ISSN: 2038-3282
Anno IV Numero 2 - Aprile 2012
EDITORIALE 04
La didattica accende le luci alle LIM: nuovo strumento di apprendimento di Stefania Nirchi
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Ospite Scientifico Benedetta Cosmi La scuola nell’armadietto
TRAMA
www.bridgingbureau.com - info@bridgingbureau.com
Direzione • Organizzazione • Relazioni Comunicazione
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Lo sviluppo tecnologico tra dimensione sociale e nuovo rischio di Stefania Capogna
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L’istruzione potenziata dalla tecnologia di Anna Maria Pani
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SIPARIO
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Mondi e profili educativi di Agnese Rosati
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“Un’utopia necessaria” di Maria Gioia Pierotti
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Il discorso efficace:la metafora del volo di Massimiliano Cavallo
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Ricerca e formazione nella scuola. Parte terza. Saper osservare di Savina Cellamare
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Per un sistema educativo formale di qualità, equo e inclusivo di Roberto Melchiori
PUNTO 51
TIMES
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Giocare a essere donne. Identità e senso estetico nel gioco delle bambole. Parte I. I fattori di sviluppo dell’identità di genere di Alessia Giangregorio «Mi metto nei tuoi panni» Il valore dell’empatia nelle relazioni interpersonali di Francesca Giangregorio
SPAZIO A … 67 www.qtimes.it - redazione@qtimes.it
Recensione al testo di Benedetta Cosmi “Comunicare A scuola. Con Amici” di Imma Lazzaro
Anno IV Numero 2 Maggio 2012
La didattica accende le luci alle LIM: nuovo strumento di apprendimento
di Stefania Nirchi Se provassimo a fare esercizio di memoria sulla scuola che ha caratterizzato i nostri anni di formazione, l’immagine d’aula che verrebbe subito alla mente sarebbe identica a quella che caratterizza l’ambiente di istruzione e formazione anche di questo tempo storico. Saremmo senza dubbio presi da un senso di smarrimento nel notare che nulla è cambiato nonostante lo scorrere degli anni e l’alternarsi di intere generazioni, come se tutto ciò che costituisce il palcoscenico scuola 1 (insegnante, cattedra, lavagna, allievi, banchi) si fosse cristallizzato in una sorta di immobilità perenne. Non possiamo negare le tante indicazioni arrivate in questi anni dal contesto internazionale, sollecitazioni continue ad un giro di boa che hanno chiamato la scuola a riflettere su un proprio ed opportuno “cambio di pelle”. Basti ricordare le indicazioni europee che a partire dal 2000 si sono avvicendate sul tema del miglioramento
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della didattica in termini di efficacia ed efficienza, soprattutto in una nuova veste, tutta tecnologica. Una delle ultime sfide lanciate alla scuola è quella di trasformare le proprie aule in ambienti generativi di apprendimento, in cui sia possibile imparare ad imparare continuamente, sviluppando competenze e lavorando sul capitale umano disponibile, al fine di formare intelligenze multiple. La prospettiva educativa che fa da sfondo a questo modello di didattica è quella che ha a cuore principalmente il pensiero critico, la pluralità, le differenze individuali, il lavoro cooperativo tra pari 2 . Per raggiungere tali obiettivi le aule si sono trasformate in veri e propri laboratori di didattica integrata da tecnologie avanzate. L’inizio di questo cambiamento può essere fatto risalire al Piano Scuola digitale 3 del 2008 che prevede la diffusione su vasta scala di strumenti innovativi al servizio della didattica. Questo nuovo modo di insegnare e di apprendere è un’occasione nuova che rende più facilmente realizzabile il passaggio, fin qui doloroso, da una trasmissione di saperi ordinata, sequenziale, settoriale, ad una multimediale e reticolare. Vivere pienamente questa sorta di trasformazione antropologica vuol dire non escludere il passato a favore del presente e/o viceversa, ma far dialogare costantemente queste due anime: quella della cultura alfabetica e quella dei media 4. Per fare questo è necessario che i docenti rimodulino il loro modo di insegnare, a partire dalle metodologie impiegate, perché ogni nuovo linguaggio necessità di uno stile comunicativo adeguato. In altri termini, essi sono chiamati a porre al centro del processo di istruzione gli allievi, trasmettendo loro i saperi attraverso canali comunicativi diversi ed impiegando ausili didattici diversificati. Un approccio questo che rimanda ad un viaggio nell’insegnamento-apprendimento dai caratteri ludico, reticolare, multimediale, un cammino pedagogico verso la conoscenza di saperi forti e, con una cassetta degli attrezzi il cui contenuto cambia continuamente, perché tante e diverse sono le risorse a cui i docenti devono
attingere per interessare, motivare i nativi digitali, già antropologicamente abituati ad assorbire positivamente una realtà che muta in maniera repentina. Tuttavia, tutto questo comporta da parte degli esperti una cura diversa nel condurre gli insegnanti verso una didattica aperta alla multimedialità, e da parte di questi ultimi, una grande voglia di mettersi in gioco per scongiurare il rischio di considerare gesso e lavagna di ardesia l’antico rifugio sicuro contro il nuovo che avanza. I vantaggi dell’apprendere con il touch screen delle LIM Ardesia e polvere di gesso rappresentato da sempre i simboli per antonomasia del fare scuola. E’ questa, infatti, l’immagine che viene subito alla mente, insieme a banchi e cattedra, quando pensiamo ad un’aula scolastica. Tuttavia, come anticipato in apertura a questo articolo, le LIM (Lavagne Interattive Multimediali) rappresentano oggi un nuovo ausilio a disposizione dei docenti e presente ormai nella maggior parte delle classi scolastiche di ogni ordine e grado di istruzione. Si tratta di un grande schermo tattile (touch screen) sul quale viene proiettato tutto ciò che è in visione sul desktop del computer del docente. L’interazione può avvenire scrivendo con un pennarello o semplicemente toccando lo schermo. In questo modo è possibile cliccare, disegnare, scrivere, trascinare ogni tipo di oggetto digitale (contenuti, immagini, video, ecc.) cancellare e salvare tutto sul computer. Il fatto che la LIM permette il salvataggio e l’estensione della lezione all’infinito la caratterizza, rispetto alla vecchia lavagna, come una porta aperta alla didassi 5. Proprio per queste caratteristiche le LIM “diventano il trait d’union strategico tra tutte le azioni educative poste in essere all’interno dell’ambiente fisico e quelle esterne, in cui elementi digitali ed online offrono infinite possibilità di apprendimento. Dunque le LIM e gli ambienti virtuali producono un proseguio ed un’estensione formativa anche al di fuori del contesto classe e scuola, creando scenari
formativi molto più ampi e del tutto innovativi 6.” Scenari formativi nei quali gli allievi lavorano in chiave cooperativa e costruttivista acquisendo saperi attraverso l’interazione e la condivisione con il gruppo classe, in un’ottica di learning by doing trasversale e interdisciplinare. La letteratura di riferimento conferma la versatilità delle LIM e l’efficacia del suo utilizzo, con ricadute positive su motivazione, attenzione e coinvolgimento degli allievi con conseguente miglioramento della comunicazione in classe (Biondi, 2009). Permettendo la condivisione dei contenuti anche a distanza, la lavagna interattiva multimediale può essere un valido strumento di aiuto in situazioni particolari, quali quelle di allievi costretti a casa per motivi diversi. In questi casi particolari, le LIM consentono all’allievo di collegarsi con la propria classe e di seguire la lezione dell’insegnante online, di essere coinvolto nell’attività del gruppo rispondendo a una domanda, o evidenziando un oggetto, oppure, in caso di
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problemi di collegamento diretto, ricevere la registrazione audio e/o video di ciò che è stato fatto in aula sulla LIM da insegnanti e compagni. Usare questo strumento non rappresenta la rottura con i vecchi ausili didattici ma disegna un connubio tra nuove e vecchie risorse cui aspirare per utilizzare nel migliore dei modi i new media, in un’ottica di costruzione di saperi flessibili, trasversali, reticolari, non ascrivibili alle singole discipline. Per raccogliere la sfida ed essere in grado di governare la complessità dei cambiamenti in atto nel sistema istruzione, occorre dunque adoperare un numero considerevole di approcci in grado di incidere sull’ambiente, reale e virtuale, della classe, modificandolo notevolmente e generando ecosistemi di apprendimento diversi. Se pensiamo che la scuola non debba essere arroccata su antiche convinzioni che la vogliono poco aperta al cambiamento e intenta invece a salvaguardare l’identità che l’ha contraddistinta in tutti questi anni, allora l’esercizio di immaginare una didattica efficace ed innovativa ed in continuo mutamento non rimane un esercizio utopistico. Lo spazio aula si apre così ai nativi digitali declinando forme nuove di insegnamento- apprendimento, attraverso una didattica di qualità a misura di allievo, che fa della multimedialità il proprio grimaldello per affrontare i cambiamenti in atto. Solo in questo modo la scuola sarà in grado di ascoltare la musica del proprio “ripensamento critico” sul nuovo spartito della multimedialità. Note: 1. Il corsivo è di chi scrive 2. Grabinger, R.S., Dunlap J.C. (1995). Rich environments for active learning: A definition, Alt-J, 3 2, 1995, pp. 5-34. Gli autori in questo saggio definiscono un ambiente di apprendimento generative secondo i principi della filosofia costruttivista. Tale ambiente si basa sullo sviluppo del pensiero critico, della metacognizione, della flessibilità, del problem solving, del lavoro cooperativo e facilita l’apprendimento e lo sviluppo di competenze in un ottica di life long learning skills.
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3. Cfr. http://www.istruzione.it/web/istruzione/piano_ scuola_digitale. 4. T. Sirchia, Riambientazione antropologica e scuola multimediale, in T. Sirchia (a cura di), “L’alfabeto e i media. Verso la scuola multimediale”, Marsala, Editrice Scolastica Italiana, 1994, p.18. 5. Quella parte della didattica che si riferisce alle esperienze effettivamente compiute nel contesto operativo del l’aula. 6. M. G. Mura, Le potenzialità della LIM e il principio di convergenza. Dalla classe agli ambienti integrati di apprendimento, intervista a Roberto Baldascino, www. indire.it/content/index.php?action=read&id=1629, 26 aprile 2010. Riferimenti Bibliografici: BANNISTER D., Come usare al meglio la vostra LIM. Linee guida europee, in “European Schoolnet”, settembre 2010, http://www.eun.org/web/guest/home; BIONDI G. (a cura di), LIM. A scuola con la lavagna interattiva multimediale. Nuovi linguaggi per innovare la didattica, Giunti Editore, Firenze, 2009; BONAIUTI G., Didattica attiva con la LIM - Metodologie, strumenti e materiali con la Lavagna Interattiva Multimediale, Erickson, Trento, ristampa 2010; CALVANI A., I nuovi media nella scuola, Roma, Carocci, 1999; CALVANI A., FINI A., RANIERI M., La competenza digitale nella scuola, Trento, Erickson, 2010; FERRI P., I nativi digitali: nuove forme di comunicare tra gli abitanti della Scuola, in “Pedagogia più Didattica”, n.1, Trento, Erikson, 2010; MARGIOTTA U., Aula con vista. Comunicare a scuola…oltre la scuola, in “Pedagogia più didattica”, n.1, Trento, Erikson, gennaio 2010; MIUR, Linee di sviluppo. Piano nazionale Scuola Digitale, 28 luglio 2010, Roma, Sala dei Ministri, DGSSSI, Ufficio V, http://www.istruzione.it/web/ istruzione/dettaglio-news/-/dettaglioNews/viewDettaglio/13437/11210; SIRCHIA T., Riambientazione antropologica e scuola multimediale, in T. Sirchia (a cura di), “L’alfabeto e i media. Verso la scuola multimediale”, Marsala, Editrice Scolastica Italiana, 1994.
La scuola nell’armadietto
di Benedetta Cosmi Se quando vai a scuola, quello è tutto il mondo riconosciuto dalle istituzioni e su cui verrai valutato, nonostante le agenzie stampa, i social network, i giornali, abbiano le loro agende, le loro logiche e priorità, cosa avviene, una volta fuori dalle mura scolastiche? Fuori dal periodo di scolarizzazione, anni dopo, guardi in dietro e la scuola sembra così lontana. Un tema così distante. Un problema che non riguarda che gli addetti ai lavori. Tanto pervasivo nella cinematografia d’oltre oceano quanto non più frequentato in Italia dopo gli anni settanta. Sì, si citano i tagli, sì, si sa di poter contare su un gruppo di studenti nei cortei e nelle manifestazioni, ma la scuola chi è? Per alcuni sindacati la scuola è la parte docente, per le associazioni studentesche sono forse gli studenti, ma in quanto tali… fuori dal giorno dopo che terminano gli studi. Non esistendo per esempio quelle realtà aggregative di ex alunni. Ma anche gli ex alunni nelle scuole e college esistono perché la vita scolastica è a tempo pieno, non solo quanto al numero di ore piuttosto alla concezione “totalizzante”.
Del resto l’Italia nelle indagini Ocse Pisa (comparazione internazionale dei 15enni di tutti i Paesi su Litteracy, matematica, scienze, che rileva molte informazioni anche sullo stile con cui vi è, o no, “pratica” o solo teoria) risulta la nazione che più di tutte rimanda ai “compiti a casa”. Modalità inesistente altrove dove è il luogo di apprendimento, la scuola, perché si discute, si ascolta, si studia. Una delle serie più appassionanti della mia preadolescenza: Bayside School, innanzitutto perché passavo dalla scuola elementare alla scuola media pensando che finalmente lì avrei trovato, pensate, gli “armadietti”. Un simbolo? Certamente del modo con cui senti che un pezzo di quella scuola è tua, per un anno, forse per cinque, lì ci saranno le tue cose; nessuno ne parla da noi neppure quando si affronta il “peso delle cartelle e dei libri”. Bayside School racconta la storia di 6 ragazzi, alle prese con i quattro anni del liceo. Il protagonista Zack Morris (Mark-Paul Gosselaar) (l’unico che ha possibilità di rivolgersi verso la telecamera e “parlare” con il pubblico nonché capace di “fermare il tempo”), ragazzo biondo e bello è innamorato della ragazza più bella della scuola, Kelly Kapowski (TiffaniAmber Thiessen), mentre Jessie (Elizabeth Berkley), prova amore e odio verso Slater (Mario Lopez). Il gruppo si completa con Lisa, (Lark Voorhies) che vive di abiti firmati e pettegolezzi, e Screech (Dustin Diamond), personaggio buffo e distratto. Sullo sfondo c’è il preside della Bayside High, il signor Belding (Dennis Haskins). Le vicende sono ambientate nella scuola, a casa di Zack, a casa di Kelly, e a volte al bar Max, punto di ritrovo degli studenti. Poi anche Beverly Hills ha rappresentato un cult di quegli anni; di cui in Italia non abbiamo saputo cogliere dei passaggi imprescindibili per dare alle istituzioni scolastiche uno spazio nei cuori, nelle menti e nell’animo dei suoi protagonisti. Brandon. Quel ragazzo che riscostruisce i rapporti amicali, essendosi trasferito con la
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famiglia da poco, intorno al “giornale universitario”. Bene, da noi, anche lì dove esiste una testata dell’ateneo, ma dove si può rintracciare l’edificio con la redazione? Da noi sono i ritagli di metri quadri a disegnare le geografie e le alleanze: per esempio abbiamo ideato, fondato il primo giornale universitario dell’Università di Roma La Sapienza, nel 2005, esistevano tante piccole pagine di singole facoltà ma nulla che contribuisse a creare collante nel più grande ateneo d’Europa. Come studenti, abbiamo presentato all’allora Rettore il progetto editoriale, ottenuto il sostegno e i finanziamenti del C.d.A (Consiglio di Amministrazione), lo spazio per la redazione è saltato fuori in un edificio di Medicina, grazie all’ora Preside ora nuovo Magnifico. Ma chi mai avrebbe pensato di cercarci lì, la redazione all’interno del Policlinico? La strutturazione dei nostri edifici scolastici e universitari non contempla spazi per il dibattito, per i lavori di gruppo e di ricerca, per il giornale universitario, tanto meno per il gruppo Glee, per dirlo con un’altra serie di successo. E allora subentra la tecnologia, con la sua capacità innata di creare rete, di fare incrociare gli interessi, di mettere in contatto e in relazione, di rintracciare in base al lavoro, alla scuola, alle passioni.
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Ma non raccontino la favola che le biblioteche tramonteranno perché ormai i libri si leggono su Ipad, si scaricano dalla rete o si stampano le versioni Ebook; le biblioteche non moriranno, durano all’estero dove la tecnologia è di molto già avanti a noi, ma perché lì si può entrare e non uscire. Da noi si può uscire, senza essere entrati, in base all’orario e ai giorni festivi e feriali. Nei Robinson altra serie dei decenni addietro, il ragazzo andava in biblioteca anche solo per socializzare e con la speranza che hanno tutti in testa a quell’età soprattutto di “conoscere la propria ragazza”. E questo stesso format è riutilizzato in molti film, così come, fateci caso, i gruppi di ogni età si ritrovano a casa in compagnia con familiari o amici e giocano ai giochi di società, dal famoso Monopoly al mimo, passando per innumerevoli altri, da noi nettamente meno e certamente in nessun film di produzione italiana. Gli stili di vita e del tempo libero non sono poi così scorrelati dalla scuola e dagli esempi. Le scuole e le università potrebbero rimanere aperte con tanti giochi di società anche le sere, e le biblioteche per favore aperte! Con connessione wifi.
Lo sviluppo tecnologico tra dimensione sociale e nuovo rischio 1
di Stefania Capogna Non si può comprendere la comunicazione multimediale e il peso che essa assume nei processi formativi, lavorativi e sociali del XXI secolo se non si guarda al modo in cui lo sviluppo tecnologico degli ultimi venti anni ha contribuito a modificare la società. Infatti, con il passaggio dalla società moderna 2 a quella post-moderna si registra uno straordinario mutamento nel panorama dei processi culturali, comunicativi ed educativi. La società del web si caratterizza, seguendo le parole di Castells (2001), per la rilevanza delle reti, le quali determinano una nuova morfologia sociale delle nostre società; e la diffusione della logica di rete modifica in senso sostanziale l’operare ed i risultati dei processi di produzione, del potere e della cultura. Ancora, secondo l’autore, l’informazione si costituisce oggi come il volano dello sviluppo economico e della conoscenza, qualificandosi come materia prima essenziale. L’elemento distintivo
del paradigma dell’informazionalismo sta nel fatto che mai prima d’ora l’uomo è stato nelle condizioni di processare una tale mole di informazioni. E ciò è reso possibile dall’affermazione, su scala planetaria, di un complesso di tecnologie dell’informazione capaci di governare questo processo. L’informazione oggi si delinea come risorsa fondamentale per lo sviluppo e la produzione di conoscenza. L’informazione diviene la “materia prima” su cui innestare il progresso del XXI secolo. Una materia prima molto particolare dato il suo valore simbolico e immateriale. La rilevanza dell’informazione non si spiega solo con l’osservazione che nella società dei servizi, a terziario avanzato, la maggior parte dei lavoratori è impiegata nella gestione-elaborazione delle informazioni, tanto da assumere l’appellativo di lavoratori della conoscenza (Butera, Donati, Cesaria, 2009); ma, soprattutto, perché l’uomo ha maturato una straordinaria capacità di processare informazioni e calcoli complessi grazie allo sviluppo integrato delle tecnologie legate alla comunicazione (computer, telefono, televisione). E ciò è il presupposto di quella che viene definita economia della conoscenza (Foray, 2009). Il fattore di rilievo quindi è nella moltiplicazione e nell’estensione delle informazioni e delle possibilità di calcolo offerte oggi dalle tecnologie. L’affermazione diffusa di tali tecnologie diviene il presupposto per gli altri due elementi, quello della reticolarità e quello della globalità. Reticolarità significa che ciascuno è un punto interconnesso ad una molteplicità di altri punti sparsi nel mondo. Il concetto di reticolarità si spiega con il fatto che grazie alla diffusione di Internet su scala planetaria si sono superate le tradizionali barriere spaziotemporali che sempre hanno definito e condizionato lo sviluppo dell’umanità, delle comunità e dell’identità individuale. La definizione dello standard ITP-IP, che ha permesso a tutti i computer del globo di dialogare tra loro, ha ridefinito l’esperienza del mondo 3 in ordine ad un nuovo spazio dei flussi timeless time
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(Castells, 2001). Tutto e tutti sono connessi con tutto e tutti, costituendo quella che l’autore definisce network society. Ciascuno è un punto interconnesso con una infinità di altri punti distribuiti nel villaggio globale. I fattori che delimitano l’apertura e la chiusura dell’individuo post-moderno, rispetto al network globale, sono oggi quelli di pertinenza e contingenza. Ciò a dire che l’individuo costruisce la propria identità non più in base, o non solo, alla propria appartenenza socio-culturale, bensì in funzione di interessi e obiettivi che possono spaziare nel network globale ed essere continuamente ridefiniti, in un incessante processo di costruzione e ricostruzione della realtà quotidiana (Berger, Luckmann, 1966). Ciò si traduce con: a) evidenti ricadute sul modo in cui si sviluppa l’intero processo di socializzazione; b) affermazione di un’identità liquida (Bauman, 2000) che si auto-rappresenta attraverso una molteplicità di sé sincronicamente e diacronicamente distribuiti nello spazio dei flussi 4. La globalizzazione è diretta conseguenza dei due assunti sopra evidenziati e consiste in una mappa globale di relazioni che si ripercuote in ogni dimensione del nostro agire (economia, produzione, lavoro, socialità, apprendimento ecc.). Questo sistema di interconnessioni si riversa su ogni dimensione della vita travalicando il modello di sviluppo su cui si è basata la mancata promessa della modernità (Giddens, 1990). Sul network globale si sposta il flusso delle transazioni finanziarie, della produzione, della ricerca scientifica, delle relazioni sociali e culturali 5. Il network globale si afferma come nuovo terreno di conquista e di potere, come sperimentazione del possibile. In questo senso nulla è più reale di questo spazio virtuale (Levy, 2005). La concretezza di questo mondo virtuale è tanto più evidente se si guarda a come si vengono a ridisegnare gli assetti glo-
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bali del potere. La globalità e la rilevanza di questi processi, infatti, mettono in crisi anche i tradizionali Stati-nazione simbolo della modernità. Essi sono spinti, da una parte, a delegare porzioni di autorità a organizzazioni sovranazionali (più o meno formalizzate e definite), al fine di recuperare un certo margine di controllo sul cambiamento; dall’altra, a delegare agli enti locali spazi di governo oggi divenuti ingestibili. Si assiste quindi ad una duplice tensione di cambiamento degli Stati nazione: un ridimensionamento dei propri poteri di intervento ed un ragguardevole cambiamento (incerto nelle sue applicazioni e ancor più nei suoi esiti) nei propri strumenti di governo. Essere parte di un network consente al nodo (persona, organizzazione, associazione, comunità) di accedere ad un bagaglio enorme di risorse, definite da Levy (2005) con il termine di intelligenza collettiva nell’intento di indicare che l’umanità è estremamente più esperta e competente di quanto lo siano i suoi componenti. Nella rete vi è un patrimonio di
conoscenza ingestibile per un solo individuo. L’intelligenza connettiva qui depositata (De Kerckove, 2005) viene ricostruita per mezzo dei diversificati modi attraverso cui è possibile percorrere la rete. Tuttavia, nella logica del network rientrano solo quei nodi che rappresentano un valore per la rete; ciò significa che tutti gli altri sono tagliati fuori. Finché si considera questo in una logica tecnologica o economica, non c’è nulla di strano nel dire che i nodi improduttivi devono essere annullati. Ma se, come ricorda Castells (2001), si sposta l’attenzione sulla dimensione sociale e umana, e si considera che dietro quei nodi ci sono persone, comunità, Stati interi in condizione di disagio, non si può ignorare il fatto che il mondo è spaccato in due confini che creano un divario sempre maggiore tra ricchi e poveri di informazione 6. La questione è affatto secondaria se si considera che proprio questa informazione rappresenta il volano dell’economia e dell’innovazione nella società informazionalista e della conoscenza (Rullani, 2009). La questione del divario dell’informazione è centrale se si con-
sidera che, nonostante la ragguardevole espansione che il web ha conosciuto nel mondo negli ultimi cinque anni, la stragrande maggioranza della popolazione resta sconnessa. Un divario, tuttavia, che non è solo tecnologico, anche se questo evidentemente ne è il presupposto (Dijk, 2006, 2011). Si deve indicare infatti anche un vincolo connesso alla competenza linguistica. La maggior parte della produzione del web mondiale è scritta in lingua inglese e, seppure si riscontrano spesso traduzioni nelle lingue più diffuse, tutte le minoranze restano escluse. Un ulteriore limite riguarda la competenza sociale e culturale che il web richiede al soggetto per essere fruito. Non è sufficiente infatti avere accesso ad un monitor per saper cosa, come e dove cercare nel web. Sinora Internet è stato terra di nessuno, lasciato in balia del mercato che ha visto in questo spazio un nuovo territorio di conquista. In Italia, in particolare, si ripete quanto già verificatosi con i media generalisti, dove l’avvento della società di massa e dell’industria culturale ha di gran lunga preceduto il processo di scolarizzazione del nostro paese (Morcellini, 2005), lasciando gli individui soli innanzi alla responsabilità di esercitare un giudizio critico sui contenuti veicolati ovvero alla possibilità di accrescere le competenze sociali utili e necessarie a vivere e fare esperienza del nuovo spazio sociale 7. Il nuovo paradigma informazionalista e della conoscenza sollecita dunque i sistemi educativi ad intraprendere un processo di rinnovamento radicale e profondo nei contenuti, nelle metodologie, nel rapporto con il mondo esterno e con le tecnologie. Il problema che le nuove tecnologie pongono alla scuola infatti, non è solo legato all’alfabetizzazione informatica degli alunni (che in genere tendono ad acquisire queste abilità al di fuori dei contesti educativi), ma alla possibilità di trasferire al soggetto quell’insieme di competenze sociali e multimediali che Castells (2001) chiama Internet competences, che consentano all’individuo di esprimere la sua soggettività dentro e attraverso la rete senza restarne soggiogato.
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I sistemi educativi a tutti i livelli non possono più ignorare questa realtà e la necessità di doversi misurare con un impianto, un linguaggio e un modello pedagogico completamente nuovi. È quanto mai necessaria una riflessione utile a comprendere le dinamiche che collegano i nuovi paradigmi educativi e la questione delle competenze digitali. Come già altrove indicato (Capogna, 2011), il nostro spazio di vita viene quindi a colorarsi di una varietà di nuovi oggetti multimediali attraverso i quali, e per mezzo dei quali, ciascuno è in grado di definire la propria identità. Tuttavia, le tecnologie con cui oggi il soggetto post-moderno deve interfacciarsi sono più subdole e complesse. Oggi il soggetto deve dialogare con macchine sofisticate attraverso degli interfaccia ad alto contenuto simbolico e informativo (computer, palmari, notebook, ipad, cloud computing), attori “non umani” (Latour, 2002) che concorrono alla definzione del propria immagine di sé. Si tratta quindi di tecnologie immateriali che (Capogna, 2011): a) contribuiscono a creare ambienti tecno-sociali ad alta densità comunicativo-relazionale; b) entrano dentro il nostro sistema cognitivo ristrutturandolo. Come insegna Mead (1966), è nel rapporto dialettico con “l’altro da noi” che siamo in grado di costruire e ricostruire incessantemente il nostro percorso identitario. Tuttavia, oggi questo confronto dialettico fatto di auto-rappresentazione e rispecchiamento non avviene più solo con l’altro umano, ma anche con l’altro tecnologico che si estende sino a ricomprendere il variopinto panorama di interfacce che ci pervadono senza che ne abbiamo coscienza. L’immagine che ciascuno viene a costruire di se stesso, il suo habitus ed ethos di classe (Bourdieu, 1970), è dato quindi dall’insieme variabile di relazioni che, di volta in volta, il soggetto è in grado di costruire e, altresì, dal livello di controllo che riesce a man-
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tenere nell’interazione tra tutti gli altri da sé (persone, tecnologie, interfaccia) con cui è in relazione. Si tratta di un percorso mai definito e chiuso una volta per tutte, un percorso autodiretto e non filtrato dalle consuete agenzie di socializzazione che sempre hanno mediato la nostra integrazione nella società e il nostro percorso di costruzione identitario, dove il ruolo di mediazione viene oggi sempre più lasciato al circuito mass mediale e tecnologico. Il ruolo di mediazione della realtà 8 operato da tale sistema, si inserisce nel vuoto socio-culturale in cui si trova il soggetto, spesso lasciato solo davanti al proprio percorso di sviluppo personale e professionale che avviene lungo quel processo di socializzazione dal basso che lo carica di ambiti di responsabilità sempre maggiori e che rende quanto mai evidente la dimensione sociale, esperienziale e praticooperativa dell’apprendimento anche in relazione a queste tecnologie (Bourdieu, 2006) . La comunicazione diventa oggi il primo dispositivo utilizzato dal soggetto, sin dai primissimi giorni di vita, per l’espressione e la costruzione di sé. Il problema della socializzazione post-moderna è perciò quello di aiutare il soggetto a gestire questa comunicazione, o meglio, questo eccesso di informazione. Il rischio infatti, come evidenzia Maccarini (2003, 2005), è che il soggetto post-moderno possa perdersi nel mare della comunicazione globale che permette di essere costantemente connesso a chiunque e dovunque nel mondo. Il problema è consentire al soggetto non solo di costruirsi una identità forte, un sé radicato, ma di gestire il suo essere in questa comunicazione planetaria. La società post-moderna si differenzia fortemente da quella premoderna e moderna per il grado di importanza che acquista la dimensione simbolica con cui i soggetti devono confrontarsi e vivere quotidianamente. Un soggetto il cui tempo e la cui vita non è più scandita dai ritmi naturali delle stagioni, della giornata, della natura. Nemmeno la sua vita è scandita dai ritmi della città, dallo spazio della fabbrica o dal flusso
della produzione industriale. La sua esistenza scorre all’interno di un patrimonio simbolico sempre più intenso che determina la sua identità, il suo essere nel mondo, il suo lavoro, il suo modo di pensare, di capire e di relazionarsi agli altri, finanche la sua identità sessuale. Diversamente dal passato, il soggetto post-moderno è costantemente immerso nel flusso della “rappresentazione sociale” 9 che egli stesso concorre a costruire per mezzo del variegato panel di ibridi della comunicazione di massa, di qui il rischio di confondere reale e virtuale; per questo motivo è importante sviluppare nuove forme/occasioni di riflessività soggettiva per fornire migliori competenze d’uso nell’utilizzo di questi strumenti. Di fronte all’importanza che la dimensione comunicativo-simbolica assume nel processo di socializzazione post-moderna, è inevitabile chiedersi quale debba essere il futuro delle istituzioni educative tradizionali, per limitare i rischi attraverso cui si esprimono le “old e le new ways” del divario digitale. In particolare, quale debba essere il ruolo del sistema educativo che, nonostante abbia fallito la promessa dell’uguaglianza delle opportunità, sembra comunque essere ancora il solo in grado di poter vantare una qualche pretesa di equità 10 . L’alternativa ad una scelta politico educativa di giustizia fatta dalla scuola sembra essere il libero mercato laddove educazione e comunicazione vengono piegati a criteri di performance, efficacia, efficienza di natura prettamente aziendalista, e quindi rispondenti all’unico criterio del profitto, il quale, del resto, è quello che vale in un regime di capitalismo avanzato. Non possiamo ignorare infatti che il World Wide Web, come ultimo traguardo comunicativo, ci ha introdotti in una nuova dimensione ancora tutta da comprendere. La socializzazione passa allora dall’essere un percorso preordinato, definito e lineare, ad un percorso che resta inconcluso, mai fissato, che si apre e si richiude continuamente in base alle nostre scelte, contribuendo a ridefinire per questa
via il nostro stesso capitale sociale 11 che non appare più così rigidamente definito. Comunicare e collegarci agli altri diventa una scelta libera, unica e soggettiva. Mai prima d’oggi infatti si era registrata una tale e profonda libertà di accesso ai mezzi di comunicazione di massa mettendo in discussione gli stessi principi di potere, di diritto, di selezione che hanno caratterizzato tali mezzi fino a tutti gli anni ’70. Il divario diventa sempre più subdolo. Ora la padronanza della comunicazione e il processo di socializzazione non si gioca più nel saper scrivere e far di conto, nemmeno nell’accesso ai mezzi di comunicazione di massa più o meno generalisti. Il nuovo divario si insinua proprio nella capacità di attraversare lo spazio semantico-simbolico della comunicazione che ci contiene, che ci attraversa e ci costruisce e che si gioca sempre più all’interno degli ambienti tecnosociali che Internet, con il suo alto grado di ipermediazione, rende possibile, senza contare le ricadute che tutto questo ha sulla capacità/possibilità di padroneggiare un codice linguistico elaborato (Bernstein, 1971) che sappia esprimersi con un sufficiente grado di autonomia attraverso tutti i codici espressivi offerti dalle nuove tecnologie (Capogna, 2010, 2011). L’intento che dovrebbe porsi la sfida della socializzazione post-moderna, o meglio riflessiva nell’accezione intesa dalla Archer (2006), è quello di definire il nuovo profilo educativo della società post-moderna. Questa nuova méta non è ancora chiara. È impossibile vedere quale possa essere la strada per favorire nel soggetto non solo la padronanza comunicativa (il saper leggere e scrivere con sufficiente competenza per esercitare il proprio diritto-dovere ad una cittadinanza attiva), ma una competenza comunicativa critica – la cui rilevanza è stata ampiamente evidenziata da Habermas (1972, 1981) - necessaria ad orientare il proprio percorso di auto socializzazione all’interno della network society. È impossibile negare che, oggi più che mai, il
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processo di socializzazione si sviluppa attraverso la dimensione comunicativa extrapersonale ed intrapersonale 12. La comunicazione, ivi compresa quella in rete, è il medium attraverso cui costruiamo il mondo di significati, il senso che attribuiamo alle cose e alle relazioni intorno a noi. È inoltre il modo in cui possiamo sperimentare sia la nostra progettualità, in quanto attraverso l’espressione comunicativa possiamo immaginare e anticipare il cambiamento stabilendo le tappe del suo sviluppo in termini personali e comunitari, sia il senso da attribuire alla nostra storia personale, attraverso la narrazione di noi stessi che tendiamo a proporre a noi e agli altri. Il rischio per il soggetto post-moderno è quello di vivere questa complessità come espressione di una forma di disagio che si misura con l’incapacità di governare l’esplosione di comunicazione in cui ci pone la società contemporanea. Disagio facilmente ravvisabile nella difficoltà che molte persone manifestano nel trovare un giusto equilibrio tanto nell’utilizzo, quanto nell’esposizione (sovraesposizione versus sottoesposizione) rispetto alle nuove tecnologie massmediali. Note: 1. Ricercatrice sociale, studiosa di processi educativi, formativi, comunicativi e distance learning. Stefania Capogna: Counselor a orientamento filosofico. 2. L’aggettivo moderno trova la sua radice semantica nell’unione di due termini che derivano dal latino dotto: il primo indica attuale, recente; il secondo si traduce con ora, adesso. 3. Su questo tema si veda anche Castells: 2004, 2006, 2009. 4. Su questo tema si veda anche, atra gli altri, Bartoletti (2005); Boccia Artieri (1998); Turkle (1997). 5. Su questo tema si veda, tra gli altri, Rifkin (1997, 2003). 6. Per un approfondimento su questo tema si veda, tra gli altri, la ricerca di Matthew Finnegan sulle mappe del divario digitale nel mondo: www.techeye.net/internet/ researchers-develop-new-mapping-of-digital-divide. 7. Su questo si veda anche Capogna: 2008, 2009, 2010; Colombo 2008.
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8. Per un approfondimento sugli studi che hanno affrontato il concetto di mediazione della realtà si rimanda alle ricerche presentate in Mc Quail, 1983; Sorice, 2009. 9. Sul tema della “vita come rappresentazione sociale” si veda, tra gli altri, D’Amato (2007). 10. Per il dibattito sui temi dell’equità si veda, tra gli altri, Sen (2006). 11. Sul concetto di “capitale sociale” si veda, tra gli altri, Coleman (1988, 1990); Field (2003); Portes (1998); Putnam (2000). 12. A questo proposito la Archer parla di conversazione interiore come presupposto per orientare la riflessività soggettiva (2006). Riferimenti Bibliografici: ARCHER M., Riflessività umana e percorsi di vita, Trento, Erickson, 2006; BARTOLETTI R., The artificial in everyday life: social uses of communication technologies (con Lella Mazzoli e Giovanni Boccia Artieri), in M. Negrotti (a cura di), «Yearbook of the Artificial. Nature, Culture & Technology Vol. 3. Cultural Dimension of the Users», Peter Lang, Bern, 2005; BAUMAN Z., Liquid Modernity (trad. it.: Modernità liquida), Roma-Bari, 2002; BERGER P. e LUCKMANN T., tr. It., La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969; BERNSTEIN B., Class and code Control, vol. I, in “Theoretical Studies towards a Sociology of Language”, London, 1971; BOCCIA ARTIERI G., Lo sguardo virtuale. Itinerari socio-comunicativi nella deriva tecnologica, Milano, Franco Angeli, 1998; BOURDIEU P., PASSERON J. C., La riproduzione. Teorie del sistema scolastico ovvero della conservazione dell’ordine culturale, Firenze, La Nuova Italia, 1972; BOURDIEU P., Il senso pratico, Roma, Armando Editore, 2006; BUTERA F., DONATI F., CESARIA R., I lavoratori della conoscenza, Milano, Franco Angeli, (3° ed.), 2000; BUTERA F., Il cambiamento organizzativo. Analisi e progettazione, Bari, Laterza, 2009; CAPOGNA S., Il processo di incorporazione dell’elearning nelle organizzazioni formative: il caso dell’università, in Colombo M., (a cura di), “E.learning e
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‘istruzione potenziata dalla tecnologia
di Anna Maria Pani Quanto è importante la tecnologia nell’istruzione? Nel sistema americano è considerata determinante per migliorare l’apprendimento degli studenti. Il NETP, National Education Technology Plan (http://www.ed.gov/sites/default/files/NETP2010-exec-summary.pdf) elaborato nel 2011 dal Department of Education americano, ha presentato un modello di apprendimento per il XXI secolo basato sulla tecnologia, con obiettivi e raccomandazioni relativamente a 5 aree essenziali: apprendimento, valutazione, insegnamento, infrastrutture e produttività. In questo articolo mi soffermo in particolare sulle prime tre aree.
I S T I T U T O
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G i b e r t o ,
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A) APPRENDIMENTO Il modello di apprendimento del XXI secolo descritto nel piano sfrutta il potere della tecnologia per fornire un apprendimento personalizzato, anche nei ritmi, anziché un programma di studio valido per tutti. L’obiettivo è quello di coinvolgere e responsabilizzare nelle esperienze di apprendimento ciascun discente; di mettere a fuoco chi ha bisogno di imparare nonché come, dove e quando si insegna per rispondere a ciò che ciascuno ha bisogno di sapere. La considerazione di partenza è, infatti, che
quasi tutti gli studenti utilizzano una tecnologia mobile che dà loro accesso alle informazioni e alle risorse 24 ore su 24, 7 giorni su 7; ciò permette loro di creare contenuti multimediali e di condividerli con chiunque nonché di partecipare a reti sociali online con cui persone di tutto il mondo condividono idee, collaborano e imparano cose nuove. Dunque, al di fuori della scuola, gli studenti sono liberi di perseguire le loro passioni secondo modalità e ritmi propri: le possibilità sono illimitate e si realizzano istantaneamente. La sfida per il sistema educativo è quello di sfruttare la tecnologia moderna per creare esperienze di apprendimento coinvolgenti, pertinenti e personalizzate, che rispecchino la vita quotidiana dei discenti e la realtà del loro futuro. Contrariamente a quanto comunemente avviene nelle tradizionali lezioni in classe, occorre focalizzarsi sulla facoltà degli studenti di assumere il controllo del proprio apprendimento, fornendo flessibilità su diversi piani. Un insieme di concetti e di competenze standard dovrebbe costituire la base comune ma, in aggiunta a ciò, dovrebbero esserci opzioni di accesso all’apprendimento per singoli obiettivi, in base ad esigenze, interessi ed esperienze di ciascuno. Supportando gli studenti nelle aree che rappresentano per loro fonte di preoccupazione o di particolare interesse, l’apprendimento personalizzato realizza il suo valore aggiunto, ispirando alti livelli di motivazione e di realizzazione. Vieppiù. La tecnologia consente di avere accesso a più numerose risorse e di connettersi ad un più ampio ventaglio di educatori come, ad esempio, esperti e professionisti che, fuori dall’aula, nel loro lavoro, usano abitualmente la tecnologia per fare ricerche, collaborare e comunicare, per raccogliere dati ed analizzarli. Per gli studenti, utilizzare gli stessi strumenti crea opportunità di apprendimento per misurarsi con i problemi del mondo reale e prepararsi ad essere membri produttivi di una forza lavoro competitiva a livello globale. Quanto al cosa insegnare, se gli ambiti disci-
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plinari sono la madrelingua, la matematica, le scienze, gli studi sociali, l’arte o la musica, le competenze del XXI secolo quali il pensiero critico, la collaborazione, la risoluzione di problemi complessi e la comunicazione multimediale devono essere intessute nei contenuti di ciascuno di questi ambiti. Si tratta infatti di competenze necessarie per diventare un “discente esperto”, ciò che tutti dovremmo essere se vogliamo adattarci ad un mondo che muta rapidamente nel corso della nostra vita; il che comporta lo sviluppo non solo della comprensione di specifiche aree di contenuto ma anche della capacità di effettuare connessioni tra loro. Per raggiungere questo obiettivo, il NETP consiglia le seguenti azioni: 1. Rivedere, creare e adottare, per tutte le aree di contenuto, obiettivi di apprendimento che riflettano le esperienze del XXI secolo nonché il potere della tecnologia nel migliorare l’apprendimento. 2. Elaborare ed adottare risorse che utilizzino la tecnologia per dare corpo ai principi delle scienze dell’apprendimento. 3. Elaborare e adottare risorse di apprendimento che sfruttino la flessibilità e il potere della tecnologia per raggiungere tutti gli studenti, sempre e ovunque. 4. Utilizzare la tecnologia per migliorare l’apprendimento nelle materie scientifiche nonché elaborare ed adottare nuove metodologie che consentano agli studenti di eccellere nelle stesse. B) VALUTAZIONE Il modello di apprendimento del XXI secolo proposto dal NETP richiede nuovi e migliori metodi per misurare ciò che è importante nonché per diagnosticare i punti di forza e di debolezza nel corso dell’apprendimento: cioè quando si è ancora in tempo per migliorare le prestazioni degli studenti e per coinvolgere i tanti portatori di interesse nel processo di valutazione. Una valutazione basata sulla tecnologia, che combini la ricerca conoscitiva e la teoria su come gli studenti pensano grazie ai multimedia,
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all’interattività e alla connettività, rende possibile stimare direttamente questi tipi di abilità. Un sistema progettato per acquisire i contributi degli studenti e raccogliere le prove delle loro conoscenze e capacità di soluzione di problemi mentre lavorano, è in grado di “imparare” di più sulle abilità degli studenti nonché di offrire in modo crescente un sostegno adeguato. Con una valutazione “sul momento”, che stimi l’intera serie di competenze ritenute rilevanti, i dati sugli apprendimenti degli alunni possono essere raccolti ed usati per migliorare continuativamente i risultati di apprendimento. Ad esempio tali dati potrebbero essere utilizzati per creare un sistema di feedback interconnesso tra studenti, insegnanti, genitori, dirigenti scolastici e amministratori. Per poter funzionare, i dati devono essere forniti alle persone giuste, al momento giusto e nella giusta forma; ad educatori e responsabili a tutti i livelli del sistema di istruzione, deve essere fornito il supporto necessario, in termini di strumenti e formazione, per gestire il processo di valutazione, analizzare i dati e prendere i provvedimenti opportuni. Per raggiungere questo obiettivo, il NETP consiglia le seguenti azioni: 1. Progettare, sviluppare e adottare valutazioni che diano a studenti, educatori e portatori di interesse un feedback tempestivo circa l’apprendimento degli studenti, al fine di migliorare i risultati e le pratiche didattiche. 2. Costruire la capacità dei docenti e delle istituzioni educative di utilizzare la tecnologia per migliorare i processi di valutazione per finalità sia formative che sommative. 3. Condurre ricerche che esplorino la tecnologia come il gioco, le simulazioni, gli ambienti di collaborazione, i mondi virtuali, utili tanto nelle valutazioni di competenze complesse che nella motivazione degli studenti. C) INSEGNAMENTO Proprio come la tecnologia può aiutare a migliorare l’apprendimento e la valutazione, il modello del XXI secolo di apprendimento
chiede di utilizzare la tecnologia per aiutare a costruire le capacità degli insegnanti e per consentire il passaggio ad un modello di insegnamento connettivista. L’aspettativa di un insegnamento efficace e il senso di responsabilità degli educatori è una componente critica per trasformare il nostro sistema di istruzione, ma altrettanto importante è riconoscere la necessità di rafforzare ed elevare la professionalità degli insegnanti: ciò è necessario se si vuole attrarre e mantenere educatori efficaci nonché accrescere i risultati di apprendimento. Così come usando abilmente la tecnologia si può migliorare l’apprendimento e la valutazione, la tecnologia può aiutare a migliorare le capacità degli educatori, consentendo il passaggio a un modello didattico connettivista. In tale modello didattico, la connessione sostituisce l’isolamento: i docenti sono perfettamente collegati ai contenuti da insegnare e agli strumenti per il loro utilizzo; alle risorse e ai sistemi che consentono di creare, gestire e valutare le esperienze di apprendimento; nonché agli stessi studenti cui dare sostegno nella formazione sia all’interno che fuori la scuola. I collegamenti danno agli stessi insegnanti l’accesso ad esperienze che migliorano le loro pratiche d’insegnamento e li guidano a diventare animatori e sostenitori di un apprendimento sempre più autogestito dagli studenti. Nell’insegnamento connesso, l’insegnamento è un’attività di squadra. I singoli educatori costruiscono comunità di apprendimento online costituite da studenti in comunità tra pari, da docenti di diverse scuole, da professionisti esperti in varie discipline in tutto il mondo, da membri di organizzazioni che aiutano gli studenti non solo a scuola, da genitori che vogliono partecipare all’istruzione dei loro figli. Lo sviluppo professionale episodico ed inefficace è sostituito dall’apprendimento professionale che è collaborativo, coerente, continuo e che integra efficacemente corsi in presenza e laboratori con sistemi di ambienti on-line, attraverso corsi on-demand e altre opportunità di autoapprendimento.
Da parte loro, i collegi dei docenti e le altre istituzioni che preparano gli insegnanti svolgono un ruolo determinante nella crescita professionale per tutta la durata della loro carriera. La tecnologia che permette un insegnamento connettivista è già disponibile, ma non ci sono tutte le condizioni necessarie per sfruttarle. I nostri docenti non hanno la stessa comprensione e facilità di utilizzo della tecnologia che, invece, è parte della quotidianità dei professionisti in altri settori. Questa lacuna nell’uso della tecnologia influenza lo sviluppo dei programmi del curriculo, le decisioni di finanziamento e di acquisto delle scuole, la formazione dei nuovi docenti e di quelli in servizio; questa lacuna impedisce che la tecnologia venga usata per migliorare le pratiche di insegnamento e i risultati di apprendimento. Eppure, dobbiamo introdurre l›insegnamento connettivo nel nostro sistema di istruzione rapidamente, e quindi abbiamo bisogno di innovazione in tutti gli organismi che supportano i docenti nella loro professione: scuole e distretti, collegi docenti, esperti esterni e organizzazioni professionali. Per raggiungere questo obiettivo, il NETP consiglia le seguenti azioni: 1. Progettare, sviluppare e adottare contenuti, risorse, comunità di apprendimento online basate sulla tecnologia, al fine di creare opportunità di collaborazione tra educatori finalizzate ad un insegnamento più efficace, di attirare nuove persone verso questa professione e di incoraggiare gli educatori migliori a proseguire nell’insegnamento. 2. Fornire un servizio di formazione continua basato sulla tecnologia per colmare il divario tra gli studenti e i docenti. 3. Trasformare la preparazione e la formazione professionale degli educatori sfruttando la tecnologia per creare carriere personali e reti di apprendimento all’interno e tra scuole, nelle istituzioni educative e nelle organizzazioni professionali. 4. Sviluppare un corpo docente esperto nell’insegnamento online.
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Mondi e profili educativi
di Agnese Rosati La ricerca pedagogica si profila come un sapere in crescita e in evoluzione, poiché arricchisce e approfondisce le sue complesse e numerose tematiche con gli apporti e i contributi che derivano da un costruttivo dialogo con le scienze dell’uomo. La pedagogia, difatti, si integra in maniera dinamica con i saperi che permettono di comprendere totalmente la persona umana, nel suo comportamento sociale, nelle relazioni vitali, nella capacità meditativa e riflessiva che consente il riconoscimento del valore formativo delle esperienze e nei meccanismi psichici che presiedono all’apprendimento, per renderla protagonista della sua formazione. In questo colloquio con i saperi, la pedagogia denota la sua attenzione per i problemi del tempo e, in particolare modo, il rispetto per l’essere umano, un microcosmo in dialogo con il mondo, l’ambiente, la natura e la società intera in cui vive come fasi di crescita soggettiva e responsabile degli istanti, momenti ed esperienze della sua vita, in un processo evolutivo che si manifesta sotto tutti i profili, essendo
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non soltanto uno sviluppo fisico e biologico ma pure culturale. “Io sono una parte di tutto ciò che ho incontrato” scrive Ortega Y Gasset 1, ponendo in evidenza il coinvolgimento consapevole del soggetto nella formazione, un cammino di crescita che offre anche molteplici possibilitàdi e prospettive che assumono un preciso significato quando poste sotto la lente della riflessività, modalità di un pensiero critico che permette di fare luce sull’esistenza per accoglierne incognite e misteri a cui trovare soluzioni e spiegazioni. Proprio questa tendenza a chiarire, in un esercizio riflessivo costante, genera cambiamenti esistenziali nell’uomo, frutto di decisioni a volte esplicitamente consapevoli, altre volte più subite che volute. Le relazioni umane, le esperienze individuali e collettive maggiormente significative, divengono per la persona garanzia e premessa per uno sviluppo dalla forte tensione axiologica e valoriale, durevole nel tempo e protratto nello spazio, dove avvengono “eventi speciali”. L’idea della scelta e della decisione, insieme alla fluttuazione che fanno sì che nella vita individuale si presentino momenti di sviluppo alternati a fasi di stabilizzazione e di pausa nei quali il soggetto non trae dalle esperienze vissute elementi e occasioni di cambiamento, appartengono alla formazione 2. Lo spazio e il tempo, ai quali in considerazione della virtualità si aggiunge il vuoto che cancella l’immediatezza del “qui e ora”, assumono tratti fluidi, estesi e pervasivi come sono della realtà nella quale gli uomini, per non ritrovarsi “gettati” e dunque smarriti, dovranno avere coscienza. Questo è il senso di una crescita che si rende “umanamente significativa” perché capace di riconoscere e di fare propria la dimensione educativa che i contesti, le comunicazioni, le relazioni e gli atti possono assumere: questo è il senso degli “eventi speciali” che divengono occasioni di apprendimento. Il dato educativo prevale nel momento in cui testimonia la capacità di dare risposte alle do-
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mande di senso, soddisfa le inquietudini dell’anima, fa altresì appello alle forze interiori che impegnano la persona umana nell’evoluzione individuale per una migliore coscienza di sé, alla quale corrispondono conoscenza e azione. Per questo motivo un’azione accredita la sua tensione educativa se “coniuga efficacemente l’agire poietico o produttivo con l’agire eticosociale” 3. Coscienza e consapevolezza, difatti, divengono espressione di un nuovo modo di essere del soggetto che apprende in risposta a precisi obblighi e stimoli che si traducono in “compiti di apprendimento”, tali da dichiarare la forza e la possibilità di crescita in suo possesso. Questi “doveri” si traducono poi nella capacità di libera iniziativa personale che asseconda l’intenzionalità del movimento vitale proprio dell’uomo, in una rete di connessioni sociali e culturali, quali sono i legami umani che divengono impegnativi per la pedagogia, perché la costringono a prendere atto di una realtà mutevole e cangiante. La pedagogia, dalla coerenza e dall’adesione alla realtà che da sempre la connotano come sapere critico sull’educazione, trova elementi per una seria riflessione che orienta alla ricerca continua con la quale dare significati alle teorie e alle azioni, attraverso risposte educative. Questo sapere, dai confini estesi poiché si occupa di diverse prospettive che ne ampliano le responsabilità (si pensi agli ambiti dell’educazione formale, non-formale ed informale), assume una forte valenza critica e problematica, che riguarda non solo i fatti, ma pure gli atti e i processi educativi. Con il conseguimento di obiettivi formativi, dalla valenza costitutiva per l’identità individuale, la persona potrà aprirsi alla vita per accettarne le sfide, in un impegno nel quale saranno profuse interamente le potenzialità in suo possesso, volte alla creazione di un nuovo stile d’essere che diviene espressione di un Io maturo, figlio di conoscenza e coscienza. L’educazione, da questo punto di vista, è sigillo di una intenzionalità orientata al conse-
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guimento di propositi e di finalità in grado di riscattare l’uomo contemporaneo, attraverso azioni didattiche che rispettano i bisogni e le domande personali, per rivelarne la sensibilità alle motivazioni e agli obiettivi individuali. Soltanto in questo modo potranno essere creati i presupposti per situazioni e interventi di concreta valorizzazione dell’uomo, del quale sarà protetta la dimensione soggettiva che si consolida e si irrobustisce con il profilo di esperienze nel quale si intrecciano vissuti e affetti che, con le loro energie colorate, come le descrive Pierre Lèvy 4, permettono di attribuire sfumature interessanti e singolari all’esistenza di ognuno. Casualità e improvvisazione non appartengono all’educazione, semmai ne rappresentano una pratica viziosa e distorta, poiché producono elementi negativi se l’obiettivo di interventi, atti e azioni formative sarà quello di promuovere e di incoraggiare invece esperienze di apprendimento continuo e sistematico. Saranno proprio queste possibilità di apprendimento ad offrire realmente alla persona spazi e momenti di crescita, indispensabili per la sua auto-realizzazione che prevede comunque il rispetto degli altri, con il senso di appartenenza e di condivisione. L’azione educativa non ignora né trascura le opportunità apprenditive che il contesto offre per garantire all’uomo “colto” (dunque sensibile nel percepire e nel coglierne il “senso”) la possibilità di creare nuovi modelli di pensiero, nella forza del nuovo e dell’inusuale, per la promozione di un pensiero divergente che dovrà essere educato e coltivato con cura affinché possa esprimersi integralmente nel suo vigore originario. Costruire significati, dare un senso agli eventi, ai fatti e alle situazioni affrontandone il carico di problematicità 5 che inevitabilmente si presenta, significa promuovere atti educativi, dei quali si acquista coscienza. La “consapevolezza delle ragioni dell’apprendere”, scrive Bruno Rossi 6, diviene in tal modo garanzia e vitale stimolo per un continuo apprendimento,
il quale farà della persona umana la responsabile di una crescita integrale, che si rivela nel momento in cui occorre prendere decisioni con quel coraggio che il fare responsabilmente delle scelte comporta. Ecco che l’atto educativo diviene testimonianza, segno comunicativo del quale, tuttavia, la medesima “segnicità non è mai così apparente quanto a prima vista possa sembrare, ma, celandosi dietro ad altri segni, si mostra ad una indagine non superficiale di questi ultimi che sappia andare oltre l’oggetto per accedere all’interpretante”. 7 C’è una volontà che si nasconde dietro un atto che potrebbe anche sembrare casuale tanto è spontaneo e naturale, ma nulla ha di casuale se tende a far cogliere significati, per dare senso e risposte ai bisogni umani. Segno, oggetto e interpretante, nello studio di Mario Gennari, costituiscono una triade di senso e valorizzano finalità educative importanti che esigono una comunicazione altrettanto forte nella sfera educativa. Consapevolezza del contenuto e delle implicite finalità, accoglienza, incontro e congruenza fra molteplici esperienze di apprendimento, conferiscono alla comunicazione il carattere educativo, traducendosi in un sollecito invito a ragionare sui problemi. Ne consegue che ambienti e contesti potranno dirsi educativi se in grado di produrre cambiamenti qualitativi personali, improntati di consapevolezza e di fiducia nelle possibilità di crescita e di espansione personale. Assicurare alla persona uno sviluppo pieno di sé, rispettoso della natura e della società in cui vive, diviene elemento di ricchezza umana, in un farsi-persona che assume la sua forma attraverso la riconfigurazione di saperi, padronanze e competenze. Conoscenze ed esperienze divengono, pertanto, gli strumenti per una serena crescita personale, in possesso di quelle abilità che permettono di acquisire e di affinare capacità di lettura di sé e del mondo, in una situazione esistenziale spesso difficile e poco chiara per i numerosi elementi problematici che la variegano nelle forme, nelle relazioni e in quei con-
testi che divengono spazi e mondi educativi se testimoni di una idea di razionalità forte, ben presente e radicata. Questa razionalità darà inoltre significatività ed incisività alle azioni intraprese, perché fermamente volute nel rispetto della dignità umana. Valorizzare le risorse culturali ed esperienziali di ogni soggetto, allora, diviene un compito educativo, all’insegna di quella responsabilità che avverte l’educatore quando interpreta i bisogni di cura e di amore dei suoi allievi. Nell’intervento educativo, difatti, c’è una cura, amorevole e paziente, che invita la persona alla libera espressione dei suoi pensieri, dei sentimenti, della volontà e di quei bisogni che attendono di trovare sostegno, accettazione e risposta incondizionata. É il caso di dire che l’educazione promette molto alla persona e non perché ignara delle difficoltà o in possesso di soluzioni immediate, piuttosto perché crede nelle possibilità dell’essere, confida in quelle forze segrete che rendono possibile il passaggio da uno stato potenziale di personabilità allo stadio più evoluto di persona umana. Ciò invita ad una politica complessiva di promozione delle risorse umane 8 , realmente sensibile ai bisogni di formazione e di cultura del soggetto, in un intreccio sorprendente fra saperi prodotti da quanto è nuovo con ciò che è consolidato, dall’incontro/confronto fra esperienze, dall’acquisizione di nuove competenze che rendono la persona colta, non perché sa molte cose ed è erudita, piuttosto è consapevole del suo posto e del ruolo che ha nel mondo che “abita”, dove vive attenta a soddisfare, conciliare e riconoscere esigenze di natura e di cultura. La persona formata, dunque sicura di sé e delle potenzialità individuali, non si tirerà indietro davanti alle sfide più impegnative del tempo, poiché sa di avere le forze necessarie per reagire e per non lasciarsi sopraffare dal nichilismo trionfante e dallo stato di malessere che questo inevitabilmente arreca. L’assunzione delle responsabilità che derivano dai suoi compiti di sviluppo, diverrà in questo modo un elemento di forza
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e di riscatto dalle miserie della quotidianità e dai torti della vita in un incontro che apre al dialogo fra mondi umani e personali, per creare contatti che divengono finestre aperte al mondo e all’esistenza. L’educazione, in ragione di ciò, richiede “un intelletto che si faccia ragione, prestando ascolto al sentimento di sé che abita nell’intimo” 9 ma che non si ripiega nella stretta interiorità, per affacciarsi piuttosto alla vita con rinnovata coscienza. Il sentimento del fondamento, aggiunge Mario Gennari, si intreccia con il fondamento del sentimento che trova proprio nell’educazione la sua dimora. L’educazione, allora, diviene forza che invita ad investire in umanità, con la scommessa in un umanismo che fa credere nella dinamicità, in un divenire che dà alla persona la possibilità di essere pienamente “ce qu’il devient” 10. Questo atto di coraggio che anima quanti credono nelle capacità trasformative dell’educazione, può divenire modalità di risposta alla crisi del nostro tempo, manifestata da una cultura che tende a sottolineare gli elementi di debolezza e di frammentarietà piuttosto che i tratti positivi. Difatti basti pensare ai termini più diffusi ed associati alla contemporaneità (individualismo, postmodernità, crisi, ecc.) per comprendere quanto siano nette ed evidenti le fratture ideologiche e culturali che fanno per così dire prendere le distanze dal “passato”, nei confronti del quale c’è posizione di distacco e, soprattutto, di rifiuto, al quale hanno molto probabilmente contribuito anche le filosofie della decostruzione. Tuttavia la realtà in cui si gioca la nostra vita, con i suoi naturali condizionamenti, rifiuti ed ostacoli, diviene espressione di una grave perdita di fiducia che per difesa si manifesta con un atteggiamento di chiusura e di distacco, talmente forte per il singolo al punto da condizionarne il suo mondo, nel quale poco è il posto e lo spazio riservato agli altri. Ma la “vecchiaia del mondo”, scrive Chantal Delsol, non ne pregiudica una possibile rinascita, da sostenere semmai con la riscoperta di progetti collettivi in grado di far recuperare la
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dimensione spirituale dell’essere, per leggere e individuare anche nella quotidianità e nella semplicità apparente delle piccole cose e dei fatti l’originario senso dell’esistenza. “La cultura occidentale rincorre, attraverso i miracoli biologici, un sogno impossibile di sovrumanità; essa vive nell’apparenza e nel mediatico in cui la persona si dissolve; essa accorda un’importanza sempre maggiore al corpo anziché all’anima, all’economia anziché agli ideali e alle credenze” 11. Sicuramente, in questo cambiamento che rappresenta comunque un aspetto del progresso, si assiste alla perdita della dignità umana, alla quale corrisponde nell’analisi della Delsol la diminuzione del primato dell’uomo sulla natura, responsabile di un “mondo mutilato”. L’immagine di un mondo mutilato rivela le “bruttezze” del progresso, con la superficialità e la dimenticanza dell’essere che hanno fatto sì che tutte le questioni più serie ed impegnative, al punto da pesare come piombo sulla nostra coscienza, siano delegate, sottese e non affrontate. La ragione di questa rinuncia all’impegno, dichiara ancora la filosofa francese, nasce da un senso di abbandono e di rassegnazione verso i sogni e le utopie, con annessa la loro carica di promesse di perfezionamento che rendono vano ogni tentativo di reazione, sminuendo di conseguenza il valore dell’impegno e la forza della testimonianza. Questi fattori, che connotano la cultura, le modalità di pensiero e gli atteggiamenti esistenziali odierni, sembrano trovare sostegno in una visione ciclica del tempo, caratterizzata dalla ri-proposizione di vecchi modelli, nei quali trova purtroppo collocazione la stessa idea di avvenire. Degradato a semplice e “scontato” futuro, l’avvenire ha perso la carica propositiva lasciando cadere nel vuoto volontà e intenzioni, che sono state perdute in questa modernità tardiva, non assolvendo più se solo in ristretta parte, ai loro compiti di perfezionamento e di sviluppo sociale. La riscoperta del senso della dimensione progettuale, capace di attingere alle risorse e alle
azioni individuali e collettive, in un esercizio responsabile e di coscienza per il singolo e la collettività, potrebbe rappresentare un ostacolo, o quanto meno un freno, alla tendenza nichilista, la quale si culla nella fluidità descritta da Bauman che diviene scusa per una comoda e vittimistica rassegnazione. Il recupero di progetti collettivi in grado di coinvolgere l’intera umanità, auspicato dalla Delsol, diviene possibilità di un ritrovato e rinnovato impegno, educativo prima di tutto, poiché capace di fornire quegli orientamenti di senso che permetteranno di uscire dall’eclisse dei fini, con “la scoperta di un centro di significato, del significato di ogni significato, attorno a cui costruire il senso della vita e partendo dal quale sia consentito sviluppare una nuova interpretazione della realtà” 12. Nello scenario globale, dove diverse realtà sociali, politiche e culturali sono legate da un destino di interdipendenza planetaria, a dispetto di un malnutrito senso di co-appartenenza e di corresponsabilità, si impongono nuovi modelli educativi, in riflesso del dinamismo e della mobilità della cultura e dei saperi che producono cornici di conoscenza globale, multidimensionale e sempre più complessa. Si tratta di una complessità che condiziona l’educazione e, dunque, pure la pedagogia che avverte la propria istanza critica, nonché la sua attitudine a problematizzare per dare risposte che ne evidenziano il profilo metariflessivo sull’educazione e la spontanea tendenza ermeneutica. L’educazione accoglie le sue sfide quando promuove un pensiero aperto, non unilaterale né tanto meno settoriale e dunque ristretto ad uno specifico ambito disciplinare. Anche gli
obiettivi educativi si appropriano della lettura (categoria) iper-complessa della realtà, per un esercizio cognitivo continuo che promuove perfino la crescita del tessuto neurale, assicura Goldberg 13 e che permette di vivere senza smarrimento e perdita di coscienza il nomadismo di cui hanno parlato Deleuze, Guattarì e Lévy, che in modo differente nei tempi e nello spazio richiede incontro e confronto fra mondi e culture. La metafora del nomadismo che investe il pensiero e la cultura per la simultaneità, la distribuzione frantumata del sapere (dispersione nella rete) e il generale senso di sradicamento percepito dall’uomo, rappresenta un chiaro modo per esigere la messa in discussione di certezze e conoscenze consolidate che, tuttavia, formano una matrice cognitiva culturale importante per la persona, altrimenti naufraga alla deriva in un incontenibile “oceano informazionale” 14. Quello che nella cultura filosofica del nostro tempo viene definito nomadismo, in realtà è possibile per natura sostengono i neurologi; la plasticità e la modularità cerebrale, tramite le funzioni sinaptiche e la loro continua ricostruzione, lo consentono: le uniche resistenze, allora, sono di carattere culturale, legate al pregiudizio e all’ignoranza. Il contributo che oggi le neuroscienze offrono alla pedagogia 15 e alla didattica per una conoscenza comprensiva dell’uomo, divengono elementi non trascurabili e neppure contrastanti con le radicate convinzioni delle scienze dell’uomo ed in particolare con quelle che si occupano della sua educazione, anzi in questa direzione dobbiamo riconoscere che hanno sempre riposto fiducia e speranza. In-
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fatti la crescita e il cambiamento personale, di cui le scienze dell’educazione si sono fatte interpreti, rappresentano il presupposto per un processo educativo che dura per tutta la vita e che si compie come un prodigio nei tempi e negli spazi. Così se l’uomo può apprendere per tutta la vita (lifelong education, lifelonglearning) in ragione dei processi di attivazione e di mutamento delle cellule nervose e delle sinapsi, significa che l’educazione permanente dovrà rinnovare e rafforzare il suo impegno, in vista di un educare ad essere che non nasce soltanto dalla fiducia nei confronti delle potenzialità umane, ma dal riconoscimento scientifico di tali possibilità. Plasticità cerebrale e umanità, dichiarano i neuroscienziati, costituiscono i cardini della storia dell’umanità, in un percorso da costruire ogni giorno con il contributo di tutti, giovani e anziani, in vista del recupero di quella idea di avvenire che non merita di scomparire, perché sminuita a semplice futuro. Intelligenze intese alla maniera gaardneriana, ovvero come modalità d’essere, di agire e di operare nel mondo, competenze di vita e di apprendimento (life skill) permetteranno alla persona una possibile lettura critica della realtà, per darne una interpretazione intenzionale che nasce da un apprendimento continuo, consapevole 16 perché garante di un processo di auto-direzione non passivo alle attese di cambiamento, né alle numerose sollecitazioni e agli stimoli che offre. Del resto, avverte John Dewey, la stessa vita è un percorso di auto-rinnovamento e quello che “la nutrizione e la riproduzione sono per la vita fisiologica, l’educazione lo è per la vita sociale” 17. Le parole di Dewey, dal tono profetico, sottolineano lo stretto legame fra vita, educazione e società, nella convinzione, condivisa dai più, che “vivendo, agendo, pensando noi tessiamo la trama della vita degli altri” 18, in uno scambio continuo di emozioni, fatti, azioni, pensieri e volontà che segnano il mondo umano in una configurazione dinamica, quasi fosse “un immenso ipertesto in costante metamorfosi, attraversato
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da tensioni” 19 e spinte attraverso le quali vivere l’esperienza della differenza, con un potenziamento di responsabilità etica per tutti, educatori e non 20. Proprio ciò assicura il farsi personalità della persona, nella capacità di trovare e di attribuire una direzione di senso non solo alle conoscenze e all’apprendimento, ma alla vita stessa e ai suoi “mondi possibili” 21. Note: 1. Cfr. D. Demetrio, Micropedagogia. La ricerca qualitativa in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1999, p. 13. 2. ivi, p.14. 3. Cfr. N. Paparella (a cura di), Il progetto educativo. Prospettive, contesti, significati, Vol. I, Roma, Armando, 2009, p. 203. 4. Cfr. P. Lèvy, Il virtuale, Milano, Raffaello Cortina, 1997, p. 102. 5. Cfr. B. Rossi, Intelligenze per educare, Milano, Guerini Scientifica, 2005, p. 173. 6. B. Rossi, L’organizzazione educativa. La formazione nei luoghi di lavoro, Roma, Carocci, 2011, p. 165. 7. M. Gennari, Pedagogia e semiotica, Brescia, La Scuola, 1998, p. 76. 8. F. Fraccaroli, Apprendimento e formazione nelle organizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 189. 9. M. Gennari, Filosofia della formazione dell’uomo, Milano, Bompiani, 2001, p. 23. 10. A. Clausse, La mia pedagogia, Padova, Liviana editrice, 1972, p. 132. 11.C. Delsol, Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva, Macerata Liberilibri, 2008, p. 16. 12. L. Colaiacovo, M. De Santis, A. Rosati, Sull’educazione, Roma, Anicia, 2007. 13. Cfr. E. Goldberg, La sinfonia del cervello, Milano, Ponte alle Grazie, 2010. 14. P. Lèvy, Il virtuale,cit., p. 107. 15. Cfr. A. Rosati, Nuove frontiere della pedagogia. Educazione e neuroscienze, Roma, Anicia, 2011. 16. Cfr. A. Rosati, C. Morozzi, M. Pattoia, Pedagogia, didattica e apprendimento consapevole, Roma, Aracne, 2010. 17. John Dewey, Democrazia e educazione, tr.it., Firenze, La Nuova Italia, 1963, p. 11. 18. P. Lévy, Il virtuale, op. cit., p. 101.
19. Ivi, p. 99. 20. Cfr. G. Acone, L’ultima frontiera dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1986, pp. 128-131. 21. Intesi come possibilità, occasioni, luoghi, tempi e contesti di apprendimento e, dunque, di educazione. Riferimenti Bibliografici: ACONE G., L’ultima frontiera dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1986; ACONE G., Fondamenti di pedagogia generale, Salerno, Edisud, 2001; BAUMAN Z., Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, Roma-Bari, Laterza, 2007; CAMBI F., Le pedagogie del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2008; CLAUSSE A., La mia pedagogia, Padova, Liviana editrice, 1972; COLAIACOVO L., DE SANTIS M., ROSATI A., Sull’educazione, Roma, Anicia, 2007; DEMETRIO D., Micropedagogia. La ricerca qualitativa in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1999; DELSOL C., Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva, Macerata, Liberilibri, 2008; DEWEY J., Democrazia e educazione, tr.it., Firenze, La Nuova Italia, 1963; FRACCAROLI F., Apprendimento e formazione nelle organizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2007; GARDNER H., Cinque chiavi per il futuro, Milano, Feltrinelli, 2007; GENNARI M., Filosofia della formazione dell’uomo, Milano, Bompiani, 2001; GENNARI M., Pedagogia e semiotica, Brescia, La Scuola, 1998; GOLDBERG E., La sinfonia del cervello, Milano, Ponte alle Grazie, 2010; LÈVY P., Il virtuale, Milano, Raffaello Cortina, 1997; PAPARELLA N. (a cura di), Il progetto educativo. Prospettive, contesti, significati, Vol. I, Roma, Armando, 2009; ROSATI A., Nuove frontiere della pedagogia. Educazione e neuroscienze, Roma, Anicia, 2011; ROSATI A., MOROZZI C., PATTOIA M., Pedagogia, didattica e apprendimento consapevole, Roma, Roma 2010; ROSSI B., Intelligenze per educare, Milano, Guerini Scientifica, 2005; ROSSI B., L’organizzazione educativa. La formazione nei luoghi di lavoro, Roma, Carocci, 2011.
“Un’utopia necessaria”
di Maria Gioia Pierotti Di fronte alle molte sfide che ci riserva il futuro, l’educazione si mostra come un mezzo prezioso e indispensabile, promotrice degli ideali di pace, libertà e giustizia sociale, per il ruolo fondamentale della stessa nello sviluppo personale e sociale. Non da intendersi come un rimedio miracoloso o una formula magica che possa aprire la porta verso un mondo in cui tutti gli ideali diventeranno realtà, ma come uno dei mezzi principali a disposizione dell’uomo per promuovere una forma più profonda e armoniosa dello sviluppo umano, e quindi per ridurre la povertà, l’esclusione, l’ignoranza, l’oppressione e la guerra. Il pensiero è rivolto ai bambini e ai giovani che succederanno all’attuale generazione di adulti, troppo spesso inclini a concentrarsi sui loro problemi. L’educazione è anche un’espressione di amore per i bambini e i giovani, che dobbiamo saper accogliere nella società, offrendo loro, senza alcuna riserva, il posto che appartiene loro di diritto: un posto nel sistema educativo ovviamente, ma anche nella famiglia, nella comunità locale, e nella nazione 1. Del resto, l’educazione è la sola chance che può essere offerta ai milioni di bambini distribuiti in tutto il mondo. Si avverte il bisogno di un’educazione che sia diffusa in ogni ambito e luogo. Parlare di educazione, significa intenderla come un intervento deliberato e intenzionale, volto a promuovere il globale svi-
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luppo della persona, incrementando le sue potenzialità e risorse, rendendola consapevole e autrice del proprio progetto di vita, attraverso l’appropriazione di quell’universo simbolico significante che è la cultura 2. Il fenomeno educativo assume così una duplice valenza: nutrire il soggetto di cultura e portare fuori, liberare il potenziale umano comunque, mai totalmente espresso. La sua finalità è quindi di assicurare ad ogni persona le condizioni per esprimere se stessa, per liberare le potenzialità di cui dispone. Ecco perché le scienze dell’educazione chiamano in causa la psicologia, la sociologia, la filosofia, le neuroscienze, ergo, tutte le discipline che si interessano dello studio dell’uomo, in quanto persona esaltandone la natura, veicolano e accreditano di volta in volta i bisogni profondi che emergono sia se la persona è indagata nella sua singolarità, sia nei contesti sociali e comunitari. L’educazione, oggi forse, è necessaria più che mai, visto che la nostra contemporaneità appare permeata da troppa leggerezza e decadimento valoriale. “Gli uomini oggi tendono ad inseguire disvalori, piuttosto che valori, si veda la scelta di apparire, piuttosto che essere” 3. Questo elementare dovere va sempre tenuto presente, in modo tale da prestargli maggiore attenzione, anche quando si tratta di effettuare scelte tra priorità politiche, economiche e finanziarie. Visto che, “Il Bambino è padre dell’Uomo”. Per guardare con coraggio al futuro, è necessario che quanti provano un senso di responsabilità rivolgano la loro attenzione sia alle finalità che agli strumenti dell’educazione. Appare evidente che l’educazione sia, non solo un processo continuo di miglioramento delle conoscenze e delle abilità, ma anche e forse soprattutto, un mezzo straordinario per produrre lo sviluppo personale e per costruire rapporti tra uomini, gruppi e nazioni. L’educazione si colloca infatti, al centro dello sviluppo sia della persona che della comunità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di noi, senza eccezioni, di sviluppare pienamente i nostri propri talenti e di realizzare le nostre po-
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tenzialità creative, compresa la responsabilità per la nostra propria vita e il conseguimento dei nostri fini personali. L’umanità, in questa fase storica, appare esitante tra il proseguire lungo la stessa strada e la rassegnazione: offriamole un’altra strada. Tutti i motivi quindi spingono a insistere nuovamente sulle dimensioni morali e culturali dell’educazione, che consentano a ciascuna persona di comprendere l’individualità degli altri e a capire l’ineguale progredire del mondo verso una certa unità; ma un tale processo deve iniziare dalla comprensione di se stessi attraverso un viaggio interiore che ha le sue pietre miliari nella
conoscenza, nella riflessione e nella pratica dell’autocritica. Questo messaggio deve guidare tutto il pensiero sull’educazione, in connessione con la creazione di forme più ampie e più estese di una globale collaborazione. E’ necessario avanzare verso il concetto di “società educante”, considerato che, la verità è che ogni aspetto della vita, a livello sia individuale che sociale, offre opportunità di apprendimento e azione. Si è davvero tentati allora, di privilegiare eccessivamente questo lato del problema, sottolineando il potenziale educativo dei mass-media moderni, delle attività lavorative o anche di quelle culturali e
del tempo libero, fino a trascurare certe verità fondamentali: anche se la persona umana ha bisogno di valorizzare ogni opportunità per apprendere e per migliorarsi, non sarà in grado di fare buon uso di tutte queste potenziali risorse se non avrà ricevuto una solida educazione di base. Meglio ancora, la scuola dovrebbe instillare sia il desiderio che il piacere dell’apprendimento, la capacità di imparare ad imparare, la curiosità intellettuale. Si potrebbe auspicare una società in cui ogni persona sia alternativamente insegnante e discente. Perché questo possa accadere, niente può sostituire il sistema educativo formale, dove ciascuna persona viene introdotta nelle molte forme del sapere. Niente può sostituire il rapporto docente-discente, una relazione che è rafforzata dall’autorità e si sviluppa attraverso il dialogo. Ciò è stato ripetutamente dimostrato dai grandi pensatori classici che si sono dedicati al problema dell’educazione. Appartiene alla responsabilità dell’insegnante impartire all’alunno le conoscenze acquisite dall’umanità su se stessa, sulla natura e su tutto ciò che d’importante essa ha creato e inventato 4. Come affermato da Steiner, il mestiere dell’insegnante è difficile più di quanto si possa pensare. Non è infrequente il caso in cui i maestri hanno distrutto i propri discepoli: ne hanno spento gli spiriti, consumato le speranze, sfruttando la loro indipendenza e la loro individualità. Né meno incoraggiante è l’affermazione di Rossi Doria, il quale afferma che educare è un mestiere dannatamente serio, che ha molto seriamente a che fare con chi siamo: perché si tratta propriamente di incontro, e la qualità dell’incontro tra chi educa e chi è educato, è biunivoca 5. Il bisogno di fissare il rapporto empatico, per dirla con Rogers, tra docente e discente, capace di accrescere e ottimizzare il procedimento educativo di costruzione della conoscenza, dove l’insegnante si ponga sempre come un interlocutore aperto e disponibile, rappresenta un’esigenza imprescindibile. La chiave di ingresso nel XXI secolo è
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rappresentata dal concetto di apprendimento per tutta la vita. Tale concetto supera la distinzione tradizionale tra educazione iniziale e permanente. Esso risponde alle sfide poste da un mondo in rapido cambiamento. Una simile constatazione non è nuova, dato che anche precedenti rapporti sull’educazione hanno messo in risalto la necessità che la persona torni ad istruirsi per poter affrontare nuove situazioni che emergono nella sua vita personale e lavorativa. Questa necessità viene ancora sentita, ed anzi sta rendendosi anche più forte. L’unico modo per soddisfarla, è per ogni persona, imparare ad imparare 6. Questa espressione segnala un processo che non ha mai fine, che continua anche oltre la scuola, per tutta la vita; rendendo concreta la possibilità di una educazione permanente verso la quale guardano tutti gli Stati Europei, per assicurare ai cittadini condizioni di vita e di lavoro appaganti e salutari, e costruire un’autentica “civiltà dell’amore”. E’ davvero necessario sottolineare l’urgenza di un tale problema? Quali sono le paure del nostro tempo? Che cosa significa temere oggi? Da dove nasce il clima di inquietudine, ansia e insicurezza che spesso pervade le nostre giornate? Stress, consumismo ossessivo, paura sociale e individuale, città alienanti, legami fragili e mutevoli: il mondo in cui viviamo sfoggia una fisionomia sempre più effimera e incerta. Bauman paragona la nostra società al liquido perché, secondo il noto autore, una società può essere definita liquido-moderna se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. La vita liquida, come la società liquida, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo. Sospinta dall’orrore della scadenza, la società liquida deve modernizzarsi o soccombere. E chi la abita deve correre con tutte le proprie forze per restare nella stessa posizione 7. L’educazione assume quindi una valenza che diviene elemento cardine dell’essere umano, un porto verso cui
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approdare in ogni istante della propria vita, perché in quanto persone detentrici di valori unici ed autentici che esaltano la nostra stessa individualità. L’uomo come rivelazione incessante di cuore e ragione, richiede e necessita, di un’opera di umanizzazione che possa avere la funzione di un autentico risveglio umano. La meta dell’educazione è quella di guidare l’uomo nello sviluppo dinamico durante il quale egli si forma in quanto, persona umana, provvista delle armi della conoscenza, della forza del giudizio, e delle virtù morali mentre, nello stesso tempo, giunge l’eredità spirituale della nazione e della civiltà alle quali egli appartiene, e il secolare patrimonio delle generazioni che così può essere conservato. Sarà necessario per avere un’idea più completa dello scopo dell’educazione, considerare più da vicino la persona umana e le sue profonde aspirazioni naturali. Le principali aspirazioni della persona sono per la libertà, non intendendo quella libertà che s’identifica con il libero arbitrio e che è dono di natura di ciascuno di noi: ma quella che è spontaneità, espansione, o autonomia, e che noi dobbiamo conquistare attraverso uno sforzo costante ed una lotta continua. E qual è la forma più essenziale, di quest’aspirazione? Il desiderio della libertà interiore e spirituale. In questo senso la filosofia greca, particolarmente quella aristotelica, vedeva nell’indipendenza che l’uomo acquista mediante l’intelligenza e la sapienza, la perfezione dell’essere umano. E il Vangelo doveva innalzare l’umana perfezione a un livello superiore, un livello veramente divino, con l’affermazione che essa consiste nella perfezione dell’amore, e come dice S. Paolo, nella libertà di coloro che sono mossi dallo Spirito divino. In ogni caso, è per mezzo delle attività che i filosofi chiamano “immanenti”, perché esse hanno il loro termine nel soggetto stesso che le esercita per perfezionarlo e perché sono dentro di lui delle supreme attività di interiore perfezionamento e traboccante pienezza, che viene conquistata la piena libertà
d’indipendenza. Così il primo fine dell’educazione è la conquista della interiore e spirituale libertà, che la persona individuale deve compiere, o in altre parole, la liberazione di quest’ultima mediante la conoscenza e la sapienza, la buona volontà e l’amore 8. Il sociologo Bauman, si pone la fondamentale domanda: “Qual è il ruolo dell’educazione in un tempo che ha smarrito una chiara visione del futuro e in cui l’idea dei un modello unico e condiviso di umanità sembra essere il residuo di un’era ormai conclusa? Quale ruolo dovrebbero assumere gli educatori ora che le nuove generazioni vivono una profonda incertezza rispetto al loro futuro, i progetti a lungo termine sono diventati più difficili, le norme tradizionali sono meno autorevoli e flussi sempre più cospicui di persone hanno creato comunità variegate in cui culture differenti si ritrovano a vivere fianco a fianco senza più essere unite dalla convinzione che l’altro verrà prima o poi assimilato alla “nostra” cultura?” Posti di fronte allo sconcertanti caratteristiche del nostro mondo liquido moderno, molti giovani tendono a ritirarsi in alcuni casi nella rete, in giochi e relazioni virtuali, in altri casi più pericolosi nell’anoressia, nella depressione, nell’abuso di alcol o droghe nella speranza di proteggersi così da un universo oscuro e vorticoso. Altri si lanciano in forme di comportamento più violento come le guerre tra bande o i saccheggi perpetrati da chi si sente escluso dai templi del consumo ma è avido di partecipare alla funzione 9. Ed è qui, che assaporo l’importanza e il valore del messaggio di speranza del Professor Rosati: “C’è insomma la possibilità di azzerare ogni tristezza e recuperare il meglio che sia stato prodotto? Certo che c’è, ma ha un sapore inafferrabile, che si muove tra un mondo di valori e il regno della metafisica. Erik Erikson, lo propone nella sua gamma di valori da recuperare, sta nel cuore di ognuno di noi, e ha soltanto il bisogno di essere liberato dai lacci del convenientismo e dell’ignoranza: è la speranza, che viene nu-
trita nelle persone sin dall’infanzia. La speranza non muore: piuttosto si rafforza davanti alle contraddizioni del nostro tempo, e aiuta a guardare oltre l’orizzonte dell’immediato per costruire, oltre la siepe un mondo migliore. E se la storia si ripete, pur davanti a delle difficoltà, potremmo parlare di un nuovo rinascimento, che non chiude un capitolo, ma dovrebbe tentare di aprirne un altro” 10. Note: 1. Cfr. Delors J., Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando Editore, p.11, 2005. 2. Cfr. Rosati L., La Fine di un’illusione, Perugia, Morlacchi, p.17, 2008. 3. Cfr. Rosati L., Dentro l’anima della professione docente, Perugia, Morlacchi, 2005. 4. Cfr. Delors J., Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando Editore, 2005. 5. Cfr. Rosati L., Ripartire da zero, Perugina, Morlacchi, 2006. 6. Cfr. Delors J., Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando Editore, 2005. 7. Cfr. Bauman Z., Vita liquida, Bari, Laterza, 2008 8. Cfr. Cambi F., Manuale di filosofia dell’educazione, Roma-Bari, Laterza, 2000. 9. Cfr. Bauman Z., Conversazioni sull’educazione, Trento, Erikson, 2012. 10. Cfr. Rosati L., La Fine di un’illusione, Perugia, Morlacchi, 2008. Riferimenti Bibliografici: BAUMAN Z., Conversazioni sull’educazione, Trento, Erikson, 2012; BAUMAN Z., Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2008; CAMBI F., Manuale di filosofia dell’educazione, Roma-Bari, Laterza, 2000; DELORS J., Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando Editore, 2005; ROSATI L., Dentro l’anima della professione docente, Perugia, Morlacchi, 2005; ROSATIi L., La Fine di un’illusione, Perugia, Morlacchi, 2008; ROSATI L., Ripartire da zero, Perugia, Morlacchi, 2006.
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Il discorso efficace: la metafora del volo
di Massimiliano Cavallo Comunicare è sedurre. Questo è quanto abbiamo scritto su queste pagine qualche numero fa. Abbiamo anche detto che per sedurre il nostro pubblico occorre una gestione efficace del linguaggio verbale, non verbale e paraverbale. A proposito di linguaggio verbale analizziamo le fasi di un discorso efficace. Per farlo ci aiuteremo con la metafora del volo dell’aereo. Il volo, come sappiamo, presenta infatti le maggiori insidie nella fase di decollo e di atterraggio, come noto quelle che statisticamente sono le fasi in cui si registrano più incidenti. Allo stesso modo, nel nostro discorso, la parte iniziale e quella finale sono quelle su cui dobbiamo concentrarci di più, vediamo perché. Uno studio della Harvard University porta alla conclusione che, nei primi 30 secondi di un incontro, si forma in maniera intuitiva la maggior parte dell’impressione che poi troverà una convalida in seguito. Per questo il nostro discorso deve puntare ad attirare l’attenzione, creare empatia col pubblico e suscitare da subito una prima impressione positiva. Vanno insomma evitate tutte le formule scontate con le quali si aprono la maggior parte degli interventi pubblici che ascoltiamo, soprattutto se provenienti dai politici. Possiamo pertanto iniziare il nostro discorso con una citazione che possa toccare le corde dell’emozionalità, una poesia,
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una storia che possa essere in relazione con il tema da trattare, o con un aneddoto personale. Possiamo inoltre iniziare con una sorpresa o in modo inusuale, mostrando qualcosa, o con un sommario delle cose che diremo. Durante il volo dobbiamo tenere alta l’attenzione che ci siamo conquistati all’inizio del nostro discorso. Possiamo farlo innanzitutto variando tono, ritmo e pause del nostro intervento. Per quanto riguarda i nostri contenuti sosteniamo la nostra tesi con citazioni, numeri, dati, grafici, quanto più elementari possibili e fondati su analogie, parlando per immagini. Il finale del nostro discorso deve rimanere impresso nel nostro uditorio. Quante volte ci è capitato di vedere un bel film il cui finale non ci soddisfa e ci fa uscire dal cinema con l’amaro in bocca? E quante volte un oratore conclude senza enfasi il suo discorso? Ecco, il nostro discorso deve essere un film con un finale memorabile. Perché se all’inizio prendiamo il pubblico da dove si trova, con il nostro finale abbiamo l’opportunità di condurlo dove vogliamo che arrivi. L’atterraggio, inoltre, è con il decollo la parte più importante del discorso e la più ricordata. Dobbiamo innanzitutto utilizzare il potere della vocalità per dare enfasi al finale. Per quanto riguarda le modalità possiamo usare le stesse tecniche utilizzate per il decollo, quali una citazione, un racconto, etc. E’ così che ci potrà capitare di dire al nostro pubblico, come fece Tony Blair, “alziamoci in piedi e raccogliamo la sfida”, e vedere i partecipanti alzarsi in piedi per applaudirci.
Ricerca e formazione nella scuola. Parte terza. Saper osservare
di Savina Cellamare Premessa Osservare è un’attività che accompagna costantemente la vita di ciascuno. Continuamente osserviamo persone, oggetti, azioni, fatti, ne seguiamo gli sviluppi e i movimenti per tempi più o meno lunghi, a seconda della rilevanza che hanno per noi e dei significati che assumono nella nostra vita. Quel “guardarci intorno” che è parte integrante della nostra quotidianità diventa però una competenza professionale fondamentale per gli insegnanti. Nella pratica didattica, come nella ricerca educativa, saper osservare è condizione essenziale per raccogliere informazioni utili alla comprensione della situazione in cui si opera, delle caratteristiche dei soggetti con i quali si interagisce, dei contesti in cui si è immersi, al fine di prendere decisioni appropriate a produrre un miglioramento dell’esistente. Un processo decisionale, come quello che sottende una progettazione didattica, non può infatti attivarsi senza avere previamente reperito dati significativi, validi e attendibili. È per questo che l’insegnante, pur potendo afferire a diverse fonti informative (famiglia, colleghi, allievi stessi o altro) non può prescindere dal possesso di quella competenza osservativa che gli consente di rilevare ogget-
tivamente il dato pedagogico, quello cioè che si manifesta nella situazione di insegnamentoapprendimento, una peculiarità che gli appartiene e caratterizza il suo ruolo. Cosa si intende per osservazione Il processo osservativo va oltre la scelta dell’utilizzazione di strumenti di indagine e la semplice constatazione dei fatti, ma pone le basi per orientare le decisioni didattiche più congeniali a ipotesi di miglioramento, sia per quanto riguarda l’apprendimento degli allievi nei diversi domini di competenza (motorio, cognitivo, affettivo, relazionale) sia per quel che concerne l’azione didattica. È quindi un processo intenzionale di rilevazione dati, attraverso l’utilizzo di metodi e strumenti con i quali raccogliere informazioni sui comportamenti, osservabili direttamente o ricavabili per inferenza, emessi dalle persone in un determinato contesto, come ad esempio la scuola. L’oggetto dell’osservazione, ovvero i comportamenti, caratterizzano questo metodo di raccolta dati rispetto agli altri ricordati in premessa. Come ogni altro metodo di rilevazione, anche l’osservazione presenta vantaggi e limiti. Certamente consente all’osservatore di: • avere informazioni dirette circa i comportamenti del soggetto osservato, al di là delle affermazioni e delle motivazioni che questi esprime sulle sue condotte; • approcciare la situazione osservata in modo globale, così da poter cogliere molteplici aspetti delle persone coinvolte nella situazione oggetto d’interesse; • organizzare la rilevazione di informazioni in modo longitudinale, così da seguire l’evoluzione dei soggetti per un periodo di tempo anche lungo e raccogliere una notevole quantità di dati; • rilevare i comportamenti in situazioni naturali. Le caratteristiche elencate negli ultimi due punti, tuttavia, possono costituire anche due
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limiti. L’organizzazione e la sistematizzazione di grandi quantità di elementi informativi, spesso molto eterogenei, può infatti richiedere un lavoro oneroso di codificazione e classificazione delle informazioni, o anche una loro organizzazione in griglie strutturate, con il rischio di ridurne la ricchezza e il valore informativo. La rilevazione in situazione naturale richiede una buona preparazione dell’osservatore e la definizione chiara dei fattori da rilevare. I contesti naturali sono spesso molto complessi e ciò può rendere difficoltoso per l’osservatore il controllo dei fattori intervenienti. In pratica si corre il rischio di rimanere allo stadio dell’osservazione occasionale, che è spesso il momento in cui si coglie il problema o comunque la situazione su cui ci si concentrerà in seguito; l’interpretazione intuitiva dei fatti che caratterizza questa fase deve evolvere verso un’analisi obiettiva degli stessi, in modo da permettere un intervento sempre più focalizzato sulla situazione. È evidente che essere un buon osservatore non è affatto facile. Oltre alle ragioni appena elencate all’insegnante ricercatore sono poste molteplici richieste, che sollecitano la sua capacità di: • misurare la propria preparazione in relazione a quella dei colleghi; • accrescere la propria esperienza nel continuo scambio intersoggettivo; • raccogliere, annotare, controllare e poi confrontare il proprio lavoro con quello degli altri. L’osservazione in generale è uno strumento potente per cogliere ciò che si presenta con le caratteristiche di nuovo o di sconosciuto; a scuola rappresenta senz’altro una modalità preziosa per individuare i deficit reali e le abilità presenti in ogni alunno, al fine di allestire percorsi didattici individualizzati e personalizzati, in risposta ai bisogni educativo-formativi e didattici di ciascuno. I vari metodi e le differenti tecniche osser-
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vative, come anche qualsiasi azione pedagogica, non sono né buoni né cattivi di per sé e in assoluto. La loro connotazione positiva o negativa, infatti, è data essenzialmente dalla loro coerenza con gli obiettivi stabiliti e con il progetto di intervento organicamente strutturato (cfr. Olmetti Peja, 1997; Viganò, 2002; Cellini, 2008). È opportuno esplicitare che il ricorso alla metodologia osservativa – a volte intensa in senso semplicistico perché ricondotta al più quotidiano guardare, pure importante per prendere contatto con una realtà, una situazione o un contesto - può implicare il confronto con numerosi problemi metodologici, la cui soluzione richiede competenza e flessibilità conoscitiva. L’insegnante che adotta il metodo osservativo è chiamato infatti a: • assumere un atteggiamento aperto nei confronti dei diversi riferimenti teorici o verso gli strumenti osservativi, senza operare discriminazioni aprioristiche; • osservare le situazioni, gli eventi, le persone e le cose con sistematicità, scientificità e con ricchezza di particolari, evitando un’eccessiva semplificazione oppure la sommarietà nell’investigare la realtà oggetto d’interesse; • indirizzare questi criteri metodologici anche verso se stesso e verso la propria pratica professionale. L’osservazione diviene quindi una strategia professionale fondamentale per conoscere le competenze e le abilità di cui dispone l’allievo, i suoi comportamenti e le sue modalità di rapportarsi ai processi di insegnamento-apprendimento in cui è coinvolto in termini cognitivi, emotivo-affettivi e socio-relazionali. Del resto è noto che scelte didattiche adeguate e flessibili si fondano su un organico disegno progettuale; anche per questa ragione la procedura osservativa si rivela un elemento essenziale per un’analisi funzionale alle decisioni d’intervento più appropriate ai singoli soggetti e al contesto, nonché alla verifica
della validità dell’azione educativa per tutto il percorso formativo. È perciò di fondamentale importanza che la formazione, sia iniziale, sia in servizio, degli insegnanti riservi spazi adeguati per l’acquisizione e l’affinamento della capacità di utilizzare correttamente i metodi osservativi e di gestire adeguatamente le informazioni, per migliorare l’efficacia della loro azione didattica e rispondere efficacemente alla mission propria dell’istituzione scuola. Le caratteristiche dell’osservazione sistematica Il processo osservativo è mediato a più livelli: percettivo, psicologico, metodologico/strumentale. Il livello percettivo è filtrato dalle caratteristiche del sistema sensoriale, mentre il livello psicologico è dato dalla persona che osserva in base alle precomprensioni, ai preconcetti, ai punti di vista e alle competenze sviluppate. Il livello metodologico/strumentale, invece, fa riferimento a due elementi, ovvero: • il sistema procedurale usato per effettuare l’osservazione o per registrare i dati; • la scelta di determinate categorie concettuali utili per classificare i fatti, per denominarli mediante una definizione che può derivare da un linguaggio comune oppure da uno culturale. I diversi livelli di osservazione si differenziano in rapporto alla ragione per cui si osserva; il proposito dell’osservazione, infatti, determina che cosa deve essere fatto, in che modo e che cosa deve essere ottenuto. In altri termini, si può dire che l’osservazione aiuta gli insegnati a risponde a tre domande essenziali, ovvero: • cosa dovrebbero apprendere gli alunni con i quali si opera; • qual è il punto di partenza migliore, ovvero qual è la prima abilità sulla quale intervenire;
• qual è il modo migliore per insegnare a quegli alunni ciò che si intende far apprendere. Con l’osservazione preliminare e generalizzata - primo momento del processo osservativo - gli insegnanti si immergono nel quotidiano, prendono contatto e interpretano particolari episodi, interazioni, comportamenti che catturano momentaneamente la loro attenzione senza tuttavia sollecitare particolari interrogativi. Sono input che riaffiorano nel momento in cui sono nuovamente colpiti da eventi ricchi di significato relativi alle precedenti esperienze che si ripresentano; la loro ricorsività ne fa lo sfondo su cui si articolano e si formulano i primi interrogativi. Questi quesiti spingono a focalizzare e a circoscrivere l’oggetto d’interesse, rispetto al quale si delineano le azioni successive, identificabili nella pianificazione e nell’organizzazione dell’osservazione sistematica. La procedura seguita dagli insegnanti ha varie implicazioni e comporta: • la formulazione delle ipotesi guida che si vogliono verificare; • la determinazione dell’oggetto dell’osservazione (chi o cosa), cioè quali conoscenze, • comportamenti, eventi porre al centro dell’attenzione; • la scelta del modo con cui si ritiene di operare, soffermandosi sui tempi, sui modi e sui luoghi per realizzare tale disegno; • la scelta e la predisposizione degli stru-
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menti più idonei che faranno da supporto alla registrazione e alla codifica dei dati preventivamente stabiliti. L’attenzione su fatti specifici determina i criteri di selezione per l’identificazione dell’oggetto, utili per incrementare la validità della osservazione. È importante che gli insegnanti che partecipano la processo osservativo acquisiscano progressivamente consapevolezza delle modalità con le quali è possibile rapportarsi agli eventi osservati, ovvero: descrivere dettagliatamente un fenomeno, utilizzare un’inferenza, produrre un’ipotesi sulle cause di un dato. Tutti questi passaggi hanno una loro collocazione precisa dal punto di vista procedurale, in quanto seguono un ordine formale e logico. Quando, per esempio, si procede descrivendo la realtà oggetto di interesse, i dati raccolti sono comunemente espressi in termini di fatti visti. Se invece si producono delle inferenze rispetto all’evento analizzato, allora i fatti sono espressi sotto forma di interpretazioni logiche ai fatti sottoposti a vaglio critico. Infine, nel momento in cui si formulano ipotesi sull’evento, le affermazioni sono dedotte in rapporto a spiegazioni teoriche, che classificano tutte le risposte di quel tipo e non altre. La realtà, perciò, può essere affrontata e osservata utilizzando modalità opportunamente predisposte, individuate e adottate a seguito del confronto con i dati di ricerca reperibili in letteratura. Un aspetto rilevante del metodo osservativo riguarda il fatto che, oltre a consentire una procedura per gradi nelle metodologie e nell’articolazione delle fasi, richiede una condivisione con gli altri docenti dei linguaggi, dei metodi e degli strumenti scelti. In particolare, gli aspetti meritevoli di attenzione possono essere discussi insieme e problematizzati a vari livelli. In questo modo i dati e le informazioni possono diventare un patrimonio comune, che guida non solo le azioni didattiche ma anche quelle comunicative tra i
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diversi attori del sistema scuola (ad esempio la famiglia) in modo coerente. L’osservazione sistematica che si è configurata è inoltre strumento per un’adeguata valutazione degli allievi, poiché permette di descrivere in modo accurato il loro comportamento in contesti, situazioni e attività diverse, ponendo le basi per l’elaborazione di un percorso educativo efficace e per la sua costante verifica. In sintesi si può dire che l’osservazione sistematica, per definirsi tale, deve rispettare determinati criteri, quali: • l’esplicitazione dello scopo dell’osservazione; • l’impiego di procedure coerenti di raccolta delle informazioni; • l’organizzazione strutturata dei dati osservati. Appare quindi chiaro che per conseguire le competenze necessarie a svolgere l’osservazione è indispensabile che l’insegnante osservatore (o il ricercatore, o qualunque operatore sociale ricorra all’osservazione) sia in grado di separare le interpretazioni dai fatti, sospendendo il giudizio e attenendosi rigorosamente agli eventi che accadono, descritti con accuratezza e rigore. Infine, occorre che i dati siano validati tramite il confronto interindividuale; questo avviene quando due osservatori, osservando lo stesso fenomeno indipendentemente l’uno dall’altro, raggiungono un accordo circa il significato da attribuirgli attraverso il confronto dei loro punti di vista differenti. Le procedure per la raccolta dei dati: i tratti comuni. In base all’approccio osservativo che viene scelto dall’insegnante, i metodi e i sistemi di raccolta dei dati divengono importanti. Ciascun metodo o tecnica, infatti, è consono al tipo di dati che si intende rilevare e presenta connotazioni positive e negative in relazione
all’utilizzazione degli stessi. Le procedure di raccolta vanno dalla più semplice ed economica, quale può essere l’annotazione diaristica degli eventi (si pensi ad esempio ai notissimi studi di Darwin), alle tecniche sempre più raffinate e multifunzionali sviluppatesi in anni più recenti -soprattutto nell’ambito dell’osservazione del comportamento verbale e, più precisamente, dell’interazione verbale in classe- per le quali ci si può avvalere anche del supporto di audio e videoregistrazioni. Nonostante la loro varietà, però, tutti i sistemi osservativi presentano dei tratti comuni che possono essere identificati nel problema, nell’obiettivo, nelle definizioni operative, nella situazione e nella scelta dell’unità di osservazione. Questi tratti comuni costituiscono aspetti peculiari piuttosto interessanti dell’osservazione, sui quali può essere utile soffermare l’attenzione, sia pure brevemente. L’utilizzazione dei sistemi o metodi osservativi nella ricerca e nella pratica educativa derivano, come si è visto, dalla necessità di trovare una soluzione ai quesiti posti in relazione ai molti problemi legati all’attività professionale dell’insegnante. Ogni procedura di raccolta dati, dunque, prende l’avvio da due punti: una definizione del problema sul quale dirigere l’attenzione e la formulazione dell’obiettivo che si vuole perseguire, cioè dallo scopo per cui si ha la necessità di raccogliere informazioni. Con la definizione dell’obiettivo si opera la scelta dell’oggetto da osservare, del che cosa e del perché si vuole osservare. Il metodo d’indagine è sempre subordinato all’obiettivo predeterminato e la selezione di una procedura piuttosto che un’altra individua il mezzo più adeguato in relazione a tale obiettivo. Quando, ad esempio, si vuole osservare la partecipazione operativa dei bambini in classe e verificare se questa è influenzata dalla direttività o meno dell’insegnamento, l’interesse dell’osservatore può essere rivolto all’analisi del clima di classe e l’obiettivo consiste nel sottoporre a osservazione la qualità dell’inte-
razione insegnante-alunno, raccogliendo dati sull’interazione verbale in classe mediante griglie di analisi predisposte o derivate dalla letteratura (cfr. Soresi, 1978; Olmetti Peja, 1997). La stessa tecnica di osservazione non può invece essere utilizzata quando l’obiettivo dell’osservazione tende al miglioramento delle relazioni sociali all’interno della classe. In questo caso, si possono rilevare i dati scegliendo altri strumenti, oppure costruire delle schede di osservazione dei comportamenti. Come già affermato, quindi, nessun metodo osservativo è valido in assoluto ma esistono metodi e strumenti diversi, appropriati alla varietà degli obiettivi che si vogliono perseguire. Un altro elemento comune a tutte le procedure è la cosiddetta definizione operativa, mediante la quale ci si esprime specificando le condotte attuate dal soggetto che si intende sottoporre a osservazione. Con questo tipo di descrizione si stabilisce con precisione e senza ambiguità l’oggetto dell’osservazione e si evitano diversi rischi, come i fraintendimenti delle definizioni concettuali vere e proprie e l’imprecisione del linguaggio quotidiano, fattori che possono generare confusione terminologica e distorsioni interpretative, con conseguenti ripercussioni sul piano operativo. La definizione operativa esplicita in termini non equivocabili tre requisiti fondamentali: • come distinguere il livello di conoscenza dei dati; • come orientarsi per identificare i dati osservabili; • come fare per misurarli. Un altro tratto comune alle varie tecniche è costituito dal contesto situazionale in cui si vuole effettuare l’osservazione. Per situazione non si deve intendere semplicemente un luogo fisico, ma un ambiente fisico-sociale e spazio-temporale da cui emergono le informazioni. E’ importante tenere presente che gli eventi e i comportamenti non sono mai avulsi dal contesto in cui si generano e dal quale acquisiscono significato. Un comportamento può
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quindi assumere significati diversi in rapporto al contesto in cui si manifesta; è proprio questo, infatti, il fattore di rilievo e di interesse per quanto riguarda lo sviluppo cognitivo, relazionale e affettivo di ciascun allievo. E’ proprio all’ambiente che deve fare riferimento l’insegnante per cogliere e comprendere in modo più articolato le cause del comportamento e del suo divenire. E’ in relazione ad una determinata situazione ambientale che, ad esempio, un comportamento può essere colto ed interpretato come aggressivo oppure essere visto come semplice manifestazione di irritazione o, ancora, come reazione ad un gesto di offesa. Questo tipo di approfondimento nasce dalla considerazione che esistono dei fattori ambientali che precedono (antecedenti) la comparsa del comportamento analizzato ed altri elementi contestuali che seguono (conseguenti) la manifestazione operativa del comportamento e che permettono il suo stabilizzarsi. Proprio per questo motivo, è consigliabile condurre un’osservazione preliminare della situazione e raccogliere informazioni sul contesto. In seguito si potrà procedere ad una vera e propria raccolta dati. Prima di trarre conclusioni e prendere decisioni può essere molto utile ripetere le osservazioni in contesti diversi, al fine di analizzare approfonditamente la relazione esistente tra i comportamenti e i fattori contestuali. È infatti sempre opportuno conoscere che cosa ha immediatamente preceduto il comportamento e che cosa è accaduto subito dopo la sua emissione, al fine di enucleare le dinamiche che posso innescare e mantenere una situazione e identificare le variabili sulle quali agire per una sua trasformazione. Vi sono dei casi in cui l’individuazione del contesto di osservazione più adatto deriva direttamente dalla natura del comportamento sul quale si vuole compiere la rilevazione. A tale proposito, se si vogliono ad esempio evidenziare le procedure operative che mettono in atto gli adulti per controllare l’adesione alle regole di gioco da parte di un gruppo
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di bambini, si osserveranno le manifestazioni comportamentali degli adulti (genitori, insegnanti, ecc...) nel momento in cui interagiscono con i bambini in un ambiente di gioco quale il parco, il giardino della scuola, il campo sportivo. Analogamente e per le stesse ragioni l’osservazione dell’interazione adulto-bambino e del modello che l’adulto offre potrà offrire informazioni importanti e indicazioni circa le competenze affettive e relazionali possedute dal bambino stesso. La costruzione di categorie di osservazione Di fronte a una situazione che si ritiene di voler conoscere o approfondire occorre quindi compiere una serie di azioni consequenziali, che consistono rispettivamente nel rendersi conto dell’esistenza del problema, nel procedere a definirlo indicando esattamente i termini dello stesso e, infine, nel sistematizzare la procedura di indagine più opportuna per la sua risoluzione. Se ad esempio nella classe si rileva la presenza di un problema che riguarda la socializzazione (o si ravvisano anche intuitivamente le condizioni per un possibile sviluppo di una tale problema e si ritiene utile operare in chiave preventiva) si deve in primo luogo definire chiaramente cosa si intende con questo termine e successivamente cercare di pervenire alla definizione di un concetto concreto e delimitato sulla base di osservazioni preliminari, di riflessioni legate all’analisi sia di precisi costrutti teorici di riferimento sia di contributi metodologici forniti da autori diversi. Si può allora concentrare l’attenzione su tutte quelle risposte di adattamento che il soggetto presenta; queste possono essere di portata e di natura diversa ed essere sollecitate in relazione a precise richieste dell’ambiente sociale. Dopo aver circoscritto e definito il fenomeno, si può procedere all’individuazione e alla definizione delle possibili classi dei fenomeni in cui vengono raggruppati i comportamenti osservati. é perciò utile servirsi di categorie e sottocategorie chiaramente esplicitate e declinate nelle capacità/condotte/abilità che le compongono,
di modo che qualsiasi osservatore possa studiare lo stesso tipo di comportamento indicato all’interno della categoria stessa. Nella costruzione delle categorie si possono seguire criteri che riguardano la loro ampiezza e la loro tipologia, l’esclusività e l’esaustività delle stesse. Le categorie si distinguono in molari e molecolari in base all’ampiezza. Le informazioni molari fanno riferimento a dati globali, d’insieme, circa un’attività o una situazione che permane per un certo tempo ed è significativa, oppure un aspetto della persona o del contesto che raccoglie in sé un’ampia gamma di elementi (per esempio, la collaborazione, la sensibilità ecc.). è evidente che, proprio per la loro ampiezza, i dati molari sono maggiormente a rischio di interpretazione rispetto a quelli molecolari, ovvero alle informazioni di dettaglio riferite a singoli atti. In quanto segmenti piccoli di attività o singoli atti di condotte più globali tali informazioni sono più facilmente registrabili e quantificabili (ad esempio, porge un giocattolo, ripone il suo zaino, pone una domanda, consola un compagno). Secondo la loro tipologia, inoltre, le categorie possono essere distinte in fisiche o sociali/ funzionali. Le prime descrivono caratteristiche fisiche e morfologiche, come per esempio la postura del corpo, l’espressione facciale, la manipolazione, le abilità motorie, le abilità manuali e così via; sono facilmente definibili e sono ampiamente utilizzate in etologia. Il secondo tipo di categorie, ovvero quelle definite sociali/funzionali, descrivono aspetti del comportamento con una dimensione relazionale più complessa, chiedendosi sia le ragioni di quel comportamento sia gli scopi che persegue, cioè quali funzioni assume in un dato contesto e quali reazioni sociali e affettive produce. Rispetto alle categorie fisiche sono definizione più complesse da definire e sono soggette a un maggiore grado di inferenza e di interpretazione da parte dell’osservatore; il comportamento, infatti, viene descritto e classificato in base agli effetti che produce e/o alle intenzioni che lo muovono. Rientrano in questo tipo le ca-
tegorie dell’interazione sociale come: collaborazione, competizione, partecipazione, aggressività, gioco associativo, gioco collaborativo, autonomia e via di seguito. Una caratteristica fondamentale di tutti i tipi di categorie è la precisa definizione in termini operazionali, utile a non generare ambiguità nell’assegnazione di un comportamento osservato ad una determinata categoria. L’approccio alla loro costruzione è duplice, poiché si possono realizzare attraverso due percorsi: • induttivamente, ovvero facendole derivare dalla propria conoscenza o dall’osservazione informale del fenomeno indagato; • deduttivamente, facendole derivare da ipotesi concernenti la tipologia e il verificarsi di determinati comportamenti o da concezioni teoriche dei diversi aspetti in esame o, in ultimo, da studi già svolti sull’argomento. L’approccio di tipo induttivo porta alla determinazione di unità comportamentali più dettagliate di quelle ricavabili con un procedimento deduttivo. La difficoltà nell’identificazione dei dati osservativi è collegata, soprattutto, all’ambiguità del linguaggio che si utilizza, ma anche al tipo di operazioni che si effettuano nel cogliere i dati direttamente osservabili, fattori che possono rendere discordante l’osservazione di uno stesso fatto da parte di diversi osservatori. Nell’ambito delle problematiche educative, l’uso di categorie operative che escludono il ricorso a elementi interpretativi o di giudizio offrono maggiori garanzie per una corretta programmazione degli interventi didattici ed educativi, permettendo di identificare in maniera chiara e univoca l’oggetto dell’osservazione e di effettuare, in modo attendibile e valido, la raccolta di tutti quei dati che possano consentire a operatori diversi la formulazione di ipotesi d’intervento tra loro confrontabili (cfr. Zucca- Olmetti Peja – Cellamare, 2006).
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Le griglie di osservazione L’esplicitazione del problema, l’identificazione dell’obiettivo e la definizione operativa non esauriscono i tratti comuni delle procedure di raccolta dati, poiché in ogni procedimento osservativo vi sono altre scelte ugualmente importanti, che riguardano più da vicino la selezione degli aspetti da cogliere e la scelta di appropriate unità di osservazione. Insieme alle precedenti, anche queste ultime concorrono a ridurre il campo d’esplorazione per meglio focalizzare il problema e procedere nell’indagine. Sono questi i presupposti che guidano la costruzione di griglie di osservazione. Per compiere correttamente un’osservazione, infatti, si deve provvedere alla previa elaborazione di una lista di comportamenti/abilità descritti in termini operativi. In questo modo si sottrae l’osservatore al rischio di interferenze o generalizzazioni indebite, dovute alle sue personali convinzioni o ai pregiudizi; si elimina inoltre il pericolo che la memoria eserciti un ruolo distorcente sui dati raccolti o li riponga nel dimenticatoio. I fattori oggetto di indagine vengono raggruppati in base agli elementi che li accomunano, realizzando così una classificazione, in base alla quale si può costruire una scheda sintetica per una rapida registrazione delle osservazioni su un gruppo di soggetti, come è una classe scolastica. Attraverso la lettura dei dati rilevati si possono facilmente evidenziare le situazioni più frequenti e individuare sia le aree di intervento prioritarie sia i punti di forza sui quali far leva nel percorso di apprendimento miglioramento dell’esistente. Prendendo come esempio la categoria “aggressività”, declinata nelle sottocategorie “fisica” e “verbale” si può elaborare una scheda sul modello di quella di seguito riportata a titolo esemplificativo, sulla base della quale elaborare una griglia per registrare la frequenza di emissione dei comportamenti/abilità. Questi vengono osservati per un dato certo periodo di tempo (es. cinque giorni), allo scopo di costruire una baseline, cioè una misurazione di base delle con-
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Categoria
Comportamento
Aggressività fisica
Mostrare i pugni ad un compagno, pizzicare, tirare i capelli, mordere, tirare calci, lanciare oggetti.
Aggressività verbale
Insultare, scimmiottare, urlare. Aggressività verbale
Comportamenti/abilità
Periodo di osservazione dal…………al…………
Insulta i compagni Insulta l’insegnante Urla Bestemmia ecc.
dotte comprese nelle categorie considerate. L’esplicitazione dei fattori da tenere sotto controllo così realizzata riduce il campo d’indagine a un numero limitato di elementi, favorendone la gestione; inoltre determina la sistematicità all’osservazione e l’attendibilità ai dati che fornisce, tutti elementi importanti in un’ottica di modificazione della realtà osservata e di comunicabilità dei dati. Per raccogliere i dati osservativi si ricorre al metodo del campionamento a tempo, che può essere attuato secondo due modalità: per intervalli critici e per intervalli variabili. Quando si procede per intervalli critici, le osservazioni vengono compiute in un periodo di tempo stabilito, nel quale si registra il numero di volte in cui la condotta o l’abilità vengono esibite. Se ne annota cioè la frequenza di comparsa, registrata apponendo un segno sulla griglia ogni volta che il comportamento/abilità si verifica. Nelle osservazioni a intervalli variabili, l’ampiezza
di questi dipende dal tempo complessivo a disposizione per condurre l’osservazione. Non è possibile indicare la durata ottimale di un’osservazione; in linea generale si ritiene che debba protrarsi fino a che la frequenza non mostri una certa stabilità dei dati oggetto di interesse. Conclusioni Con questo terzo contributo è arrivato il momento di dare la parola agli insegnanti, per approfondire con loro i diversi aspetti, problemi e possibilità della ricerca a scuola. Dal prossimo intervento verranno quindi presentate delle esperienze di ricerca didattica, condotte in alcune scuole dell’Infanzia del Comune di Roma nell’ambio del piano di formazione pluriennale che il Comune stesso promuove e persegue. Con queste insegnanti chi scrive ha il piacere di lavorare da diversi anni, in un processo di reciproca e stimolante crescita professionale.
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Per un sistema educativo formale di qualità, equo e inclusivo
Premessa L’interesse per le prestazioni del sistema nazionale di istruzione e di formazione ha avuto un indubbio incremento nell’ultimo decennio. Le istituzioni preposte alla definizione e all’attuazione di politiche educative - il MIUR, le singole istituzioni scolastiche, gli Assessorati per l’istruzione e la formazione professionale degli Enti locali (si veda in merito la legge 298/2000) - sono fortemente interessati sia agli esiti raggiunti dagli allievi nei vari livelli e gradi scolastici sia al contesto educativo, alle strutture e ai processi che favoriscono l’apprendimento degli allievi o ne condizionano negativamente i risultati, ovvero ai prodotti e agli outcome, attraverso l’adozione di specifici interventi di politica educativa o socio-educativa.
scolastico degli allievi, sia per la formazione permanente - o apprendimento per tutto l’arco della vita (Life long wide learning)- collegata allo sviluppo sociale ed economico. Allorché le prestazioni rispettano gli obiettivi stabiliti e li conseguono il sistema d’istruzione e formazione è considerato di qualità e di equità. All’interno del sistema, però, specialmente quando si tratta dei risultati delle prestazioni degli allievi, sorgono delle perplessità sul modo in cui si trattano le situazioni differenziali, ovvero gli allievi che presentano delle disabilità certificate o, a volte, non concretamente riconosciute. Il considerare complessivamente il risultato delle prestazioni degli allievi senza operare distinzioni tra gli stessi allievi, cioè in base alla proprietà “normalità/disabilità”, pur rappresentando un elemento positivo relativamente all’effettivo riconoscimento del valore dell’inclusione, nasconde la realtà della disabilità non riconosciuta, che rimane senza risposta. Assumendo la limitazione di quest’ultimo fenomeno come obiettivo di equità è possibile e auspicabile agire anche sull’innovazione degli ambienti di apprendimento, che possono supportare efficacemente l’attuazione dell’inclusione didattica, cognitiva, esperienziale e sociale. E’ possibile, allora, collegare insieme i risultati del sistema d’istruzione e formazione iniziale e l’inclusione scolastica attraverso gli ambienti di apprendimento; questi ultimi, operando con fini educativi speciali, possono portare alla riduzione dell’influenza della componente disabilità non riconosciuta sui risultati degli apprendimenti degli allievi, ovvero sul rendimento scolastico complessivo.
In particolare, l’interesse in funzione dell’innovazione per il miglioramento si concentra principalmente nell’analizzare se e quanto le prestazioni del sistema educativo siano congrue rispetto alle attese e comparabili con quelle di altri paesi europei. Ciò vale sia per il sistema d’istruzione e formazione professionale iniziale, legato essenzialmente al rendimento
I parametri del sistema d’istruzione Per quanto riguarda la qualità, una crescente attenzione, soprattutto a livello Europeo, è posta sulle misure del rendimento scolastico degli allievi. Tali misure sono infatti ritenute fondamentali per il miglioramento sia delle azioni delle istituzioni scolastiche sia del sistema di accountability – locale e nazionale- sia, infine,
di Roberto Melchiori
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per l’adeguamento degli ordinamenti scolastici. In un’accezione più ampia sono inoltre considerate indispensabili per la promulgazione e la promozione di politiche educative legate al contesto territoriale. In ogni caso, la qualità di una scuola è considerata, principalmente ma non esclusivamente, sulla misura rilevata del rendimento scolastico degli studenti. Poiché questa misura non rappresenta anche i fattori di background degli studenti e del servizio espletato dalle singole istituzioni scolastiche, gli organi di valutazione di sistema tendono a prendere in considerazione il modello che prevede la misura del cosiddetto valore aggiunto. Tale modello di sintesi, che si basa sulla differenza di una coppia di misurazioni effettuate in tempi successivi distanti fra loro (ciò consente di evidenziare comunque delle trasformazioni sia positive, costanza o miglioramento, sia negative, peggioramento), può svolgere un ruolo importante in quanto fornisce una misura più precisa delle prestazioni, sia degli studenti sia del servizio scolastico agito. Questo permette di superare molte delle critiche subite dalle misure che prevedono una singola rilevazione, come per esempio le rilevazioni delle indagini internazionali IEA od OCSE-PISA; queste forniscono misure di stato, cioè misure relative ad un preciso momento dello studio della vita o scolastica degli allievi o temporale dei giovani). Le misure singole possono generare il non riconoscimento delle stesse quando si discostano fortemente dai valori medi senza essere accompagnate da considerazioni giustificative e lenitive, e possono perciò evidenziare le situazioni più svantaggiate, sia degli allievi sia delle singole scuole (ad esempio per le scuole che operano in territori svantaggiati o economicamente oppure socialmente, come avviane in zone del sud Italia). La qualità del sistema scolastico, espressa anche come valore aggiunto, può aumentare la fiducia che le parti interessate, o stakeholder, possono avere sull’operatività del sistema scolastico e sui risultati utilizzati per la sua valutazione.
Per quanto attiene all’equità, invece, nell’ambito del sistema d’istruzione e formazione iniziale si possono considerare due dimensioni: la prima riguarda l’equanimità, cioè il garantire che le caratteristiche personali e le condizioni sociali - sesso, stato socio-economico, origine etnica ecc.- non siano un ostacolo per partecipare al complesso delle azioni educative; la seconda, invece, riguarda l’inclusione, cioè la garanzia di offrire uno standard minimo di formazione di base per tutti (per esempio, tutti gli allievi alla fine della scuola primaria dovrebbero essere in grado di leggere, scrivere e fare semplici calcoli aritmetici). Le due dimensioni, equanimità e inclusione, sono strettamente intrecciate: la lotta contro l’insuccesso scolastico aiuta a superare gli effetti della deprivazione sociale che è spesso causa di insuccesso scolastico. I parametri del sistema d’istruzione e la disabilità I due parametri della qualità e dell’equità sono utilizzati per il servizio scolastico agito da un singolo istituto scolastico e per il sistema dell’istruzione e della formazione professionale iniziale contemporaneamente sia come obiettivi da perseguire sia come criteri per la valutazione. In entrambi i casi, cioè singolo istituto o sistema, i due parametri sintetizzano con i loro valori i risultati derivanti da tutte le azioni svolte, senza considerare che i risultati stessi provengono anche da allievi in situazione di difficoltà, come ad esempio le difficoltà di apprendimento oppure con altri svantaggi, come quelli linguistici. Per queste problematiche è necessario avviare azioni rispondenti a quelli che sono stati definiti come bisogni educativi speciali, o BES (v. Legge 104/1992 e successive modifiche e integrazioni e Legge 170/2010 per i disturbi specifici degli apprendimenti). Il mancato riconoscimento di tali tipologie di problemi può comportare per gli allievi che ne sono portatori l’esclusione, o anche l’autoesclusione, dalle attività di istruzione o di formazione realizzate
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nelle scuole; nello stesso tempo però i risultati di tali allievi, per i quali occorrerebbe avviare interventi ulteriori per sostenere il miglioramento delle loro competenze, sono inclusi in quelli più generali sia della singola istituzione scolastica sia del sistema d’istruzione, determinando una variazione dei valori dei parametri di qualità ed equità. I valori ottenuti, quindi, non corrisponderebbero a quelli effettivi; lo scostamento, inoltre, diventa tanto più apprezzabile, e perciò significativo, soprattutto nei luoghi e nei territori dove la scuola svolge un’azione sociale sostitutiva. Da quanto detto si evidenzia che nel caso di allievi con disabilità certificate, ovvero con patologie organiche o psicologiche, i due parametri di qualità ed equità si correlano positivamente; da una parte, infatti, si opera ufficialmente con interventi formativi che si contraddistinguono per il requisito dell’equità, dall’altra si ottengono risultati di qualità del servizio scolastico che riducono gli effetti negativi come la ripetenza o l’abbandono scolastico. Nel caso invece delle situazioni nascoste, ovvero degli allievi che non chiedono aiuto e non richiamano l’attenzione perché occultano silenziosamente i problemi e le difficoltà di apprendimento in cui si dibattono, gli interventi di sostegno ufficiali ascrivibili all’equità non sono direttamente utilizzabili. Infatti, l’aiuto è affidato principalmente al lavoro di organizzazioni, che svolgono programmi di sostegno al di fuori del servizio d’istruzione formale, con i quali la scuola dovrebbe accentuare il lavoro in rete. In questi casi gli interventi formativi di equità si caratterizzano come aiuto per gli allievi a uscire dall’incapacità di esplicitare il (fab)bisogno di aiuto, che può esplicitarsi, ad esempio, come sostegno per il superamento di analfabetismi relazionali e di apprendimento. Un ulteriore aiuto può essere individuato nello spostare l’ambiente di formazione in contesti di socializzazione, diversi dalla sede dell’istituzione scolastica, come ad esempio i centri di aggregazione giovanile, dove per gli allievi è
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possibile non solo riappropriarsi di un’immagine di sé personale e sociale positiva, ma recuperare i mancati apprendimenti in funzione del successo scolastico e formativo iniziale (cfr. gli articoli di Cellamare - Melchiori sui n. 4/2010, 1/2011 di questa rivista). I nuovi obiettivi per la disabilità Nell’ambito dell’incremento dell’equità all’interno del sistema scolastico d’istruzione e formazione è consuetudine considerare le azioni che si attuano rispetto a tre grandi categorie, contrassegnate in particolare da tre parole: inserimento, integrazione e inclusione, che corrispondono a tre diversi modelli formativi e organizzativi dell’ambiente scolastico. Tali modelli nel contesto nazionale compaiono unitamente a una specifica area della pedagogia, ovvero la pedagogia speciale, che riflette anche sulle parole connotandone i significati teorici, metodologici e pratici. La parola inserimento indica la presenza degli allievi con disabilità nelle istituzioni scolastiche e non in strutture dedicate e separate, ma soprattutto attesta il riconoscimento che ciascuna persona ha il diritto di essere riconosciuta uguale alle altre, portatrice degli stessi diritti e aspirazioni, indipendentemente dalle sue condizioni bio-psico-fisiche, sociali e culturali. Con la parola integrazione si identificano due dimensioni: da una parte, la necessità di lavorare ancora (malgrado l’investimento in tal senso da parte delle istituzioni) per favorire il reale inserimento degli allievi con disabilità nelle classi attraverso l’adozione di prassi atte a favorirne l’accoglienza e a garantire la promozione delle potenzialità individuali in termini di relazioni sociali e di apprendimento. Dall’altra, si sottolinea l’esigenza di adottare modalità di organizzazione scolastica e di strategie d’insegnamento che risultano efficaci per l’effettivo coinvolgimento nell’attività didattica e in quella extradidattica degli allievi con difficoltà certificate, o anche con bisogni educativi speciali (BES) slegati da una specifica certificazione. Infine,
nell’ultimo decennio, i due vocaboli appena considerati sono stati associati o ricompresi nella parola inclusione. L’uso di questa parola -che ha una corrispondente nell’inglese inclusion ed è utilizzata a livello sia della ricerca sia degli interventi di politiche pubbliche educative- dipende dalla necessità di corrispondere al significativo ampliamento delle situazioni che sono state fatte rientrare nei bisogni educativi speciali. Nella realtà scolastica, infatti, sembra essersi evidenziato un aumento consistente di disturbi di apprendimento e di comportamento. Inoltre la presenza numericamente consistente di allievi immigrati, spesso portatori di sistemi culturali e valoriali diversi dai nostri, ha richiesto una riflessione attenta per l’individuazione di soluzioni formative con scelte organizzative, progettuali, metodologiche, didattiche e logistiche idonee ad accogliere tutte le diversità. Ciò ha reso necessario costruire un’azione sinergica tra l’istituzione scolastica e le altre forme e strutture sociali come le famiglie, i servizi sociali, gli enti locali, il mondo del lavoro e tutte le forme di associazionismo. La realizzazione di tali sinergie si rende necessaria per la costruzione di una rete educativa in grado di valorizzare le diversità, considerando la normalità come una delle forme della diversità, trasformando così l’eterogeneità in normalità. In tal modo si ri-
conosce il diritto alla diversità, una diversità che non si identifica solamente con la disabilità, ma comprende la molteplicità delle situazioni personali e sociali che richiedono interventi mirati alla soluzione di una difficoltà o di un disagio. Alle tre precedenti parole si sono associate, principalmente in relazione a indagini comparative realizzate dall’OCSE per la Commissione Europea (l’OCSE ha sviluppato un modello comparativo internazionale per la definizione dei (fab)bisogni educativi speciali inseriti nella classificazione ISCED 97), altre tre parole, che sottintendono altrettante macrocategorie, queste identificano i BES per motivi essenzialmente derivanti da: A. disabilità B. difficoltà C. svantaggi di ordine socioculturale. Le tre parole, per l’OCSE, indicano, nell’ordine: • difficoltà dipendenti da basi organiche, relative cioè alla macrocategoria A, per la cui analisi sono utilizzati strumenti di misurazione e criteri diagnostici affidabili e condivisi. Tali difficoltà sono molto spesso descritte in termini medico-sanitari, perché discendono da carenze organico-funzionali attribuibili a menomazioni e/o patologie organiche (deficit o sensoriali o motori oppure neurologici, oppure con gravi forme di disabilità mentale e cognitiva);
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• difficoltà emotive e comportamentali o disturbi specifici dell’apprendimento, che rientrano nella macrocategoria B. Queste, come dislessia, discalculia, disturbi del linguaggio, ecc., nascendo da problemi di interazione dell’allievo con il contesto educativo e interferendo con i normali processi di apprendimento, pregiudicano il rendimento scolastico e per questo si ravvisa la necessità di avviare processi di sostegno nell’apprendimento; • difficoltà derivanti da svantaggi culturali e sociali, appartenenti alla macrocategoria C, che dipendono dal background personale degli allievi e dal contesto socioeconomico di appartenenza. In questi casi gli allievi hanno la necessità di risorse educative aggiuntive per colmare i deficit di apprendimento. L’innovativa classificazione dei (fab)bisogni educativi adottata dall’OCSE consente di compiere comparazioni internazionali superando le problematiche inerenti le diverse modalità di approccio ai (fab)bisogni educativi speciali che caratterizzano ogni paese europeo ed extraeuropeo. L’uso della classificazione porta anche in Italia a confrontare i risultati d’indagini nazionali parziali con quelli ottenuti in altri paesi europei e ciò porta a comprendere meglio quali azioni, in situazione di risorse ristrette, possono favorire l’inclusione degli allievi con disabilità nascoste (macrocategoria B). In relazione a ciò anche la considerazione degli ambienti di apprendimento permette di migliorare sia la riflessione sugli sia la progettazione degli interventi formativi che portano ogni allievo a rendere al meglio, secondo le proprie capacità e senza che vi siano penalizzazioni derivanti da situazioni contingenti. L’uso negli interventi di formazione caratterizzati per equità degli ambienti di apprendimento può migliorare i risultati degli allievi che necessitano di BES in considerazione del fatto che i soggetti con disabilità dichiarate nella scuola italiana sono in forte aumento.
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La Figura 1 mostra l’andamento della disabilità in Italia nel periodo compreso tra l’a.s. 2001-2002 e l’a.s. 2009-2010.
Figura 1. Distribuzione allievi disabili nella scuola italiana. (Fonte MIUR)
I nuovi obiettivi per l’equità e la qualità L’interesse crescente per il modo in cui le persone apprendono e per i diversi ambienti di apprendimento risponde alla esigenza di preparare i cittadini alle necessità dettate dall’attuale sistema economico e dalla società della conoscenza. Da qui l’esigenza per la ricerca di delineare, attraverso sperimentazioni e analisi di esperienze, le strutture ambientali più idonee per il miglioramento sia degli apprendimenti sia delle relazioni sia dello sviluppo personale degli allievi. La ricerca di soluzioni adeguate per il miglioramento dell’apprendimento all’interno degli assetti del sistema d’istruzione e di formazione iniziale è stata oggetto di diversi progetti sia nazionali sia europei; tra questi ultimi si ricordano, ad esempio il progetto SEEQUEL (Sustainable Environment for the Evaluation of Quality in E Learning istituito dall’European Commission-DG Education and Culture, 2007) e il progetto OCSE (Schooling for Tomorrow - The Starterpack: Futures Thinking in Action, 2006), che in merito all’innovazione nell’ambiente scolastico dichiarava: “le riforme, in ultima analisi, si scontrano con un
muro, o meglio una soffitto, oltre il quale ulteriori progressi sembrano impossibili, con la conseguenza che un numero crescente di dirigenti scolastici ed educatori si domandano se le scuole non hanno bisogno di essere riformate, bensì di essere reinventate” (“...reforms have ultimately come up against a wall, or rather a ceiling, beyond which further progress seems impossible, leading increasing numbers of school administrators and educators to wonder whether schools do not need to be reformed but to be reinvented.”, .pp. 187-188, traduzione a cura dell’autore). Prendendo in considerazione una possibile “reinvenzione”, e non solo una “riforma”, è da considerare un più profondo cambiamento che vada oltre gli aspetti dell’insegnamento e dell’apprendimento stessi, rispetto alle specifiche caratterizzazioni e necessità della scuola attuale. Per poter orientare il cambiamento è possibile realizzare un programma di ricerca che prenda almeno in considerare tre linee fondamentali: • la ricerca sulle relazioni tra apprendimento e insegnamento; • la raccolta e la diffusione di esperienze e di proposte innovative di insegnamento che raggiungono elevati risultati di apprendimento; • la predisposizione di informazioni che creino un largo consenso per creare una maggiore consapevolezza sul contesto come campo di lavoro per l’apprendimento, con un maggiore riconoscimento per la formazione non formale e informale. Le tre linee trovano riscontro in primo luogo nelle indicazioni dell’OCSE, legate soprattutto allo sviluppo della società della conoscenza; l’OCSE, infatti, introduce nell’analisi dei sistemi di istruzione i nuovi ambienti di apprendimento, da una parte, e lo sviluppo delle competenze di base e di conoscenze situate, dall’altra. Questa scelta è derivata da una serie di studi che hanno avuto l’obiettivo di stabilire quali ragioni potessero fare supporre che i sistemi scolastici avevano bisogno di un cambiamento radicale; ciò in considerazione, so-
prattutto, delle ingenti risorse finanziarie, che negli ultimi decenni i paesi dell’EU (e molti altri) hanno investito per trasformare i loro sistemi educativi. Questi sforzi hanno incluso, tra le altre azioni: la formulazione di nuovi programmi di formazione degli insegnanti, allargando l’accesso soprattutto ai docenti delle discipline scientifiche e alla formazione per la tecnologia dell’informazione e della comunicazione; il cambiamento dei curricoli scolastici; la riorganizzazione del sistema delle istituzioni scolastiche, dando più autonomia funzionale e responsabilità sul curricolo alle stesse scuole e alle loro comunità locali. Alla base di queste scelte era posto l’obiettivo di fornire agli studenti le conoscenze, cognitive e meta-cognitive, e le competenze necessarie per essere pienamente e consapevolmente cittadini e lavoratori del XXI secolo. Le strategie e le scelte operate dai paesi europei ha portato l’OCSE ad approfondire in questo ultimo decennio gli aspetti legati alla definizione delle abilità, conoscenze e competenze necessarie, e quindi ai modi in cui potevano essere acquisite nel sistema d’istruzione e sviluppate o ampliate attraverso la scuola. I risultati dell’analisi e della riflessione dell’OCSE hanno portato alla costruzione di quadri di riferimento relativi principalmente alle competenze di base, o competenze chiave, necessarie ai cittadini per operare nella società complessa ed esigente di oggi, al di là di qualsiasi livello particolare o contesto educativo. In modo particolare, per le competenze il primo e fondamentale studio dell’OCSE è stato il progetto DeSeCo, che ha portato a una iniziale definizione di competenza e a una elaborazione della struttura e della composizione delle competenze di base. La definizione elaborata nel progetto DeSeCo comprendeva tra aree, ognuna suddivisa in tre componenti, cioè: • Utilizzare strumenti in modo interattivo, che comprende la capacità di: a) usare il linguaggio, i simboli e i testi in modo interattivo;
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b) utilizzare le conoscenze e le informazioni in modo interattivo; c) utilizzare la tecnologia in modo interattivo • Interagire in gruppi eterogenei, in cui rientrano le capacità di: a) relazionarsi bene con gli altri; b) cooperare; c) gestire e risolvere i conflitti. • Agire in modo autonomo, con esplicito riferimento alle capacità di: a) agire all’interno di un quadro generale; b) elaborare e concretizzare progetti di vita e progetti personali; c) affermare diritti, interessi, limiti e fabbisogni. Con gli stessi intenti, il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea hanno congiuntamente deliberato una raccomandazione affinché gli Stati membri: • sviluppassero un’offerta di competenze chiave per tutti i loro cittadini nell’ambito delle strategie di apprendimento permanente; • utilizzassero un comune quadro europeo definito come “Competenze chiave per l’apprendimento permanente — Un quadro di riferimento europeo”, delineato per le sue indicazioni di riferimento nel documento “Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio Relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente” (2006/962/CE). Le competenze inserite nella raccomandazione, definite “competenze chiave” per differenziarle da quelle di “base” -comunemente riferite alla lettura, scrittura e calcolo (iniziale)- sono state delineate rispetto a otto ambiti, che sono: • comunicazione nella lingua madre; • comunicazione nelle lingue straniere; • competenza matematica e competenza di base in scienza e tecnologia; • competenza digitale; • imparare a imparare; • competenze interpersonali, interculturali e competenze sociali, civiche;
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• spirito d’iniziativa e imprenditorialità; • consapevolezza ed espressione culturale. Le capacità di pensiero critico, la creatività, l’iniziativa, il problem-solving, la valutazione dei rischi, il prendere decisioni e il gestire in modo costruttivo i sentimenti sono stati considerati come elementi portanti in tutti gli otto ambiti di competenza. Sulla base delle precedenti scelte il programma dell’OCSE per la valutazione internazionale delle competenze degli adulti (PIAAC - Programma pluriennale -2008-2013), ha proposto di valutare le competenze chiave degli adulti e il loro migliore utilizzo nel mercato del lavoro in un’ottica di comparazione internazionale (tra i Paesi OCSE e anche non membri OCSE), attraverso un’indagine a campione su un segmento di popolazione adulta tra i 16 e i 65 anni. Lo studio si è focalizzato sulle competenze acquisite nella vita lavorativa, sulle loro implicazioni per il reddito ed altri aspetti correlati. Sono state previste, inoltre, delle attività comuni per tutti i Paesi aderenti al PIAAC, e attività internazionali facoltative, in modo da favorire la comparazione anche su aspetti collaterali alle competenze lavorative. L’Italia ha scelto di partecipare alle seguenti tre attività internazionali opzionali: valutazione delle competenze di base (c.d. Reading components skills); valutazione delle competenze legate al proprio lavoro (c.d. Modulo Job Requirement Approach - JRA); estensione del Modulo JRA ai non occupati. Il progetto di ricerca, inoltre, ha ripreso la questione relativa alla definizione di competenze base e competenze chiave proponendo il termine di alfabetizzazione, riconnotandolo come “l’interesse, l’atteggiamento e la capacità degli individui di utilizzare correttamente gli strumenti socio-culturali, compresa la tecnologia digitale e strumenti di comunicazione, per accedere, gestire, integrare e valutare le informazioni, per costruire nuove conoscenze e comunicare con gli altri al fine di partecipare attivamente nella società “ (vedi OCSE-Di-
rectorate for Education,“International adult literacy and basic skills surveys in the OCSE region, DU/WKP-2009). La flessibilità, la creatività, la comunicazione con i coetanei, il problem-solving, e la riflessione sono abilità, capacità e disposizioni di fondo, trasversali alle competenze utilizzate nel progetto PIAAC. I risultati che si otterranno con la ricerca PIAAC forniranno informazioni circa la validità dei costrutti e concetti utilizzati, collegati quindi alle competenze ipotizzate; nondimeno è rilevante sapere quanto il sistema d’istruzione e formazione iniziale contribuisce allo sviluppo delle stesse competenze e in quale modo è flessibile, per adattarsi ai nuovi principi e alle dinamiche che facilitano la loro acquisizione, ma e soprattutto occorre conoscere in che modo tale sistema riesce a contribuire alla costruzione di ambienti che permettono dell’inclusione dei disabili e più in generale delle diversità . Conclusioni Dall’analisi dei risultati delle ricerche sia nazionali che internazionali, tra cui quelle precedentemente ricordate, si può operare una classificazione delle caratterizzazioni per innovare l’azione delle istituzioni scolastiche in funzione della qualità e dell’equità, cioè: • avviare una competizione tra le scuole, secondo regole di “quasi mercato”, o che replicano gli effetti della libera concorrenza, attraverso la pubblicazione di tavole che riassumono le prestazioni conseguite dalle stesse scuole; • innovare gli ambienti di apprendimento per la formazione delle competenze utilizzando i risultati della ricerca, come ad esempio quelli generati nel campo delle neuroscienze o nel settore delle TIC. Questi risultati apportano nuove intuizioni circa la natura degli apprendimenti che possono essere alimentati attraverso la progettazione di programmi di studio, insegnamento e valutazione;
• utilizzare i risultati dell’esperienza, cioè le “migliori pratiche”, che si genera dall’interazione fra insegnanti e allievi e dal lavoro giornaliero di tutti i professionisti della scuola. In questo caso occorre considerare anche l’importanza dell’apprendimento organizzativo, cioè della crescita contestuale della conoscenza di tutti gli operatori, che scaturisce attraverso la pratica giornaliera legata al contesto specifico e che, quindi, assume i caratteri di ogni ambiente e non può essere esportata. Ognuna di queste caratterizzazioni presenta uno specifico aspetto che la rende diversa dalle altre; nessuna singolarmente si è dimostrata capace di generare un’innovazione in grado di soddisfare contemporaneamente qualità ed equità e in quest’ultima la disabilità. La necessità di considerare contemporaneamente aspetti e caratterizzazioni diverse, e quindi di assumere modelli sistemici da applicare all’innovazione per la scuola, dipende anche dalla distinzione e differenziazione operata sulla formazione, classificata in formale e informale. Questa distinzione tipologica comporta anche modi diversi di operare e di relazionarsi, non solo tra docenti e allievi a scuola, ma anche tra scuola e famiglia, tra scuola e ambiente sociale, tra scuola e organizzazioni di lavoro, di socializzazione, ecc., in considerazione proprio del riconoscimento attribuito alla formazione informale. Pertanto, se le scuole non sono gli unici luoghi dove si generano e si nutrono le competenze e conoscenze di base e chiave del XXI secolo, è necessario capire come il loro esercizio e apprendimento possa essere assicurato e in che modo la scuola può, da una parte, collegarsi agli altri luoghi e, dall’altra, apprezzare e certificare quanto appreso negli altri luoghi. Considerando i risultati delle ricerche e gli indicatori di sistema dell’educazione europei disponibili, come quelli generati con il progetto PISA, attualmente occorre considerare che i sistemi di istruzione europei e quello
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italiano, in particolare, sono lungi dal prevedere ambienti di apprendimento, per la formazione formale e per quella informale, in grado di facilitare tutti gli studenti, anche quelli che presentano una disabilità, a sviluppare il loro pieno potenziale. Riferimenti Bibliografici: ARGIROPOULOS D. - CALDIN R. - DAINESE R., Genitori migranti e figli con disabilità. Le rappresentazioni dei professionisti e le percezioni delle famiglie, «Ricerche di Pedagogia e Didattica», vol. 5, n. 1., 2010; ASL di Pieve di Soligo-Treviso, L’integrazione scolastica dei disabili. Una ricerca in Provincia di Treviso, Milano, Franco Angeli, 2005; BARONE C., La valutazione: verso una spirale al ribasso? In A. Cavalli e G. Argentin (a cura di), “Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana”, Bologna, Il Mulino, 2010; CARITAS - FONDAZIONE AGNELLI - TREELLE, Rapporto. Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, Trento, Edizioni Erickson, 2011; CELLAMARE S. – MELCHIORI R., La valutazione di politiche socioeducative. L’apporto della metodologia qualitativa. Parte prima. Caratteristiche generali e presupposti teorico-metodologici, «Qtimes webmagazine», anno II, n. 4, ottobre 2010, pp. 25-32; CENSIS, La disabilità oltre l’invisibilità istituzionale: il ruolo delle famiglie e dei sistemi di welfare. Primo rapporto di ricerca, Roma, Censis, 2010; COMMISSION OF THE EUROPEAN COMMUNITIES, Promoting equity, social cohesion and active citizenship in education and training. In Progress Report towards the Lisbon objectives in education and training. Indicators and benchmarks, cap. 3, pp. 79-83, 2009 (http://ec.europa.eu/education/lifelong-learningpolicy/doc/report09/report_en.pdf); IANES D., DEMO H. e ZAMBOTTI F., Gli insegnanti e l’integrazione. Atteggiamenti, opinioni e pratiche, Trento, Erickson, 2010; ISTAT, L’integrazione degli alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di I grado, statali e non statali e Anni scolastici 2008/2009 e 2009/2010. Sta-
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Giocare a essere donne. Identità e senso estetico nel gioco delle bambole. Parte I. I fattori di sviluppo dell’identità di genere
di Alessia Giangregorio Premessa Con questo articolo si apre una breve serie di due interventi che focalizza l’attenzione sulle rappresentazioni dell’identità femminile veicolate attraverso le bambole. L’analisi proposta muove dall’ipotesi che mediante questi giocattoli la bambina simuli l’assunzione di ruoli e si confronti con una specifica immagine del femminile che contribuisce a strutturare la sua identità. Tale rappresentazione è in parte archetipica e in parte costruita su modelli culturali ed educativi in continua evoluzione; non è, inoltre, necessariamente reale, ma è comunque realisticamente orientata dalla desiderabilità sociale o dall’immaginario collettivo. Partendo dai contributi di autorevoli studiosi,
verranno messi in luce in particolare i concetti di identità personale, di genere e sessuale; saranno inoltre approfonditi i processi di identificazione e di imitazione quali fattori attraverso cui si sviluppa e struttura l’identità femminile. L’identità di genere come aspetto costitutivo dell’identità personale Nel prendere in esame alcuni dei principali fattori che partecipano alla costruzione dell’identità di genere non si può prescindere dai contributi teorici elaborati da Erik H. Erikson; questi nel corso dei suoi studi ha riservato una particolare attenzione all’analisi delle modalità di relazione tra individuo e ambiente socio-educativo nel quale si costruisce l’identità personale. Questa si sviluppa lungo tutto l’arco di vita dell’individuo e la sua formazione vive un momento particolarmente delicato nel corso dell’adolescenza, fase in cui si realizza la sintesi delle identificazioni maturate durante lo sviluppo. Il processo di identificazione svolge un ruolo centrale nella strutturazione dell’identità di genere e dell’identità sessuale, congiuntamente ai processi di imitazione che solitamente, però, si collocano a un livello più cosciente, non implicando, a differenza dei primi, una realtà affettiva. L’identità personale rappresenta la «persistenza di un individuo come entità vivente distinta e diversa da tutte le altre attraverso le modificazioni che si producano nel corso della vita. Questo modificazioni possono verificarsi, per le condizioni più diverse, nelle strutture del corpo, nelle tendenze, nelle abitudini, nel pensiero e in numerose altre attività fisiologiche e psicologiche» (Dalla Volta, 1974, p. 340). Erikson definisce il senso di identità come il «senso soggettivo di una rinfrancante coerenza e continuità» nel fluire delle esperienze (Erikson, 1968, p. 214), che include anche lo sforzo e la partecipazione a un’identità di gruppo. La dimensione soggettiva e quella sociale sono quindi due aspetti interdipendenti
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che caratterizzano l’identità personale. La dimensione soggettiva è relativa alla percezione e valutazione coerente di sé, la quale integra sia le immagini consce sia quelle inconsce. Queste ultime riguardano l’accettazione emotiva o la svalutazione di alcuni aspetti di se stessi. Il senso di identità presuppone pertanto una continuità di percezione interiore, che supera la frammentazione dei modi di esperire la propria individualità. L’aspetto sociale riguarda l’idea che si ha circa l’affinità con un particolare gruppo sociale. Lo stabilirsi del senso di identità dipende infatti dal riconoscimento vicendevole dell’individuo e della società, che ha inizio con il rapporto madre-figlio. La dimensione sociale emerge in particolar modo nel vissuto di identificazioni, di relazioni significative, di scopi prefissati in base al concetto sociale, di similarità con altre persone e di integrazione nel gruppo. Il contesto comunitario è quindi rilevante per lo sviluppo dell’identità personale, in quanto fornisce la possibilità di riconoscimento e di conferma, di affermazione e di sperimentazione di ruoli (cfr. Stevani, 1987). Nei suoi studi Erikson ha identificato tre dimensioni dell’identità personale: • la dimensione diacronica, attraverso la quale l’individuo ha la sensazione di essere sempre lo stesso nel tempo, anche se diverso rispetto sia al passato sia a ciò che si prospetta potrà diventare in futuro; • la dimensione sincronica, che, nonostante la molteplicità di ruoli assunti, permette di sentirsi integri come persona, mantenendo unicità e coerenza; • la dimensione di efficacia, che consiste nel sentirsi integrati nel contesto sociale di appartenenza e di percepire che la propria identità è riconosciuta dagli altri (cfr. Gambino, 2005). Nella concettualizzazione di Erikson il senso di identità nel corso dello sviluppo dell’individuo va incontro a crisi di vario genere, ritenute come indispensabili momenti di passaggio da una
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fase evolutiva all’altra in vista di uno sviluppo più ampio. L’identità personale è, pertanto, una struttura dinamica nella cui formazione sono fondamentali i processi identificatori con le figure parentali. Tali figure offrono al bambino un primo modello di confronto, di importanza centrale nella costruzione dell’identità di genere, il cui corretto sviluppo è alla base di un adeguato senso di identità personale. Questa, infatti, non può prescindere da un’elaborazione cognitiva ed emotiva del vissuto sessuale, che costituisce una dimensione fondamentale della personalità. È dunque necessario introdurre e chiarire altri due aspetti dell’identità personale, ossia l’identità di genere e l’identità sessuale, che non sempre coincidono. L’identità di genere «implica il riconoscersi come caratterizzati da una costellazione di aspetti psicologici, interessi, valori e attitudini, associati ai sessi in base ad aspettative, valori e norme culturali condividi, cioè la propria mascolinità e femminilità» (Schimmenti, 1994, p. 339). Con l’espressione “identità di genere” si tiene quindi conto dell’interrelazione tra l’individuo e il sociale, nonché delle influenze che il contesto esercita sulla strutturazione e sullo sviluppo della personalità. Parlando di identità di genere ci si riferisce pertanto alla complessa interazione di fattori che influenzano lo sviluppo sessuale in ogni fase, in base al contesto storico, culturale e biografico (cfr. Arcidiacono, 1991). In questo processo di acquisizione graduale confluiscono molteplici elementi, tra i quali: • le disposizioni innate, che portano a una differenza nell’organizzazione del sistema nervoso centrale. La predisposizione a percepire e a rispondere agli stimoli è infatti influenzata dall’organizzazione sessuale del cervello, diversa nei due sessi; • le sensazioni che derivano dal proprio corpo attraverso esplorazioni tattili e visive; • l’assegnazione del sesso alla nascita, in seguito alla quale si mette in moto da parte dei genitori un processo di acculturazione nel corso della crescita. Si insegna alla bambina
che è una femmina, che cosa e in che modo ci si aspetta che una bambina pensi, provi e agisca nella famiglia e nel segmento di società che la famiglia rappresenta, confermandole così le prime confuse esperienze relative al proprio corpo; • lo sviluppo dei fattori cognitivi che portano a differenziare sé dalla madre e la madre dal padre. Tra tutti i fattori che concorrono a questa identità prevalgono i fattori relazionali e di identificazione, cioè la validazione consensuale dei genitori circa questa identità e i conseguenti messaggi consci e inconsci che indirizzano il bambino verso lo stereotipo della mascolinità o della femminilità, così come inteso dalla coppia parentale in una determinata cultura (cfr. Zanuso, 1991). Per quanto riguarda l’identità sessuale, questa «indica il riconoscersi come appartenenti all’uno o all’altro sesso biologico, cioè come maschi o femmine» (Schimmenti,1994, p. 339). Mentre l’identità di genere si riferisce alla molteplicità e alla complessità di significati assunti dalle differenze sociali tra i sessi - che veicolano determinate rappresentazioni della femminilità e della mascolinità che concorrono all’organizzazione della vita sociale - l’identità sessuale si riferisce ai fattori biologici che determinano l’appartenenza all’una o all’altra categoria di genere e sulla base dei quali sono suddivisi e modellati i ruoli che l’individuo assume nel proprio ambiente di vita, le rappresentazioni di sé e degli altri che ne derivano e le aspettative personali e sociali (cfr. Braidotti, 2000). Per quanto concerne la strutturazione dell’identità sessuale è ancora Erikson a porre in rilievo l’intersecarsi di forze biologiche, psicologiche e sociali e ad affermare che l’identificazione con il genitore dello stesso sesso e l’assunzione di specifiche modalità sociali di rapporto e di azione si attua nella misura in cui il contesto sociale stimola l’orientamento del bambino verso il padre e della bambina verso la madre. Il bambino sviluppa così le premesse dell’ini-
ziativa maschile e femminile e alcune immagini sessuali di se stesso, che costituiscono gli aspetti positivi e negativi della sua identità. Il diventare una donna o un uomo è un percorso personale e culturale poiché il bambino non nasce con un’identità di genere, ma solo con caratteristiche sessuali. Sono coloro che circondano il piccolo a “costruirlo” in termini di rappresentazioni sociali di genere, collocandolo, sulla base delle sue caratteristiche sessuali, in un mondo familiare di maschi e di femmine in relazione alle rappresentazioni di genere prevalenti. Col tempo, poi, il bambino interiorizzerà le rappresentazioni sociali di genere della collettività a cui appartiene ed esprimerà la propria identità di genere utilizzando i modi di pensare, sentire e agire della collettività stessa (cfr. Duveen, 1991). Il modello teorico-interpretativo delineato da Erikson segnala l’adolescenza come un periodo particolarmente delicato, durante il quale possono sorgere conflitti circa l’identità sessuale a causa dei forti cambiamenti a livello psicofisico. È pertanto necessario attuare in questa fase della vita un’elaborazione delle precedenti identificazioni per giungere a una sintesi personale, che permetta all’individuo di impegnarsi con gli altri in rapporti di intimità, ripudiando selettivamente le identificazioni infantili. Si può quindi definire l’identità come un processo che si snoda lungo l’intero arco evolutivo della persona e che si struttura e si esprime sulla base dalle tappe fondamentali che l’individuo percorre. Il senso di identità di ognuno è perciò costituito da diversi stati sovrapposti e in comunicazione reciproca: il nucleo profondo, formato dalle esperienze infantili di legame e di identificazione con le figure genitoriali, sulla base di messaggi preverbali e di esperienze corporee, si integra con i valori, le aspettative e la visione del mondo che il soggetto sviluppa col passare degli anni, elaborando contenuti culturali ed eventi vitali, specifici della sua storia personale. Il senso di identità di ognuno riassume perciò le esperienze passate e la progettualità futura,
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i bisogni, i valori e le aspettative, entro una cornice culturale che ne determina parte dei contenuti e delle modalità di espressione (cfr. Stevani, 1987; Badolato – Collodi, 1991). Il ruolo del processo di identificazione nello sviluppo dell’identità personale L’identificazione rappresenta «il processo inconscio per cui un ego si adatta ad un ego estraneo e di conseguenza si comporta sotto alcuni aspetti come l’altro ego, lo imita e lo accoglie in un certo senso dentro di sé. Le identificazioni più importanti sono quelle che avvengono con i genitori o con i loro sostituti» (Dalla Volta 1974, p. 339-340). Il processo di identificazione è di notevole importanza per la maturazione di alcuni aspetti della personalità e per lo sviluppo dell’individuo a livello emotivo, in quanto il soggetto diventa maggiormente capace di orientare le proprie energie in modo più adeguato alla realtà. L’identificazione è, soprattutto nei primi anni di vita, un meccanismo inconscio che produce modificazioni durevoli nel soggetto, in quanto determina cambiamenti che incidono sulla realtà interna ed esterna dell’individuo. Nel processo di identificazione, infatti, il soggetto modifica motivi e modelli di condotta e le rappresentazioni di sé corrispondenti, così da sentirsi simile alle rappresentazioni dell’oggetto, fino a confondersi con esse. L’identificazione, quindi, non ha luogo con una persona, ma con una o più rappresentazioni della persona (che viene definita “modello”), determinate dalle intenzioni del soggetto, dal suo stato d’animo e dal suo livello di sviluppo e di organizzazione in un dato momento. L’oggetto di identificazione è qualcosa di emozionalmente significativo per il soggetto e le modificazioni che si attuano conducono il bambino a pensare, sentire e agire come se le caratteristiche del modello fossero le proprie, portando così a una maggiore somiglianza (cfr. Marci 1982). La teoria psicanalitica considera l’identificazione come un processo che esprime una realtà dinamica in connessione con altri aspetti della
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personalità e i cui effetti sono riscontrabili nella capacità o nell’incapacità di entrare in rapporto con gli altri. È nel rapporto con gli altri, infatti, che ha luogo ogni identificazione, in quanto la relazione attiva particolari modalità di interazione interpersonale. L’identificazione riveste quindi un ruolo fondamentale nella formazione dell’identità, poiché proprio mediante le identificazioni che avvengono nelle diverse fasi evolutive la persona può trovare e definire un proprio posto nella società. Per raggiungere un adeguato senso di identità è però necessario elaborare le differenti identificazioni, così da poter giungere a definirsi, ossia ad acquisire un senso di individualità e di unità personale (cfr. Stevani, 1992). Secondo Erikson l’identificazione si fonda sulla tendenza del bambino ad assumere alcuni aspetti parziali delle persone per lui significative (capacità, abitudini, attività o idee). Questi aspetti incidono sulla sua fantasia e lo portano a cercare di diventare come gli adulti che assume a modello, poichè inizialmente egli non è in grado di discriminare in modo adeguato la realtà. Le prime identificazioni del bambino hanno luogo nel rapporto sociale primario che il piccolo instaura con la madre; i successivi contatti con altre figure gli permettono poi di farsi una prima idea dei rapporti sociali e di rappresentarsi come potrebbe essere da grande, portandolo a stabilire una sorta di gerarchia di aspettative. Il destino delle identificazioni infantili dipende quindi dalla possibilità di stabilire interazioni significative con gli adulti di riferimento. Erikson afferma che la formazione dell’identità «nasce dal ripudio selettivo delle identificazioni infantili e dal loro assorbimento in una nuova configurazione. Questa, a sua volta, dipende dal processo con il quale una società identifica il giovane adulto, riconoscendolo come uno che doveva diventare quello che è diventato e che, essendo com’è, viene accettato senza discussione» (Erikson, 1968, p. 186-188). In base a questa prospettiva è nell’adolescenza che l’individuo dovrebbe essere in grado di
elaborare ed integrare le identificazioni precedenti, in modo tale da poter definire il proprio ruolo e i compiti sociali, nei quali egli può riconoscere se stesso e essere riconosciuto e accolto dal suo ambiente, assumendo conseguentemente responsabilità specifiche. L’identità finale comprende quindi tutte le identificazioni significative, ma le altera anche, in modo tale da portare alla strutturazione di un complesso unico e il più coerente possibile. Nella teorizzazione di Erikson l’identificazione è, pertanto, alla base della strutturazione di un Io sociale, che consente di stabilire rapporti adeguati con il mondo circostante, ed è alla base di ogni senso di identità. Dal punto di vista dello sviluppo emotivo, attraverso l’identificazione il bambino può acquistare una sicurezza emotiva che genera un senso di fiducia di base, cioè un senso di fondamentale fiducia in sé e nelle altre persone. Ciò dipende particolarmente dal rapporto che il piccolo instaura con la madre e dalla capacità di quest’ultima di identificarsi con lui e di rispondere adeguatamente ai suoi bisogni, sia con un atteggiamento di cura affettuosa sia con un senso di fiducia personale nel modo di vivere della comunità. Il rapporto che si instaura tra il piccolo e la madre forma la vera base del senso di identità, che porterà poi l’individuo a congiungere la convinzione di sentirsi se stesso con la capacità di diventare ciò che gli altri si aspettano che diventi. Tale fiducia di base rende inoltre il bambino capace di affrontare adeguatamente le frustrazioni che incontra. Le identificazioni con le altre persone di diverse età, all’interno del contesto sociale nel quale il bambino gradualmente si inserisce (ad es. nell’ambito scolastico), possono poi stimolare lo sviluppo della capacità di autonomia, di iniziativa e di industriosità, in quanto il piccolo si identifica con coloro che sono in grado di fare determinate cose e che occupano un ruolo significativo nel suo ambiente, orientando così le energie affettive di cui dispone verso l’apprendimento di un compito e l’acquisizione di un ruolo sociale (cfr. Erikson, 1968; Stevani - Diaz, 1992).
Il ruolo dell’imitazione nello sviluppo dell’identità personale Nella strutturazione dell’identità un ruolo molto importante è giocato, oltre che dai processi identificatori, dai processi di imitazione del modello. È attraverso entrambi questi processi, infatti, che i bambini acquisiscono molti schemi comportamentali dei genitori, nonché motivazioni, atteggiamenti e valori. L’imitazione rappresenta la «riproduzione conscia o inconscia di un modello comportamentale, che fa parte del processo di apprendimento del bambino. Nelle sue fasi più mature l’attività imitativa è motivata dalla simpatia e dall’interesse che l’oggetto imitato esercita sul soggetto. Quando alla mera riproduzione si accompagna una produzione originale, l’imitazione, avviandosi verso il superamento del modello, entra in nuova fase e diventa creativa ed artistica» (Galimberti, 1992, p. 459). È innanzitutto necessario precisare che i processi di identificazione non corrispondono a quelli di imitazione: ci possiamo identificare con uno stato d’animo o con un atteggiamento senza registrare quanto fatto nella nostra coscienza, mentre cerchiamo di imitare o riprodurre attivamente e deliberatamente certi atti che destano la nostra attenzione. I due processi possono comunque arrivare a integrarsi. L’attività imitativa, infatti, costituisce un fenomeno normale nello sviluppo del bambino, fa parte dell’apprendimento e partecipa della natura dei legami che si stabiliscono con gli oggetti dell’ambiente. In quanto tende a somigliare a tali oggetti, o a possederne le caratteristiche, questa giunge a costituire uno degli elementi che favoriranno l’identificazione (cfr. Marcia, 1982). Questi processi, inoltre, non hanno luogo solo all’interno delle relazioni adultobambino, ma anche in quelle bambinobambino, in quanto ad esempio un fratello o una sorella più grandi possono diventare importanti modelli da imitare e con i quali identificarsi. Nelle interazioni con fratelli
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e sorelle, infatti, i bambini apprendono modelli di lealtà, di protezione, ma anche di conflittualità, dominio e competizione, i quali vengono poi generalizzati ad altre relazioni sociali (cfr. Mussen et al., 1992). L’osservazione e l’imitazione di modelli adeguati, nonché le punizioni e i rinforzi ricevuti in relazione alla conformità o meno delle modalità comportamentali adottate rispetto al proprio sesso, determina, inoltre, lo sviluppo dell’identità di genere. L’osservazione e l’imitazione del modello è di particolare importanza anche per l’acquisizione di quello che Albert Bandura ha definito “senso di autoefficacia”, cioè le convinzioni del soggetto relative all’essere in grado di agire adeguatamente in specifiche situazioni, per raggiungere i fini prefissati. Tali convinzioni influenzano i pensieri, i sentimenti e le motivazioni personali. Il modellamento, o apprendimento osservativo, è, secondo Bandura, una tecnica efficace per promuovere il senso di autoefficacia. Il vedere persone simili che eseguono con successo determinate attività accresce, infatti, nell’osservatore la convinzione di possedere le capacità per compiere attività analoghe. Il modellamento non riguarda solo le competenze comportamentali e non è neanche riconducibile a un puro e semplice processo di imitazione, benché alcuni modelli particolarmente affermati in una cultura, e perciò altamente funzionali, possano essere riprodotti in modo sostanzialmente identico. In molte attività, infatti, le esperienze di modellamento trasmettono anche regole utili a generare comportamenti, condotte, atteggiamenti e modi di sentire innovativi rispetto al modello. In questo caso il soggetto non guarda semplicemente il modello, ma lo osserva con intenzionalità e consapevolezza al fine di acquisire le informazioni delle quali necessita (cfr. Bandura, 1997). Bandura sottolinea come gran parte del modellamento psicologico abbia luogo all’interno della rete di frequentazione quotidiana
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e quindi si realizzi nell’interazione sistematica con le figure significative; su di esso influiscono però anche quelle figure che hanno maggiore incidenza come modelli in quanto riconosciute come competenti o comunque come riferimenti autorevoli o desiderabili. È il caso, ad esempio, dei modelli offerti dai mass media (attori, personaggi dello sport o, più raramente, della cultura), i quali rappresentano degli standard socialmente ambiti in forza del successo ottenuto nella loro sfera di competenza, del potere che esercitano e dei valori o, più spesso, degli pseudovalori che veicolano. Nella quotidianità le persone che, per scelta o per costrizione, vengono più frequentemente avvicinate come modelli possono influire sul tipo di competenze, atteggiamenti e orientamenti motivazionali che l’individuo tenderà ad assumere, soprattutto se è molto giovane e quindi con una non ancora del tutto sviluppata capacità di critica e con una più accentuata dipendenza dai modelli che gli vengono offerti. Attraverso il modello l’individuo può vivere in maniera vicaria delle esperienze alle quali altrimenti non potrebbe accedere direttamente, o almeno non nel momento presente (ne può essere un esempio l’esperienza della maternità che la bambina riproduce nel gioco con determinati tipi di bambole, dopo averla osservata in una mamma). Lo stesso autore rileva che, alle tradizionali forme di modellamento veicolate da una comunità, si è aggiunto oggi il modellamento simbolico offerto in forme molteplici e diversificate dai media; ciò ha comportato un ampliamento considerevole della gamma di modelli ai quali l’individuo può fare riferimento, con conseguente possibilità di osservare repertori molto più ampi che in passato, di atteggiamenti, condotte, stili di competenze, mutuati non solo dalla propria cultura ma anche da altre (cfr. Bandura, 1997). Il fatto quindi che un individuo, anche se molto giovane, veda persone simili a lui realizzare i propri obiettivi attraverso l’impegno e l’azione, acuisce le sue convinzioni riguardo
il fatto di possedere le capacità adatte per riuscire in situazioni analoghe. Si cercano pertanto dei modelli che possiedano, o sembrino possedere, le competenze alle quali si aspira, per poter rispondere in modo appropriato alle richieste dell’ambiente. Si innescano così dei processi a livello cognitivo che portano il bambino a prefigurarsi degli scenari futuri, esplorati nell’immaginazione, per poi confrontare la percezione di sé e delle proprie capacità con gli standard personali di riferimento. Legando a tali standard il proprio soddisfacimento, gli individui tendono pertanto a stabilire una direzione al comportamento e a cercare incentivi che consentano loro di persistere in tale direzione. I processi cognitivi attraverso i quali le persone sono in grado di conoscere se stesse e il mondo, al fine di regolare il proprio comportamento, sono identificati in cinque capacità di base: • la capacità di simbolizzazione, che corrisponde alla capacità delle persone di rappresentare simbolicamente la conoscenza. Il linguaggio costituisce l’esempio più evidente della capacità cognitiva di ragionare usando simboli astratti; • la capacità vicaria, ovvero la capacità di acquisire conoscenze, abilità o competenze mediante l’osservazione o il modellamento di altre persone; • la capacità di anticipazione, ossia la capacità di anticipare eventi futuri, estremamente rilevante sia a livello emotivo sia motivazionale, in termini, per esempio, di timore degli eventi futuri; • la capacità di autoregolazione, che corrisponde alla capacità di stabilire obiettivi e di valutare le proprie azioni facendo riferimento a standard interni di prestazione; • la capacità di autoriflessione, che permette di riflettere in modo consapevole su se stessi. Queste capacità, pur essendo funzionalmente distinte, operano abitualmente in sinergia (cfr. Bandura, 1999).
L’incidenza dell’identificazione e dei contesti socio-culturali sullo sviluppo dell’identità di genere Lo studio sulla formazione dell’identità di genere è stato un oggetto di interesse da tempo e la riflessione al riguardo si è intensificata grazie agli apporti offerti dal movimento femminista e, più di recente, dalle iniziative volte a promuovere le pari opportunità (cfr. Torazza – Wrona, 1977). Il termine “genere” è stato introdotto negli anni ’80, con l’intenzione di mettere a fuoco le differenze di ruoli sociali di uomini e donne come meccanismi di distinzione che gli individui utilizzano per ordinare le relazioni e per definire i ruoli sociali, ossia la costellazione di norme circa i comportamenti, le attività e le aree di competenza culturalmente prescritti per maschi e femmine, a cui l’individuo aderirà in tutto o in parte e verso i quali avrà una preferenza o un orientamento (a livello cognitivo e sociale) (cfr. Sacchi, 2002). Il complicato intreccio degli aspetti psicosociali del ruolo femminile è radicato nella famiglia, all’interno della quale hanno luogo le prime relazioni affettive; queste influenzeranno profondamente lo sviluppo psicosociale della donna e la sua capacità di relazionarsi con l’altro. La costruzione dell’identità femminile parte principalmente dalla relazione con la madre, in quanto entrambe condividono il genere e l’identificazione nello stesso ruolo sociale (cfr. Arcidiacono, 1994).
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Per la bambina un elemento fondamentale per l’acquisizione dell’ identità di genere è la rappresentazione o costruzione cognitiva e affettiva del corpo all’interno della relazione madre/figlia, collocata nell’ambito di più ampie variabili a carattere affettivo e sociorelazionale. In tale contesto si innestano anche le aspettative e i desideri nei confronti del nascituro da parte della madre e del contesto sociale di appartenenza, nonché gli atteggiamenti consci e inconsci della madre verso la femminilità in genere, la propria e quella della figlia. Nel valutare la condizione femminile non si deve quindi considerare solamente l’effetto del determinismo sociale, in quanto lo sviluppo dell’identità di genere è dato dall’interazione di fattori psichici individuali con fattori legati al contesto sociale. Questo sviluppo si basa su disposizioni innate a livello cromosomico e ormonale, sull’esperienza del proprio corpo e le fantasie ad esso connesse, sull’influenza dei genitori, sui fattori cognitivi e di apprendimento durante la socializzazione primaria e sull’identificazione precoce con il genitore dello stesso sesso; a questo sviluppo concorrono quindi fattori biologici, ambientali e intrapsichici. Nell’acquisizione del senso di identità sessuale è importante il ruolo svolto dai genitori. Se la madre è inefficace come donna ed è svalorizzata dal marito, la bambina non trova un modello positivo di identificazione, in quanto la madre non è in grado di trasmettere fiducia e sicurezza alla figlia e può quindi portarla a sviluppare un senso di timore verso il rapporto con gli uomini. Tale timore può essere rafforzato anche dal padre, se questi trasmette alla figlia un sostegno incoerente misto ad ostilità. Un ruolo fondamentale nell’acquisizione dei caratteri adulti di donna (e ovviamente anche di uomo) è giocato, oltre che dai processi identificatori, anche dall’interiorizzazione e trasmissione delle rappresentazioni dell’altro sesso, veicolate dai genitori. Queste si manifestano nelle attribuzioni di valore a ciò che è maschile e femminile e portano alla costru-
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zione di una determinata immagine di donna (e di uomo). La bambina acquisisce una rappresentazione positiva o negativa del femminile, anche sulla base della considerazione del padre verso la madre e una rappresentazione positiva o negativa del maschile anche sulla base dell’esperienza di rapporto con la madre. Le modificazioni che l’identità e il ruolo femminile (e di conseguenza in parte anche quello maschile) hanno subito negli ultimi cinquanta anni del novecento e la partecipazione delle donne agli ambiti tradizionalmente di competenza maschile (politica, ricerca, ecc.), sono alcuni dei molteplici fattori che hanno comportato la presa di coscienza dell’importanza della questione del genere. Tali mutamenti hanno reso per molte adolescenti e giovani, più problematica l’assunzione di una propria identità sessuale. Esse infatti sperimentano il contrasto provocato dal rifiuto degli stereotipi sessuali tradizionali e dai modelli riduttivistici offerti dalla cultura dominante, che indicano gli uomini come competenti, razionali, assertivi, (assegnando quindi all’uomo un ruolo “strumentale”), e le donne come emotive ed espressive, empatiche, capaci di dedicarsi completamente agli altri (attribuendo alla donna un ruolo “espressivo”) (cfr. Seveso, 2002). È infatti sempre più visibile la minor accettazione degli stereotipi da parte delle donne, a iniziare dall’adolescenza, periodo in cui diminuisce sempre più vistosamente la preferenza per attività, comportamenti e professioni femminili e cresce l’interesse e l’identificazione con gli standard maschili. Ciò comporta tuttavia il rischio della svalutazione della sfera femminile, poiché l’identificazione con il ruolo maschile può avere come risultato la negazione della femminilità, in quanto la donna può orientarsi verso l’assunzione di modelli che non corrispondono al suo modo di pensare, sentire e agire. Sulla base dei risultati ottenuti con le principali scale di misura dell’identità di genere negli adulti, infatti, il maschio ideale e tipico viene descritto come un individuo indipendente,
attivo, competitivo, deciso, avventuroso, che non si arrende facilmente, che tollera bene le pressioni, che ha fiducia in sé, che non si eccita per un nonnulla, più estroverso delle femmine, ma anche aggressivo, egoista, ostile arrogante e cinico. La femmina ideale e tipica risulta, invece, tenera, consapevole dei sentimenti altrui, comprensiva, piena di tatto, gentile, creativa, assertiva, amante dei bambini, della musica e dell’arte, nonché servile, ma sottomessa, eccitabile, emotivamente vulnerabile, debole e aggressiva verbalmente. È quindi necessario favorire il superamento del modello maschile unilaterale di riferimento nello sviluppo umano e lasciare spazio ai “valori femminili” della cura, insieme, e non in contrapposizione, ai valori della razionalità e dell’autonomia (cfr. Schimmenti 1994). A partire dall’adolescenza può esserci congruenza o conflitto tra il ruolo sessuale, preferenza e orientamento affettivo di ruolo (cioè tra conoscenza del ruolo sessuale, preferenza e comportamento). È da notare, inoltre, come le identità si costruiscano all’interno di contesti sociali che si intersecano e sovrappongono, producendo percezioni, rappresentazioni di sé e comunicazioni interpersonali molteplici e a volte contraddittorie. Ciò è imputabile al fatto che le esperienze di vita femminili si costruiscono attualmente all’interno di molteplici traiettorie, per cui non è possibile definire l’identità secondo un modello lineare, ma si deve riconoscere l’intreccio indissolubile tra individuale e sociale, pubblico e privato, personale e professionale. Gli stereotipi, i mutamenti sociali e il processo di emancipazione femminile sembrano creare già dalla più tenera età delle contraddizioni a livello di vissuto, che si possono stabilizzare poi nelle donne adulte, le quali, nonostante una crescente sensibilizzazione a livello di idee, sperimentano sempre più spesso situazioni di insicurezza nella percezione dell’unità e continuità personale. Particolari tensioni, le cui premesse sono state poste già nella prima infanzia, sembrano emergere durante l’adolescenza
rispetto alle identificazioni con i genitori, all’accettazione della dimensione corporea e affettiva della sessualità e all’elaborazione dei ruoli sessuali, per effetto dell’identificazione con modelli di riferimento molteplici e a volte contraddittori, le cui rappresentazioni fanno appello agli pseudo-valori proposti dalla società attuale. Questi modelli possono creare un contrasto tra ciò che idealmente si desidera essere o divenire e ciò che si sperimenta nel contesto reale della propria vita, specialmente nella bambine le quali sono spesso le destinatarie dei messaggi attraverso i quali i mass media veicolano le rappresentazioni del femminile, ad esempio attraverso le pubblicità di giocattoli e di abbigliamento (cfr. Del Bruno, 2002). Dall’iniziale identificazione con modelli particolari del femminile, come ad esempio la figura materna, la bambina estende tali identificazioni al repertorio dei modelli offerti dalla società, ai quali si collega un determinato complesso di credenze, opinioni e comportamenti. Attraverso l’identificazione si realizza quindi l’adattamento con il contesto socio-culturale di appartenenza, del quale si accettano i valori anteriormente e indipendentemente da ogni motivazione razionale (cfr. Olivetti Belardinelli, 1971). Conclusioni Nel corso di questa pur breve trattazione abbiamo visto come l’identità personale si sviluppi in base al’interazione di fattori personali e sociali. Nella sua strutturazione un’importanza fondamentale è rivestita dall’identificazione con la madre e con le figure significative, che possono aiutare il soggetto in via di sviluppo a definire due componenti essenziali dell’identità personale stessa, quali l’identità di genere e l’identità sessuale. L’identificazione si configura quindi come un meccanismo fondamentale ai fini dell’acquisizione del senso di identità; accanto a tale meccanismo va riconosciuta l’influenza esercitata dai processi imitatori, che, a differenza di quelli iden-
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tificatori, sono solitamente coscienti e non richiedono la presenza di un coinvolgimento emotivo. L’identificazione e l’imitazione portano allo sviluppo e al consolidamento del senso di identità femminile, che dipende sia dalla qualità del rapporto con la madre e dal valore che i genitori attribuiscono alla femminilità, sia dagli stereotipi sociali. Questi ultimi penetrano nel mondo infantile attraverso le rappresentazioni veicolate da determinati tipi di giocattoli, come ad esempio le bambole, la cui influenza sulla costruzione dell’identità femminile sarà oggetto di trattazione nel prossimo contributo. Rifermenti Bibliografici: ARCIDIACONO C. (a cura di), Identità genere differenza. Lo sviluppo psichico femminile nella psicologia e nella psicoanalisi, Milano, Franco Angeli, 1991; BANDURA A. (a cura di), Il senso di autoefficacia, Trento, Erikson, 1995; BODOLATO G – COLLODI P, Identità femminile e lavoro di cura, Arcidiacono C. (a cura di), “Identità genere differenza. Lo sviluppo psichico femminile nella psicologia e nella psicoanalisi”, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 49-54; BOSCOLO P., Psicologia dell’appendimento scolastico, Torino, UTET, 1986; BRAIDOTTI R., Il contributo del “genere” alla questione “donne educazione e scienza”, in Vinella M. (a cura di), “Identità di genere e immagine femminile. Teorie e pratiche”, Bari,Progedit, 2000; CAPRARA G. V., L’efficacia collettiva, «Psicologia contenporanea», 159, maggio-giugno 2000, p. 34-39; DALLA VOLTA A., Dizionario di Psicologia, Firenze, Giunti-Barbera, 1974; DEL BRUNO M.R. (a cura di), Sguardi di genere tra identità e culture. Dispositivi per l’educazione interculturale, Milano, Franco Angeli 2002, p.41; DELLAGIULIA A. – GAMBINI P., Influenza delle relazioni familiari sull’avvio della costruzione dell’identità, «Orientamenti pedagogici »,in Orientamenti pedagogici 52 (2005) 6; ERIKSON E.H., Gioventù e crisi di identità [Identity Youth and crisis, Norton & Company, New York,
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«Mi metto nei tuoi panni» Il valore dell’empatia nelle relazioni interpersonali
di Francesca Giangregorio Premessa L’attenzione che la pedagogia contemporanea riserva all’educazione affettiva è dimostrata dai molteplici studi che hanno focalizzato l’attenzione sulla necessità sociale di promuovere e incrementare situazioni capaci di favorire un clima propositivo, accogliente, supportivo, atto a sostenere lo sviluppo e la promozione della persona nei diversi contesti di vita: famiglia, scuola, lavoro, sport, gruppi associativi, reti di relazioni anche telematiche. Ribadire il ruolo che svolge la componente affettiva della relazione educativa «porta a considerare che l’atto educativo è atto “totale” cioè che coinvolge tutta la persona – intelligenza e volontà, relazionalità e affettività» (Mari, 2010). L’empatia è sicuramente uno dei fattori più importanti nella costruzione della competenza emotiva e affettiva; tuttavia, nonostante il riconoscimento della sua centralità nella vita dell’uomo e nel suo percorso educativo-formativo intorno a questo termine permangono ancora delle ambiguità o delle incertezze, forse dovute proprio al fatto che è una parola che interroga in primo luogo chi
ha responsabilità educative. L’interesse per questa capacità, al quale si accompagna il riconoscimento della reciprocità nella relazione educativa come nelle altre relazioni umane, pur essendo molto attuale non è certo nuovo nella riflessione pedagogica e filosofica, come testimoniano efficacemente le parole di Edith Stein di seguito riportate: Per capire a fondo l’essenza dell’atto empatico, facciamo questo esempio: un amico viene da me e mi dice di aver perduto un fratello ed io mi rendo conto del suo dolore. Che cos’è questo rendersi conto? Su che cosa invece esso si basi, donde so di questo dolore, di ciò non vorrei qui trattare. Forse giungo a saperlo attraverso la percezione del suo volto pallido e sofferente, della sua voce sommessa o quasi afona, forse ancora attraverso le parole con cui egli si esprime: su tali argomenti posso ovviamente avviare delle indagini, tuttavia di essi non mi interessa qui parlare. Quel che invece vorrei sapere è cosa sia di per sé tale rendersi conto e non attraverso quali vie sia possibile giungere ad esso (Stein, 1985, p. 71-72). Per valorizzare la possibilità di conoscere l’altro e di entrare in relazione insita nella capacità empatica e forse opportuno dedicare un po’ di spazio alle esplicitazione delle caratteristiche dell’empatia e del suo significato nella vita personale e sociale. Le caratteristiche dell’empatia L’empatia, ovvero il sentire dentro, è un’esperienza individuale e intersoggettiva che si origina dall’azione integrata della sfera emotivoaffettiva e della sfera cognitiva di ciascuno, per effetto della quale una persona è in grado di comprendere e condividere lo stato emotivo dell’altro partecipandovi come se fosse proprio. Si tratta quindi di un vissuto che investe la persona totale e che implica la presenza di una concordanza affettiva (affect match) tra due o più individui, fondata su una condivi-
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sione di tipo vicario, cioè sulla consapevolezza che l’emozione condivisa è una derivazione di quella sperimentata dall’altro. L’empatia si configura dunque come risposta affettiva conforme alla situazione che ha generato l’interazione empatica – cognitivamente mediata dalla percezione dello stato emotivo altrui. In altri termini si può dire che l’empatia è «una risposta emotiva che è provocata dallo stato emotivo o dalla condizione di un’altra persona, e che è congruente con lo stato emotivo o la situazione dell’altro» (Eisenberg-Strayer, 1987, p.5). Tuttavia è opportuno precisare che il comportamento empatico - ovvero l’azione concreta che segue alla corretta decodifica della domanda emozionale (bisogno emozionale) espressa dal proprio interlocutore - non può prescindere dalla presenza di una motivazione intrinseca (come ad esempio la motivazione all’aiuto), in grado di supportare il processo di empatizzazione. L’empatia infatti si sostanzia sia di gradi diversi di attivazione - e dunque di coinvolgimento nello stato emotivo dell’altro - sia di differenti tipologie e livelli di mediazione cognitiva, da cui derivano molteplici gradi di differenzione tra il Sè e l’atro da Sè. Questa constatazione mette in rilievo come non esista un solo tipo di empatia ma si possa parlare di empatie o forme di empatia. Questa pluralità trova la propria origine tanto nelle esperienze affettive pregresse delle persone coinvolte nell’interazione empatica quanto nelle caratteristiche della situazione nella quale si agisce. Le diverse empatie si generano dalla interconnessione di molteplici fattori, quali: • • • • •
la consapevolezza dei confini del proprio sé; l’accoglimento emotivo dell’altro; le cognizioni e gli affetti; le rielaborazioni di vissuti personali; i sentimenti sociali.
Dal diverso intrecciarsi di tali fattori possono strutturarsi fenomeni di condivisione affettiva
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cognitivamente mediata distinti e non assimilabili, come: il role taking, la simpatia, il disagio personale e il contagio emotivo. Per role taking, o assunzione di ruolo, si intende la capacità di immedesimarti nell’altro assumendone il ruolo; questa si compone di tre dimensioni • emotiva, che è responsabile del riconoscimento dello stato emotivo altrui e del rispondervi in maniera appropriata. Può essere paragonata a una preoccupazione empatica; • cognitiva, che consiste nel porsi nella situazione dell’interlocutore abbandonando il proprio punto di vista e tentando di comprenderne pensieri e stati interni; • percettiva, intesa come l’abilità di produrre inferenze su come un dato stimolo (fatto, persona, situazione ecc.) o un insieme di stimoli è visto dall’altro. Sostanzialmente, il role taking è un’esperienza mentale che si configura come una forma di osservazione delle definizioni che l’altro attribuisce al proprio Sè, al proprio stato emotivo e alla situazione contingente nella quale si trova ad agire. La simpatia, che può essere definita come un sentire per, è una risposta affettiva caratterizzata dalla necessità di agire con urgenza in favore della persona verso cui si prova interesse, sollecitudine, preoccupazione o dispiacere. Si tratta, in altri termini, di una forma di apprensione - più che di immedesimazione - per lo stato emotivo o situazionale esperito da terzi. Contrariamente all’empatia, la risposta simpatetica è imperniata su un’emozione non necessariamente simile a quella vissuta dal proprio interlocutore. Il disagio personale, o personal distress, identifica uno stato emotivo negativo (come l’ansia) che ingenera una reazione o una preoccupazione egoistica orientata al proprio Sé. Ciò che si profila è dunque un sentimento involontario, che si manifesta nel momento in cui il sentimento che l’osservatore condivide con il proprio interlocutore diviene così carico di dolore
da risultare intollerabile al punto di provocare un allentamento dalla situazione di interazione interpersonale; in questo caso, l’aiuto offerto e profuso all’altro potrebbe essere il risultato tanto della motivazione all’autopresentazione quanto del legame affettivo instaurato con la persona in stato di bisogno. Il contagio emotivo si configura come una risposta emotiva immediata e automatica, priva di mediazione cognitiva, per effetto della quale l’emozione è condivisa in modo diretto e non vicario. Questa indifferenziazione tra il Sè e l’altro da Sè, priva di consapevolezza, è tipica delle prime fasi dello sviluppo psicologico e può essere considerata l’antecedente emotigeno della trasmissione delle emozione stesse. Da quanto detto emerge come l’empatia sia supportata - in base ai livelli di sviluppo individuale - da processi di mentalizzazione, cioè dalla capacità di cogliere i moltepliciti aspetti dell’interazione interpersonale attraverso la focalizzazione sulle credenze, sugli stati mentali, sulle intenzioni e sui comportamenti che attivano la comunicazione umana e tali per cui è possibile elaborare un’immagine coerente di sè stessi e degli altri. In altre parole, la mentalizzazione è una capacità complessa che si pone alla base della relazione intersoggettive e quindi del legame con l’altro; questa implica da un lato l’atto del pen-
sare affetti ed emozioni, dall’altro la capacità e la disponibilità di sentire i pensieri. La comprensione e l’interpretazione degli stati mentali è un processo che ha dunque come risultato una meta rappresentazione dell’altro; questa non può prescindere dalla consapevolezza del proprio Sè, intesa come il saper prefigurare la rappresentazione che l’altro ha di noi stessi e di agire di conseguenza; in sintesi, mentalizzare significa fare ricorso alla funzione riflessiva e autoriflessiva. L’empatia, così come presentata, è dunque un luogo, ovvero uno spazio concettuale che ha sede nell’individuo stesso, nel quale avviene l’elaborazione del Sè in rapporto con l’altro, nel quale si struttura cioè l’intersoggettività. Si tratta di un incontro affettivo-mentale che travalica la prossimità fisica (la relazione empatica infatti si struttura anche a distanza attraverso, ad esempio, il medium della scrittura) e che si esplica nel rendersi conto dell’altro attraverso la comprensione degli stati emotivoaffettivi, cognitivi e - se possibile - fisici che gli sono propri. La consapevolezza dell’intersoggettività - e del legame relazione che da questa deriva fonda il valore dell’individuo come persona, cioè come un essere in grado di riconoscere il proprio valore intrinseco, il valore dell’altro, e il valore del proprio Sè in relazione e all’altro da Sè.
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La relazione empatica come esperienza autentica La relazione empatica è un’esperienza autentica, fondata tanto sulla realtà oggettuale quanto sulla risonanza interna che tale realtà evoca. Tale relazione procede attraverso tre gradi di analisi dell’interazione comunicativa, quali: l’emersione del vissuto, l’esplicitazione riempiente e l’oggettivazione comprensiva del vissuto esplicitato (cfr. Stein,1985). Ciascuno si caratterizza come segue: • l’emersione del vissuto identifica l’atto di osservare con estrema attenzione i segni o i segnali che le emozioni imprimono sul corpo del proprio interlocutore o che trapelano dal medium usato per comunicare. Questo riconoscimento è di tipo prettamente cognitivo e rappresenta il primo livello dell’esperienza dell’incontro interpersonale; • l’esplicitazione riempiente indica la possibilità di vivere in modo vicario l’esperienza del proprio interlocutore; in questa fase la fantasia e l’immaginario, così come la memoria e il ricordo, permettono l’emergere di emozioni e sentimenti rispondenti a quelli provati dall’altro. In altre parole, l’esperienza dell’osservato è colta attraverso il ricorso (e il paragone) all’esperienza pregressa dell’osservatore; ciò implica un’apertura di pensiero che si configura come «un atto che è originario in quanto vissuto presente, mentre è non-originario per il suo contenuto. E tale contenuto è un vissuto che come tale può attuarsi in molteplici modi, come avviene nella forma del ricordo, dell’attesa, della fantasia. Nell’istante in cui il vissuto emerge improvvisamente dinanzi a me, io l’ho dinanzi come Oggetto (ad esempio, l’espressione di dolore che riesco a “leggere nel volto di un altro); mentre però mi rivolgo alle tendenze in esso implicite e cerco di portare a datità più chiara lo stato d’animo in cui l’altro si trova, quel vissuto non è più Oggetto nel vero senso della parola, dal momento che mi ha attratto dentro di sé, per cui adesso io non sono più rivolto al suo Oggetto, lo stato d’animo altrui, e sono presso il Soggetto, a suo posto» (Stein E.,1985, p. 77-78);
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• l’oggettivazione comprensiva del vissuto esplicitato coincide con la comunicazione empatica vera e propria e si ha quando l’osservatore perviene a una nuova visione prospettica della situazione emozionale che lo ha investito. In questa fase, il Sè è realmente in grado di condividere il vissuto emotivo dell’altro e, se necessario, di prestare aiuto e svolgere quindi una funzione supportiva. Questo percorso - che si verifica in ogni relazione sociale e che ha luogo per tutto il corso della vita - mostra come l’empatia, coinvolgendo la persona in tutta le sue dimensioni, si strutturi all’interno delle dinamiche della cura, intesa come orientamento all’altro e ai suoi bisogni in termini di: attenzione, responsabilità, competenza e reattività. L’attenzione si configura come un a-tendere, cioè come una forma di concentrazione - definibile come passività attentiva - finalizzata a cogliere i segnali provenienti dall’altro e a predisporre all’ascolto, e dunque all’intersoggettività. La responsabilità consiste nell’accogliere e nell’accettare l’altro rispondendo con sollecitudine ai suoi bisogni. La competenza si sostanzia del sapere riflessivo e del pensare riflessivo, e indica il modo attraverso cui si concretizza l’intenzione della cura; colui che emette l’azione deve essere in grado autovalutare se gli atti intrapresi sono realmente in grado di produrre il benessere dell’altro. In questa sede è tuttavia opportuno precisare che la cura dell’altro non può prescindere dalla cura del proprio Sè, ovvero dalla presa di contatto con la propria sfera emotivo-affettiva e razionale, e dalla costruzione di un dialogo interno funzionale tra questi due poli. In questo senso prendersi cura di sé e dell’altro significa anche tutelare la propria persona di fronte a interazioni comunicative che, per loro determinate caratteristiche, sono avvertite come emotivamente minacciose. L’accettazione dell’altro e l’esperienza di condivisione che con questi si instaura non richiede infatti il sacrificio del proprio Sè ma la presa di coscienza del segno (positivo o negativo) assunto dalla risonanza interna che ogni relazione interpersonale provoca.
In definita è possibile affermare che l’empatia è un’esperienza che restituisce il valore ontologico della persona umana e che si pone alla base di uno sviluppo integrato e costante del Sé, che investe l’ intero arco di vita della persona.
e costruttiva alla vita della collettività, che faccia argine a fenomeni allarmanti, quali ad esempio il bullismo nella scuola, il mobbing nel lavoro, lo stalking sempre più diffuso, tutti fenomeni i cui costi sociali altissimi sono tristemente noti.
Conclusioni L’empatia, per il suo essere una capacità fondamentale nella costruzione di relazioni interpersonali positive, costituisce una risorsa che deve essere educata attraverso atti di cura. Questi possono prescindere da una intenzionalità pedagogica e formativa specifica, in grado di promuovere e sviluppare una consapevolezza emotiva matura. Di qui l’opportunità di pensare a progetti educativi mirati a favorire lo sviluppo della competenza affettiva che, procedendo dall’empatizzazione fino alla partecipazione sociale consapevole e propositiva (anche in un microcosmo sociale come può essere la classe scolastica), permettano lo strutturarsi di un curriculum di abilità cognitivo-affettive trasversale rispetto agli ambienti di vita e alle dinamiche di ruolo, soprattutto se si considera l’empatia come una componente funzionale allo svolgimento del lavoro. Se la famiglia e la scuola sono i primo ambienti in cui agire per lo sviluppo dell’empatia e l’età evolutiva un periodo aureo per la costruzione della persona nelle sue diverse dimensioni, occorre non dimenticare che la possibilità di miglioramento connessa all’apprendimento –o al riapprendimento- dei repertori di competenze carenti è una possibilità che non esclude il mondo adulto, ma anzi ne sollecita la riflessione per la realizzazione di una partecipazione piena
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Recensione al testo di Benedetta Cosmi “Comunicare A scuola. Con Amici”
di Imma Lazzaro Benedetta Cosmi, già autrice di “Non siamo figli contro-figure”, si cimenta, questa volta, nell’arduo compito di analisi del sistema scuola con il saggio “Comunicare. A scuola. Con Amici”. La sua, non è una semplice visione offerta da chi della sociologia ne ha fatto una professione, ma è una attenta messa in discussione di pilastri ormai da rifare, a partire dalle fondamenta. Se invochiamo i nostri ricordi scolastici ci verranno in mente i voti, le pagelle, le interrogazioni, il compito
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in classe, i colloqui con i genitori, i compiti a casa, il prof. di matematica con le sue manie, piuttosto che la prof. di inglese con i suoi ritardi. Nulla ha a che vedere con lo studio e l’apprendimento. Eppure si parla di scuola. L’autrice, la smonta dei suoi pezzi, la riformula, la svecchia, cercando di cogliere il senso, quello vero, dello studio. Attraverso puntuali rimandi agli scritti dell’intellettuale e politico Guido Calogero e all’esempio di Don Lorenzo Milani, Benedetta Cosmi spiega cosa non funziona nella scuola di oggi, offrendo degli interessanti spunti di riflessione, senza dubbio fonti di audaci, ma significative soluzioni. Basta alle interrogazioni a mo’ di inquisizione «se lo scopo della scuola non è che gli allievi studino bensì che imparino», ben vengano le valutazioni quando queste sono in grado di orientare, non disorientare o creare ansie per niente utili allo studio. Quello vero. Benvenuto anche all’ e-learning, se questo è in grado di colmare la distanza tra alunni sempre più confusi e docenti sempre più concentrati su loro stessi e sul loro libro di testo. L’autrice auspica ad una netta apertura del sistema scuola all’innovazione tecnologica, una innovazione che è in grado di favorire la comunicazione (comunione) tra docenti e studenti e spostare il centro dell’apprendimento verso questi ultimi che devono essere messi nelle condizioni di sporcarsi le mani “di studio”. Si può davvero pensare ad una scuola che smetta di parlare solo di se stessa e che inizi a dialogare con studenti attivi? Benedetta Cosmi in questo libro suggerisce la strada giusta. Sta ora alla scuola percorrerla.
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