Il Campione e la Bambina - ESTRATTO

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Il campione e la bambina Storia di Gino Bartali, postino segreto al tempo della Shoah

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PAOLO MIRTI



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Editor: Francesca Lombardo Coordinamento redazionale: Emanuele Ramini Coordinamento grafico: Mauro Aquilanti Team grafico: Raffaella De Luca, Valentina Mazzarini Autore: Paolo Mirti Illustratore: Fabio Sardo Font alta leggibilità Leggimi © Sinnos I Edizione 2022 Ristampa 7 6 5 4 3 2 1 0

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PAOLO MIRTI

Il campione e la bambina

illustrazioni di Fabio Sardo


A Clorinda


Una vita in sottrazione capitolo uno

“Ecco lo sapevo, un’altra cosa bella che ci viene proibita soltanto perché siamo ebrei, ma quando finirà questo supplizio?” I pensieri mi si affollano in testa carichi di interrogativi senza risposta e sento crescere dentro di me una rabbia che fatico a trattenere. So bene, però, che non posso prendermela con mio padre. Già, perché in quest’estate del 1943 lui, Elia Vetrelli, ebreo padovano ex insegnante universitario, uno dei tanti docenti colpiti dal decreto fascista di espulsione degli insegnanti di “razza ebraica” dalle scuole pubbliche italiane, ha già il suo bel da fare nel cercare di rimanere in piedi senza farsi travolgere dalla tempesta. Non posso certo aggiungermi alla lista dei suoi problemi, sollevando malumori per la notizia che ci ha appena comunicato e cioè che quest’anno dobbiamo dimenticarci la consueta vacanza in montagna a Borgo Valsugana, visto che la polizia fascista non l’ha autorizzata. 5


La località prescelta si trova troppo vicina al confine, è stata questa la motivazione ufficiale del rifiuto da parte delle autorità di sicurezza. – Comunque – si affretta ad aggiungere mio padre con tono rassicurante, – non c’è motivo di abbattersi, dal momento che andremo comunque in vacanza in montagna, anche se a Porretta Terme sull’Appennino e non più in Valsugana. – Sì, papà – replico infastidita, – ma non puoi certo dire che è la stessa cosa. A Borgo Valsugana andiamo da tanti anni e sappiamo perfettamente quali sono le passeggiate migliori e i luoghi più belli da vedere. Abbiamo amici con i quali trascorrere giornate meravigliose. Che cosa diavolo faremo a Porretta Terme dove non conosciamo nessuno? Papà mi guarda più disorientato che stizzito e io mi mordo le labbra come per dissociarmi dalle parole che mi sono appena uscite di bocca. Mia madre mi rivolge un’occhiataccia che ha l’effetto immediato di farmi sprofondare ancora di più in un potente senso di colpa. Bella riconoscenza dimostro a mio padre! In questo periodo mi sta dedicando tutto il suo tempo e le sue attenzioni per farmi calare sempre di più nel ruolo della sorella maggiore responsabile, paziente e capace che, dall’alto dei suoi tredici anni, dovrebbe essere in grado di allentare le tensioni e proteggere la sorella minore. Natalia, di anni, ne ha appena otto. 6


Per favorire questa intesa, mio padre si lascia andare di tanto in tanto a gesti di tenerezza nei miei confronti, inconsueti per uno come lui, sempre misurato e attento a non esibire i sentimenti. Insomma, temo di essere per lui una delusione continua. E pensare che vorrei davvero tanto diventare quella ragazzina giudiziosa e piena di buon senso che lui mi chiede di essere! E a volte mi pare perfino di riuscirci, almeno fino a quando la preoccupazione e l’angoscia non si impadroniscono di me procurandomi una morsa allo stomaco. In quei momenti non ce la faccio proprio a essere paziente. L’unica cosa che avrei voglia di fare è mettermi a urlare contro chi costringe noi ebrei a vivere braccati e senza diritti. Vorrei solo maledire quelli che si sono impossessati delle nostre vite e non si decidono più a restituircele, belle e piene come erano prima. – Mia cara Lea – mi si rivolge con un tono di affettuoso rimprovero, – con tutti i problemi che dobbiamo affrontare ogni giorno non credo che spostare il luogo della vacanza di qualche centinaio di chilometri rappresenti un ostacolo insormontabile. Ti confesso che metterei non una, ma cento firme per fare in modo che tutti i nostri disagi fossero di questa portata. Vorrei tanto rispondergli che non è questione di distanza, ma di emozioni. Già, perché a Borgo Valsugana conosco tutti i segreti del fiume Brenta che l’attraver7


sa: le correnti insidiose, le cascatelle con un’acqua così fredda che quando ci entri ti manca il respiro. Perché a Borgo ho tutte le mie migliori amiche, dalle quali ho imparato che la vera amicizia nasce dal gioco e dalla gioia e non dai doveri e dalle cose troppo serie. E soprattutto perché l’anno scorso ho trovato proprio a Borgo Valsugana un nuovo amico, Lorenzo, un ragazzo di Bologna lungo e un po’ allampanato che quando salivamo insieme in qualche sentiero strettissimo voleva sempre proteggermi e mi guardava come nessuno aveva mai fatto prima. Vorrei dire questo e molto altro ma non lo faccio. Perché, anche se non ci crederete, sono una ragazza giudiziosa e piena di buon senso. – Sì, forse hai ragione tu – mi limito a osservare con voce dimessa. Ormai proprio la rassegnazione rischia di diventare la mia compagna più fedele. A volte mi trovo a riflettere sulla tragedia che ha colpito la mia come tante altre famiglie ebree italiane dopo l’emanazione delle leggi razziali e quello che mi viene in mente per tentare di inquadrarla non è tanto un sentimento, quanto piuttosto un’operazione matematica: la sottrazione. È stato come far precedere tutte le nostre giornate da un segno meno. Come una lenta ma inarrestabile discesa verso gli inferi, nella quale, piano piano, nelle nostre esistenze tutti uscivano di scena. 8


Ad esempio, tutte le persone che frequentavano la nostra grande casa di Padova hanno cominciato a sparire all’improvviso, una a una: l’adorata governante, Toni il portinaio, il fedelissimo autista di mio padre, gli affittuari del podere. Tutti scomparsi. Anche i colleghi di mio padre ben presto hanno cominciato a fingere di non vederci per non essere costretti a salutare quando li incontravamo durante i concerti della domenica pomeriggio. Per non parlare del dolore che ho provato io quando la nuova legislazione antiebraica mi ha vietato di frequentare la scuola. Non avrei mai pensato di stare così male per non poter partecipare a quelle lezioni che spesso, come tutti gli alunni, avevo odiato perché mi costringevano a fare una marea di compiti e a tralasciare le cose che amavo di più. E invece quella mattina, quando mi hanno fermato all’ingresso della scuola impedendomi di entrare, mi è crollato il mondo addosso. Lo ricordo come se fosse accaduto un’ora fa. Sono arrivata di corsa in cortile nella speranza di poter chiacchierare con qualche amica prima dell’inizio delle lezioni come facevamo sempre. Notai subito qualcosa che contrastava con l’abituale paesaggio di ogni mattina: la maestra e il preside, scortati da un funzionario di polizia, esaminavano il gruppo di ragazzine alle quali mi unii. 9


Nel poco tempo che ci separava dal suono della campanella io e le mie compagne ci tuffammo in un mare di rincorse e risate fino a quando ci mettemmo in fila per entrare. Alzai lo sguardo e mi sembrò che lo strano trio appostato davanti al portone della scuola fissasse proprio me. – Non è possibile – mi ripetevo. E per convincermi ancora di più cercavo in tutti i modi di mimetizzarmi in mezzo alle altre ragazzine facendomi sottile sottile, fino quasi a diventare invisibile. Purtroppo, però, la maestra mi vedeva bene e per questo mi fermò poggiandomi una mano sulla spalla. A quel punto l’insegnante cominciò una strana conta riordinando le file: da una parte gli ebrei e dall’altra i non ebrei. Ero sconcertata quando il poliziotto ci comunicò che, viste le nuove leggi emanate, non saremmo più potuti entrare a scuola con gli altri. A chi non crede al razzismo, fate vivere per un attimo quello che ho vissuto io quel giorno, fate sentire quella ferita profonda che mi si è aperta nel cuore vedendo le facce incredule delle mie compagne con le cartelle in mano che non sapevano se piangere o ridere e che non trovavano le parole adatte, perché non ci sono mai parole giuste per esprimere un’ingiustizia così grande. Fate assaggiare il sapore della frustrazione che assale, fate sentire il peso insostenibile del dubbio di non essere adeguata. 10


Ecco, fate sperimentare tutto questo e vedrete che dopo essere state anche solo per un attimo nei miei panni finalmente si comporteranno diversamente.

Ho avuto la fortuna di poter continuare a studiare, perché da allora mio padre ha preso a occuparsi della mia istruzione insieme alla comunità ebraica, ma non è stata più la stessa cosa. Quando penso a quel progressivo vuoto che ha iniziato a inghiottire le nostre esistenze le ricollego a un colore e a un suono. Il colore è il rosso accesso con il quale mani ignote dipinsero proprio all’ingresso di casa nostra a Padova un impiccato a grandezza quasi naturale accanto a una stella di Davide. Ricordo come fosse adesso quel rosso che colava dai battenti del portone come sangue grondante. Mio padre è riuscito a cancellare il disegno, ma le pietre del selciato hanno conservato per tanto tempo quella chiazza, che io e mia sorella, quando uscivamo da casa, stavamo bene attente a non calpestare. Il suono che affiora ancora nei miei ricordi è invece la musica di un violoncello, lo strumento che mio padre, cacciato dall’università, dove lavorava da tanto tempo, suonava nelle grandi stanze ormai vuote della casa di Padova, come per scacciare i propri incubi. 11


Ricordo anche quella mattina di maggio, all’alba, quando ci vennero a bussare a casa avvertendoci che i fascisti avevano appiccato il fuoco alla grande sinagoga di Padova; per fortuna riuscimmo a mettere in salvo, appena in tempo, i rotoli della Torah. Dopo quel giorno, capimmo che l’aria per noi da quelle parti era diventata davvero irrespirabile. Mia sorella era disperata. – Ma se la casa del Signore è stata distrutta – chiedeva a mio padre, – allora il Signore ora dov’è? In fondo era la stessa domanda che più volte in questo periodo mi pongo spesso anch’io: – Dio, il nostro Dio, dove si è nascosto? Riusciamo a partire per la montagna di Porretta Terme soltanto in settembre. Dopo l’8 settembre la situazione sta diventando per noi, giorno dopo giorno, sempre più pericolosa con i tedeschi che nell’Italia del Nord controllano minuziosamente il territorio e con l’incubo della deportazione nei campi di concentramento che assume contorni sempre più reali. Chi viene sorpreso a nascondere o aiutare ebrei rischia pene severissime. Il proprietario dell’albergo di Porretta Terme dove mio padre aveva pensato di farci soggiornare non se la sente più di ospitarci e così, per correre meno pericoli, propone di sistemarci in una specie di rifugio montano. 12


Per non destare sospetti ha installato sulla facciata l’insegna di clinica privata. Accettiamo di buon grado la sua proposta e così ci ritroviamo in un edificio disadorno e un po’ tetro insieme ad altri cittadini ebrei in incognito. Rimpiango molto i bagni nel fiume Brenta a Borgo, però piano piano comincio ad apprezzare anche la nostra nuova residenza. In particolare, mi piace molto quando dopo cena l’ingresso del rifugio si anima delle conversazioni degli ospiti. I nostri corpi mi sembrano somigliare alle lucciole che da bambina mi divertivo a rincorrere in campagna. Prima avvolti nelle tenebre e circondati dal buio e poi accesi da una luce intermittente che lascia spazio alla speranza. Piccoli fuochi nascono tra di noi mentre chiacchieriamo nella sala del rifugio: cerchiamo di condividere informazioni immaginando nascondigli nuovi e più sicuri e studiamo strategie per sfuggire ai tedeschi. Durante una di quelle piacevoli serate, sono seduta insieme alla mia famiglia in un piccolo tavolo della hall. Stiamo ridendo di gusto per l’ennesimo “malore” che mia madre si è inventata per essere esonerata dalla passeggiata del giorno successivo quando improvvisamente mio padre si assenta da ogni discorso e fissa il vuoto come per inseguire un’eco lontana. Una volta riemerso da quello stato di semi incoscienza ci interroga ansioso: – Avete sentito anche voi? 13


– Sentito cosa esattamente, Elia? – ribatte mia madre piuttosto preoccupata per l’espressione misteriosa dipinta sul volto di mio padre. – Sì, dico… – precisa papà abbassando un po’ il tono della voce, – … avete sentito anche voi quello che si sono detti quei due seduti dietro di noi? La giovane coppia, intendo. Il marito ha detto una cosa del genere: “Fosse per me saprei bene dove nascondermi per non correre rischi. Me ne andrei dritto dritto ad Assisi. Dicono che da quelle parti c’è un podestà caritatevole, disposto ad aiutarci, una gran brava persona. E poi Assisi è fuori dalle rotte pericolose”. Ha detto proprio così, l’ho sentito benissimo. – Sai – commenta mamma cercando di minimizzare, – di questi tempi ogni ebreo studia percorsi e itinerari per costruire la propria salvezza. – Sì, ma vedi Giulia, ho come l’impressione che in quel momento loro stessero parlando anche per noi. Voglio dire, la via di fuga che loro hanno ipotizzato mi sembra perfetta anche per la nostra situazione. A quel punto faccio un salto sulla sedia. – Ma papà, da quando ti diverti a decifrare segni? – osservo con una punta di sarcasmo. – Non sarai diventato una specie di sensitivo? – Beh, in un certo senso è così – replica senza battere ciglio – e io non ci trovo niente di strano. Vi siete dimenticati che lavoro faccio o, meglio, facevo? 14


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Certo che ce lo ricordiamo. Prima dell’espulsione mio padre è stato docente di chimica fotografica all’Università di Padova. Studiava i raggi ultravioletti grazie ai quali si riesce a fotografare anche attraverso nebbia. Era l’unica cattedra del genere in Italia e aveva un grande interesse bellico. L’Aereonautica italiana arrivò perfino a offrirgli una consulenza esterna, in maniera da non violare formalmente la legislazione antisemita, ma mio padre la rifiutò con sdegno commentando che il razzismo “a mezzo servizio” lo feriva ancora di più di quello a tempo pieno. – Il mio lavoro – prova a spiegare – è cercare di diradare la nebbia, riuscire a vedere e a fotografare anche quando tutto sembra irrimediabilmente avvolto nella foschia più fitta. Ecco, si dà il caso che noi ora viviamo in queste condizioni. Io però, proprio in ragione dei miei studi, so come orientarmi: Assisi è la meta giusta per noi se vogliamo salvarci! Per fortuna abbiamo i nostri risparmi che ci permetteranno con tranquillità di vivere senza problemi. Fidatevi. – Noi ci fidiamo ciecamente di te – prova a rassicurarlo mia madre, – è solo che preferirei scegliere una soluzione sulla base di analisi e ragionamenti meditati piuttosto che per il suono di alcune parole carpite da un tavolo vicino. Non ti sembra illogica questa tua assoluta fiducia? 16



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Il campione è un famoso ciclista che ha già vinto il Giro d’Italia e il Tour de France. Si chiama Gino Bartali e, nascondendo nel sellino della sua bicicletta documenti falsi, diventa il postino degli ebrei. La bambina è Lea, una tredicenne ebrea costretta a inventarsi un’altra identità per sfuggire ai campi di concentramento, mentre le leggi razziali diventano ogni giorno più minacciose. Tra il 1943 e il 1944 i loro destini si intrecciano: entrambi dovranno lottare per rimanere in sella anche quando la salita si fa più dura. Un romanzo originale e coinvolgente, per riflettere sui valori della giustizia e della libertà.

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P ro tu Fu

"Vedere Bartali pedalare era davvero uno spettacolo unico: nessuna sofferenza nei suoi occhi, piuttosto un’energia quieta e indomabile".


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