La pietra del sole

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PIETRASOLE PIETRASOLE
DEL LA DEL Viaggi, battaglie, cultura nell, universo dei POPOLI ITALICI
Michele Santuliana
LA

nasce la pietra

I l mio primo ricordo è un lampo di fuoco.

Il giorno in cui nacqui, il cielo era grigio e l’aria umida. Nubi color del piombo coprivano la terra delle grandi foreste annunciando un temporale di proporzioni mai viste. Dapprima fu soltanto un brontolio, ben presto però i fulmini fendettero l’aria, maestosi e terribili come la collera degli dei.

Fu uno di essi a provocare la mia formazione, una lama abbagliante partita dal cielo per piombare sulla terra. Forse per questo, oltre che per il mio colore, uno dei nomi antichi datomi dai Greci mi identificava come pietra del sole: elektron mi chiamarono.

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Tutto avvenne in pochi istanti. Il grande abete, vicino a quello che mi generò, sorgeva un po’ isolato al centro di una piccola radura e la sua punta svettava orgogliosa sulle altre. Cresciuto in quel luogo nonostante fosse più esposto e pericoloso, era sano e nel fiore degli anni. Il fulmine lo colpì proprio su quella punta che il vento ogni sera faceva ondeggiare e della quale esso sembrava così fiero. Una punizione? Chissà, molti popoli nell’antichità sostenevano che gli dei punissero chi, insuperbito, osava volgere la fronte contro di essi. La scarica bruciò il fusto nel tempo di un respiro: le fiamme si propagarono per i rami, le radici stesse furono scosse come mai prima di allora e la terra, sconvolta per quel figlio che le veniva strappato con tanta violenza, lanciò un gemito che nessuno poté udire. L’abete in fiamme vacillò, le radici cedettero. Con uno schianto sordo, l’albero cadde addosso ai suoi fratelli della foresta. Il mio abete fu colpito di striscio: alcuni rami furono spezzati di netto, altri, scricchiolando, dopo il colpo riuscirono a raddrizzarsi. Gli aghi bruciarono invece all’istante, come paglia. Io mi formai in quel momento, da uno dei rami spezzati. Obbedendo a una legge antichissima, l’abete cominciò a secernere resina per chiudere la ferita.

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Un profumo intenso si sparse nell’aria, mescolandosi al fumo che l’incendio sprigionava e all’odore acre del legno verde che bruciava. Di certo l’intera foresta sarebbe andata in fiamme se in quel momento non avessero iniziato a cadere le prime gocce di pioggia. L’acquazzone che di lì a poco si scatenò spense l’incendio ma non sanò le ferite al mio albero, che erano gravi. L’abete soffriva in silenzio e cercava di chiudere i tagli sul tronco e sui rami emettendo resina colore dell’oro. Essa colava come lacrime. E come lacrime cadeva al suolo.

La terra mi ricoprì per milioni di anni, un sonno nel quale le molecole che mi componevano si fecero via via più solide e stabili. Mi purificai, assunsi una forma più regolare e un colore uniforme dappertutto meno che al centro, dove si allargava una macchia più scura che ricordava il colore del fuoco.

Poi vennero il mare e l’oscuro fondale del nord, con le sue onde che a lungo mi levigarono; infine tornai a rivedere la luce, io che dalla luce provenivo, su una spiaggia di sabbia finissima. Ormai ero diventata dura come la pietra, io che pietra non ero. Pur avendo giaciuto nel mare, al tocco risultavo calda e leggera. Ero grande quanto il pugno di un uomo e, quando fui ritrovata sulla spiaggia, coloro che mi raccolsero rimasero a lungo ad ammirarmi. Ricordo che c’era anche un bambino con loro e che egli mi strinse tra le dita.

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Poco dopo un uomo anziano mi prese e, dopo avermi ripulita dalla sabbia, mi mostrò al piccolo rivolgendomi contro il sole. La luce mi investì illuminando il mio cuore rosso fuoco. Il bambino gridò di meraviglia mentre il vecchio recitò una preghiera agli dei. In quel momento, per bocca del vecchio, appresi un’altra leggenda che mi riguardava.

Raccontava di un diluvio durato giorni e giorni, di fiumi che si riempivano d’acqua e straripavano e della disperazione degli uomini al vedere che gli dei volevano la loro distruzione. Il vecchio diceva che ero nata allora, dalle lacrime versate dagli uomini e cadute nei fiumi. Sorrisi tra me: se anche sapevo che quella storia non era vera, provavo gioia. Era bello pensare che in un tempo lontano uomini e alberi avessero potuto assomigliarsi così profondamente da mescolarsi gli uni agli altri.

Da quella spiaggia iniziai il mio viaggio. Ancora non sapevo dove sarei approdata né con quale scopo gli esseri umani mi avrebbero utilizzata. Come ho detto, i Greci mi chiamavano elektron, i Romani mi dettero il nome pix, più tardi qualcuno mi chiamò ambra. Quasi ogni popolo antico mi conosceva e mi adoperava, apprezzando la mia bellezza e lavorandomi per far risaltare i miei colori.

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Molte civiltà ritenevano avessi proprietà magiche e spesso venivo utilizzata per realizzare amuleti e gioielli. Altre volte il mio profumo diveniva offerta da bruciare agli dei. Cosa sarebbe stato di me, piccolo frammento di pietra del sole? Sarei finita incastonata in una collana etrusca, in una fibula celtica, oppure sarei divenuta incenso che saliva agli immortali? Non potevo saperlo, tuttavia sentivo che il mio sarebbe stato un destino speciale. Ne ero sicura.

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i piceni

Un sogno divino

Città di Cupra Marittima, primavera del 476 a.C.

Che stava sognando apparve presto chiaro a Petru. Molti erano i segnali da cui poteva rendersene conto: più avanzava nella foresta, meno il suo cuore provava timore, il tempo sembrava non scorrere mai e nessun rumore si poteva udire intorno a lui, nemmeno quando un’aquila si lanciò in picchiata a pochi passi da dove si trovava per assalire una donnola uscita troppo presto dal suo nascondiglio.

Sì, Petru ne era sicuro, era di certo un sogno quello in cui si trovava, e per di più un sogno divino. Sin da bambino, molte stagioni prima di quella, aveva imparato che tutti i sogni erano mandati dagli dei, a volte però gli immortali si manifestavano in essi con maggiore evidenza. Suo nonno gli aveva insegnato a chiamarli sogni divini e a interpretarli.

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– Quando gli dei ci parlano, dobbiamo imparare ad ascoltarli. Ed essi ci parlano soprattutto con le visioni notturne – così soleva ripetere il vecchio quando era in vena di raccontare.

Petru sorrise a quel ricordo lontano. Ora che anche lui era ormai vecchio, a volte si rammaricava di non essere riuscito ad avere figli. Lasciare una traccia di sé, assicurarsi una discendenza era un compito di ogni uomo sulla terra, si trattasse anche di un popolo semisconosciuto come quello al quale Petru apparteneva.

No, non doveva pensare questo del suo popolo. Quante volte, nei miti, gli dei avevano mostrato di odiare gli uomini e le civiltà che troppo osavano? Molto meglio era starsene tranquilli, appartenere a un popolo mansueto e riservato, abitare un territorio ristretto ma fertile e in cui vivere in tranquillità piuttosto che andarsene in giro per i mari come facevano quei mercanti greci o tentare la sorte con le armi come le popolazioni dell’interno. Il suo popolo doveva solo ringraziare gli dei perché essi gli avevano donato la dote rara della mansuetudine.

Ma non c’era tempo per riflettere, il sogno continuava. Da tre giorni era in cammino. Procedeva verso sud: tre volte infatti aveva visto il sole sorgere alla sua sinistra e tramontare a destra, un segno inequivocabile.

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Il bosco in cui Petru avanzava si fece più fitto, gli alberi sembrava facessero a gara per ostacolare il suo percorso. Eppure nemmeno allora provò paura o stanchezza. Sentiva che la presenza divina lo guidava e per niente al mondo avrebbe interrotto il suo viaggio.

Si fermò a un ruscello per dissetarsi. L’acqua fredda gli provocò un brivido, gocce trasparenti gli imperlarono la barba.

Fu allora che, nel silenzio impenetrabile che avvolgeva il sogno, udì un rumore inconfondibile. Regolare, ripetitivo, era quello di un picchio all’opera. Petru capì cosa doveva fare: superò con un balzo il ruscello e si diresse deciso verso l’origine del rumore.

“Ora gli dei sono più vicini” pensò. Il cuore di Petru iniziò a battere più rapido. Il picchio era l’animale sacro del suo popolo, i Piceni.

Il picchio, animale sacro dei Piceni, popolo residente nell’attuale Italia Centrare, è oggi il simbolo della Regione Marche.

Ora Petru quasi correva in direzione del rumore. I rami degli alberi gli graffiavano le braccia e il volto ma egli non si curò delle minuscole ferite che si formavano. Non provava alcun dolore.

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DENTRO LA STORIA...

All’improvviso, il bosco ebbe fine e Petru si ritrovò in una modesta radura delimitata da rocce e alberi. Al centro di essa si stagliava un lago dalle acque limpide e, a poca distanza dallo specchio d’acqua, si innalzava una maestosa quercia. Il picchio era appollaiato sopra uno dei suoi rami, intento ad aggredire il fusto.

Petru rimase immobile a osservare la scena. L’albero, per quanto possente, mostrava chiari i segni della morte imminente. Le foglie infatti erano secche a differenza di quelle degli altri alberi, verdi e rigogliose.

Petru pensò che sarebbe stato meglio nascondersi ma proprio in quel momento il picchio si volse verso di lui e spiccò il volo, atterrando ai suoi piedi.

Stupito, il vecchio si chinò, ed ecco che un prodigio avvenne sotto i suoi occhi. L’uccello depose due uova stranissime, molto più grandi di quelle di un picchio e nient’affatto bianche, com’erano quelle che l’animale deponeva nella realtà. Erano di un colore giallo dorato, con al centro una macchia rossa che pulsava come un tizzone ardente.

L’uomo allungò la mano verso una delle due uova. Pareva che il picchio lo invitasse proprio a fare ciò, saltellando e muovendo la testa. Petru cercò di portare a termine il gesto ma una forza arcana lo bloccò.

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Mentre egli immobile fissava le uova, con un verso stridulo una gazza piombò su di esse, rapida come una cometa che precipita.

Petru cadde preda della disperazione: pur trovandosi a meno di un braccio dalla bestia non riusciva a compiere alcun movimento, né per mettere in salvo le uova né per allontanare il predatore.

La gazza si avvicinò. Pareva affamata.

– No! – urlò il vecchio.

Il grido fu tutt’uno con la reazione del picchio, che si lanciò sulla gazza. Una lotta furibonda si svolse fra i due volatili sotto lo sguardo impotente dell’uomo. Infine il picchio ebbe la meglio e la gazza volò via gracchiando. Solo allora Petru ebbe di nuovo la possibilità di muoversi. Mentre il picchio saltellava qua e là come per festeggiare la propria vittoria, l’uomo raccolse le uova e le innalzò al cielo. Quindi si inginocchiò sull’erba umida e recitò una preghiera in direzione del lago. Laggiù, sopra la superficie dell’acqua, una figura femminile osservava la scena e sorrideva benevola.

Petru si svegliò in quel momento. Il cuore gli pulsava nel petto e i battiti gli martellavano le tempie. Aprì gli occhi. La notte avvolgeva la piccola stanza in cui si

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trovava. Da una finestra aperta filtravano i raggi pallidi della luna. Con mano tremante scostò la pelle di pecora che lo ricopriva e si sedette appoggiando la schiena al muro. Quindi respirò una, due, tre volte.

Era da moltissimo tempo che non gli capitava di fare un sogno divino. Credeva ormai che gli dei si fossero dimenticati di lui: la sua vita scorreva tranquilla fra la bottega, la città e il tempio di Cupra. – Madre Cupra, potente fra le dee che abitano il cielo, ti rendo grazie – pregò sottovoce Petru. Non aveva dubbi: il sogno che aveva appena fatto gli era stato mandato dalla divinità femminile che i Piceni veneravano sopra ogni altra e che dava il nome all’abitato in cui Petru viveva. Meta di pellegrinaggi continui, la città di Cupra vedeva ogni giorno incontrarsi popolazioni provenienti da tutta la penisola italica e a volte da più lontano. Umbri, Piceni, Sanniti, Etruschi, Latini, persino Greci e Fenici, tutti accorrevano a rendere omaggio e a pregare una dea che si riteneva nata dal mare e che presiedeva alla bellezza e alla fecondità. Nel santuario, che sorgeva al centro della città, le preghiere salivano in continuazione mentre il tempio traboccava di offerte e doni votivi.

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La vita di Petru scorreva sui ritmi del santuario. La sua bottega non distava che pochi minuti a piedi dall’area sacra ed era visitata pressoché da ogni fedele. Tutti lo conoscevano e lo stimavano in città: non c’era intagliatore d’ambra più abile di lui a levigare e lavorare la pietra del sole.

Petru scrutò la parete di fronte. La luna colpiva gli utensili con cui l’uomo quotidianamente si guadagnava da vivere e proiettava ombre sottili sul muro. Osservando le ombre, Petru cercò di ricostruire la visione che gli era apparsa mentre dormiva. La grande Cupra gli parlava, non c’erano dubbi.

Si alzò dal proprio giaciglio e senza fare rumore scostò le pelli sulle quali ogni sera si stendeva. Nel buio tastò il pavimento di terra battuta finché le dita non incontrarono una tavola di legno.

– Eccola – disse piano l’uomo.

Risalì la tavola con la mano fino a trovarne il bordo e fece leva con l’indice. La tavola si alzò scoprendo un piccolo ma profondo vano. Era il nascondiglio segreto di Petru. Le mani dell’uomo frugarono fra gli oggetti che il vano custodiva: piccole barre di bronzo e d’argento, una coppa di fine fattura ricevuta un giorno da un mercante greco, alcune gemme d’ambra.

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L’uomo tastava ogni oggetto senza soffermarsi su quei tesori. Non aveva nessuno cui destinarli e una volta giunta la fine dei suoi giorni essi sarebbero appartenuti al tempio. Questa era la sua volontà.

Le sue mani strinsero un involto di pelle grande quanto un pugno.

– Ci siamo! – esclamò. Prese l’involto, sciolse il laccio che lo chiudeva, ne estrasse una sorta di pietra calda al tatto e si avvicinò alla finestra. La fioca luce lunare illuminò un grosso frammento d’ambra. Nonostante fosse grezza, aveva il colore più bello che Petru avesse mai visto in tutta la sua attività di intagliatore: color del miele, serbava all’interno un cuore rosso fuoco. L’uomo la sollevò al cielo e poi la strinse a sé. Aveva aspettato a lungo quel momento, ora sapeva bene cosa fare. Attese le prime luci dell’alba e si mise all’opera.

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GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n°633, art. 2 lett. d).

Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE

PENISOLA ITALICA, 476 A.C.

Nell’antichità, prima dell’unificazione della penisola ad opera dei Romani, l’Italia era abitata da una miriade di popoli diversi. Alcune di origine autoctona, altre stanziatesi a seguito di migrazioni, le popolazioni italiche diedero vita a civiltà fiorenti e variegate, in continuo contatto l’una con l’altra. Da nord a sud popoli come i Celti, i Liguri, i Veneti, gli Etruschi, i Latini, gli Umbri, i Piceni, i Sanniti e molti altri si incontravano, commerciavano, si influenzavano e combattevano.

Scopri i segreti degli antichi italici attraverso le avventurose vicende della pietra del sole, un amuleto d’ambra dai poteri eccezionali. Seguendo l’itinerario compiuto dal misterioso oggetto conoscerai le caratteristiche di coloro che un tempo abitarono il nostro paese.

Michele Santuliana vive in provincia di Vicenza. Cresciuto ascoltando storie, scrive oggi per adulti e per bambini. Con Raffaello ha pubblicato vari racconti storici, tra cui “Alessandro Magno. Sui passi di un condottiero” e “L’eco delle battaglie”.

ISBN 978-88-472-2456-8

Online: approfondimenti e schede didattiche www.raffaellodigitale.it

MicheleSantuliana Lapietradelsole ISBN978-88-472-2456-8
9 788847 224568 € 7,50

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La pietra del sole by Gruppo Editoriale Raffaello - Issuu