Napoli - Nuova Edizione

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CUORI DA CAMPIONI

Napoli Napoli Napoli

I

grandi calciatori

raccontati da Valter De Maggio

illustrazioni di Francesco Morici - Denis Medri

A mio padre e a mia madre, per sempre nel mio cuore.
A Sergio, Maurizio e Daniele, le mie guide.

Editor: Patrizia Ceccarelli

Autore: Valter De Maggio

Coordinamento redazionale: Emanuele Ramini

Progetto grafico e copertina: Mauro Aquilanti

Illustrazioni: Francesco Morici - Denis Medri

Stampa: Gruppo Editoriale Raffaello

Nuova Edizione 2025

Ristampa

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© 2022

Raffaello Libri S.p.A.

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La parola a...

“Sogna, ragazzo sogna” canta Roberto Vecchioni e le storie dei calciatori del Napoli raccontate in questo libro mi hanno emozionato proprio per la tenacia dimostrata dai protagonisti nel voler realizzare il loro più grande sogno: giocare a pallone. Tutti noi, da bambini, abbiamo trasformato le strade o i cortili in campi di calcio. C’è chi viveva in povertà e non aveva altro che una palla, e chi faceva km per andare ad allenarsi in campetti di fortuna. Da Bruscolotti a Insigne, da Careca a Mertens, da Juliano ad Hamsik, da Krol a Ferrara, ne abbiamo mangiata di polvere! E poi c’è Maradona, la leggenda di tutti i tempi, il “napoletano argentino”. Lui non poteva capitare in un posto migliore: Napoli diventò il megafono della sua lotta per il rispetto di chi non ha ricchezze, se non quelle del mare, del sole e della voglia di vivere. Abbiamo lottato avendo negli occhi le prodezze del numero 10 e alla fine abbiamo coronato il sogno di indossare la maglia azzurra. Che grande privilegio e che orgoglio per me! La passione di un bambino era diventata realtà.

Lasciatevi rapire dai racconti appas sionanti e a tratti commoventi, di questi che, prima ancora di essere stati grandi campioni, sono stati grandi uomini.

Sono certo che ai più piccoli sembre ranno favole, ai più grandi scenderà una lacrima, ma per tutti saranno come un caldo abbraccio colorato d’azzurro.

Buona lettura!

Difensore del Napoli dal 1992 al 1995. Capitano della Nazionale Italiana Campione del Mondo 2006.

Fabio Cannavaro

Una nuova squadra ai piedi del Vesuvio

C’era una volta un imprenditore appassionato di calcio che aveva un grande desiderio: far giocare una squadra di Napoli contro i club più blasonati d’Italia, la Juventus, il Genoa, il Torino, l’Inter. Insomma, unire l’Italia sportiva e interrompere lo strapotere calcistico del Nord sul Sud. Non si tratta di una fiaba, l’imprenditore si chiamava Giorgio Ascarelli.

Estate del 1926, il sogno diventa realtà. Il primo agosto di quell’anno, Ascarelli riesce a trovare l’accordo tra le diverse piccole squadre della città e fonda l’Associazione Calcio Napoli, con l’intento di portare gioia nella vita di tante persone in un periodo storico molto difficile.

All’inizio, la nuova avventura non andò però come ci si aspettava. Il primo anno fu un disastro calcistico, tant’è che il cavallino rampante bianco, simbolo della squadra, fu sostituito da... un asino!

Dopo aver assistito a una brutta prestazione, un giornalista esclamò: Ato ca cavallo sfrenato, a me me pare ‘o ciuccio ‘e fichella (“Altro che cavallo sfrenato, a me sembra il somaro del venditore di fichi”). E così, il 23 febbraio 1930, in una partita contro la Juventus, apparve per la prima volta il somaro sullo stemma della squadra e da allora non ha più lasciato il Napoli. Anzi, è diventato il suo simbolo di forza.

Il Presidente Ascarelli non perse però la speranza e ben presto la sua tenacia fu ripagata: dopo qualche anno la squadra napoletana era ormai arrivata alla pari dei grandi club blasonati del Nord Italia e il colore azzurro poteva scontrarsi con il bianconero, il rossonero, il nerazzurro…

Ma perché l’azzurro per le maglie ufficiali? Ascarelli scelse questo colore perché richiamava lo stemma dell’antica dinastia dei Borbone, che avevano regnato a Napoli. E poi, c’era anche un forte legame romantico con il mare che bagnava la sirena Partenope, secondo il mito la fondatrice di Napoli.

Siamo in anni in cui il calcio stava assumendo in Italia sempre più importanza e maggiore era il numero di appassionati e tifosi. Mancava ormai solo un vero campionato nazionale. E fu proprio grazie all’imprenditore partenopeo se il campionato passò a 18 squadre in un unico girone: nacque così la serie A.

C’era molta curiosità, i giornali cominciavano a dare sempre più spazio alle partite, alle notizie aggiornate sulle squadre, alle curiosità e ai fatti di cronaca, anche rosa, sui giocatori.

Un cronista di un quotidiano sportivo diede quindi il via alle “radiocronache”, ovvero al racconto per telefono della partita a un altro giornalista che, a sua volta, riportava le azioni più importanti a una folla di tifosi che si radunava. Era il 23 giugno 1929, si giocava Napoli – Lazio.

I tifosi napoletani a un certo punto non si accontentarono di sentire le notizie, volevano guardare le partite, godere di quello spettacolo dal vivo.

Ascarelli accolse le loro richieste e nel 1929 fece costruire il primo stadio. Dopo un anno, il Napoli aveva la sua casa, si chiamava “Vesuvio”. Il Presidente, purtroppo, non ebbe il tempo di godersi questo momento.

Il suo nome resterà per sempre nella storia del club e nei cuori dei partenopei. Grazie a Giorgio Ascarelli, tra la città e la sua squadra nacque una lunga storia d’amore.

Da allora sono passati decenni, la maglia azzurra è un viaggio appassionato e appassionante tra molti successi e qualche fallimento, tra molti campioni che hanno fatto sognare ed esultare i tifosi, e “brocchi” che hanno deluso. Appartiene sicuramente alla prima categoria la figura affascinante di Hasse Jeppson, uno dei primi campioni stranieri che ebbe l’onore di indossare la casacca azzurra del Napoli.

Siamo nel secondo dopoguerra…

Hasse Jeppson

Vide ‘o mare quant’è bello! Spira tantu sentimento…

La mia storia d’amore con il Napoli cominciò proprio così. Quando arrivai in Italia volevo vivere al sole, era il mio sogno, ma, dove giocavo, il sole non si vedeva facilmente. Anzi! Ero un calciatore dell’Atalanta e a Bergamo pioveva spesso e faceva freddo.

Un giorno, dovevamo giocare in Sicilia e con la squadra arrivammo a Napoli per imbarcarci sul piroscafo che ci avrebbe portato a Palermo. Dal Molo San Vincenzo, il panorama era mozzafiato, il Vesuvio dominava il Golfo. Fu amore a prima vista!

Quando vidi Napoli per la prima volta rimasi incantato. Aveva quell’odore di mare che mi riportava all’infanzia, quando stavo sugli scogli della mia amata Kungsbacka.

Ero nato in Svezia, a 40 km da Goteborg. Mio padre faceva il panettiere e io non immaginavo certo di fare il calciatore. Mi piaceva giocare a golf, andare in barca a vela, ma soprattutto amavo il tennis. Il calcio, quindi, non era il mio primo pensiero. La vita, però, è piena di sorprese e così da una piccola squadra del mio paese mi ritrovai nella Nazionale svedese.

La celebrità arrivò durante il Mondiale brasiliano del 1950: grazie alla mia doppietta, noi svedesi eliminammo proprio l’Italia. Da quel giorno diventai “Hasse dal piede d’oro”.

Il mio nome cominciò a girare anche nel resto d’Europa ma io non avevo intenzione di continuare con il calcio.

Evidentemente, però, ancora una volta il destino non era d’accordo con me e mi portò al Charleton, in Inghilterra. Anche qui mi feci notare, famosa soprattutto la mia tripletta segnata contro l’Arsenal, la prima mai subita in assoluto dalla squadra in un derby londinese.

Insomma, quel ragazzone alto, biondo e con gli occhi azzurri, era diventato un centravanti corteggiato da molte squadre, anche italiane. Tra le tante ebbe la meglio l’Atalanta, dove andai a giocare nel 1951.

La mia vita cambiò. Per gli italiani, il calcio era lo sport più amato, una ragione di vita, e i club facevano a gara per accaparrarsi il calciatore straniero più talentuoso, pur di avere una marcia in più.

Alcuni acquisti erano motivati anche solo per rispettare la parola data ai tifosi in campagna elettorale. Avete capito bene, parlo proprio di votazioni politiche!

Era questa la filosofia di Achille Lauro, l’allora presidente del Napoli nonché armatore e sindaco della città. Pur di vincere le elezioni, il Patron del club azzurro promise una squadra vincente, così puntò su di me. Il mio ingaggio costò al Napoli 105 milioni di lire, una cifra mai vista fino a quel momento, talmente alta che fu paragonata al bilancio del Banco di Napoli.

Agli occhi di tutti i partenopei rappresentavo anche il riscatto del Sud povero e “straccione” contro il Nord ricco e superbo. Al mio arrivo fui salutato dai fuochi di artificio, i tifosi erano in visibilio.

La curiosità era tanta, tutti volevano veder giocare quel nordico vichingo, bello come un principe ma poderoso e determinato come un lottatore, che infiammava lo Stadio Collana di Napoli. Insieme a me arrivarono anche altri due grandi giocatori, Vitali e Pesaola, e diventammo un tridente da sogno.

Era sempre una bella lotta con gli avversari, a volte uscivo dal campo con le caviglie sanguinanti.

Fu proprio dopo una caduta durante uno scontro fisico piuttosto agguerrito che dagli spalti arrivò il grido di un tifoso: È caduto ‘o Banco e Napule ! E con questa esclamazione fui consegnato alla storia.

Vestii la maglia azzurra per 112 partite segnando anche 52 reti ma non ero un fuoriclasse. Riuscivo a segnare gol impossibili ma ero capace anche di fallire azioni semplici. Da qui i napoletani coniarono due nuovi modi di dire: Allanema e Jeppson , per esprimere meraviglia, e Mannaggia a Jeppson , se delusi o arrabbiati.

Napoli e i napoletani mi stregarono.

Ai piedi del Vesuvio io, Hasse Jeppson, mister 105 milioni, cercavo il sole e trovai la gloria.

Giuseppe Bruscolotti, Pal’ ‘e fierro

Caro Diego Armando Maradona, che fortuna averti incontrato e aver giocato nel Napoli, in quel Napoli che ha portato la gioia nei cuori dei tifosi! Lo scudetto non era una semplice conquista ma una vera e propria impresa, era la vittoria di una squadra che aveva lottato contro lo strapotere delle più ricche, la vittoria del Sud contro il Nord.

Finalmente l’azzurro colorava tutta l’Italia e la nostra voce si levava forte.

Tra il 9 e il 10 maggio dell’87 ho trascorso una notte indimenticabile, una delle più importanti della mia vita. Aspettavo da tanto quel giorno e tu, amico mio, hai realizzato il mio sogno. Me lo ricordo ancora il Centro Paradiso: c’era silenzio, era tutto buio ma io avevo gli occhi ben aperti, non riuscivo a dormire, forse per la troppa ansia e adrenalina.

Mi sembrava tutto così incredibile! Non potevo aspettare ancora e così cominciai a svegliare i miei compagni. Volevo condividere con loro ciò che stavo provando. Non tutti furono contenti di essere buttati giù dal letto alle sei del mattino, qualcuno mi mandò anche a quel paese. Il primo fosti tu, “Pibe de Oro”. A te avevo ceduto la fascia di capitano, in cambio della tua promessa che avremmo vinto lo scudetto. Promessa mantenuta!

In quella notte pensai a tutta la strada percorsa fino a quel momento.

Davanti a me scorreva l’immagine di un bambino. Avevo 6 anni quando indossai le mie prime scarpette con i tacchetti. Cominciai a tirare i primi calci nella squadra del mio paese, la Sassanese. Indossavo la maglia numero 2 e giocavo in difesa.

Ripensai poi a quel ragazzino che correva in un campo lontano dai riflettori. Era lì che mi preparavo a diventare “Pal’ ‘e fierro” (Palo di ferro), come mi definirono i tifosi!

Ero diventato un giocatore dal fisico imponente, una roccia difficile da scavalcare e da abbattere.

Negli scontri duri non ce n’era per nessuno, gli avversari volavano mentre io restavo in piedi. Mi toccava marcare attaccanti di valore, tecnicamente dotati: Gigi Riva, Paolo Pulici, Roberto Bettega, Sandro Mazzola, Gianni Rivera, Michel Platini. Io ci mettevo il cuore, il fisico, e spesso usavo le maniere forti pur di fermarli.

Le lancette dell’orologio avevano ripreso a segnare il tempo, quel bambino aveva 36 anni e stava per raggiungere il traguardo più bello della sua vita calcistica: quel bambino stava per diventare Campione d’Italia!

In quel maggio dell’87, durante il trasferimento allo Stadio San Paolo sentivamo tutto l’entusiasmo della città, era come se i napoletani ci stessero coccolando. Impiegammo due ore per percorrere tre chilometri. Era solo un assaggio di quella magnifica e indimenticabile esplosione di gioia che ci avvolse alla fine della partita.

Napoli – Fiorentina finì 1 a 1 ma noi portammo a casa lo scudetto.

Posso dire che il 10 maggio 1987 è stato il giorno più bello della mia vita, un giorno atteso per ben 14 anni.

Lo stadio era un trionfo di bandiere, spuntavano tricolori ovunque. La festa fu bellissima. Ancora di più negli spogliatoi.

Eravamo stanchi, inzuppati di sudore ma felici.

E cantavamo a squarciagola:

Oje vita, oje vita mia

oje core ‘e chistu core si’ stata ‘o primmo ammore e ‘o primmo e ll’urdemo sarraje pe’ mme.

C’erano telecamere e giornalisti che riprendevano questo momento. A un certo punto, tu, Diego, mi facesti piangere di commozione. Ti impossessasti del microfono per dire all’Italia intera che è vero che indossavi tu la fascia ma il vero capitano del Napoli ero io, Bruscolotti, e che quello scudetto era per me.

Fu una giornata lunghissima, Napoli era paralizzata, tutti in strada a festeggiare.

Verso le 22 rientrai a casa, ad aspettarmi c’erano tanti tifosi, ma non solo in strada. Citofonavano e salivano su da me per ringraziarmi.

Mia moglie Mary e la mia mamma Maria cucinarono fino alle 6 del mattino, in cucina c’era un via vai di persone che mangiavano e bevevano. D’altronde Mary era abituata a queste improvvisate, soprattutto alle tue, Diego, amico mio. Impazzivi per gli spaghetti aglio, olio e peperoncino e lei te li preparava. Anche alle 2 di notte. Quante volte sei arrivato a quell’ora!

Lo scudetto è anche merito di mia moglie. Nei momenti difficili, nelle settimane importanti, ci ritrovavamo tutti a casa mia, tutti i calciatori con le rispettive compagne. Le cene erano un modo per riportare l’armonia nel gruppo, per stemperare le tensioni. Ai fornelli ovviamente Mary.

I Campioni d’Italia ne hanno mangiata di pasta e patate con la provola!

Io e il Napoli siamo stati insieme per 16 lunghi anni, ho indossato la maglia azzurra in 511 partite e realizzato 11 gol. Meglio di me ha fatto solo Marek Hamsik. Anche lui, come me, ha portato con orgoglio la fascia di capitano.

Arrivai giovanissimo dopo due stagioni al Sorrento, era l’estate del 1972. Sono stati anni indimenticabili, con alti e bassi. Stagioni difficili e campionati esaltanti.

Per la maglia del Napoli ho rischiato anche la vita. Era il 1982, una stagione non facile. Avevamo cambiato allenatore dopo un girone di andata disastroso. Non eravamo ben messi in classifica, insomma, lottavamo per non retrocedere.

Avevo un’epatite virale che mi mise KO per dodici settimane. Alla vigilia di una gara determinante, in trasferta contro la Sampdoria, mister Bruno Pesaola mi chiese se me la sentissi di partire con la squadra.

Risposi: “Presente”.

Le mie condizioni di salute erano ancora precarie. La domenica mattina, Pesaola, detto “il Petisso”, mi chiese di giocare almeno dieci minuti per aiutare i miei compagni. Io ne giocai settanta. Ero pur sempre “Pal’ ‘e fierro”, il gladiatore, la roccia.

Lo so cosa vorreste chiedermi: perché un giocatore come me, vincente e forte, affidabile ed esperto, non ha mai giocato in Nazionale?

Ci sono andato vicino. Era il 1982, l’anno in cui l’Italia vinse i Mondiali di Spagna.

Avevo tutto pronto per partire poi non se ne fece più nulla. A dire il vero, io e Bearzot, il CT di quel mitico gruppo azzurro, non eravamo proprio in sintonia.

Facevo parte della Nazionale Under 23, giocavo raramente. Alla fine, fu scelto il giovanissimo Giuseppe Bergomi, che arrivava dall’Inter.

Peccato: ancora una volta il Sud non vestiva la maglia azzurra in un torneo mondiale.

Ho però avuto tante soddisfazioni e l’azzurro è stato comunque il mio colore: con il Napoli ho giocato contro squadre blasonate, che facevano sentire il loro potere in campo e fuori dal campo.

Era il Nord ricco contro il Sud più povero, campioni stellari contro giocatori di grande talento ma non valorizzati come avrebbero meritato.

Con te, Diego, la storia è cambiata. L’Italia si è capovolta e inginocchiata al dio del calcio!

Maradona, il Pibe de Oro

Alé, alé, alé, alé Diego, Diego…

Lo Stadio San Paolo non conosce altro nome che quello di Diego, i tifosi esultano incantati da questo uomo tutto gambe e capelli, che corre con la palla come attaccata al piede, che salta gli avversari, che tira e che segna. Ed è così ogni volta che Diego scende in campo. Non ci sono occhi che per lui, per Diego Armando Maradona, per il dio del calcio.

Vengo da lontano, da una terra che ha un forte legame con l’Italia e con Napoli in particolare. Un segno del destino? Probabilmente sì, come tanti che arriveranno nel corso della mia vita. Sono nato in Argentina, a Buenos Aires, e cresciuto a Villa Fiorita, un quartiere povero a sud della città. Era di domenica, il giorno dedicato al calcio, lo sport grazie al quale sono

diventato il più grande campione di tutti i tempi. Quanti successi, quanti trofei nella mia carriera!

La strada era già segnata, dovevo aspettare il momento giusto per spiccare il volo, solo che io non sapevo di avere i piedi magici. Mi limitavo a guardare quello che facevano gli altri calciatori quando andavo insieme al mio papà alla “Bombonera”, lo stadio di Buenos Aires del Boca Junior. Giocavo con i miei compagni di strada, poi… qualcuno si accorse del mio tocco. Dicevano che il mio sinistro era come una carezza.

In pochi anni mi ritrovai a giocare a calcio da professionista: “El Pelusa”, così mi chiamavano per i capelli, tanti e riccioluti, ce l’aveva fatta. Dopo la militanza all’Argentinos Junior, squadra con cui vinsi il Pallone d’Oro sudamericano, il Boca Junior divenne la mia prima casa.

Il Napoli si avvicinava, la squadra della mia consacrazione era a un passo. Prima però c’è stato il Barcellona. Con il club blaugrana non sono state tutte rose e fiori, ho rischiato anche la carriera per un infortunio gravissimo a causa di un fallo pericoloso di Andoni Goikoetxea, ex giocatore del Bilbao.

Niente paura, dopo tre mesi tornai di nuovo in campo a fare prodigi e magie. Sono o non sono il dio del calcio?!

E arrivò quel 5 luglio 1984.

Lo Stadio San Paolo, la mia nuova casa, aveva l’energia di un grande evento. C’erano 80 mila persone sugli spalti ma non c’era nessuna rockstar in concerto, solo un calciatore che arrivava da Barcellona. Salii le scale emozionato e, da quel momento, fu amore a prima vista, un amore assoluto, un amore eterno tra me e quei tifosi, tra me e una città intera, tra me e tutta Napoli.

Accadde qualcosa di magico, un sentimento potente che mi fece sentire subito in sintonia con quella gente, ero già napoletano dentro, era solo questione di tempo.

Avrei fatto ogni cosa per rendere felice quel popolo. Era come una missione.

Il 5 luglio 1984 ebbe quindi inizio la mia avventura con il Napoli, un’avventura che sarà lunga ben sette anni, anni di gioia ma anche di qualche sofferenza. In fin dei conti, un dio in terra non è tale se non fa anche qualche capriccio!

Vestirò la maglia numero 10 del Napoli, sarò per tutti “El Diez”, il “Pibe de Oro”, “il ragazzo dal piede d’oro”. Con 259 presenze e 115 gol, io e i miei compagni rendemmo possibile l’impossibile!

– Diego, sei tu il nostro capitano, non posso più portare questa fascia. Ora però devi farci vincere lo scudetto.

Chi avrebbe mai immaginato che Beppe Bruscolotti mi avrebbe ceduto quel ruolo così importante! Diceva che avevo carisma, che lo volevano i tifosi. Lo ringraziai, con lui nascerà una bella amicizia. E io sentii che la responsabilità verso quella gente era ancora aumentata.

E che scudetto sia! Il primo arrivò il 10 maggio 1987.

La strada che ci portò a quel traguardo è ricca di episodi indimenticabili per me, per noi, ma anche per chi ha giocato contro di noi. Ricordo, per esempio, Napoli – Lazio, la partita delle mie prodezze. Pensate che sia poco modesto? Sono pur sempre il dio del calcio!

E comunque non lo dico io, lo affermano tutti i tifosi ma anche i calciatori in campo quel 24 febbraio del 1985. La partita finì 4 a 0 con un autogol e tre gol miei. A stregare il pubblico e, soprattutto, il portiere biancoceleste, furono un pallonetto, una “pennellata” sarà definito, e un tiro direttamente da calcio d’angolo. Il portiere Fernando Orsi restò completamente spiazzato, si sedette sconsolato all’interno della porta mentre al San Paolo scoppiò un boato di gioia. Io corsi a esultare sotto la curva. In quel momento mi sentivo come un bambino con il cuore pieno di felicità. La stessa felicità che fece esultare i tifosi che si misero a cantare ormai in estasi:

O mamma mamma mamma, o mamma, mamma, mamma, sai, perché, mi batte il corazon?

Ho visto Maradona, ho visto Maradona, eh mammà, innamorato son!

Ed è così ogni domenica. Lo spettacolo comincia già prima della partita. Mi diverto a palleggiare, dicono che in quei momenti sembro un funambolo.

Dopo pochi mesi, arrivò un altro gol che entrò a pieno titolo nella storia. È il 20 ottobre 1985, al San Paolo si gioca Napoli – Verona, che finisce 5 a 0. Il mio è un tiro da 40 metri che strega Giuliano Giuliani, un pallonetto che sorprende fuori dai pali il portiere scaligero, che mai immaginava una cosa simile.

Nel frattempo, avevo anche un altro sogno da realizzare che mi accompagnava fin da quando ho cominciato ad amare il calcio: vincere il Mondiale con la mia Argentina.

E quel momento arriverà in occasione del Mondiale del 1986 in Messico. Quante emozioni, cari ragazzi! Sicuramente saprete cosa ho combinato quell’anno contro l’Inghilterra.

“Un poco de cabeza y un poco con la mano de Dios ” un gol con la mano che i sudditi di Sua Maestà Elisabetta II non mi perdoneranno mai.

In quel Mondiale non ero da solo, con me c’è anche il mio fidato massaggiatore, Salvatore Carmando, giunto da Napoli. Tra di noi nacque subito una bella sintonia, che diventò amicizia vera. Salvatore restò accanto a me nonostante qualche fastidio “alla pancia” che lo tormenta dopo pochi giorni dal suo arrivo a Città del Messico, dove si scriverà la storia del calcio mondiale.

Dopo la vittoria contro l’Inghilterra, ci abbracciammo, in lacrime. L’Argentina portò a casa il suo trofeo e io tornai a Napoli.

Ed eccoci al 10 maggio 1987, Napoli – Fiorentina finisce 1 a 1. Bastava il pareggio per vincere matematicamente il campionato.

Segnò Carnevale per noi e Baggio per i viola; si chiuse un anno che passerà alla storia: alle 17 e 47 il Napoli diventò Campione d’Italia, il Napoli vinse il suo primo scudetto della storia. Al San Paolo c’erano 85 mila tifosi, ma quel momento era atteso da una città intera, una città che voleva ritrovare l’orgoglio e tornare grande.

Così ho mantenuto la promessa fatta al mio amico Beppe Bruscolotti.

E pensare che la mattina di quel 10 maggio avevo deciso di starmene a letto. Cosa impossibile perché arrivò “Pal’ ‘e fierro” (così è chiamato Bruscolotti) a darmi la sveglia.

CUORI DA CAMPIONI

Le storie mitiche di grandi calciatori che hanno brillato in campo e nella vita, raccontate dalla penna prestigiosa di un famoso giornalista.

Una squadra stretta da un legame indissolubile con una città unica, una maglia inconfondibile e tanti campioni succeduti negli anni: a partire dal numero 10, Diego Armando Maradona, il giocatore più forte di tutti i tempi, passando per gli idoli Careca, Cannavaro, Lavezzi, Cavani, Hamsik, fino agli idoli dei giorni nostri, tutti i grandi campioni che hanno fatto sognare milioni di tifosi, rendendo il Napoli una delle squadre più amate anche nel mondo.

Oltre al racconto di gol mitici e di partite memorabili, troverai episodi inediti e curiosità, per scoprire anche i lati umani di vere leggende del calcio.

Presentazione di FABIO CANNAVARO € 9,50

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