RADICI No18 - Marzo 2020

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No.18

m a

rzo 2020

1 “20”

5 Tin

4 Mostri

3 Elena riflette

2

L’appuntamento

6 Fagiano

la base di un albero fatto di storie


di Federica Guatteri

L’appuntamento Storia di Virginia.

@domenico_giovane

“20”

di Giada Tella | illustrazione Domenico Giovane

N

el fruscio del grano, nel sospiro dell'attesa che ti sembra infinita, in mezzo ai tasti di un pianoforte, negli spifferi di casa e nelle parole che

dici. Sono l'aria che ti entra in casa e che maledici quando hai troppo freddo e ogni cosa ha perso il suo profumo, che ti fa mettere il cappello, che gentilmente ti coccola il sonno e i pensieri. Sono ciò che ti fa traballare il vassoio e che ti muove vertiginosamente la gonna. Maestrale, grecale, scirocco, libeccio, tramontana. Caldo, umido, freddo, gentile e tagliente. Sono ciò per cui sei vivo, in ogni parola che dici, in tutte le volte che parli e cambi espressione. In tutte le sfumature del cielo e in ogni millimetro del tuo corpo, in tutto ciò che calpesti e nel sangue che scorre dentro ogni uomo del mondo. Ti ho visto sbuffare come i posti sconosciuti del mondo e conosco a memoria i tuoi polmoni come la storia di ogni luogo abbandonato. Sono dove non mi vedrai mai.

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Ti ho seppellita tra i sepolcri di Foscolo ogni giorno. Non c’è stato mattino in cui non ti abbia portato la Ginestra. Quel fiore di Leopardi che tanto profumava di solitudine e che tanto ti piaceva. L’ho appoggiato su quella pietra fredda dove sento ancora palpitare il tuo cuore. Di così tanto amore ho conservato i ricordi. Dei miei sogni infranti di una carriera letteraria sono rimaste queste quattro righe che ti scrivo oggi che il giorno ti scopre polvere. Mi sarebbe bastato, per sopravvivere al mondo, mettere un fiore tra i tuoi capelli, guardarti imbrunire nella luce di un tramonto autunnale. Invece tu Virginia hai vissuto bruciata dal pallido sole di giovani primavere e hai respirato la nebbia di puerili inverni. Ti ho chiamata invano consumando i gettoni a una cabina telefonica. Gli squilli del telefono suonavano impazziti la tua marcia funebre. T’hanno trovata a terra in un’overdose di disperazione. I lunghi capelli biondi a l’aura sparsi. Le labbra tinte di un livido dispiacere. E quella sera ero venuto deciso a dirti che ti amavo confessartelo sottovoce come un peccato. Tutta quella pioggia mi ha lavato via la voglia. Tutta quell’attesa ha segnato la mia resa. E ho preso la bicicletta e me ne sono tornato a casa. E ho ricordato i giorni a leggere Kerouac sdraiati al parco. I pomeriggi in biblioteca a ripetere Manzoni tu che avevi freddo e ti stringevi nel maglione. Rollarti le sigarette e parlarti dell’anarchico Fedeli e tu che mi disegnavi fiori sul libro di filosofia. Quanto tempo ho lasciato passare pensando che avremmo avuto tutto il tempo. Quanti giorni vissuti da codardo a guardare altrove per non guardarmi dentro. E a volte sono così sciocco che t’aspetto ancora al nostro appuntamento. Il racconto sarà pubblicato nella raccolta “Loverdose” in uscita per Epika edizioni


Elena riflette di Ludovica Scaramuzzino

E

ra trascorso tempo, probabilmente anni, dall'ultima volta in cui Elena era riuscita a ridere, ma se ne accorse solo una domenica, la prima dell'anno appena iniziato. Dopo aver raggiunto e oltrepassato gli enta, dopo avere conseguito più lauree, conquistato l'affetto di un compagno affidabile, acquistato un bilocale spazioso, essersi sentita finalmente soddisfatta per la piega che aveva preso la sua vita. Elena si sentiva bene ed era felice, e ne aveva finalmente preso coscienza. Ma insieme arrivò la consapevolezza di non riuscire più a ridere. S'intende, era ancora in grado di poterlo fare. Ascoltando battute, guardando commedie di Natale, assistendo alle gaffe di persone antipatiche. Riconosceva la necessità sociale di ridere e rideva all'occorrenza. Rideva perché sarebbe stato strano il contrario, rideva per gli altri e per apparire divertita ma mai divertente: il punto era questo, e Elena, inconsapevole e cieca, non ci aveva ancora fatto caso. Una forma di pace e ieraticità, si giustificò Elena inizialmente. Un sintomo del suo benessere e della sua tranquillità: è questo che doveva essere. La serenità non è mai rumorosa, si insinua con lentezza e circospezione, ed è per questo che tutte le persone felici non sanno di esserlo, o non sanno quanto lo siano. E, comunque, poteva sempre trattarsi di una forma di altruismo, pensò poi. Forse era il suo modo personale di esprimere solidarietà agli altri, di mostrare attenzione alle parole altrui. Ridere, azione che spontaneamente non avrebbe compiuto per sé o in solitudine, diventava invece una risposta di attiva e visibile comprensione del prossimo. Tuttavia l'ipotesi le sembrava poco plausibile, ed Elena non riusciva a convincersene. Che, forse, nella sua riservatezza avesse trovato il suo espediente segreto per non ricevere attenzioni indesiderate? Elena era dell'opinione che i silenziosi vengono sempre notati troppo in fretta, a causa del loro apparente e distaccato disaccordo con qualsivoglia discorso.

Elena ci pensò, a queste e ad altre ipotesi ancora. Pensò per parecchie notti e parecchigiorni, settimane e mesi. Non concluse nulla e le congetture diventavano sempre più numerose. E nel frattempo continuava a ridere, per educazione e per non prendere posizione. Rise all'ultima triste battuta a sfondo sessuale di un collega bigotto, mentre erano alla macchinetta del caffè insieme ad altri cinque colleghi. Rise per non fare quella che. Snob, femminista, moralista, bacchettona, altera, con una scopa in culo: non voleva che in alcun modo toccasse a lei. E quindi rideva, d’un riso pallido e spento. In questa sua anonima partecipazione, sapeva di non pensare a niente di tutto quello che appariva stesse pensando, nella sua ingannevole e silenziosa approvazione . Aiutatemi, pensò. Non voglio. Non così. Voglio ridere, ridere veramente, quando ho voglia e se ne ho voglia, tornare anch'io a sentir male alla pancia dalle risate, sbellicarmi fino alle lacrime, ridere a crepapelle, anch'io voglio non riuscire a emettere più suoni se non uno strozzato "ah ah ah", smodato e incurante di chi mi circonda. Ma nessuno poteva aiutarla, perchè lei stessa aveva scelto che nessuno si accorgesse di lei. E allora Elena, tutt'a un tratto, trovò l'intera situazione talmente ridicola che la giudicò sorprendentemente comica. La sua stessa risata le appariva grottesca. Percepì di colpo la sua condizione come esilarante e, in un'inaspettata risposta fisica, la sua risata cambiò, si allargò inesorabile, si fece strada, trovò ed occupò sonoramente lo spazio circostante, ed infine, dal fondo della sua gola, a sgorgare era un riso forte, non più rispettoso e obbediente, ma franco e schietto, sfacciato e spavaldo. Sentiva lo scherno e il disprezzo per il suo collega strepitare attraverso un unico, roboante suono, vivo e appariscente. Elena rise di gusto. Aveva riconosciuto il suo scudo, e ne avrebbe ora fatto la sua arma.


Creato il 16/02/2020 in “Redazione Aperta” da MGC, Marco Aldrighi, Giovanni Irimia, Serena Caramaschi e Nicolò Artoni | illustrato da Giulia Iori


@giu.iori


Tin

di Giovanni Irimia | illustrazione Elena Pasini

“Thirty minutes, thirty euros” “oh, okay” qualche secondo di esitazione “perfect”. Un minuto prima stavo impalato di fronte alla lista dei vari possibili massaggi: Thai, Cinese, Relax, Strong etc, nessuno di questi si chiamava “thirty minutes, thirty euros”. Passano quaranta minuti e mentre sono impegnato, e imbarazzato, a rivestirmi, Tin chiede di provare i miei occhiali, dice che sono molto belli, chiede se può farsi un selfie per poterli poi comprare uguali. Lei ne indossa un paio da signora, anonimi. i miei sono Ray-Ban neri, massicci. Le stanno benissimo. Tornando in hotel ho un momento di lucidità, come una scossa mi folgora: ma che cosa cazzo è appena successo? È una giornata leggera, un tiepido pomeriggio, mi sento svuotato, io volevo solo rilassarmi. Ma la massaggiatrice, vedendomi in mutande, mi ha chiesto “happy ending, no?”. Io che sono molto solidale con le donne e voglio capire il loro punto di vista le ho detto “oh, okay”. “ten euros” ha detto lei. Un massaggio stupido e leggero, interrotto da diverse telefonate e poi una sculacciata: “turn”. Immagino la scena dal suo punto di vista: quarantenne leggermente sovrappeso, imbarazzato e col doppio mento, non viene, non viene, non viene. Brillante idea numero 1 della massaggiatrice: fare conversazione. Si chiama Tin, viene dal nord della cina, ha 35 anni e vive in Svizzera da 2. Ha un pessimo tempismo. Nessuno straniero sa dove sia Parma. Devi sempre dire “near Milano” o “near Modena” (che tutti conoscono la Ferrari).

@epaw_

“come, come, why don’t you come?”. Ho sorriso imbarazzato, vivevo imbarazzato, volevo sparire. Brillante idea numero 2 di Tin: un po’ di leggera e amorevole violenza. Pessimi risultati, pessimi. Colpisce e capisce subito che è meglio smettere. Ma la conversazione era molto interessante. Il suo paese d’origine è molto freddo, preferisce di gran lunga l’Europa. Lanciava continue occhiate all’orologio, cambiando braccio. “maybe you want to finish by yourself?”. No, forse, non sapevo. Va beh, sì, fanculo. Imperativo dimenticare la cosa il prima possibile. 30 secondi netti, guarda e impara Tin. Mi sono rivestito, coperto d’olio. E di vergogna. Tin ha visto i miei occhiali. In hotel penso che non ci voglio pensare, è tragicomico. Prendo il libro sul comodino e lo chiudo dopo pochissimo. Libro femminista. Ipocrita? Umano? Vado a bere una birra. Due. Tre. Sulla strada per il pub, di fronte al centro massaggi, Tin è seduta ad aspettare nuovi clienti con la faccia schiacciata sullo smartphone. Le sorrido, (si è fatta un selfie coi miei occhiali, si è creato qualcosa per forza, un legame. Nello squallore c’è un po’ di poesia, ha visto, ha capito) alza lo sguardo per due lunghissimi secondi. “Hi, Tin”. Senza espressione, nessuna emozione, niente. Non mi riconosce e torna allo schermo. Ho il cuore sempre più spezzato.


Fagiano

di S󰈩󰈸󰇵󰈞a C󰈀r󰇽󰈚a󰈼c󰈊󰈎 / il󰈗󰉉󰈼t󰈸󰇽󰉜i󰈡n󰇵 I󰈗a󰈹󰈎󰇽 Laz󰉛󰈀󰈹󰈢󰉅o

6

Il vento mi sposta i capelli e li lascio volare. Mi piace guardare le persone negli occhi quando mi parlano. Oliver mi fissa immerso nel suo discorso, parla un politichese che non capisco nonostante abbia una laurea in Scienze Politiche. Mi sento inadeguata, quando non so reggere una conversazione non parlo più, travolta o intrappolata dai pensieri altrui. Solitamente i miei interlocutori se ne accorgono e cercano di cambiare argomento pensando di starmi annoiando, ma Oliver no. Siamo a Bratislava, in Slovacchia, la città vecchia è un trionfo di colore e influenze di Re e Regine, il contrario della periferia, monumentale, una vastità grigia degna della desolazione post comunista. Ci troviamo in piazza Hlavnè e di fronte a me, oltre ad Oliver, c’è una Zlaty Bazant, lager chiara del posto. La cosa che mi soddisfa di più di questa birra, è il bicchiere. Non perché la Zlaty Bazant non mi piaccia, è solo che non amo le birre chiare. Oliver mi ha detto “devi assolutamente assaggiarla!” e io l’ho fatto. Il bicchiere della Zlaty Bazant è trasparente e riporta il logo: un fagiano dorato, in un cerchio su sfondo rosso. Oliver continua a parlare, sullo sfondo un uomo dai capelli brizzolati suona un’arpa accovacciato su uno sgabello. Passa un gruppo di turisti giapponesi, come fanno a essere sempre dappertutto? Alcuni di loro hanno ombrellini rainbow per ripararsi dal sole, un sole che scalda ma non fa sudare. Quel fagiano mi rimane impresso, guardo le labbra di Oliver muoversi, sorprendersi, sorridere. Non avevo mai interpretato le emozioni di qualcuno dalle labbra, sembra perplesso e autoironico. I fagiani sono esseri viventi così teatrali. L’oro gli si addice. Non sono in grado di volare e, come la maggior parte dei volatili che nelle situazioni difficili preferiscono fuggire, scappano correndo. I fagiani. Guido lenta per osservarli ed evitare di investirli, sembra non amino addentrarsi nei boschi o nelle foreste. Sono come me, amanti delle sconfinate pianure. Sono come me, abitudinari. I fagiani. Li ricordo anche da morti, nel freezer di casa. Avevo poco più di 5 anni e avevo paura di aprirlo, quel freezer. Mio nonno era un cacciatore. È ancora vivo ma non caccia più da alcuni mesi, per fortuna. Non perché non voglia ma perché il suo

@hellotazzina

corpo è troppo stanco per farlo, non reggerebbe. Chissà quanti fagiani sono sopravvissuti da quando mio nonno ha smesso di cacciare. Una decina? 5? 6? È che, anche se lui ha smesso, qualcun altro avrà iniziato. I fagiani maschi sono poligami e le poche volte che provano a volare fanno colpi d’ala rumorosi, me l’aveva raccontato Chiara, dall’alto della sua laurea in Biologia. Non riesco a immaginare un colpo d’ala rumoroso. Forse fa il suono che facciamo noi quando ci scrocchiamo le dita. Il fagiano comune è colorato, forse quell’icona che lo ritrae dorato richiama una leggenda slovacca: un cacciatore che ha ammazzato un fagiano con una piuma d’oro. Lo posso quasi vedere: Borka Huk, uomo dal volto squadrato rientra a casa e la moglie in lontananza lo osserva arrivare circondato da prati verdi. Ha una camminata lenta, autocompiaciuta. Sembra pensare “stasera si mangia!”. Sua moglie lo capisce subito: le grandi mani di suo marito stringono il collo di un fagiano. Al momento dello spennamento, su un lavandino di pietra gelido, cade una penna d’oro. Borka e sua moglie sono increduli, scoppiano a ridere. Le persone parlano, il villaggio impazzisce. Tutti vogliono vedere quella penna d’oro. Il contadino allora decide di mostrarla a tutti una sola volta e poi venderla. Qualcosa va storto e un colpo di vento la spazza via, disperdendola per sempre. La leggenda rimane, ma il contadino? Etichettato come un ciarlatano dall’intero villaggio. Povero Borka! Arriva il cameriere, guarda solo me che ho il bicchiere vuoto “?” “Zlaty Bazant, please.” Riprendo a guardare Oliver negli occhi, soddisfatto mi dice “Ti è piaciuta eh la birra!” Annuisco.


rzo

@es.io.superio

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illustrazione poster e copertina di Sara De Lucia

No.18

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2020

la base di un albero fatto di storie


editoriale

Rifugio

Quando ho paura non riesco a dire niente. Zero, nada, kaput. Le parole si bloccano nell’esofago, le sento che si dimenano, ma se apro la bocca non esce suono. Quando ho paura non posso scrivere. Mi escono solo ghirigori: mmm con le pance all’ingiù, uuu e iii come fossero fischi nelle orecchie. Non lo so cosa succede. Io so che quest’anno è arrivata la primavera, ma noi non ci siamo dentro. L’ho sentita ridacchiare sul balcone. Nel mezzo di una pandemia, non mi sembrava il caso. Io so che la coda per entrare al supermercato dura un’ora e si attorciglia intorno all’isolato. Bisogna presentarsi agghindati con la mascherina e i guanti. Si sta in silenzio. A volte qualcuno parla ad alta voce e tutti lo guardano male. Non si fa. Una signora ha sgridato anche me: camminavo troppo veloce. Chissà dove credevo di andare. Io so che ogni sera alle 18 ci fermiamo a guardare la tv e tutti insieme contiamo le persone malate e quelle morte. Disegniamo dei grafici sui nostri quadernini. Ci diciamo che va molto male così, poi ci diciamo che va molto bene se facciamo cosà. Alle 21 so che ci telefoniamo. Chiamiamo per sapere se è tutto al suo posto. Soprattutto le mamme, i papà, i nonni che sono lontani e sono soli. A ogni brutta notizia io perdo una parola.

Dev’essere così che sono rimasta senza. Il dolore esce dalla cornetta e mi entra in gola. Ma non è la prima volta. L’ultima ero a Parigi: 14 novembre 2015, il giorno dopo l’attentato al Bataclan. Il capo mi chiamò: “Cosa scrivi?”. Io dissi mmm. E uuu. Non uscì altro per ore. Non c’è scampo al dolore e alla paura, l’ho imparato quel giorno. Passa, ma nel mentre bisogna rifugiarsi in posti caldi. Colorati. Preferibilmente pieni di idee e pensieri dalle gambe lunghe, così che quando tornerà il vento giusto possiamo fare un balzo. Io ho scelto di nascondermi a casa di Radici. Guardatelo bene il numero 18 perché è speciale: è nato nella redazione aperta della Torre civica e ci sono dentro un sacco di teste nuove. Basta avvicinare il naso, fare un respiro e si sente il profumo del fiume. E il fiume finisce sempre in un mare, quindi siamo sulla buona strada. A marzo Radici ha compiuto tre anni e invece di fare una festa ha lanciato una raccolta fondi per la Croce rossa di Guastalla. Serena e Nicolò dicono che l’importante, qualsiasi cosa succeda, è non stare fermi. Per il momento allora camminiamo sul posto, così il sangue continua a circolare. Stiamo vicini. La piena passerà e avremo bisogno di ognuno di voi.

Martina Castigliani

Arianna Poli top 5 del mese Arianna Poli, il papà le dice che magari un giorno farà l'attrice. Lei, invece, canta suona e fa concerti! Nel 2018 incide il suo primo disco, Ruggine, presso lo studio di registrazione Sonika di Ferrara. A breve uscirà Grovigli l’EP che chiude i due anni del tour. Ascoltatela e ascoltate i brani che ci ha consigliato!

Lazarus Per respingerti in mare David Bowie Le luci della centrale elettrica

Washer Slint

Love is a last request Arctic Monkeys

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Il turbamento della gelosia Il teatro degli orrori

Marzo 2020 n. 18 Editore Nicolò Artoni Direttrice responsabile Martina Castigliani Proprietaria Serena Caramaschi Registrazione Tribunale di Reggio Emilia n. 4/2017 del 26/05/2017 Sede del periodico Via San Marco 16, 42016 Guastalla RE Stampa Tipografia Pixartprinting Periodicità Bimestrale Contatti radiciposterzine@gmail.com Progetto grafico e direzione artisica Nicolò Artoni Editing Giovanni Irimia


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