Steve Jobs - Affamato e folle

Page 1

BN IS

Cosa c’entra Steve Jobs con un corso di calligrafia? Da dove viene il famoso motto “stay hungry, stay foolish”? Non è curioso che proprio lui impedisse ai figli di usare il computer?

I S B N 978-88-472-2650-0

ig

eni a

€ 8,50

ig

li

lle fo e 0 o a t 0a r m rra 265 a f e af o F 72 bs ni -4 Jo nto 88 e ev A 978 St

ell’elettronica Ma il vero genio d teve? non era un altro S

9

788847 226500

li

Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n°633, art. 2 lett. d).

Ti va di scoprire perché era così fissato con le mele?

AFFAMATO E FOLLE

Dai 12 anni

Steve Jobs

e Jobs Sai che la nascita di Stev ha qualcosa di insolito?

Steve Jobs

Stefano è appassionato di computer e passa le ore trafficando con schede madri e circuiti elettronici. Da tempo però si comporta in modo strano... la sorella lo sente parlare da solo e lo spia preoccupata. A chi si rivolge suo fratello guardando verso la vecchia poltrona verde? Una storia curiosa per conoscere Steve Jobs, un uomo dall’intuito straordinario che ci invita a credere nelle proprie passioni e ad affrontare con forza ogni sfida che la vita ci pone.

Antonio Ferrara

Antonio Ferrara è autore, illustratore e formatore. Nel 2012 ha vinto il premio Andersen con Ero cattivo (San Paolo) e nel 2015, da illustratore, con Io sono così (Settenove). Tra le sue ultime pubblicazioni Mangiare la paura (Piemme) e Con una rosa in mano (Feltrinelli).

Storie di talenti eccezionali per scoprire il genio che c’è in te

Steve Jobs AFFAMATO E FOLLE

enia

li

ig

en i a

li

Geni si Nasce o si Diventa?

Antonio Ferrara

Antonio Ferrara

ig

enia

Steve Jobs

Leggendo il libro, troverai le risposte.



ig

li

enia

Steve Jobs


Editor: Patrizia Ceccarelli Coordinamento di redazione: Emanuele Ramini Progetto grafico: Simona Dell’Orto Illustrazione di copertina: Paolo D’Altan Ufficio stampa: Salvatore Passaretta 1a Edizione 2016 Ristampa 5 4 3 2 1 0 2021 2020 2019 2018 2017 2016 Tutti i diritti sono riservati © 2016

Raffaello Libri S.p.A. Via dell’Industria, 21 - 60037 - Monte San Vito (AN) e-mail: info@grupporaffaello.it www.grupporaffaello.it e-mail: info@raffaelloragazzi.it www.raffaelloragazzi.it Printed in Italy È assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di questo libro senza il permesso scritto dei titolari del copyright.


Antonio Ferrara

Steve Jobs

AFFAMATO E FOLLE



Il vostro tempo è limitato, quindi non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro. Siate affamati, siate folli, perchÊ solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero. Stewart Brand, The Whole Hearth Catalog

(citato da Steve Jobs nel discorso ai giovani laureati alla Standford University)


A mio nipote Andrea, grande e generoso smanettone


capitolo

1 Era pericoloso. Ci andavo da solo, e quando ci andavo certe volte mi mancava il respiro. Non volevo nessuno intorno, quando c’era gente la cosa mi dava fastidio. Appena cominciavo mi sentivo la scossa dalla testa ai piedi. C’era un po’ di penombra, e questo mi piaceva. Mi piazzavo sullo sgabello, mandavo giù la saliva e mi concentravo, e ogni volta era come entrare dentro un’astronave, mettere in moto e partire, e subito dopo tutto intorno non c’era più niente. Niente. Mi piaceva, mettermi davanti al computer. Quel computer, con quei videogiochi. E poi lì, nel buio del garage, mi piaceva anche di più. Mi sentivo come lui. Anche lui aveva cominciato nel suo garage, lo sapevano tutti. Anche lui aveva cominciato a mettere insieme i pezzi col suo amico. Solo che la sua presenza lì dentro un po’ mi spaventava. Non era una cosa tanto normale, voglio dire. Anche perché arrivava quando meno te lo aspettavi. 7


La prima volta che lo vidi là, seduto sulla vecchia poltrona verde sfondata, coi jeans e con la maglietta nera, con l’ombra sugli occhi, a momenti mi pigliava un colpo. Cominciò a parlare in italiano senza nemmeno presentarsi. – Ho venduto il mio furgone Wolkswagen, per mettere insieme i soldi e cominciare – fece. – Ci tenevo a quel furgone, cavoli. Non so se mi capisci. Quella voce mi fece venire la pelle d’oca, perché ero sicuro di essere solo, lì in garage. La voce veniva da dietro le mie spalle, bassa e cupa. Aveva un accento inglese, anzi americano. Non osavo voltarmi. Cominciai a sudare. Poi alla fine mi voltai e lo vidi o, meglio, vidi le sue scarpe bianche di tela, i jeans, la maglietta nera. La faccia no, non si vedeva, perché era nello scuro.

8


capitolo

2 – E tu? – mi fece. – Tu a cosa rinunceresti per provare a realizzare il tuo sogno? Ce l’hai un furgone Wolkswagen? Ce l’hai? Disse così e poi, sempre da seduto, appoggiò i gomiti alle ginocchia e si sporse in avanti. Quindi uscì dall’ombra e gli vidi la faccia, e vidi che sorrideva. Tirò fuori una mela rossa dalla tasca, la strofinò sui jeans e cominciò a sgranocchiarla. Sapevo che gli piacevano le mele, l’avevo letto da qualche parte. Cioè, non è che gli piacessero, ma nella sua vita c’era stato un periodo in cui mangiava solo mele. Perché non aveva soldi e perché sperava una cosa strana: sperava che mangiando solo mele poteva evitare di lavarsi. La cosa non funzionò perché, anche se mangiavi solo mele però non ti lavavi, dopo un po’ puzzavi lo stesso come una capra di montagna. Io queste cose le sapevo perché avevo letto tutto quello che avevano scritto su di lui, nei libri e on line. 9


– Allora? – ricominciò masticando, – ce l’hai o no un furgone? Io non risposi niente perché pensai che forse lui non era vero, che la sua presenza là dentro in garage era tutta una cosa che m’immaginavo io, perché lui era morto da un bel po’ di tempo, lo sapevano tutti. Mi alzai e avanzai con cautela verso la poltrona verde. Volevo toccarlo, vedere se era fatto di carne e ossa. Alzai un braccio. Lui non diceva niente, sorrideva e non diceva niente. Gli vedevo i denti che brillavano nel buio. Allungai la mano. Avevo le dita ormai a pochi centimetri dalla sua faccia. Aveva la sua barbetta corta, proprio come nelle foto. – Vieni a tavola, Stefano, che è pronto! – gridò in quel momento mia madre dal piano di sopra, e mi fece fare un salto. Ritirai la mano di scatto. Che spavento. Non sapevo che fare. Adesso che lo vedevo bene in faccia non mi faceva più tanta paura, perché alla fine per me era un po’ come se lo conoscessi da un sacco di tempo, perché io sapevo tutto, di lui. Mi piaceva tutto della sua vita, ecco. Mi sentivo come lui. Proprio come lui. Come Steve Jobs. – Allora, ti muovi o no? – gridò ancora mia madre. Lasciai perdere e me ne andai di sopra.

10


capitolo

3 Di sopra mio padre, mia madre e mia sorella erano già a tavola da un bel po’. Mio padre mi guardò storto. – Era ora! – disse, e poi affondò la forchetta nel pasticcio di fave. E c’era pure il contorno di cavoli al vapore, in una gigantesca zuppiera bianca col bordo dorato. Figuriamoci se mia madre non aveva preparato qualcosa a base di verdure. Mi riempì il piatto di quella roba insopportabile, il pasticcio, voglio dire, ché i cavoli avrei cercato di evitarli. Mia madre sorrise e disse qualcosa. Ma io nemmeno sentii cosa diceva, perché pensavo al mio amico Steve seduto laggiù al buio nella poltrona verde, e non capivo ancora se era vero o me l’ero sognato. Ma anche se era un fantasma pensai che non mi faceva paura. A me faceva paura la verdura. Davvero, non la sopportavo. Non la sopportavo proprio. 11


Mio padre e mia madre dicevano sempre che faceva bene, mangiare la verdura. Ma a me di verdura piacevano solo le patatine fritte, ecco, ma mia madre diceva che non era la stessa cosa. Un giorno l’avevo chiesto alla prof di scienze, e lei aveva detto che era vero, che anche le patate erano verdura. La prof disse pure che ogni giorno le cose importanti non le vedevi subito, che stavano nascoste bene, che le dovevi cercare. Come in campagna, per esempio, che le carote, le rape, le cipolle e le patate stanno sotto, e dalla terra spuntano solo le piantine, e mica le puoi mangiare, le piantine. Con la forchetta in mano pensai che anche Steve stava là sotto, in garage, come tutte le cose importanti. E poi pensai che le patate sì, ne avrei mangiato un quintale, di patate. Fritte, però. Il fatto è che mia madre voleva farmi mangiare anche la lattuga, i cavoli, la rucola, i carciofi alla romana, i cetrioli, le zucchine ripiene, i peperoni al forno, le melanzane alla parmigiana, il sedano, i finocchi, i piselli. Nel nostro frigo c’era una montagna di verdura. Ero circondato. – Dai, Stefano – disse mia madre, – che ti si fredda! Tirai un sospiro profondo, guardai nel mio piatto, raccolsi tutto il coraggio e piantai anch’io la forchetta nel pasticcio di fave. E in quel momento mi tornò in mente Steve seduto giù in garage. – Cavoli! – dissi ad alta voce. 12


– Eccoli! – fece mio padre passandomi la zuppiera bianca col bordo dorato, – mica c’è bisogno di urlare! – Sono contenta che ti piacciano – sorrise mia madre.

13


capitolo

4 Mi toccò finire i cavoli in fretta e furia e mangiare anche la frutta. Mangiai in fretta per tornarmene subito di sotto ma poi, proprio quando stavo per alzarmi, mio padre cominciò. – Dove vai, Stefano? – Giù in garage, pa’. – A far che? – A… giocare col computer. – E i compiti? – Fatti. – Tutti? – Tutti, pa’. Mio padre si alzò per preparare il caffè e mi diede le spalle, e allora cercai di approfittarne per alzarmi anch’io. Ma mio padre si voltò e ricominciò. – E la verifica di inglese? – Non ce l’ha ancora portata, pa’. 14


– Lascialo andare – disse mia madre, e allora mio padre sospirò e cominciò a svitare la caffettiera. Mi alzai, con disinvoltura presi una bella mela rossa dalla cesta che c’era in mezzo al tavolo e me la portai dietro. I miei non se ne accorsero, perché adesso avevano cominciato a parlare tra loro. Mia sorella Linda invece mi guardò incuriosita, perché sapeva quanto detestassi le mele. In effetti la mela l’avevo presa per Steve, mica per me. A lui le mele piacevano, lo sapevo. E se mia sorella mi viene dietro? pensai. Se mi viene dietro sono fregato. Per fortuna in quel momento le squillò il cellulare, e lei buttò un occhio al display e se la filò in camera sua. Non le piaceva parlare col suo amichetto davanti agli altri. Lanciai un’ultima occhiata ai miei e cominciai a scendere la scala che portava giù in garage col cuore che picchiava forte. Ero sudato. La lingua secca. Chissà se lo trovo ancora là in poltrona, pensavo. E poi, pensavo, sei matto Stefano, sei matto: Steve Jobs è morto già da un bel po’, non puoi averlo visto per davvero. Arrivai all’ultimo gradino. Ero davanti alla porta. Appoggiai la mano alla maniglia, e la maniglia era come se scottasse. Spinsi piano la porta, e la porta fece come un gemito. Poi entrai nel buio del garage.

15


capitolo

5 Steve era là nella penombra, ma non stava più sulla poltrona. Adesso stava davanti al mio computer, e le dita sui tasti le muoveva con una velocità incredibile, e col mouse clikkava a raffica, a tutta birra; la freccina sullo schermo manco la vedevi. Sullo schermo scorrevano immagini mai viste e lui ci clikkava sopra e poi scriveva frasi incomprensibili. E ogni tanto scuoteva la testa e diceva: ’Sto computer è lento, ragazzo, troppo lento, ma come fai a lavorare? Di colpo si fermò, si guardò intorno come se cercasse qualcosa, chissà cosa. Aprì tutti i cassetti della scrivania uno dopo l’altro, si alzò e guardò sugli scaffali e sulle mensole appese al muro, aprì tutte le scatole di cartone, di legno e di metallo dentro cui mio padre teneva le sue cose. Dove teneva i chiodi, le viti e le rondelle per i lavoretti che faceva in casa. Cercava e cercava, Steve, e da ogni scatola che apriva pescava qualcosa. Qua una vite, là un bullone, una graffetta, e tutto quello che sceglieva lo 16


metteva nella mia tazza di ceramica che c’era sul tavolo. In quella tazza ci bevevo sempre il succo di frutta. Adesso invece era così piena di pezzi di metallo che ci potevi aprire un negozio di ferramenta. Finalmente si calmò. Guardò dentro la tazza e fece un sorriso soddisfatto. Poi impugnò la tazza per il manico, spalancò la bocca, chiuse gli occhi e avvicinò la tazza alle labbra. Questo è matto, pensai. Minimo si beve tutta quella roba. Non riuscivo a dire niente, stavo là a guardare e non dicevo niente. Stringevo la mia mela e non mi usciva una parola. Pensai a una cosa strana, pensai che forse dopo lo portavano all’ospedale e gli tiravano fuori tutta la ferraglia con la calamita. Ma in quel momento Steve aprì gli occhi, mi guardò e si fece una gran risata, e poi picchiò la tazza sulla scrivania, e dalla tazza caddero due viti. – Ci sei cascato, ragazzo, sei proprio un salame!

17


capitolo

6 Poi di colpo Steve fece di nuovo la faccia seria, prese il cacciavite piccolo a stella e cominciò a smontare il retro del computer. Svitava a una velocità impressionante, e adesso non parlava più. Lavorava e lavorava, con gli occhi fissi e con la lingua fuori, e ogni tanto si fermava e si sistemava gli occhiali sul naso o si grattava il mento. Fece un po’ di cose veloci e strane. Con un elastico collegò due cilindretti di plastica grigia, piantò una vite dentro un buco, intrecciò i capi di due fili azzurri, avvolse il fil di ferro intorno a un microchip, piegò la graffetta e la fece diventare un cerchio, e il cerchio dopo sembrava proprio una piccola antenna. Fece un lungo sospiro. Tirò su col naso. Rimise il coperchio al retro del computer e lo riaccese, e dopo, sullo schermo, non so perché si vedevano la Luna e Marte da vicino, da vicino come fossero lì in 18


garage, voglio dire, e da Internet scaricavi tutto quello che volevi in due secondi. E col computer dopo ci potevi telefonare, fare le fotocopie e le scansioni, vedere la televisione e quasi quasi preparare pure il caffè. Steve sorrise soddisfatto. Si rimise seduto. Prese uno straccio. Si pulì le mani con lo straccio, se lo appoggiò sulle ginocchia e mi guardò con gli occhi che gli brillavano. – Adesso è una scheggia, Stefano – disse. – Buon divertimento. Gli allungai la mela e lui la guardò e sorrise. Se la strofinò sui jeans e poi l’addentò con gusto. – Buona! – fece. – Veramente saporita! Fece in tempo a darle solo un morso, però, perché gli venne in mente un’ultima modifica. Si alzò di nuovo, e lo straccio gli cadde. Appoggiò la mela sul tavolo e si rimise al lavoro, e io mi abbassai a raccogliere lo straccio ma, quando mi tirai su e mi girai verso di lui, non c’era più, c’era solo la mela morsicata sopra il tavolo, come un’impronta.

19


Apple computer:

perché una mela come simbolo?

Nei primi anni ’70 Steve Jobs era un hippy, un “figlio dei fiori”: fece un viaggio in India e frequentò una comune, una fattoria in cui ragazze e ragazzi abitavano tutti insieme. Non male come idea, vero? Lì intorno c’era un meleto e le mele erano il loro cibo quotidiano. Per questo e anche per rendere omaggio a Newton che, grazie a una mela e alla sua straordinaria intelligenza aveva scoperto la forza di gravità, Steve decise che il logo della sua azienda sarebbe stato proprio una mela!

20


Oops… c’è un morso

nella pancia della mela!

Steve Jobs disegnò un morso nella parte destra della mela, per il gioco di parole tra byte (in inglese si pronuncia come “bite”) che significa mordere e anche perché il frutto non si confondesse con un pomodoro. E va detto che… non aveva tutti i torti!

21


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.