Radici No14 - Luglio 2019

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No.14

1 Caffè

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Schiuma

Treni

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Il sogno

Sirena

6 Guastalla, fiume, mare

la base di un albero fatto di storie

Gratuito

2019


Caffè

di Emanuele Alberini illustrazione Martina Nenna

@matimmatino_illustrations

P

artiamo dal presupposto che adoro il caffè. E non faccio parte di quella schiera, puramente italica, che “il caffè è buono solo da noi”, “all’estero te lo danno slavato” e altre robe simili. Io la vedo così: paese che vai, caffè che trovi. Che poi il caffè è proprio una delle mille sfumature che ti fa capire quanto è bello essere tutti diversi, ognuno con le proprie caratteristiche. Detto ciò, è mattina inoltrata ed entro in un caffè (niente splash). A proposito, mi trovo in un paesino sperduto di cui non ricordo il nome, comunque a circa 100 km da L’Avana in direzione Vinales. Entro e mi trovo di fronte un signore distinto, di mezza età, vestito elegante ma con vestiti da due soldi. Occhiali da vista spessi come il fondo delle bottiglie di rum accatastate dietro di lui. Mi serve il caffè e al posto dello zucchero, mi allunga un pezzetto di fusto di canna da zucchero che sciolgo nella bevanda. Roba da non credersi. Il caffè poi, è buonissimo. Mentre bevo mi guardo un po’ in giro, ma non sono qui per raccontarvi dell’arredamento del locale, il protagonista del mio racconto è Juan. Il suo volto mi incuriosisce, il suo portamento, la sua stessa educazione nel servirmi il caffè alimentano in me la voglia di saperne di più, così chiedo. E lui risponde. E mi dice che si chiama Juan. E che lui è nato li, in quel paesino sperduto a metà tra L’Avana e Vinales. E mi dice che è un ingegnere informatico e che fino a pochi anni

prima lavorava per un ente governativo che opera in sicurezza informatica. E pensare che ero convinto che a Cuba certe cose non esistessero nemmeno. Aggiunge raccontandomi che il padre era anch’egli ingegnere, ma aerospaziale. Aveva fatto parte del team cubano di Intercosmos, un programma spaziale sovietico, che mandò in orbita un sacco di cose, tra cui la navicella spaziale Soyuz 38, anche grazie al contributo del padre. Juan termina la parentesi sul padre facendomi ben presente che la “cubana” Soyuz 38 fu una missione molto positiva, a differenza delle precedenti, perché riuscì finalmente l’aggancio, ma non ho capito a cosa. “Ok va bene la storia del babbo”, dico io, “i russi e le navicelle spaziali, ma non mi è chiaro cosa ci fai in un posto come questo, a servire caffè, molto ben fatto, se vuoi, a dei clienti di passaggio come me, quando è assolutamente chiaro che vali molto di più!”. Juan scoppia in una grassa risata. “Molto di più, dici?” sorride amaro, ora. E così mi racconta che quando lavorava come ingegnere per il governo, la sua paga era scarsa, ma comunque migliore di tanti altri a Cuba. Ed il lavoro lo portava ad essere lontano da casa molto spesso. Poi un giorno, conversando di fronte ad un caffè con un amico barista, salta fuori che ok, col caffè non ci si prende molto, ma le mance che lasciano gli stranieri, che in tasca hanno dollari americani o CUC (che vale dieci volte il peso cubano), fanno davvero la differenza. E così Juan chiede: “mi insegni come si fa un buon caffè?”. A questo punto tutto mi è chiaro, però un conto è fare il barista al Parque Central de L’Avana, dove il numero di turisti è effettivamente elevato tutto l’anno, e un conto è un paesino sperduto a metà tra L’Avana e Vinales. E decido di farglielo notare. E Juan risponde. “Hai ragione, però non voglio diventare ricco, a me basta stare bene e godere della vita insieme alla mia famiglia e ai miei amici. E poi comunque qui siamo esattamente a metà tra L’Avana e Vinales e una sosta per sgranchirsi le gambe e bere qualcosa se la fanno in tanti durante il tragitto. Credimi, a questo punto basta avere una storia interessante da raccontare” conclude lui, lasciandosi andare ad un sorriso beffardo. Prendo il portafogli, pago il mio caffè, lascio la mancia all’uomo ed esco. Mentre risalgo in macchina, mi accorgo che proprio di fianco a noi sta parcheggiando un pulmino zeppo di turisti, probabilmente europei, pronti a farsi raccontare una storia da un ometto elegante che serve caffè. Vera? Inventata? Non è importante.

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Treni

di Chiara Merli illustrazione Francesca Dugoni

Da quando si era trasferita si sentiva lontanissima –

non lo era davvero – da tutte le zone che aveva sempre frequentato, e altresì le sembrava di poter andare lontanissimo. Le passeggiate si erano trasformate in vere passeggiate, di alcuni chilometri, fuori dai portici, fuori dalle viuzze che non le facevano mai vedere il sole, il cielo. Esplorava il nuovo quartiere e i quartieri limitrofi, felice di poter chiedere informazioni, di potersi perdere, di poter andare ancora più lontano da casa. Casa che non era quella sognata negli iperurani immobiliari, ma molto migliore, fuori dalle sue aspettative. Lei voleva un terrazzo, aveva avuto un balcone; voleva una vasca da bagno, aveva avuto una doccia; voleva una casa in centro, ne aveva avuta una nella prima periferia. Eppure non si era mai sentita più felice in una casa che lì, che ora era la sua. Il balcone – aveva faticato a non mantenere l'abitudine di chiamarlo terrazzo – era diventato una piccola giungla fiorita, nonostante una primavera distratta e di fatto assente. "Faccio un po' di giardinaggio", diceva, e spariva per riapparire tra piante spostate in vasi colorati, tra prezzemolo e basilico in terreni più adatti.

2 mercato: uova e carne, salumi e frutta, i supermercati finalmente lontani se non per alcune, mirate cose. Aveva il suo nuovo bar e le strade, seppur non sempre belle, che la portavano a casa. Attraversava per andare in città i binari del treno, e non sapeva dire che desiderio di lontananza l'assaliva sul crocevia. Suo padre amava molto i treni, da piccolo fantasticava di costruire una ferrovia che superasse l'Atlantico collegando Napoli con Nuova York, e lei pure, indipendentemente, aveva sviluppato la stessa passione. A volte, tornando a casa, per gioco prendeva la scorciatoia sotto i binari. Aveva già abitato vicino a una stazione, a Roma Termini, e lì amava fare la spesa nel supermercato sotterraneo, tra viaggiatori e senza casa. Aveva sempre amato i luoghi di passaggio, transitori e in movimento, fatti solo per essere attraversati per andare altrove. I binari che vedeva tutti i giorni, o meglio, la stazione da cui si dipanavano i binari, rappresentava il luogo in cui si trovava ora: in un crocevia, pronta per andare in ogni direzione, ma ferma per un po', ad aspettare. Ma il senso non stava nell'attesa, stava nell'aver trovato un luogo in cui stare, per andare altrove, altrove ancora, e poi ritornare.

Nelle sue derive scopriva librerie dell'usato, piccoli supermercati cinesi, negozi di vestiti da donna taglie forti, coltellerie; poi, il quartiere pullulava di parrucchieri, e di fornai, ve n'era uno a ogni angolo e di ogni nazionalità. Un giorno era arrivata all'ippodromo: in quella terra che rimodellavano, correvano ancora i cavalli? Si era seduta su una panchina, nascosta ai lati da due alti alberi, e se n'era stata a pensare alla sua nuova situazione, in uno sprazzo di sole. Era andata dove non voleva andare, eppure si era trovata proprio là dove voleva essere. La direzione imprevista delle cose, a cui lei stessa aveva impresso un movimento, l'aveva portata lì, in quell'ippodromo, luogo più dell'immaginazione che della realtà nella sua idea del mondo, a chiedersi di che forma fosse la felicità che sentiva. Aveva iniziato a frequentare i parchi con regolarità: alcuni molto grandi permettevano passeggiate lunghe, altri piccoli solo per ristare, altri di passaggio per evitare le strade con le macchine. Aveva una nuova libreria di riferimento, un luogo rifugio in cui tutti i libri che immaginava comparivano. Andava al @francescadugoni


Il sogno @alteraless

di Otto Vitali illustrazione Alteraless

V

ecchio si svegliò nel buio della sua stanza. Aprì gli occhi all’improvviso come quando ci si sveglia da un incubo. Ma quello che fece non fu un incubo, o almeno non gli parve tale. E poi dagli incubi di solito ci si sveglia urlando, sudati e con il battito cardiaco accelerato. Niente di tutto ciò per lui, solo un paio di occhi spalancati nelle tenebre e il rumore delle auto che sfrecciavano lontane nella notte lungo la via Emilia. Portò le mani alle tempie, tastandole per assicurarsi che fosse tutto a posto e accese la luce. Prima ispezionò il cuscino, dopo si guardò intorno, sembrava tutto in ordine, sempre che di ordine si potesse parlare. Quindi si alzò da letto e andò in cucina per bere un bicchiere d’acqua fresca. Era la terza notte di fila che gli succedeva. Svegliarsi così, all’improvviso, a causa di quello che per chiunque sarebbe stato un incubo ma che invece per lui sembrava essere solo un sogno. Un po’ strano, forse, ma i sogni non sono mai banali. Una stanza nella penombra, quattro mura prive di finestre, una porta chiusa alle spalle, solo una luce tenue cadeva dall’alto e illuminava un semplice tavolo, quattro gambe e un’asse di legno scuro. Al centro di questo tavolo una pistola. Non ricordava che tipo di pistola fosse. Ma lui ne era tanto attratto da non riuscire a resistere dall’afferrarla e portarsela alla tempia. La sentiva in mano, pesava due o tre chili. La stringeva. Le dita avvolte intorno al calcio. Riusciva persino a percepire tutti i meccanismi azionarsi fino all’esplosione del proiettile mentre premeva il grilletto. Lo premeva spinto solo da un sentimento di curiosità. Una curiosità morbosa e oscura: quella della morte e del morire. Ciò che si prova in quell’istante: il dolore, la paura, il trapasso, l’oblio. Vecchio aprì il rubinetto, prese un bicchiere dal secchiaio, lo sciacquò, poi lo riempì d’acqua fresca e bevve. Ripose il bicchiere vuoto dove l’aveva trovato. Pensava ancora a quel sogno, ma tra tutte quelle stranezze lui continuava solo a chiedersi perché spararsi di sinistro. A lui, che

non era affatto mancino, sembrava l’unica cosa strana. Andò in bagno, accese la luce e si mise davanti allo specchio. Si rinfrescò anche il viso. Pensò che se il vero lui fosse quel tizio che lo fissava dietro allo specchio, allora sì, impugnerebbe l’arma con la mano destra, quella giusta. Accarezzò la fredda superficie riflettente e l’uomo dall’altra parte fece lo stesso. Poi si portò le dita della mano sinistra alla tempia mimando una pistola. Il tizio dentro lo specchio sorrise e tirò il grilletto. Fu di nuovo buio. Per l’ultima volta.

La schiuma

di Gianfilippo Capotosti illustrazione Chiara Fortina

“E di nuovo mi prese il bisogno di protestare, di spiegarmi” W. Gombrowicz

C

ome tutte le storie che vivono della voce degli uomini, anche quella della morte di Rafael Mut, passando da un narratore ad un altro, aveva accumulato piccole e inevitabili alterazioni da non coincidere più con l'evento che ne era stato l'origine. Ma non per questo era meno reale. È stata la portiera del palazzo dove vivo a raccontarmela. In un romanzo di cui non ricordo più il nome, ho letto che anche quello che possiamo inventare su un uomo, ci dice abbastanza su di lui. La verosimiglianza non è sempre dalla parte della verità. È stato alla luce di queste parole che ho potuto immaginare con chiarezza Rafael Mut. Doveva possedere quella sonnolenza assorta tipica degli uomini di alta statura; consapevole delle proprie misure, si muoveva con piacevole lentezza. Fin dove gli era possibile era un uomo buono. Una moglie e una figlia avevano dato alla sua vita una forma di completezza. Per quarantadue anni gli riuscì di vivere risolutamente prudente; l'unico gesto coraggioso di cui fu capace, lo uccise. Fu la figlia, che tentava, senza riuscirci, di dar forma alle sue prime parole, a svegliarlo quella mattina. Il buongiorno che gli diede un condomino mentre usciva di casa, lo distrasse dall'ultimo sguardo che avrebbe potuto dare a sua moglie. L'avrebbe vista di spalle, china sul tavolo, mentre sfogliava il giornale grattandosi il tallone di un piede con la punta dell'altro. Trascorse la giornata in ufficio, quando uscì tardò nel riconoscere nella luce calda del tramonto l'inizio della primavera. Si allentò la cravatta e mentre tornava a casa, si godeva ancora il futuro. Il suo destino si espresse sotto la misteriosa e perturbante forma della fine di un giovane amore. Come in un sogno i due ragazzi apparvero sulla sua strada nel primitivo aspetto di grida e poi di corpi. Di loro so soltanto questo: la passione e la disperazione avevano dato al loro amore quella facile predisposizione alla violenza che favorisce il compiersi di gesti estremi. Quando domandarono al ragazzo perché avesse avuto il coltello con sé, la sua risposta fu semplice e insopportabile: perché l'amavo.

3


La lama scintillò nell'aria, e prima di riuscire a dire qualcosa, i piedi, più forti della sua prudenza, avevano già mosso Rafael Mut. Parole, mani, intenzioni si confusero mentre il coltello pugnalava due volte l'aria, prima d'incontrare, la terza volta, la sua gola. Mosso di nuovo dai suoi passi, ma senza più una direzione, Rafael indugiò, poco dopo un muro accolse la sua spalla e ce la lasciò strusciare sopra prima che quella, insieme a tutto quello che era stato, cadde a terra con un tonfo sordo. Qui le cose si complicano, disse la portiera, c'è chi dice che non cadde subito, ma indugiò contro il muro, cercando disperatamente di dire quello che non poteva più dire. L'immagine è terribile e patetica e non posso non pensare che i morti e i bambini condividono la stessa impotenza, quella di non potersi giustificare. La portiera strizzò lo straccio e uscì in strada con il secchio. Con un solo gesto lo svuotò e l'acqua prima si disperse sul mattonato, poi scivolò verso il tombino. Il giorno dopo, disse, la gente non parlava d'altro. Ma era strano; non c'erano tracce di quello che era successo. Avevano lavato la strada con idranti e saponi. Qualcuno però disse di averla vista, sotto le grate della fogna, la schiuma. Ribolliva ancora di rancore umano.

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Sirena

di Giorgio Montanari illustrazione Luca Soncini @luca_soncini Eri ossesionata dal respiro: un suono costante, snervante, persistente che mai ti abbandonava; lo indossavi al lavoro, ti cullava di notte, assillava il silenzio della tua stanza quando meditavi se scappare Da chi eri. Inspirare, espirare, Inspirare, espirare, Inspirare, espirare: Una costanza che conduceva all’ipnosi - o Al delirio, se ti fossi concentrata Sempre e solo su quella incessante nenia. Decidesti di non volere più essere tormentata Da quell’insopportabile frastuono interno. Dallo strapiombo di una cascata, Dove l’acqua sgorga pura e fugge Impalpabile fra le dita, Trattenne il fiato e decise di buttarsi. Pensava che, una volta sotto, Il fastidioso rumore dei suoi polmoni Sarebbe stato sovrastato da altri suoni. Il tuffo verso il vuoto la riempiva di sollievo. Il corpo precipitava rapidissimo, colpito dalla brezza e dalla follia. Al contatto col mare le spuntarono due branchie. @chiarafortina_art


racconto e foto di Nicolò Artoni

@nick_artoni

Sono passati mesi e ora è difficile iniziare. Le emozioni sono ancora fortissime ma i bordi cominciano a sfumarsi e i ricordi si amalgamano nella mente in quell’inspiegabile e strano casellario che non segue nessuna delle nostre logiche di catalogazione. Ho organizzato quello che potevo già da settimane. La canoa, la stiva, i viveri, le idee. La sera prima ci siamo trovati sui gradini del lido Po e nel silenzio della notte senza luna, abbiamo deciso che comunque sarebbe andata l’avremmo presa come veniva, «Se domani mattina c’è il sole, si parte!». Quattro ragazzi, divisi dalle ristrette compagnie di un piccolo paese, uniti da un sogno comune. L’avventura, la conquista dell’ignoto, la fatica, il mare. Le mani sono la parte del mio corpo sulla quale spesso mi sono soffermato a ragionare mentre attentamente ne scrutavo la forma e la trama della pelle. Esercitano da sempre un fascino su di me: dalla gestualità alla complicata e completa ingegnosità. Guardo la mia mano sinistra, vedo i nervi sotto pelle che si tendono e poi rilassano nel movimento ciclico del pagaiare. Guardo i muscoli che si gonfiano; prima afferra saldamente e poi rilascia sapientemente per dare direzione alla spinta opposta. Una sapienza che non controllo io, una sapienza innata del corpo. Vorrei parlare solo del corpo come Pennac. Voglio descrivere questo viaggio solo per gli aspetti corporali. Il mio cane non conosce il mio nome, conosce solo il mio odore. Mi chiedo se avrò un odore diverso dopo il viaggio o se le cellule della mia

pelle sprigioneranno altri sapori? Bronte mi riconoscerà lo stesso? Stasera abbiamo cenato e passato molto tempo a tavola con Romolo un signore di 89 anni, mezzo sordo perché con un solo orecchio buono e sull'altro, il sinistro, un apparecchio acustico. Scarico! Negli anni ‘60 se ho capito bene, ha brevettato la membrana catramata e questo l'ha portato a viaggiare per il mondo. È un signore colto ma con l'aspetto umile della gente del fiume; le mani muscolose con la pelle dura di chi lavora. Infatti ha un “Gozzo”, una barchetta in legno con la coperta, che, a detta sua, è “la più bella del mondo”. Ci ha parlato del fiume e dei suoi viaggi e dei cambiamenti e della triste ma saggia consapevolezza che invecchiando si diventa più soli. «Ho 90 anni, e amici coetanei non ne ho più, li ho visti morire tutti». Ha gli occhi grigi avvolti dalla pelle rilassata priva di tonicità. I capelli non del tutto schiariti. Se anche vestito in scarpe da ginnastica e felpa sgualcita conserva un'eleganza intrinseca nella gestualità delle mani e nelle espressioni, così come nel tono di voce. Di chi non parla mai a sproposito. Quando siamo arrivati al molo stava ‘scartavetrando’ la coperta del Gozzo e mi ha subito invitato a bordo per chiedermi da dove venivano e darmi consigli. 5 minuti dopo mi salutava offrendomi una bottiglia di vino «Questa è per le occasioni speciali.». A settembre finirà i lavori e salperà per chissà dove. Michi, il proprietario della canottieri di Ferrara, ha gli occhi azzurri strabici e ci ho messo un paio di minuti a


capire quale guardare. Perché gli strabici hanno sempre un occhio principale. Almeno, lo penso io. Quello destro è quello buono. Spettro dello scarto, di quello che ci si può immaginare di uno che ha praticato per davvero la filosofia “sesso, droga e rock'n'roll”. Un passato tra allucinogeni e malavita. Questo ci raccontano i suoi amici mentre siamo in macchina in direzione del suo secondo ristorante in centro a Ferrara. I capelli già pallidi e il fisico deperito di chi non si è curato per anni. È una persona strana che un attimo prima è matto e scalmanato e quello dopo timido e riservato. Mi chiedo quali demoni lo tormentino ma non voglio saperlo veramente. I suoi amici continuano e ci raccontano che ha giocato a calcio quasi da professionista, poi due infarti, e ora ha un pace-maker sottocutaneo. La sua accoglienza nei nostri conronti è sorprendente e noi l’abbiamo gradita, ne avevamo bisogno. Sono notti che da disteso, aspettando il sonno, mi sento galleggiare; il mio corpo è sintonizzato col fiume e ne imita i movimenti. Sandokan e Cinzia, due signori sui 50 che hanno mollato tutto e si sono messi a vivere su una casa galleggiante che è anche ristorante e centro ricreativo. Lui sembra quasi marocchino: ha la pelle bruna e i capelli neri. Gli piace il Sudamerica, si vede da come ha addobbato la barca. Ha la sfortuna di avere la faccia da delinquente. Sicuro, se lo incrociassi per strada, metterei la mano in tasca per proteggere il portafoglio. È un uomo gentile e timido, prende la vita così come viene; appunto come “Sandokan” il nome che gli è stato affibbiato quando ha comprato quella chiatta che «Si chiamava già così, che già porta sfiga dargli un nome maschile, poi cambiargli il nome vuol dire vederla affondare». Ci ha accolto per un caffè e un amaro, si è parlato di musica e di viaggi. Prima di andare noto una foto sul muro, ci sono degli individui avvolti in teli neri in mezzo a piante verdi con cappelli di paglia a tesa larga e la cupola allungata come un prolungamento della testa che tende al cielo. Sullo sfondo edifici di terra rossa. «Che posto è?» «Lo Yemen». Il fiume parla a chi vuole ascoltarlo, a noi indica la via, ci dirige dove la corrente è più forte permettendoci di risparmiare le forze. Le braccia, si pensa, siano il vero motore dei canoisti ma, al contrario, le gambe e il busto sono altrettanto fondamentali, e danno anche più problemi. Arrivati dove il Panaro si immerge nel Po alzo un poco la gamba destra tentando di sgranchirla e cercando di alleviare il formicolio che puntualmente dopo due ore di discesa non tarda ad arrivare. Cerco una nuova posizione per far riprendere forma ai glutei. Ciò che è più impressionante è la nostra prospettiva, siamo letteralmente al centro di una regione tra le più industrializzate, eppure questa

porzione di natura mantiene selvaggiamente il suo dominio. E qui, al centro del fiume, si vede benissimo. Nicola si avvicina lentamente a una massa di tronchi. Le urla mi fanno pensare subito a cosa deve aver visto. Il corpo gonfio, morto, di una donna, riportato a galla dalla piena. Alessandro e Gabriel si avvicinano e confermano la terribile scoperta. Io non me la sento, ho visto già persone defunte ma mai in modo tanto brutale. E penso che di fatto avvicinarmi non serva. Gli occhi di Nicola quando mi raggiunge sono due gocce di pece, increduli, avvolti da un espressione contrastante fra sconforto, panico e apatia per shock; un attimo di tilt. Il mio corpo alla sola percezione di quel cadavere lì accanto inizia a rivoltarsi, scaricando tensione in fremiti aritmici, incontrollabili e facendomi sentire una sottile nausea. Vorrei consolare Nicola ma non trovo parole e l'unica frase che mi viene è «La natura da, la natura toglie». Orribile cosa da dirsi. Mi limito a «Ci sono, se hai bisogno, ci sono». Abbiamo continuato a pagaiare per 10 minuti lentamente, fianco a fianco senza parlare se non con piccole frasi. Se c’è una cosa, un pensiero, una consapevolezza di cui mi sono accorto in questo viaggio, è che quando sento le forze mancare e credo di non potercela fare, scovo energie che non sapevo neanche di avere per aiutare chi è più in difficoltà di me. Alla fine ho raggiunto il Mare, attraversato tre regioni, sfidato il fiume e percorso quei 200 chilometri, con le mie e le forze dei miei compagni.

Voglio parlare solo del corpo e dei suoi aspetti come Pennac. Non credo di esserci riuscito. Il mio cane non conosce il mio nome, conosce solo il mio odore. Chissà se come Argo mi riconoscerà quando sarò tornato. Lo so è eccessivo paragonarsi a Ulisse.

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2019

illustrazione poster e copertina di Sara Virginia

@sara.vivirginia

No.14

la base di un albero fatto di storie


editoriale

IN VIAGGIO

A me le vacanze fanno paura. Le valige con le rotelle che rotolano ovunque. Gli zaini con dentro tutto quello che serve. Interi armadi che diventano inutili. Scoprire che si può vivere con tre magliette e un costume. Tre magliette e un costume. E un paio di scarpe. Quando viaggi ti spunta quella faccia da ebete, quella di quando è tutto facile. Ti scompaiono le occhiaie: mangi la frutta e ricominci a dormire. Si calmano tutti i venti che ci portiamo nei capelli. Ma cosa ci salta in mente? Attraversiamo i cieli in sella a un aereo, l’auto diventa una macchina del tempo e trasformiamo una canoa nel tappeto volante per scendere un fiume. Siamo pazzi. Giochiamo a ping pong con il jet lag, prendiamo le lancette degli orologi e le usiamo come bacchette. Viviamo la notte come il giorno e il giorno diventa una scatola di pongo per farci quello che ci pare. Ritorniamo i padroni del nostro tempo e all’improvviso non ce ne importa più niente. Il lavoro, le bollette, la spesa al supermercato quando la credenza è vuota:

niente. A me fa paura. Scompari da un giorno all’altro e cosa succede nella tua vita? Niente. Il giorno dopo il tuo rapimento, il mondo si sveglia identico a prima. Il giorno dopo la tua fuga, ti accorgi che in fondo, a parte Bronte, non ti manca quasi nulla. Una follia. Bussi alle case degli sconosciuti per chiedere aiuto e non ti mangia nessuno. La signora Ana a Cuba ha scritto a penna i numeri di emergenza su un foglietto bianco: in cima alla lista c’era quello di casa sua. Diceva, “sei come mia figlia”. Aiuto. Fatemi almeno pagare, vi prego, altrimenti starò altrove per sempre. Quando ero piccola avevo paura del traghetto Piombino-Portoferraio, quello che porta all’isola d’Elba. Temevo che la balena di ferro ci ingoiasse nella sua pancia e che saremmo tutti annegati. Siamo sopravvissuti. Ma ora che lo sappiamo, dico, ora che sappiamo che si può partire e che fuori di qui ci sono altri e infiniti mondi, dove lo troviamo il coraggio per ritornare?

Martina Castigliani Kaori top 5 del mese Kaori Aka Carlo Monfrini, socio fondatore di LowLife Radio. ci presenta una selezione musicale piena di ritmi e vibrazioni tra Ambience e Soft-Tecno. buon ascolto e non dimenticate di sintonizzarvi sulla web radio LowLife ogni settimana a lume di puntina! @lowliferadio

the swan e the lake clouds

Mark hellner asleep on the wing

laughing eye laughing eye

Crossing avenue carmaleonte

S.O.N.S Lost Tales Volume 1

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Luglio 2019 n. 14 Editore Nicolò Artoni Direttrice responsabile Martina Castigliani Proprietaria Serena Caramaschi Registrazione Tribunale di Reggio Emilia n. 4/2017 del 26/05/2017 Sede del periodico Via San Marco 16, 42016 Guastalla RE Stampa Tipografia Pixartprinting Periodicità Bimestrale Contatti radiciposterzine@gmail.com Progetto grafico e direzione artisica Nicolò Artoni Team Giovanni Irimia, Fabrizio Scaravelli, Claudia Passerini, Nicola Montali.


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