Cuori forti

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CUORIFORTI autori vari

I ragazzi e le ragazze del nostro tempo

Editor: Patrizia Ceccarelli

Coordinamento redazionale: Emanuele Ramini

Coordinamento grafico: Mauro Aquilanti

Team grafico: Mauro Aquilanti, Mauda Cantarini

Illustrazioni: Carlotta Notaro

In collaborazione con ICWA

I Edizione 2025

Ristampa

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© 2025 Tutti i diritti sono riservati Raffaello Libri S.p.A. Via dell’Industria, 21 60037 - Monte San Vito (AN)

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Printed in Italy

È assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di questo libro senza il permesso scritto dei titolari del copyright.

L’Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti.

CUORIFORTI

GETTA IL CUORE OLTRE L’OSTACOLO E CORRI A RICONQUISTARLO!

Questo antico motto cavalleresco è un incitamento ad affrontare le situazioni difficili con coraggio, magari anche con un pizzico di spavalderia, puntando dritto alla realizzazione del proprio sogno.

Noi li abbiamo chiamati CUORI FORTI, ragazze e ragazzi che accettano la sfida della vita e le corrono incontro pur vincendo mille paure. A loro sono dedicate le storie di questo libro.

Ai CUORI FORTI che sembrano vivere in un mondo a parte? In realtà studiano gli adulti, li seguono e li perseguitano e accettano solo l’esempio di quelli che li convincono di più. Per gli altri… non c’è storia!

Ai CUORI FORTI spesso immobili e annoiati, sdraiati sul letto o buttati sul divano?

Non fatevi ingannare: hanno un vulcano dentro, un magma di emozioni che ribolle e presto esploderà. E allora ne vedremo delle belle!

Ai CUORI FORTI, apparentemente stanchi per natura?

Occhio, perché sono sempre carichi. Hanno una batteria inesauribile e attivano le proprie energie in pochi secondi. Ma deve valerne la pena!

Ai CUORI FORTI che molti immaginano isolati, chiusi dentro un guscio impenetrabile?

Attenti perché hanno una segreta rete di contatti e, sfiorando un solo filo di questa ragnatela, anche tutto il resto vibrerà.

Meglio avvicinarsi con prudenza!

Ai CUORI FORTI che vediamo spavaldi e spensierati?

Spesso soffrono ma non lo dicono. Sanno tenersi dentro il dolore, la delusione, l’amarezza, la sconfitta. Sono forti e fragili, loro… quasi sempre!

Ai CUORI FORTI, così insofferenti con gli adulti?

Sarà scomodo da ammettere, ma ai “grandi” chiedono solo di essere ascoltati, davvero e con orecchio attento.

O gli adulti sono troppo distratti per farlo?

Dunque, lanciate i vostri CUORI FORTI più in alto possibile e non esitate a seguirli. Ne avete tutto il coraggio.

Queste storie fanno il tifo per voi!

la solidarietà

cinzia capitanio Senza paracadute

Da quando aveva iniziato la prima nel liceo scientifico della sua città, Ely aveva affrontato tutta una serie di sfide. Innanzitutto, aveva dovuto imparare a destreggiarsi fra fermate e cambi di autobus pianificando una vera e propria strategia di sopravvivenza. Farsi spazio in un bus sovraffollato, infatti, richiedeva abilità che lei non aveva mai posseduto né desiderato avere. Mingherlina com’era, non poteva usare la forza, perciò aveva imparato a intrufolarsi tra i corpi e gli zaini degli studenti appiattendosi fino a trasformarsi in una sardina in scatola.

Ma le prove alle quali si era dovuta sottoporre non erano solo quelle legate al viaggio: da mesi il traguardo del trovarsi bene in una classe nuova rappresentava per lei la vera sfida. Timida e introversa com’era, andava a scuola soltanto perché i genitori la costringevano a farlo.

Dopo un intero anno scolastico aveva scambiato soltanto brevi frasi con alcuni compagni, per informarsi sui compiti assegnati o per questioni pratiche, e non aveva fatto realmente amicizia con nessuno. Se avesse potuto, avrebbe preferito restarsene chiusa in camera. Solo lì si sentiva al sicuro. Solo lì non servivano regole di sopravvivenza.

Senza paracadute

– Sei pronta per la verifica? – le chiese Margherita, la sua compagna di banco, appena entrò in classe.

Ely sussultò come le capitava di fare quando qualcuno le rivolgeva la parola: aveva sempre la testa fra le nuvole.

– Penso di sì – borbottò arrossendo.

– Io non so se sono pronta… – continuò l’altra sfilando i libri dallo zaino. – Ieri sera il capitolo di scienze mi entrava dagli occhi e usciva dalle orecchie.

Ely sorrise e riprese a tracciare linee morbide nel quadernetto che portava sempre con sé. Non era uno di quelli che usava per scuola. Anche se malridotto e con le orecchie agli angoli delle pagine, era l’oggetto più prezioso che avesse.

– Cosa stai disegnando? – le chiese Margherita.

Ely chiuse in fretta il quaderno facendo finta di non aver sentito. Non faceva mai vedere a nessuno i suoi disegni.

Proprio in quel momento il professore di scienze richiamò tutti al silenzio.

– Ok, si comincia… per fortuna tra un mese la scuola è finita –mormorò Ely preparandosi ad affrontare l’ennesima prova.

Nicolò sbuffò per la terza volta in pochi minuti. Sistemò lo zaino sulla spalla e si avviò verso le scale. La verifica della prima ora gli era andata sicuramente male e rischiava di essere rimandato in scienze a settembre in aggiunta a matematica. Sua madre avrebbe dato di matto, lo sapeva. Non era fissata con i voti alti… gli aveva chiesto solo di non concludere l’anno con materie insufficienti, ma lui non ci stava riuscendo. Del resto, andare a scuola non gli piaceva e studiare ancora meno. Non aveva trovato neppure una materia che lo “accendesse” e che gli facesse venire voglia di impegnarsi un po’ sui libri.

Si sentiva mediocre in tutto, perfino nello sport. L’ora di motoria era un supplizio esattamente come capitava con le altre materie. Non si sentiva intelligente, bello, sportivo o interessante agli occhi degli altri… per questo era sempre a disagio.

Gli sembrava di non avere nulla da condividere con i suoi coetanei, perciò preferiva starsene in un angolo ed esporsi il meno possibile. Era tutto l’anno che ci provava e in parte c’era riuscito. In fondo, in una classe sovraffollata, non era troppo difficile fingere di essere invisibile… anche se, purtroppo, non funzionava sempre.

– Nicolò, aspetta! – lo chiamò Samuele. – Domani non paccare. Abbiamo estratto il tuo nome per l’interrogazione di fisica.

– Ma ti pareva… – brontolò serrando i pugni per la rabbia. Tra tutti, erano riusciti a pescare proprio lui. Se avesse avuto un altro carattere magari avrebbe protestato visto che non era presente all’estrazione. Ma non era fatto così.

Perciò ricacciò la collera dentro di sé e imboccò le scale scendendole di corsa. Aveva solo voglia di uscire da lì.

Camminò rapidamente lungo il marciapiede. Aveva cominciato a piovere e doveva sbrigarsi per non perdere l’autobus.

Vide la felpa viola di Ely e si rasserenò. Sapeva che quella compagna di classe faceva il suo stesso tragitto e se era alla fermata significava che era arrivato in tempo. La cosa assurda era che, pur condividendo le lunghe attese e la frustrazione delle coincidenze perse per qualche minuto… non si erano mai scambiati una sola parola. E a entrambi andava bene così.

Quando l’autobus si fermò, quelli che erano dietro di lei cominciarono a spingerla per salire sul mezzo già strapieno. Ely prese un bel respiro e si fece coraggio.

Senza paracadute

“Forza… ce la posso fare” si disse per rincuorarsi. “Devo solo aggrapparmi al primo palo disponibile ed evitare di essere schiacciata dalle porte quando si chiuderanno”.

Decise finalmente di avanzare, ma qualcuno la urtò con prepotenza spingendola di lato. Perse l’equilibrio e, se non finì con la faccia a terra, fu solo grazie a una mano che la trattenne per un braccio.

Frastornata cercò di capire cosa stesse accadendo, ma non ne ebbe il tempo perché chi l’aveva afferrata la spinse senza tanti convenevoli dentro l’autobus facendola salire.

– Metti giù lo zaino – le suggerì una voce dietro le spalle mentre le porte si chiudevano e il mezzo si metteva in movimento.

Erano così accalcati che Ely faticò a voltarsi quel tanto che sarebbe bastato per capire che a parlare era stato Nicolò, il suo compagno di classe.

– Grazie – sussurrò cercando di prendere fiato. Odiava la folla. Odiava l’idea di non potersi muovere liberamente. Si sentiva soffocare.

– Devo uscire… – mormorò dopo pochi minuti avvertendo la morsa stringente dell’ansia – … mi manca l’aria.

– Con tutta la fatica che abbiamo fatto per salire? – le chiese Nicolò. – Non ti starai facendo venire una crisi di panico, vero?

Se svieni fermeranno questo cavolo di autobus e come minimo perderemo la coincidenza! È stata una giornata già abbastanza schifosa…

– Mi sento male… – sussurrò lei.

– Senti, non farmi pentire di averti aiutata – la rimproverò Nicolò. – Mi dispiace per te, ma vedi di pensare a qualcos’altro e di non svenire.

Il cinismo e la scarsa empatia del coetaneo la fecero reagire.

– Sei un cretino! – lo apostrofò mentre la rabbia prendeva il posto dell’angoscia.

– Non mi stai dicendo niente di nuovo – confermò lui. – Sono anche pigro, buono a nulla e mediocre… un vero perdente.

Ely percepì il tono tagliente delle sue parole e non aggiunse altro. Il momento di panico era passato ed erano già arrivati alla fermata.

Una volta scesi dal bus non si parlarono più, proprio come avevano fatto durante tutto l’anno scolastico. Iniziò anche a piovere e in breve un acquazzone scese su di loro.

A conclusione di quella pessima mattinata, entrambi erano senza ombrello e non c’era nessuna pensilina sotto cui ripararsi.

Appena entrato in casa Nicolò mollò lo zaino, si tolse le scarpe e la felpa inzuppati d’acqua e si fiondò in cucina dove sua madre gli aveva lasciato delle lasagne da scaldare al microonde. Come al solito i suoi genitori sarebbero rimasti al lavoro tutto il giorno e lo attendeva un pomeriggio di solitudine. In realtà non gli dava fastidio. Poteva gestire il tempo come voleva. Portò il piatto in camera e accese il pc. Mentre infilava rapidamente in bocca grossi bocconi di cibo, osservava il computer prendere vita.

– Finalmente… – mormorò con un sospiro di sollievo – … non ne potevo proprio più.

Quello era il suo mondo. Era il luogo dove si sentiva al sicuro e dove non vedeva l’ora di rifugiarsi appena poteva. Lì c’era tutto ciò di cui aveva bisogno: videogiochi, web e intelligenza artificiale.

Nel mondo digitale non si sentiva il solito Nicolò stupido e incapace che chiunque poteva lanciare nel vuoto senza un

Senza paracadute

paracadute per salvarsi. Davanti allo schermo cessava di essere uno studente mediocre per diventare protagonista di esperienze in cui poteva dimostrare le sue abilità e sentirsi finalmente bravo in qualcosa.

Prima di scomparire in quella realtà virtuale, posò il testo di fisica sulla scrivania.

– Studio… sì… dopo studio – borbottò come se il libro potesse ascoltarlo, – ma adesso ho bisogno di un po’ di pace.

Non fece in tempo ad aprire la porta che Ares le fu addosso abbaiando come un forsennato. Era un cane di piccole dimensioni, ma dotato della straordinaria capacità di essere fastidioso.

– Smettila! – lo rimproverò Ely. – Ho già avuto una giornata terribile.

Ares si tranquillizzò e lei lo premiò con una carezza.

In casa la situazione era piuttosto caotica. Le sue sorelle gemelle erano appena rientrate da scuola e stavano bisticciando perché entrambe volevano le attenzioni della madre. Sul seggiolone Peter, il più piccolo della famiglia, invece di mangiare distribuiva la pappa intorno a sé.

Ely si sfilò gli indumenti bagnati cercando di passare inosservata per defilarsi, ma fu subito intercettata dalla mamma.

– Ciao! Bentornata! – la salutò. – Per favore, dammi una mano con tuo fratello mentre finisco di preparare il pranzo.

Dopo almeno un’ora riuscì a rifugiarsi in camera. Per fortuna non doveva condividerla con nessuno. Chiuse la porta e si sedette alla scrivania. Estrasse dallo zaino il suo quadernetto e cominciò a sfogliarne le pagine. Era pieno di disegni che raffiguravano uccellini implumi che pigolavano nel nido, gattini acciambellati, orsetti accoccolati nel tepore della tana.

Era così che Ely immaginava anche sé stessa: al caldo, al sicuro… nel guscio. Quello che c’era fuori la spaventava e non voleva conoscerlo. Nel mondo oltre la soglia di casa sua, sentiva di non avere alcun paracadute da aprire in caso di emergenza.

Quella notte la pioggia continuò a scendere. Copiosa e prepotente riempì il letto dei fiumi salendo oltre il limite e trascinando con sé tutto ciò che incontrava lungo la sua strada.

– Ely, hanno chiuso le scuole – le dissero genitori il mattino seguente. – Dicono che sia più prudente per tutti restare a casa.

– Nicolò, non puoi andare a lezione – gli comunicò suo padre, – fuori è un disastro. Le strade sono bloccate perché ci sono stati degli allagamenti.

Per Ely e Nicolò rimanere a casa non era certo una tragedia… anzi. Lei avrebbe potuto disegnare e lui aveva un nuovo videogioco da provare. Eppure, c’era qualcosa di strano quel giorno.

Mentre le sirene si facevano spazio tra il rumore scrosciante della pioggia, il tempo sembrava sospeso. Era come se tutti stessero trattenendo il fiato, immobilizzati in un’anomala apnea.

– Il fiume Montone ha rotto gli argini…

– A Cesena e a Forlì la situazione è gravissima…

– Interi quartieri sono allagati… L’acqua fangosa entra nelle case devastando tutto… manca l’elettricità…

– Si contano anche dei morti e dei dispersi…

Notizie sempre più allarmanti invasero con forza la quotidianità portando paura e senso di impotenza. Fuori dalla finestra si vedeva solo la pioggia che ancora scendeva copiosa, ma la situazione a poche centinaia di metri da loro era drammatica.

Poi finalmente smise di piovere e nell’aria vibrarono solo gli elicotteri della Protezione Civile.

Senza paracadute

Il giorno successivo, quando l’acqua lentamente cominciò a ritirarsi dalle case, le famiglie colpite dall’alluvione iniziarono a spalare il fango e a mettere in salvo ciò che potevano. Montagne di libri, vestiti, mobili, computer, elettrodomestici e oggetti di ogni tipo furono raccolti lungo le strade per essere gettati nelle discariche. Anche qualche loro compagno stava vivendo quell’incubo e nella chat di classe, invece dei soliti commenti o richieste di compiti, si susseguivano foto e video di quella devastazione. Il mondo là fuori faceva paura. La tragedia non aveva colpito Ely, Nicolò e le loro famiglie. Le loro case erano al sicuro perché si trovavano in un punto della città leggermente più alto. Il guscio li aveva protetti… ma si era formata una crepa.

Si incontrarono poco distante dalla fermata dove aspettavano tutte le mattine l’autobus che quel giorno, però, non sarebbe passato.

– Da che parte andiamo? – le chiese Nicolò appena la vide. Non si erano dati appuntamento, tuttavia non era necessario dare spiegazioni. Entrambi indossavano stivali di gomma e tenevano una pala fra le mani.

– Da quella parte… – suggerì Ely.

Nel quartiere vicino c’erano molte persone che spalavano il fango e aiutavano a svuotare case e scantinati. Ragazzi come loro, adulti, anziani… ciascuno dava una mano come poteva.

– Guarda… quelli non sono alcuni dei nostri compagni di classe? – domandò lui avvicinandosi a un gruppo di giovani.

– Ci siete anche voi? Fantastico! – li accolsero Margherita e Samuele che si trovavano già lì. – Venite, c’è bisogno del vostro aiuto!

Nicolò ed Ely non se lo fecero ripetere due volte e si misero al lavoro.

Mentre spalavano il fango non pensarono neppure per un attimo alle loro paure e alla sensazione di inadeguatezza che avevano provato in quei mesi. Quando qualcuno intonò un canto popolare, si unirono al coro. Le parole di Romagna mia si diffusero lungo le strade di quella terra ferita e le loro voci, così come le loro forze, diventarono parte di qualcosa di grande al quale finalmente sentirono di appartenere.

– Hai del fango sulla faccia – le fece notare Nicolò mentre, giunta la sera, rientravano a casa.

– Tu ce l’hai ovunque… perfino fra i capelli! – gli rispose lei ridendo. – Potrei chiamarti melma–boy.

La reazione di Nicolò non si fece attendere: si avvicinò e la strinse in un abbraccio avvolgente. Quando si scostò, si fissarono in silenzio per un attimo. Tra loro aleggiavano emozioni nuove e intense. Poi lui scoppiò a ridere.

– Adesso anche tu sei infangata per bene! – le disse scherzando.

– Sei un cretino! – lo rimproverò Ely fingendo di mettere il broncio.

– Lo so – le rispose lui sorridendo senza amarezza.

Camminarono insieme per un tratto.

Erano stanchi, ma il loro passo aveva acquisito sicurezza, malgrado la consapevolezza che non esistevano paracaduti o gusci in grado di proteggerli da tutto.

– Ci vediamo qui domani mattina? – chiese Ely prima che le loro strade si separassero.

Il lavoro non era finito: c’era ancora bisogno di loro.

– Sì… – le rispose Nicolò – … ci vediamo domani.

erika casali Missione compiuta

Pier sta sprofondato nella sedia anatomica e fissa lo schermo. È immobile, unico movimento quello delle dita sul controller. La stanza è immersa in un silenzio fatto di ore di gioco e cuffie.

Sua madre spalanca la porta ed entra facendolo sobbalzare.

– Pier, Pier...

Anche senza guardarla, sa che lei sta ripetendo il suo nome.

Se continuerà a ignorarla, potrebbe andarsene. La mano di lei si allunga fino al pulsante di spegnimento del computer. CLIC!

Pier è sbalordito.

– Dobbiamo parlare – sentenzia la mamma.

Lo sguardo di Pier resta appiccicato allo schermo nero, infastidito.

– Dal momento che non hai voluto farlo da solo, io e tuo padre ti abbiamo iscritto a un corso di sopravvivenza. Partirai domani mattina.

Pier spalanca gli occhi e resta immobile, tipo zombie colpiti a morte nel suo gioco apocalittico al pc.

– Per una settimana starai in mezzo alla natura e ai tuoi coetanei e alla prima invasione zombie ci salverai tu – ridacchia la mamma.

Missione compiuta

La tentazione di rispondere male è enorme, poi però Pier dovrebbe vedersela col senso di colpa per averla ferita, così si limita a sporgersi in avanti e a riaccendere lo schermo.

Dopo qualche istante, lei se ne va. Pier è in trappola.

Dall’altra parte della città, Lela sta guardando un documentario sugli effetti del cambiamento climatico. Le immagini dei ghiacciai striminziti, delle foreste carbonizzate, dei laghi disseccati le strizzano lo stomaco come una spugna secca. Sospira, spegne lo schermo e va in cucina dove i genitori stanno cucinando mentre ascoltano una vecchia canzone.

– Mi sono iscritta a un corso di sopravvivenza – esordisce Lela, ottenendo la loro attenzione. – Non posso fingere che vada tutto bene.

Papà spegne la radio e mamma smette di tagliare le carote.

– Sei sicura?

– Se non facciamo nulla, non ci sarà più un futuro, e io lo voglio!

Il padre asciuga le mani con un canovaccio.

– Capisco la tua ansia, Lela, ma stai esagerando.

Lela scuote la testa infastidita.

– Ho bisogno di sapere come sopravvivere nel peggiore dei casi. Devo essere pronta!

I genitori di Lela hanno la preoccupazione stampata in faccia, ma non fiatano. Riprendono a preparare la cena, mentre Lela abbassa il gas dei fornelli per consumare meno.

Il campo di sopravvivenza è in una riserva naturale a poche ore dalla città. Gli alberi svettano imponenti, creando un’atmosfera primordiale, l’aria è impregnata dell’odore di muschio e di terra umida.

Pier scende dal pullman e arriccia il naso, osservando i suoi coetanei che chiacchierano. Non conosce nessuno e si sente fuori posto. Mentre gli altri ragazzi si scambiano battute e ridono, Pier sta ai margini del gruppo, infila le cuffie e avvia una playlist.

Lela, con lo zaino carico di provviste e di strumenti, si aggira tra i partecipanti, cercando di attaccare discorso. Quando incrocia lo sguardo di Pier, gli sorride e gli si avvicina, ma lui la ignora.

– Siamo gli unici che non si conoscono – esordisce Lela, incoraggiante. Pier guarda altrove, sperando che lei lo lasci in pace.

In quel momento gli istruttori, vestiti con abiti mimetici, richiamano all’ordine dando il benvenuto da un microfono.

– Imparerete a sopravvivere senza elettricità, acqua corrente e internet. Dovrete contare solo sulle vostre capacità. Per prima cosa, ecco come costruire un riparo – spiegano.

Pier sbadiglia, Lela ascolta vorace, annota ogni dettaglio.

– Non scrivi nulla? – chiede a Pier. – Ogni dettaglio potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte in una situazione di emergenza!

Pier si gratta la testa.

La festa di benvenuto è iniziata da poco e Pier ha già provato a filarsela. Mario, un istruttore solerte, l’ha riportato indietro ripetendogli che socializzare è importante per la sopravvivenza. Pier ha pensato una parola irripetibile. Poi è rimasto immobile e muto in mezzo alle altre persone che si divertono.

Lela lo raggiunge come un segugio.

– È una perdita di tempo, non credi? – sentenzia intrecciando le dita dietro la schiena e alzandosi sulle punte.

Pier mugugna e spera che questo basti per liberarsi di lei.

Missione compiuta

– Dovremmo esercitarci, studiare, prepararci… dovrebbero istruirci, non… non… questo.

Lela indica con sdegno il gruppo che balla e ride spensierato.

Pier pensa che perlomeno loro non gli parlano. Lela, invece, lo sta facendo in continuazione.

– Andiamo a provare i nodi? – propone lei. – Montiamo una tenda, o accendiamo un fuoco… io sono preparatissima!

Allora Pier si lancia in mezzo ai corpi sudati che si dimenano. È disposto persino a ballare per sfuggire a Lela!

Il mattino dopo, mentre il sole illumina le cime delle montagne, i ragazzi vengono invitati a lasciare i cellulari in una scatola, poi suddivisi in coppie.

– Usate la mappa per non perdervi, raccogliete più legna possibile e fate ritorno al campo base. La legna serve per il falò e per la grigliata di stasera – ridacchia uno degli istruttori.

– E ora via, partite!

Pier e Lela, che sono stati abbinati, si inoltrano nel bosco. Lela osserva il muschio per orientarsi, consumando con gli occhi la mappa che tiene tra le mani; Pier sembra più interessato a schivare i rami bassi e le domande di Lela.

– Il tuo silenzio fa parte della prova di sopravvivenza? – sbotta lei, lasciando cadere la fascina di legnetti che tiene in spalla.

– Come sopravvivere alla crisi climatica e all’individualismo, ecco come dovevano chiamare questo corso!

Lela pianta le mani sui fianchi e scruta i dintorni.

– Dovremmo essere vicini al punto di raccolta! – dice nervosa, sta per finire la pazienza con il compagno.

– Credo proprio che ci siamo persi – sussurra preoccupato Pier. La foresta gli sembra più fitta e oscura.

– Non è possibile – dice Lela rimettendo il naso sulla mappa.

– Smettila di studiare quel pezzo di carta e guarda là! Vista dal campo quella montagna era a destra, ora è a sinistra.

Lela segue infastidita la direzione del dito di Pier. La risposta rimane sospesa in aria come le mosche che li seguono da ore.

– Hai ragione tu – ammette poi mortificata. – Ci siamo persi e il sole sta calando...

Si sta facendo tardi e loro sono due sprovveduti smarriti in un bosco con la notte in arrivo. Pier sa che Lela ha del cibo nello zaino, chissà se sarà disposta a condividerlo con lui?

– Accendiamo un fuoco e costruiamo un riparo? – propone Pier cercando di scacciare le scene di terribili pericoli che gli balenano in testa.

Lela, che sembra proprio avere gli stessi pensieri, dice:

– Secondo quello che ho letto, in questa zona non dovrebbero esserci animali feroci.

Pier ridacchia imbarazzato.

– Speriamo che sia vero, io so lottare solo con un controller in mano.

Lela non perde tempo e inizia a dirigere i lavori per la costruzione di un rifugio: sciolgono le fascine e raccolgono altri rami e foglie. Poi Pier accende un fuoco, sbalordito di riuscirci per davvero. La luce del giorno sta svanendo e l’ombra degli alberi è quasi tutt’uno con il buio che scavalla le montagne.

Lela gli dà una barretta presa dal suo zaino e ne prende una per sé. Mentre smangiucchiano, sentono un fruscio, poi un ramo si spezza e qualcosa si muove veloce tra i cespugli. Pier si irrigidisce, il cuore batte all’impazzata.

– Hai sentito? – sussurra mentre i due si schiacciano fianco contro fianco. Lei si limita ad annuire perché all’improvviso ha la bocca e la gola felpate.

Missione compiuta

Hanno i sensi all’erta. Il tempo si dilata, ogni minuto diventa un’ora mentre l’oscurità si fa sempre più profonda.

Pier e Lela si siedono più vicini al piccolo fuoco.

– Non pensavo di essere davvero in grado di accendere un falò – sussurra Pier, osservando le fiamme.

– Neanch’io – bisbiglia Lela con un sorriso.

Il silenzio in cui ricadono è pieno di fruscii e schiocchi che li fanno sobbalzare e stringere un po’ più l’uno all’altra. Sono pervasi da una strana sensazione di tranquillità e paura insieme.

– Ho sempre amato la natura – dice Lela, rompendo il silenzio. – Ma ora che siamo qui, mi rendo conto di non conoscerla bene e di averne paura. In questo momento mi spaventa più del cambiamento climatico.

– Già – concorda Pier, rabbrividendo nonostante il fuoco.

Io sono sempre ansioso fuori dalla mia camera e tra le persone. Davanti al mio pc invece tutte le ansie spariscono ed è l’unico posto in cui sono capace di tutto.

Pier getta un ramo nel fuoco che crepita.

– Non l’avevo mai detto a nessuno.

Lela risponde con una spallata amichevole.

Un ululato lontano li blocca entrambi.

– È un lupo? – bisbiglia Pier, cercando di mascherare la paura.

Lela ha gli occhi sgranati.

– Di solito non attaccano gli esseri umani. Restiamo vicini al fuoco, per sicurezza.

Nella voce tremante cerca di mettere tutta l’autorità di quello che ha letto.

Il cuore di Lela corre all’impazzata seguendo l’adrenalina nelle vene, mentre Pier fa uno sbadiglio così grande da sembrare un orso.

– Come fai ad avere sonno con un lupo vicino in agguato?

Pier si raddrizza e scuote la testa.

– Ok, facciamo i turni, comincio io a fare la guardia al fuoco –dice Lela, con un coraggio che non credeva di avere.

Pier prova a ribattere ma Lela non vuole saperne di dormire per prima. Pier allora si sdraia, cercando di trovare una posizione comoda tra i rami e le foglie. Il viso di Lela è illuminato dalle fiamme mentre si guarda intorno, tentando di identificare i rumori. Si sente responsabile di se stessa e di Pier, e le piace.

Osserva il cielo stellato, si sente un puntino nell’immensità dell’universo. C’è qualcosa di affascinante e inquietante in quella solitudine, un senso di connessione con la terra e allo stesso tempo una consapevolezza della propria vulnerabilità.

Il sole sveglia Pier e Lela.

– Oh, cavolo, mi sono addormentata! – esclama lei.

– Siamo vivi – si stupisce Pier nello stesso istante e si abbracciano felici. Con la luce il bosco non è più così spaventoso. Pier e Lela raccolgono le loro cose e si avviano alla ricerca del campo base; mentre camminano lungo quello che sperano sia il sentiero, sentono gridare.

– Pier! Lela! Dove siete?

La voce preoccupata di Mario rompe il silenzio del bosco. Pier e Lela si sorridono sollevati.

– Siamo qui! – urlano insieme.

In pochi minuti, Mario li raggiunge.

– Grazie al cielo vi abbiamo trovato! – esclama, toccando le loro guance come per assicurarsi che siano reali.

– Ci siamo persi, ma abbiamo seguito le istruzioni e ce l’abbiamo fatta. Non è stato terribile, in realtà – dice Lela.

Mario sorride nervoso.

Missione compiuta

– Il bosco è pericoloso e, inoltre, eravate da soli!

Pier aggrotta la fronte.

– Ce la siamo cavata e abbiamo socializzato, proprio come volevi. Missione compiuta!

Mario scuote la testa.

– Per fortuna siete rimasti nella zona sicura! E ora filate al campo, per di là.

Lela e Pier si scambiano uno sguardo stranito.

– Quale zona sicura? – chiede Lela.

– Quella dove ci sono le telecamere, per garantire che siate sempre al sicuro – spiega Mario, come se fosse ovvio.

– Stai dicendo che era tutto finto?

La voce di Pier è incrinata dalla rabbia e dalla delusione.

– È per la vostra sicurezza. Non vogliamo che siate davvero in pericolo – insiste Mario.

– Quindi tutto ciò che abbiamo vissuto... Era solo un gioco –aggiunge Lela.

Mario cerca di avvicinarsi a lei che però si ritrae.

– Non era un gioco, Lela. Era un modo per insegnarvi senza correre rischi. E avete davvero imparato qualcosa, non è così?

Le lacrime bruciano dietro le palpebre di Lela.

– Non capisci! Volevo essere pronta per il futuro. Come posso fidarmi delle mie capacità se non ho mai affrontato nulla?

Pier si gira verso di lei, condividendone il dolore e la frustrazione.

– Pensavo di aver fatto qualcosa di reale, per una volta. Mi era persino piaciuto.

– Guardate il lato positivo: avete sviluppato delle abilità, avete lavorato insieme e superato delle difficoltà.

Lela lo fissa, cerca un senso alle sue parole.

– Hai torto – dice lentamente. – Tutto quello che abbiamo vissuto era organizzato da voi. Persino il lupo scommetto.

Mario non risponde. Pier e Lela si incamminano adagio verso il campo base. Lungo il sentiero, il silenzio tra loro è attonito e disperato. Arrivano al limitare del campo e si fermano a guardare gli altri ragazzi intenti nelle attività quotidiane, ignari di ciò che loro hanno scoperto.

– Non posso credere che fosse tutto falso – mormora Pier, scuotendo la testa. Lela non risponde e non si muove.

– Forse possiamo fare qualcosa di concreto noi due – tenta Pier.

– Tipo cosa? – chiede Lela svogliata.

– Dai, Lela, sei tu quella piena di iniziativa! Pensa a qualcosa per trasformare questa esperienza umiliante in una esperienza magnifica!

Lei lo guarda sorpresa, lui ha ragione e comprende esattamente come lei si sente.

– Abbiamo imparato un sacco di cose, ormai non abbiamo più bisogno degli istruttori. Ce la sappiamo cavare da soli!

Pier sorride soddisfatto ed emozionato.

– Se stai suggerendo di tornare nella foresta... Ok, sappi che ho paura, ma ci sto.

– Prima nella foresta e poi a cambiare il mondo – dice Lela allungando una mano verso di lui.

– Magari cominciamo prima dalla nostra città? – chiede Pier afferrando la sua mano.

Lela annuisce, poi entrambi si voltano e si incamminano verso la foresta e verso il futuro.

daniela cologgi

Come ti vorresti

Accidenti alla sveglia! Mi ha fatto saltare. Forse mi ero solo assopita, sicuramente ho dormito pochissimo. Ormai dormo sempre pochissimo.

Prima di aprire gli occhi, aspetto. Faccio un lungo respiro e dentro di me prego. Fa’ che non ci sia più, fa’ che non ci sia più.

Poi apro gli occhi e c’è. È sempre qui, non mi molla, questa maledetta. Mi fissa, nell’attesa ostinata che io mi arrenda.

Ogni sera mi addormento sperando di essermi liberata di un incubo. Poi mi sveglio e la ritrovo davanti a me, a spiarmi.

È tutto così assurdo! Sto scoppiando, non ce la faccio più.

– Strazio, vieni qua! – dico al gatto. Non voglio che cerchi di prendersi anche lui.

Tutto è iniziato poco più di due settimane fa.

I miei mi avevano lasciato a casa di nonna, al paese. Loro dovevano riprendere a lavorare e a me mancava ancora un po’ alla fine delle vacanze.

Non c’è mai un tubo da fare lì, quindi me ne stavo in giro da sola al luna park, l’unico divertimento del posto.

Dico “divertimento”, ma è uno dei luoghi più tristi che io conosca, insieme a un vecchio circo di provincia, con quel povero leone sdentato che fa pena anche ai cani, e al cimitero, che forse è più allegro e ha comunque un suo fascino.

Camminavo svogliatamente per l’unica stradina su cui si affacciano le poche attrazioni rimaste. Non è facile immaginarlo, ma sicuramente un tempo quel posto era stato molto frequentato da ragazzi e famiglie.

L’aria del tardo pomeriggio era calda, sapeva di popcorn e zucchero filato. Da un altoparlante arrivava una musica da discoteca per anziani nostalgici, pezzi vecchi di almeno trent’anni.

Due bambini giravano in tondo, aggrappati ai cavalli in legno scrostato di una giostrina. Uno dei due guardava dritto davanti a sé, sperando che tutto finisse al più presto, l’altro piangeva, mentre il papà cercava di convincerlo che quel gioco era divertente.

Avevo voglia di popcorn, ma mi ero imposta di resistere per rispetto dell’ennesima dieta appena iniziata.

Ho superato la giostra coi seggiolini volanti. Un voletto l’avrei anche fatto, ma da sola non c’era gusto.

– Ciao bella bimba, un tiro ai barattoli?

Non sono bella, non sono bimba, ho 15 anni e malgrado abbia una discreta mira non volevo vincere orrendi peluche che da un secolo stavano lì, esposti in una vetrina a prendere polvere.

– No, grazie – ho risposto alla signora dietro il bancone.

Ho guardato il telefono: bene, si era fatta quasi l’ora di cena, un’altra giornata era quasi passata.

Stavo per tornare indietro, ma un manifesto davanti all’ingresso del tunnel degli specchi, che non avevo mai visto prima, mi ha colpito: Come ti vorresti. Lo specchio che riflette l’immagine di te come tu la desideri.

Ah, però, questa era interessante. Io mi sono sempre vista troppo bassa, con il viso troppo tondo e le caviglie grosse, quindi mi sono subito incuriosita. È normale, no? Chi non vorrebbe vedere l’immagine migliore di sé?

Ho deciso di provare e mi sono avvicinata alla cassa per entrare.

– Ma funziona veramente? – ho chiesto al tipo con il pizzetto che staccava i biglietti.

Quello mi ha fissato con gli occhi stretti e si è fatto una risatina.

– Provare per credere – ha risposto poi, con la voce rauca tipica dei fumatori accaniti.

Gli avrei offerto volentieri una caramella per la gola, ma non ce l’avevo.

Appena entrata nel tunnel semibuio, ho cominciato a camminare attraverso il corridoio sconnesso. Avevo il batticuore, perché il buio mi fa paura e non sapere dove sto mettendo i piedi mi crea sempre ansia. E avevo pure pagato un biglietto per infilarmi lì dentro!

Finalmente sono arrivata nella sala degli specchi.

Alcuni faretti diffondevano una soffusa luce fucsia. Ho passato i primi specchi, che erano i soliti deformanti: magra quasi filiforme, grassa formato botte. Un altro specchio mi tagliava in due e uno mi faceva la testa grande e il corpo secco secco. Che delusione! Chissà perché ero entrata.

Il corridoio portava in un’altra sala più piccola e più in penombra, c’era solo una piccola luce a illuminare un altro specchio. Si trattava di uno specchio un po’ diverso dagli altri, più grande e senza cornice. Una scritta che sembrava fatta di fumo fluttuava sulla superficie riflettente:

Come ti vorresti. Segui le istruzioni.

Evviva la tecnologia, ho pensato, finalmente anche in questo paesello si sono aggiornati.

Chiudi gli occhi e immagina come vorresti essere. Poi apri gli occhi e guardati.

Le parole di fumo rosa continuavano a scorrere.

Mi sembrava una scemenza, comunque ho deciso di seguire le istruzioni. Del resto, avevo sganciato 5 euro per entrare. Ho chiuso gli occhi e mi sono concentrata. Ho passato velocemente in rassegna tutti i miei difetti e cercato di mettere a fuoco l’immagine di una me stessa praticamente perfetta. Poi ho aperto di nuovo gli occhi. Cavolo, se erano stati spesi bene quei soldi!

Quella davanti a me, nello specchio, sì, forse ero io, forse somigliava lontanamente a Marianna… ma una Marianna più alta, con gli zigomi sporgenti, il nasino perfetto, il vitino da vespa, le caviglie sottili. Era una modella, quell’altra, non aveva molto a che vedere con l’originale. Con nessun altro filtro di nessun’altra app avevo mai ottenuti simili risultati.

Ho sorriso e la mia immagine riflessa iper migliorata ha sorriso con me, ma con i denti più bianchi. Era bellissima.

“Magari fossi davvero così. Sarei la ragazza più felice dell’universo” ho pensato.

In quel momento, la sveglia che avevo impostato sul telefono mi ha avvisato che era ora di andare, dovevo sbrigarmi, altrimenti chi l’avrebbe sentita nonna!

Ho detto allo specchio “Ciao, è stato bello” e mi sono avviata a malincuore verso l’uscita. Sarei rimasta lì a guardarmi per ore.

Ho fatto rapidamente i pochi passi per arrivare a casa di mia nonna, che era già pronta a grattugiare il parmigiano sulla pasta. E addio dieta.

Quando mi sono messa a letto, prima di addormentarmi ho ripensato allo specchio, alla versione bellissima di me. Avevo la sensazione di essere ancora al luna park, che “quella lei” fosse rimasta con me.

Non era solo una sensazione.

– Ciao Marianna – mi ha detto la mattina dopo, seduta sulla poltroncina davanti al letto, appena ho aperto gli occhi.

Mi sono spaventata, stavo per gridare, ma lei mi ha rassicurato:

– Tranquilla, anch’io sono Marianna. Sono te. Quella che tu vorresti essere. Pensa a quanto ci guadagneresti se prendessi io il tuo posto, sarebbe la svolta della tua vita.

Era truccata di tutto punto, con i capelli che sembravano appena usciti dal parrucchiere, le gambe accavallate. Ai piedi aveva un paio di décolleté e le sue caviglie erano affusolate.

Non avevo mai avuto allucinazioni prima.

Di sicuro non c’era droga nella pasta di nonna, che cosa mi stava succedendo? La noia del paese mi aveva mandato in pappa il cervello?

Sono uscita dalla camera, trascinando le ciabatte, per andare in cucina a fare colazione.

Marianna Due, però, ha cominciato a seguirmi in ogni mio spostamento, anche in bagno.

Per un po’ ho provato a ignorarla, non volevo ammettere a me stessa di vederla, ma con il passare delle ore era diventato impossibile fare finta di niente.

– Si può sapere cosa vuoi da me? – ho provato a chiedere.

– Sei tu che vuoi essere me, ricordi? – mi ha risposto, fissandomi con un sorriso di ghiaccio. – Potrei diventare te. È un affare.

Non dico che non mi sarebbe piaciuto essere così, ma ho avuto un brivido di paura. Marianna Due era bella… ma non ero io! Quella mi metteva l’angoscia. Che significava “prendere il mio posto”?

Nel pomeriggio dovevo tornare a casa mia. Ho preparato la borsa mentre lei si faceva le unghie e ogni tanto mi lanciava un’occhiata, ridacchiando.

Non le ho rivolto la parola e sono uscita di casa sperando che non mi seguisse, sperando che fuori dal paese quello strano fenomeno non si ripetesse più.

Arrivata alla stazione dei pullman, ho salutato mia nonna e sono salita sul mio bus. A lei non avevo avuto il coraggio di raccontare niente, anche perché è una con i piedi per terra, mi avrebbe preso per pazza.

Mi sono guardata intorno tra i sedili: fortunatamente, nessun’altra Marianna oltre me, all’orizzonte. Allora ho cominciato a rilassarmi. Dovevo ricordare di dirlo ai miei, che l’aria di campagna non mi fa bene per niente.

Dopo un’ora e mezza sono arrivata in città. Entrata in casa, ho fatto scivolare il borsone a terra e mi sono tolta le scarpe. Ero sola, i miei erano ancora al lavoro.

– Strazio, dove sei?

Di solito il mio gatto nero non risponde ai richiami, ma forse era un po’ che non sentiva la mia voce e la sua curiosità lo ha spinto ad affacciarsi davanti all’ingresso.

Sono corsa a fargli un grattino sulla testa, poi ho cercato di prenderlo in braccio, ma era un po’ nervoso e, per evitare spargimento di sangue, l’ho lasciato andare. Era come se avesse paura di me.

– Ciao.

Mi si è gelato il sangue. Marianna Due era là che mi aspettava, seduta su una sedia, nella mia camera. Mi sorrideva con quel suo modo beffardo e intanto si metteva il gloss sulle labbra.

– Che ci fai qui? – l’ho rimproverata, come se non sapessi che non era reale.

– Te l’ho detto, aspetto che tu decida di lasciarmi il tuo posto. Sudavo. Dovevo dirlo subito alla mia amica Giada. Le ho mandato un messaggio, le ho chiesto se per favore riusciva a passare da me, volevo parlarle prima che tornasse mia madre. Giada ci ha messo poco ad arrivare, abita a pochi metri da casa mia.

Ovviamente, quando si è trovata nella mia camera, non l’ha vista. La vedevo solo io. Ma era incuriosita dalla mia storia, ha voluto avere la descrizione nel dettaglio della mia copia versione Miss Universo.

– Oh, beh, wow.

Non mi era chiaro se stesse pensando che fossi rimbambita, o impazzita. O se era attirata dall’idea di avere anche lei una bella copia. Comunque, ha concluso dicendo che sua zia conosce una bravissima psicologa e il suo studio è proprio nel nostro quartiere.

Nei giorni successivi ho cercato di ignorare Marianna Due, ma continuo a vederla. Lei mi osserva, io non le parlo. Vado a dormire la notte, mentre lei mi guarda, e la mattina è ancora qui, ad aspettarmi, come un avvoltoio.

Anche a scuola non riesco a pensare ad altro e l’anno è iniziato malissimo, sono sempre distratta. La vedo appoggiata al muro della classe, sempre a pochi passi da me, che sorride, spavalda, e fa di tutto per farmi notare quanto lei sia avvenente.

La vedo nei corridoi. La vedo in bagno. È un’oscura ossessione. Mi sento braccata, ho sempre più paura che in qualche modo si impossessi di me, come quegli alieni che nei film si infilano nei corpi dei terrestri dopo averli uccisi.

Adesso sono davvero stanca.

Faccio una carezza a Strazio, che è felice di ricevere qualche coccola, mentre mi vesto in fretta. Con la scusa di recuperare una maglietta che ho lasciato a casa di nonna, mi farò quest’ora e mezza di pullman per tornare al paese.

Durante il tragitto, Marianna Due non si è fatta vedere. A volte sparisce, e questo è un sollievo. Il problema è che poi ricompare.

Faccio un velocissimo salto dalla nonna per prendere una delle tante magliette che lascio sempre da lei, le do un bacio e dico che devo tornare subito a casa. Invece vado al luna park. Non mi aspetto nulla, ma è l’unica cosa che mi è venuta in mente.

Percorro di corsa il vialetto, superando la giostrina, i seggiolini volanti e il tiro ai barattoli. Quasi non vedo più niente, ho solo fretta di arrivare al tunnel degli specchi.

Il tipo che stacca il biglietto mi riconosce, perché mi dice “Bentornata”, con un tono della voce che non fa altro che aggiungere angoscia a quella che ho già.

Altri 5 euro. Entro. Non mi fermo a tutti gli specchi, supero i corridoi quasi al buio, cercando di non inciampare. Arrivo nella sala piccola, dove c’è quel solo, grande specchio. Fa ancora molto caldo, sto sudando.

Come ti vorresti. Segui le istruzioni.

Mentre le frasi scorrono e si dileguano nel fumo rosa, io tremo. Sudo e continuo a tremare.

Chiudo gli occhi, stringo i pugni. Respiro. Come mi vorrei? Ripercorro le ultime due settimane, sento più forte la paura, il senso di inquietudine. Penso e allento un po’ il respiro. I muscoli del collo si distendono. Poi apro gli occhi.

E di fronte a me ci sono io. Lo specchio non riflette nient’altro che la mia immagine. Quella che stavolta desidero avere.

Col cuore in gola faccio il viaggio in bus e bombardo Giada di messaggi, fino a quando arrivo finalmente a casa.

Chiudo la porta dietro di me e mi fermo per un secondo. Non c’è nessuno. Avanzo con un passo lentissimo. Mi affaccio timidamente nella mia camera e do una prima occhiata restando sulla soglia. Nello stesso momento Giada suona alla porta e corro ad aprire.

– Io non la vedo, forse è sparita, tu vedi qualcosa di strano? –la assalgo, quasi col fiatone, invitandola a guardarsi in giro.

– Io qui vedo… una bellissima Marianna – dice lei.

Mi prende un colpo. Faccio per correre verso uno specchio a controllare se mi è successo qualcosa, ma Giada mi blocca.

– Sei tu, Mari, tranquilla, sei tu – sussurra, sorridendo.

Guardo in basso e mi alzo un po’ l’orlo dei jeans.

– Bellissima? Io? Con queste caviglie da lottatore di sumo? –la sfido.

– Scherzi? Io le adoro! Basta che tu non mi prenda mai a calci –ribatte lei.

E ci mettiamo a ridere come due sceme.

In questo momento, forse, le mie caviglie non sembrano così male neanche a me.

marco dazzani

Il mostro cinereo

Un mostro perseguitava Eric.

Non l’aveva mai raccontato a nessuno. Avrebbero detto che era pazzo o che si divertiva a raccontar frottole. Si sa, i mostri non esistono. Per un po’, aveva pensato davvero che fosse solo frutto della sua fantasia. O almeno, ci aveva sperato. Aveva cercato di ignorarlo, aveva persino evitato di dargli un nome.

Era stato inutile. Perché quel mostro grigio esisteva.

La prima volta che apparve, Eric aveva cinque anni. Era solo in salotto, la televisione dimenticata spenta, a terra le istruzioni sgualcite delle costruzioni regalategli per il compleanno scorso. Costruì il solito pappagallino di mattoncini, le mani si muovevano ormai automatiche, quasi per abitudine. Terminato, lo osservò appena, era perfetto e identico a tutte le altre volte. Sbuffando, lo lasciò cadere sul tappeto. Fu allora che lo sentì.

Una specie di fischio ovattato. Cupo, grave, oscuro. Proveniva da ogni direzione o forse nessuna. Fuori dalla finestra c’era del fumo, una foschia grigia che nascondeva qualcuno.

Eric rimase bloccato, lo sguardo fisso, i pensieri paralizzati.

Dagli spifferi iniziò a insinuarsi dentro quella nebbia bigia. Era pesante e colò giù arricciandosi sul pavimento.

Aveva odore della carta vecchia e della polvere accumulata sugli scaffali. Si iniziò a ricomporre formando una mano, un corpo, una tunica di cenere. A formare il mostro cinereo.

Per fortuna, la mamma tornò nella stanza. Parlava al cellulare a voce altissima. La sua presenza squillante fece diradare la foschia, fece fuggire quella creatura.

– Cosa guardi? – domandò a Eric che ora aveva lo sguardo perso nel nulla. Visto che non le rispose, accese la televisione e gli accarezzò la testa. – Ecco il tuo cartone preferito – aggiunse prima di tornarsene a chiacchierare nell’altra stanza.

Doveva essere stato il rumore a spaventare il mostro. Così, Eric si piazzò davanti allo schermo, il volume più alto possibile. E in effetti, quel giorno non tornò.

Ma il mostro era sempre lì, in agguato.

Anno dopo anno, Eric imparò come evitarlo. Capì presto che il mostro lo attaccava nei momenti in cui era più vulnerabile, quando aveva la guardia abbassata, quando la sua mente non era impegnata in altro e c’era spazio per il terrore.

Per questo non ebbe nulla da obiettare quando i genitori l’obbligarono a prendere lezioni di musica, a far parte della banda scolastica, a iscriversi al liceo anche se lui avrebbe preferito un istituto tecnico.

Scuola, lezioni di batteria, prove della banda, ripetizioni di latino e matematica perché impossibili da entrargli in testa. Uguale il giorno successivo. E quello dopo ancora. E ancora…

Eppure, non era sufficiente. Bastava un attimo di distrazione, ed ecco il mostro cinereo affacciarsi col suo viso pallido che a malapena si scorgeva sotto al cappuccio, gli occhi brillanti, la bocca enorme e dentata.

Fortunatamente, arrivò il cellulare.

Social, video, serie, videogiochi, musica. Tutto sparato al massimo sulla retina e nei timpani nei momenti di attesa. Per tenerlo sempre vigile, allerta, al sicuro. Ci furono periodi che quasi si scordò del mostro. Era diventato poco più di un pensiero triste facile da scacciare.

Almeno, fino ai suoi quindici anni.

Quando tutto andò a rotoli.

Era un giorno come tanti, la medesima fotocopia. Stava uscendo da scuola spensierato, scherzando con i compagni. Uno dopo l’altro salirono sui loro motorini, bici o auto dei genitori. Eric rimase ad aspettare la madre che era in ritardo.

– Hai visto il tizio che rifà le canzoni famose montando i suoni della natura? È fantastico – disse Lia, ormai l’unica compagna rimasta con lui.

– Un genio – commentò Eric.

– Chissà come vengono certe idee.

– Eh, bisogna avere talento – affermò rassegnato lui che un’idea originale non l’aveva mai avuta.

Lia controllò l’ora. Eric se ne accorse subito, sapeva che aveva fretta e stava lì solo per fargli compagnia.

– Vai pure. Ci vediamo più tardi alle prove della banda – aggiunse.

Lia tentennò ma alla fine decise di andare. Come svoltò l’angolo, il rumore dei suoi passi venne sostituito da un fischio cupo.

Dal tombino accanto a Eric, la nebbia bigia sgorgò fuori, un’esalazione lenta ma inesorabile. Si formò un braccio, poi un altro. Insieme issarono il mostro cinereo.

Eric fece un passo indietro. Estrasse velocemente il cellulare dalla tasca. Rischiò di farlo cadere ma lo riafferrò. Col cuore in gola aprì un video a caso.

CUORIFORTI

Diciannove tra i migliori autori italiani hanno scritto diciannove storie pensate per raccontare gli adolescenti di oggi: gli amici, la famiglia, la scuola, gli amori, le scelte, il coraggio e le paure in cui si trovano immersi i loro cuori. Sono cuori forti e fragili, che troveranno in queste pagine una bussola per orientarsi nella ricerca della propria identità e affrontare le sfide del mondo che li attende.

Le grandi penne che firmano le storie dei nostri personaggi: Paola Ancilotto, Teresa Capezzuto, Cinzia Capitanio, Erika Casali, Daniela Cologgi, Marco Dazzani, Fulvia Degl’innocenti, Sofia Gallo, Eleonora Laffranchini, Chiara Lossani, Milvia, Roberto Morgese, Marino Muratore, Laura Novello, Silvia Pillin, Catia Proietti, Alessia Racci Chini, Isabella Salmoirago, Dino Ticli.

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Cuori forti by Gruppo Editoriale Raffaello - Issuu