tradurrà poi nella consapevolezza del momento storico e culturale. Conoscere il contesto di riferimento diviene premessa per ogni intervento educativo che nasce da una coscienziosa opera di progettazione. Ecco che l’intenzionalità emergente in educazione, finirà per fare di una prima ideazione teorica un efficace progetto formativo. Dalla effettiva capacità di rispondenza si rileverà la professionalità dell’educatore, il quale non agisce alla stregua di un operatore esperto, né tanto meno di un abile tecnico, poiché a lui spetta un compito che non si riduce al fare e al saper fare, combinandosi piuttosto in un prendersi cura che ha a cuore la persona. Soltanto avendo a cuore la persona, e muovendosi al suo stesso cuore (N. Paparella,1996), l’educazione potrà raggiungere

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gli attesi risultati, i quali si traducono in un saper vivere consapevolmente l’esistenza, riabilitando la capacità da parte del soggetto di compiere scelte importanti, nel riconoscimento di quei valori che permettono di accomunare i singoli destini e nella prospettiva di una libertà che nasce dal rispetto e che si alimenta dell’ascolto e del dialogo, per trarre vigore da un ininterrotto esercizio di ragione che nobilita l’uomo e lo libera dalle paure e dai pregiudizi. La progettazione, allora, sarà educativa quando avrà rispetto delle conoscenze dei singoli soggetti, sarà specchio della cultura di appartenenza e del territorio, saprà guidare nella scoperta dei problemi per trovarne la possibile soluzione e procederà coraggiosamente nell’esplorazione di una integrazione fra diversi linguaggi, saperi e capacità, nel rispetto e nella esaltazione delle inattese risorse umane. Ciò farà della progettazione formativa un’ampia e gratificante risposta a quei perché che costellano il sapere umano, nella convinzione che saper progettare, nel sottile confine fra scelta e possibilità, sia espressione più compiuta di intelligenza (B. Rossi, 2009). Progettazione, azione e valutazione, difatti, costringono all’esercizio intelligente l’educatore e lo guidano nella lettura dell’evento educativo, per una interpretazione che gli consentirà di elaborare una più ricca ed ampia comprensione (R. Cerri, 2007), in una aderenza alla realtà che non vincola né condiziona le prospettive future. Del resto la dimensione utopica e la carica miglioristica sono proprie dell’educazione e muovono l’educatore nell’azione, in vista di un possibile superamento dei limiti e dei condizionamenti che, altrimenti, potrebbero penalizzare la realizzazione personale. La didattica per progetti, ideata da Kilpatrick alla fine degli anni Trenta dello scorso Secolo, accosta scuola e realtà (L. Cottini, 2008), sollecita i soggetti a prendere atto dei problemi, per trovare così le sue finalità nella individuazione di probabili soluzioni.

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Il progetto nasce dal riconoscimento di un problema, dall’avvertire un bisogno che l’educatore riconosce perspicacemente ed è caratterizzato dalla flessibilità e dalla circolarità, pertanto prevedrà un momento di conoscenza a cui seguirà l’attivazione puntuale di un intervento. Emerge così la specificità propria delle conoscenze, dei linguaggi e delle culture, che si combina con la generalità delle conoscenze, rivelando la complessità delle scelte educative da compiere fra razionalità (delle ipotesi, dell’ordine di successione e di realizzazione delle fasi) e idealità che orienta alle finalità e che conferisce tensione al progetto educativo. L’analisi della situazione, pertanto, rappresenta il primo passo nella progettazione educativa poiché permette di costruire una esplicita mappa di valori di riferimento e di aspettative culturali, da cogliere con il metodo osservativo in particolare, il quale farà dell’osservazione non soltanto lo strumento privilegiato di conoscenza, ma pure una rigorosa modalità di ricerca scientifica. Dare risposte ai bisogni formativi, pertanto, vuol dire partire dalla loro accurata analisi per offrire interessanti percorsi di apprendimento attraverso interventi e strategie che, per mezzo di un costante monitoraggio, permetteranno di valutare possibili modificazioni in atto. Il primo step della progettazione, inoltre, consente di valorizzare le risorse umane, con decisioni relative all’attribuzione di compiti e responsabilità allo scopo di interagire con i destinatari del progetto, per un coinvolgimento che renderà loro partecipi e attivi. L’individuazione di finalità educative, da conseguire per mezzo di obiettivi educativi, generali e specifici, rappresenta il passo successivo nel percorso di realizzazione progettuale che richiede anche la scelta e la selezione dei contenuti. Si tratta di stabilire quali saperi sono irrinunciabili, saperi che per essere posseduti rinviano a precisi procedimenti metodologici. Riflettere sulla metodologia, significa chiedersi come strut-


turare i percorsi, come motivare i destinatari e quali esperienze privilegiare per favorire la continuità educativa e didattica. Ricerche, modelli di sperimentazione, strumenti e diverse tecniche dovranno essere costantemente discusse, in vista di una valutazione che assume la funzione di diagnosi, di prognosi e di controllo. La predisposizione di strumenti di valutazione, difatti, rappresenta una tappa particolarmente significativa nella progettazione di qualsiasi intervento che per dirsi formativo dovrà dare risposte ai bisogni, in vista di quel successo educativo che si traduce con un apprendimento significativo, pertanto consapevole (M. Pattoia, 2010) dichiarazione, dunque, di un impegno che coinvolge educatore ed allievo, maestro e scolaro, in un dialogo di anime capace di promuovere dignità e libertà umana. La progettualità educativa, difatti, finisce per essere sfondo di costruzione di senso, nella convinzione che la costituzione dell’Io sia un problema educativo, pertanto da affrontare sotto un’ottica ampia, allargata, tale da coinvolgere l’Io nella totalità e complessità della sua storia, della coscienza e del pensiero, per cogliere in questa genesi la forma di un Io personale durevole (P. Bertolini, 1988), che, ridestato nella sua umanità, come vuole Maritain, potrà avvenire solo ad opera dell’educazione, per superare così quella debolezza naturale, descritta da Rousseau, che rivela una carenza di forze alla base della costitutiva fragilità umana. Sarà proprio l’educazione, allora, a permettere all’uomo di farsi manifesto a sé medesimo, sottolinea Paparella, nel riconoscimento di un costante e mutevole bisogno di educazione. Riconoscere la presenza di questo bisogno significa procedere nella ri-scoperta dell’uomo come

autore della vita e architetto di esistenza, in un impegno che se richiede di non risparmiare forze ed energie, può d’altra parte valorizzare quel capitale invisibile assopito in ogni persona, in un atto di personalizzazione consapevole di sé, della conoscenza, del mondo e della vita. La progettazione educativa, dunque, troverà coerenza e consapevolezza nello sforzo, compiuto reciprocamente da maestro e allievo, di costruzione di senso (Piero Bertolini,1988 ) che fa dell’evento educativo un’apertura al possibile, in un intreccio di relazioni fondate sulla responsabilità che diviene premessa per la comprensione di sé e dell’altro, in un dialogo fra mondi (interiorità e alterità) che impegnano cuore e intelligenza umana. Questo impegno, infine, sarà prova di autenticità di una progettazione che, essendo costruita sui soggetti ed improntata ad una visione ecologica, saprà accogliere e valorizzare le molteplici dimensioni della personalità. In questa prospettiva la progettazione educativa non diverrà sterile trasmissione di contenuti, bensì concreto aiuto ai processi di sviluppo, lontana dai modelli virtuali e standardizzati che ignorano realtà oggettiva e soggettiva in educazione. Progettazione, dunque, non alla stregua di una geometrica pianificazione di apprendimenti, bensì tensione valoriale e, proprio per questo, elemento di allontanamento dai pregiudizi e dalle mode, più sensibili all’efficienza e al tecnicismo che ad una sana valorizzazione della persona. Progettazione, infine, come itinerario formativo (B. Rossi, 2009) in un percorso di crescita che impegna l’uomo, il quale si dichiara consapevole dei limiti e delle proprie risorse, in vista di una allenamento della persona all’autodirezione e alla costruzione di sé. Questa sarà una pro-

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gettazione autentica, quindi significativa per il singolo e per l’intera collettività, in un darsi reciproco che garantisce vitalità alle relazioni umane, per uno scambio di prospettive che fa credere realmente in una fusione d’orizzonti dalla quale ogni uomo potrà trarre un arricchimento personale in uno sforzo di esistere che sa ben conciliarsi col desiderio di essere (G. Marcel, 1992). Note: 1 Il termine nudità rinvia alla natura poliforme e strutturale dell’uomo. Riferimenti Bibliografici: BAUMAN Z., Amore liquido, Bari, Laterza, 2004; BAUMAN Z., La società sotto assedio, Roma-Bari, Laterza, 2005; BAUMAN Z., Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Roma-Bari, Laterza, 2007; BAUMAN Z., La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2009; BERTOLINI P., L’esistere pedagogico. Ragione e limiti di una pedagogia come scienza fenomeno logicamente fondata, Firenze, La Nuova Italia, 1988; CATALFAMO G., Fondamenti per una pedagogia della speranza, Brescia, La Scuola, 1986; CERRI R., (a cura di), L’evento didattico. Dinamiche e processi, Roma, Carocci, 2007; CLAPARÉDE E., La scuola su misura, Firenze, La Nuova Italia, 1993; COTTINI L., (a cura di), Progettare la didattica: modelli a confronto, Roma, Carocci Faber, 2008; GENOVESI G., Le parole dell’educazione. Guida lessicale al discorso educativo, Ferrara, Corso editore, 1998; MARCEL G., L’uomo problematico, Roma, Borla, 1992; MENCARELLI M., Infanzia Progetto Pedagogico, Brescia, La Scuola, 1987; MONDELLI G., La progettazione formativa personalizzata. Obiettivi formativi, unità di apprendimento, piani di studio personalizzati, Roma, Anicia, 2006; PAPARELLA N., Istituzioni di Pedagogia, Lecce, Pensa MultiMedia, 1996; ROSATI A., MOROZZI C., PATTOIA M., Pedagogia, Didattica e Apprendimento consapevole, Roma, Aracne, 2010; ROSSI B., Intelligenze per educare, Milano, Guerini Scientifica, 2009.

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Promuovere la prosocialità lungo l’arco di vita. Il ruolo delle agenzie educative. Parte seconda. Variabili psicologiche e fattori educativi

di Savina Cellamare Premessa L’attenzione che la cultura contemporanea riserva allo sviluppo della sensibilità verso l’altro e al problema del rispetto delle differenze (culturali, religiose, di genere ecc.) in un’ottica di integrazione e di inclusione ha sollecitato l’interesse della ricerca (non solo educativa ma anche filosofica, antropologica, sociologica, psicologica) verso lo studio delle ragioni e delle condizioni per le quali e attraverso le quali promuovere quella reciprocità che, trasformando l’esistenza in coesistenza, diventa principio fondante dell’essere in relazione. È questa la cornice nella quale abbiamo racchiuso la serie di contributi sul tema della prosocialità, i cui presupposti concettuali sono sati presentati nel precedente numero di questa rivista. Nel delineare i caratteri dello stile e delle azioni prosociali è emersa la molteplicità di elementi che concorrono alla definizione di una struttura che investe la persona nella totalità delle sue dimensioni: cognitiva, affettiva, emotiva, relazionale.

Questa configurazione, poiché è frutto di apprendimenti che si formano nell’interazione con i diversi ambienti di vita, non è immutabile: atteggiamenti, credenze, modi di sentire, convinzioni riferite a se stessi o ad altri, infatti, possono cambiare attraverso la modificazione dell’ambiente di vita. La caratteristica della modificabilità determina un ampio margine per l’azione educativo-formativa ma rimanda anche alla necessità per chi educa (genitore, insegnante, allenatore o altro) di acquisire una chiara consapevolezza del proprio stile educativo, potente filtro attraverso il quale i destinatari dell’azione educativa ricevono messaggi fondamentali per la costruzione dell’idea che hanno di se stessi e del proprio valore come persone. Lo sviluppo e la modificazione dei diversi repertori di abilità prosociali va quindi considerato in rapporto al contesto relazionale in cui apprendono e si espletano e alle conseguenze che l’azione prosociale messa in atto produce. Si tratta di un legame molto stretto, nel quale si costruisce l’identità personale, ovvero la struttura psicologica che sorregge l’esistenza individuale. Le variabili psicologiche Nel gioco delle interazioni con gli altri si acquisiscono, si sviluppano e si affinano i prerequisiti all’azione prosociale ma si costruiscono anche le variabili psicologiche senza le quali l’azione stessa, e più in generale lo stile prosociale, difficilmente possono attivarsi. Empatia, altruismo, solidarietà, ascolto attivo, per tradursi operativamente in modi di fare e di essere richiedono un adeguato senso di autoefficacia e una reale motivazione a investirsi nelle relazioni interpersonali e sociali. La self efficacy Il concetto di autoefficacia, o self-efficacy, elaborato da Bandura nell’ambito della teoria sociocognitiva e più volte rivisto nel

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corso degli anni dallo stesso autore, è stato indagato e utilizzato in diversi contesti -sanitario, scolastico, organizzativo ecc. - in quanto può essere applicato alla risoluzione di molteplici problemi, di natura cognitiva o interpersonale. La self-efficacy infatti fa riferimento alle convinzioni che ciascuno ha circa la propria capacità di controllare i propri processi operativi, determinando per se stesso possibilità di successo o di fallimento attraverso un’adeguata gestione delle situazioni che si vivono (cfr. Bandura, 1995). Queste convinzioni «influenzano i livelli di aspirazione, le mete che ci si prefigge di raggiungere e l’impegno che per esse viene profuso, le spiegazioni che si danno dei propri successi e insuccessi, la resistenza alle frustrazioni, le strategie di gestione dello stress, la vulnerabilità allo scoraggiamento e la depressione. La convinzione di essere in grado di dominare la situazione induce a percepire le difficoltà come occasioni per mettersi alla prova, non lascia che ruminazioni o ripensamenti interferiscano con la realizzazione dei propri propositi, porta a focalizzarsi sulla soluzione di problemi e sull’impiego migliore delle proprie abilità e delle risorse disponibili» (Caprara, 2000, p. 36). Le idee che le persone hanno circa la propria efficacia sono pertanto alla base di una buona capacità previsionale; questa consente loro di visualizzare mentalmente sequenze d’azione secondo una modalità di pensiero analitico e di prefigurare scenari d’azione possibili. Si tratta di operazioni fondamentali per attuare scelte strategiche consapevoli, attraverso cui controllare avvenimenti e circostanze, regolare il proprio comportamento in funzione di questi, scegliere nel proprio repertorio di conoscenze e abilità quelle più adeguate alla particolare situazione, valutare i risultati a breve e lungo termine delle azioni che si prevede di compiere. È quanto avviene, per esempio, nel processo di decisione che porta a intrapren-

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dere o meno un’azione sociale, avendo valutato i costi personali implicati nella scelta di intervenire a favore di una persona o di una situazione identificata come bisognevole di aiuto o di supporto. Un buon livello di autoefficacia è quindi un bagaglio, sia cognitivo sia emotivo, che consente a una persona di perseguire degli obiettivi anche in caso di difficoltà, o di affrontare situazioni ambientali particolarmente impegnative. È evidente che una self efficacy ben strutturata può favorire il benessere e il successo personale in molti modi. Generalmente infatti le persone sufficientemente sicure delle proprie capacità in determinati ambiti affrontano i compiti difficili con spirito costruttivo e li concepiscono come sfide da vincere piuttosto che come pericoli da evitare. Tale atteggiamento favorisce la motivazione a porsi obiettivi ambiziosi e a perseguirli fino al loro raggiungimento, con una profonda partecipazione a ciò che si fa. Le situazioni insidiose, o comunque non favorevoli, sono affrontate con la sicurezza che possono essere controllate e in caso di insuccesso il senso di efficacia viene recuperato piuttosto velocemente. Le persone autoefficaci tendono a intensificare il proprio impegno e a mantenerlo costante nei momenti di difficoltà, rispetto ai quali esibiscono un locus prevalentemente interno, attribuendo gli esiti conseguiti soprattutto a se stessi e non a cause fortuite, come accede ai soggetti con locus esterno. Si attiva così un circolo virtuoso che sostiene i processi di autocontrollo e di autoregolazione, e che partendo dall’autoefficacia percepita spinge la persona alla ricerca di soluzioni a un dato problema, come può essere il tipo di aiuto da portare in una determinata situazione, personale o collettiva. Le convinzioni di autoefficacia sono il fondamento su cui poggiano i meccanismi di agentività personale, termine con il quale si indica la capacità individuale di generare


azioni volte al conseguimento di un dato scopo. Un basso senso di efficacia personale è invece associato spesso all’aggressività, sia fisica sia verbale, ai tentativi di non assumersi la responsabilità delle proprie azioni per evitare sanzioni dall’esterno, o anche per sfuggire ad altrettanto scomode autosanzioni morali, ed è pertanto palesemente antitetico a uno stile d’interazione prosociale. Il concetto di sé e l’autostima Sulla disponibilità all’azione prosociale, tuttavia, non incide solo l’autoefficacia. Anche il concetto di sé è infatti una variabile psicologica molto influente; costituisce infatti un’autovalutazione generale, positiva o negativa, che una persona dà su se stesso e non investe in modo specifico compiti, condotte o repertori di competenze, come avviene invece per il senso di autoefficacia personale. Occorre inoltre considerare il peso esercitato sulla capacità di essere in relazione all’autostima, alla cui costruzione concorre l’insieme delle percezioni, delle valutazioni e dei sentimenti che un individuo prova nei confronti di se stesso, delle abilità che possiede o che pensa di possedere. Gli studi hanno messo in luce un aspetto interessante dell’autostima, che la differenzia sia dall’autoefficacia sia dal concetto di sé: mentre la self efficacy riguarda giudizi di capacità personale l’autostima investe un piano diverso, cioè il valore personale; sembra inoltre non esserci una relazione definita tra le convinzioni sulle proprie capacità e il fatto di piacere o meno a se stessi. Questo implica che si possa avere una buona autostima pur riconoscendosi poco o affatto competenti o efficaci in un certo settore di attività, se però tale inefficienza non è sentita come lesiva del proprio valore personale. È vero tuttavia anche l’assunto contrario, e cioè che pur riconoscendosi efficaci in un certo ambito questa

adeguatezza non genera automaticamente soddisfazione e compiacimento. Rimane comunque il fatto innegabile che in genere si tende a investirsi in attività o esperienze attraverso le quali si sperimenta un senso di valore personale e non in situazioni che potrebbero mettere in discussione tale valore (cfr. Bandura, 2000). È facile intuire che i fattori psicologici appena considerati - autoefficacia, concetto di sé, autostima - non agiscono solo sul funzionamento del singolo individuo. Poichè si strutturano e si esplicano nell’interazione con gli altri si riverberano sul sistema di relazioni in cui una persona è inserita; si parla perciò di efficacia collettiva. Questa si genera all’interno di gruppi entro i quali i singoli componenti vivono una interdipendenza positiva, un legame che si genera mediante la condivisine di interessi, aspettative, comportamenti, valori. Questi elementi svolgono una funzione aggregante in quanto stimolano il gruppo a investire energie, tempo, risorse (umane, economiche, strutturali ecc.) in vista della realizzazione di obiettivi che sono vissuti come patrimonio di tutti e di ciascuno. Il raggiungimento di un obiettivo collettivo, inoltre, è anche il risultato del coordinamento che il gruppo ha saputo darsi, e cioè della sua regolazione interna; anche a livello collettivo, come avviene per il piano individuale, l’autoefficacia mantiene quindi le caratteristiche di autocontrollo che consentono l’autoregolazione delle azioni intraprese. La motivazione Perché si abbia voglia di investirsi in un progetto, in una relazione, in un percorso di vita, occorre che il livello di autoefficacia sia sostenuto dalla motivazione ad agire. Questa si configura come la forza generativa necessaria perché una persona sia disposta a impegnarsi in qualcosa che ritiene importante, profondendo energie anche notevoli e protratte nel tempo. Tale fattore

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non è però un toccasana i cui effetti benefici si innescano e si ripercuotono sull’agire in modo unidirezionale (un esempio ricorrente di questo modo ingenuo di pensare la motivazione si ha nella constatazione sconsolata che fanno a volte gli adulti - genitori e insegnanti- di fronte al basso rendimento scolastico di un allievo: non è motivato a studiare. Probabilmente è vero ma occorrerebbe che gli adulti in questione facessero un passo ulteriore nella loro riflessione, interrogandosi sui modi e sulle ragioni per cui l’azione di studiare non genera motivazione, ma di questo specifico rapporto ci sarà occasione di parlare in futuro); il legame tra motivazione e azione si caratterizza infatti per la reciprocità che collega i due termini. La motivazione a svolgere un’attività, a intrattenere scambi affettivi e sociali, dipende infatti dagli aspetti gradevoli a questa correlati, dalle conseguenze positive che ne derivano, dalla sensazione di adeguatezza che un soggetto sperimenta a seguito del raggiungimento degli obiettivi preventivati. Le aspettative sugli esiti di un’azione, le attribuzioni che se ne fanno, le reazioni emotive che si innescano, a loro volta influenzano la disponibilità di un individuo a investire tempo e fatica in una attività, ad adottare strategie d’azione idonee, a elaborare e perseguire piani d’intervento mirati al conseguimento di un successo, personale o collettivo. La motivazione tuttavia non è un costrutto globale, che investe tutti gli aspetti e le attività di una persona in modo indistinto. La sua differenziazione si realizza attraverso il progredire delle esperienze ed è il risultato dell’intreccio che queste creano con i motivi sociali e le caratteristiche personali. I rapporti tra i diversi fattori e gli effetti che le loro interazioni producono sono espressi da Susan Harter con la formula motivazione di competenza (Cellamare, 1999). L’autrice mostra attraverso un interessante modello speculare le conseguenze cognitive e affet-

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tivo-relazionali di una competenza percepita e di una mancata percezione di competenza, esplicitando la relazione che esiste tra lo sviluppo della motivazione di efficacia e i tentativi di padroneggiare le diverse attività che si affrontano nei vari contesti di vita (Figura 1). Se questi tentativi hanno conseguenze gratificanti la persona che li compie interiorizza un sistema di autogratificazione che la rende indipendente dalla valutazione o dal giudizio esterni; si accresce inoltre in lei la percezione sia della sua competenza sia della sua capacità di controllo sull’ambiente. La percezione di competenza influenza il senso di soddisfazione intrinseca e accresce la motivazione ad intraprendere nuove azioni ed esperienze che portino ad acquisire padronanza in un dato ambito. La motivazione invece diminuisce se le azioni compiute nell’ambiente sono sminuite, o comunque non portano a risultati positivi. Le conseguenze negative, sistematicamente ripetute, producono una scarsa sensazione di competenza e rinforzano la dipendenza dai fattori esterni, che di fatto finiscono con il diventare gli agenti che esercitano il controllo dell’azione. In coloro che si ritengono incapaci di governare adeguatamente i rapporti con l’ambiente di vita perché si percepiscono come poco competenti si attivano facilmente stati di ansia, anche molto elevati, che possono indurre una diminuzione della motivazione ad affrontare compiti di padronanza. Con parole diverse possiamo dire che ripetuti insuccessi portano allo sviluppo dell’impotenza appresa o helplessness, dalla quale possono derivare atteggiamenti rinunciatari e la propensione ad assecondare eccessivamente il corso degli eventi, per evitare il pericolo di esporsi a situazioni non controllabili o sgradevoli o anche dolorose. Non è facile mantenere sempre alta la motivazione a svolgere un compito o un impegno -sociale, di apprendimento e di altro tipo- soprattutto nei momenti di difficoltà;


tuttavia si può apprendere a potenziare la propria motivazione e a prevenire la demotivazione ricorrendo con consapevolezza ad alcuni accorgimenti, che spesso sono attuati a livello inconsapevole e sfuggono perciò all’autocontrollo. Un primo passo consiste nell’autorinforzarsi, concedendo a se stessi il privilegio di una “lode a voce alta” che esprima contenuti e sentimenti positivi verso se stessi, o anche un premio tangibile per quanto si sta facendo. Inoltre è molto motivante rendersi conto del progressivo avvicinarsi alla meta stabilita ed è perciò opportuno darsi dei feedback, cioè valutare ripetutamente l’andamento dei processi avviati per essere in grado di identificare tempestivamente eventuali punti deboli e correggere il percorso. Un attivatore della motivazione è senza dubbio la curiosità, che si accompagna in ge-

nere alla flessibilità, cioè alla capacità di sperimentare strategie nuove senza cristallizzarsi su abitudini consolidate, la cui padronanza può non essere però garanzia di un sicuro risultato. Il naturale desiderio di scoperta trova stimolo nel confronto con problemi non familiari, rispetto ai quali sperimentare le strategie e le conoscenze che si possiedono; queste situazioni costituiscono una sfida che stimola all’azione. Inoltre la motivazione aumenta davanti a un problema che ha un’alta rilevanza perché incontra i propri interessi personali. Il prevalere di stati affettivi negativi, quali ansia, collera ecc., non giova alla motivazione, che è invece sostenuta da emozioni e sentimenti positivi, come evidenziano gli studi sull’intelligenza emotiva e sull’intelligenza sociale (cfr. Goleman, 1996; Goleman, 2006).

Figura 1 Strutturazione della motivazione di competenza.

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I fattori educativi e ambientali Come si è accennato nel precedente contributo (QTimes, n. 4, 2010), l’apprendimento delle abilità prosociali avviene principalmente attraverso l’osservazione di modelli; nel processo educativo pertanto il possesso da parte degli adulti di riferimento di questo tipo di abilità è un fattore determinate nella promozione dell’educazione prosociale nei giovani. È infatti molto difficile, per non dire impossibile, che si possano trasferire ad altri abilità, attitudini o valori che non siano stabilmente integranti nel personale patrimonio di competenze relazionali. Molti studi, del resto, hanno dimostrato da tempo come uno stile di rapporto interpersonale caldo, basato sul sostegno, la sensibilità e la disponibilità verso i bambini, favorisca in loro lo sviluppo di atteggiamenti positivi (cfr. Tausch- Tausch, 1979; Csikszentmihalyi, 1990, CsikszentmihalyiSchneider, 2002), confermando quanto già sostenuto dalla saggezza popolare circa la validità dell’“esempio di vita”. I principali fattori educativi che possono promuovere o ostacolare l’acquisizione di repertori e di competenze e di modalità di rapporto prosociale sono quindi il modello educativo, lo stile attraverso il quale tale modello agisce e l’ambiente che è capace di creare. Il ruolo dell’educatore Proporsi come modello è certamente un compito impegnativo per chiunque, indipendentemente dal ruolo educativo svolto; perché non diventi anche un impegno disorientante è probabilmente opportuno delineare un profilo degli atteggiamenti e delle condotte che qualunque adulto impegnato in un’attività educativa deve porre in atto per promuovere lo sviluppo della prosocialità. Le ricerche condotte in merito suggeriscono un’articolazione del profilo complessivo in cinque aree, tra le quali vi sono ampi spazi di contaminazione e di scambio: atteggiamenti e condotte generali, co-

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municazione, emotività e affettività, atteggiamenti e condotte indirettamente legati alla prosocialità, atteggiamenti e condotte direttamente legati alla prosocialità. Ogni area è caratterizzata da specifici atteggiamenti e azioni. L’area degli atteggiamenti e delle condotte generali comprende diversi elementi, quali: la promozione dell’autostima dell’altro attraverso l’espressione di accettazione e di affetto nei suoi confronti, la contrattazione di norme chiare ma non coercitive della libertà individuale all’interno di un gruppo o di un ambiente, la capacità di evitare l’attivazione di elevati livelli di ansia, senza per questo eliminare la sperimentazione di difficoltà e inquie-


tudini, la promozione dell’autostima personale attraverso l’espressione di un adeguato apprezzamento. Inoltre l’adulto deve essere in grado di sollecitare nei ragazzi livelli di performance adatte all’età mantenendo nei loro confronti elevati livelli di aspettative, incrementare situazioni che favoriscono serenità e allegria, cioè un clima che stimoli atteggiamenti e azioni tipiche dell’area della comunicazione, ovvero la partecipazione dei sentimenti provati, soprattutto in rapporto a condotte prosociali, da parte sia dell’educatore sia del bambino. L’area dell’emozionalità e dell’affettività riguarda invece la capacità dell’educatore di creare un ambiente affettivamente positivo, che faccia sperimentare

a chi vi partecipa l’accettazione da parte dell’educatore stesso e degli altri. Perché questo avvenga l’adulto deve essere modello di capacità empatica; tuttavia il trasferimento nel bambino/ragazzo di valori umani manifestati e vissuti non può essere disgiunto dalla stimolazione verso la percezione della complessità implicata nelle azioni umane e la previsione delle loro conseguenze. Queste condizioni possono sollecitare la capacità creativa nella ricerca della soluzione a problemi personali e sociali attraverso una partecipazione che promuova nel giovane una valutazione positiva verso l’altro. La quarta area, ovvero quella degli atteggiamenti e delle condotte direttamente legate alla prosocialità, prevede l’attribuzione di valori positivi ai bambini/ragazzi e l’espressione di fiducia nei loro confronti, l’esortazione a utilizzare il proprio repertorio prosociale in situazioni concrete che lo richiedano, l’incoraggiamento all’identificazione con ideali e valori prosociali, anche attraverso l’offerta di modelli proposti dai media, la promozione dell’apprendimento di condotte tese a favorire altri attraverso attività responsabilizzanti, l’elargizione di una gratificazione adeguata in risposta all’esibizione di abilità prosociali. Occorre comunque considerare che non tutti gli atteggiamenti e le condotte incidono direttamente sulla prosocialità. Tra quelle che hanno un effetto indiretto (area degli atteggiamenti e delle condotte indirettamente legate alla prosocialità) vi sono: il mantenimento del controllo delle regole sociali (a scuola si parla di disciplina), che deve basarsi sull’induzione, richiamando l’attenzione dei bambini sulle conseguenze che le proprie azioni producono sugli altri; lo scoraggiamento della competitività e dell’aggressività mostrando come la ricaduta di queste modalità d’azione possa compromettere l’interazione con gli altri.

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Gli stili e l’ambiente educativo Il modello di interazione sociale che l’adulto propone e attraverso il quale contribuisce a orientare lo sviluppo delle competenze prosociali della persona giovane è influenzato dallo stile educativo adottato prevalentemente nell’esercizio del proprio ruolo di educatore. Gli stili educativi sono comportamenti complessi, che tendono a ripetersi con regolarità nel corso del tempo in situazioni più o meno diverse. In quanto acquisiti attraverso l’osservazione e l’interiorizzazione di modelli culturalmente tramandati sono resistenti al cambiamento e possono essere legittimati socialmente, anche quando le evidenze scientifiche ne dimostrino l’inefficacia, o anche la disfunzionalità, nella promozione di uno sviluppo globalmente armonico di un bambino/ragazzo. Lo stile educativo contribuisce infatti a definire l’ambiente e il clima entro il quale l’interazione ha luogo ed è noto da tempo che una condizione di vita (familiare o scolastica) di tipo supportivo, affettivamente ricca, spontanea, giocosa, fornisce ai giovani sollecitazioni e sostegno nell’esplorare aree di interesse, nell’assumere responsabilità sempre crescenti che aprono la strada all’acquisizione di nuove abilità e alla sperimentazione di livelli più elevati di autocontrollo e di autonomia. I bambini e i ragazzi che si sentono sorretti dalle figure educative di riferimento, autorevoli in quanto affettivamente importanti, si percepiscono come persone che valgono e tendono quindi ad essere ottimisti e motivati. Anche se può sembrare una precisazione superflua è forse opportuno ricordare che non può trattarsi di un sostegno occasionale e asistematico ma deve rappresentare una costante; in assenza di questa condizione non si potrebbe parlare di coerenza educativa, stile che rappresenta una condizione imprescindibile per la promozione e lo sviluppo di una modalità di rapporto con se stessi e con i diversi ambienti di vita improntata alla prosocialità. Per descrivere

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in modo concreto il concetto di coerenza è forse utile vederlo parallelamente al suo opposto, cioè l’incoerenza, che si caratterizza sia per la mancata esplicitazione delle indicazioni educative (per esempio le regole da rispettare, gli obiettivi educativi da conseguire, le aspettative di chi partecipa alla relazione ecc.) sia per la mutevolezza e la labilità delle indicazioni stesse. Poiché ogni relazione umana poggia su un sistema di contrattazioni -che in campo educativo restano troppo spesso sottese e rischiano di diventare strumenti di ricatto- queste mancate esplicitazione possono essere il sintomo e il veicolo di una incoerenza educativa di fondo, che ha ripercussioni negative sullo sviluppo cognitivo, affettivo e relazionale di un giovane. Questi infatti può trovarsi esposto a richieste contrastanti o non coincidenti con i suoi interessi o con le sue capacità e indubbiamente per una persona, di qualunque età, ricevere richieste non chiare o contraddittorie è fonte di apprensione e di disagio. L’esposizione a messaggi di incerta lettura può avere implicazioni piuttosto serie e condurre all’insorgenza di patologie e disturbi emozionali, cognitivi e comportamentali. I messaggi coerenti costituiscono invece dei discriminanti che permettono alla persona di associare a situazioni o ad azioni delle conseguenze prevedibili, in base alle quali scegliere consapevolmente l’azione ritenuta migliore o desiderabile, in coerenza con il codice di valori e di norme che strutturano il suo mondo e rispetto alle quali si percepisce e si valuta. Questi punti di riferimento vengono meno quando comportamenti identici producono effetti differenti o, al contrario, comportamenti opposti generano effetti uguali. La difficoltà a orientarsi in un sistema educativo incoerente si pone come il principale fattore capace di determinare disturbi emozionali e comportamenti predevianti e di ostacolare la strutturazione di un senso di autoefficacia


personale e collettiva positivo, capace di promuovere la qualità di vita a livello individuale e sociale. Oltre allo stile incoerente ve ne sono altri che sicuramente sono antitetici alla sociale promozione della persona e allo sviluppo di atteggiamenti e condotte prosociali: sono lo stile iperprottettivo, iperansioso, ipercritico, perfezionistico. Per ora ci limitiamo a enunciarli, per ritrovarli in un successivo intervento, quando sarà affrontato il tema della pro socialità in famiglia. Conclusioni Il profilo della prosocialità che abbiamo cercato di delineare evidenzia come questa rappresenti uno stile di comunicazione interpersonale, che si struttura in maniera più o meno efficace nell’interazione con l’ambiente di vita per effetto del complesso intreccio di fattori di varia natura: cognitiva, affettiva, sociale, relazionale. In una visione prosociale della relazione con l’altro, i partecipanti svolgono un ruolo attivo e propositivo, dando così consistenza operativa a elevate mete educative, il cui conseguimento segue percorsi diversi a seconda che si attui in contesti educativi formali, come la scuola, non formali, ovvero non istituzionali, oppure informali, come la famiglia. La trasformazione di queste mete in un curricolo esplicito di insegnamento-. apprendimento da attuare nella scuola, ad iniziare dalla scuola dell’infanzia, sarà l’argomento del prossimo contributo. Riferimeni Bibliografici: BANDURA A. (a cura di), Il senso di autoefficacia, Trento, Ericksoo, 195.; BANDURA A., Autoefficacia. Teorie e applicazioni, Trento,Ericksoo, 200.; BELLACICCO D., CELLAMARE S., Introduzione all’osservazione del bambino. Come rilevare le abilità prosociali nella scuola dell’infanzia, Roma, Monolita, 199.; BRINT S., Scuola e società, Bologna, Il Mulina, 202.; CAPRARA G. V., L’efficacia collettiva, n «”Psicologia

contemporaea»”, n. 159, maggio-giugno 2000, p. 3439.; CAPRARA G.V. (a cura di), La valutazione dell’autoefficacia. Interventi e contesti culturali, Trento, Ericksoo, 201.; CELLAMARE S., Educare alla genitorialità: riflessioni per un percorso possibile, in «Prospettiva EP», anno XIX, n. 1, gennaio-aprile 2006a, pp 722.; CELLAMARE S., I Bisogni Educativi Speciali, ovvero le disabilità “invisibili”, in «Prospettiva EP», anno XXXI, n. 3, settembre-dicembre 209.; CSIKSZENTMIHALYI M., Flow: The psycology of optimal experience, New York, Harper & Rok, 190.; CSIKSZENTMIHALYI M., SCHNEIDER B., Diventare adulti. Gli adolescenti e l’ingresso nel mondo del lavoro, Milano, Raffaello Cortino, 202.; GOLEMAN D., L’intelligenza emotiva, Milano, Buo, 196.; GOLEMAN D., L’intelligenza sociale, Milano, Rizzolo, 206.; GREINFENEDER R., Imitare rende più disponibili ad aiutare gli altri, in «Psicologia contenporanea», n. 212, marzo-aprile 2009, p.35.; HESCHEL A. J., Chi è l’uomo?, Milano, Ruscono, 205.; PEDRABISSI L. - SANTINELLO M., Il «Self-Perception Profile for Children di Susan Harter». La diagnosi della motivazione e della propria competenza negli alunni della scuola dell’obbligo, in «Psicologia e scuola», n. 61, 1992, pp 314.; RHEIENBERG F., Psicologia della motivazione, Bologna, Il Mulina, 197.; RICOEUR P., Sé come un altr, JMilano, Jacabooo, 193.; ROSA ANGELA F., Genitori positivi, figli forti, Trento, Eriksoo, 203.; SCHNEEWIND K.A., L’influenza dei processi familiari sulle convinzioni di controllo, in Spencer L.M.Spencer S.M., “Competenza nel lavoro. Modelli per una performance superiore”, Milano, Franco Angelo, 2001, p.33.; STERNBERG R. J. - RUDGIS P. (a cura di), Personalità e intelligenza. Teorie e modelli di interconnessione, Trento, Ericksoo, 194.; TAUSCH R. - TAUSCH A.M., Psicologia dell’educazione, Roma, Città Nuova, 179.; ZAMPERINI A., L’aiuto negato, in «Psicologia contemporanea», n. 171, maggio-giugno 2002, p. 4-10.

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La valutazione di politiche socioeducative. L’apporto della metodologia qualitativa Parte seconda. I risultati dell’intervento e la valutazione interpretativa

di Roberto Melchiori, Savina Cellamare Premessa Con l’avvio di interventi di politica socioeducativa, gli organi istituzionali, quali i Comuni, le Province, le Regioni, i Ministeri e, a volte, gli Organi Costituzionali (cfr. sitografia di riferimento) intendono sostenere lo sviluppo della persona giovane nella sua globalità, ovvero per tutti gli aspetti che riguardano l’ambito fisico e psicologico, sociale e di cittadinanza. In particolare, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), anche in collaborazione con altri Ministeri, direttamente e attraverso la sua struttura territoriale,è impegnato a promuovere e a mantenere attivi nel tempo interventi volti principalmente al contrasto delle diverse forme di difficoltà e di disagio, individuale e sociale, presenti soprattutto nella popolazione giovanile. Anche l’intervento denominato “Centri di Aggregazione Giovanile -2you” (o Centri-2you) è parte degli interventi di carattere socioedu-

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cativo che hanno avuto come destinatari gli studenti, i giovani e le famiglie. Per i giovani e gli studenti gli interventi hanno avuto come scopo principale lo sviluppo o il miglioramento di repertori di capacità e abilità trasversali da utilizzare con padronanza nei diversi contesti e nelle varie situazioni di vita. Alle famiglie o ai singoli genitori sono stati proposti percorsi, individuali o di gruppo, di formazione alla genitorialità e di sostegno alle funzioni educative della famiglia, in risposta alle richieste di aiuto nella gestione della trasformazione della sua struttura (si pensi per esempio alle famiglie ricostruite) e delle relazioni tra componenti della famiglia stessa. All’intervento dei Centri-2you è stato associato uno specifico programma di valutazione, (Melchiori - Cellamare, 2010), contraddistinto da una logica valutativa comprendente: • una metodologia mista per la raccolta e l’analisi dei dati; • una metodologia interpretativa per comprendere ed evidenziare i risultati ottenuti. Nell’analisi dei risultati raggiunti si è fatto riferimento ai traguardi inseriti nelle domande valutative; queste esplicitavano in termini di grandezze gli obiettivi stabiliti dal Committente del progetto, ovvero la Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione del MIUR (già Direzione Generale per lo Studente). Tali grandezze riguardavano in particolare:  il raggiungimento delle soglie numeriche programmate dei destinatari da raggiungere;  l’esame della percezione e della soddisfazione degli utenti circa il servizio erogato;  le tipologie del servizio progettato, fornito e regolato dagli operatori dei Centri;  l’opportunità del servizio reso rispetto ad analoghi presenti sul territorio. In questo articolo, che segue il primo contributo pubblicato sul numero 4 di questa rivista,


si descriveranno i risultati delle elaborazioni effettuate sui dati, raccolti attraverso:  la strumentazione quantitativa, con cui si sono raccolti nel tempo i dati relativi alla numerosità dei destinatari e degli interventi, la tipologia delle attività condotte e le condizioni entro cui si sono svolte;  la strumentazione qualitativa, con cui si sono condotte le interviste ai beneficiari e le osservazione sul campo da parte di osservatori esperti; la strumentazione di reporting, con cui si sono realizzati i Rapporti e le Note informative funzionali alla regolazione, alla valutazione intermedia e alla valutazione conclusiva dell’intero progetto.

 al secondo livello è stata realizzata una riflessione sulla validità dei risultati ottenuti dal servizio sperimentale risultati in termini di utilità formativo-sociale. Questi risultati sono stati raccolti in forme o categorie diverse secondo la metodologia e la logica espressamente definita. La riflessione che ha accompagnato la raccolta, di carattere qualitativo e di secondo livello, ha prodotto un’interpretazione tesa a comprendere l’effettiva possibile sostenibilità dell’esperienza dei Centri ed è stata attuata in funzione predittiva, cioè è stata considerata la possibile collocazione dei Centri-2you tra i soggetti pubblici/privati territoriali in grado di svolgere un preciso, distinto ed identificabile servizio alla persona di carattere socio-educativo.

La metodologia per la valutazione Il programma di valutazione è stato caratterizzato dall’utilizzazione di una metodologia appositamente teorizzata, progettata e attuata che ha avuto come fulcro l’obiettivo di comprendere i risultati dell’intervento attraverso il metodo ermeneutico, e come componenti la metodologia qualitativa - cioè le osservazioni sul campo e la valutazione progressiva - e la metodologia quantitativa, ovvero il monitoraggio e l’auditing. In particolare, le interpretazioni realizzate applicando il metodo ermeneutico sulle macro componenti in cui sono state ricomposte le valutazioni delle risultanze qualitative e quantitative, hanno avuto come riferimento uno specifico modello, riportato in Figura 1, in cui si evidenziano le relazioni tra il servizio espresso dai Centri-2you, i contesti dei beneficiari (studenti, giovani e genitori) e degli stakeholder principali (famiglia, comunità sociale, territorio). Per i Centri-2you, quindi, la risposta alle iniziali domande valutative è stata suddivisa su due livelli:

Figura 1. Modello di riferimento per le riflessioni sui risultati.

 al primo livello è stato verificato il raggiungimento delle soglie numeriche e delle numerosità dei servizi erogati in risposta ai bisogni dei beneficiari (studenti/giovani e genitori/ famiglie) fruitori dei servizi/attività realizzati. Per tale valutazione sono state principalmente utilizzate le metodologie quantitative;

La valutazione dei risultati dell’intervento dei Centri 2you è stata realizzata secondo uno specifico modello, che ha collegato le azioni operative condotte per la raccolta dei dati, qualitativi e quantitativi, con le forme di riflessione sui risultati di primo e secondo livello (vedi Figura 2).

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Figura 2. Modello operativo per la valutazione dei risultati.

Il modello operativo evidenzia in forma attuativa la linea di valutazione del modello generale del programma di valutazione (cfr. Melchiori - Cellamare, 2010) specificando la valutazione degli outcome. I risultati di ordine metodologico ricavati dall’attuazione del programma di valutazione per l’intervento dei Centri-2you si ritengono utili sia per aggiungere ulteriore conoscenza sulla prassi della valutazione, sia per ampliare la gamma delle metodologie da utilizzare. Entrambe le funzioni contribuiscono allo sviluppo della pedagogia della valutazione (cfr. Melchiori R., 2009b). Le forme dei risultati Nel programma di valutazione l’azione di caratterizzazione e di precisazione della metodologia ha riguardato principalmente tre aspetti: • il meccanismo di osservazione del procedere dell’intervento, ovvero il monitoraggio e la valutazione progressiva; • l’analisi della validità interna, cioè efficacia dei risultati rispetto alle domande valutative; • l’analisi della validità esterna, cioè creazione di un modello di Centro di Aggregazione Giovanile e sua sostenibilità (cfr. OCSE, 1999; OCSE, 2002). Nella metodologia, con l’espressione forme dei risultati si è voluto espressamente carat-

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terizzare ed esplicitare i tre differenti aspetti, collegati anche a metodi di raccolta dati e analisi diversi, pur mantenendoli uniti all’interno di un comune contenitore rappresentato dal modello di valutazione. Di seguito si descriveranno le forme con cui sono state riportate le riflessioni sui risultati ottenuti, mentre nel paragrafo relativo alla interpretazione dei risultati si riporterà la forma relativa alla riflessione per la validità esterna dei risultati stessi I risultati delle osservazioni empiriche Dall’analisi scaturita dalle elaborazioni dei dati raccolti attraverso un apposito set di questionati on line, è emerso come le tipologie di interventi previsti dal progetto per i giovani e gli studenti siano state attuate in tutte le realtà territoriali, sia pure in modo opportunamente differenziato, per offrire risposte adeguate agli specifici bisogni sia del contesto sia dell’utenza. Le osservazioni sul campo - scelte per approfondire l’analisi delle azioni svolte dai Centri nel monitoraggio progressivo - e i relativi strumenti utilizzati, cioè i diari di bordo e le interviste, hanno permesso di arricchire il quadro conoscitivo delle azioni svolte dai Centri-2you e di migliorare la comprensione sia dei risultati conseguiti dai Centri stessi sia dei processi che li hanno generati. Per quanto attiene alle azioni rivolte agli studenti, costituite soprattutto da interventi di supporto scolastico, è emerso che il lavoro svolto sul piano cognitivo per migliorare il


rendimento scolastico ha permesso un effettivo miglioramento delle prestazioni e il conseguimento di successi apprezzabili, con ricadute positive sia sul rapporto con i compagni di classe e con i docenti sia sulla rete più ampia dei rapporti sociali. Si sono invece rivelate meno incisive le iniziative di tipo sportivo e ludico-ricreativo. Per quanto riguarda le attività sportive occorre considerare che la maggior parte dei ragazzi frequentava già palestre o centri sportivi con sistematicità, quindi un’offerta di questo tipo da parte dei Centri non ha rappresentato un servizio unico, come invece è avvenuto per il sostegno allo studio, del quale si è avvertita l’urgenza e l’utilità. È forse opportuno sottolineare che sport e iniziative ludiche non sono state proposte come azioni a se stanti ma sono state inquadrate nel progetto complessivo di attività previsto dei Centri per veicolare la promozione della qualità dell’integrazione sociale. Ad esempio, sono stati molto frequentati i corsi di arbitraggio, utilizzati come mezzo per aiutare i ragazzi ad acquisire un maggior autocontrollo attraverso l’interiorizzazione di sistemi di regole condivise in un microcosmo sociale come quello costituito, per esempio, da un campo di calcio o di basket. Anche la realizzazione di CD musicali, al di là della qualità del prodotto realizzato - che nel caso dei ragazzi di Scampia ha avuto anche una visibilità attraverso i media - ha raggiunto l’obiettivo socioeducativo di aggregare giovani con diversa provenienza ed esperienza attorno a una progetto comune, condiviso tra i ragazzi stessi e con gli operatori. Nel caso delle famiglie, invece, le proposte d’intervento non hanno riscosso l’adesione che ci si attendeva e il numero di genitori che hanno richiesto e utilizzato i servizi offerti è stato piuttosto contenuto. Al fine di non considerare frettolosamente il dato numerico come un insuccesso è opportuno considerare le cause che, intrecciandosi e dando luogo a diverse combinazioni, hanno influito sulla disponibilità delle famiglie a partecipare alle at-

tività dei Centri. Occorre anzitutto considerare che si parla solo da pochi anni di formazione alla genitorialità e le proposte in questo senso appaiono quindi ancora come una novità, soprattutto in quei contesti dove il livello socioculturale ed economico pone priorità diverse. Lo sviluppo di iniziative di sostegno alle funzioni educative della famiglia deve necessariamente considerarne la trasformazione; ciò determina non solo nuove esigenze ma anche una sensibilità educativa diversa da quella tradizionale, che risente anche della complessità del tessuto sociale che si è venuto a creare negli ultimi trent’anni circa (cfr. www.istat. it/strumenti/rispondenti/indagini/famiglia_società/vitaquotidiana). Tali esigenze sono soggiacenti alla domanda di aiuto posta ai Centri dalla maggior parte dei genitori afferenti, che sembrano essere portatori di richieste delle quali spesso non hanno chiara consapevolezza, o che a volte non sono in grado di esprimere per limiti di tipo culturale. Si pensi per esempio al timore della stigmatizzazione che induce a negare le problematiche familiari, o quanto meno a occultarle alla vista degli estranei. Questi dati sono emersi con particolare evidenza durante gli scambi informali condotti durante le osservazioni e a margine delle interviste. È evidente quindi che, occorre riservare molta cura alle fasi di diffusione dell’informazione sulle attività e sui servizi offerti al territorio e di accoglienza; infatti, la creazione di un ambiente e di un clima che comunichino la sensibilità e la disponibilità per le problematicità dei genitori e delle famiglie è di primaria importanza per incoraggiare le famiglie a presentare le loro richieste senza temere il rischio di stigmatizzazioni. È certamente un’operazione complessa e che richiede tempi non brevi, in quanto si scontra con una mentalità consolidata in convinzioni e stereotipi culturalmente trasmessi e perciò resistenti al cambiamento. Nei casi in cui la famiglia si è coinvolta nei servizi dei Centri, sia per interventi di sostegno alla genitorialità sia in azioni dirette

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ai figli in difficoltà (scolastica, relazionale o di altro tipo), è emerso un dato interessante, che evidenzia anche una delle peculiarità dei Centri-2you rispetto ad analoghe iniziative promosse da altri Enti (Comuni, Associazioni ecc.); si è constatato come la diffusività che un intervento ha sulla persona nella sua totalità, indipendentemente dal dominio di competenze da cui è partito, porti ad aumentare la possibilità di riconoscimento sociale del cambiamento sopraggiunto. La soddisfazione degli utenti In risposta alle domande valutative occupa un posto di rilievo il riscontro sulla soddisfazione espressa dagli utenti dei servizi. Le tre tipologie di destinatari, ovvero gli studenti, i giovani (la distinzione tra studenti e giovani fa riferimento alla frequenza o meno di un percorso scolastico e non all’età) e le famiglie, hanno sottolineato in modo particolare come fattori di qualità, alla base dell’apprezzamento espresso, la cura nella predisposizione dei servizi e nell’accompagnamento e il sostegno ricevuto rispetto alle diverse esigenze per le quali hanno richiesto l’aiuto degli operatori dei Centri-2you. Gli utenti che hanno seguito le attività nel tempo, avendo iniziato a frequentare i servizi “2you” sin dal primo ciclo di attività, nel periodo 2006-2008, costituiscono un terzo degli studenti intervistati e l’80% dei giovani, a testimonianza di come i Centri si siano gradualmente affermati quali punti di rifermento per i territori in cui sono stati inseriti. Entrambe le tipologie di utenti concordano nel segnalare il progressivo miglioramento dei servizi offerti, soprattutto in relazione ad azioni quali: • la programmazione e la preparazione delle attività e delle iniziative; • una migliore cura nell’accompagnamento, sia nei percorsi scolastici sia nell’inserimento lavorativo; • il sostegno per affrontare condizioni di disagio personale o sociale.

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Anche le famiglie che hanno seguito con una certa continuità l’esperienza “2you” concordano con quanto hanno espresso gli studenti e i giovani, condividendo con questi anche la soddisfazione sia per la disponibilità e l’attenzione ricevuta da parte degli operatori al momento dell’ingresso nel Centro sia per l’interesse dimostrato verso le loro diverse situazioni di difficoltà. Oltre agli aspetti di gradimenti che accomunano i beneficiari dei servizi, le osservazioni e le interviste hanno permesso di cogliere l’apprezzamento per gli interventi specifici espresso dai diversi destinatari. Gli studenti hanno dichiarato di aver trovato nei Centri dei riferimenti fondamentali per affrontare e risolvere le loro difficoltà scolastiche, non sempre legate a uno scarso rendimento; si è accertato, infatti, che in molti casi i problemi scolastici erano dovuti ad ansia da prestazione, che si ripercuotono sia sul rendimento sia sulle relazioni con i pari. I percorsi di sostegno allo studio, quindi, in quanto improntati all’offerta di un sostegno non limitato al recupero dei contenuti, ma attento anche alla riappropriazione di una adeguata motivazione allo studio, hanno riscosso il totale consenso degli intervistati. Conseguentemente si è avuto anche l’apprezzamento sia delle scuole che hanno lavorato in rete con i Centri sia delle famiglie dei ragazzi, quantunque queste ultime abbiano svolto il ruolo di spettatrici. Un analogo consenso è stato conseguito dagli interventi di formazione professionale seguiti dai giovani, molti dei quali sono stati recuperarti ad un percorso di istruzione oppure hanno partecipato a percorsi formativi condotti all’interno dei Centri stessi. Anche, le esperienze sportive e ludico-creative, sono state considerate molto soddisfacenti da coloro che vi hanno partecipato, pur nella limitata frequenza già segnalata. Il risultati sul versante scuola L’interesse delle istituzioni scolastiche verso le azioni svolte dai Centri-2you ha avuto due particolari determinanti, cioè l’innalzamento


del successo scolastico e il contrasto al drop out attraverso la prevenzione o il recupero. Per la promozione del successo formativo i Centri hanno organizzato le azioni costituendo gruppi di studio assistito dagli operatori del Centro o dai docenti che hanno prestato volontariamente la loro opera. In alcune situazioni si è fatto ricorso al tutoraggio tra pari, in modo da valorizzare le competenze presenti negli studenti e offrire ai ragazzi modelli positivi attraverso l’esempio di altri giovani. In base alle diverse situazioni individuali le azioni di sostegno hanno avuto carattere collettivo oppure sono state condotte in piccolo gruppo; in alcuni casi si è preferito un intervento individuale, realizzato cioè in un rapporto uno-a-uno con l’operatore o con un tutor individuato tra gli studenti che avessero già seguito con successo un percorso di sostegno presso il Centro. I Centri per il conseguimento del successo formativo degli studenti hanno anche utilizzato la collaborazione formale e informale con i docenti delle scuole, stabilita intorno a obiettivi condivisi da raggiungere. I casi in cui alla rete di intervento ha partecipato anche la famiglia come parte attiva del miglioramento scolastico sono molto pochi; i genitori infatti hanno assunto prevalentemente una posizione di delega nei confronti degli operatori dei Centri, poiché incapaci di gestire le criticità incontrate dal figlio. Più raramente le famiglie sono state parte attiva nel processo di miglioramento scolastico dei figli. Per la promozione di attività che permettessero agli studenti di modificare o affinare le loro abilità di studio attraverso proposte diverse da quelle tradizionalmente offerte dalla scuola gli operatori dei Centri hanno utilizzato le possibilità messe a disposizione da associazioni professionali, o anche da singoli professionisti, che hanno accettato di prestare la loro opera volontariamente. In questo modo il blocco che spesso gli studenti in difficoltà sperimentano nello studio è stato affrontato attraverso la valorizzazione delle abilità tra-

sversali, ad esempio con la partecipazione a corsi di scrittura creativa, di giornalismo, di espressione teatrale. In alcune realtà inoltre è stato possibile collaborare con ricercatori delle locali Università che hanno sviluppato specifici curricola di intervento finalizzati alla promozione del successo scolastico. Da parte dei dirigenti scolastici delle istituzioni scolastiche referenti vi è stato, in generale, un diffuso riconoscimento del valore educativo-formativo e didattico del servizio organizzato e attuato dai Centri e della reale incidenza che le azioni condotte hanno avuto sugli studenti beneficiari. La presenza del Centro-2you all’interno delle sedi scolastiche ha offerto la possibilità di attuare una molteplicità di azioni flessibili e personalizzate, sia formative sia socio-educative, che la scuola, in quanto istituzione, spesso non può gestire senza il rischio di venire meno alla specificità della propria mission. Nondimeno, la scuola stessa è il primo ambiente in cui si riversano le criticità e le problematiche che permeano il tessuto sociale del territorio in cui il Centro è inserito e nel quale è stato chiamato a operare. Tutti i dirigenti intervistati hanno segnalato l’efficacia delle azioni e delle iniziative dei Centri, con risultati positivi che oscillano tra l’80 % e il 100 % di successo scolastico; il lavoro sulla persona giovane (studenti) sotto il profilo socio-relazionale e affettivo-motivazionale risulta essere stato condotto in accordo con la scuola referente ma secondo percorsi e modalità propri del Centro. In particolare sono stati allestiti corsi e percorsi educativo-formativi che, oltre ad arricchire e a integrare l’offerta di attività presenti nella scuola, hanno valorizzato la dimensione relazionale e aggregativa. Le attività di sportello, attuate da molti Centri, sono state segnalate dai dirigenti scolastici come un prezioso punto di riferimento per il sostegno alle numerose problematiche adolescenziali, sia per i ragazzi che provenivano da situazioni socio-familiari a rischio sia per gli alunni che pur non vivendo un particolare di-

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sagio scolastico avevano però bisogno di aiuto per gestire la transizione verso l’età adulta. È stato infatti sottolineato dai dirigenti scolastici stessi come il Centro non sia stato identificato come luogo speciale per soggetti speciali ma come ambiente di accoglienza per intervenire su bisogni educativi speciali, sperimentabili da qualunque allievo e non necessariamente generalizzati a tutte le dimensioni della vita o all’intero di un intero arco di vita scolastica. La prima indicazione del gradimento nel rapporto tra scuola e Centro può essere identificato nella frequenza di rapporti dei colloqui intercorsi tra gli operatori del Centro - in genere tutti coinvolti nello scambio comunicativo, non delegato solo al responsabile designato - e il dirigente scolastico. Questa interazione ha seguito prevalentemente modalità non formali, che si sono affiancate a riunioni calendarizzate, nelle quali potevano essere coinvolti anche i docenti che in molte scuole hanno collaborato per l’organizzazione delle attività di assistenza allo studio e di sostegno alla persona giovane. Nella maggior parte dei casi gli accordi tra la scuola e il Centro non sono stati ufficializzati attraverso convenzioni o altri documenti formali (diversi da quelli istituzionali con cui le istituzioni scolastiche sono state investite del progetto), poiché il lavoro sinergico svolto dalle due agenzie si è integrato nella quotidianità dei rispettivi interventi. Gli elementi di soddisfacimento appena presentati hanno generato la richiesta da parte di tutti i dirigenti scolastici intervistati di poter proseguire nel lavoro svolto, sottolineando la necessità di non disperdere il patrimonio di esperienza e di risultati realizzati nei due cicli di progetto. La valutazione come interpretazione dei risultati Nel complesso, i risultati ottenuti hanno confermato, oltre l’utilità del servizio agito, la necessità dell’istituzionalizzazione dei Centri-2you, per permetterne la continuità e quindi il riconoscimento e il consolida-

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mento. Un servizio complesso come quello realizzato dai Centri richiede infatti un tempo lungo di realizzazione e un affinamento progressivo, dovuto sia alle particolari condizioni dei destinatari degli interventi sia alla esigenza di definire le reti di contatti intorno al progetto socioeducativo su cui le azioni dei Centri stessi sono costruite, in modo che le sinergie poste in essere possano restare attive indipendentemente dagli inevitabili avvicendamenti di persone. È questa l’esigenza forte che risulta dall’analisi dei risultati delle interviste dei maggiori interlocutori dei Centri, ovvero i dirigenti scolastici e i docenti che hanno lavorato in rete con gli operatori, ma anche i responsabili degli Enti (Comuni, Province, Associazioni di categoria, di volontariato, sportive) che hanno fornito in molti casi supporto logistico od organizzativo, oppure hanno messo a disposizione persone competenti in campi specifici. Per esprimere un giudizio sul complesso dei risultati ottenuti con le attività dei Centri, cioè per valutare la corrispondenza tra i traguardi raggiunti e gli obiettivi posti nelle domande valutative, si è utilizzata un’analisi interpretativa di carattere ermeneutico, che ha preso in considerazione globalmente i risultati raggiunti e non suddivisi per le singole aree del progetto di servizio. Nello specifico, l’analisi ha evidenziato i seguenti punti di valutazione: • la diffusione dell’informazione sul tipo di servizio attuato ha o ridotto o eliminato le criticità per la fase di accoglienza nei Centri e migliorato la sintonia con le scuole ospitanti. La maggiore informazione ha favorito sia l’invio dei ragazzi verso i Centri sia una progettazione condivisa degli interventi di recupero; • l’asse portante dei servizi erogati sono state le azioni condotte nell’area dell’istruzione e della formazione. La maggior parte dei ragazzi che si sono rivolti ai Centri 2you ha avuto il supporto necessario per recuperare


specifiche lacune o ha ricevuto indicazioni valide per un reindirizzamento del proprio percorso personale, di studi o di vita; • il successo scolastico ha coinciso in molti casi con una migliore integrazione dei ragazzi nel gruppo dei pari. A questo risultato hanno concorso anche le occasioni di socializzazione organizzate all’interno del Centro stesso o sul territorio. Le manifestazioni aperte all’esterno del Centro o della scuola referente hanno anche permesso una diffusione dell’informazione circa la specificità delle azioni svolte. La partecipazione a iniziative comuni nelle quali i ragazzi hanno potuto riconoscersi come parte attiva ha inoltre favorito la fidelizzazione verso l’iniziativa; • le collaborazioni attuate nei diversi territori con altre organizzazioni o con gli Enti locali hanno prodotto un ampliamento del raggio d’azione dei Centri-2you, fornendo supporti di vario tipo (logistico, strumentale, strutturale ecc.); tuttavia questa possibilità di sostegno è piuttosto eterogenea e ha risentito delle caratteristiche socioeconomiche dei territori di appartenenza. In alcuni casi, le collaborazioni con Enti pubblici ha permesso ad alcuni Centri di ricevere piccoli flussi finanziari, utilizzati per mantenere vive le attività nel periodo di transizione tra i due progetti “2you” realizzati dal 2006 al 2010. L’esperienza, generale, che invece ha accomunato tutti i Centri è stata quella di un impegno anche volontario degli operatori al di fuori del periodo retribuito, a testimonianza sia del successo dell’iniziativa sia della consapevolezza del valore aggiunto che questa presenza ha generato nei contesti di riferimento. I punti appena presentati riassumono gli elementi che interpretano l’intervento del servizio sperimentale dei Centri-2you. La riflessione sul complesso dell’intervento si completa considerando che il riconoscimento della validità e della necessità dei servizi svolti

dai Centri di Aggregazione Giovanile “2you”, nonché dell’efficacia del modello concettuale e di intervento che il progetto ha delineato, è stato ampiamente affermato dai destinatari e beneficiari dei servizi, dalla maggior parte delle scuole ospitanti e dalle istituzioni locali. Inoltre, lo sforzo profuso per creare una sensibilità nelle famiglie e nella scuola per le situazioni di difficoltà personale e sociale rappresenta un risultato rimarchevole non secondario in quanto i Centri hanno agito principalmente sul difficile terreno della marginalità, un campo nel quale il rischio di insuccesso è piuttosto alto. La riflessione interpretativa non può, comunque, non considerare alcuni elementi che risultano opachi rispetto ai risultati: in particolare si rileva un indispensabile rafforzamento dei rapporti con i docenti. Nonostante la relazione con le scuole sia stata dichiarata complessivamente positiva, non si può negare che sia emersa una non sempre positiva sensibilità dei singoli dirigenti scolastici e dei docenti verso le iniziative dei Centri2you. Inoltre, emerge l’esigenza di un maggiore coinvolgimento delle associazioni di categoria per individuare sbocchi occupazionali per quei giovani che, recuperati a un percorso formativo, potrebbero vedere non realizzabili le loro aspettative di inserimento lavorativo e ricadere quindi nei circuiti disfunzionali ai quali si è cercato di sottrarli. Conclusioni La valutazione di un intervento di politica socioeducativa presenta diverse finalità: deve rispondere alle esigenze poste dai Committenti circa il raggiungimento dei traguardi stabiliti e descritti nelle domande valutative (nel caso dei Centri-2you sono derivate da articoli contrattuali); deve corrispondere alla produzione e alla circolazione di informazioni idonee allo sviluppo delle azioni -semplici o complessee dei relativi processi, con cui un intervento viene attuato (per i Centri-2you si è utilizzato il monitoraggio e una valutazione progres-

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siva); deve negoziare la costruzione del senso dell’intervento, con i significati attribuiti dai beneficiari, attraverso una comunicazione che permetta un apprendimento informale utile alla creazione di una conoscenza e di un consenso diffusi nei destinatari, che supporti il successo dell’intervento stesso. Sono fondamentali in tal senso la comunicazione istituzionale e quella operata direttamente dai Centri-2you, nonché il passa parola tra beneficiari, come è avvenuto per l’esperienza conclusa; deve esprimere il giudizio su quanto attuato, in termini di cambiamento di comportamenti e di soddisfazione dei beneficiari, e su quanto permane, in termini di cambiamenti sulle condizioni preesistenti e impatti generati (per i Centri-2you il programma di valutazione ha previsto un’analisi interpretativa a conclusione delle attività di valutazione progressiva). Il programma di valutazione associato all’intervento dei Centri-2you ha dimostrato la sua adeguatezza come strumento in grado di fornire informazioni utili sia per la verifica della coerenza e della validità delle azioni dell’intervento sia per evidenziare come la percezione della precarietà dei Centri2you incida sull’operazione di consolidamento e radicamento sul territorio, nonché sulla loro riconoscibilità sociale. La valutazione infine ha messo in luce che un servizio come quello realizzato dai Centri-2you richiede tempi lunghi perché i centri stessi possano diventare luoghi sociali riconosciuti e quindi si stabilizzino le reti di contatti in modo che permangano nel tempo. Riferimenti Bibliografici: CELLAMARE S. SERRERI P. (a cura di), A scuola per scelta. Progettare in rete, Reggio Calabria, Falzea, 2004; Dipartimento delle Politiche per la Famiglia, Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali, Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza, Conferenza Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, 2010; GENTILE M., Percezione di sé e risultati scolastici: ruolo delle attribuzioni causali e dell’autostima, in

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«Psicologia dell’Educazione e della Formazione», 1, 1999, pp 51-72; LIVERTA SEMPIO O.- CONFALONIERI E.- SCARATI G. (a cura di), L’abbandono scolastico. Aspetti culturali, cognitivi, affettivi, Milano, Raffaello Cortina, 1999; MELCHIORI R. (a cura di), Progetto di monitoraggio, INVALSI, 2005; MELCHIORI R.- CELLAMARE S., La valutazione delle politiche socioeducative. L’apporto della metodologia qualitativa, QTIMES Web Magazines, n° IV, Anno II, ISSN:2038-3282, 2010, pp. 25-32; MELCHIORI R., Il monitoraggio dei Centri di aggregazione giovanile. Rapporto di ricerca valutativa, INVALSI, 2009a; MELCHIORI R., Pedagogia. Teoria della valutazione, Lecce, Pensa Mutimedia Editore, 2009b. OCSE, Evaluating Local Economic and Employment Development, How to assess what works among programmes and policies, Vienna conference, working paper, 2002,Vienna; OCSE, Improving evaluation practices. Best Practice Guidelines for Evaluation and Background Paper, PUMA/PAC(9)1, Paris, OCSE, 1999; PAWSON R. - TILLEY N, Un’introduzione alla valutazione scientifica realistica, in Stame N. (a cura di), Classici della valutazione, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 371-385; PAZZAGLIA F. - MOÈ A. - FRISO G. - RIZZATO R., Empowerment cognitivo e prevenzione dell’insuccesso, Trento, Erickson, 2002; WOODING, S. - GRANT, J., Assessing research: The researchers’ view. Cambridge, England: RAND Europe, 2003. Sitografia: http://www.istat.it/strumenti/rispondenti/indagini/famiglia_societa/vitaquotidiana/ http://www.senatoperiragazzi.it/ http://www.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/d27663b5-426a-456b-af1f-dd54f051cae4/ prot7296_10_all1.pdf Melchiori R. - Cellamare S., L’osservazione sul campo: alla metodologia ai risultati, in http://www.invalsi.it Senato della Repubblica, Concorso “Testimoni dei diritti”, a.s. 2010-2011, in www.istruzione.it/web/istruzione.om


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Comprendere il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività. Parte seconda. Sintomi secondari: insuccesso scolastico e rifiuto sociale

di Alessia Giangregorio Introduzione Nei soggetti affetti da Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività si evidenzia la presenza di tre dimensioni psicopatologiche primarie, quali la disattenzione, l’iperattività e l’impulsività. Queste costituiscono le caratteristiche centrali nel disturbo, ma la loro interazione con l’ambiente sociale e scolastico può dare origine a ulteriori difficoltà, definibili come sintomi secondari, quali l’insuccesso scolastico e il rifiuto sociale, che incidono in modo particolarmente significativo sullo sviluppo del senso di autoefficacia, sull’autostima e sul senso di identità. Difficoltà scolastiche e autoefficacia Il deficit nell’elaborazione cognitiva delle informazioni e il basso livello di motivazione, sommandosi ai sintomi primari, contribuiscono a determinare l’elevato livello di insuccesso scolastico sperimentato dai soggetti con DDAI, una grande percentuale dei quali ha subito almeno una bocciatura o presenta, comunque, prestazioni scolastiche inferiori a quelle

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dei coetanei, pur disponendo delle medesime abilità intellettive. Le difficoltà di rendimento si manifestano già nei primi periodi di inserimento nella scuola primaria; le richieste dal punto di vista attentivo, infatti, sono molto più elevate rispetto a quanto avveniva nella scuola dell’infanzia e ciò rende maggiormente evidenti le problematiche del bambino. Se negli anni precedenti erano l’impulsività e l’iperattività motoria ad attirare l’attenzione e la preoccupazione degli adulti, con il passaggio al livello di scolarità successivo, e il conseguente aumento di richieste nei compiti di apprendimento, emergono con maggiore chiarezza le difficoltà di carattere cognitivo, la cui presenza rappresenta spesso il campanello d’allarme che porta alla richiesta di una consulenza specialistica, finalizzata nella maggior parte dei casi a ottenere l’assegnazione di un insegnante di sostegno (cfr. Vio - Marzocchi - Offredi, 2006). Le difficoltà di controllo motorio che caratterizzano questo disturbo vengono invece più frequentemente associate a fattori educativi; non essendo perciò identificate quali parte integrante di un quadro patologico, non generano una domanda specifica di aiuto, nonostante provochino un disagio evidente tanto nel bambino quanto in coloro che gli sono vicini. Il confronto con i pari, dal quale i bambini con DDAI escono nella maggior parte dei casi sconfitti, induce forti stati di frustrazione, dovuti principalmente al ripetersi di esperienze di insuccesso; ciò si ripercuote negativamente sull’immagine di sé che l’alunno struttura nell’interazione con l’ambiente scuola e sullo sviluppo di un adeguato senso di autoefficacia scolastica. Questa espressione definisce l’insieme di convinzioni che i bambini e i ragazzi posseggono rispetto alle loro capacità di studiare le materie scolastiche, di mantenere e regolare il livello di motivazione e di individuare e sviluppare modalità di studio che favoriscano l’apprendimento (cfr. Caprara, 2001). I giudizi di autoefficacia che i soggetti sviluppano in ambito scolastico risentono di una serie di fattori, tra i quali si collocano sicuramente le


abilità cognitive possedute dai compagni; queste diventano infatti termini di paragone con i quali l’alunno si confronta e rispetto alle quali si autovaluta. Occorre tuttavia considerare con attenzione anche il peso fondamentale di altri fattori, costituiti principalmente dalla valutazione offerta dagli insegnanti e dai genitori e, in particolare, dalle attribuzioni causali da questi formulate rispetto ai successi o agli insuccessi conseguiti dal bambino. Tali attribuzioni possono produrre effetti estremamente deleteri per il soggetto, soprattutto nel momento in cui emerge la tendenza a imputare i comportamenti disfunzionali a disposizioni stabili di personalità. La presenza negli adulti di una simile convinzione veicolerebbe, sia pure in modo inconsapevole, messaggi di sfiducia, che lasciando intendere l’impossibilità di conseguire un cambiamento nella direzione di una maggiore adattività. Gli stereotipi che si hanno in merito alla sindrome DDAI generano delle aspettative che possono condizionare il tipo di interazione che gli adulti instaurano con questi bambini. Da questo rischio non sono immuni neppure gli insegnanti, i quali intervenendo nella relazione con gli alunni alla luce delle loro precompressioni possono tendere a cogliere solo gli elementi che confermano le proprie attese o le proprie previsioni. In tal modo si può originare però una deformazione percettiva della realtà che, non permettendo di vedere l’altro nella sua autenticità, impedisce anche di individuarne le necessità, in risposta alle quali pianificare e attuare adeguati interventi di sostegno. Una conoscenza non preconcetta dell’allievo reale, basata su dati realmente osservati che ne evidenziano le risorse e non solo le mancanze, è certamente uno strumento efficace per arginare il rischio che le situazioni di interazione a scuola e le esperienze didattiche possano trasformarsi in occasioni di insuccesso, che favorirebbero lo sviluppo di una sensazione di inadeguatezza anziché promuovere un senso di autoefficacia. È noto che l’adozione di metodi di insegnamento rigidi e sostanzialmente uniformi, nei

modi e nei tempi, per il gruppo classe è tra le modalità didattiche meno efficaci per favorire l’apprendimento da parte di tutti gli allievi, indipendentemente da una condizione di disagio o di disabilità. Questo è tanto più vero per i soggetti con DDAI, per i quali un aiuto valido e rispondente alle loro caratteristiche deriva dall’adozione di una didattica flessibile nei tempi e nelle modalità di trasmissione dei contenuti, affinché questi possano essere adeguatamente compresi e acquisiti. Un analogo discorso si può fare per le modalità di valutazione. La preferibilità da accordare a una valutazione basata su standard di miglioramento individuale, che pone un allievo in confronto con se stesso e con il proprio miglioramento, con un bambino che presenti deficit di attenzione/iperattività diventa quanto mai necessaria. Attuando una valutazione basata sulla comparazione con i pari, dalla quale possono scaturire dinamiche competitive, si imporrebbe al bambino DDAI il confronto con livelli di prestazione che le difficoltà di controllo dell’attenzione e dell’impulsività gli rendono estremamente complesso, quando non impossibile, raggiungere. è altamente probabile che da questo possano scaturire, a causa della già citata sperimentazione di ripetuti fallimenti, effetti negativi sulla strutturazione di un’immagine di sé positiva, seppur sempre realisticamente connotata, e sullo sviluppo di un generale senso di autostima; questa, a differenza dell’autoefficacia, investe la persona in modo globale. A questo proposito preme sottolineare come la centralità dei giudizi formulati da coloro che interagiscono con il bambino è data proprio dal fatto che questi influenzano non solo il senso di autoefficacia percepita e il livello di motivazione allo studio che a questa si lega, ma anche la più generale valutazione di sé (Bandura, 2000). Dal senso della propria efficacia derivano infatti le mete che le persone si prefiggono e dipendono gli sforzi che sono disposte a fare per raggiungerle. I soggetti con DDAI, vivendo uno basso livello di autoefficacia, ten-

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dono a manifestare uno scarso impegno nelle attività, fino al loro totale abbandono; le previsioni negative che formulano rispetto alle loro prestazioni, infatti, non sostengono la motivazione allo sforzo, creando il deleterio fenomeno della “profezia che sia autoavvera”. é dunque compito degli insegnanti, è più in generale degli educatori, creare le condizioni favorevoli perché un bambino che presenti questo tipo di problematica possa sviluppare gradualmente e poi consolidare un senso di competenza, attraverso la proposta di attività che lo aiutino nel raggiungimento di risultati positivi. A tale proposito è utile attuare alcune condizioni fondamentali, quali: • proporre compiti che seguano il principio della facilitazione, ovvero predisposti in ordine di difficoltà crescente; • favorire una valutazione realistica delle prestazioni conseguite attraverso la comunicazione degli obiettivi da conseguire, una contrattazione previa delle modalità e dei tempi di svolgimento, una esplicitazione dei criteri in base ai quali si valuterà la prestazione; • offrire occasioni di apprendimento e di rinforzo vicario all’interno di attività di carattere cooperativo. La formazione di un’adeguata immagine di sé e delle proprie capacità richiede in primo luogo lo sviluppo di abilità autoregolatorie che consistono nella capacità di pianificare, organizzare e gestire le attività, procurarsi le risorse e applicare le abilità metacognitive necessarie per valutare l’adeguatezza delle proprie conoscenze e strategie. In questo modo gli apprendimenti conseguiti in contesti formali possono essere generalizzati e utilizzati per conseguire ulteriori acquisizioni in modo sempre più autonomo anche nei contesti informali e non formali (Bandura, 2000). La dimensione socio-relazionale nel DDAI La capacità di autoregolarsi, in ambito scolastico, nell’esecuzione dei compiti richiesti può

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essere gradualmente generalizzata al più ampio contesto relazionale e alla sfera emotiva, determinando lo sviluppo di abilità prosociali e una maggiore accettazione da parte dei pari e degli adulti. I soggetti con DDAI, i quali sperimentano invece forti difficoltà o addirittura una completa incapacità nell’autoregolazione, manifestano frequentemente comportamenti aggressivi fisici e verbali, specie nei casi in cui è presente un sottotipo combinato oppure predominano iperattività/impulsività. Le difficoltà di autocontrollo determinano dunque notevoli inconvenienti a livello relazionale, sia nel rapporto con gli adulti sia nell’interazione con i coetanei e generano il sintomo secondario del rifiuto sociale. Questi bambini e ragazzi ricevono infatti un elevato numero di rifiuti e scarsi apprezzamenti, poiché all’incapacità di controllarsi si aggiunge frequentemente la tendenza a non rispettare le regole sociali o quelle richieste dall’attività che stanno svolgendo. Queste manifestazioni possono essere contenute se i soggetti sono inseriti in contesti molto strutturati, all’interno dei quali hanno la possibilità di assumere dei ruoli attivi. In simili condizioni, come ad esempio nel caso di gruppi di mutuo aiuto, questi bambini sono in grado sia di assumere atteggiamenti e comportamenti cooperativi sia di instaurare e mantenere relazioni di amicizia; se invece il loro ruolo è passivo o non chiaramente definito possono attivare modalità comunicative disfunzionali, come la contestazione afinalistica. I bambini affetti da DDAI quindi sono in grado di sperimentare scambi sociali positivi se l’ambiente è organizzato in modo da prevenire l’insorgenza delle disfunzionalità tipiche del disturbo. Si deve tuttavia tenete presente che nella maggior parte dei casi le modalità di interazione sociale si contraddistinguono per i livelli atipici di intensità. Si può pertanto presupporre che sia proprio la mancata modulazione dell’intensità dei comportamenti a determinare le difficoltà a livello di rapporto interpersonale in quanto generano condotte che spesso si scontrano con i bisogni o con la sensibilità altrui.


Oltre a quelli elencati vi sono anche altri fattori da considerare, come la presenza piuttosto frequente di tratti oppositivi e provocatori; questi possono concorrere a determinare ripetuti insuccessi sia nelle attività, scolastiche o extrascolastiche, sia nelle relazioni interpersonali. Si possono configurare inoltre come predittori di prognosi negative, quali lo sviluppo di comportamenti delinquenziali, di condotte antisociali o anche preludere all’uso di sostanze stupefacenti. Il difficile e limitato adattamento sociale dei bambini che presentano questa tipologia di disturbo ha delle ripercussioni negative anche su chi sta loro vicino (coetanei, insegnanti, genitori). Gli studi condotti osservando le interazioni all’interno di diadi miste, formate da un bambino con DDAI e da uno senza disturbo, hanno evidenziato in queste coppie una percentuale significativamente maggiore di comportamenti negativi rispetto a quelli osservabili nelle diadi di soggetti senza disturbo. Lo stile relazionale dei soggetti con DDAI può avere quindi un impatto negativo sul contesto circostante poiché attrae gli interlocutori verso una modalità di rapporto disfunzionale. Questo fattore contribuisce a ridurre sensibilmente la possibilità per questi soggetti di instaurare interazioni sociali adeguate, e quindi accresce la probabilità che l’interazione, costituendo occasione di fallimento, possa favorire nel tempo lo sviluppo di problemi di adattamento di diverso livello di gravità. La maggior parte delle ricerche evidenzia inoltre come il DDAI sia accompagnato, in una percentuale di casi piuttosto elevata, da condotte aggressive che contribuiscono a determinare il rifiuto sociale. Tali condotte potrebbero essere causate dal fatto che l’impulsività e il deficit di attenzione possono incrementare la tendenza dei soggetti a disturbare i compagni, causando reazioni di irritazione che inducono a isolare questi bambini. I rifiuti ricevuti possono portare quindi i soggetti più aggressivi, e meno capaci di mediare le reazioni altrui, a scontrarsi con coloro che li respingono

adottando modalità aggressive, spesso rafforzate dal risentimento e dal sospetto generati dall’esperienza dell’esclusione, specie se ripetuta. Bisogna precisare però che spesso i bambini con DDAI attuano condotte aggressive a causa della loro caratteristica impulsività e non agiscono con l’intento di colpire o di offendere, tanto da essere sinceramente sorpresi di fronte agli esiti negativi che ne derivano (Pozzoli – Gini, 2006). La difficoltà di autocontrollo, infatti, ostacola in loro la capacità di collegare l’azione alle sue possibili conseguenze, e quindi di fare una scelta rispetto alla condotta da adottare basata sulla previsione delle conseguenze che ne potranno derivare. Le problematicità a livello interpersonale non riguardano tuttavia solo l’ambito delle relazioni tra pari ma investono anche i rapporti con gli adulti, determinando spesso criticità importanti all’interno del contesto familiare. La mancanza di applicazione nei compiti, per esempio, è facilmente interpretata come indice di pigrizia, di oppositività e di mancanza di responsabilità, ovvero come comportamenti che il bambino mette volontariamente in atto. Questa percezione degli adulti innesca reazioni di risentimento e anche di rabbia per l’inutilità dei tentativi di cambiare la situazione, con conseguenze negative sulla relazione genitori-figli ma anche spesso all’interno della coppia genitoriale. Inoltre la ricerca di soluzioni rapide alla situazione scomoda, sia sul piano fisico sia sotto il profilo psicologico, che la fatica di gestire la condizione del figlio provoca, unita alle implicazioni che questa comporta per tutto il nucleo familiare anche nei rapporti sociali della famiglia stessa, può facilmente indurre i genitori ad adottare comportamenti incoerenti, soprattutto nella gestione dei premi e delle sanzioni. Come è facile prevedere in molti casi le relazioni genitori-bambino e, più in generale quelle adulto-bambino, finiscono per assumere una connotazione negativa, con l’attivazione di circuiti viziosi dai quali è molto difficile, per

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non dire impossibile, che la famiglia possa uscire senza l’aiuto di esperti. Le difficoltà scolastiche e relazionali, i frequenti rimproveri e il conseguente senso di inadeguatezza che i bambini con DDAI sperimentano interferiscono inevitabilmente con il processo di inserimento e di adattamento circostante nei diversi ambienti di vita; questa combinazione di fattori portano facilmente all’instaurarsi di uno stato di ansia e di demoralizzazione che può amplificare le difficoltà esistenti fino a renderle irreversibili. Come precedentemente accennato, gli ostacoli all’interazione e alla le gestione delle richieste cognitive ed emotivo-relazionali che questo avanza nella quotidianità del vivere incidono sullo sviluppo del senso di identità personale, che Erikson definisce come “il senso soggettivo di una rinfrancata coerenza e continuità nel fluire delle esperienze” (Erikson, 1999, p. 20). Secondo la prospettiva eriksoniana, condivisa anche da altri approcci teorici, l’identità si svi-

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luppa attraverso gli scambi interpersonali che un soggetto intesse lungo l’intero arco del suo sviluppo, in particolare nello svolgersi delle relazioni con persone significative, adulte e coetanee; l’individuo infatti si valuta anche in base al giudizio di cui si percepisce altro destinatario da parte dell’ambiente. Il riconoscimento del valore personale offerto al bambino da quanti lo circondano, in particolare dalle figure di riferimento affettivamente pregnanti, risulta pertanto un indispensabile fattore nella crescita individuale. Il percorso di acquisizione della propria identità rappresenta un itinerario complesso per chiunque, ma è evidente come il vissuto di svalutazione e autosvalutazione che le difficoltà di inserimento e adattamento provocano lo rendano ancor più difficile per i bambini con DDAI. Questi, infatti, faticano notevolmente a stabilire relazioni significative all’interno delle quali mettere in atto quei processi di sana identificazione che portano alla costituzione dell’identità.


Per vedere praticamente come i fattori fin qui descritti possono agire e quali possono essere le soluzioni percorribili ci serviamo di un caso concreto. Il caso di Simone Simone è un bambino di 10 anni e frequenta il quarto anno della scuola primaria. Da appena un anno gli è stato diagnosticato un DDAI Sottotipo con Disattenzione Predominante. Il ritardo con il quale la diagnosi è stata effettuata ha comportato una stratificazione di problemi dal punto di vista del rendimento scolastico, in quanto non è stato possibile approntare tempestivamente dei programmi di intervento educativo-didattico che favorissero le capacità di apprendimento. Oltre a questo Simone, che è perfettamente consapevole delle proprie difficoltà, ha sviluppato una sorta di competitività rispetto ai compagni, ma non avendo acquisito le capacità necessarie a svolgere adeguatamente i compiti proposti i suoi tentativi di essere alla pari con i coetanei non hanno fatto altro che evidenziare maggiormente le disparità esistenti. I sistematici insuccessi hanno finito col rendere il bambino estremamente insicuro e chiuso in se stesso, sfuggente all’interazione poiché questa implica un confronto che ha alte probabilità di esse per lui fonte di frustrazione, come sfortunatamente le ripetute esperienze gli hanno insegnato. Occorre notare che in questa situazione un ruolo fondamentale è stato svolto dalle insegnanti, le quali hanno erroneamente (molto probabilmente sulla base delle precomprensioni di cui si è parlato all’inizio di questo contributo e non certo per scarsa attenzione nei confronti del bambino) imputato le difficoltà dell’alunno a mancanza di interesse e a un’eccessiva timidezza che lo porta a isolarsi dal resto della classe. Queste caratteristiche, a loro avviso, avrebbero determinato la tendenza a rifugiarsi nella fantasia e a manifestare il classico atteggiamento di chi “sta con la testa tra le nuvole”. Intervenendo nella situazione senza una specifica preparazione ma sulla base di conoscenze e convinzioni di senso comune

hanno finito con l’assumere uno stile educativo piuttosto incoerente, alternando momenti in cui il bambino veniva coccolato, protetto e giustificato per l’incapacità di portare a termine i compiti e per la sua continua distrazione, ad altri in cui per le stesse ragioni veniva invece rimproverato, anche duramente. Questa modalità di rapporto altalenante, oltre a privare il bambino di indicazioni stabili, necessarie per comprendere le ragioni dei feedback ricevuti, ha contribuito a inoculare in lui un senso di inferiorità, a volte usato anche in modo strategico come rifugio per non eseguire compiti o attività attraverso l’esasperazione della propria incapacità. L’incoerenza dei messaggio è stata inoltre un fattore che, insieme all’introversione del bambino ma anche alla sua competitività, ha contribuito a innescare e mantenere una relazione con i compagni di classe poco costruttiva. Pur essendo socievole, infatti, Simone tende a non partecipare alle attività di gruppo; i suoi sforzi per reagire all’isolamento, in parte dovuto a esclusione e a volte indotto dal suo senso di inadeguatezza, lo spingono a mettere in atto tentativi di interazione piuttosto goffi, che finiscono con il suscitare l’ilarità, talvolta aspra, dei coetanei, accentuando la sua insicurezza. Nell’ultimo anno scolastico, e quindi dal momento in cui è stata fatta la diagnosi e intrapreso il programma personalizzato di intervento psicopedagogico, attuato in una struttura esterna alla scuola ma condotto in rete con le insegnanti e la famiglia, le difficoltà del bambino si sono notevolmente ridimensionate, in particolare dal punto di vista relazionale. Il percorso individuale è stato infatti affiancato dall’inserimento in laboratori educativi, all’interno dei quali Simone ha potuto sperimentare occasioni di interazione positive, guidate e stimolate dagli operatori anche attraverso attività di simulazione che hanno preparato il bambino alla gestione delle dinamiche interpersonali nei diversi contesti. Questa esperienza, come ci si attendeva, ha rivelato effetti positivi anche nel gruppo classe. Sebbene permangano le difficoltà scolastiche legate alle prestazioni

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richieste dalla didattica in quanto l’intervento in tal senso, iniziato in ritardo rispetto ai tempi auspicati, procede molto lentamente, Simone è riuscito a trovare motivo di compensazione alla frustrazione precedentemente sperimentata nel legame che ha instaurato con un nuovo compagno, giunto nella sua classe da pochi mesi. Si nota comunque un miglioramento delle relazioni con l’intero gruppo classe e con le insegnanti, le quali hanno modificato il loro modo di rapportarsi al bambino accettando di seguire, non senza difficoltà, le indicazioni offerte dai professionisti che seguono Simone. Analogamente si sono registrati miglioramenti nella relazione all’interno della famiglia poiché i genitori, opportunamente guidati, hanno modificato il loro stile educativo per creare un ambiente maggiormente rispondente alle caratteristiche attuali del figlio. Per i genitori è stato inoltre gratificante notare dei cambiamenti nel comportamento di Simone che hanno consentito a tutti di vivere delle occasioni di vita sociale con maggiore tranquillità che in passato. Questo segnale è particolarmente importante poiché indica, oltre alla permeabilità del bambino all’intervento, un inizio del percorso, sicuramente lungo e probabilmente impervio, di stabilizzazione e di generalizzazione delle acquisizioni realizzate. Conclusioni La combinazione di aspetti primari e secondari del DDAI origina molteplici dinamiche, che investendo il rapporto del soggetto sia con se stesso sia con gli altri influenzando la sua qualità di vita. Il disagio che il bambino vive, infatti, non investe solo l’ambito delle prestazioni, scolastiche o extrascolastiche, ma anche e soprattutto la sfera affettiva ed emozionale, con ricadute particolarmente importanti sulla costruzione dell’identità personale e sul senso di autoefficacia. Poiché queste componenti si sviluppano e si consolidano nella relazione interpersonale, e soprattutto nel rapporto con le figure affettivamente significative, emerge chiaramente

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la necessità che gli adulti di riferimento svolgano un’azione educativa coerente, capace di sostenere il bambino nel percorso di elaborazione e gestione delle proprie difficoltà, in modo che queste non mettano in discussione il valore della persona in quanto tale. Riferimenti Bibliografici: ANDREOLI V. - CASSANO G. B. - ROSSI R. (a cura di), DSM-IV-TR Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali Text Revision [DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder, Text Revision, American Psychiatric Association 2000], Milano, Elsevier Masson 2007; BANDURA A., Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Trento, Erickson 2000, pp. 131-150; CAPRARA G. V. (a cura di), La valutazione dell’autoefficacia, Trento, Erickson 2001; CELLAMARE S., Educare alla genitorialità: riflessioni per un percorso possibile, in «Prospettiva EP», anno XIX, n. 1, gennaio-aprile 2006a, pp. 7-22; CORNOLDI C et al., Iperattività e autoregolazione cognitiva. Cosa può fare la scuola per il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Trento, Erickson 2001; ERIKSON E. H., Gioventù e crisi di identità [Identity Youth and Crisis, New York, Norton Company 1968], Roma, Armando 1999; FISKE S. T., La cognizione sociale, Bologna, Il Mulino, 2006; POZZOLI T. - GINI G., Comportamenti aggressivi e rifiuto sociale in bambini con disturbo da deficit di attenzione e iperattività: una rassegna, in «Psicologia dell’educazione e della formazione», 8(2006)3; STERNBERG R. J. - RUZGIS P., Personalità e intelligenza. Teorie e modelli di interconnessione, Trento, Erickson, 2000; VIO C. - MAZZOCCHI G. - OFFREDI F., Il bambino con deficit di attenzione/iperattività: diagnosi psicologica e formazione dei genitori, Firenze, Organizzazioni Speciali, 2006. Sitografia: ZUDDAS A. - MASI G. (a cura di), Linee-guida per la diagnosi e la terapia farmacologia del Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività (ADHD) in età evolutiva, in www.aifa.it/lineeguida.htm.


Donne e libertà nella cultura globalizzata

di Stefano Caffari Questo articolo prende spunto dalle polemiche innescate dalla copertina apparsa sul Times di luglio, nel momento in cui si stava allargando la mobilitazione a favore di Sakineh, la donna iraniana condannata alla lapidazione. Il titolo della rivista era infatti “Cosa succede se lasciamo l’Afghanistan”, e l’immagine che campeggiava era quella di Aisha, una giovanissima afghana a cui sono stati mutilati naso e orecchie perché scappata di casa dal marito. È interessante notare come questa copertina, dal messaggio all’apparenza lineare e favorevole alla questione femminile, abbia scatenato le reazioni di molte donne che vi hanno visto dietro un messaggio diverso, ossia la giustificazione della guerra dietro la scusa della salvezza delle donne afghane, e più in generale la giustificazione di una retorica anti-islamica sempre più preponderante in certi contesti occidentali. L’obiezione di fondo è la seguente: per quale motivo l’indignazione e la voglia di interventismo e protezione dell’opinione pubblica occidentale è spostata verso la condizione femminile in paesi estremamente lontani, geograficamente e culturalmente, mentre

nella nostra società la donna vive problemi altrettanto gravi ma che non vengono presi in considerazione? Per quale motivo, quindi, non viene dichiarato lo stato di emergenza rispetto alla sistematica violenza, fisica e mediatica, a cui sono sottoposte molte donne nelle società del cosiddetto primo mondo? Si tratta di domande pesanti, che colpiscono non solo le decisioni dei governanti ma fungono da critica strutturale all’intera società occidentale, che sotto un’apparente liberazione dei costumi e del pensiero avrebbe tuttora un profondo spirito patriarcale, seppur con molteplici graduazioni. Parimenti, sono critiche che colpiscono anche il movimento femminista, o meglio i movimenti femministi, e spingono a fare una riflessione sulla sua evoluzione storica e sulla sua reale capacità di portare un cambiamento in tutte le società a livello mondiale. La prima domanda quindi che ci dobbiamo porre è: si può parlare attualmente di un movimento femminista nel senso letterale della parola? Senza dubbio sì, e molteplici indicatori spingono a pensare che si tratti di un movimento in costante ascesa, dopo alcuni decenni di staticità dovuta a una crisi generale dei movimenti sociali. Per quanto riguarda l’Italia, è di estremo interesse osservare come il neofemminismo abbia saputo coniugare un attivismo storico sul territorio, presente dalla metà del ‘900 e mai cessato, con un uso intelligente dei nuovi media, tanto che si può parlare ormai di “cyber femminismo”. Validissimi esempi di questa nuova strada di attivismo mediatico sono blog come Femminismo a Sud, progetti virtuali portati avanti da collettivi femministi che coniugano acute disamine di fenomeni di attualità con l’attivismo sul territorio, ad esempio attraverso la stretta connessione con i centri anti-violenza o la mobilitazione recente nel Lazio riguardo la proposta di legge Tarzia. Allo stesso tempo, a livello mondiale non si può non notare come il movimento femminista abbia saputo creare una critica strutturale

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alla società occidentale e ai suoi modelli sociali, attraverso l’apertura di interessanti dibattiti come quello sulla prostituzione, di cui bisogna ricordare le importantissime prime lotte di Carol Leigh, prostituta, performer e attivista statunitense che per prima propose di cambiare il termine prostitution con sex work, e l’apertura conseguente di una nuova teoria femminista sul rapporto tra sesso e potere che riuscisse ad andare oltre le spiegazioni economiciste. Tuttavia, al di là di questi movimenti che possono comunque essere ricollegati quasi unicamente all’ambito delle società occidentali, numerose altre istanze sono sorte a livello mondiale in ambito femminile, ed è importante analizzarle con attenzione a maggior ragione nel momento in cui con una sempre maggiore globalizzazione delle idee e delle persone risulta sempre più difficile parlare di teorie sociali e soprattutto movimenti che siano locali e limitati geograficamente. Un grande punto di novità, seppur implicito e non sempre realizzato dai soggetti che lo portano avanti, è quello delle migrazioni su scala globale. I movimenti migratori, infatti, plasmano, adattano o sovvertono quegli eventi del ciclo familiare che sostanziano la continuità culturale, sociale e demografica dei gruppi. Un esempio chiaro di queste trasformazioni nei rapporti di genere dovute agli spostamenti di persone è quello dato dalle ricerche di Claudia Pedone riguardo le emigranti ecuadoriane in Europa (2005), dove si evidenzia come il lasciare la propria terra indipendentemente dalle tutele maschili riesca a sottrarre le donne dall’assumere ruoli attesi di continuità sociale, senza per questo recidere legami di appartenenza. La migrazione agisce quindi in parte da frattura culturale, modificando e talvolta ribaltando dinamiche relazionali legate al genere, a volte con la conseguenza di disagi sociali causati dallo shock culturale innescato (è il caso delle separazioni affettive delle donne che migrano da sole lontane dai figli). Si tratta di una questione che crea una grossa

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critica in parte anche alla situazione sociale delle donne occidentali: infatti, se attualmente possono impegnarsi nelle loro carriere, senza che gli uomini si occupino maggiormente della casa, degli anziani e dei bambini, è perché le “altre” donne le sostituiscono in quegli stessi compiti. Partendo quindi dal presupposto che nelle società occidentali in generale e in quelle come l’italiana in particolare un nuovo “patto sociale” tra uomini e donne per una fine effettiva della cultura patriarcale di fatto non vi è ancora stato, le donne migranti colpiscono al cuore il problema di una società che, nonostante l’indiscutibile liberalizzazione delle idee e dei costumi mantiene una grossa fragilità di fondo per quanto riguarda il retroterra culturale delle relazioni tra persone e generi. Ma oltre a questo, e in sua stretta connessione, il discorso che approfondiremo qui è quello del femminismo islamico, o meglio dei femminismi islamici. Il femminismo islamico esiste dall’inizio del ‘900, e per tutto il secolo le battaglie per le donne nel mondo islamico sono state molto presenti. Uno dei paesi protagonisti di queste battaglie è stato senz’altro l’Egitto, dove già nel 1923 nasceva l’Unione Femminista Egiziana con Hoda Sharawi, una figura fondamentale del femminismo islamico, la quale quando quello stesso anno si recò a Roma, dove si stava tenendo una conferenza sul suffragio universale, osservando le problematiche espresse dalle donne italiane, francesi, americane e degli altri paesi occidentali affermò che “non c’è niente di più simile a noi delle donne italiane”. Al suo ritorno in patria fece un gesto clamoroso per l’epoca, togliendosi il velo pubblicamente, e inaugurando una serie di incontri e riunioni a cui partecipavano sia donne cristiane che musulmane, a testimonianza del fatto che quella delle donne non era una questione religiosa ma culturale. Tuttavia, contemporaneamente all’Uef negli stessi anni si fece avanti Zeynab al Ghazabi, che inizialmente aderì all’Uef ma poi se ne discostò poiché affermava che la liberazione


della donne doveva avvenire all’interno dell’Islam e non attraverso una chiave universalistica. Va inoltre osservato che, a livello sociale, l’Uef era costituita da donne appartenenti alle classi medio-alte, mentre i discorsi della Ghazabi avevano un maggiore riscontro nelle classi popolari; la sua idea di fondo era che la donna fosse essenzialmente madre, ma doveva comunque partecipare alla vita pubblica, seppur in secondo piano rispetto alla classe maschile e comunque dopo gli impegni famigliari. Si può così parlare dunque dell’esistenza nel mondo islamico non di uno, ma di almeno tre “femminismi islamici”, come osservato dalla ricercatrice Renata Pepicelli (2010): il primo è il femminismo secolare, nato in Egitto, dove molti dei principali movimenti femministi partivano dai partiti marxisti-leninisti e la lotta per la liberazione della donne era sostanzialmente una lotta di classe. Il secondo è il femminismo islamista, la corrente più nota, che predica un ritorno all’Islam in prima persona da parte delle donne ed è il movimento fondato da Zeynab al Ghazabi. La terza cor-

rente è quella delle femministe islamiche che reclamano l’uguaglianza di genere a partire dai testi sacri, dando luogo quindi a una critica radicale della società patriarcale. È inoltre importante notare come le aderenti al movimento non si autodefiniscano femministe, ma sostengano solo di portare avanti l’Ijtihad, ossia lo sforzo interpretativo dei testi sacri; non esiste quindi secondo esse “la” legge islamica, ma diverse interpretazioni. La Sharia è sì divina e immutabile, ma la nostra vita non è regolata dalla Sharia quanto dal Fiqh, il diritto islamico, che come tutte le produzioni umane col tempo può essere messo in discussione. Il movimento è incentrato dunque su uno sforzo per migliorare se stesse e le società in cui si trovano, ed è una battaglia rivolta non solo alle donne ma anche agli uomini. Sempre secondo esse, la progressiva sottomissione delle donne nelle società islamiche rappresenta un grave torto storico, in quanto le donne sono state fatte uscire col tempo dalle cronache dell’Islam ma in realtà avevano un ruolo di primo piano nelle gesta del Profeta.

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Come si può osservare, nel mondo islamico nonostante le apparenze e l’opinione generalizzata in Occidente la questione di genere è ampiamente dibattuta e mostra una realtà tutt’altro che vincolata alle “donne col burqa” ma anzi presenta molteplici diversità e istanze di discussione e rinnovamento. Inoltre, quando si analizzano questi movimenti bisogna tenere sempre conto del fatto che molte donne concepiscono l’Islam come l’unica strada per combattere l’ingiustizia, trovandosi in società interamente islamizzate. Esistono inoltre numerose reti internazionali di donne musulmane, come il Women Living Under Muslim Laws (WLUML), un network internazionale fondato nel 1984 per la difesa dei diritti delle donne, basato su una prospettiva femminista e che ha come prospettiva quella di correggere le distorsioni dell’opinione pubblica occidentale quando si preoccupa della “condizione della donna musulmana”, per tornare al punto espresso all’inizio di questo articolo. Secondo questa rete infatti, sovrastimando il ruolo dell’Islam, volontariamente o involontariamente, tale rappresentazione distoglie l’attenzione dalle cause strutturali dell’ineguaglianza di genere e appiattisce le forze in conflitto rendendo invisibili quelle che lottano per il cambiamento sociale, provocando per di più una reazione difensiva tra i musulmani indebolendo ulteriormente la possibilità di dissenso delle donne. In conclusione, se come da più associazioni femministe affermato “l’unico vero internazionalismo che sembra resistere e godere di ottima salute è l’alleanza degli uomini per mantenere la subordinazione delle donne”, si può affermare tuttavia che è possibile contrastare questa visione sostenendo che l’unica alternativa possibile per una società mondiale dove le donne abbiano un reale diritto di cittadinanza è che si realizzi concretamente quella “società orizzontale” teorizzata da Gherardo Colombo fondata su diritti e uguaglianza di fatto, e non nominali, contrapposti a quella concezione di “società verticale” che legittima e consente il

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perdurare di logiche patriarcali e di sottomissione che impediscono di fatto la libera espressione della cittadinanza femminile. Ma prima ancora di questo, un passo indispensabile, che questo articolo spera di aver espresso sufficientemente, è una critica radicale dell’esistente, che ammetta un internazionalismo di fatto del problema femminile, comprenda i caratteri comuni delle risposte femministe, e agisca di conseguenza. Riferimenti Bibliografici: Al ZAYYAT L., Carte private di una femminista, Roma, Jouvece, 1996; BERTILOTTI T., GALASSO C., GISSI A., LAGORIO F. (a cura di), Altri femminismi. Corpi Culture Lavoro, Roma, manifestolibri, 2006; COLOMBO G., Sulle regole, Milano, Feltrinelli, 2008; FIUME G. (a cura di), Donne diritti democrazia, Roma, XL edizioni Sas, 2007; GIACCHETTI D., Nessuno ci può giudicare. Gli anni della rivolta al femminile, Roma, DeriveApprodi, 2005; MERNISSI F., L’harem e l’Occidente, Milano, Giunti, 2006; PEDONE C., Relazioni di genere e catene familiari ecuadoriane nel contesto migratorio internazionale, in AMBROSINI M., QUEIROLO PALMAS L. (a cura di), “I latinos alla scoperta dell’Europa. Nuove migrazioni e spazi della cittadinanza”, Milano, Franco Angeli, 2005; PEPICELLI R., Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Milano, Carocci, 2010; SALIH R., Musulmane rivelate. Donne, Islam, modernità, Milano, Carocci, 2008; SCHIMMEL A., La mia anima è una donna. Il femminile nell’Islam, Genova, ECIG, 1998; Sitografia Casa Internazionale delle Donne www.casainternazionaledelledonne.org/; Femminismo a Sud. Storie di egemonie culturali e pretese uguaglianze. http://femminismo-a-sud.noblogs.org/; WLUML - Women living under muslim laws www.wluml.org/;


Public Affairs nel Governo Locale? Intervista a Dario De Santis, amministratore unico di Bridging Bureau srl

di Daniela Nardacci Bridging Bureau srl opera attivamente nel mercato per offrire consulenza di management e di comunicazione nel settore delle relazioni pubbliche speciali, in particolare dei Public Affairs nell’ambito della Pubblica Amministrazione Locale, al fine di posizionare e consolidare interessi, policy e progetti dei propri clienti in contesti economici, sociali e politici. All’interno di ambiti complessi ed in rapida evoluzione, l’organizzazione si adopera ad assistere i propri Clienti per individuare risposte performanti ed adeguate alle nuove esigenze del mercato di riferimento. Attraverso reti di competenze e di conoscenze Bridging Bureau srl è in grado di fornire soluzioni integrate di gestione e di comunicazione strategica, ad elevata professionalità, strutturate su percorsi personalizzati, che muovono dall’analisi reale di partenza sino al controllo di prestazioni e performance. La proiezione dei Clienti

nell’ambito delle relazioni di rappresentanza degli interessi particolari verso il Governo Locale e Regionale si ispira ai principi di trasparenza e di conformità tenendo fermi criteri economici di efficienza e di efficacia. Sostenere i propri Clienti in una competizione virtuosa all’interno dei nuovi scenari intervenendo su basi organizzative, codici di lettura e di comunicazione, attività e capacità relazionali è il principale impegno delle persone che collaborano con Bridging Bureau srl. Domanda: Public Affairs, Lobbying, Relazioni Istituzionali, cos’è che l’ha spinta ad intraprendere in un settore così particolare in un momento tanto complesso per il sistema economico produttivo del nostro Paese? Risposta: Fondamentalmente una virtuosa incoscienza di base mista a passione e ad una irrefrenabile voglia di rischiare in proprio mettendo a disposizione della causa, senza riserva alcuna, energie fisiche ed intellettuali proprie e delle persone che, da subito, hanno condiviso la sfida. Ho scelto di cedere al fascino di una particolare avventura professionale nella consapevolezza che tale esperienza avrebbe gradualmente consentito agli animatori del progetto di valutare con maggiore lucidità le relazioni pubbliche e private. Le dirò che quando si avverte una spinta di questo genere resta secondario interpretare quale sia il giusto momento di congiuntura economica, c’è un solo must: dar vita all’idea e subito. Domanda: In cosa consiste l’essenza del suo lavoro e chi sono gli interlocutori più frequenti? Risposta: La Bridging Bureau srl è un’organizzazione di relazioni pubbliche, in particolare di relazioni istituzionali nell’ambito della Pubblica Amministrazione Locale. In sostanza ci curiamo di rappresentare interessi particolari di persone, gruppi, operatori economici

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con o senza scopo di lucro nel corso dei procedimenti decisionali di Comuni, Province, Regioni e dei loro enti intermedi. Incontriamo, illustriamo, mediamo, indichiamo, sveliamo, soccorriamo ma soprattutto comunichiamo per far convergere gli interessi particolari dei nostri clienti con l’interesse generale dei nostri interlocutori, che sono soprattutto grandi organizzazioni e decisori pubblici. Debbo aggiungere che nello svolgimento del nostro lavoro non di rado ci troviamo a curare le relazioni esterne più generali del nostro cliente raggiungendo positive sinergie di rete.

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Domanda: Quindi nel nostro sistema istituzionale locale esiste la categoria dei rappresentanti di interessi? Risposta: Se riesce a toccarmi avrà la sua risposta! In realtà l’attività di rappresentanza di interessi particolari è connaturata in un sistema democratico, sarebbe paradossale stabilire l’agenda politica ed in particolare prendere decisioni ad impatto generale senza aver raccolto le informazioni dal basso. Tuttavia non c’è regolamentazione sistematica di tale attività e non solo per la PAL ma anche per le al-


tre Istituzioni Nazionali nonostante siano state molteplici le iniziative legislative in tal senso. Negli ultimi anni, nell’ambito della qualità della normazione, alcune Regioni ammettono tipicamente rappresentanti di interessi, ma siamo solo all’inizio. Può immaginare che tutta una serie di soggetti, a vario titolo e talvolta con dubbio facere, ha da sempre operato su tutti i livelli istituzionali per influenzare il decisore pubblico, ma malgrado questo, non esiste una categoria che raccoglie i lobbisti. C’è un vuoto di regolamentazione che inevitabilmente espone al rischio di rappresentanze

opache e pericolose. Il sistema istituzionale non riconosce ufficialmente le attività lobbistiche ma ne trae un necessario supporto nelle fasi iniziali del processo di decisione. Domanda: In questo contesto cos’è che può aiutare il decisore a riconoscere la serietà e l’affidabilità del rappresentante di interessi? Risposta: Anzitutto è buona regola, e di conseguenza indice di affidabilità, che chi si propone per rappresentare interessi particolari nel processo decisionale pubblico si dichiari inequivocabilmente tale. Con ciò voglio intendere che questa attività non può essere seria se portata avanti in maniera discontinua ed all’occasione, proprio perché la complessità intrinseca nell’attività di relazioni istituzionali presuppone esperienza consolidata e organizzazione sistematica. Chi rappresenta interessi, ancorché per la propria organizzazione, deve conoscere non solo l’interesse che rappresenta ma soprattutto le motivazioni di convergenza con l’interesse pubblico. Occorrono conoscenza dell’infrastruttura decisionale dell’Istituzione e degli strumenti di assunzione della decisione, capacità di analizzare e comparare proposte alternative, consapevolezza dei limiti della legittima rappresentanza, competenza tecnica. Mi preme sottolineare che solo attraverso lo svolgimento di questa attività in maniera organizzata si possono adottare serie politiche di gestione orientate ai principi eticoprofessionali, di trasparenza e di efficacia. Domanda: La sua organizzazione come si inserisce nel quadro dei principi appena enunciati? Risposta: Mi permetta di portare avanti una breve digressione sull’organizzazione che rappresento. Dopo tutta una serie di esperienze nell’ambito delle autonomie locali, attraverso l’entusiasmo e la partecipazione di diverse intelligenze, nel 2008 decido di dar vita alla

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Bridging Bureau srl, con una mission statutaria di consulenza organizzativa, comunicazione strategica e lobbying. Nel giro di un paio di anni, iniziando dalla gestione di alcune commesse a Bruxelles presso il Parlamento Europeo, passando per una formazione specifica sui Public Affairs ed arrivando al consolidamento di importanti alleanze strategiche, la società si è rapidamente ritagliata uno spazio quasi esclusivo sul mercato delle relazioni istituzionali verso gli Enti Locali. Riusciamo ad assistere i nostri selezionati clienti nelle dinamiche di rappresentanza verso Sindaci, Assessori, Presidenti, Consiglieri, Dirigenti, Segretari, Funzionari ed altri secondo una logica di massima trasparenza e legittimità impegnandoci ad impostare la nostra consulenza attraverso gli strumenti della gestione di progetto e nel rispetto dei principi di trasparenza, efficienza ed efficacia. Forti del nostro approccio alla lobbying abbiamo deciso di certificarne il modello di business, riuscendo ad ottenere nel 2010 la certificazione del sistema di management della Bridging Bureau srl secondo lo standard di eccellenza organizzativa dettato dalla norma internazionale UNI EN ISO 9001:2008 per i servizi di relazioni istituzionali, lobbying, comunicazione strategica e consulenza manageriale. Domanda: Per questo lavoro quanto può contare il network? Risposta: E’ fondamentale! Il successo imprenditoriale in questo campo sta nella capacità di fare rete. Immagini che in molte occasioni lavoriamo in partnership con altre società di lobbying per catalizzare la rete comune dei contatti. Siamo su un settore in cui è agevole far squadra anche per riuscire a presidiare lunghe distanze territoriali e diversi livelli istituzionali. Personalmente credo molto nella politica delle alleanze perché può garantire un miglior livello di prestazione professionale ed una risposta aggregata

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ed attendibilmente ottimale per il cliente. Possiamo tranquillamente confermare che la rete fa la forza! Domanda: Dalla sua esperienza qual è la percezione all’esterno di un lobbista? Risposta: Per la gran parte è assolutamente sconosciuta la figura del professionista delle relazioni istituzionali. Molto spesso, e purtroppo, Lobby passa come Loggia. E’ come se ci fosse un’ombra anomala sull’attività di mediazione, di creazione del consenso quando parliamo della sfera pubblicistica. Questo credo sia un problema per il sistema Paese, un retaggio storico ed una terminologia abusata e stereotipata contribuiscono a rallentare un processo di riconoscimento ufficiale di questa categoria e prestano il fianco a rappresentanze sotterranee indifferenziate e spesso improvvisate. Sono convinto però che l’attenzione pubblica si sia gradualmente rivolta con maggior favore critico alla regolamentazione di tale settore anche se rispetto alla stessa Europa scontiamo un decennio di ritardo. In effetti, e mi è sempre più chiaro, il primo cliente di un lobbista è se stesso. Domanda: In conclusione quali potrebbero essere gli sviluppi della sua organizzazione nel breve periodo? Risposta: Auspico di impiegare nell’attività quotidiana un numero crescente di professionisti che, consapevoli del significato autentico di lobbying, possano sposare e condividere la causa di Bridging Bureau srl. Inoltre ho l’ambizione di consolidare l’attività già in corso presso le Istituzioni Europee generando politiche di sviluppo per interlocutori privati e pubblici. Sono convinto della raggiungibilità di nuovi obiettivi professionali e della possibilità di poterli raggiungere attraverso lo stesso entusiasmo che ci ha consentito di affermare la Bridging Bureau srl in questo mercato.


Pubblicazione trimestrale Reg. N° 564/09 V.G. Tribunale di Frosinone. N° iscrizione Editore ROC: 18775 Indicizzazione La Rivista è inserita nella Banca Dati: ACNP (Catalogo italiano dei periodici) Fondatore Dario De Santis

In questo modo vorremmo accogliere la nostra (e la vostra) “passione per le prospettive diverse, per il disordine organizzato, per l’entropia e per la rottura degli schemi tradizionali” per far diventare Qtimes una fonte di servizi ed informazioni “diversa dal solito”. Linee guida per gli Autori: www.qtimes.it/contenuto.php?C=4 Le immagini riprodotte sono reperite su internet e pertanto ritenute di pubblico dominio. Per chiederne la rimozione contattare il nostro staff.

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