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ISSN: 2038-3282

Anno III Numero 3 - Luglio 2011


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EDITORIALE 04

Università: riforma con assenze importanti, progetto e visione di Stefania Nirchi

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Ospite Scientifico Prof.ssa Savina Cellamare INVALSI Scelte strategiche tra etica e politica Promuovere la prosocialità lungo l’arco di vita. Il ruolo della agenzie educative Parte quarta. L’apporto della famiglia

RUBRICHE TRAMA

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Nuovi orizzonti del Collaborative learning nell’era del Web 2.0 di Roberto Orazi

SIPARIO

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Aggressione, violenza, abuso. La risposta della pedagogia dell’emergenza. Parte seconda. Le convinzioni di senso comune di Francesca Giangregorio

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Ri-scoprire l’ascolto di Agnese Rosati

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Comunicare è sedurre. Parte seconda di Massimiliano Cavallo (1)

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Il Pensiero di Jacques Maritain di M. Gioia Pierrotti

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Comprendere il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività. Parte quinta: l’intervento multimodale. La terapia farmacologica e il percorso individuale cognitivo comportamentale per il bambino con DDAI di Alessia Giangregorio

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Orientation and transition into university courses A case study di Stefania Capogna (2)

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Dalla metodologia al disegno metodologico: un risultato empirico di Roberto Melchiori

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Università: riforma con assenze importanti, progetto e visione di Stefania Nirchi Se è vero che parlare d’Istruzione vuol dire parlare del futuro che ci aspettiamo, non potevamo in questo editoriale pre-estivo non aprire ad alcune considerazioni in merito al destino che quest’anno è toccato alle Università italiane attraverso una riforma che ha minato le loro fondamenta portandoci ad interrogare da più parti su quali saranno le conseguenze per le generazioni future e non solo. La legge 240 sull’Università appare infatti come l’atto estremo di un processo eutanasico che nel corso degli anni ha in modo trasversale compromesso irreversibilmente il sistema della ricerca e dell’alta formazione in Italia; un sistema da tempo malato, afflitto da segni evidenti di smarrimento e demotivazione e che non può ottenere benefici da una legge di riforma che preclude qualsivoglia processo virtuoso. Infatti non si sono fatti attendere alcuni primi esiti: molti ricercatori sono migrati verso altri lidi, lasciando l’Accademia per seguire diversi e più vantaggiosi percorsi lavorativi. Senza dimenticare gli innumerevoli precari che in questi giorni stanno subendo un lento e silenzioso licenziamento di massa sotto la veste morbida della mancata riconferma dei contratti e delle borse. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dai docenti più avanti con gli anni che vivono nell’attesa di un pensionamento spesso molto vicino, a causa dell’età media inaccettabilmente

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alta del nostro corpo docente. Infatti, propagandata come legge anti-baroni, la riforma Gelmini in realtà si accanisce esclusivamente sugli anelli più deboli della catena (ricercatori e precari), aumentando a dismisura il potere dei più forti (professori ordinari e rettori). Non ci si può nascondere che di una riforma si sentisse un bisogno stringente, date le condizioni in cui versa l’Università. Da tempo l’alta formazione pubblica italiana vive uno stato di malessere generale in cui c’è l’urgenza di riportarla al suo fine originario, essere un sistema davvero competitivo e in grado di selezionare la classe dirigente del futuro, riuscendo anche a competere con le altre Università straniere. Il prodotto realizzato, invece, è l’ennesima riforma “a costo zero” il cui unico obiettivo sembra essere quello di mascherare un enorme “taglio lineare”. Non c’è neanche l’ombra di progetto e sviluppo del domani, e dunque tutto porta a pensare che assisteremo quanto prima ad un collasso dell’intero sistema dell’istruzione. Non possiamo neanche sperare che l’aiuto ci arrivi, come del resto è sempre stato, dai più colpiti dalla riforma, i ricercatori e precari. Sono stati questi ultimi, infatti, che per anni, anche se pagati per svolgere esclusivamente ricerca, hanno invece sostituito il professore


di turno in compiti di “supplenza” volontaria e non retribuita nei corsi, sperando che questo potesse aprire loro la strada ad un avanzamento di carriera che invece oggi è stato definitivamente precluso. Con la nuova riforma è previsto un riconoscimento economico, ma nel rispetto del bilancio di Atenei già economicamente compromessi. Se i ricercatori manterranno la linea dura di centellinare la loro disponibilità, come appare dalle continue discese in piazza, molti corsi dovranno chiudere, a prescindere dal loro valore scientifico. Ai concorsi la riforma ha ritenuto di dare una facciata di novità rispetto al passato propagandando un nuovo meccanismo nazionale di valutazione comparativa in grado di ridurre il potere delle baronie locali. Ma l’effetto è stato esattamente l’opposto, si è contribuito a blindare il localismo universitario, basti pensare alle abilitazioni nazionali che sulla base della legge 240 faranno riferimento comunque ad una “chiamata locale”, chiamata, che avverrà senza alcun meccanismo di valutazione oggettiva che la giustifichi. Il leitmotiv continua pertanto ad essere lo stesso: un processo di conservazione dominante nel realizzare un assetto di governance a garanzia dei gruppi accademici e degli assetti esistenti. L’aspetto positivo che molti hanno sottolineato durante il travagliato iter legislativo è l’introduzione del meccanismo della tenure track

americana. Ovvero, il ricercatore assunto a tempo determinato può essere riconfermato una sola volta per poi diventare, se abilitato, automaticamente associato. In caso contrario, andrebbe a casa. Il meccanismo è corretto, ma se non opportunamente finanziato, rischia di lasciare a casa migliaia di ricercatori per motivi economici e non meritocratici. Si sono spesi fiumi di parole a sostegno di una norma anti-parentopoli che prevede che il figlio del professore non possa essere chiamato nello stesso dipartimento del padre, salvo poi trovare normale il caso in cui a chiamarlo è il collega di un altro dipartimento dello stesso Ateneo. Come dire, è eticamente corretto, basta spostarsi una porta più in là, non importa se sullo stesso corridoio. Una riforma sana dovrebbe lavorare allora ad un cambiamento sia da un punto di vista macro che micro. A livello “macro” c’è l’esigenza di avere una classe dirigente capace di progettualità, mentre a livello micro c’è bisogno di intellettuali all’altezza dei compiti loro affidati e dei ruoli ricoperti. Che cosa non convince allora in tal senso? Che ci si adopera solo a livello intermedio, quello nel quale solitamente si gioca la dimensione del potere accademico per il controllo delle risorse universitarie. Dato lo stato dell’arte l’augurio che possiamo fare a noi e soprattutto alle nuove generazioni è quello di riappropriarci di un’Istruzione diversa, capace di rendere i processi organizzativi più efficienti e valutabili: in particolare, l’organizzazione della ricerca e la sua produttività, la qualità dell’offerta formativa, la qualità di un reclutamento universitario che sia realmente meritocratico, la qualità e la quantità dei rapporti con il territorio e l’internazionalizzazione. Se questi saranno gli obiettivi futuri e l’interesse di tutti, la fase di smarrimento finirà e si potrà tornare a fare ricerca con la passione che serve, per un progetto e con una visione.

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Promuovere la prosocialità lungo l’arco di vita. Il ruolo della agenzie educative Parte quarta. L’apporto della famiglia

Prof.ssa Savina Cellamare INVALSI Premessa Come si è visto nel terzo degli articoli dedicati a questo tema (qtimes, 2, 2011), la prosocialità ha conquistato uno spazio sempre più importante nei curricoli scolastici, a partire dalla scuola dell’infanzia. Ciò non deve tuttavia portare a pensare questo repertorio di competenze come finalizzato solo alla prevenzione di condotte e atteggiamenti socio- relazionali non adattivi o disadattivi. L’educazione prosociale infatti va oltre l’aspetto sia preventivo sia retroattivo, di “cura”, che, pure in modi diversi, rimandano a una visione “rimediativa” della prosocialità, la cui caratteristica distintiva risiede invece nella sua pro attività. Questo termine indica la disposizione ad affrontare consapevolmente e costruttivamente

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situazioni e problemi per realizzare delle azioni e conseguire degli obiettivi dei quali si è colta la necessità in una data situazione, agendo intenzionalmente per raggiungere ciò che è giusto e necessario rispetto alle esigenze di quel contesto. È ovvio che la costruzione di una modalità di interazione sociale così caratterizzata non può essere demandata solo all’educazione formale della scuola, ma chiama in causa la capacità della famiglia di essere portatrice di valori, comportamenti e di atteggiamenti prosociali attraverso i modelli che quotidianamente offre all’osservazione dei figli. Poiché i genitori, diversamente dagli insegnanti, sono “professionisti” dell’educazione inconsapevoli, in quanto costruiscono le loro competenze di ruolo mentre vivono l’esperienza delle genitorialità, riproducendo inevitabilmente modelli e convinzioni culturali, parlare di famiglia che educa alla prosocialità vuol dire anche educare la famiglia stessa a essere agente di educazione prosociale, ovvero a riposizionarsi consapevolmente nella rete educativa che circonda un figlio. È evidentemente un cambiamento culturale di grande interesse, che si accompagna alla crescente esigenza di educazione alla genitorialità messa in luce dalla ricerca psicologica e pedagogica a partire dagli anni Ottanta (cfr. Fabio, 2003; Cambi et all., 2003; Pourtois – Desmet, 1994). La famiglia supportiva Il sistema familiare svolge un ruolo cruciale e insostituibile per la crescita e lo sviluppo psicosociale di tutti i suoi componenti. È infatti nelle situazioni affettivamente ed emotivamente pregnanti per la persona, giovane o adulta, che le capacità interpersonali e sociali trovano occasione di sperimentarsi. La famiglia è quindi il primo banco di prova sul quale un bambino apprende a esercitare la capacità di comunicare e condividere emozioni e affetti positivi, come la gioia e la soddisfazione per un successo conseguito, ma nel quale può anche trovare spazio per affrontare e superare momenti di difficoltà


ed emozioni negative, come la tristezza, la collera, l’incertezza (cfr. Caprara, 2001). Inoltre, è all’interno della famiglia, «con le sue interazioni intime e i suoi profondi legami emotivi, che i bambini possono imparare ad accettare la disciplina e a interiorizzare gli standard di comportamento» (Csikszentmihalyi – Schneider, 2000, p. 111). Come mostrano le ricerche in campo educativo, le caratteristiche della famiglia e particolare lo stile educativo attraverso il quale i genitori impostano la relazione con i figli, è fortemente collegato con il successo che questi sono capaci di raggiungere sia a scuola sia nelle situazioni extrascolastiche, cioè nei gruppi formali e informali ai quali partecipano. Inoltre, l’azione supportiva della famiglia non si limita all’età evolutiva né si esaurisce con questa, ma si irradia con effetti di lungo termine nella vita di una persona, influenzandone anche da adulto la capacità di scelta autonoma e consapevole, come pure la disponibilità a impegnarsi in un progetto di vita. Anche se certamente l’influenza familiare non è l’unica alla quale una persona è sottoposta (si pensi al ruolo della scuola o degli amici), è tuttavia innegabile che il modo di interpretare le circostanze, gli eventi, i compiti da affrontare, gli impegni con i quali misurarsi, prende forma all’interno della famiglia, il primo ambiente nel quale un bambino scopre e sperimenta la propria identità, identifica il proprio ruolo, coordinata la propria individualità con l’individualità degli altri. Quando si parla del sostegno che la famiglia offre a un figlio non si fa riferimento solo alla sensibilità dei genitori verso di lui, ma anche alla sensibilità e all’attenzione che l’intera unità familiare e capace di esprimere. In una famiglia che favorisce e incoraggia l’autonomia e l’autocontrollo un figlio si sente a proprio agio, poiché si percepisce come amato e considerato nel suo essere persona. Tale condizione è fondamentale perché le transizioni di vita, che implicano spesso la revisione dei propri centri di interesse, dei propri progetti e obiettivi, siano affrontate come sfide ottimali e

non come possibili insuccessi o, peggio, come perdite irreparabili. Questo approccio propositivo non si riferisce solo ai progetti personali, ma diventa un modo di interpretare il proprio essere in relazione, e quindi anche la disponibilità all’azione prosociale, della cui dinamicità si è già parlato nei precedenti contributi. Benché la promozione del figlio-persona, del suo benessere personale e sociale, sia un obiettivo educativo presente nelle intenzioni di ogni genitore, vi sono dei fattori che posso sfuggire alla consapevolezza e che possono minare pericolosamente la qualità di vita della famiglia e dei singoli componenti, con ripercussioni e costi sociali che meritano un’attenta riflessione. Gli stili educativi disfunzionanti Nell’intervento dedicato alle variabili psicologiche e hai fattori educativi che possono favorire od ostacolare lo sviluppo delle competenze prosociali è stata già messa in evidenza la pericolosità di una gestione incoerente dell’interazione tra adulto e bambino (cfr. qtimes, 1, 2011). Lo stile incoerente non è tuttavia l’unica fonte di disfunzionalità che può ripercuotersi negativamente sulla strutturazione di tali competenze, e più in generale su un adeguato senso di autoefficacia personale e sociale. Si possono individuare altri quattro stili educativi che sicuramente sono antitetici alla promozione delle persona nella sua globalità: iperprottettivo, iperansioso, ipercritico, perfezionistico. Il confine tra questi stili e spesso molto sfumato, tanto da renderne a volte difficile l’individuazione; tuttavia ciascuno ha delle caratteristiche peculiari, che determinano il tipo di ripercussione che a breve o lungo termine possono aver sulla capacità del figlio di avere comportamenti e atteggiamenti prosociali. Il genitore iperprottettivo (Figura 1) si contraddistingue per la costante preoccupazione di evitare al figlio qualunque occasione di sofferenza, anche lieve. Nell’ansia di rassicuralo continuativamente, spesso con manifestazioni

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di affetto eccessive, finisce con il rinforzare anche insicurezze e paure, alimentate dalla mancanza di un confronto costruttivo con situazioni nelle quali il figlio possa sperimentarsi come persona autoefficace, convinta della propria capacità di agire adeguatamente in una situazione e di poterlo fare con un buon risultato. Questo vale per ogni ambiente con cui il bambino/ragazzo interagisce: scuola, gruppi organizzati (di volontariato o sportivi), gruppi spontanei che si costituiscono per un breve periodo, come può avvenire nel corso di una festa, o anche nel rapporto con singole persone.

Figura 1 Caratteristiche dello stile iperprotettivo

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Se il genitore iperprotettivo è timoroso dei rischi che un figlio può correre, il genitore iperansioso è vittima di una costante paura di tutto ciò che lo circonda e anche di quello che prefigura potrebbe accadere, indipendentemente dalla effettiva consistenza dei rischi paventati. Per questo invia al figlio continui messaggi di allarme, con il risultato poco esaltante di contribuire a formare una persona insicura, poco motivata ai rapporti sociali, a volte anche all’interno della stessa cerchia familiare o amicale, e con un concetto di sé e un’autostima molto bassi (Figura 2).


Figura 2 Caratteristiche dello stile iperansioso

Non meno deleterio è il genitore che esibisce uno stile educativo ipercritico, che esprime attraverso manifestazioni frequenti, quando non sistematiche, di critica, formulate in modo palese o sottile, ma tese comunque a svalutare il figlio (Figura 3 ). La sua costante attenzione dell’adulto verso ciò che è passibile di biasimo ingenera nel giovane un paura costante

di essere disapprovato, con conseguenze gravi sul piano dell’autostima e dei rapporti sociali, che sono evitati come possibili portatori di ulteriore disapprovazione. È evidente che in un clima educativo così connotato espressioni come capacità di problem solving, iniziativa personale, partecipazione sociale, trovano difficilmente spazio per dispiegarsi.

Figura 3 Caratteristiche ed effetti dello stile ipercritico

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Anche lo stile perfezionistico è generatore di comportamenti ipercritici e porta il genitore a inseguire standard di performance che non tengono conto delle reali possibilità del figlio (Figura 4). Il messaggio implicito ed esplicito che arriva al bambino/ragazzo è che il suo valore personale dipende da ciò che riesce a fare, poiché è questo che lo rende degno o meno di essere amato e considerato. L’atteggiamento perfezionistico, come anche gli atteggiamenti che caratterizzano gli altri stili, è appreso per modeling e riproposto dal figlio, che tende a rifiutare tutto ciò che non è ottimale, senza la possibilità di trovare un’attività o un rapporto appagante. Su questo atteggiamento si possono innescare comportamenti di procrastinazione, sui quali ci soffermeremo tra breve.

Figura 4 Caratteristiche ed effetti dello stile perfezionistico

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Effetti possibili di stili inadeguati: la procrastinazione Gli effetti che l’assunzione di uno stile genitoriale disfunzionante o comunque inadeguato, intrecciandosi con le caratteristiche personali del figlio possono produrre sul suo sviluppo sono diversi. Alcuni di questi effetti, come la bassa autostima, la dipendenza da una guida esterna, la propensione ad attribuire a cause esterne gli esiti della propria azione, ovvero a cercare una via di fuga dalle proprie responsabilità e dal conflitto interno che il loro riconoscimento comporterebbe, sono stati già evidenziati. Appare però opportuno soffermare l’attenzione sua una possibile modalità di evitamento forse poco nota, cioè sulla procrastinazione; questa strategia difensiva


è universalmente diffusa, si verifica in tutte le aree del comportamento umano e a tutte le età e porta la persona ad allontanare da sé le occasioni di confronto, e quindi anche di partecipazione sociale. I fattori che determinano questo fenomeno sono molti e investono la sfera cognitiva, socio-relazionale e affettiva. La procrastinazione può essere dovuta a varie cause, come l’incapacità organizzativa o le difficoltà cognitive che influenzano negativamente i processi decisionali, oppure può essere il risultato di uno stato interno di ribellione o anche di ostilità verso qualcuno o qualcosa. La procrastinazione può essere di diversi tipi: può essere adottata come risposta a un particolare problema o può basarsi sul compiacimento; può costituire una modalità abituale di fronte alle decisioni; può fondarsi sulla coercizione o rappresentare un condotta abitudinaria; inoltre può essere il risultato dello stile cognitivo prevalente nella persona e può infine essere dovuta a caratteristiche della personalità.

Ciascun tipo di procrastinazione ha fondamenti e ricadute diverse: la procrastinazione come risposta a un particolare problema è causata da un conflitto che nasce dalla necessità di fare scelte che comportano perdite personali; si possono così attivare livelli di ansia elevati di fronte alla necessità di prendere una decisione, cui fa seguito la ricerca di un modo per evitare il problema. Tuttavia il sollievo che la procrastinazione sembra indurre costituisce un rinforzamento negativo, che contribuisce alla reiterazione dell’evitamento in occasioni successive. Nella procrastinazione basata sul compiacimento l’evitamento è sostituito da una marcata tendenza alla rassegnazione, che fa pensare alla persona di non avere altre possibilità d’azione se non quelle che gli sono prospettate. In questo caso il conflitto che il procrastinante sperimenta è basso perché l’impegno cognitivo che investe nella situazione è scarso. Sentimenti di bassa autostima sono alla base della procrastinazione abituale di fronte alle decisioni. Come nel caso precedente, la persona partecipa alle vicende che

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dovrebbero coinvolgerlo con scarso impegno e in assenza di una riflessione autonoma; la conseguenza è spesso l’assunzione di decisioni e di condotte non adeguate al contesto, oltre che non rispondenti a degli interessi e dei bisogni che la persona stessa non ha saputo individuare o esprimere o sostenere. Nella procrastinazione basata sulla coercizione si registra spesso la presenza del binomio procrastinazione-perfezionismo; il perfezionista, in quanto teso al raggiungimento di standard eccessivi, molto spesso non completa il compito che sta svolgendo. La procrastinazione abitudinaria invece è una caratteristica delle persone che hanno difficoltà a gestire il tempo e a creare degli ordini di priorità a causa di una scarsa capacità organizzativa. La descrizione della procrastinazione basata sullo stile cognitivo è piuttosto complessa in quanto coinvolge aspetti diversi dello stile e dei processi cognitivi quali l’ampiezza delle categorie, cioè delle opzioni possibili, tra le quali la persona ha poi difficoltà ad identificane una per lui preferibile; il bisogno di chiusura, che detta l’urgenza di completare una ricerca di informazioni o l’esecuzione di un compito; il fallimento cognitivo, caratterizzato da forte distraibilità, mancanza di idee e tendenza dimenticare le informazioni; l’orientamento alla condizione, che implica la tendenza a decentrarsi da ciò che si sta facendo per concentrarsi sul presente, il passato e il futuro. Vi sono numerose ricerche che hanno evidenziato come la tendenza alla procrastinazione risenta delle caratteristiche di personalità. In particolare, in questo ambito, è evidente il ruolo svolto da una personalità immatura, con una struttura non ben delineata, dipendente dagli altri e con scarsa capacità di controllo sulle proprie emozioni, soprattutto sulla collera (Mann, 2000). Come l’autostima, la motivazione a partecipare attivamente alle diverse situazione che caratterizzano la vita di una persona (studio, vita familiare, situazioni associative ecc.), l’attribuzione che la persona fa circa il pro-

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prio valore personale, anche la tendenza alla procrastinazione trova alimento nel sistema educativo, relazionale e affettivo nel quale una persona vive e sviluppa le proprie esperienze; questa constatazione rimanda ancora una volta a responsabilità educative piuttosto nette nei confronti di chi, a vario titolo, tali responsabilità le esercita per ruolo. La comunicazione educativa La breve e non certo esaustiva panoramica appena presentata degli stili educativi inadeguati e dei loro possibili effetti sullo sviluppo socio affettivo di una persona giovane, può indurre chi legge a domandarsi quali siano i segnali o gli indicatori attraverso i quali riconoscere uno stile, al fine di poter intervenire per migliorare aspetti eventualmente non adeguati oppure per trovare conferme e rassicurazioni. La domanda può trovare un ventaglio ampissimo di risposte, connesse alla ricchezza stessa di elementi che concorrono a formare i rapporti umani; per cercare di rispondere a questo possibile interrogativo si può affrontare la questione dal punto di vista della comunicazione che si svolge nella quotidianità; lo stile educativo che caratterizza l’interazione genitore-bambino è espresso infatti dal tipo di comunicazione, verbale e non verbale, utilizzato dall’adulto. Questi, in quanto esperto, determina con le sue scelte la qualità, il ritmo e l’andamento dell’interazione educativa all’interno della famiglia e ne condiziona la possibilità di esprimerne il proprio potenziale come agenzia sociale primaria. È forse il caso di ricordare che la relazione genitore-figlio, per quanto caratterizzata da un’affettività che la rende unica tra tutte le tipologie di rapporto interpersonale, non è ne può essere simmetrica e paritaria, ma si gioca anche sull’esercizio da parte del genitore di un “potere-potenzialità” che gli deriva dal suo stesso ruolo, ruolo che, se correttamente gestito, assicura al figlio dei punti di riferimento cognitivi, affettivi, relazionali, valoriali, imprescindibili per la sua promozione come persona.


La comunicazione educativa assolve molteplici funzioni, quali informare, suggerire, esortare, mettere in guardia, sollecitare, ordinare, dirigere o altro ancora e utilizza espressioni verbali adeguate a esprimere queste funzioni. Il ‘no!’ a un figlio che sta per compire un’azione pericolosa non è un’imposizione ma un atto teso a proteggere; può esserlo anche il ‘no’ a una richiesta che per il genitore non è giustificata ma in questo caso il significato che il figlio attribuisce alla risposta varia in base al fatto che sia seguita da una spiegazione sui motivi che l’hanno generata o risponda invece a una modalità consolidata di rispondere, indipendentemente dal contenuto della richiesta. Tuttavia la comunicazione non passa solo attraverso risposte dirette a domande esplicite ma è veicolata da un repertorio di formulazioni che sono diffuse nella pratica educativa degli adulti, indipendentemente dal livello socio-culturale del genitore, e che trasmettono permessi o ingiunzioni (Montuschi, 1996). I genitori che usano prevalentemente uno stile educativo connotato in senso positivo, sia verso l’interno della famiglia sia verso l’esterno, adottano nei confronti del figlio una comunicazione caratterizzata dall’invio di messaggi stimolanti e valorizzanti, che trasmettono approvazione e sostegno per le iniziative e i risultati che questi persegue e consegue, ma anche apprezzamento, comprensione, considerazione verso ciò che fanno o provano altre persone,prossime all’ambiente familiare ma anche estranee a questo. I permessi, infatti, sono inviti a essere persona attiva, creativa, a entrare in relazione con gli altri, a porsi degli obiettivi personali e collettivi da perseguire con perseveranza e fiducia. Questi messaggi passano attraverso le parole ma soprattutto attraverso la vicinanza fisica, la partecipazione vivace ad attività da svolgere insieme, alla risposta pronta alle richieste d’aiuto, all’offerta di sostegno che non si sovrappone o non sovrasta ciò che il figlio sta facendo, al modello propositivo che il genitore offre con il proprio modo di rapportarsi

all’ambiente di vita e alle diverse situazioni che si prospettano nella quotidianità. La capacità di dare permessi appartiene quindi a quegli adulti che vivono il proprio ruolo genitoriale in modo costruttivo; ciò non significa che non sperimentino mai difficoltà o paure o che non possano provare delusione per un risultato o un comportamento del figlio non atteso o non conforme alle aspettative. Questi sentimenti però sono conseguenze di situazioni che realmente si verificano e sono circoscritti a queste, senza generalizzarsi e inquinare la relazione nella sua interezza. Uno stile educativo non funzionale è invece caratterizzato dall’invio di messaggi connotati prevalentemente al negativo, ovvero da ingiunzioni che hanno lo scopo, dichiarato o non dichiarato, di sminuire l’azione o l’iniziativa del figlio, limitandola o annullandola. A queste sollecitazioni ad annullare la propria individualità, la propria ricchezza affettiva e l’esigenza di entrare in relazione il figlio può rispondere con atteggiamenti di sottomissione, con i quali tenta di assecondare le richieste genitoriali. Come abbiamo già accennato, questi messaggi sono nascosti nel linguaggio corrente; quante volte può accadere di udire in un luogo pubblico, al supermercato per esempio, un genitore che a una richiesta di un bambino risponde ‘se non la smetti ti ammazzo di botte’ oppure ma ‘ma levati dai piedi con queste stupidaggini!’. Certo il genitore non si rende conto che sta negando al figlio il permesso di esistere attraverso una doppia modalità: l’uso di parole minacciose e l’allontanamento fisico. Espressioni altrettanto consuete si possono registrare quando un bambino esprime sentimenti di rabbia o di dispiacere attraverso un pianto che turba o spaventa il genitore, il quale cerca sollievo ai propri sentimenti caricando di responsabilità il bambino con l’invito classico a ‘non piangere perché dei grande’ oppure ‘sei un ometto’, o anche con la negazione ancora più radicale contenuta in un ‘non è niente’.

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Il ricorso a ingiunzioni così limitanti è spesso collegato alle paure con cui un adulto vive il proprio essere genitore e possono essere originate da un mal gestito desiderio di protegge il figlio da delusioni o pericoli, come avviene frequentemente quando le indicazioni scoraggiano il bambino dall’entrare in relazione con persone diverse da quelle che appartengono alla ristretta cerchia familiare. Ne sono un esempio messaggi quali ‘chi ti dà qualcosa lo fa perché vuole qualcosa in cambio’, ‘i veri amici non esistono’, non fidarti di quelli che…’ ecc. È evidente che la gamma dei permessi e delle ingiunzioni è ampissima e certamente non se ne può stilare un elenco che le contenga tutte, cosa che peraltro non risponde alle intenzioni di questo contributo, con il quale più che un inutile decalogo si vorrebbero offrire spunti di riflessioni su consuetudini educative la cui persistenza nella nostra cultura non ne attesta affatto né la legittimità né l’efficacia. Conclusioni La decisa connessione tra benessere e prosocialità emersa nei quattro contributi fin qui proposti evidenzia come la dimensione prosociale sia un valore educativo in sé, da coltivare come antitodo a forme di rapporto interpersonale disfunzionali, quali l’aggressività, il bullismo, l’esclusione, il pregiudizio, la devianza. Non può però essere considerata come una “misura d’urgenza” alla quale fare ricorso quando vi sono “guai in vista”. È invece una competenza che pervade la persona e ne connota il modo di essere; proprio per questo deve essere oggetto di educazione intenzionale anche in assenza di particolari situazioni di allarme. È infatti evidente come la prosocialità sia strettamente collegata alla capacità di una persona – o di una cellula sociale come la famiglia – di esplicitare le proprie capacità e potenzialità espressive, comunicative, collaborative, generando un circuito virtuoso improntato alla cooperatività tra il singolo e l’ambiente in cui vive, ambiente la cui estensione può comprendere l’intera umanità.

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I S T I T U T O

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Nuovi orizzonti del Collaborative learning nell’era del Web 2.0

di Roberto Orazi Il processo educativo degli individui è influenzato da diversi fattori tra cui l’ambiente. Ma che cosa intendiamo per ambiente? Forse il luogo in cui si svolge prevalentemente la vita di un individuo? Questo è sicuramente vero, ma se spostiamo un attimo l’attenzione verso il cyberspace allora le nostre certezze iniziano a vacillare. Qual è lo spazio che delimita l’ambiente? Chi sono le persone con cui interagiamo? Oggi l’interpretazione del termine ambiente come luogo ben preciso e delineato potrebbe risultare troppo restrittiva, è necessario infatti considerare che con l’avvento di Internet, lo spazio (inteso come ambiente) si è contratto a tal punto che le distanze si sono completamente azzerate. Oggigiorno è possibile comunicare in tempo reale ed interagire con persone che vivono e lavorano a migliaia di chilometri le une dalle altre, in qualunque parte del globo terrestre esse si trovino. Le nostre abitudini, i diversi costumi, i diversi linguaggi o le idee di ognuno possono essere

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comunicate e condivise con chiunque a prescindere dal luogo fisico in cui ci troviamo, per questo è necessario allargare gli orizzonti oltre quello che consideriamo tangibile specialmente quando parliamo di apprendimento e di ambienti di apprendimento in particolare. E’ da questo complesso mondo virtuale che provengono continuamente gli stimoli esterni all’io individuale e che da essi viene continuamento modificato, ovviamente la natura e la misura delle variazioni dipendono non soltanto dall’intensità portata dallo stimolo, ma anche, e soprattutto, dalla sensibilità dell’io di ogni individuo ad essere modificato. Negli anni settanta si usavano i mainframe, gli anni ottanti hanno visto la nascita del personal computer, negli anni novanta si è avuta l’evoluzione di Internet. Negli ultimi anni, fino ad oggi, abbiamo visto la nascita e la crescita del Web 2.0 e abbiamo pensato che fosse arrivato il futuro; ora invece siamo certi che il Web 2.0 è il presente; il futuro ci riserverà qualcos’altro: il Web 3.0 meglio conosciuto come Web semantico. Ma nel presente cosa sta accadendo? Ragazzi e persone adulte sono connessi alla rete Internet ventiquattro ore su ventiquattro durante tutto l’anno (con i loro smartphone, computer portatili, tablet pc come iPad) navigano e comunicano utilizzando ambienti virtuali (Facebook, Twitter, Myspace, Blogger, Newsgroup, Forum di discussione, Wiki, Social Bookmark, Google Docs) all’interno dei quali chattano con centinaia di amici, postano i loro commenti riguardo determinati argomenti di loro interesse, scrivono i loro pensieri o le loro esperienze, ascoltano e condividono la loro musica preferita, condividono i loro momenti più o meno felici, condividono i siti preferiti, i documenti che creano o che scaricano dalla rete e cercano informazioni riguardo argomenti oggetto di studio o di lavoro. Tutto questo è il Web 2.0. Ma come è cambiato l’e-learning, cioè la formazione on-line, in seguito all’affermarsi di questa nuova tendenza partecipativa dell’utente alla


creazione di contenuti? Proprio quest’ultimo aspetto è quello che interessa di più. Senza dubbio l’evoluzione delle tecnologie legate all’Information and Communication Technology ha favorito in modo sostanziale l’evoluzione delle scienze didattiche verso modelli sempre più orientati alla formazione on-line e questo perché «la didattica in ambiente di apprendimento on-line ha come obiettivo quello di creare sistemi focalizzando l’attenzione sul discente.»1 Perciò quando parliamo di ambienti di apprendimento, progettati secondo modalità tipiche del Web 2.0, ci riferiamo a quei luoghi virtuali dotati «[…] di strumenti che facilitano la partecipazione attiva2 […]» in cui gli studenti possono studiare e lavorare aiutandosi vicendevolmente per imparare, perseguendo così un obiettivo formativo per «[…] fare del luogo in cui si lavora un ambiente ricco di sollecitazioni, capace, per dirlo con i presupposti behaviorismi, di fornire input di qualità perché l’apprendimento possa avere luogo.»3 Il modello didattico da utilizzare nelle attività educative on-line è quello del Collaborative Learning, che vede gli studenti lavorare su temi, progetti o prodotti relazionandosi tra loro e con il docente. La modalità di lavoro è flessibile e articolata e grazie alla rete di telecomunicazioni tutti possono fruire dei contenuti da più sedi contemporaneamente all’interno di classi virtuali

in qualunque momento della giornata. Le varie forme di comunicazione del sapere sono contenute all’interno degli ambienti multimediali dove gli utenti possono collegarsi e fruire dei contenuti messi loro a disposizione (all’interno di questo ambiente completamente virtuale) in modo da raggiungere i proprio obiettivi didattici seguendo dei percorsi d’apprendimento opportunamente prestabiliti. Gli studenti diventano gli attori principali del processo d’apprendimento. In questo modello didattico la figura del docente è modificata profondamente, cessa di essere la fonte principale del sapere e diventa un organizzatore e un facilitatore favorendo dei percorsi di apprendimento personalizzati e di gruppo. Internet e le tecnologie di comunicazione rendono più facile e agevole l’applicazione di questo modello didattico collaborativo e costruttivo in cui gli studenti sono più motivati e dove diventa molto più semplice creare ambienti virtuali, ma «[…] la collaborazione va costruita. La collaborazione è una relazione dotata di uno scopo, alla cui base c’è il bisogno di creare e scoprire qualcosa4 […]». Con l’aiuto della tecnologia a supporto dell’e-learning e grazie alle immense potenzialità del Web 2.0 la costruzione di questa collaborazione viene aiutata perché l’azione didattica si sposta verso gli interessi dello studente che rappresentano sempre la tendenza a realizzare un

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fine, a raggiungere un obiettivo che manca al soggetto e che quindi aspira a realizzare e che è riconducibile all’ambiente cui il soggetto si riconosce. Utilizzando tutti gli strumenti tipici del Web 2.0 integrati all’interno di piattaforme LCMS (Learning Content Management System) si può guidare la persona a soddisfare i propri interessi e a realizzare i propri fini in modo da fargli vedere e comprendere tutte le possibilità dell’ambiente di apprendimento che poi possono essere da lui utilizzate come strumenti per raggiungere e attuare i suoi progetti. Il suo percorso didattico si intreccia consapevolmente in maniera collaborativa con quello di altre persone in modo da espandersi, intensificarsi e razionalizzarsi per poter superare eventuali ostacoli che si presentassero durante lo svolgimento del corso. Il docente da parte sua dovrà necessariamente conoscere l’ambiente in cui gli studenti si muovono attraverso un’osservazione continua che lo ponga in condizione di osservarli con l’occhio e con l’atteggiamento di questi ultimi per poter reagire immediatamente ai cambiamenti che si dovessero presentare durante l’erogazione del percorso didattico. Tra le ragioni della diffusione di questi nuovi modelli didattici non vanno sicuramente dimenticati i vantaggi di carattere organizzativo che un ambiente di apprendimento on-line garantisce rispetto ad uno tradizionale. Vantaggi che sono certamente più sentiti in ambito aziendale dove l’esigenza di una riqualificazione del personale unita ad un’esigenza di ottimizzazione delle risorse a disposizione rende la formazione on-line prioritaria rispetto alle forme tradizionali. In un mondo in cui le aziende devono competere sui mercati globalizzati viene richiesta sempre più flessibilità al lavoro cioè la disponibilità e la capacità del lavoratore di inserirsi o reinserirsi all’interno dei diversi contesti lavorativi per consentire alle aziende di ricollocare le proprie strategie competitive

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nel mercato di riferimento in cui operano. Rispetto a questo fenomeno la formazione on-line in particolare assume peculiare importanza in quanto azione pratica in grado di generare un valore aggiunto e favorire i requisiti cognitivi e strategici indispensabili allo sviluppo degli individui e delle aziende in cui gli stessi lavorano. Per questi motivi il modello di cui abbiamo parlato, in linea con la tendenza registrata nel settore ICT di adottare sistemi informativi distribuiti, è utilizzato come strumento per l’erogazione di contenuti didattici determinando il passaggio da un modello di formazione centrato sul docente ad un modello centrato sul discente in cui viene messa in risalto la capacità dello studente di creare organicamente la propria conoscenza in base ad una costruzione personale che si realizza attraverso la relazione con gli altri all’interno di un determinato ambiente. Il fatto che i soggetti siano visti come coloro che interpretano e costruiscono la realtà, con cui poi l’organizzazione dovrà confrontarsi, porta necessariamente a focalizzare l’attenzione all’analisi di questi processi all’interno della realtà organizzativa. Dietro questa spinta ci si rende conto che il proprio punto di vista non è l’unico, ma è un insieme di realtà all’interno di un complesso sistema di relazioni e di processi che rendono le persone partecipi a livello percettivo di un sapere più ampio. Proprio sulla base di queste ultime considerazioni non possiamo certamente non condividere il pensiero di Guglielmo Trentin secondo il quale «[…] la tecnologia non è mai stato il principale ostacolo all’innovazione didattica. I problemi principali derivano quasi sempre dal comprendere il ruolo della componente umana all’interno di processi basati sulla tecnologia e dal come si può raggiungere una migliore comprensione delle potenzialità e delle limitazioni dell’interazione mediata dalle reti a favore dei processi educativi a distanza5.» La formazione mediata dalle tecnologie viene percepita come tipologia formativa strategica


rispetto alle altre azioni formative praticabili e questo perché è in grado di migliorare l’offerta formativa e di renderla maggiormente rispondente alle aspettative e alle esigenze degli studenti/utenti innescando anche dinamiche relazionali e di partecipazione al processo formativo molto forti. Ma il tutto deve essere sempre realizzato con un occhio molto attento alla qualità dei contenuti didattici, per questo le tecnologie tipiche del Web 2.0 devono essere integrate all’interno dei LCMS e utilizzate per favorire la collaborazione tra gli studenti, solo così i docenti potranno controllare i diversi percorsi di apprendimento (learning path) e mediarne i contenuti. Note: 1 M.V. Isidori, Apprendimento in rete. Innovazioni e sperimentazione psicopedagogica e didattica, Pisa, Edizioni ETS, 2003, cit. pag. 47; 2 G.Bonaiuti, E-learning 2.0. Il futuro dell’apprendimento in rete, tra formale e informale, Trento, Erickson, 2006, cit. pag. 19; 3 L. Rosati, Lezioni di Didattica, Roma, Anicia, 1999, cit. pag. 67; 4 A. Calvani, Educazione, comunicazione e nuovi media. Sfide pedagogiche e cyberspazio, Torino, Utet libreria, 2004, cit. pag. 151; 5 G. Trentin, Dalla formazione a distanza all’apprendimento in rete, Milano, FrancoAngeli, 2003, cit. pag. 59. Riferimenti Bibliografici: BONAIUTI G., E-learning 2.0. Il futuro dell’apprendimento in rete, tra formale e informale, Trento Erickson,, 2006; CALVANI A., Educazione, comunicazione e nuovi media. Sfide pedagogiche e cyberspazio, Torino, Utet libreria, 2004; ISIDORI M. V., Apprendimento in rete. Innovazioni e sperimentazione psicopedagogica e didattica, Pisa, Edizioni ETS, 2003; ROSATI L., Lezioni di Didattica, Roma, Anicia, 1999; TRENTIN G., Dalla formazione a distanza all’apprendimento in rete, Milano, FrancoAngeli, 2003.

Aggressione, violenza, abuso. La risposta della pedagogia dell’emergenza. Parte seconda. Le convinzioni di senso comune.

di Francesca Giangregorio Introduzione Nel precedente contributo (QTimes, 2/11) si è iniziato a definire la pedagogia dell’emergenza come una struttura di pensiero da costruire e sviluppare per offrire alla persona offesa dalla violenza strumenti cognitivi, relazionali e affettivi per rompere la morsa dell’evento subito; tuttavia per tradurre operativamente questa concettualizzazione e trasformarla in un servizio di sostegno è opportuno indagare il modo in cui le persone concepiscono l’idea stessa di violenza. Comprendere quali concetti, quali emozioni e quali situazioni evoca questa parola, soprattutto in rapporto alle aggressioni a sfondo sessuale, può infatti facilitare quel lavoro di decostruzione di convinzioni di senso comune fuorvianti, che spesso non aiutano la vittima, ma anzi possono contribuire a mantenerla in

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uno stato di paura, di negazione dell’accaduto o anche di immotivata auto-colpevolizzazione. Poiché la traduzione operativa di un modello concettuale, come quello di couceling che è posto alla base della pedagogia dell’emergenza, implica una conoscenza quanto più possibile approfondita del contesto e/o delle persone che ne potranno fruire - viste nella loro realtà e unicità - nel corso della riflessione in atto per aprire nuove piste di lavoro a sostegno della non facile riappropriazione del sé in una persona vittima di un atto violento, ha preso corpo l’idea di rilevare cosa pensano comunemente le persone sulla violenza e su coloro che ne sono protagonisti, come vittime o come aggressori, su quali siano gli strumenti di difesa possibili e quali le modalità di aiuto che si possono offrire alla vittima. L’indagine esplorativa In linea con lo scopo dichiarato è stato quindi allestito uno studio esplorativo, condotto attraverso la somministrazione di un questionario a risposta aperta, composto da 10 domande e distribuito via e-mail a un campione elettivo di persone. Delle risposte da questi fornite è stata effettua un’analisi di tipo testuale, condotta secondo le modalità di categorizzazione tipiche della ricerca qualitativa. La finalità di questo tipo di ricerca è infatti quella di scoprire i fenomeni sociali nuovi o poco conosciuti, oppure fenomeni noti ma la cui trasformazione richiede approfondimenti e riconsiderazioni che ne offrano nuove spiegazioni; in altri termini si può dire che tale piano di indagine si applica in quei casi in cui le teorie esistenti sono incomplete o inadeguate oppure quando mancano del tutto. La ricerca qualitativa implica inevitabilmente una attività riflessiva non presente nell’approccio ipotetico deduttivo; il ricercatore qualitativo riconosce la specificità del suo essere un individuo appartenente a una cultura e una società, con credenze e valori; infatti nella misura in cui l’oggetto d’indagine è costituito dai significati, per analizzarli occorre un’ attività d’interpretazione e di concettualiz-

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zazione che non può essere affidata a strumenti di misurazione convenzionali ma richiede l’intervento del ricercatore stesso e delle sue capacità interpretative. Il modello che sta dietro questa teoria è interpretativo costruttivista (cfr. Ricolfi, 1997). Si tratta evidentemente di un tentativo di indagine la cui parzialità è nota a chi lo ha promosso ma dal quale possono scaturire interessanti indicazioni per gli approfondimenti sia teorici sia operativi ai quali il presente lavoro aspira. Il questionario è stato inviato a ottanta soggetti, settanta dei quali lo hanno restituito compilato. Dieci persone hanno fornito risposte troppo generiche o incomplete per poterne consentire un’analisi e una classificazione. In tre casi, in particolare, le persone contattate al momento della compilazione non hanno saputo procedere perché troppo coinvolte emotivamente nella riflessione che l’argomento ha suscitato in loro. Per questa ragione hanno provato una difficoltà ad esprimersi che non gli ha consentito di rispondere compiutamente alle domande, benché avessero accettato prontamente la richiesta di offrire il loro contributo alla rilevazione. È da notare che questa difficoltà a riflettere e a rispondere è stata segnalata anche da altri intervistati, benché si tratti di un campione il cui livello di istruzione è prevalentemente alto e con una buona posizione professionale, a riprova del fatto che il tema proposto problematizza e interroga profondamente la persona e che l’informazione su quel tema non necessariamente facilita la consapevolezza del proprio personale modo di intenderlo. Del campione indagato fanno parte 42 femmine e 38 maschi, la cui età media è 35 anni circa. Delle variabili rilevate (sesso, età, titolo di studio, professione) nell’analisi delle domande è stata considerata in questa fase esplorativa di lavoro solo la variabile sesso; il campione complessivo risulta quindi suddiviso nei due sottocampioni “maschi” e “femmine”. L’analisi delle risposte La prima domanda posta agli intervistati ha ri-


guardato la definizione che i singoli danno di violenza. Come si è visto nel precedente contributo, la questione lessicale è tutt’altro che secondaria, poiché il modo di definire un problema, oltre a indicarne la concettualizzazione, permette di prefigurare anche le possibili reazioni, personali e sociali, al problema stesso. Il confronto delle risposte elaborate dalle donne e dagli uomini ha posto subito in evidenza delle interessanti differenze quantitative e qualitative. I maschi infatti hanno espresso un maggior numero di opinioni e i loro contributi presentano una più alta eterogeneità, razionalità e articolazione interna rispetto a quelli forniti dalle donne. Inoltre, rispetto a queste, operano una maggiore distinzione rispetto a ciò che costituisce un dato oggettivo reale, un fatto, e ciò che invece attiene alla sfera dei sentimenti e delle emozioni. Si nota inoltre come le donne utilizzino definizioni sfumate, in alcuni casi quasi sfuggenti, nelle quali risultano confuse le descrizioni delle manifestazioni comportamentali della violenza e dei sentimenti, come nel caso di coloro che definiscono la violenza come rabbia. Un altro elemento che differenzia le risposte dei due sottocampioni è dato dalla scarsa indicazione dell’aspetto psicologico della violenza segnalato dalle donne, che è invece una costante nel sottocampione maschi. La definizione di violenza formulata dagli uomini infatti ne evidenzia sia la componente fisica sia la componente psicologica, caratterizzandola come una risposta estrema ad una situazione di conflitto o anche come un impulso irrefrenabile a compiere atti lesivi. Si tratta di due concettualizzazioni che non compaiono nelle risposte delle donne, più orientate a sottolineare la globalità della violenza stessa facendo però riferimento a concetti astratti, come la dignità umana o l’integrità, che hanno sì il loro valore intrinseco ed innegabile ma che non sono stati espressi attraverso degli indicatori tangibili. Questo andamento delle definizioni si ritrova anche nell’esame delle risposte relative alle situazioni che il termine violenza evoca nelle persone (Tabelle 1-2).

Come definirebbe la violenza? femmine • Atto lesivo dell’integrità fisica e psichica di un essere umano. • Aggressività. • Negazione della dignità umana. • Espressione estrema di sentimenti negativi, quali: rabbia o paura di essere a propria volta attaccati maschi • Atto lesivo dell’integrità fisica e psichica di un essere umano. • Aggressività. • Negazione della dignità umana. • Espressione estrema di sentimenti negativi, quali: rabbia o paura di essere a propria volta attaccati • Molteplicità delle forme legata sia al contatto fisico sia al comportamento verbale. • Sopraffazione fisica o psicologica. • Oltraggio ad un simile. • Risposta estrema ad una situazione di conflitto. • Impulso a compiere atti lesivi. • Nichilismo. • Mancanza di comunicazione. Tabella 1 - Sintesi delle definizioni di “violenza”

Quali situazioni evoca in lei la parola violenza? femmine Violenza sui bambini, sulle donne, sui più deboli in genere, all’interno della famiglia, oppressione, delinquenza, mobbing, guerre, angoscia, disprezzo, imbarazzo. maschi Litigi, prepotenze, atteggiamenti persecutori, percosse, abusi sessuali, delitti d’onore, uxoricidi, maltrattamenti, violenza sessuale sulle donne, aggressione fisica, aggressione verbale, paura, rabbia, sdegno. Tabella 2 - Situazione evocate dal termine “violenza”

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Per quanto riguarda in modo specifico la violenza sessuale, sia uomini sia donne, raccolgono sotto questa denominazione tutte quelle manifestazioni dell’agire umano dirette alla sopraffazione e che suscitano rabbia, sdegno, paura, indignazione; inoltre, gli uomini sottolineano maggiormente la dimensione distruttiva della violenza, alla quale si deve rispondere con misure punitive. Questi due elementi, cioè la distruttività e la richiesta di punizioni esemplari come deterrenti della violenza in genere e di questo tipo in particolare, non sono presenti nella donne (Tabella 3). Come definirebbe la violenza sessuale? femmine Sopruso, prevaricazione, mancanza di rispetto, come ogni altra violenza, vigliaccheria, brutalità, abuso. maschi Forma patologica per sfogare istinti repressi verso soggetti non consenzienti, violenza brutale fisica e psicologica; non è una malattia; situazione distruttiva; costrizione, spregevole, da punire in modo esemplare; offesa alla dignità umana, meschina, esperienza tragica. Tabella 3 - Definizioni di “violenza sessuale”

Un ulteriore elemento di divergenza tra i due sottocampioni è dato dall’identificazione dei destinatari dell’atto violento, che per le donne sono le donne stesse e i minori, e più esattamente nei bambini, mentre non sono menzionati gli adolescenti. Quest’ultima tipologia ricorre invece nelle risposte dei maschi, i quali esplicitano anche come non vi siamo tipologie specifiche di soggetti candidati ad assumere il ruolo di vittima; tale asserzione trova riferimento nella letteratura specialistica. È molto interessante la lettura che viene data dai due sottocampioni delle caratteristiche che possono rendere tale la vittima; le donne infatti indicano tratti quali: la fragilità, l’insicurezza,

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la sfiducia o, al contrario, la fiducia negli altri. Non compaiono nei questionari compilati da questo gruppo fattori quali: la bellezza, la vulnerabilità, il silenzio, le contingenze, che caratterizzano invece le risposte degli uomini (Tabelle 4-5). Quali persone a Suo avviso sono maggiormente a rischio di violenza/abuso sessuale? femmine I bambini per la loro ingenuità, le donne a causa dell’incapacità di sapersi difendere. maschi • Non ci sono specifici destinatari. • Bambini, donne, adolescenti, chiunque. • Tutte le persone che inconsapevolmente ruotano intorno all’aggressore. Tabella 4 - I soggetti identificati come a rischio

A Suo parere, cosa caratterizza una vittima? femmine • Fragilità, remissività, paura, insicurezza, sfiducia, l’incapacità di sapersi difendere. • Fiducia negli altri. maschi • Contingenze, bellezza, vulnerabilità, silenzio, innocenza, ingenuità, insicurezza, debolezza. • Essere sottoposto a fenomeni di violenza. Tabella 5 - Convinzioni sule caratteristiche delle vittime

Analogamente, anche la descrizione dell’aggressore sembra differenziarsi in base al genere dei rispondenti. L’aggressore è visto dalle donne come stupido, affettivamente carente, afflitto da senso di inferiorità e disagio psicologico, sprezzante verso gli altri. Queste caratteristiche negative sono maggiormente accentuate dagli uomini che parlano con maggiore decisione dell’aggressore come di un essere violento, prevaricatore, squilibrato, irrazionale, brutale, malvagio, perverso, probabilmente

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abusato. Ancora una volta emerge quindi la tendenza nei maschi a fare riferimento alla violenza attraverso una concettualizzazione che rimanda al piano concreto dei fatti e meno alla sfera delle emozioni dei sentimenti. Inoltre il riferimento ripetuto nel corso dei questionari all’aggressore come ad un soggetto che probabilmente a sua volta ha subito violenza rinvia all’idea che il cerchio della violenza tenda a riprodursi, come evidenziato in letteratura dagli studi su questo fenomeno (cfr. Risi, 2006), (Tabella 6). Secondo Lei, cosa caratterizza un aggressore? femmine Stupidità, senso di inferiorità, carenze affettive, disagio psicologico, disprezzo per gli altri. maschi • Perpetrare la violenza, prevaricazione, squilibrio mentale, disadattamento sociale, irrazionalità, brutalità, malvagità, violenza, desiderio di possesso, follia momentanea, odio, rabbia, perversione. • Essere stato a propria volta oggetto di abuso. Tabella 6 - Tratti caratterizzanti l’aggressore

Una ulteriore e importante differenza che sembra essere legata al genere dei rispondenti è quella relativa alle modalità di difesa dall’aggressione. Mentre c’è un sostanziale accordo nei due sottogruppi sulla necessità di chiamare i soccorsi, di denunciare, o al contrario sull’impossibilità di reagire efficacemente, solo gli uomini considerano esplicitamente la capacità di autocontrollo come valido mezzo di contrasto all’azione aggressiva, unitamente all’uso di uno strumento come lo spray anti-aggressione (è opportuno precisare che lo spray anti-aggressione, la cui composizione chimica può essere estremamente diversificata – dal peperoncino come componente unica all’etere o alle sostanze allucinogene – è considerato dal punto di vista giuridico un’arma) (Tabella 7).

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A Suo avviso, una persona aggredita cosa potrebbe fare per difendersi? femmine Gridare, attirare l’attenzione, corsi di autodifesa, rispondere con gli stessi mezzi dell’aggressore, evitare il contatto con l’aggressore (fuga), denunciare. maschi • Mantenere l’autocontrollo, usare tecniche di difesa o spray anti-aggressione, chiamare soccorsi, denunciare. • Non ci sono protocolli. • “C’è poco da fare”. Tabella 7 - Modalità di difesa possibili

C’è invece un sostanziale accordo nei due sottogruppi circa la parziale utilità di acquisire tecniche di difesa, quali quelle esercitate nelle arti marziali, poiché sono ritenute strumenti validi ma non sufficienti in sé. Secondo le donne, infatti, in caso di aggressione, l’aggredito può non avere la lucidità per applicarle; gli uomini inoltre le ritengono del tutto inutili quando l’aggressione è perpetrata da un gruppo. Questa risposta ribadisce ed evidenzia ulteriormente come nelle donne prevalga la dimensione interna nella concettualizzazione sia dell’atto aggressivo sia delle misure di contrasto possibili, rinvenibile nella sottolineatura del ruolo svolto dalla capacità di mantenere una lucidità mentale di fronte all’aggressore, indipendentemente dalle contingenze. Le circostanze in cui la violenza si verifica sono invece considerate nelle risposte degli uomini, che arrivano a prospettare il caso più estremo di violenza, cioè quello dell’aggressione portata da un gruppo (cfr. Eibl-Eibesfeldt, 1996), (Tabella 8). Secondo Lei acquisire forza fisica o tecniche di difesa personale può essere uno strumento valido per contrastare o fuggire un’aggressione?


femmine • Acquisire tecniche di difesa anche se non sono sufficienti. • Non c’è sempre la lucidità per attuarle. maschi • Acquisire tecniche di difesa anche se non sono sufficienti • Sono inutili nella violenza di gruppo. Tabella 8 - Efficacia delle tecniche di difesa

In riferimento alle forme di aiuto che si possono prestare a una persona che abbia subito il trauma di una violenza o di un tentativo di violenza, sia gli uomini sia le donne ritengono che - oltre alla disponibilità ad ascoltare e alla vicinanza fisica e affettiva - occorra sollecitare l’aggredito a fare ricorso ad aiuti specializzati, sia di tipo psicologico sia di tipo medico, perché fondamentali per sostenere la persona nel difficile percorso di recupero delle sua integrità psicologica. È inoltre importante sostenere e accompagnare la persona nella decisione di denunciare l’accaduto, superando i sentimenti di vergogna e addirittura di colpevolizzazione che si innescano nella vittima in tali situazioni, come si è visto nel precedente contributo (cfr. QTimes, n. 2/11) (Tabella 9). Cosa farebbe per aiutare una persona che ha subito violenza? femmine Rivolgersi ad un centro specializzato, aiutarla a denunciare, starle vicino, ascoltare. maschi Ricorrere al confronto con gli specialisti, aiutarla a capire che non deve farsi rovinare la vita, rassicurarla che la colpa non è sua, ascoltare, chiamare soccorsi, denunciare. Tabella 9 - Forme di aiuto

Infine, relativamente alle condizioni situazionali che possono offrire supporto, i due sottocampioni evidenziano due diversi aspetti, la

cui ripercussione sull’impostazione di percorsi di aiuto al quale questa esplorazione mira è tutt’altro che trascurabile. Si nota infatti che, mentre le donne insistono sull’importanza di essere circondate da persone positive, gli uomini identificano in modo più netto l’aiuto efficace nella possibilità di sperimentare situazioni positive e di rassicurare la vittima circa la sua non colpevolezza rispetto all’evento traumatico, risposta questa non presente nel sottocampione femmine (Tabella 10). È noto che chi subisce violenza riporta traumi affettivo - emotivi profondissimi. Secondo Lei, cosa si potrebbe fare perché queste persone si riapproprino di emozioni e sentimenti positivi? femmine • Essere circondati da persone positive. • Essere aiutati da un professionista. maschi • Aiuto psicologico. • Rassicurazione sulla non colpevolezza • Sperimentare situazioni positive. Tabella 10 - Situazioni di aiuto

Riflessioni conclusive Dall’analisi fin qui condotta, sembra emergere una maggiore consapevolezza del problema violenza nel sottocampione maschi; è interessante notare come questa maggiore vividezza e chiarezza sia degli aspetti emotivo-affettivi sia razional-situazionali sembri maggiormente presente nel genere che la casistica sui reati a sfondo aggressivo o sessuale colloca nella categoria dell’offender. Di contro, le definizioni sfumate delle donne sembrano celare il silenzio della negazione, come se la mancanza di parole o di definizioni nette allontanasse, o in qualche modo demistificasse, la violenza e la possibilità che questa possa essere non una realtà concreta, ma un evento remoto e lontano dalla propria persona. È probabile che queste diverse prospettive siano culturalmente conno-

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tate. Se da un lato infatti le donne sono state maggiormente vittime, spesso anche considerare colpevoli della loro condizione di aggredita/abusata, dall’altro gli uomini hanno avvertito la necessità di affrancarsi dall’essere una figura detentrice del potere di esercitare la violenza (ne sono un esempio il padre-padrone e lo ius primae noctis). In altri termini, il genere maschile ha presumibilmente attraversato un percorso di emancipazione che ha portato all’attenuazione del binomio uomo-violenza, o meglio cacciatore-aggressione. Nelle donne invece non sembra altrettanto risolto il binomio vittima-colpa, che di per sé porta all’interiorizzazione della violenza, ancorandola non al concorrere di fattori psicologici e situazionali, ma all’identità di genere della persona, come se l’appartenenza ad un genere definisse la condizione ontologica che spiega la violenza stessa. È la distinzione persona-situazione, presente negli uomini, che forse restituisce la lettura più completa della violenza; è dalle situazioni infatti che si può decidere di uscire: la sofferenza, il dolore del trauma, non identifica la persona ma una condizione che deve assumere il carattere della transitorietà. Il ricorso a un aiuto specialistico, e non semplicemente a qualcuno che è percepito come presenza positiva, offre la possibilità di costruire strumenti di fronteggiamento personali, risultante di un lavoro su se stessi nel quale vengono accolte e tutelate tutte le istanze che caratterizzano l’essere umano: la sfera razionale, l’ambito affettivo-emotivo e la dimensione senso-corporea. Questo è l’obiettivo del coucenling: non si tratta di fornire semplicemente un “cerotto per l’anima” - che come ogni palliativo prima o poi cessa la propria funzione senza aver apportato una modificazione alla situazione iniziale - ma al contrario di creare le condizioni perché chi ha vissuto la condizione di vittima possa sperimentare una nuova edizione di sé, nella quale è egli stesso agente di autoprotezione, senza tuttavia passare dalla condizione di offeso a quella di vendicatore. La violenza è una contingenza che smette di

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essere pervasiva quando la vittima cessa di introiettarla, o meglio quando la vittima prende coscienza del carattere multi fattoriale del fenomeno. Le possibilità-modalità di intervento in tal senso saranno esplorate nel prossimo contributo. Riferimenti Bibliografici: ANDREOLI V., CASSANO G.B., ROSSI R., DSM-IVTR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Text Revision, Milano, Elsevier Masson, 2007; BISI R., Scena del crimine e profili investigativi: quale tutela per le vittime?, Milano, Franco Angeli Editore, 2006; CORBETTA P, Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Bologna, Il Mulino, 1999; EIBL-EIBESFELDT I., Amore e odio. Per una storia naturale dei comportamenti elementari, Milano, Gli Adelphi, 1996; GARLAND C. (a cura di), Comprendere il trauma. Un approccio psicoanalitico, Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 153; ISTAT, La sicurezza dei cittadini. Un approccio di genere, in Argomenti (2002) 25; JORDAN F.D., Sex crime investigations. Manuale completo dell’investigatore, Roma, Edizioni Mediterranee, 2008; LA CECLA F., Modi bruschi. Antropologia del maschio, Milano, Bruno Mondadori, 2000; RICOLFI L. (a cura di), La ricerca qualitativa, Roma; La Nuova Italia Scientifica, 1997; SPEDINI G., Antropologia evoluzionista, Padova, PICCCIN Nuova Libreria S.p.A., 1997; STRANO M., Manuale di criminologia clinica, Firenze, SEE Editrice, 2003. Sitografia: http://w3.uniroma1.it/brunofras/attivitascientifica/produzionescientifica/Carpentieri; www.carabinieri.it; www.cepic-psicologia.it/; www.jkditalia.com/; www.rainn.org/get-information/effects-of-sexual-assault/rape-trauma-syndrome; www.riflessioni.it/dizionario_filosofico/atarassia.htm; www.dinamichedicoppia.it; www.psicoblog.net; www.psicologiadellasicurezza.it.


Ri-scoprire l’ascolto

di Agnese Rosati Chiusura, apatia, indifferenza e individualismo paiono essere tratti comuni di quel clima culturale che prevale nel Millennio e finisce per condizionare costumi, comportamenti singolari e collettivi, creando fratture nelle relazioni interpersonali di cui sono testimonianza il prevalente senso di disagio e la solitudine. Quel Singolo che diviene categoria per pensare e comprendere la realtà nella riflessione di Kierkegaard, avverte la propria fragilità, tende a ripiegarsi nei confini di un io che poco ha da condividere con gli altri, se non un senso di abbandono e di rassegnazione che derivano dal confronto soggettivo con la pluralità delle situazioni, le quali lo mettono ripetutamente alla prova nell’impegno e nell’assunzione di precise responsabilità. Eppure l’uomo, dichiara lo psicologo americano Goleman1, è “programmato per connettersi”,

ovvero per stabilire vincoli e legami affettivi con altri individui dei quali, in modo diverso, entra a far parte, in un incontro fra mondi che si arricchiscono nel confronto, nel contatto e nel reciproco scambio, in virtù delle molteplici esperienze e dei vissuti. Anche Platone ed Aristotele hanno parlato dell’uomo nei termini di un animale sociale, di cultura aggiunge Cassirer2 quasi a volerne sottolineare la naturale predisposizione a farsi partecipe della vita altrui, una vita che “respira” un’atmosfera di fatti e atti, di conoscenze e saperi, di mondi culturali che trovano libera espressione nell’arte, nella lingua, nella storia, nella scienza e nella religione, regni e spazi dell’umano, perché forme e modalità di essere al mondo. È l’uomo, difatti, l’artefice della cultura, universo di valori, dichiara ancora Cassirer, animato da quei simboli che attendono di avere un significato, il quale deriva da una necessaria quanto complessa opera di condivisione e di negoziazione. Il legame sociale e culturale, pertanto, diviene via di accesso alla comunicazione, poiché permette negoziazione, scelta, analisi e confronto, per superare probabili ostacoli e barriere che generano inevitabilmente indifferenza e distacco, con una perdita di forza coesiva anche a livello sociale e culturale. I muri della solitudine, eretti per protezione e difesa individuale, possono essere abbattuti solo con una ri-conciliazione fra le menti,

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poiché se c’è dialogo e comunicazione ci saranno anche confronto, libertà di espressione e di parola. Quei “noi” dal fragile confine, costruiti in assenza di un radicato senso di appartenenza alla comunità intera, sono il segno inequivocabile di una timorosa e pudica apertura agli altri, che se da un lato invita a “prendere le distanze” dalla società, tende d’altra parte a consolidare i legami stretti fra gruppi, quei clan che si ritrovano nel linguaggio, nella gestualità, nello stile d’essere, come a voler rafforzare un senso di identità che però si mostra fiacco, debole e fragile verso il resto del mondo da cui è acuito il distacco, per radicarsi in uno spazio di identità ritagliato su misura, costruito con pochi intimi, intenzionalmente e volutamente distante dal resto del mondo. Questo non è che uno dei tanti paradossi di cui gli abitatori del nostro tempo si rendono protagonisti. Difatti basta pensare al vitale desiderio di comunicare, soffocato abitudinariamente da quell’auricolare di cui siamo sempre più dipendenti, come a voler sottolineare il ricercato distacco dalla caotica miscellanea di rumori e suoni che avvolgono e movimentano la quotidianità. Proprio questa routine pare essere dominata dalla chiacchiera e dal rumore che finiscono per soprassedere alla parola e all’ascolto. Lo stesso linguaggio e le modalità comunicative cambiano nel tempo, rispecchiando la flessibilità del pensiero, in onore ad una plasticità che dà conto dei sorprendenti poteri del cervello. Nel tempo il pensiero e il linguaggio si modificano, per rivelare una plasticità che garantisce fluidità, movimento, potere di cambiamento, facilitando così l’ingresso dell’uomo in quella rete di coordinate del mondo, descritte da Bodei3, che lo accolgono coinvolgendolo interamente, nell’anima e nel corpo, nella psiche e nella dimensione affettiva. La dimensione affettiva, in particolar modo, emerge con prepotenza nei comportamenti individuali e nel linguaggio, colorando i rapporti interpersonali e la comunicazione, la quale si tinge di tonalità capaci di trasmettere vibra-

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zioni emotive di sfaccettata intensità. La comunicazione, tratteggiata da emozioni, marcata da suoni e parole, riesce a trasmettere sentimenti che suscitano stati d’animo sull’onda dell’empatia, capace di produrre un sentire comune che onora e rivela l’unità di intenti, frutto a sua volta di un incontro fra menti umane che si arricchiscono reciprocamente. Tuttavia questa condivisione viene meno, aggiunge Adler, nel momento in cui mancano le coppie complementari dello scrivere-leggere, parlare-ascoltare4. Lo scritto e il parlato, difatti, ritrovano il loro senso quando c’è chi legge e chi ascolta, trasmettendo il proprio potere comunicativo che si consolida sullo scambio culturale, in un dialogo che non sempre ha bisogno di parole quando è affidato al proprio pensiero, per un ascolto che, così, si rende attivo se produce sollecitazioni e invita al ripensamento. La comunicazione, allora, può anche fare a meno di suoni, non ha bisogno di alzare il “tono” per essere effettiva: segni, colori, gesti, espressioni del volto e posture molte volte sono più eloquenti di tante parole “buttate a caso” e delle urla, inefficaci quanto fastidiose. Tuttavia, affinché un incontro di menti e cuori sia possibile, nella tensione che l’etimologia della parola comunicare esprime, dovranno esserci attenzione, rispetto e devoto silenzio, un silenzio che non è vuoto solo perché in questo i rumori non producono eco e le parole non risuonano, trattandosi piuttosto di un ascolto garbato, privo di sottolineature e prepotenze. Di qui la necessità di un’educazione all’ascolto capace di farsi pratica ed esercizio, nella scoperta di un intervallo fra quanto espresso e chiesto, fra ciò che è detto esplicitamente e quanto è invece sottinteso, rendendosi “arte” (quella di ascoltare) capace di cogliere l’essenza delle parole, “in un impercettibile intervallo al mutare di ogni stato delle cose”.5 Educare all’ascolto, allora, vuol dire andare controcorrente, per opporre resistenza a quella civiltà del rumore che atrofizza l’ascolto autentico, smorzandone le inattese possibilità, per cedere alle lusinghe di una società dove


l’essere inascoltati rivela disattenzione, disinteresse e indifferenza, tratti marcati di anaffettività, se non di sottaciuta e/o dichiarata ostilità. Triste quanto mai significativa è in merito a ciò quanto osserva Baldini, il quale a questo riguardo nota come quella attuale sia “una società in cui tutti parlano e nessuno ascolta”6, incoraggiando la diffusione di un “linguaggio disoccupato”, prodotto com’è dalla ripetizione anonima e spesso impersonale di “parole senza peso, inoperanti, inessenziali”7, con una ridondanza di messaggi che spesso “smussano il pensiero provocando una narcosi intellettuale”8, poiché “la scelta di una recettività amorfa è la difesa più facile e immediata”9 a tanto caos e rumore. Le parole, in questa realtà, sono private di effetto, non innescano azioni, non producono stupore, non seducono all’ascolto, per rendersi vuote, perdendo così la loro incisività che ne fa invece uno strumento per vivere. Ogni lingua è “forma di vita” ricorda Van Buren10 non recepirla significa ignorare un modo di essere presenti e partecipi a quel mondo di cui il linguaggio attesta l’esistenza, con le sue convenzioni e le regole che lo rendono chiaro e comprensibile, quindi espressione di sentimenti e volontà, desideri e doveri. Pertanto apprendere un linguaggio è segno di una avvenuta conoscenza e di una possibile condivisione, perché abbisogna di comprensione per rivelarsi forma del mondo e della vita, con quelle tracce di pensiero che ogni linguaggio porta in sé. Riabilitare la coscienza, affinare il pensiero, sollecitare le abilità critiche e far guadagnare elasticità cerebrale per intrattenere il pensiero nelle soste (momenti di ripensamento e di meditazione) ed abituarlo alla riflessione, sono gli obiettivi principali di un’educazione in grado di promuovere la capacità di ascoltoattivo, da concretizzare a casa come a scuola e nella comunità, in vista di un’auspicata apertura al mondo, per un fiducioso incontro con gli altri che permette libera espressione delle possibilità espansive e dichiarative di ogni essere umano che nel legame con gli altri scopre

la sua autenticità e guardando in sé diviene autore di una rinnovata umanità. Difatti, solo dall’incontro con l’altro, nel dialogo delle coscienze e dell’intelletto di cui l’ascolto è premessa e richiesta, l’uomo potrà trovare via di uscita a quel nulla prodotto da assenza di valore etico, di essere metafisico e di poetica dell’umano che lo impoveriscono e ne impigriscono il pensiero. Note: 1 Cfr. D. Goleman, Intelligenza sociale, Milano, Rizzoli, 2006. 2 Cfr. E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia della cultura, Roma, Armando, 1972. 3 Cfr. R. Bodei, La filosofia nel Novecento. Gli scenari teorici del nostro mondo, Roma, Donzelli, 2006. 4 Cfr. M. J. Adler, Come parlare. Come ascoltare, Roma, Armando, 1984. 5 C. Sini, Il gioco del silenzio, Milano, Mondadori, 2006, p.20. 6 M. Baldini, Educare all’ascolto, Brescia, La Scuola, 1988, p. 8. 7 ivi, p.9. 8 ivi. 9 ivi. 10 Cfr. P.M.Van Buren, Alle frontiere del linguaggio, tr. it., Roma, Armando, 1977. Riferimenti Bibliografici: ADLER M. J., Come parlare. Come ascoltare, Roma, Armando, 1984; BALDINI M., Educare all’ascolto, Brescia, La Scuola, 1988; BODEI R., La filosofia nel Novecento. Gli scenari teorici del nostro mondo, Roma, Donzelli, 2006; CASSIRER E., Saggio sull’uomo. Introduzione ad una filosofia della cultura, Roma, Armando, 1972; GENNARI M., Filosofia della formazione dell’uomo, Milano, Bompiani, 2001; GOLEMAN D., Intelligenza sociale, Milano, Rizzoli, 2006; SINI C., Il gioco del silenzio, Milano, Mondadori, 2006; VAN BUREN P.M., Alle frontiere del linguaggio, tr. it., Roma, Armando, 1977.

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Comunicare è sedurre. Parte seconda

di Massimiliano Cavallo1 Quante volte ci siamo distratti a scuola o all’università perché il professore non sapeva spiegare bene? Credo che molti di voi abbiano vissuto almeno una volta questa situazione: il professore che spiega e si compiace delle sue parole senza accorgersi che la classe non lo sta ascoltando. Oggi, la stessa cosa, accade con molti oratori, troppo concentrati su di se e poco attenti a verificare se quanto stanno dicendo stia interessando o meno al pubblico. Nel primo articolo (QTimes, 2/11) abbiamo parlato di come sia importante superare la paura di parlare in pubblico e, infatti, un oratore sicuro di sé è sicuramente in grado di tenere alta l’attenzione della sala. La letteratura sulla comunicazione ci insegna che gli elementi fondamentali della comunicazione sono sei e che la comunicazione è strutturata come una catena in cui c’è un emittente che attraverso un canale di emissione (la parola, le immagini o il testo scritto), invia il messaggio, cioè il corpo della conversazione , che a sua volta contiene un referente ossia un argomento, ed è strutturato secondo un codice. Infine, attraverso un canale di ricezione, il ricevente recepisce il messaggio. Come si può notare, questo tipo di comunicazione è di tipo unidirezionale, dall’emittente al ricevente. Quello a cui dobbiamo puntare è invece un tipo di comunicazione circolare, in cui ciò che io dico o faccio influenza l’altro e la sua reazione influenza me e il mio succes-

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sivo atto comunicativo, in un atto di influenza reciproca. A meno che non pensiamo che il nostro discorso significhi semplicemente “parlare”… Si deve fare il possibile per rendere efficace e penetrante la propria comunicazione verbale, e per fare questo si deve riuscire ad interessare il pubblico e a comunicare sensazioni. In altre parole si deve far capire agli altri il proprio messaggio e non fare l’errore di compiacersi delle proprie parole, di pensare di strappare l’applauso con paroloni ricercati di cui conosciamo solo noi il significato. Comunicare significa influenzare, ma soprattutto farsi capire ed assumersi la responsabilità di ammettere che ogni volta che il pubblico non comprende ciò che diciamo la colpa è nostra. Si può quindi affermare che la comunicazione verbale è una forma di seduzione. Infatti, interessare, piacere, fare emozionare il pubblico che ci ascolta significa sedurre e parlare in pubblico è una forma di seduzione. L’aspetto più importante del parlare in pubblico è insomma l’arte di saper piacere, l’arte di portare le vostre argomentazioni dentro uno stile gradevolmente convincente, uno stile capace di persuadere, commuovere, divertire e perché no, fare sognare i vostri interlocutori. Gli uomini e le donne di tutto il mondo usano la seduzione per conquistare o fare innamo-


rare il partner. In realtà che cosa fanno se non comunicare sensazioni cercando di piacere e interessare? La prima cosa da fare, per puntare a coinvolgere il nostro pubblico, è capire a chi sto parlando e quali sono le sue aspettative. E’ importante conoscere il contesto in cui parliamo, sapere quanto tempo abbiamo a disposizione e quanto possiamo dilungarci sui singoli punti che vogliamo trattare. Soprattutto dobbiamo mettere a fuoco l’obiettivo del nostro discorso se, cioè, vogliamo fare un discorso che punti a informare o a convincere qualcuno della nostra tesi. Fatta questa premessa ci sono alcune regole che valgono indipendentemente dal contesto: è sconsigliato innanzitutto imparare i discorsi a memoria poiché si perde di naturalezza e spontaneità e aumenta il rischio di avere dei vuoti di memoria. Per lo stesso motivo viene scoraggiata la lettura dell’intervento, perché guardare un foglio ci fa perdere il contatto visivo con il pubblico. E proprio lo sguardo è la nostra migliore arma per coinvolgere il pubblico. Molti oratori alle prime armi sono portati a guardare un punto nel vuoto o a fissare i propri amici, soprattutto se questi annuiranno col capo per darci coraggio. In realtà, guardando loro, che sono già “dalla nostra parte”, stiamo escludendo il resto della sala. Il nostro obiettivo, soprattutto se ci troviamo di

fronte a piccole platee, è di guardare tutti, per conferire importanza ad ognuno. E’ quello che viene chiamato sguardo democratico e che ci permette una maggior capacità di persuasione perché dà più forza al nostro messaggio e aumenta la congruenza tra verbale, paraverbale e non verbale. Lo sguardo permette soprattutto all’oratore di ottenere più feedback. Banalmente, potremmo dire che guardando la sala e non il foglio davanti a noi, possiamo accorgerci se il nostro pubblico si sta addormentando! Ci sono infatti dei segnali inequivocabili che l’uditorio ci invia per farci capire se sta gradendo o no il nostro intervento: sporgersi col busto in avanti, come per voler sentire meglio, è senza dubbio un segnale di attenzione che ci incoraggia ad andare avanti. Allo stesso modo se qualcuno prende appunti è evidente che sta dimostrando interesse. Sempre ricordandosi di osservare il contesto generale, ci sono dei segnali che possono rivelarci come il nostro discorso debba cambiare direzione, come ad esempio vedere i partecipanti che quasi si sdraiano sulle loro sedie, che incrociano le braccia o che sfuggono lo sguardo dell’oratore. In questi e altri casi è necessario ricorrere ad altri strumenti comunicativi adottando tecniche simili a quelle degli scrittori (grassetto, corsivo, disegni, ecc). Si deve quindi cambiare il tono della voce, sottolineare alcuni passaggi con delle pause, variare la gestualità, proiettare laddove possibile un filmato e, soprattutto, tenere conto degli interessi di chi ascolta, parlare il loro linguaggio adeguandosi al contesto, evitando, come detto prima, di compiacersi delle proprie parole. Ricordatevi che comunicare non significa parlare, prendete il vostro pubblico e fatelo innamorare di voi! Note: 1 Nei prossimi numeri continueremo a capire insieme come migliorare il proprio modo di parlare in pubblico. Se volete approfondire qualche aspetto in particolare scrivete a massimiliano.cavallo@gmail.com.

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Il Pensiero di Jacques Maritain

di Maria Gioia Pierotti Jacques Maritain, è stato uno dei maggiori filosofi francesi del 900. La sua riflessione attorno alla sfera educativa avviene dopo la seconda guerra mondiale, attraverso le sue due principali opere pedagogiche che sono: “L’educazione al bivio” e “Per una filosofia dell’educazione”. Il pensiero di Maritain, pone quindi le sue basi su un concetto di educazione di stampo filosofico, visto che, l’azione educativa è chiaramente un’azione implicita e consapevole, è doveroso rifarsi: • Sia alla natura del soggetto che si educa • Sia alle finalità che l’azione educativa persegue Quindi il richiamo alla concezione dell’uomo ed alla sua natura, sono campo privilegiato della filosofia, così che la pedagogia si coniuga con essa, per trovare il suo fondamento. Fatta questa premessa, la concezione della persona seconda Maritain, è quella di un uomo che si possiede per mezzo dell’intelligenza e della volontà: in quanto, l’uomo non esiste soltanto come un essere fisico: c’è in lui, l’esistenza più nobile e ricca: la sovra esistenza spirituale della propria coscienza e dell’amore. La nozione di personalità, implica così quella di totalità, dire che un uomo è una persona, significa dire, che nella profondità del suo essere, egli è un tutto e non soltanto una parte. La funzione dell’educazione, deve essere quella di un autentico ri-

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sveglio umano, l’educazione come opera di umanizzazione, così diviene della massima importanza, che ogni educatore abbia il rispetto di ogni singolo individuo: il senso delle sue risorse interiori, delle sue profondità e della sua essenza: è una specie di sacra amorosa attenzione al mistero della sua identità. Del resto educare, è un mestiere dannatamente serio, che ha molto seriamente a che fare con chi siamo: perché si tratta propriamente di incontro, e la qualità dell’incontro tra chi educa e chi è educato è biunivoca. Riflettere sull’educazione, identificandola come valore perenne, capace di resistere allo scorrere del tempo. L’educazione deve essere fondata, sul rispetto e sul valore della persona, solo così potrà offrire una crescita umana autentica, capace cioè di costruire un progetto di vita, dotato di senso, così da giustificare la nostra presenza sulla terra. Ciò che soprattutto conta, nell’opera educativa, è un continuo richiamo all’intelligenza di ciascuna persona. Ogni campo di insegnamento, deve guardare oltre al suo valore pratico, umanizzandosi attraverso la personalità di ciascun allievo. Così che educare, diviene testimonianza di amore per la persona in formazione, oggi continua e permanente, dovremmo precisare, nel tentativo di comprendere ed accogliere i bisogni formativi ed esistenziali che possiede. Il compito principale dell’educazione, è quello soprattutto di formare l’uomo, o piuttosto di guidare lo sviluppo dinamico per mezzo del quale, l’uomo forma se stesso ad essere uomo. L’uomo non è soltanto un “animale di natura”, come può essere un canarino o un pesce, è anche un “animale di cultura”, la cui specie può sussistere soltanto con lo sviluppo della società e della civiltà; è un animale storico: dove la molteplicità dei tipi culturali o etico-storici che diversificano l’umanità, da qui anche l’importanza dell’educazione. Per il fatto stesso di essere dotato di un potere di conoscenza illimitato, che però deve avanzare per gradi, l’uomo non può progredire nella sua vita specifica, sia sul piano spirituale che morale, senza l’aiuto dell’esperienza collettiva accumulata e conservata dalle generazioni


precedenti e di una regolare trasmissione delle conoscenze acquisite. Per raggiungere questa libertà nella quale attua se stesso, e per la quale è fatto, egli ha bisogno di una disciplina e di una tradizione che incideranno notevolmente su di lui e al tempo stesso lo rafforzeranno tanto da renderlo capace di lottare contro esse. Ciò arricchirà questa tradizione stessa e la tradizione arricchita, poi, renderà possibili nuove conquiste. L’educazione è un’arte, un’arte particolarmente difficile. Tuttavia essa appartiene per la sua stessa natura alla sfera morale e della sapienza pratica. L’educazione è un’arte morale (o piuttosto una sapienza pratica un cui è incorporata una determinata arte). Ora ogni arte è una spinta dinamica verso un oggetto da realizzare che è lo scopo dell’arte stessa. Non c’è arte senza finalità; la vitalità stessa dell’arte consiste nell’energia con cui tende al suo fine, senza fermarsi a nessuno stadio intermedio. E qui è bene sottolineare i due grandi errori da cui deve guardarsi l’educazione. Il primo consiste nella dimenticanza o nel misconoscimento dei fini. Se i mezzi sono voluti e studiati per amore della loro propria perfezione e non soltanto come mezzi, in questa precisa misura cessano di condurre al fine e l’arte perde la sua forza pratica: la sua vitale efficienza è sostituita da un processo di moltiplicazione all’infinito perché ogni mezzo si sviluppa per se stesso e prende per se stesso un campo sempre più esteso. Questo primato dei mezzi sul fine ed il conseguente crollo di ogni finalità certa e di ogni vera efficacia nel realizzarla sembra sia il principale rimprovero. Il guaio è precisamente che essi sono così buoni da farci perdere di vista il fine. Dove la sorprendente debolezza dell’educazione odierna, debolezza che deriva dal nostro attaccamento alla perfezione in sé dei nostri mezzi e metodi di educazione, e dalla nostra impotenza a piegarli al loro fine. Il secondo errore comune consiste non in una dimenticanza della finalità, ma in idee false o incomplete riguardo alla natura stessa del fine. Il compito educativo è più grande, più misterioso insieme, e, in un certo senso, più umile di quanto molti immaginano.

Se il fine dell’educazione consiste nell’aiutare e guidare il bambino verso la propria perfezione umana, l’educazione non può sfuggire ai problemi e alle difficoltà della filosofia, perché essa suppone per sua stessa natura una filosofia dell’uomo, e per prima cosa è obbligata a rispondere alla domanda rivolta dalla sfinge della filosofia: “Che cosa è l’uomo?” Quindi il pensiero pedagogico di Maritain, può essere racchiuso nel concetto di una persona, intesa come svelarsi incessante di cuore e ragione, che chiede in ogni tempo, un’opera di consapevolezza che evita di cedere alle lusinghe e alle mode del momento; attraverso l’affermazione di valori che pur se gli anni, e le mentalità prevalenti, possono condizionare, in realtà, non passano mai, perché hanno natura diversa rispetto alle cose materiali, le quali possono davvero deteriorarsi. Maritain insiste sul principio di formare il discente tenendo sempre bene a mente il fatto che si ha a che fare con una “vera persona umana”, che matura la propria perfezione da se stessa mediante la conoscenza e l’amore, e che è pertanto capace di donare se stessa; per raggiungere la vita della ragione e della libertà, la persona ha bisogno di un insegnamento positivo, cosa che richiede la funzione del maestro. Il filosofo afferma, che se, la natura e lo spirito del fanciullo sono l’agente principale dell’educazione, allora è evidente che le disposizioni fondamentali da favorire in questo agente principale costituiscono la base stessa dell’opera educativa. Queste disposizioni sono radicate, sì, nella natura, ma possono venire falsate, e devono essere accuratamente coltivate. Riconosce, dunque delle diposizioni fondamentali: • amore del vero e del bene. Prima di tutto l’amore della verità che è la prima tendenza di ogni natura intellettuale. L’amore del bene e della giustizia e la naturale propensione della persona verso imprese eroiche. • apertura verso l’esistenza. Disposizione naturale anche questa, da intendersi come l’atteggiamento di un essere che esiste volentieri, che non si vergogna di esistere.

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• senso del lavoro ben fatto, perché dopo l’atteggiamento di apertura verso l’esistenza non c’è niente di più fondamentale nella vita psichica dell’uomo che l’atteggiamento di apertura verso il lavoro. • senso della cooperazione, senso che in noi, è altrettanto naturale e contrastato, quanto la vita sociale e politica. La “regola”, che un buon maestro dovrebbe seguire per Maritain, è incoraggiare e favorire quelle disposizioni fondamentali che permettono al bambino di svilupparsi nella vita dello spirito. E’ chiaro che da questo punto di vista, compito del maestro è soprattutto di liberare. Liberare le buone energie è il mezzo migliore per coltivare la propria persona. L’incoraggiamento è tanto fondamentalmente necessario, la vera arte consiste nel rendere il fanciullo vigilante sulle proprie risorse e sulle proprie capacità nella bellezza di agire bene. Altra regola fondamentale consiste nel centrare l’attenzione sull’intimità profonda della personalità e del suo dinamismo spirituale preconscio: in altri termini, consiste nel preoccuparsi innanzitutto del di dentro, e dell’interiorizzazione dell’influenza educativa. Certamente l’educazione ha molto a che fare con il dinamismo dell’inconscio della mente del fanciullo, è per questo che, lo spirito che anima l’insegnamento assume un’importanza decisiva. Se il maestro stesso si preoccupa di discernere, vedere, avere la visione di ciò che è, piuttosto di collezionare fatti e opinioni, e se egli mette in funzione del suo bagaglio di conoscenza in modo da vedere con questo mezzo nella realtà delle cose, allora egli aiuterà il potere d’intuizione a destarsi e a consolidarsi nella mente dello studente senza che se ne accorga, grazie alla stessa intuitività che permea un simile insegnamento. Tutto il lavoro dell’educazione deve tendere ad unificare e non a disperdere; esso deve costantemente sforzarsi di assicurare e nutrire l’intera unità dell’uomo, ciò significa che fin dall’inizio e, per quanto possibile, per tutti gli anni della giovinezza, mani e mente devono lavo-

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rare insieme. Il “dinamismo dell’educazione” del filosofo francese, vale a dire l’educazione colta nell’attività dei suoi agenti o fattori dinamici, che sono l’educando e l’educatore, e indica quali sono le disposizioni fondamentali da favorire nell’educando e le norme cui deve attenersi l’educatore. Dunque, e sta qui, la rivendicazione fondamentale della pedagogia maritiainiana, due sono i fattori dinamici dell’educazione: il soggetto da educare e il soggetto educante: essi sono rispettivamente e la precisazione non è meno importante della rivendicazione, l’agente primario e l’agente secondario. Per Maritain, educando ed educatore sono entrambi agenti: principale il primo, ministeriale il secondo, ma entrambi essenziali, perché l’educando è la forza propulsiva prima, e l’educatore è per quanto secondario, fattore autenticamente efficace. In questa prospettiva, l’educazione dal filosofo è definita un’arte, arte ministeriale, arte al servizio della natura. Come la medicina. Ritorna un paradigma classico anche nella pedagogia contemporanea (Dewey, farà invece riferimento alla ingegneria, e parlerà di pedagogia come ingegneria sociale.) L’educazione è un contesto di crescita e di guida che l’educazione “deve essere centrata sullo sviluppo e sulla liberazione della persona individuale”, facendo attenzione ad evitare il duplice rischio. Il primo, è la riduzione della persona ad individuo, per cui l’educazione è liberazione dell’individualità (vita dell’istinto e dei sensi), anziché liberazione della personalità (vita della ragione e della libertà). Il secondo è il rifiuto della individualità come dimensione della persona, di contro alla concezione anarchica o permissiva, che produce spontaneismo, e a quella dispotica o autoritaria, che produce conformismo, Maritain insiste su una concezione che, pur unitaria, distingue nell’uomo due aspetti costituitivi: della individualità e della personalità, e finalizza l’educazione alla formazione della persona: “in originale e non in copia”. Un insegnante efficace appellandoci al contributo dato da altri studiosi come, L. Vygotskij, dovrà sempre tenere presente che


il comportamento umano è troppo complesso per poter essere studiato in un vuoto sociale artificiale, al contrario esso va studiato nel contesto storico e culturale in cui avviene. Visto che, l’insegnamento e l’apprendimento avvengono in un contesto sociale sotto forma di processi dinamici e fluidi, non rigidi non predeterminati. Costruendo un’educazione che sia totale per poter riuscire ad educare all’umanità, quel complesso di elementi spirituali quali la benevolenza, la comprensione, la generosità verso gli altri, dato che la vita mentale prende forma prima di tutto nell’interazione con l’altro; il fatto di dover offrire ai bambini delle occasioni per interagire con gli altri, li costringe a pensare al loro stesso pensiero (metacognizione), e a comunicare su esso. Va annotata la necessità dunque di intendere l’educazione, come un’azione volta ad assicurare ad ogni persona le condizioni per esprimere se stessa, per liberare le potenzialità di cui dispone, potenzialità che le scienze dell’educazione, chiamando in causa la psicologia, la sociologia, la filosofia, la storia dell’educazione, l’antropologia culturale, la biologia, le neuroscienze e molte altre discipline che si interessano dell’uomo esaltandone la natura, veicolano e accreditano di volta in volta i bisogni profondi che emergono sia se la persona è osservata nella sua singolarità sia nei contesti sociali e comunitari. Riferimenti Bibliografici: ACONE G., L’ultima frontiera dell’educazione, Editrice la Scuola, Brescia 1986; CAMBI F., Nel conflitto delle emozioni. Prospettive pedagogiche, Armando, Roma 1998; DIXSON-KRAUSS, Vygotskij nella classe, Erikson, Trento 2000; MARITAIN J., Per una filosofia dell’educazione, Editrice La scuola, Brescia 2001; MARITAIN J., L’educazione al bivio, Editrice La Scuola, Brescia 1963; ROSATI A., Per una filosofia dell’educazione, Anicia, Roma 2010; ROSATI L., La fine di un’illusione, Morlacchi, Perugia 2008.

Comprendere il Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività. Parte quinta: l’intervento multimodale. La terapia farmacologica e il percorso individuale cognitivo comportamentale per il bambino con DDAI

di Alessia Giangregorio Introduzione Secondo l’approccio multimodale il bambino con DDAI deve essere posto al centro di programmi di intervento che lo coinvolgano direttamente, come quello farmacologico e quello cognitivo-comportamentale, ma anche di percorsi predisposti per i genitori e gli insegnanti, quali il Parent Training (PT) e il Teacher Training (TT), che lo raggiungano indirettamente. Tali interventi nel loro complesso mirano a migliorare il funzionamento globale del soggetto, consentendogli di incrementare le relazioni interpersonali adattive e la capacità di apprendimento scolastico, di diminuire i comportamenti inadeguati e di realizzare un cambiamento positivo nella qualità di vita. Procedendo in un’ottica psicopedagogica il

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trattamento farmacologico, pure importante e talvolta necessario, sarà oggetto di trattazione solo a livello introduttivo. Il farmaco, infatti, non insegna nulla, non determina l’acquisizione di competenze e abilità, ma, laddove necessario, crea lo “spazio” utile al loro conseguimento all’interno dei percorsi educativi. Come sottolineano le linee guida della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (S.I.N.P.I.A.), inoltre, la somministrazione dei farmaci deve avvenire solo dopo aver sperimentato altri tipi di trattamento e averne constatata l’inefficacia; l’intervento farmacologico deve altresì essere sempre affiancato, come conditio sine qua non per la sua attuazione, almeno da un counseling familiare o da un percorso di PT (S.I.N.P.I.A., 2006). Queste considerazioni si pongono dunque alla base della prospettiva adottata nella scelta degli itinerari operativi, di carattere abilitativo-riabilitativo, presentati in questo contributo, nel quale viene posto l’accento sul percorso terapeutico individuale dedicato al bambino; nel prossimo articolo verrà invece affrontato il tema del Parent Training e del Teacher Training. L’intervento farmacologico: il Registro Italiano del DDAI Il Registro Italiano del DDAI è stato istituito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) per garantire l’accuratezza diagnostica ed evitare un uso improprio del medicinale adottato per il trattamento farmacologico, ossia il Metilfenidato, la cui somministrazione è prevista nei casi in cui i sintomi presentino un elevato livello di severità. In base a questo documento la prescrizione è vincolata alla predisposizione di un piano terapeutico semestrale da parte di un Centro clinico accreditato, poiché il farmaco fa parte delle sostanze controllate e rientra nella tabella degli stupefacenti. Il Registro prevede che la prima somministrazione venga effettuata dal Neuropsichiatra Infantile del Centro regionale di riferimento in regime di day hospital, per poter controllare la tollerabilità del medi-

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cinale da parte del bambino; sempre in day hospital avvengono le somministrazioni durante il primo mese. Successivamente le prescrizioni possono essere effettuate dal Neuropsichiatra locale o dal pediatra di famiglia. Si procede poi a controlli semestrali condotti a 6, 12, 18 e 24 mesi, per un totale di due anni, tempo previsto per la conservazione dei dati (in forma anonima) nel Registro. Durante i controlli viene valutato lo stato di salute del paziente e la presenza di eventuali effetti indesiderati e viene fatto nuovamente uso degli strumenti testologici già usati in fase MANCA UNA PAROLA, al fine di determinare i cambiamenti intervenuti dal punto di vista comportamentale, sociale e cognitivo. È necessario sottolineare che il trattamento farmacologico non trova concorde il mondo scientifico. Sebbene sia riconosciuto a livello ufficiale, infatti, esistono posizioni diverse, alle quali si riferiscono anche dei medici, che affermano l’inutilità e soprattutto la dannosità del suo utilizzo. Secondo questi approcci il DDAI in realtà non esisterebbe, ma sarebbe un disturbo inventato da medici e psicologi con finalità speculative. Questi soggetti sono considerati invece come particolarmente dotati di capacità creative, imprenditoriali, di grande fantasia e di spirito di iniziativa, proprio in virtù delle loro caratteristiche peculiari. Tra le associazioni che sostengono questa visione si collocano Perché non accada e Giù le mani dai bambini, vicine a Scientology (cfr. MASI – ZUDDAS, 2006; SCOGLIO, 2007). Il Metilfenidato e l’Atomoxetina Il trattamento farmacologico, quando necessario, prevede la somministrazione del Ritalin, nome commerciale del Metilfenidato, oppure dell’Atomoxetina, conosciuta anche come Strattera. Il Ritalin è un farmaco psicoattivo della famiglia degli psicostimolanti. Sebbene possa apparire un paradosso somministrare degli psicostimolanti a soggetti iperattivi, sembra che questa sostanza agisca aumentando il rilascio


del neurotrasmettitore della dopamina e bloccando parzialmente i mediatori che lo rimuovono a livello delle sinapsi. Stimola quindi il neurotrasmettitore a passare dalla regione presinaptica, nella quale viene solitamente bloccato, al neurone successivo, determinando così una diminuzione dei sintomi. Assunto per via orale, è caratterizzato da una rapida azione che mostra la sua efficacia clinica circa mezz’ora dopo la somministrazione, per raggiungere un picco dopo due ore; gli effetti durano circa 2/5 ore. Sono previste 2/3 somministrazioni giornaliere. L’utilizzo preferenziale del Metilfenidato nel trattamento del DDAI, nonostante non manchino critiche in tal senso, è dovuto al suo rapporto terapeutico/tossico pari a 100:1, che lo rende uno dei farmaci a uso pediatrico più sicuri sul mercato. Nonostante ciò non mancano gli effetti collaterali, come l’insonnia, la diminuzione dell’appetito, problemi gastrointestinali, nausea, perdita di peso e arresto della crescita; tali effetti però, in presenza di una corretta somministrazione, sono considerati come condizioni temporanee che raramente richiedono la sospensione del trattamento. È inoltre possibile che il medicinale induca o aumenti i tic, i movimenti involontari e le idee ossessive. In alcuni casi può comportare cardiopatie e, in circostanze rarissime, lo sviluppo di sintomi simili a quelli dell’autismo. Dal punto di vista emotivo si può invece verificare una diminuzione dell’autostima e della creatività, legata alla percezione di non riuscire a controllare il proprio comportamento senza il farmaco, e una diminuzione della capacità di apprendimento. Circa la tossicità a lungo termine del Metilfenidato, invece, gli studi sono ancora limitati. È inoltre necessario ricordare che una volta esaurito il suo effetto i sintomi del disturbo si ripresentano immediatamente (cfr. Battistella, 1999). L’Atomoxetina, di recente introduzione nel trattamento del DDIA, è un inibitore selettivo della ricaptazione della noradrenalina – o norepinefrina – e costituisce il primo farmaco non stimolante a essere impiegato nella tera-

pia del disturbo. In particolare la sua adozione sembra essere preferibile a quella del Ritalin in quanto non è emerso un significativo potenziale di abuso. Mentre il Metilfenidato agisce solo sul lobo frontale, inoltre, l’Atomoxetuina si lega in maniera differente ai neurotrasmettitori della dopamina e fa si che venga trasportata anche in altre parti del cervello, consentendo una migliore regolazione delle funzioni cognitive. Gli effetti di questo farmaco permangono nell’arco delle 24 ore, per cui è possibile effettuare un’unica somministrazione giornaliera. Il trattamento con l’Atomoxetina è risultato associato a un significativo miglioramento non solo dei sintomi cardine del DDAI ma anche del funzionamento familiare, scolastico e sociale. La sua assunzione ha inoltre mostrato effetti positivi in caso di associazione con disturbi d’ansia e oppositivo/ provocatori, mentre non si evidenzia un peggioramento degli eventuali segni depressivi o dei tic motori o verbali. Tra i principali effetti collaterali si segnalano cefalea, disturbi cardiovascolari e gastrointestinali, sonnolenza, riduzione dell’appetito e perdita di peso. Tali effetti, però, scompaiono dopo un primo periodo di adattamento, mentre quelli prodotti dal Metilfenidato permangono a volte anche al termine del trattamento (cfr. Smith – Barkley, 2006; Marangell, 2006). L’intervento cognitivo-comportamentale con il bambino Il trattamento cognitivo-comportamentale rappresenta l’approccio elettivo alla terapia del bambino con DDAI. L’uso dei farmaci infatti ha, come accennato, il limite di “non insegnare” l’autocontrollo, ma può comunque creare uno spazio affinché, con l’affiancamento di altri tipi di interventi, il bambino possa acquisire questa capacità. Il training individuale cognitivo-comportamentale mira infatti a favorire l’apprendimento dell’autocontrollo attraverso l’utilizzo di autoistruzioni verbali. Nel descrivere questo tipo di intervento verrà fatto riferimento al programma elaborato dal

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gruppo di Cesare Cornoldi, in quanto rappresenta il contributo più significativo e diffuso nella pratica terapeutica in ambito italiano. Aspetti generali dell’approccio cognitivocomportamentale La terapia cognitivo-comportamentale si basa sui presupposti dell’omonima teoria, sviluppata negli anni ’60 all’interno delle teorie dell’apprendimento. Questo approccio costituisce un diretto sviluppo della teoria comportamentale sviluppata nei primi anni del XX secolo da Watson e Pavlov – e delle terapie a questo correlate – a differenza della quale, però, la teoria cognitivo-comportamentale (TCC) non limita la propria attenzione solo agli aspetti relativi al comportamento osservabile, ma prende in considerazione anche i fattori interni, ovvero i pensieri, le sensazioni e le emozioni che precedono e determinano il comportamento stesso (cfr. Molinari - Labella, 2007). Oltre al riferimento al comportamentismo, infatti, questo modello di studi si pone anche in relazione con il cognitivismo, secondo il quale le emozioni e le condotte sono influenzate dalla percezione degli eventi. In base a questo assunto, quindi, l’attenzione è posta non tanto sugli eventi in sé, quanto sul modo in cui questi vengono percepiti e interpretati. Partendo da tali presupposti la TCC mira ad aiutare il soggetto a individuare le interpretazioni errate e i pensieri disfunzionali, proponendo delle alternative fondate su una visione più realistica delle situazioni. Ciò porta a sviluppare credenze funzionali rispetto a sé e agli eventi e a implementare le condotte positive, modificando quelle non adattive attraverso l’applicazione di un sistema di rinforzi e punizioni, la cui applicazione si fonda sui principi del condizionamento operante, allo scopo di produrre una diminuzione rapida e duratura dei sintomi. L’utilità di un trattamento di tipo cognitivo-comportamentale nei casi di DDAI è stata evidenziata nel 1972 da Virginia Douglas e sistematizzata nel 1977 da Donald Meichenbaum, ritenuto il fondatore di questo tipo di azione in contesto psicoterapeutico. In considerazione delle dif-

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ficoltà di autoregolazione e del deficit del dialogo interno presente nei bambini con DDAI, tale intervento ha lo scopo principale di favorire lo sviluppo di capacità di autoregolazione del comportamento attraverso le procedure di autoistruzione verbale e lo sviluppo di capacità di problem solving. A partire da questo macroobiettivo la terapia mira ad aiutare il bambino ad apprendere delle strategie che gli consentano di trattenere le reazioni impulsive, di produrre soluzioni alternative, di sviluppare il pensiero consequenziale e di riconoscere e gestire le emozioni e le frustrazioni (cfr. Cornoldi et al., 1996; Usai, 2008). L’attivazione del percorso individuale per il bambino richiede la presenza di alcune condizioni di base, quale che il piccolo sia in grado di leggere e comprendere il materiale di supporto che viene presentato durante gli incontri, che disponga di adeguate capacità meta cognitive (Tabella 1) e che il suo livello intellettivo non sia inferiore a QI 75. Oltre a questi aspetti si devono anche considerare, su un piano di realtà, variabili di ordine pratico-organizzativo, legate per esempio alla possibilità effettiva, sia dal punto di vista economico sia logistico, che il soggetto possa partecipare alle sedute almeno una volta a settimana. Cosa si intende per capacità metacognitive? Le abilità metacognitive consentono al bambino di riflettere sui propri stati mentali; permettono quindi di controllare i pensieri e di conoscere e dirigere i processi di apprendimento. In assenza di tali competenze non è possibile effettuare la terapia cognitivo-comportamentale ed è quindi necessario effettuare prima un lavoro teso alla loro acquisizione (cfr. Albanese – Doudin – Martin, 2003). Tabella 1. Definizione di capacità cognitiva

Ogni trattamento, inoltre, deve essere adattato per lo specifico caso, per rispettarne le caratteristiche, le predisposizioni e gli interessi. La


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durata dell’intervento, infine, viene valutata in base alla situazione specifica ma in genere si sviluppa lungo l’arco dell’anno scolastico. Il programma di lavoro proposto al bambino mira a condurlo all’acquisizione di cinque fasi dell’autoistruzione (Tabella 3) che fungono da guida alla risoluzione dei problemi di ordine logico, sociale e scolastico. Il trattamento proposto pone attenzione sia all’aspetto relazionale sia all’aspetto cognitivo-comportamentale sia a quelli attributivo-motivazionali e metacognitivi. In particolare, il tema delle attribuzioni inerenti l’impegno e l’autostima riveste una grande importanza, in quanto questi fattori possono influire sulla disponibilità verso il compito. Le attribuzioni sono elementi su cui è necessario lavorare molto con i soggetti con DDAI, i quali faticano a sviluppare delle connessioni corrette di causa-effetto e tendono solitamente, a fronte dei frequenti fallimenti sperimentati, ad attribuire i propri successi o insuccessi a fattori come la fortuna o la facilità/ difficoltà del compito, mostrando un ridotto locus of control interno e quindi una minore convinzione nelle loro capacità di controllo degli eventi (Tabella 2). Ne consegue una problematicità nell’accrescere la fiducia in sé, che incide negativamente nell’accostarsi a compiti nuovi, nel selezionare le strategie più idonee ad affrontarli e nel controllarne l’andamento. Il locus of control è un costrutto che individua il grado con cui un individuo ritiene di avere il controllo degli eventi della vita. Le persone in cui prevale un locus of control interno tendono a percepire i risultati ottenuti come conseguenze dell’impegno profuso e dei comportamenti messi in atto, ritenendo quindi di essere in grado di esercitare un controllo, mentre le persone nelle quali prevale un locus of control esterno tendono ad attribuire successi o insuccessi a fattori esterni a se stessi, come la fortuna o le circostanze, non assumendosene quindi la responsabilità (cfr. Del Corno – Lang, 2003). Tabella 2. Definizione di locus of control

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Gli incontri, condotti da psicologi e psicopedagogisti, prevedono una modalità individuale, in particolare nella prima parte del trattamento, per permettere al soggetto di concentrarsi sul proprio problema senza essere disturbato; se opportuno, in seguito, è possibile lavorare in piccoli gruppi per affrontare il tema dei problemi interpersonali. Una volta terminato il programma è possibile e appropriato prevedere sedute di richiamo a distanza di qualche mese, al fine di verificare il mantenimento delle acquisizioni raggiunte e di rafforzare aree ancora carenti (Offredi – Vio, 1999). Struttura e strumenti del training cognitivocomportamentale All’inizio del training è necessario innanzitutto fornire, sia ai genitori sia al bambino, sufficienti e adeguate informazioni rispetto al percorso stesso, al fine di avviare la costruzione dell’alleanza terapeutica e di motivare a una partecipazione attiva e consapevole. L’operatore non solo dovrà fornire informazioni, ma anche presentare le regole che guideranno gli incontri e alle quali il soggetto dovrà attenersi in quanto parte fondante di un contratto educativo che si richiede di accettare quale presa di impegno. Al bambino saranno poi presentati compiti da svolgere alla presenza dell’operatore e altri da eseguire a casa; questi ultimi costituiranno l’input per avviare l’incontro successivo, fornendo materiale utile alla riflessione sull’importanza di comprendere e applicare le regole contrattate, l’utilità di generalizzarle a situazioni e contesti diversi e alla capacità di operare un’adeguata attribuzione a se stessi dei successi e degli insuccessi, ponendo le basi per una corretta autovalutazione delle prestazioni (cfr. Cornoldi et al., 1996; Offredi – Vio, 1999). L’aspetto centrale del training, come detto, è costituito dall’acquisizione delle autoistruzioni, che consentono la risoluzione dei problemi che il bambino incontra sia nello svolgimento dei compiti sia nello scambio sociale.


Le autoistruzioni 1. “Cosa devo fare?”: la prima autoistruzione consiste nel sollecitare il bambino a fermarsi e concentrarsi sui termini del problema per cercare di comprendere le richieste del compito. 2. “Considero tutte le possibilità”: si invita il bambino a individuare e analizzare le diverse alternative che permettono di affrontare correttamente il problema in questione. 3. “Fisso l’attenzione sul compito senza farmi distrarre” così da poter scegliere la strategia adatta alla sua soluzione. In conseguenza il deficit attentivo risulta particolarmente difficoltoso per questi bambini e il training in questa fase mira a fargli apprendere la capacità di cancellare mentalmente tutti gli input distraenti, per poi gradualmente allenarli a lavorare anche in presenza di distrazioni. 4. “Scelgo la soluzione migliore, formulo un piano d’azione e lo applico”. 5. “Controllo la soluzione scelta”. Va considerato che, data la tendenza alla perseverazione delle strategie adottate, questo passaggio risulta molto complesso per i bambini con DDAI (cfr. Vio – Marzocchi – Offredi, 2006). Tabella 3 Le cinque fasi di autoistruzione

La conduzione del training cognitivo-comportamentale si avvale di alcuni strumenti, la cui efficacia è ampiamente comprovata, quali il modeling delle autoistruzioni, la token economy, il costo della risposta, il role playng, il problem solving interpersonale. • Il modeling delle autoistruzioni. Per la buona riuscita del training è fondamentale che l’operatore si ponga come modello nell’utilizzazione delle autoistruzioni, in modo che osservandolo il bambino possa apprendere e consolidare le strategie proposte. L’adulto svolge una funzione di coping modelin, per cui di fronte alle situazioni problematiche

non nasconde le proprie difficoltà, ma reagisce con impegno e riflessività per risolvere la situazione esplicitando le proprie emozioni al riguardo e le strategie adottate. Può quindi sfruttare errori spontanei o volontariamente commessi, per mostrare come individuare modalità alternative di procedere e fornire esempi di autoincitamento, così da modellare anche le reazioni emotive di fronte agli insuccessi, agendo quindi rispetto all’attribuzione di causa degli eventi. Con l’aumentare della dimestichezza nell’uso delle autoistruzioni, la funzione di modeling potrà essere gradualmente attenuata per limitare al massimo gli interventi esterni e favorire l’interiorizzazione delle istruzioni (cfr. Cornoldi et al., 1996). • Il sistema della token economy. Questo sistema rappresenta un programma di rinforzo che non mira solo a fornire incoraggiamento e gratificazione, ma che consente al soggetto di ottenere elementi utili a leggere il proprio modo di agire, e quindi ad autovalutarsi e autovalorizzarsi, attraverso il guadagno o la perdita di gettoni. La procedura consiste nell’assegnare al bambino un certo numero di gettoni di base all’inizio di ogni incontro (circa 20 gettoni). Il bambino potrà poi guadagnarne altri se: • al termine della seduta avrà valutato in modo corretto la propria prestazione, attribuendogli un giudizio uguale o appena maggiore o minore rispetto a quello dato dall’operatore; • avrà eseguito il compito assegnato per casa. In particolare va sottolineato come la responsabilità del successo sia personale, mostrando le connessioni esistenti tra l’impegno attivo profuso nello svolgimento dell’incontro e i risultati raggiunti, favorendo così un progressivo cambiamento delle convinzioni di attribuzione in vista di una considerazione più oggettiva delle situazioni. Così come i comportamenti adeguati impli-

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cano il successo e quindi conseguenze positive (guadagno di token), i comportamenti inadeguati determinano invece conseguenze negative e comportano quindi un costo da pagare. Si colloca pertanto a questo livello la tecnica del costo della risposta, che causa la perdita dei gettoni. Tale perdita avviene in presenza di tre tipi di errori: andare troppo veloce a scapito dell’accuratezza della valutazione; dimenticare una delle cinque fasi; fornire una risposta non corretta. Questa tecnica può quindi essere applicata solo quando il bambino ha acquisito una conoscenza sufficiente delle autoistruzioni e del loro utilizzo. La perdita segnala la necessità di porre maggiore attenzione al proprio modo di agire, ma può anche essere vissuta come un fattore demotivante; è pertanto necessario che l’operatore sottolinei che l’errore è un passaggio naturale nel processo di apprendimento, che indica la necessità di un impegno maggiore. Affinché il soggetto possa cogliere la funzione educativa dell’applicazione del costo della risposta e non interpretarla come un segnale di giudizio negativo rivolto alla persona, è fondamentale che l’operatore spieghi le ragioni alla base della decisione, fornendo così informazioni utili all’analisi adeguata del comportamento. A questo scopo in una prima fase gli errori verranno definiti in termini concreti, spiegando con precisione i passaggi sbagliati, e successivamente con espressioni più concettuali, ad esempio sottolineando come l’errore stesso sia stato causato dall’aver posto poca attenzione al compito. Per non determinare una reazione negativa a livello di motivazione è opportuno, inoltre, che il numero dei gettoni persi non sia maggiore rispetto a quelli posseduti o guadagnati, in modo che il soggetto non ne rimanga privo al termine della seduta. Per favorire il processo di consapevolezza è poi opportuno invitare il bambino a spiegare quali sono stati i comportamenti che hanno permesso di svolgere adeguatamente i compiti assegnati o che, al contrario, sono stati causa di errore. Alla fine della seduta i gettoni

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vengono trasformati in punti e segnati su un apposita scheda in modo da ottenere un grafico che permetta di avere un’immediata immagine dell’andamento dell’incontro, così da poter fare un bilancio. I token verranno poi convertiti in altre forme di rinforzo costituite da premi previamente concordati con il bambino e ottenibili solo dopo aver conseguito un certo numero di gettoni (cfr. Cornoldi et al., 1999; Fabio, 2001). • Il role playing. È una procedura sviluppata a partire dallo psicodramma di Moreno, un metodo terapeutico che consiste nel mettere in scena il proprio vissuto con finalità catartiche, ossia allo scopo di favorire la scarica emotiva. Il role playing è definito come una «tecnica di drammatizzazione di comportamenti di ruolo sociali o organizzativi espressa attraverso la simulazione di situazioni reali, con un fine di formazione o di presa di coscienza di problemi relazionali» (Boccola, 2004, p. 17). In questo modo è possibile far emergere dei comportamenti e degli atteggiamenti che rimarrebbero altrimenti impliciti e abilitarsi ad assumere un punto di vista differente per analizzare più oggettivamente il proprio agire relazionale. L’attuazione di questa strategia rappresenta un processo molto complesso per i bambini con DDAI, i quali non riescono a porsi in una prospettiva differente dalla propria né a compiere con facilità, come già evidenziato, processi di autovalutazione (cfr. Bortolon – Pinto, 2004). • Il problem solving interpersonale. È importante che l’operatore aiuti il bambino ad applicare l’uso delle cinque fasi anche a problemi di carattere interpersonale, innanzitutto abilitandolo a cogliere le differenti emozioni e i segnali che queste implicano a livello di pensieri e di espressioni corporee. Come accennato i bambini con DDAI non riescono a cogliere le sfumature emotive ed è per questo necessario guidarli ad apprendere l’esistenza di tre categorie di emozioni: piacevoli, spiacevoli o neutre. Si invita quindi il bambino a elaborare un “dizionario delle emozioni”, classificandole in base alle tre categorie (piacevoli,


spiacevoli e neutre), per poi lavorare su esempi di episodi correlati. Si passa quindi all’identificazione delle sfumature emozionali e ad approfondire i pensieri e i segnali corporei che possono indicare un determinato stato emotivo. Si chiede dunque al bambino di simulare l’emozione attraverso la postura, l’espressione del volto e il tono della voce (a tale scopo è possibile avvalersi di uno specchio). Anche in questo caso è necessario che l’operatore si ponga come modello, mostrando l’utilizzo delle autoistruzioni per identificare l’esistenza di un problema attraverso la definizione delle proprie emozioni, per poi portare il bambino ad allenarsi a cogliere anche quelle degli altri. Uno strumento utile per lavorare sulle emozioni applicando le cinque fasi è costituito dalla tecnica dei tre cappelli colorati, dei quali si deve munire sia il terapeuta sia il bambino. Tale tecnica aiuta a visualizzare più facilmente la situazione creando un’associazione tra il colore e l’emozione e determinando uno stacco visivo tra i momenti della costatazione del problema e delle emozioni correlate, della riflessione e della valutazione. In assenza di un cappello è possibile utilizzare qualsiasi altro oggetto, purché si possa indossare, in modo da suscitare un coinvolgimento maggiore. I cappelli sono di colore rosso, giallo e blu: • il cappello rosso viene utilizzato nei momenti dedicati al riconoscimento delle emozioni nel loro emergere e alla loro espressione, al fine di rendere cosciente ciò che si prova e collegarlo alla situazione; • il cappello giallo si usa quando è necessario ripristinare l’equilibrio e la concentrazione prima di agire. Il suo impiego mira quindi ad aiutare il soggetto a formulare pensieri che gli consentano di prendersi del tempo per calmarsi e riflettere prima di dare una risposta; • il cappello azzurro, infine, si indossa ogni volta che, dopo aver ristabilito l’equilibrio, vengono formulate soluzioni alternative e valutate le conseguenze, com-

piendo un’analisi lucida di ciò che è successo e di ciò che si può fare. Attraverso l’uso dei cappelli si mira dunque ad aiutare il bambino a giungere a individuare modalità diverse e più fruttuose di reazione. Questa strategia sembra solitamente dare buoni risultati con i bambini in virtù del suo carattere concreto; nei casi in cui però il soggetto non accetti subito di adottarla è opportuno che l’operatore ne faccia comunque uso senza imporla, così che il bambino possa ugualmente capire cosa succede nell’altro (Cornoldi et al., 1999). • Lo Stress Inoculation Training. Questa tecnica, applicata sempre in relazione alla sfera emotiva, mira all’acquisizione della consapevolezza e della capacità di controllo delle emozioni in situazioni stressanti, attraverso l’auto-osservazione del proprio vissuto e l’individuazione di risposte adeguate, alternative agli atteggiamenti impulsivi ed aggressivi. Il bambino deve essere guidato a prendere consapevolezza che le emozioni sgradevoli rappresentano un’esperienza comune, a determinata anche da fatti di poca rilevanza, e che il problema diventa realmente grave nel momento in cui si superano i limiti determinando un’evoluzione negativa della situazione. Il punto centrale non è la repressione di tali emozioni, ma la loro canalizzazione alternativa. È utile anche proporre al bambino esercizi di rilassamento: calmare il corpo con respiri profondi rilassando i muscoli, fare pensieri utili – “posso controllarmi” – e poi allontanarsi dalla situazione (cfr. Vio – Marzocchi – Offredi, 2006; Savarese, 2009). Come sottolinea Cornoldi, va ricordato che l’efficacia del trattamento cognitivo-comportamentale con i bambini con DDAI è determinata dalla predisposizione di un intervento personalizzato nel quale si individuino autoistruzioni e attività il più significative possibile per il soggetto, al quale viene data anche la possibilità di formulare le autoistruzioni con parole proprie per favorirne l’interiorizzazione. La partecipazione della famiglia e della scuola può però

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rafforzare le acquisizioni consentendo al piccolo di trasferirle in contesti diversi favorendo così la loro generalizzazione e consolidamento. L’intervento con il bambino risulta quindi maggiormente valido se inserito nella rete di supporto familiare e scolastica e collocato al centro di tale rete (cfr. Cornoldi et al., 1999). Riflessioni conclusive Intervenire a sostegno dei bambini con DDAI costituisce un lavoro integrato, all’interno del quale l’approccio psicopedagogico dato a livello individuale dal percorso cognitivo comportamentale rappresenta un aspetto centrale. Tale trattamento, infatti, si configura come elettivo; solo in casi limite viene affiancato dall’assunzione di farmaci, laddove la severità dei sintomi impedisca al soggetto l’adesione a qualunque percorso. Predisporre un intervento che sostenga il bambino nell’autoregolazione significa porlo nelle condizioni di esercitare un controllo sui propri processi di pensiero e sul proprio comportamento, agendo sugli aspetti cognitivi ed esecutivi inficiati nel disturbo. La guida che gli viene offerta costituisce dunque il canale più efficace per portarlo all’interiorizzazione di strategie adattive; le autoistruzioni sono pertanto il timone che consente al bambino di governare il proprio operato, sviluppando capacità di pianificazione e problem solving necessarie perchè possa inserirsi attivamente e validamente nei contesti di vita. Riferimenti Bibliografici: ALBANESE O. – DOUDIN P. A. – MARTIN D., La prospettiva metacognitiva nell’educazione e nella formazione, in “ID” (a cura di), Metacognizione ed educazione. Processi, apprendimenti, strumenti. Nuova edizione riveduta e ampliata, Milano, Franco Angeli, 2003; BATTISTELLA P. A., Principi di psicofarmacologia in età evolutiva, in De Negri M. (a cura di), “Neuropsicopatologia dello sviluppo”, Padova, Piccin, 1999; BOCCOLA F., Il role playing. Progettazione e gestione, Roma, Carocci, 2004; BORTOLON P. – PINTO T., Competenze trasversali e

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Orientation and transition into university courses

A case study1

by Stefania Capogna 2

Over the last decade, the transition from education to employment has become increasingly difficult, long and uncertain, so that legislators have been forced to consider new means of access to facilitate the entry of young people into working life. In addition, a certain discrepancy between employability and training received (Benadusi, 2001) as well as situations of entrapment in the short to medium term which are likely to result in dead-end jobs from which it is difficult to escape can be observed (Consoli, Follis, 2001). This is especially true in a country like Italy where social mobility is blocked more than elsewhere. In an incoming and outgoing labor market which has become more and more flexible and is characterized by towering peaks of unemployment, especially among the young, these problems are aggravated more and more3. The relaxing of the regulatory and stability norms which characterized labor relations in the Italian system since the 80s has introduced elements of differentiation and heterogeneity among subjects. As biographical paths become increasingly uncertain, people are forced to change their employment status several times during their working-life cycle. Because of this, the workforce today has become, on the whole, weak. Furthermore, the

most vulnerable are young people. Orientation appears to be the right tool for helping people to take charge of their destinies. For this reason, in many quarters it is considered to be essential in supporting people during ever more frequent periods of transition. Recent legislative measures in Italy have also attributed to the University a leading role as an intermediary actor (Law 30/2003), with the aim of fostering a better matching between highly-professionalized job offer and demand. Therefore, it is important to understand whether and how our university services are able to guarantee support to students, providing a range of guidance services instrumental in the construction of pathways and effective choices4. The theoretical framework is that of orientation training recognized as a maturing process (AA.VV., 2003) essential to supporting subjective choices in a context of growing complexity and fragmentation where rational choice approaches show their limitations. In this maturing path, reflective deliberation on the courses of action that people decide in their “internal conversation� (Archer, 2003) plays an essential role in explaining social action and its social outcomes (Donati, 2006). In this sense, the riflexivity is the way of return of the subject on himself to consider results of his direct and inderect actions. So he can connect these results to a possible aim that is the dream to produce e better future. For this reason, it is interesting to understand which factors support subjective decision making in this particular stage of development and the role played by the university placement system in supporting this process. The hypothesis that this paper advances is that the definition of a life plan within a clear time scale is the basic guidance framework perhaps the only one that can help the subject in his or her effort to construct an identity and negotiate the transition from study to work. This hypothesis has been tested in empirical exploratory research into the university gui-

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dance system in the largest Italian University (“La Sapienza” University of Rome ), with particular attention to the target of young leavers5. The objective of this pilot research was to understand how they have developed guidance services in that Ateneum following the introduction of recent regulatory norms, in an attempt to understand: • whether the guidance services offered are able to support a subjective process of choice based on the definition/construction of a personal pathway of biographical and career development; • what resources are provided by the young in the construction of their personal project life. To investigate both the forces that drive the most intimate personal reasons of those who approach the university placement services and the way in which these services have been developed to support their choice, we have preferred a qualitative approach aimed at reconstructing the complexity of a system that appears to be particularly fragmented and locally differentiated in our country. The interest for the importance of reflexivity in the construction of a personal project life led to the preference of in-depth interviews. The essay starts with a reconstruction of the way in which the concept of orientation has been modified as a result of the changing socio-economic system and a presentation of the guidance system in Italy. The results of our analysis demonstrate the usefulness of the service in this case study and how it is perceived through the eyes of its users, also focusing attention on the subjective dimensions relative to the transitional approach. The social dimensions of orientation In recent years, the concept of guidance has evolved from a “welfare” to a “promotional” vision. The guidance function represents a help mechanism based on the recognition of

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subject’s centrality, and is based on counseling6. Orientation is a complex concept that can be utilised in very different areas and with reference to different ages and subjects. We can talk about orientation in the passages between the school and university systems, emphasizing the role played by both the school and university. We can speak of guidance for career choices and its inclusion in organizational contexts, and re-orientation or guidance for situations in which subjects are faced with further job placement. Today the concept of orientation has become central to understanding the employability of individuals. Furthermore, it represents a useful conceptual passepartout in examining this issue, both with regard to the subjective dimension (the social actor’s ability to adopt an active attitude), and to the objective one(social stratification). In the first case, it is important to analyze the subject’s ability in self-orientation (both internal and external), while in the latter case we must look at the way the orientation function is performed by the competent institutions in order to promote his or her employability. We can say that subject’s abilities in selforientation are closely related with the reflexive skill, i.e. the interior conversation that anyone has with himself with regard his feelings, his situation, vision and project on it. With the changing social problems to which orientation must respond, we see a progressive change in our understanding of this concept. We move from to the centrality of the orientator, who is seen as an expert in detecting the individual’s characteristics, to a guidance system in which the user is considered competent and responsible for his selection process, with the orientator supporting his decisions. The focus is shifting more and more toward the importance of the subjective dimension, which is considered particularly significant in the construction of career pathways (Brown, Lent, 2005). In fact, a service which focuses almost exclusively on an informative type of


orientation is particularly frail because it fails to meet the deeper needs underlying the issue of awareness in the choices expressed by ever more fragile social actors. The idea of orientation appears to represent a means of encouraging the development of the reflective capacity necessary in promoting the recovery or activation of the subject’s internal conversation7, useful in modelling oneself and re-shaping the social context. The different reflective modes activated by the social actor indeed “mediate between the socio-cultural structures and people’s ways of life “ (Archer, 2003). In line with this theoretical approach, we can recall three foundamental dimensions of orientation yet illustrate by Isfol: the information, the consulting and the educational (AA. VV., 2003) dimensions. The first aims to ensure a complete understanding of training and employment opportunities and their access routes. The second consists of various types of counselling, mostly in the form of individual support processes. These aim to clarify and define a personal development project and strategies for action. The third involves a training action which does not support only choices, but also their success, for the active maintenance of self-esteem and professionalism8. Therefore, orientation becomes a tool for lifelong learning, supporting the person in the act of building his or her own life project, a project that be developped despite many difficulties, but at the same time can be continuously disputed by the new opportunities that life presents9. Most scholars of economic and social phenomena share the view that we are seeing the passage from so-called scale economies to those of flexibility (Rifkin, 2004; Scott, 2008). The effects of this shift on the organization of work, the way people work, the skills required and the professional sphere are both evident and considerable. In short, the mission and the problems which guidance must face in a society marked by the uncertainty of the life pathway are changing. In the past, the el-

derly transmitted socially shared values and behavior patterns, including those relative to work, within the extended family. They also indicated paths along which individuals were directed by force or by choice. Until the nineteenth century, the family supplied the orientation function (Hofstede, 1991; Salling, Olesen, 2000). With the industrialization process, this model disappeared. At a time in which the possibilities of choice are multiple, orientation begins to emerge and to define itself and its functions precisely. From being a private event, relegated within the family sphere, it becomes a social issue that affects the whole community10. It is possible to identify four distinct historical periods11 within which the concept of orientation evolved and define them according to two opposing views: the deterministic one that conceives the subject as being over-determined and “activated by external forces”; the autonomist one which is founded on the idea of an “active”, “free” and “self-determined” individual. In this evolution, we are witnessing a transition from a conception of informational orientation to one of training. This passage is marked by a change in the overall social framework, within which it appears possible to isolate four social dimensions that have radically changed and that affect largely the self orientation processes: 1. work-study transition arrangements12; 2. career life patterns13; 3. the development of reflexive modernity14; 4. the inequality systems, intended as new risks, work traps and the stratification system15. Therefore, the significance of the changes imposed by these four dimensions induces a rethinking of social systems in the orientation training sense, aimed at promoting a “selforientation process by the subject, [...] primary agent of the choice process” (Castelli, Venini,

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1996:23). This model sees social actors in an active position. Actors capable of designing their own personal development path and helping to build organizational systems and work processes in a creative and responsible manner. In this new vision, guidance fits into the educational process “as a specific way for realizing the potentiality of every person and preparing him to motivate career choices at various stages of his development, both in youth and in adulthood” (Frabboni, Guerra, Scurati, 1996:25). During the last decade, orientation has seen the growth of its significance and its areas of application, so we will try to summarize its various application trajectories, but without aspiring to cover all of them. First, as suggested by Guichard (2006), we must remember the importance it assumes in relation to the ability to cope with transition, or rather, different types of transition16. In contemporary society, the individual is engaged in a constant process of synthesis of changing experiences in every area of life. Through counseling, the orientator can help the subject to draw up a list of possible solutions for every circumstance, to develop greater accountability within the first critical steps and complex choices, to reflect on their goals and experiences. The aid that the counsellor is able to offer in making a personal reconstruction of experience through the development of narrative practice is an added value. Orientation training (AA.VV, 2003) has established itself as an awareness of self and identity in terms of immediate and future choices, but also as opportunities for lifelong learning. In this sense, orientation becomes an educational tool capable of proposing values and rules which must be internalized by subjects in order to assume the responsible and informed behaviour patterns that are fundamental to the development of a personal and professional project. Therefore, orientation training seems to constitute an appropriate approach in

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capturing individual’s needs during his quest for giving a meaning to his life, causing him to adopt a reflexive approach to building his identity without losing sight of the other part of himself, thus enabling him to recognize and build his position in the world. Through time, the need for this orientation and continuous training approach emerges more clearly when we consider the fragmentation and individualisation of social dynamics, which producess inevitable repercussions on the education system, its relationships with other sub-systems and on the subjects that transit through it17. As Besozzi (2010) reminds us, these transformations call into question the career model that modernity has given us and with it the functions attributed to the practical guidance that aims to guide the subject in the crucial moments of his career. This linear and continuous career-path model, characterized by a rigid distinction between periods of study, work and rest has been irretrievably lost. In the new socio-economic context, we can observe a discontinuous life career model, which shows significant changes in the ways we consider education, employment and the articulation of the periods in our lives. In this new context, the choices we make are freer and more informed, but also reversible and temporary, and the development of a “career life is more like a journey than a destination, continuous negotiation rather than adaptment to a clear and binding path or social expectations “(AA.VV., 2001:119). Pombeni (1998) defines the educational orientation dimension as “methodological support that is offered to the subject,”. This support does not constitute an answer to our problems, but it can help us to find the answer by ourselves, thus making us able to stand independently and responsibly and face up to the decision-making task that gives rise to the need for guidance. The development of meta-cognitive skills can trigger a process of self-reflection, which may, in turn, result in self-knowledge, self-evaluation and self-regulation processes.


As Archer says, the development of these meta-skills, which are formed in primary and secondary socialization, allows the actor to elaborate the set of reflective processes that enable him to consider himself as an object under observation, thus giving rise to “an interrogative exploration of the subject in relation to an object, which includes the subject as object” (2003:174). Another factor to be considered when we speak about orientation is the relationship between individual and society. The actor’s choices are not arbitrary, never occur needlessly, and learning how to make the appropriate choice is part of the socialization processes that accompany integration into society18. According to this view, guidance takes the form of an action aimed at leading the person to identify his position in the world. In this sense, decision making plays a crucial role both in the representations that the individual has of himself, and the representations of relationships through which he relates to the surrounding world. We construct our self-image and sense of having our own identity by confronting ourselves with the world around us, identifying with significant others, internalizing the roles that the environment in which we are inserted considers appropriate and socially acceptable. During adolescence, an individual develops a sense of identity and defines and negotiates his personal self-image with himself and with others. Building and developing our own identity allows us to understand our potential and ability and therefore directs us toward the realization of a life project, rendering us autonomous and self-sufficient. It is in the inter-subjective relationship with other selfs, here understood in the broader sense of human and nonhuman actors (artifacts, technologies, tools, etc..) (Latour, 2002) that we build skills and meanings, and, at the same time, relate to the structuring effect of social dynamics compared with individual actions. The family and social context within which the subject constructs meanings of work and

develops employability delimits his range of choices, but at the same time, this can be managed by the subject using his resources and attributions of meaning. The construction of the right of every individual to give meaning to his existence begins with an analysis of the limitations encountered with regard to the possibility of becoming a social subject (Touraine, 1998). Given the complexity of the intrapersonal and inter-subjective dynamics in play, the importance of a reflective approach that provides the subject with a resource key for reassembling the fragmented nature of the personal experiences which always affect all dimensions of being and acting becomes evident. However, we cannot think that orientation can play an equalizing role in supporting choice, ensuring equal opportunities of success for everybody. Research carried out in Britain highlights the fact that the understanding of transition processes from education to employment cannot be interpreted solely on the basis of the concept of occupational choice. In fact, the concept of structural opportunities (Roberts, 1977) that are inevitably different in relation to cultural (Bourdieu, 1970) and social (Coleman, 1988) capital of origin cannot be underestimated. However, structure cannot be regarded as immovable, given that the effects of globalization make social mobility paths increasingly uncertain, so that we can speak of “the yo-yo transition” (Walther, 2004). For all these reasons, the subject’s planning ability and his capacity for organizing his self-fulfillment through time become fundamental to his integration into working life and his maintaining satisfactory employability. University orientation services in Italy In Italy, the guidance system is relatively new. There is still no clear and definitive legislation and institutional framework relative to this issue. In general, initial discussions and actions in terms of orientation can be traced to the start of the active policies season, that began

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to redefine the rules for the workplace19 in the second half of the 90s. In the absence of a regulatory and institutional framework that defines roles, responsibilities and training and professional guidance profiles at the moment in Italy, this function is carried out by a variety of services. The Employment Centers usually provide a firstlevel reception and orientation function, that is orientation information and referring to second-level services (i.e. consulting services) which may be internal and are often offered by consultants, or external. Among the external services we may include Guidance Centers, Vocational Training centers, accredited Guidance Services, schools and universities as well as any voluntary associations operating in the territory for various reasons20. As far as university orientation (which is the focus of our analysis)is concerned, this is divided into three segments, corresponding to successive time phases and distinct user groups: pre-university guidance, for students leaving secondary school; ongoing guidance, aimed to university students during their university entrance or course of study; transition orientation, which directs students who are leaving university and looking for professional pathways or work placement aimed at developing a career21. In order to conform with recent legislative action in the field of guidance and work intermediation activities within the university, a listening service must be provided for students to supply them with information useful in the achievement of educational success. Almost all universities have a centralized structure for guidance and have set up a service open to the public in order to bring the structure to users, but the percentage of universities that offer internships and placement services designed specifically for different subject areas is still low. Moreover, according to young listeners, the lack of orientation toward the professions so that they often “do not even know for what

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job profiles we are going to prepare” (FS. ic) is one of the major issues that distinguish guidance in the Italian university. Furthermore, the transmission approach based more on the notional dimension rather than the experiential workshop is still too predominant. One of the problems which we encounter in understanding university guidance is represented by this internal fragmentation which is not wrong in principle and responds to different targets and requirements. However, the resulting organizational fragmentation creates confusion for students who are struggling to find the necessary information and identify the referents of trust who can accompany them through the various stages of the process, while the world of employment is unable to achieve a clear understanding of new curricula (known as 3+2) established by the recent reform, or of the academic organization. Furthermore, when the orientation role goes beyond the mere need for information, this cannot be left to chance or to the sensitivity of the educators who are generally appointed as members to the orientation committee, randomly. A three-year project known as Fixo22 has been promoted at national level to deal with this problem and accompany universities in the process of modernizing their transition support services by supplying resources, support and innovative tools. This project23 has given a significant boost to universities in adopting an intermediary role, as in L. 30/2003, and has reduced the gap that still characterizes the university system and the labor market. This project has been useful in dealing decisively with the issue of guidance and placement which we are examining in this essay. Given the magnitude and variety of courses of study at the “La Sapienza” University in Rome where the analysis was carried out, the information system sponsored by the Project provided a single information desk for each faculty, within which we tried to establish or strengthen the orientation experiments


through: targeted training to staff working in the information/guidance to students sector; selection of companies interested in offering internships; the organization of a database to match employment supply and demand. The Fixo project required significant organizational/management effort, involved as many as 72 public and private universities, in all Italy, promoted a total of 13,887 job training opportunities and brought the problem of orientation output practices to the attention of the university. However, by listening to the recipients of the guidance services, we can best pinpoint the criticalities of a complex system that has not yet reached its full maturity. Results of an empirical study In this section we present the results of an empirical study consisting of 10 exploratory interviews with young people leaving their university courses in 201024. We chose them in faculties considered weak power-wise (communication sciences, sociology, psychology, literature and philosophy) with regard to employment opportunities. They allow us to make some interesting considerations both with regard to the “resources” capable of activating self-guidance paths and the subjective strategies that support the social actor within the complex transition paths through the analysis of three dimensions of considerable interest, which are examined herewith: 1. orientation and disorientation; 2. services and inefficiency; 3. from orientation to a life project. Between orientation and disorientation As mentioned, the ever more complicated transition process, career patterns and layering processes, accompanied by the spread of reflexive modernity, induce new social actors to face up to the need for self-guidance that emerges strongly in socialization paths which have become less and less linear and defined.

In the midst of this profound change in the socialization processes, with no top and no centre, the subject frequently feels alone and bewildered, unable to activate the reflective requisites independently, with obvious repercussions on his pathway towards fulfillment. Even the subjects we interviewed show nonlinear choice paths that appear fraught with difficulty and are characterized by the constant analysis and evaluation of personal choices and opportunities, thus confirming studies that illustrate the complexity of career models. All of them exhibited very “frayed” courses of study, marked by a long permanence in the ranks of the student population or by a kind of temporal deferral of their choices. One of the main problems identified by the respondents is the remoteness of the world of work, as suggested by Ghichard (2006), a distance that was even more radical before the so-called 3+2 university reform. These young people have been pursuing a course of study without having any idea of how to achieve employability. Their stories show the difficulty of access to incoming guidance services that could somehow bridge the information gap and reduce their sense of loss. This is consistent with the target subjects chosen. In fact, at the time of their entrance, they found a guidance system in its embryonic state (see previous §). Regardless of their choice of study or the time taken to complete it, all the respondents were oriented towards higher education from high school, and were strongly supported by their families. In some cases, the families have strongly influenced their offspring’s choices, but have then had to deal with incredible hurdles in the studies that ended with an acceptance of the initially-denied choice. This shows how much a choice made in a condition of initial disorientation can impact on a personal development path. The recuperation of the original choice represents a second chance for success, a kind of redemption:

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“I granted myself the opportunity of enrolling in a psychology course and despite the difficulties, I made it” (FL.fc). We can see from this evidence all the limitations of choices which are based only on rational considerations and are incapable of dealing with more intimate matters such as the passions, vocations, impulses and value dimensions that accompany the image of the desired job and social role associated with it25. As evidenced by the witnesses we spoke to, most of the time the planning of a university course “is the result of self-assistance”, where very often a significant role is played by fellow students. This planning autonomy appears to be a double-edged sword: enhancement of free choice and subjective responsibility versus a sense of abandonment and isolation that can insinuate itself into the instability of individual pathways, making the professional goal too ephemeral. In the experiences observed, the extension of the duration of studies is due both to the primary quest for personal autonomy which lowers efforts to study in the priority ranking, and to the coexistence of a variety of choices/ life experiences which do not allow for easy conciliation and neither do they seem to represent an integral part of a personal development strategy. In a life perspective that seems to be based only on the present dimension, this multiplicity of opportunities takes on the form of an illusion that reveals itself in the longterm, resulting in a fragmented pathway at the mercy of randomness. Often, those who live experiences characterized by long, labored and less than satisfactory curricula, organize their pathways on do-it-yourself lines, omitting the dimension of comparison with the most appropriate contact figures (professors, tutors, administrators). This comparison, as indicated by Coulon (1997), appears to be extremely valuable in accessing information in the logic of weak ties theorized by Granovetter (1973),

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building an identity of self within the occupational area that one aspires to, and lastly for quantifying one’s efforts with reference to a specific time dimension that would otherwise risk losing all points of contact with reality, as indicated by the subjects interviewed. “With reference to the rhythms of working life, is very important to conclude a path early in order to start along another” (FL.fc). Isolation can produce “a loss of rhythm because you do not have regular contact with teachers” (FL.fc). To this regard, a system that is “too permissive” and doesn’t check the completion time of the course appears weaker because a sense of abandonment increases the risk of dropping out because a course of study which ended after the standard term is not rewarded by the world of work, even if the results were brilliant. Therefore, we risk producing subjects who are too fragile for the professional sector in question or who are deficient in that range of tacit competencies that make up the know-who and know-why of professional knowledge and can be acquired only “in the field.”26 Thus, orientation counseling grants the subject a form of external support and helps him to restructure his professional ego-consciousness since he cannot do so independently, as emerges from the following testimony: “I didn’t get the chance to interact and refine my choice processes, and even today I’m very discouraged by the failure of my attempts to re-enter employment. I need support” (FL.fc). Services and inefficiency One of the benefits that the University has received from the project is the possibility of launching a significant internal advertising campaign to inform staff and students about the opportunities available and raise awareness on the issue of outgoing guidance. The


campaign featured posters, a wealth of instructive materials, seminars, conferences and information booths. Simultaneously, a database was organized to promote the matching of students and firms. This was an important first step in the planning /organization of an orientation information service at basic level, with the systematization of information regarding both: a) companies, which may be interested in looking for young university graduates and b) students who are seeking opportunities for job placement or internships. However, at least three critical elements that represent inefficiency in the eyes of our stakeholders can be pinpointed. This information system is considered to be: 1. “Insufficiently adherent to the requirements of the degree course” (FL.ic), presumably because the level of the Faculty is in a better position to develop strategies for development, research and professional roots in the markets of reference; 2. limited to guaranteeing the transparency of the more accessible information “with no added value given to the hidden – or “niche” - opportunities” (FL.fc). The problem is compounded by the fact that Italy is characterized by a system where employment and job-searching take place mostly informally, and is based on personal knowledge or family (Istat, 2007). From the interviews, it emerges transversally that the guidance offered “does not manage to penetrate the more informal level, where friendship and family logics come into play, and cannot penetrate the innovative sectors” (ML.fc). According to this perception, the orientation information offered is limited to systematizing and rendering transparent the less important opportunities for integration, where selection becomes more rigid because there is more competition. 3. “Barely significant” (FL.fc; ML.fc) in terms of individual counseling, in that these activities occupy very limited space

and time, and are often carried out by people who are unqualified . It should be stressed, however, that in order to guarantee “second tier” services, i.e. structures that are able to offer individual counseling pathways, agreements with other institutional actors which make up the whole framework of employment services in Italy, such as career guidance centres and Bic Innovation Centres were established. This referral to other services, however, is experienced as a fragmentation and dispersion of information and energy by the end user. It represents an additional burden to be borne by its already fragile shoulders, and an element of confusion in the absence of a clear personal goal. In general, it can be said that, apart from rare and limited exceptions, the university placement system is focused only on the function of providing information useful in the evaluation of the options available, but encounters difficulty in accompanying the maturation processes of choice that may also appear to be tormented. According to various interlocutors and as confirmed by other research projects, (Walther, Bechmann, Lenzi, 2004), the said orientation information might appear “not very useful if it lacks sophisticated information” (FL.fc). All this appears to be a “disservice” to young people who are not looking for “information, but rather a consultative approach and / or training, an upgrading of skills for self-direction” (FL.fc; FL.ic), as well as a protective barrier against the frustrations caused by the fragility of the current employment systems: in other words, an intimate and subjective area for growth which the traditional transmissive and notional course of studies does not permit. Orientation towards the life project: the resources provided by subjects The interviews revealed that subjects who are disoriented and less able to activate reflexive ability tend to use soft skills which might be defined as meta-cognitive, i.e. able to operate

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at a higher level, and are crucial to the selfguidance process. These skills are an essential prerequisite in elaborating the internal conversation mentioned by Archer (2003), i.e. the ability to think of oneself as an object in relation to a frame of reference. From this knowledge comes the ability to activate and manage a personal and professional life project which is established to a greater or lesser degree and is able to face up to the opportunities, risks and constraints linked to the context. The first of these skills to come into play is the proactive approach geared at acting propositionally in a social space through a continuous action of sensemaking (Weick, 1969) aimed at designing one’s own professional destiny. Moreover, “the capacities for initiative and self-direction” are two essential qualities in a system of social relations which is based less and less on hetero-normative constriction and is ever more focused on self-direction. However, proactivity is a dimension of expertise that relates more to character traits and can sometimes be inhibited by insecurity, the tendency to postpone decisions, the difficulty in managing informative stress. All of these tend to undermine the pathway to job collocation and weigh negatively on entry into working life. The range of competencies relevant to orientation “that children do not often have” (O), is also a very important resource for self-evaluation because the entire educational system is based on a prevalently transmissive and hetero-evaluational system of learning. Furthermore, analysis highlights a situation of particular risk in the absence of a time scale. The attitude of “presentification”, a tendency to live for here and now without a future-oriented planning dimension (Petruccelli, Lodi, 2007), strongly penalizes the construction of a pathway and an affirmation of identity in the workplace and shows us young people leaving the education system as particularly vulnerable social actors.

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“They do not take time to assess whether or not it is useful for their career path, and then they get lost” (O). What seems to confer meaning to life is the act of reaching out towards the future, ever forward for the continuous achievement of goals (Berra, 2003). Only a balance between the three different time dimensions, past-present-future, can provide sound planning. Moreover, as already evidenced by existentialist thought, time is the backbone of life. The time perspective is a fundamental dimension of self-realization (Jaspers, 1964) and an inescapable dimension of social action, always situated in a place and a space. The imaginative resource that helps to guide the efforts of personal and relational investments is also essential to the elaboration of a life plan. “If you don’t have a dream, in the end you get lost in the confusion and fragmentation that this reform has provided. You can do everything without being able to do anything “(O). Learning to anticipate a possible and desirable future is proof of the individual’s ability to diagnose, seek solutions, circumscribe limits, intercept possibilities and external aid, learn to cope with events: in other words, it can be considered a prerequisite skill in problem solving ( Di Francesco, 2004; Montedoro, 2003). Young people who are able to do so demonstrate greater ability in controlling the complexity and difficulties inherent to job placement in an unfavorable economic climate; the others manifest all the personal and work-related weaknesses which expose them to the risk of entrapment within an ever less protective welfare system. The imaginative capacity targets planning a career path in the medium-to-long term, within which the opportunities or the milestones that mark progress towards achievement converge.


“Being able to redefine the target, which could be represented by a long-term goal ,is not a defeat but only a stage” (O). It is necessary to develop a vision of one’s procedural path of professional and identity construction, aimed at achieving an ultimate goal and characterized by many intermediate stages. Our educational systems, which are based mainly on a notional type of transmission model, fail to develop such a competence. This does not mean that the choise process takes place in solitude. All the young people interviewed express a “need to compare experiences to see if what they have in mind can be real” (O). They express the need for “mirroring”, for conducting an interactive dialogue with each other which can allow them to define their own self-image and anticipate a possible future through the use of the anticipatory or re-evocative narrative resource. Another key element in defining a personal and professional development project is the experiential dimension which allows the subject to place himself within a situation and pit himself against the practice and the context of action. Some tend to postpone this opportunity until the end of their studies, others prefer to seize it in a quest for personal autonomy, whether this be offered by occasional work not pertinent to their studies or an internship experience related to their educational choice, even though this may represent a great effort on their part. The experiential dimension (Petruccelli, Lodi, 2007) is appropriate to the recognition of the value of an action aimed at a scope, participation in a professional community, personal commitment. It favors the construction of a subject’s self-image by means of interpersonal relationships and those with the artifacts / tools (Latour, 2002) that constitute the techno-social environmental context. However, it is essential for the young person to reflect on the action carried out in order to foster his knowledge of himself (even with

regard to motivations) and to understand the consistency of the constraints, opportunities and areas of action necessary to achieving a personal reconstruction of experience. This experience is useful in defining one’s own professional self through self-assessment (once again in a reflective way) of their skills/knowledge in practice and the recognition of others. This set of skills join together within a meta-expertise capable of acting as a vector for subjective change, reflection and a strategic component in developing skills and self-orienting a life plan. Reflection allows for a rebalancing of the plurality and fragmentation of daily experiences, and represents recovering and reinterpreting their meaning and significance in relation to the contexts and structures of action reference within an uninterrupted dialogue circuit. It is progress within a spiral process which is able to reinterpret and enhance their wealth of experience. This reflective capacity is important in bringing out vocational willingness and guiding choices in order to address internal motivations rather than respond to external conditions. “It really helped me to think about it a lot, these elaborations allow me to orient myself, to express my desires and objectives and make a decision” (FL.in). Guidance, with particular reference to its function as individual counseling, seems to represent a privileged strategy for accompanying these reflective pathways. It is a maturation process that accompanies the subject along life’s pathway, facilitating the necessary internal dialogue when this appears to be interrupted or disturbed. In this perspective, orientation information should represent only a moment of access where: “The person begins to take action, starts asking, starts thinking about what his interests are, what his motives could be. Orienta-

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tion is needed if the person begins to wonder, if he begins to reflect on his motivations, his resources and starts setting goals “(O). However, the mere information phase is not sufficient in covering all these opportunities, and, though very important, it does not respond to the complexity that characterizes the current educational/training and labor systems. Guidance provides information for “activating the curiosity that stimulates internal motivation” but the consulting dimension of guidance undoubtedly possesses the value “of external comparison” and acts as a reinforcement or correction in building a professional identity. This requires a professional counseling capacity that cannot be left to professors armed only with goodwill. All the respondents state the importance of developing alongside merely informative orientation also counseling aimed at enhancing the potential and talents and promoting the empowerment of individuals, so that they can develop “self- guidance skills and a broad view of the labor market” (ML.fc) as well as the “ability to compete over time”. The projection of goals over time allows one to spread the weight of failure, move forward and look at the objective in a more complex process where not only the ability of the subject counts, but the action is interpreted in the context of an arena where other actors and situations compete, and different strategies can be activated according to personal choices. While recognizing the importance of the changes under way - changes that in the last five years have enabled universities to establish a very articulated system of outgoing guidance - and also that of the contribution made by the Fixo project to the field of orientation towards transition, it would seem useful to focus on problem areas that still remain within the University, with particular reference to observed reality, and which may become a stimulus for the improvement

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of services and tools to support the young in transition. In fact, all the respondents recognize the need to plan this activity even better by providing a guidance system that can accompany the student throughout his degree course, not only with regard to his profile of studies but also the professional markets of reference. Recognition of the value of university orientation, coupled with the allocation of the appropriate resources and skills necessary in managing all three phases of orientation could represent the most favorable outcome, thus specializing tools and techniques, differentiating the services offered according to their specific targets and developing second-level orientation strategies. In fact, an orientation service can be considered formative and instructive, independently of the type of recipients it serves, when it is an event that puts the person in the position of reflecting on his professional life in order to understand his past, his strengths and weaknesses, activating in him a planning capacity that allows him to anticipate the future and build a personal and professional life project. As maintained by Gardner (2005), a choice is never an instantaneous brainwave, but the result of continuous interaction with one’s own context and the outcome of the interpersonal influence processes that cross all of our paths through life. The subjectivity in the approach to transition Focusing on the subjective dimension in the approach to transition, the importance of: a) having a project to be developed, and b) dominating the time axis to some extent, emerge strongly in all of the interviews. By anal lifezing the two dimensions, each articulated in two modes (well determined/indetermined project; long/short temporality), we can distinguish the following four categories compared with the ideal and desirable way of dealing with the problem of transition in its subjective dimension.


Figure 1 - The subjective guidelines for transition

Transition as arena: ample vision and welldefined project In the lower right quadrant, where both positive signs cross, we find the best situation for the young man who possesses a very strong life plan and a long-term time horizon within which to self-evaluate his career. The young man who is in this situation is certainly characterized by a very advanced maturing process and strong self-guidance and self-evaluation skills. That is, he displays a highly-developed meta-reflective competence that allows him to go in search of the most appropriate strategies for integration, together with the ability to interpret his own individual and professional environment references in their complexity. In this case, we can say that the subject is guided by a “broad view” of the transition process and can interpret it as an arena where he is faced with diverse subjects and situations. The transition process is not an individual matter, but is part of a complex system of expectations, with consolidated information, aspirations, clear interests and fairly straightforward processes. It may be that this kind of vision could also help in reconciling him to failure, which is no longer seen exclusively as a personal lack of success but can be interpreted as one of the possible outcomes within the different arenas in which we act. The subject is

able to recognize the chances in life, that is, the opportunities offered by the wider social environment and institutions, and make an informed choice in order to achieve his personal objectives, as evidenced in the following testimony: “I was very much oriented towards human resources, it was just a coincidence that I ended up in placement, but one way or another I’m in human resources. It’s exactly what I wanted, I don’t regret having followed this direction at all, so much so that I did it without any difficulty and with good results. At first, I considered trade unions, an idea that grew out of personal interest. Then careful evaluation of the situation ,including the labor market, made me fall back on placement - it should be an area that will take off in Italy, sooner or later “(ML.fc). Transition as performance: tunnel vision and specific project. Moving to the upper right quadrant, we can see the intersection relative to a well-defined training project, that is, characterized by clear career goals, but with a short time perspective. Although there are ambitions for selfrealization, these subjects meet difficulties in realizing their objectives within a defined time frame. There is a risk of “presentifying” actions, including a tendency to formulate goals

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that are too ambitious in comparison with the steps taken to achieve them, or the postponement of important decisions. They experience difficulty in planning their own personal and professional time. In this case, the subjects have a “narrow view” of the transition path and because of this can manifest a tendency towards rigidity, as this process is experienced as a personal matter and every failure can be considered a personal failure that threatens self-esteem and future planning. “I remember the case of an electrical engineer who couldn’t find work. He had taken 12 years to graduate, he didn’t want to, but had done it for his parents. He found work as a programmer. He was convinced that with his engineering degree, he would have worked as an engineer immediately, even after 14 years. Instead, he found work as a programmer. If he had continued to look for work as an engineer, he would never have found it - he had to redefine his purpose, which is not a defeat. But you must work on that “(O). Transition as discontinuity: long-term vision and indeterminate project In the lower-left quadrant a long-term time perspective and an indeterminate life project converge. In this case, the subject has “blurred vision”, and is unable to define a clear career goal, setting priorities and strategies for action, while demonstrating diverse interests. There is a tendency to procrastinate or to change course choices easily in the absence of a real capacity for facing up to concrete goals and the temporal dimension. In this case, transition represents a discontinuous and fragmented process. The subject appears fragile and uncertain, in other words at the mercy of events, forced into an eternal present, incapable of relating to the future and making relative choices. He wanders through different experiences in the absence of a clear developmental line, so that it is an effort to try to pinpoint the crucial issues in his personal biogra-

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phical history. This viscosity of his pathways can take the form of emotional stress, burdening him with insecurity and a deep sense of frustration27. “At first I did not have a clear idea of what I would do with this degree course, I wasted so much time preparing for exams that I could have done in much less. I tried to reconcile my interests a bit, but I never had a clear idea of what I would have done. I encountered the guidance services even after I had graduated, when I realized that I didn’t know where to turn. And now I’m confused, I don’t know what to do. I’ve suffered this loss, even having lost sight of what was once the future direction of my career, and I think everything has got on top of me, I’m still confused” (FL.fc). In such a case, it be can easy to fall into paths of downward mobility or situations of entrapment, even in the presence of a good social position of the family of origin. Transition as fate: the absence of vision and project In the box on the upper left we find the worst situation of entrapment, with a permanent life plan and a short time perspective. There is “no vision” of the future and the necessary reflective and imaginative skills seem totally absent. In this case, transition represents a stronglydetermined process which impacts with the full force of destiny, and an attitude of passivity and lack of self-awareness prevail. The subject risks being subdued by events and not being able to control his own choices or the process of constructing his pathway through life. In these circumstances, the compulsion of habitus (Bourdieu, 1970) may manifest itself in all its importance, forcing the subject to focus constantly on his defeats in a vicious circle caused by lack of awareness, limited resources and heteronomy. The confusion of ideas and the absence of reference to a clear


picture of reality is clearly expressed by this witness, a young woman who failed to complete her studies: “I did different jobs: I worked as a hairdresser, a shop assistant, a secretary in a real estate office. Now I’m doing an internship in a hotel, but I find it too hard, I have some health problems, I don’t think I’ll continue with it. I should look for other opportunities, but I’m not sure which. Maybe an idea would be to open a small business with someone I trust “(FD). We can imagine that the career strategies (Colling and Young, 2000; Lent, Brown and Hackett, 1996) activated by the subjects are very different, and therefore respond to different strategies of action. In all cases, the complexity of these processes of transition allows us to glimpse the weight of the so-called “YoYo Transition” (Walther, 2004) which characterizes modern Western societies, very often creating real biographical dilemmas. Guidance, therefore, offers help in coping with these dilemmas. These four subjective transition guidelines highlight many possible target subjects for guidance. It is therefore conceivable that the request for guidance and the related approaches / tools to be prepared for the response might be very different according to the real demand expressed. The emerging vision may change in the course of a life, depending on the personal maturing process and may require different approaches and tools to cover a range of information, training and/or consulting guidance needs. The information dimension appears to be sufficient for those who are able to express an ample vision of the transition - which can encounter difficult measurement processes and delicate moments of personal growth (Googman, Schlossberg, Andersen, 2005) - independently. Those who express a narrow view require intervention to help

them project their objectives over time and within a precise framework of reality, as they often lack competence in self-assessment and analysis of the external environment as well as the process. Subjects who manifest a blurred, long-term vision need to learn to compete with objectives and priorities in order to build a bridge to the future and avoid the risk of “presentifying”. They need to learn how to evaluate themselves according to the results achieved. Where transition is experienced as the fulfillment of a pre-ordained destiny, the educative action of orientation becomes necessary, not in substitution of counselling services, but rather as their completion, aimed at developing an imaginative and anticipatory resource in order to grant support to choice and the enhancement of metacognitive skills. In this context, orientation represents a continuous process with the potential to develop reflectiveness in people, a space and a place in which to hold in check and accompany the tension experienced by individuals who are facing up to the laborious process of subjectification (Touraine, 1998) that prevails in post-modern societies in the absence of an ethical and legal framework that obliges the person to take part in a constant process of construction and reconstruction of identity. Conclusions As we have sought to show, guidance services in Italy appear to be greatly fragmented. Despite the existence of peaks of excellence, the quality and variety of services in this area is also very heterogeneous due to the absence of a well-defined regulatory framework. In particular, although there are some exceptions, the organization of specific career services within the university is fairly recent, and thanks to the Fixo project has involved outgoing students. To better meet the standards of an orientation service in the current sense of the term, this nascent system should now face up to the challenge of moving beyond the traditional model

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of precise and direct adaptive guidance based solely on the information function. It should favor a proactive, continuous and vocational approach by providing second-level guidance aimed at giving priority to the training and advisory function. This represents an area of personal growth in which the subject may find an opportunity to ponder his limits and opportunities/resources, and reflect on the meanings assigned to work and the choices that guide him in this regard. We can observe the importance of maturity in guidance, that is, the ability to master change in a responsible and flexible way in order to negotiate transitions independently, addressing the risks associated with choice and the anxieties arising from error and uncertainty. The focus on individualisation that characterizes our society places the subject more and more in the midst of “located” decision-making problems, which refer to a will to make decisions there and then, at all costs, without always being able to predict the outcome, in that the choice of sites/locations/levels of education becomes increasingly self-centered, experimental, intermittent and reversible, hence the need to develop the aforementioned reflective potential. In a context marked by an increasing reduction in the spaces dedicated to rationality, with a corresponding increase in the degree of uncertainty, the subject is facing an ever-larger share of “ignorance” with regard to the choices made (AA.VV., 2003). This means that the choice of routes to self-fulfilment always incorporates a certain amount of “non-logical” (Pareto, 1916) or rather extra-rationality, based not on the sole criteria of economic utility (which in some cases even prove counterproductive, as in the case of adaptation to endogenous pressures), but on matters of transfer / recognition of meaning and / or guided by ideas and values. Neither can we forget the emotional and affective dimension which can guide many of the choices we make in our daily lives (Maffessoli, 1989), those on which we base the construction of our self-identity pathway. Wi-

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thin this “short circuit”, reflectiveness has the advantage of being able to activate the set of emotional and imaginative resources that can compensate, albeit partially, for limitations of choice based on a limited and increasingly multidimensional rationality (Simon, 1982). As Alexander points out, “the logic of rationality does not lie in foreign elements external to the subject, but essentially in the experience accumulated by the plaintiff and the voluntary component that is inherent in it (Cocozza, 2005:140). The voluntary and reflective perspective of social action referred to here takes into account both the rational dimension aimed at the scope, and the extra-rational legislative one guided by ethical choices, values and ideals, but also the affective-emotional dimension through which we familiarize with the world around us and build social relationships (Hoshschild, 1975). However orientation can be considered a fundamental policy for life-long learning in each of the four types analyzed (Watts, Sultana, 2004). Then, the orientation acts differently in each of the four subjective expressions to activate different resources. In individuals who express maturity orientation can act as increase in awareness, helping people to recognize and learn from their mistakes. For those who express a rigid and limited view, orientation can support a transformation towards a better flexibility and adaptability to environments and situations. For those who are trapped in the viscosity of their perspective, the orientation can stimulate processes of clarification. Finally, for those who express a state of passivity, orientation can promote responsability and taking care of their destiny. In all cases, these are empowerment measures implemented on the basis of recognition of diversity underlies to every implicit help request by subjects. In this sense, orientation can be understood as a means of promoting a new vision of social justice (Irving, Malik, 2004) within an idea of welfare which tends to transcend a purely assistance-based logic (Watts, 2008).


Note: 1 L’articolo è uscito su: University guidance services and support in the transition from education to work, in Italian Journale of Sociology of Education, 2011, 1: www.ijse.eu/index.php/ijse/article/viewFile/90/93. 2 Ricercatrice sociale, Esperta di Education, Counselor a orientamento filosofico: http://stefaniacapogna1. wordpress.com/ Department of Education Sciences, University of Rome Tre (ITALY); mail: scapogna @ uniroma3.it. 3 Unemployment that, as highlighted by the Annuario sul lavoro (Cnel, 2010), has increased significantly due to the recent economic and financial crisis. 4 With regard to quality of guidance services, see, among others, Borras (2010). 5 To this end, after a period of many years of observation within the guidance out services, we carried out in 2010 a total of 10 in-depth interviews of which: 2 university orientators, 8 service users (graduates and undergraduates, male and female), chosen for their typical pathways (greater or lesser difficulty in selfmanagement and completing their courses, greater or lesser difficulty in realizing satisfactory choices and reaching their career goals, effective decision-making); lastly, we elaborate a life-history. 6 To further investigate the meaning and significance attached to the concept of counseling, see, among others, Berra (2003) and Raabe (2002). 7 For a discussion on the internal conversation concept and reflexivity in the paths of life, see Archer (2006). 8 Based on the changes taking place in recent years, a non-directive approach that is increasingly open to the action of the subject has emerged (Rogers, 1970; Pombeni, 1996) within a relationship in which orientation plays a facilitating role. 9 On the function of guidance in individual choices see also, among others, Thierry, Grelet, Romani (2008), Bandura (1995); Prestini, Christophe (2008). 10 An interesting and precise reconstruction of social orientation can be traced in Guichard (2006). 11 For a debate on different approaches to guidance and its historical evolution, see Capogna (2003). 12 Important contributions are to be found in Walther, Lopez Blasco, McNeish (2003), Walther, 2004; Shoon (2009), among others. 13 With reference to changing career patterns, see

Collin, Young (2000), Brown, Lent, Hackett (1996), among others. 14 Among the best-known contributions on reflexive modernity, we can cite Archer (2006), Beck, Giddens, Lash (1999). 15 On this, see Boudesseul (2010), Duffy, Glenday, Pupo (1999), among others. 16 On the issue of transition, the contributions of Shavit, Muller (1998); Schoon (2009) among others, are of interest. 17 With regard to the experience of being a student, with particular reference to the university, please see Coulon (1997). 18 See Colombo in this volume. 19 The most important legal regulations to this regard are: The law on decentralization L. 59/97; the contribution to the regions and local authorities of functions and tasks in the field of active employment policies; D. L.vo 469/97; L. 196/97 which introduces elements of flexibility in labor market and the subsequent L. 30/2003 that redefine actors’ system. 20 In the Province of Rome where we contextualize the analysis, the network of employment services is formed by: 23 employment centres, 25 training institutions; 8 Orientation Information Services, 40 Guidance Centres for Work and other accredited training bodies. 21 Crui, L’Università Orienta, 2005, CRUI Survey on attitudes and actions in Italian universities, Rome, 2005: http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=1070. 22 The project was promoted by Labour Italy, Organisational Institution of the Ministry of Labour, with the twin objectives of: supporting the difficult organizational change within the university and reducing the timescale of entry into employment by graduates through measures aimed at qualifying and strengthening guidance and job placement services in the public-private sector. The project provided resources and technical assistance to universities interested in trying out the proposed organizational model, also in order to accompany a process of standardization of services offered by the universities outside the area of the traditional educational and research activities that form the academic’s primary mission. For further information: www. italialavoro.it/wps/portal area Transition Education, Training and Labour. 23 This project includes four distinct action lines that

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are complementary (technical assistance to university offices in designing/organizing information systems for students and companies, placement, co-designing highly-specialized training ; research spin-off creation). However, here we will exclusively consider the supporting activity for transition made with the dual aim of promoting post-graduate job placement and the acquisition of technical and professional skills through experiential internships. 24 Excerpts from the interviews are always indicated by the use of italics and inverted commas. They can also be identified in accordance with the following legend: M/F: for Male or Female; S: student; L: graduate; D: drop out; O: orientator; fc: off course; ic: Ongoing. 25 With regard to choice strategies see, among others, Rivera-Simard (1996); Rudisill, Edwards (2002). 26 For a debate on the educational value of the university internship within a framework of Faculty integration policies in relation to the professional sectors of reference, see Capogna (2009, 2010). 27 Perhaps it is a condition in which it is most obvious waste of talent (Collins, 1971) of those who fail to recognition of its quality because they are unable to pursue self-positioning strategies in the world of work. Bibliography: AA.VV., L’università per un sistema formativo integrato, Milano, Vita e Pensiero, 2001; AA.VV., Orientare l’orientamento. Modelli e strumenti a confronto, Isfol, Milano, Franco Angeli, 2003; ARCHER M., Riflessività umana e percorsi di vita, Trento, Erickson, 2006; BANDURA A. (a cura di), Self-efficacy in changing societies, Cambridge University Press (tr. It.: Il senso di autoefficacia, Centro Studi Erickson, Trento, 1996), 1995; BECK U., La società globale del rischio, Trieste, Asterios Editore s.r.l.,2001; BECK U., GIDDENS A., LASH A., Reflexive Modernization, Polity Press, Cambridge 1994, trad. it. Modernizzazione riflessiva, Trieste, Asterios, 1999; BENADUSI L., Alcune indagini comparative sulla transizione scuola/lavoro, in AA.VV., Prospettive dell’occupabilità”, Facoltà di sociologia, Università di Roma “La Sapienza”, (non pubblicato), 2001; BERRA L., Considerazioni sul senso della vita in una

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Dalla metodologia al disegno metodologico: un risultato empirico

di Roberto Melchiori Introduzione Un progetto di ricerca, o sociale o educativo oppure valutativo, è valido se garantisce risultati visibili, misurabili, concreti, che i committenti e gli stakeholder, siano cittadini, associazioni, imprese, altre pubbliche amministrazioni, possono comprendere, analizzare, valutare e usare. Per questo, quindi, la metodologia della ricerca in generale e quella socio-educativa in particolare non può limitarsi a esaminare e catalogare itinerari consolidati e formalmente incontestabili, ma deve anche riflettere su tracciati che possano inaugurare prassi e iter innovativi, sia per le modalità sia per le procedure. Nella presentazione dei risultati della valutazione di un intervento, o di una ricerca valutativa, a volte non si dà adeguato spazio né all’approfondimento della motivazione che sottende la scelta degli specifici metodi utilizzati da parte dei ricercatori, né alla effettiva utilizzazione della configurazione di metodi scelti all’atto della costruzione del progetto di valutazione e delle sue articolazioni (ad esempio il monitoraggio, la regolazione, la valutazione progressiva, la valutazione d’impatto). In assenza di questa mancata esplicitazione il lettore può quindi trovarsi in difficoltà nel comprendere le ragioni delle scelte operate e

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aver la sensazione che l’applicazione dei metodi scelti non sia adeguata agli scopi conoscitivi di un progetto valutativo. Scopo del presente lavoro, che utilizza come esempio il progetto di valutazione dei centri di aggregazione giovanile o Centri-2you (cfr. Cellamare - Melchiori, 2010/2011), è presentare ed evidenziare come uno strumento denominato disegno metodologico possa rappresentare il valore aggiunto dal punto di vista della teoria e della pratica della ricerca valutativa. Tale strumento può permettere il superamento dei possibili ostacoli che si possono determinare nell’applicazione del metodo o dei metodi utilizzati nell’ambito dello sviluppo del progetto valutativo, o della ricerca valutativa, associati a un intervento socio-educativo. L’esigenza di questo approfondimento è nata dalla considerazione della sensibilità che in anni recenti ha stimolato l’analisi critica dei fondamenti teorici e tecnici della metodologia della ricerca, in generale e valutativa in particolare, in ambito socio-educativo. Questa analisi critica, infatti, è diventata anche oggetto d’indagini comparative, oltre che di dibattito tra i ricercatori; l’obiettivo dell’analisi non è tanto giungere alla costruzione di una metodologia reputata come migliore in assoluto tra quelle disponibili e delle sue possibili applicazioni, quanto piuttosto comprendere in profondità le caratteristiche e le potenzialità sia di ciascun metodo sia delle possibili configurazioni di metodi sia, infine, delle relazioni, giustapposizioni e integrazioni tra i metodi stessi. L’applicazione metodologica Nella letteratura che riguarda la ricerca sociale, e quindi anche quella di carattere socioeducativo, si riscontra una doppia valenza assegnata alla parola metodologia. Da una parte il termine è utilizzato per definire l’insieme di metodi utilizzati all’interno o di una indagine o di un progetto o di un programma di ricerca. Dall’altra la parola si riferisce allo studio della sistemazione e dello sviluppo delle co-

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noscenze che riguardano la ricerca in una disciplina e quindi anche i suoi metodi, oltre ai principi, alle regole e ai postulati. Da un punto di vista più circoscritto e prettamente operativo, la metodologia «esamina le ricerche per esplicitare le procedure che furono usate, gli assunti sottostanti, e i modi di spiegazione offerti» (Lazarsfeld et al., 1972, p. XI). Inoltre, la «codificazione di procedimenti mette in evidenza i pericoli, indica le possibilità trascurate e suggerisce eventuali miglioramenti […] rende possibile la generalizzazione della conoscenza metodologica, trasmettendo i contributi specifici di un dato ricercatore al patrimonio della comunità scientifica» (Lazarsfeld, 1967, p. 307). La concezione della metodologia, quindi, si sposta fra due poli, ovvero « l’analisi dei postulati epistemologici che rendono possibile la conoscenza del sociale e [...] l’elaborazione delle tecniche di ricerca» (Gallino, 1978, p. 465). Considerando la metodologia in termini di riflessione e analisi critica di quanto considerato, in questa sede si utilizza il termine di disegno metodologico per rappresentare sia le scelte operate sia la configurazione dell’insieme dei metodi assunti per condurre una ricerca valutativa associata ad un intervento di politica socio-educativa. La costruzione del disegno metodologico è preceduta, come avvenuto per i Centri-2you e come è prassi nella ricerca, da un’analisi approfondita della documentazione, che testimonia l’utilizzo di approcci e prassi valutative, di altri interventi socio-educatici ritenuti analoghi o simili a quello da realizzare. L’obiettivo di tale ricognizione è quello di costruire un quadro di riferimento, attribuendo particolare rilievo da una parte alle teorie e alle metodologie, dall’altra alle modalità di attuazione e ai risultati delle esperienze. L’analisi iniziale, quindi, ha come principale obiettivo quello di esaminare i metodi adoperati in esperienze va-


lutative riguardanti sia azioni di monitoraggio sia azioni di valutazione sia azioni di ricerca e di categorizzarli in modo da coglierne gli elementi di originalità e quindi di interesse per il disegno metodologico da costruire. I risultati della ricognizione nel caso del progetto dei Centri-2you hanno posto in particolare evidenza le differenze tra gli approcci valutativi utilizzati nelle varie esperienze, caratterizzate o dalla valutazione d’intervento o dalla ricerca valutativa; tali differenze, riconducibili principalmente alle diverse teorie e metodologie della ricerca empirica che sostengono gli approcci valutativi, si evidenziano con le specifiche domande valutative. Ad esempio, l’approccio sperimentale si è contraddistinto per domande quali “il tipo di intervento x conseguirà i risultati prefissi?” o, in modo più ambizioso “cosa deve funzionare per risolvere il problema y?”. Per l’approccio realista (cfr. Pawson – Tilley, 2007, p. 371) sono state riscontrate domande del tipo: “l’intervento funziona per i gruppi di beneficiari interessati all’intervento e nel loro contesto? Cosa, nell’intervento stesso, o nelle circostanze in cui si trovano i beneficiari che se ne avvalgono, lo fa funzionare?” o, in modo più sintetico, “cosa funziona meglio dove, per chi e perché?”. In altri approcci analizzati, si è rilevato cosa significhi avere successo per uno specifico intervento in una data area attraverso domande quali: “cosa viene prodotto dall’intervento “Y”? Per quali gruppi di beneficiari? Quali criteri ci portano a giudicare che l’intervento è un beneficio, ovvero che nell’intervento sono rilevabili o desumibili criteri per determinare l’incidenza positiva dell’intervento stesso? Gruppi diversi – i beneficiari, i non beneficiari, le organizzazioni interessate, etc. – esprimono valutazioni concordanti? Com’è possibile arrivare a un giudizio comune?, Nel caso in cui l’intervento Y abbia raggiunto gli obiettivi prefigurati, cos’è che lo ha fatto funzionare?

Dall’analisi delle valutazioni realizzate emerge, pur nelle differenze d’impostazione, una scelta dei metodi adoperati nel progetto di valutazione; tale scelta dipende dalla loro robustezza rispetto agli obiettivi della valutazione stessa; la robustezza, quindi, è vagliata, ovvero stimata, in base all’idoneità individuata, o misurata rispetto all’intervento da valutare e alle domande valutative cui rispondere. Questo tipo di analisi, realizzata sugli aspetti metodologici delle esperienze di valutazione degli interventi socio-educativi, corrisponde a quella che per la metodologia della valutazione, secondo l’approccio valutativo dei programmi europei, si compie nella valutazione ex-ante; questa è realizzata ai fini di produrre un giudizio a priori, per capire se i problemi sono corretti, la strategia e gli obiettivi sono pertinenti e gli impatti realistici, nonché per definire misure di monitoraggio e future valutazioni (cfr. Todd - Wolpin, 2006). Le altre valutazioni, successive in ordine temporali, sono considerate come una valutazione in itinere, o progressiva (cfr. Melchiori - Cellamare, 2011), che si realizza durante l’attuazione degli interventi e prevede l’analisi dei primi risultati con scopi di regolazione e di adattamento delle azioni realizzate. Infine, con la valutazione ex-post si delinea un giudizio sull’intervento nella sua completezza, con particolare attenzione agli impatti prodotti e alla loro sostenibilità. I tre momenti della valutazione sono stati utilizzati anche per la definizione e l’utilizzo del modello metodologico del progetto valutativo dei Centri-2you. (cfr. Cellamare - Melchiori, 2010). I confini concettuali del disegno metodologico In linea di principio, il disegno metodologico per un progetto di valutazione deve essere costruito in base ad uno schema generalmente accettato sia dalla comunità scientifica sia dalle istituzioni coinvolte a diverso titolo nel processo di valutazione (nel caso dei Centri-2you dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) e deve contenere almeno i se-

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guenti elementi: l’oggetto della valutazione, i momenti, lo scopo, i ruoli degli attori coinvolti e il metodo, o i metodi, di valutazione. L’oggetto della valutazione potrebbe essere esplicitato dalla risposta alla domanda “cosa dobbiamo valutare?”; per gli scopi occorre stabilire “in funzione di cosa” è svolta l’azione della valutazione. I due elementi, oggetto e scopo, sono definiti con riferimento ai beneficiari, al territorio, al periodo che è preso in considerazione e alla rete normativa applicata. Dal disegno metodologico di valutazione deve emergere anche il raggio che determina l’estensione della valutazione, ai fini della identificazione delle aspettative dei beneficiari e degli stakeholder (con tale termine si indicano tutti i soggetti, non beneficiari, che hanno un particolare interesse per l’intervento stesso). Il raggio della valutazione determina, quindi, il perimetro e l’area di riferimento della valutazione complessiva dal punto di vista territoriale; in termini di tempistica, si specifica invece il periodo nel quale la valutazione si compie. Un secondo perimetro, interno al precedente, dovrebbe chiarire le azioni e gli elementi di contesto, da prendere in considerazione, in funzione dell’analisi di coerenza interna e, quindi, della definizione delle priorità del processo di valutazione. Per i Centri-2you, ad esempio, tra gli scopi della valutazione quello più importante e stato la valutazione degli impatti che, per lo stesso intervento, avevano il significato di effetti ultimi, cioè permanenti o di lungo termine siano questi negativi o positivi. Questi effetti erano rappresentati da: • l’accreditamento sociale dell’intervento • la sua sostenibilità e la permanenza acquisita. Nel primo caso ci si è riferiti al riconoscimento, e quindi alla caratterizzazione, di quanto attuato e consolidato nel contesto sociale e territoriale rispetto ad altri servizi simili dello stesso tipo. Nel secondo caso, invece, si è considerata l’acquisita stabilità e sicurezza finanziaria che po-

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teva determinare il mantenimento nel tempo del servizio, e quindi la sua possibilità di operare in modo continuo e duraturo. I due effetti permanenti, precedentemente enunciati, caratterizzazioni ovvero dell’accreditamento sociale e della sostenibilità, riguardano gli impatti di un intervento socio-educativo. Sussistono, attualmente, alcuni approcci per l’analisi degli impatti, sui quali è in corso un dibattito in campo internazionale, soprattutto nelle politiche di sviluppo (cfr. NONIE, 2008). Da tale dibattito sono nate alcune linee di valutazione; una delle quali è ispirata al concetto di evidence Based Policy-EBP e si basa sull’idea da una parte di dimostrare che gli effetti riscontrati sono il risultato del solo intervento compiuto e dall’altra di individuare, per lo stesso intervento, l’effetto netto depurato di altri effetti quali lo spiazzamento, o displacement, e il peso morto, o deadweight. Una linea di valutazione ulteriore a quelle appena descritte prevede di operare confrontando i risultati ottenuti nella situazione in cui è stato condotto l’intervento con una situazione “senza intervento” (logica controfattuale); ciò si può realizzare, ad esempio, sia procedendo a ritroso, prevalentemente con metodi statistici (confrontando la situazione reale con una ipotetica in cui sia mancato l’intervento), sia predisponendo nel progetto di valutazione di intervento un modello di osservazione di due situazioni, entrambe reali, inizialmente omogenee (quella sperimentale, soggetta all’intervento, e quella di controllo, in cui l’intervento non è posto) scelte in modo casuale, secondo i dettami del disegno sperimentale. In quest’ultima accezione occorre stabilire che i cambiamenti osservati e misurati sono attribuibili a diversi fattori quali, ad esempio: • la concezione stessa dell’intervento socioeducativo, che può essere visto come un “trattamento” circoscritto su un gruppo target, o come un’opportunità colta in modo diverso da ciascun gruppo di beneficiari; • la concettualizzazione dei meccanismi di causazione;


• il modo di considerare e “trattare” la disomogeneità dei beneficiari e dei contesti in cui essi operano (cfr. Melchiori, 2009).

approcci, caratterizzati ognuno da propri metodi, ovvero l’approccio europeo e l’approccio ecologico.

I modelli del disegno metodologico Il risultato dell’analisi metodologica, condotta sui progetti di valutazione realizzati, ha permesso inizialmente di costruire e adottare, per la valutazione dei Centri-2you, una metodologia a priori, caratterizzata dall’assunzione delle tre fasi della valutazione dell’approccio europeo, cioè ex ante, in itinere ed ex post (cfr. EU, Means, 1999). La valutazione, quindi, era stata incentrata sulla risposta alle domande valutative che riguardavano il raggiungimento degli obiettivi, sopratutto numerici, posti all’intervento. La metodologia a priori utilizzata nel corso dello sviluppo dell’intervento, e quindi nella fase di valutazione progressiva, è stata aggiornata con l’inserimento di nuovi metodi, con la conseguente trasformazione del disegno metodologico iniziale. Dalla figura 1, che rappresenta schematicamente la transizione metodologica compiuta, si rileva che nel disegno metodologico a priori erano stati previsti per le macro azioni di monitoraggio e di valutazione, del servizio complessivo dei Centri 2you, due

Figura 1. Transizione del disegno metodologico

Le tre diverse fasi della valutazione sono state utilizzate in successione per evidenziare i risultati delle attività riferibili alle macroazioni complesse di “monitoraggio e valutazione del progresso” dell’intervento. A fronte del modello concettuale e operativo di servizio stabilito per Centri-2you e configurato come un ambiente ecologico (cfr. Cellamare - Melchiori 2010) è stato scelto, invece, un approccio qualitativo più funzionale alle azioni di osservazione sul campo. Nella preparazione del progetto valutativo da associare al servizio dei Centri2you la combinazione dei due modelli era stata ritenuta adeguata per il raggiungimento sia di «una mediazione tra la verifica degli obiettivi progettuali, cioè per la necessaria risposta alla Committenza interessata soprattutto al raggiungimento degli obiettivi contrattuali”, sia della “conduzione di una ricerca valutativa in grado di costruire una interpretazione dei significati, delle funzioni e delle azioni condotte nei Centri di Aggregazione Giovanile» (Cella-

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mare – Melchiori, 2010, p. 27). Questa configurazione del disegno metodologico a priori aveva, in nuce, l’idea della supplementarità nell’utilizzazione di metodi e strumenti sia qualitativi sia quantitativi, in modo da ottenere dati e informazioni funzionali ai diversi livelli del sistema ecologico modellato. Con questa scelta si era scelta un’ottica di valutazione realistica, considerando che le stesse scelte contribuivano da «un lato nell’insistenza sulla spiegazione attraverso meccanismi, e dall’altro nel tentativo di dimostrare la capacità di alcune strategie esplicative di giungere a un corpo di conoscenze scientifiche in crescita» (cfr. Pawson – Tilley, 2007, citato). Durante l’attuazione dell’intervento, e quindi dello svolgimento del progetto valutativo, si è avuto un sostanziale spostamento del perno della valutazione dell’intervento che ha visto ridurre l’importanza dell’aspetto quantitativo e focalizzato l’attenzione, invece, sulla comprensione dei risultati graduali, di breve termine, che si andavano consolidando per la cui analisi e interpretazione si applicava il più rispondente metodo ermeneutico (o analisi ermeneutica). Nel disegno metodologico, quindi, si configurava una situazione non più di supplementarità tra il quantitativo e il qualitativo bensì di complementarità, che nella pratica fondeva le azioni rispondenti alla componente qualitativa del disegno, cioè le osservazioni sul campo e la valutazione progressiva, con la componente quantitativa del disegno, ovvero il monitoraggio e l’auditing. La complementarità, vale a dire i passaggi, tra le due componenti del disegno metodologico erano assicurati dalle analisi, dalle riflessioni e dalle interpretazioni realizzate con il metodo ermeneutico, mentre la ricomposizione dei risultati quantitativi era assicurata dall’applicazione del modello logico degli outcome (Cfr. Melchiori, 2011). La nuova configurazione assunta dal disegno, ovvero il risultato della trasformazione, rappresentava un disegno metodologico di fatto, che si è determinato empiricamente sulla base

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della riflessione sulla validità dei risultati graduali ottenuti; la riflessione metodologica progressiva ha determinato anche una revisione contestuale delle attività specifiche delle macro azioni di valutazione associate all’intervento e quindi sulla struttura e validità del progetto valutativo disegnato a priori (figura. 2).

Figura 2. Schema operativo del disegno metodologico di fatto

Dalla riflessione sulla validità dei dati graduali, ottenuti con la valutazione progressiva, si è passati, quindi, alla riflessione metodologica sulla validità e sull’uso supplementare dei metodi scelti e utilizzati per la macro funzione del “monitoraggio e valutazione”. Analizzando la trasformazione, emersa operativamente, è possibile rilevare che il risultato di tale cambiamento ha portato all’adozione di un disegno metodologico che può considerarsi un esempio di modello che nella ricerca scientifica, e della valutazione, è denominato mixed method. Questo, infatti, unificando metodolo-


gie accreditate nella teoria e nella prassi della ricerca, si basa sulla raccolta di dati di origine e struttura diversa e sull’uso degli stessi o in combinazione o in progressione con strumenti di valutazione tradizionali, al fine di ottenere delle informazioni (in termini sia quantitativi sia qualitativi) che possono fare comprendere

sia i diversi problemi emersi in un determinato contesto sociale, o in un gruppo, sia gli effetti a medio e lungo termine, quest’ultimi da considerare come impatti. Conclusioni Il progetto di valutazione che si predispone e adotta, per accertare come un intervento di politica socio-educativa raggiunge i traguardi stabiliti, comprende l’elaborazione di un disegno metodologico che si può trasformare in base ai risultati graduali che si ottengono dallo svolgimento del progetto stesso. Infatti, nel caso dell’intervento dei Centri-2you, caratterizzato da «un universo di problematiche alquanto complesse; » per corrispondere alla «eterogeneità di situazioni» si è riscontrata «l’esigenza

[…] di trovare linee di azione in grado di costruire un modello operativo e una metodologia d’azione [disegno metodologico, nda] diverse da quelle applicate per servizi analoghi» (cfr. Melchiori- Cellamare, 2011, p 34). Il considerare non fisso e invariabile il disegno metodologico, ma vederlo in funzione dinamica, cioè modificabile rispetto alle esigenze e ai risultati che si determinano in corso d’opera, e quindi «dalla carica teorica dei dati»(Cfr. Glaser -Strauss, 1967), permette il vantaggio di unificare diversi approcci e metodologie collaudate e di costruire, quindi, nuove configurazioni di metodi su cui applicare successivamente l’analisi metodologica. La comprensione delle modifiche che si determinano durante lo svolgimento dei progetti di valutazione, porta anche al miglioramento della validità e della credibilità delle azioni e delle decisioni degli stessi interventi socio-educativi; una più approfondita analisi metodologica può offrire perciò un’immagine più complessa e più chiara di come un determinato progetto di valutazione può avere rilevato gli effetti attesi. L’osservazione del progresso della valutazione consente di accertare come il ricercatore/valutatore abbia tenuto in considerazione i seguenti due aspetti: in primo luogo, quale metodo ha constatato essere più adatto per la raccolta dei diversi tipi di dati ritenuti necessari. In secondo luogo, in che modo l’analisi di validità del disegno metodologico gli ha permesso di accertare le differenze tra il disegno metodologico a priori e il disegno metodologico di fatto, e quindi studiarne le trasformazioni. Gli effetti che si ottengono da uno studio metodologico sulla trasformazione del disegno metodologico dei progetti di valutazione associati agli interventi socio-educativi, come ad esempio il servizio dei Centri2you, sono utili sia per aggiungere ulteriore conoscenza, cioè apprendimento, sulla prassi della metodologia della valutazione, sia per ampliare la gamma dei disegni metodologici da poter utilizzare. Tali conseguenze contribuiscono allo sviluppo della pedagogia della valutazione (cfr. Melchiori, 2009).

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Capo Redattore Daniela Nardacci Grafica Roberto Gesuale Vignette Mirko Dolce Pubblicità Diretta Editore Segreteria c/o Editore

Ringraziamenti Stefania Capogna Massimiliano Cavallo Savina Cellamare Alessia Giangregorio Francesca Giangregorio Roberto Melchiori Roberto Orazi Agnese Rosati Maria Gioia Pierotti Informativa ai sensi del D.Lgs. 196/2003 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”). Conformemente all’impegno e alla cura che la nostra società dedica alla tutela dei dati personali, La informiamo sulle modalità, finalità e ambito di comunicazione e diffusione dei Suoi dati personali e sui Suoi diritti, in conformità all’art. 13 del D. Lgs. 196/2003.

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