Queste istituzioni 93

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Anno XXI - n. 93 - Trimestrale (gennaio-marzo) - spedizione in abb. postale gr. IV/70%

queste istituzioni Un nuovo sistema istituzionale per il Meridione L'istituzione giudiziaria: vecchio e nuovo nella lotta alla grande criminaIitt Maria Rosaria Ferrarese, Donato Masciandaro, Alison Jarnieson, Alessandro Silj Il nuovo delle Fondazioni Casse di Risparmio Sergio Ristuccia, Pippo Ranci, Fabio Luca Cavazza, Giuseppe Delfini, Franco Manaresi, Angiola Sbaiz, Giancarlo Lenzi, Gian Franco Galletti, Claudio Travaglini, Enzo Anceschi, Beniamino Andreatta, Francesco Morlini, Virginiangelo Marabini, Gian Carlo Corazza Francesco Massari, Giovanni Bersani PerchĂŠ Adriano Olivetti Saveria Addotta Taccuino

o. 93 1993


queste istituzioni rivista del Gruppo di Studio SoietĂ e Istituzioni Anno XXI n; 93 (gennaio-marzo 1993) Direttore: SERGIO RISTUCCIA Vice Direttore: FRANCESCO SID0rI Comitato di redazione ANTONIO AGOSTA, ButNAIWIN0 CASADEI, DANTELA FELISINI, GIULIA MARIANI GIORGIO PAGANO, MjtCuo Roj, CRISTIANO A. RisTuccIA, STEFANO SEPE, VINCENZO SPAZIANTE Responsabile redazione: BERNARDINO CASADEI Responsabile organizzazione: GIORGIo PAGANO Direzione e Redazione: Via Ennio Quirino Visconti, 8- 00193 Roma Tel. 39/6/32153 19- Fax 3215283 Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847(12 dicembre 1972) Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE Sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN: 1121-3353 Stampa: L'ed sr.!. - Roma Finito di stampare nel mese di aprile 1993

Associato all'Usi: Unione Stampa Periodica Italiana


N. 93 1993

Indice

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Un nuovo sistema istituzionale per il Meridione Francesco Sidoti

L'istituzione giudiziaria: vecchio e nuovo nella lotta alla grande criminalitĂ 3

Magistratura e illegalitĂ diffusa Maria Rosaria Ferrarese

18

Intermediari bancari e finanziari, istituzioni di vigilanza e riciclaggio Donato Masciandaro

37

Istituzioni antidroga nazionali e internazionali Alison Jamieson

48

Un'intervista a Falcone Alessandro Silj

Il nuovo delle Fondazioni Casse di Risparmio 59

I nuovi modi del dare nella societĂ di oggi Sergio Ristuccia

66

Il "terzo settore": suo ruolo sociale, espansione e sviluppo Pippo Ranci I


77

Le fondazioni indipendenti a fini culturli Fabio Luca Cavazza

88

Fondazioni e tradizione giuridica Giuseppe Delfini, Franco Manaresi

91 96

Fondazioni bancarie e volontariato Angiola Sbaiz, Giancarlo Lenzi, Gian Franco Galletti, Claudio Travaglini Le fondazioni bancarie, problemi e prospettive Enzo Anceschi, Beniamino Andreatta,, Francesco Morlini, Virginiangelo Marabini, Gian Carlo Corazza, Francesco Massari, Giovanni Bersani

PerchÊ Adriano Olivetti• 110

Simone Weil e Adriano Olivetti Saveria Addotta

Taccuino 133

-

I nostri temi...! L'eccedenza dell'immagine Piero Stefani

136

Notizie dal Gruppo di Studio "Societ. e Istituzioni"

139

Notizie dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali

144

Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura

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Un nuovo sistema istituzionale per il Meridione

È stato spesso sostenuto che la questione meridionale è un problema dei meridionali. Per numerosi motivi, inclusa la scoperta in tutt'Italia di fitte reti di connessioni criminali, come quella emersa dopo le indagini sull'autoparco di Milano, questa considerazione si rivela palesemente inadeguata. Dalla Francia alla Germania, fino a quasi tutti i paesi ex-comunisti, l'Europa scopre attonita la grande capacitì di penetrazione di una delinquenza organizzata proveniente dal Meridione. In Francia è stata istituita una Commissione parlamentare d'inchiesta per indagare sulle attivitì francesi della mafia italiana in Germania si è scoperto che gli assassini dei giudici Livatino, Falcone, Borsellino, sono sotto molti profili collegati con la presenza sul suolo tedesco della criminalitì organizzata italiana. Non è vero che il Meridione non esporta niente. In varie occasioni, collaborando alle attivitì della Commissione parlamentare antimafia, ho notato che viene spesso sottolineata la penetrazione della mafia (o, per meglio dire, di organizzazioni similari) in zone storicamente non caratterizzate da una forte delinquenza. La Toscana, la Liguria, il Piemonte, il Veneto, si dice, sono aree che sotto questo profilo potrebbero essere scelte per una massiccia espansione della mafia, costretta (dai successi recenti ed importanti dello Stato) ad'allentare in qualche misura la presa dalle sue aree di tradizionale impianto. Agli operatori è ben noto che anche nel Meridione c'è stato un radicamento del la criminalità organizzata in luoghi dove prima non esisteva niente di simile. Ad esempio, la Capitanata, il Salento, la Sicilia orientale, erano zone "vergini" o "immuni"; ora invece sono devastate da fenomeni che per molti versi le rendono omologhe a quelle altre aree dove intense attività delinquenziali sono presenti da lungo tempo. Insomma, molte parti dell'Europa e del Nord dell'Italia sono sotto molti profili a rischio come buona parte del Sud alcuni anni fa. Questo aspetto non è sfuggito agli osservatori pii esperti. Ad esempio, il questore di Milano, Trio, che proviene da un 'esperienza pluriennale presso la questura di Catania, ha dichiarato che certo Milano è molto lontana dalla realtì di Catania, ma ha osservato che III


a Milano «elevato rimane il numero di soggetti attivi nell'illegalitì. Anche impegnando più uomini e ampliando le strutture investigative non avremmo comunque una caduta verticale del crimine., l'approccio ai problemi deve tenere conto di tutte le componenti sociali che concorrono alla nascita del crimine., il problema sociale non affrontato a monte, prima o poi diventa una questione di ordine pubblico. Indispensabile quindi uno studio tecnico dei problemi...». In dichiarazioni come queste è evidente un 'impostazione che ,mette in primo piano temi istituzionali che sarebbe bene non fossero trascurati al Nord come sono stati trascurati al Sud - con le conseguenze ben note. In molti hanno autorevolmente sottolineato la centralità dei ritardi istituzionali. A suo tempo, il cardinale di Napoli ha detto ai membri della Commissione antimafia in visita ufficiale in Campania: «Bisogna eliminare quei fenomeni, la disoccupazione, il degrado sociale, l'analfabetismo che fanno da terreno di coltura per la camorra che vi pesca abbondantemente la sua manovalanza» (7 maggio 1989). Nel pieno delle polemiche intorno alla piaga dei sequestri, il presidente dell'A ssociazio. ne nazionale comuni d'Italia ha affermato: «La situazione dei comuni calabresi è la più disastrata d'Italia. Non ci sono solo problemi d'ordine pubblico, legati ai sequestri di persona e alla criminalità organizzata. In quella zona ci sono le peggiori condizioni economiche e sociali di tutta la penisola, anche rispetto alle altre regioni del Sud. E ora che il governo se ne interessi» (24 giugno 1989). Nel corso di un dibattito, il comandante della Legione dei carabinieri di Bari ha affermato che «interpretano pienamente il mio pensiero» queste righe da me scritte in una precedente pubblicazione: «L'aumento della criminalità nel Meridione non avrebbe potuto assumere le odierne forme epidemiche senza i persistenti fenomeni di miseria, la nascita dei quartieri-ghetto, l'inadeguatezza delle strutture scolastiche, l'impreparazione delle strutture pubbliche di prevenzione e repressione». Molti dati di carattere economico e sociale possono contribuire ad accreditare l'ipotesi secondo la quale nel Meridione gli errori e le assenze delle politiche pubbliche seriamente impegnate sul piano della prevenzione hanno costituito la premessa per lo sviluppo di molte forme di criminalità. Basti una indicazione:fra evasione, abbandoni e bocciature, in molte zone del Meridione da. 20% al 30% dei bambini non completa la scuola dell'obbligo. È necessario sottolineare ancora che questi ritardi istituzionali non riguardano soltanto il Sud: hanno una ricaduta su tutto 'il paese. Un esempio tra i più importanti è relativo al carcere, che come è noto ha rivestito un 'importanza straordinaria nella storia della illegalità meridionale: una specie di "accademia del delitto" in cui sono state coordinate attività criminose all'interno e all'esterno delle mura penitenziarie. La situazione di molte carceri del Nord è ogIv


gi da molti punti di vista tale da suscitare serie preoccupazioni in merito alle possibilità che strutture pseudomafiose nascano oppure crescano e comunque Si rafforzino in maniera decisiva. Un esempio illuminante in proposito è il carcere delle Vallette a Torino: inaugurato nel 1986, è sovraffollato al punto da ospitare un numero di detenuti che è grande piì del doppio rispetto al massimo di quel che in una situazione di emergenza avrebbe dovuto ospitare. In una si• tuazione in cui i detenuti sono accatastati come sardine, l'equilibrio interno è assai precario e sono enormi le possibilità di espansione per strutture illegali che nascerebbero ancora una volta per mettere ordine dove lo Stato è incapace di fare il suo dovere. Il dramma primario della società meridionale non è la malavita, ma una miscela micidiale di problemi storici ed economici, culturali ed internazionali. Ovviamente, non tutti possono essere avviati a soluzione nel breve periodo. Ma alcuni possono essere affrontati in maniera diversa da come sono stati af frontati nel passato. Da questo punto di vista l'importanza del sistema istituzionale balza in primo piano. Mafia e criminalità sono anche una conseguenza dell'incapacità delle strutture istituzionali e amministrative, che spesso o non hanno affrontato i problemi, lasciandoli a marcire per decenni, o, se li hanno affrontati, li hanno paurosamente aggravati. E illusorio pensare di potere fronteggiare questa situazione senza un programma per il futuro che prenda in considerazione anche le cause perverse della criminalità e della mafia. E in un tale programma è necessaria una riflessione spec/ìca sulle istituziòni: queste istituzioni meridionali, e quelle, ben diverse, che dovranno essere approntate per il futuro. In maniera schematica, nel dibattito odierno sul Meridione si possono distinguere quattro posizioni principali: l'antimeridionalismo; il meridionalismo tradizionale, che auspica il ruolo centrale dello Stato, dell'intervento pubblico, dell'impresa pubblica, del denaro pubblico, e così via. E sottoposto a critiche severe, perché giudicato o strumentale o causa involontaria di corruzione. il neo-meridionalismo, che include personalità e correnti molto diverse, ad esempio i nostalgici dell'intervento straordinario e della Cassa per il mezzogiorno. Il neo-meridionalismo è "neo" in un senso particolare, perché in parte ripropone il ritorno alle politiche degli anni Sessanta (che ebbero allora un discreto successo), ripudiando le vergogne degli anni Ottanta, ed è difeso da associazioni e studiosi prestigiosi, ad esempio dalla Svimez e dal suo direttore Salvatore Cafiero. Questi studiosi criticano aspramente il meridionalismo tradiI!i


zionale, riconoscono che un 'epoca è finita, e auspicano una profonda riforma della politica, ... ma si espongono all'accusa di riproporre in ultima analisi ricette del passato, perché esprimono un 'opzione decisamente unitaria a proposito del paese e delle sue istituzioni, sia per quanto riguarda il livello centrale sia per quanto riguarda il livello periferico. 4) Il neo-federalismo, che è stato proposto in molteplici versioni, da quelle scissioniste a quelle che mantengono l'idea dell'unità nazionale, ma istituzionalmente differenziata, a livello centrale e a livello periferico. Questa posizione parte innanzitutto dalla premessa che il sistema politico della Prima Repubblica è definitivamente scoppiato, e che un altro sistema è informazione. Sarà fat. to da noi, sulla base delle nostre capacità e del nostro coraggio. In larga misura è un'incognita, ma un punto rimane sicuro: è bene dare spazi molto ampi di autonomia alle varie realtà del Meridiòne, che per un verso rimarrà in larga misura senza l'ombrello economico del Nord, e per un altro verso sarà molto più libero di determinare il proprio destino. Per molti di coloro che sottolineano, dati alla mano, il riemergere impetuoso del dualismo italiano, una delle cause primarie della crisi meridionale è la permanenza di strutture normative, istituzionali, elettorali, e così via, dal nuovo processo penale minorile alla vicenda delle gabbie salariali, che nascevano dalla necessità di soddisfare innanzitutto gli interessi del Nord del paese, numericamente maggioritari, ma spesso inevitabilmente diversi da quelli del Meridione. Ad esempio, nel corso degli anni Settanta ed Ottanta il Nord era innanzitutto interessato alla formazione delle articolazioni sociali e assistenziali proprie di un sistema dove il pieno impiego era già realizzato. Il Sud era invece interessato a politiche che avrebbero dovuto realizzare il pieno impiego: dunque l'obiettivo principale avrebbe dovuto essere la politica dell'occupazione. A livello nazionale è stata fatta (e si può discutere se poteva essere altrimenti) una scelta di fondo a favore delle aree del Nord, non soltanto in termini di una ristrutturazione industriale che ha assorbito capitali ingenti, ma soprattutto nei termini della costruzione in tutto il paese di sistemi previdenziali e assistenziali che nel Nord erano rivendicati dalla cosiddetta cultura del riformismo, e nel Sud, invece, sono stati interpretati prevalentemente sotto forma di spreco, di parodia e di pretesto. -'

Accanto a caratteristiche pre-moderne o anti-moderne della società, c'è nel Meridione una cultura dello sviluppo nella legalità che ha un grande rilievo, ma non è mai riuscita a diventare pienamente cultura istituzionale dominante tra le forze di governo. A parte sparuti casi di radicalismo, peraltro spesso corretti da ripensamenti sostanziali, come per quanto riguarda Salvemini e Sturzo (che VI


negli anni finali della loro vita si espressero in maniera molto più moderata di quanto avevano fatto negli anni giovanili), la cultura politica meridionale è stata nettamente ed esplicitamene consapevole della necessitcì di gestire con mano di ferro i limiti e i vincoli di una sfortunata eredità storica. Da Pirandello a Sciascia, da Gaetano Mosca a Mario Scelba, da Santi Romano a Ugo La Malfa, negli intellettuali e nei politici meridionali è stata prevalente quasi sempre una concezione dello sviluppo civile in cui la crescita della democratizzazione doveva essere accompagnata dalla crescita di molte altre componenti economiche, culturali, morali e istituzionali. Gaetano Mosca per esempio sottolineò più volte il rischio di un rapporto diretto nel Meridione tra crescita della democrazia e crescita della mafiositcì; ed era favorevole a una concezione gradualista della modernizzazione, in cui avevano un grande peso strutture statali indipendenti dal potere politico. Anche le ipotesi più improbabili di sviluppo del Meridione, come l'élitismo liberale di Croce, o il populismo fascista di Gentile, o l'utopismo leninista di Gramsci, concludevano tutte nella prefigurazione di un possente intervento demiurgico proveniente dall'alto e dall'esterno. Questi rifiuti dell'ipotesi liberale pura sulla necessitì di uno Stato minimo e sugli effetti autopropulsivi del mercato avevano precedenti illustri; ad esempio, costituivano un dato unificante della riflessione teoretica sulla contrapposizione tra lo sviluppo di tipo tedesco e quello di tipo inglese, secondo una tradizione che fu fissata da Hegel nella relazione del 1817 sulle dispute costituzionali del Wurttemberg e nelle aspre critiche del Reform Bili inglese del 1830. Il punto importante sollevato da molte riflessioni meridionali sulla forma preferibile di organizzazione dei poteri pubblici riguarda il contesto istituzionale che favorisce il processo di modernizzazione. Da questo punto di vista il quesito di fondo sulla illegalitì di massa riguarda ancora una volta le conseguenze dell'applicazione al Meridione del sistema istituzionale italiano. Altri modelli politici, economici, istituzionali avrebbero favorito l'affermazione di altre tendenze nella societì meridionale. A parte le responsabilitì individuali sul piano giuridico-penale, esistono certamente responsabilitì collettive per quanto riguarda la criminalitì italiana, ma in una certa misura sono estranee ai meridionali: non era meridionale, ma era progressista e nordista la cultura che ha formulato le massime scelte legislative in tema di politica sociale, dalla legge sulla modica quantittì (che legittimava il consumo di stupefacenti) alla legge Gozzini (che cambiava totalmente il significato simbolico dell'istituzione carceraria), dalla cosiddetta democratizzazione delle istituzioni (in primo lucgo la polizia e la magistratura) al codice penale VII


minorile (che forse andava bene per la Svezia, certo non per la Sicilia o la Campania). Tutte queste scelte sono state varate grazie al sostegno di maggioranze parlamentari omogenee e sovente unanimi, come nel caso esemplare che riguarda appunto la legge Gozzini. La ricerca di istituzioni diverse per realtà diverse non è irrilevante. In un certo senso, il primo tentativo forte di grande rinnovamento nel sistema politico italiano è venuto proprio dal Meridione: la legge siciliana sull'elezione diretta del sindaco, nella quale personalizzazione e concentrazione del potere locale vengono proposti a un livello che non ha paragoni in Europa e che fa venire in mente il podestà di patria memoria. Una classe di governo a volte costretta ad amministrare con la pistola letteralmente puntata alla, testa ha deciso autono mamente, e forse per disperazione, di approvare una legge che cambia straordinariamente i rapporti politici, economici ed amministrativi. Da una molteplicità di segnali (in primo luogo la pioggia di infamanti avvisi di garanzia su tanti illustri politici, da Napoli a Reggio Calabria), deriva una indicazione chiara: il vecchio sistema meridionale è finito, e uno nuovo è preferibile che non nasca ricalcando ifallirnentari modelli del passato. Il Meridione può e deve sopravvivere senza l'elemosina dei denari avvelenati della spesa pubblica italiana. Dall'Australia alle Americhe il mondo è pieno di meridionali che sono partiti con le pezze nel sedere e sono poi diventati signori, economicamente e politicamente. In estrema sintesi: strutture amministrative e istituzionali improprie hanno favorito l'emergere e l'affermarsi di quel che c'era di peggio nella società meridionale. Strutture amministrative e istituzionali idonee possono permettere l'affermarsi di quel che c'è di meglio nella società meridionale e nei meridionali. Se si privilegia l'idea di una mafia e di una criminalità alimentate da errori istituzionali, e se si accetta anche il presuppo. sto che, dopo l'ondata di arresti susseguitisi dalla seconda metà del 1992 e culminati con quello di Rima, la questione criminale è cambiata notevolmente nelle sue dimensioni e nella sua natura, allora si arriva alla conclusione che debbono cambiare anche le metodologie di studio e di intervento. La "questione sociale" deve essere vista come la logica premessa della "questione criminale"; e la "questione istituzionale" come premessa a sua volta della "questione sociale". Le istituzioni hanno affrontato in questi anni un numero pazzesco di proble. mi, sollecitando schiere crescenti sia di beneficiari petulanti sia di detrattori schiamazzanti. L 'ampliamento dell'intervento pubblico è stato a volte irragionevole, ma altre volte indispensabile, tanto è vero che c'è un consenso di fondo sull'impegno necessario in una serie di settori. In una versione assistenzialistica, clientelare, parassitaria, lo Stato sociale può essere occasione e stimolo per


vari episodi di corruzione; ma nelle intenzioni primarie e nelle sue versioni migliori è soprattutto ammortizzatore dei conflitti e promotore dello sviluppo. Nel corso degli anni Ottanta, le istituzioni hanno fatto per certi versi troppo e per certi versi troppo poco. Ad esempio, nel campo della prevenzione e dell'intervento afavore dei minori in situazione di rischio. Grande parte dell'aurnento enorme della criminalittì (in Italia come in molti altri paesi) nel corso degli anni Ottanta si spiega appunto in questo modo. Quanti innocenti sono stati sacrificati o per negligenza o a causa di politiche pubbliche erronee? In uno dei frangenti più difficili della storia unitaria, nel sistema politico italiano c'è la grande occasione per porre mano ad una serie di revisioni sostanziali: un bicameralismo ragionevolmente motivato; una struttura dei controlli ripensàta da cima a fondo; una diversa disciplina dei referendum; efficienza e stabilitì della forma di governo a livello locale e nazionale; nuovi metodi per l'elezione del sindaco, della giunta regionale, del Presidente del Consiglio, del Presidente della Repubblica; e così via. Tutto il settore pubblico, dalle privatizzazioni ai rapporti di lavoro, potrebbe essere coinvolto in un grande progetto di risanamento, destinato a non interrompersi presto, ma a continuare nel tempo attraverso continue approssimazioni e correzioni. Nel Meridione una questione prioritaria è il rapporto tra Stato centrale e regioni, tra livello di coordinamento centrale e livello di autonomie regionali. Questo è un aspetto non meno importante di altri, come la scelta tra parlamentarisrno e presidenzialismo, tra sistema elettorale proporzionale e sistema elettorale maggioritario. E possibile costruire finalmente quella Repubblica delle autonomie che è stata auspicata dai profetici e inascolati padri di una patria che finora non si è mai avverata, da Carlo Cattaneo ad Adriano Olivetti. Forti dosi di decentramento e autonomia avrebbero conseguenze importanti a diversi livelli; ad esempio sia per quanto riguarda la capacit€ì impositiva sia per quanto riguarda la capacità redistributiva. In tal modo sanì possibile la mobilitazione delle risorse locali e la responsabilizzazione sia della classe politica sia dell'elettorato. Non c'è per niente bisogno di assistenzialimo nel Meridione, ma di un diverso disegno istituzionale, mirato a fornire dosi massicce di legalitì, repressione, prevenzione, istruzione. Successi in questi campi creeranno le occasioni di investimento e di occupazione. Dal risanamento urbanistico delle aree rnetropolitane alle grandi infrastrutture', tutto il meglio può venire soltanto dopo una severa ricostruzione di quel tessuto della democrazia gravemente danneggiato da anni di insensatezze. La bonifica può essere compiuta sia attraverso l'impiego di mezzi straordinari, sia attraverso l'impiego di mezzi ordinari. E dedicata


ad una riflessione in merito a questa alternativa una ricerca sui Meridione che ho compiuto insieme a Edward Luttwak e a Carlo Pelanda, e che prossimamente sarL pubblicata. Per non buttare ancora soldi dalla finestra, visto che fra l'altro ce ne saranno pochini a disposizione, è decisiva l'indipendenza del nuovo sistema istituzionale dal blocco sociale che ha caratterizzato il Meridione durante la Prima Repubblica. Non ha più un futuro quella "grande industria meridionale" legata allo sfruttamento intensivo della spesa pubblica. Ma questo è un fatto positivo, perché le aree dinamiche e gli imprenditori veri potranno riconquistare spazio e dignità. Il Sud è destinato a ristrutturarsi su altre basi economiche, istituzionali, culturali. L 'assistenzialismo era perfettamente omogeneo ad una situazione dove esistevano cose che avevano il nome, e la forma di Istituzioni, ma che in realtì spesso erano principalmente comitati di ripartizione dei denari pubblici. A volte funzionavano solo a questo scopo, e sotto questo profilo erano efficientissime, mentre sòtto altri profili erano inesistenti. Molte forme di criminalitì sono strettamente legate al vecchio sistema meridionale: il cambiamento istituzionale dovrebbe essere progettato per cambiare in maniera significativa il terreno di cultura in cui era nata e cresciuta la questione criminale. Francesco Sidoti Nota Mozione d'ordine: si sconsiglia di intervenire nelle discussioni sul Meridione chiunque non abbia fatto esperienze tipo percorrere l'autostrada Salerno-Reggio Calabria, o andare in treno da Bari a Siracusa, o farsi curare nel pronto soccorso del Cardarelli. E vero che «non è indispensabile essere Cesare per parlare di Ce-

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sare», ma è anche vero che spesso si parla dei «soldi sprecati nel Sud>) senza avere la minima idea sulle condizioni dei servizi e delle infrastrutture meridionali. Somme enormi sono state sperperate, ma tutte le differenze continuano a sussistere, anzi si sono aggravate drammaticamente nel corso degli anni Ottanta.


queste isiduzionì

L'istituzione giudiziaria:,vecchio e nuovo nella lotta alla grande criminalità

L 'aumento della crirninalitì, il traffico internazionale della droga, il riciclaggio del denaro sporco ed infine, last but not least, la corruzione che ha in quinato l'intero sistema politico, ripropozgono con forza l'attualitì di quella istituzion; difficile, come l'avevamo chiamata nel n. 79-80 di Queste Istituzioni, che è la Giustizia. Certo le istituzioni democratiche non si sono pienamente mostrate all'altezza delle speranze che erano state riposte in loro ed hanno permesso un malcostume diffuso che ha profondamente scosso la fiducia negli stessi princìpi costituzionali. Ma proprio il salutare disincanto nei confronti dei poteri taùmaturgici della politica, permette di riscoprire il valore e l'autonomia della giustizia. In realtì al magistrato non si chiede più di innovare, di sostituirsi al legislatore, di fare politica, ma semplicemente di applicare, con rigore, le leggi esistenti. In questo senso si è tornati al cuore della funzione giudiziaria senza le divagazioni della "supplenza". Il comportamento illecito non è più semplicisticamente interpretato come la


mera conseguenza delle contraddizioni sociali, ma come espressione della precisa volontì di nuocere, volontì che non possiamo tollerare senza diventare com plici e commettere ingi ustizia noi stessi, e che, dunque, deve essere repressa. Finalmente, si può dire che né la Rivoluzione né.la lotta agli eversori del sistema sono piì valide giustificazioni all'illegalitì. Come dire, risalendo un po' indietro, che l'idea secondo la quale «il faut éviter que la petite morale tue la grande», come si esprimeva Mirabeau (nell'assunto che dal male concreto potesse, come per incanto, sorgere un ipotetico bene), una volta di più si è dimostrata falsa.


Magistratura e illegalità diffusa di Maria Rosaria Ferrarese

Il rapporto tra magistratura e politica può implicare cose diverse e può essere soggetto a fasi alterne. La più recente storia italiana è una vetrina assai ricca per individuare alcune possibili varianti ditale rapporto, come si dirà più avanti. Ma, nel complesso, è importante ribadire che la magistratura agisce comunque all'interno, non all'esterno, del sistema politico: come Luhmann ha efficacemente mostrato, ciò significa che l'azione da essa svolta è comunque funzionale al sistema politico, se non altro attraverso l'esercizio dell'uso della forza fisica, che è un "servizio" che la magistratura compie a vantaggio delle istituzioni politiche, liberandole da questo ingombrante fardello 1 Tuttavia, in uno stato liberale di ispirazione montesquieuiana, l'esercizio della funzionalità politica della magistratura è basato; paradossalmente, sulla sua stessa "neutralizzazione politica", ossia su un'astensione dall'esercizio di funzioni direttamente politiche. Il terreno di azione della magistratura è pertanto sgombro dal perseguimento di qualsiasi finalità di carattere politico ed è consegnato esclusivamente a funzioni di controllo di legalità. Potremmo dun.

que designare questo modello come modello di una "politicità implicita" della magistratura. All'opposto rispetto a questo modello• sta il modello che potremmo chiamare della "politicità esplicita" della magistratura, che ha trovato la sua migliore esplicazione nell'esperienza storica e costituzionale americana: in questa esperienza esiste una parentela stretta tra giudici e politica, sia in via formale, attraverso l'esistenza di sistemi di reclutamento dei magistrati di carattere politico, sia in via sostanziale, attraverso l'accettazione di un esercizio di funzioni di carattere politico da parte dei giudici. Entrambi tali aspetti trovano la più ampia esplicazione nel caso dei giudici della Corte Suprema che sono di nomina politica (anche se resi indipendenti attraverso la nomina a vita) e svolgono funziòni di scelta politica attraverso la loro giurisprudenza. Esiste poi una versione estremistica e deviata di questo modello che conduce fino ad una, si potrebbe dire, "partitizzazione" dei giudici, allorché questi, nell'esercizio della propria funzione, si mostrano sensibili a scelte politiche di specifici partiti o proni al volere del governo in 3


carica. Non sarà superfluo osservare che queste estremizzazioni spesso si nascondono all'ombra della vecchia ideologia della "neutralità" della funzione giudiziaria ed hanno trovato spazio più nei paesi di cultura giuridica continentale che non nei paesi di common law. Ovviamente molte altre variabili andrebbero tenute in conto al fine di assottigliare la grossolanità dei due modelli sopra individuati. Specialmente importanti possono essere il sistema delle garanzie istituzionali a protezione della libertà decisionale dei giudici e la collocazione istituzionale della pubblica accusa. Si può tuttavia dire che, prescindendo dal peso che tali variabili possono avere in specifiche esperienze, le varianti di possibile politicità della magistratura si muovono tra i due estremi che sono stati richiamati. L'intento di questo saggio è quello di mostrare come si è atteggiata la magistratura nella più recente esperienza italiana rispetto a questi due modelli. La tesi che verrà sostenuta è che, dopo gli anni passati in cui i fenomeni di politicizzazione della magistratura hanno sfiorato più volte il modello della "politicità esplicita", e talora persino quello della "partitizzazione" di una parte o di alcuni settori della magistratura, negli ultimi tempi l'immagine della magistratura si vada riavvicinando ad un modello di "politicità implicita", proprio della tradizione liberale classica. Sarebbe tuttavia improprio parlare di una mera riproposizione di un modello del passato: la storia non si ripete mai 4

in maniera automatica. Sarà pertanto interessante accennare alcuni tratti nuovi che segnano la più recente immagine della magistratura italiana, pur all'interno di una tendenza a riavvicinarsi ad un vecchio modello di azione. Una precisazione si rende utile prima di inoltrarsi nell'esposizione. L'immagine della magistratura che verrà qui ritratta viene ritagliata su alcuni settori della magistratura specialmente impegnati nelle vicende di controllo e repressione dei fatti di corruzione e concussione politica, tanto diffusi nel nostro sistema istituzionale. E dall'azione di questi magistrati che una nuova ondata di consenso e di approvazione sociale si è riversata sull'intera magistratura, invertendo quella tendenza critica nei suoi confronti che aveva trovato la massima espressione in occasione del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. C'è sicuramente un limite nel ritrarre tutta la magistratura alla luce di un tipo di azione giudiziaria che, per quanto manifestamente tendente ad una crescente espansione nel nostro paese, non basta tuttavia a riassumere tutti i terreni di azione su cui la magistraturaattualmente impegnata. Gli stessi casi di repressione dei fenomeni di criminalità organizzata, che tanta importanza oggi assumono per la vita del nostro paese, resteranno pertanto più in ombra nel presente saggio. Ma è importante notare che la tendenza a comporre un'immagine dell'intera magistratura alla luce di alcuni settori trainanti non è nuo-


va: negli anni dei "pretori d'assalto" sembrava che tutti i magistrati fossero degli "sceriffi" del diritto pronti a scendere in campo e negli anni del terrorismo sembrava che i soli processi fossero quelli in tema di terrorismo. La tendenza ad imputare.a tutta la magistratura caratteristiche (positive o negative) di alcuni specifici settori giudiziari, o addirittura di alcuni singoli magistrati, appartiene di sicuro ad un'epoca in cui i fenomeni e i fatti vengono sensibilmente e sempre più mediati dalle "immagini" che di essi ci si forma o che vengono offerte dai vari media. Ma essa è altresì ascrivibile ad un momento storico in cui si verifica una eccezionale spettacolarizzazione del giudiziario. Il processo penale ha sempre avuto forti valenze spettacolari. Oggi, nella misura in cui agli occhi della pubblica opinione italiana il mondo della giustizia si identifica sempre più con il settore penale, Sesso appare spettacolare come mai nel passato: specie la fase istruttoria, tradizionalmente segreta e lontana dal grosso pubblico si è fatta come un eccitante seria1 televisivo, in cui ogni giorno ci si chiede quale sarà il colpo di scena della prossima puntata. Due elementi sono certamente importanti per comprendere la grande spettacolarità della giustizia penale in fatto di corruzione e concussione 2. Il primo risiede nel fatto che i personaggi che si succedono come indiziati o imputati sono personaggi pubblici, che appartengono a tutti in quanto noti. Il secondo consiste nel fatto che i comporta-

menti messi sotto accusa sono anch'essi "pubblici" in quanto, come si dirà, investono sfere di vita sociale e politica che ci coinvolgono tutti: in tal senso, lo spettacolo a cui si assiste provoca negli spettatori meccanismi partecipativi non solo di natura puramente emotiva, come avveniva rispetto ai grandi processi penali del passato, ma anche su base politica, perché mette in discussione aspetti profondi e basilari della stessa vita associata.

LA MAGISTRATURA TRA FUNZIONI POLITICHE E PRE-POLITICHE

La connessione del ruolo giudiziario con funzioni di carattere politico non una novità. Da più di vent'anni in Italia si assiste a svariate e mutevoli forme di funzioni politiche svolte da giudici. Il fenomeno si è consolidato parallelamente al disegnarsi di questioni giudiziarie di rilievo non più strettamente individualistico, ma marcatamente politico, che hanno cioè un'ampia risonanza sociale, in quanto investono punti nodali della stessa organizzazione collettiva del nostro paese. Così la funzione giudiziaria si è spesso assestata su un crinale incerto e delicato che separa sempre più a fatica questioni giudiziarie e significato politico delle stesse. Negli anni Settanta furono i pretori cosiddetti "d'assalto" a dar rilievo a una nuova commistione tra politica e giurisdizione, attraverso l'assunzione nelle proprie mani di questioni in materia di 5


inquinamento, di relazioni industriali, di tutela dei consumatori. Negli anni Ottanta, fu soprattutto la questione del terrorismo, data in gestione alla macchina giudiziaria, attraverso l'ausilio della legislazione d'emergenza, a suscitare nuovi interrogativi sulla funzionalità politica della magistratura. Nel primo caso erano stati dei giudici ad inaugurare linee di intervento giudiziario rispondenti ad una logica politica: di fronte ad una mancata risoluzione di problemi di competenza degli organi politici, l'intervento giudiziario si poneva come potere di controllo in funzione di supplenza. Nel secondo caso era stato il potere politico a delegare ai giudici la risoluzione del problema terrorismo, attraverso una forzatura del loro ruolo, che veniva piegato ad una ratio politica: la gestione dei pentiti, tipicamente legata ad una logica di raggiungimento dei fini, esorbitava significativamente dalla tradizionale configurazione del ruolo giudiziario, che era alieno da piegature teleologiche. Ma già durante questi due periodi si era annunciata a più riprese la cosiddetta "questione morale", attraverso inchieste giudiziarie che più volte avevano messo sotto accusa l'illegittimità di politici ed amministratori, suscitando un clima di generale inimicizia tra settori giudiziari e ambienti politici. La definitiva istituzionalizzazione di una "questione morale" che affligge gli ambienti politici italiani, così clamorosamente messa in piazza dalle vicende giudiziarie milanesi, sembra contrasse6

gnare gli anni Novanta. Ed alla magistratura tocca il ruolo di grande inquisitrice dei fatti di illegalità e di corruzione. Ma un dato di grande novità accompagna la nuova fase di attivismo giudiziario in questo campo: un alto grado di consenso popolare nei confronti dei magistrati impegnati nelle vicende di controllo delle illegalità. Verranno sviluppate nel prossimo paragrafo alcune considerazioni relative ai modi in cui questa novità caratterizza la comunicazione tra magistratura e pubblica opinione. Qui è opportuno fermarsi ad analizzare quelle ragioni ditale consenso che derivano dalla stessa tipologia di processi che sono tra le mani dei magistrati. In altri termini, non si può comprendere compiutamente questa vicenda di adesione sociale verso i magistrati se non si fa riferimento alla stessa materia che è oggetto della loro inquisizione, specie in inchieste in materia di corruzione. Il consenso è un tipico attributo delle istanze politiche. L'immagine tradizionale del giudice è invece priva del requisito del consenso: non ne ha bisogno perché non ha un'identità politica, ma piuttosto burocratica; il giudice è un neutro funzionario che si limita ad interpretare la legge. Tuttavia, negli ultimi decenni, il giudiziario si è sempre più trovato a intervenire su materie di significato politico. In altri termini, è progressivamente cresciuta una tipologia di casi giudiziari che trattano questioni di alta rilevanza


sociale e politica. Ci sono aspetti di qualità ed aspetti di quantità che contribuiscono a rendere altamente politica l'identità di processi come quelli in tema di criminalità organizzata e di corruzione politica. Per quanto attiene agli aspetti di quantità, questa tipologia giudiziaria è caratterizzata da un lato dall'estesa diffusione dei casi sotto inchiesta, che assumono. così un carattere decisamente "sociale", dall'altro lato da un alto numero di persone coinvolte in ciascun caso. Avviene così che .si registri in tali inchieste la tendenza ad una progressiva espansione della fase istruttoria: tipicamente, l'inchiesta cresce ad anelli concentrici, espandendosi anche territorialmente, rivelando ùna struttura decisamente collettiva anziché individuale. Il risultato non può che essere un processo di taglia "maxi", che inevitabilmente esorbita i confini ed il significato di una vicenda legata ad uno o più individui, ed assume un significato più generale e, per l'appunto, politico. Ricorrendo ad una figura retorica, si potrebbe dire che ogni processo di tal tipo è come .una sineddoche, una parte che sta per il tutto, ossia è un indicatore di un tema politico più rilevante. Così, l'inchiesta "mani pulite", sintomaticamente, sempre più indica una fenomenologia politica piuttosto che un preciso caso giudiziario. Soprattutto quella inchiesta, infatti, ha mostrato la difficoltà di recintare il caso sia sotto il profilo delle persone coinvolte, sia territorialmente. Cosicché, di fatto, l'inchie-

sta dei giudici milanesi ha inaugurato una sorta di superprocura, ancorché non formalizzata, sui fenomeni di corruzione politica nel nostro paese. Quasi sempre, insomma, le dimensioni estese del caso giudiziario si accompagnano al sospetto o alla diffusa attesa che le dimensioni reali del fenomeno in questione siano inevitabilmente più grandi di quelle toccate dall'inchiesta: ad esempio non è ipotizzabile che nel Nord si concentri una dose di corruzione politica atipica rispetto al resto del paese ed è assai più convincente la tesi secondo cui la vicenda giudiziaria milanese è una sorta di avanguardia che precede il resto del paese. Sotto il profilo qualitativo, poi, tale tipologia giudiziaria ha a che vedere con oggetti di grande rilievo per la vita collettiva, che vanno ben al di là degli specifici capi di imputazione che emergono a carico dei vari imputati. Dai problemi del terrorismo, a quelli della criminalità organizzata, a quelli di corruzione e di concussione politica, è un susseguirsi di casi giudiziari che lambiscono materie delicate.e vitali per la vita pubblica, quali "il monopolio della forza fisica", la questione dell'ordine pubblico, la stessa complessiva cornice di legalità del nostro sistema istituzionale. Queste questioni, tradizionalmente relegate alla fase preistorica dei nostri "stati di diritto", che avevano lo scopo appunto di risolvere quei problemi di fondo della vita collettiva, nell'esperienza italiana sono venute a una nuova MA


vita, trovando nello scenario giudiziario una sede privilegiata di rappresentazione. Il giudiziario si trova, in altri termini, a intervenire su materie in un certo senso pre-politiche, piuttosto che politiche, in quanto attengono agli aspetti più profondi e basilari della stessa organizzazione statale e della sua conformazione istituzionale. E importante sottolineare questa natura pre-politica della materia trattata dai magistrati nei processi in questione perché ciò segna un ritorno ad un tratto caratteristico della giurisdizione nei sistemi giuridici continentali: in questi sistemi, la funzione dei magistrati di controllo delle condizioni complessive di legalità del sistema era una funzione per l'appunto pre-politica; essa non tendeva a realizzare specifici fini (di uguaglianza, di giustizia sociale o di altro tipo), ma semplicemente a realizzare le condizioni di legalità. Ma l'aver classificato queste questioni come prepolitiche non implica aver attribuito loro una minore importanza; semmai vero il contrario: esse attengono ad aspetti tanto basilari dell'organizzazione della vita collettiva, che sono necessarie precondizioni per il funzionamento (e per la va1iditì, direbbe Kelsen) dello stesso ordinamento statale. Questo insieme di aspetti quantitativi e qualitativi pone problemi delicati per la gestione del processo, perché lo carica di un peso duplice e in qualche misura contraddittorio. Da una parte, quello 8

di amministrare correttamente la giustizia rispetto alle persone in esso implicate, secondo i canoni della legalità che erano propri del vecchio stato di diritto. Dall'altra, quello di dare una risposta giudiziaria che sia accettabile anche da una prospettiva politica. Sotto il primo profilo, si tratta per i magistrati di evitare il rischio di una ge.stione politica del processo, applicando per esempio canoni investigativi o giudiziari indirizzati all"esemplarità" o a guadagnare consensi sociali. Sotto il secondo profilo, si tratta dell'impossibilità di trascurare del tutto le valenze politiche del processo. Qui non è solo in questione l'accettabilità sociale delle soluzioni giudiziali, ma anche l'esigenza di amministrare i processi in maniera coerente rispetto a tali valenze. Ciò significa, ad esempio, che si possono dare interferenze tra le esigenze di garantismo a favore del singolo e le valutazioni relative agli svilùppi dell'inchiesta o al rischio di condizionamenti esterni.

IL CONSENSO VERSO I MAGISTRATI ED I SUOI RISVOLT.I

È sotto gli occhi di tutti l'eccezionale grado di considerazione sociale che viene tributato ai magistrati in questo periodo della storia italiana. Tale considerazione ha trovato la più alta espressione nei confronti del giudice Di Pietro, che nell'ultimo anno ha accumulato una congerie di riconoscimenti e di attestati di stima dai più diversi settori so-


ciali: giornalisti, sondaggi d'opiniòne, sorta di investitura popolare: l'opinioimprenditori, ecc. ne pubblica ha manifestato nei conDi tale fenomeno e soprattutto dei suoi fronti dei magistrati addirittura una aspetti paradossali ci occuperemo nel sorta di delega a perseguire il pubblico prossimo paragrafo. Qui si vuole piut- interesse, inquisendo e reprimendo le tosto analizzare un'altra questione: se illegalità. Si può insomma intravedere sia lecito e corretto parlare di un "con- l'intento di incentivare i magistrati ad senso" sociale che investe l'azione dei esercitare un più severo controllo ed magistrati impegnati nella repressione una ferma repressione delle illegalità dei fenomeni di corruzione e di illegali- dei pubblici amministratori e dei burotà diffusa. Questa espressione, divenuta crati. peraltro ricorrente, è stata utilizzata an- Come si è detto, l'azione dei magistrati che in alcune pagine precedenti, per innon ha bisogno di un sostegno in terdicare il nuovo trend che caratterizza le mini di consenso; tuttavia, il pubblico relazioni tra magistrati e pubblica opi- assenso manifestato verso l'azione dei magisrau impiica non soio un generico nione. Si suole parlare di consenso, utilizzan- conforto alla loro azione ma qualcosa do una voce del lessico politico, forse di più: la diffusa consapevolezza che si soprattutto per una sorta di immediata tratta di questioni giudiziarie assai specontrapposizione rispetto al "dissenciali, alle quali è affidata la conformaso", più volte platealmente manifestato zione del futuro assetto politico-amminegli ultimi tempi nei confronti dei po- nistrativo e dei suoi rapporti con il litici: così, ad esempio, è nella memoria mondo delle lobbzes e degli affari. Prodi tutti, in occasione dei funerali di prio a causa della particolare gravità ed Borsellino, da una parte, la forte conte- importanza delle questioni che sono stazione popolare espressa verso i polinelle mani dei giudici, il giudizio dell'otici accorsi da Roma e, dall'altra, l'insi- pinione pubblica assume un significato stita e pubblica richiesta di aiuto rivolta particolare. a Caponnetto, nonostante egli fosse un La diffusa' adesione nei confronti dei giudice ormai in pensione ed allora an- giudici per la repressione delle corrucora quasi sconosciuto al grande pub- zioni e delle illeglità dà insomma una blico. Ma molte altre sono state le occa- - valenza di democraticità alloro operasioni in cui il dissenso verso i politici si to, aggiungendo al suo contenuto istituè contrapposto al "consenso" verso i zionale anche l'espressione di una delemagistrati. ga, sia pure informale. Ma è possibile anche trovare una ragio- Ciò significa che si può oggi ravvisare ne più forte per l'uso del termine "con- una nuova tensione comunicativa tra senso": non è estraneo a tale uso del magistrati e pubblica opinione. I magitermine anche il riferimento ad una strati non sono alla ricerca del consen-


so, ma sanno di poter contare su di esso e si avvalgono quasi di un mandato popolare a difendere il quadro della legalità. Ma soprattutto ciò significa che si è invertita la direzione della comunicazione: essa non va più dai magistrati verso la pubblica opinione, come avveniva prevalentemente nel passato; essa va, piuttosto, al contrario, dalla pubblica opinione verso i magistrati. Se nel passato erano i magistrati che talora tendevano ad accattivarsi la pubblica opinione, per trarne consenso rispetto ad alcune iniziative giudiziarie, oggi è la pubblica opinione che si rivolge a magistrati in genere piuttosto ritrosi e poco "spettacolari". In ciò sta forse l'aspetto di maggiore novità relativo alla comunicazione che si è instaurata tra giudici e pubblica opinione. Si è spenta, insomma, o almeno attenuata la rilevanza delle "iniziative" giudiziarie. Le indagini dei giudici e gli atti ad esse conseguenti non vengono più visti come il prodotto di una inventiva di alcuni giudici, biasimata da alcuni ed applaudita da altri, ma come l'esplicazione di un dovere istituzionale ed, ancor più, come una necessaria difesa della società dall'intreccio dei poteri affaristici ed illegali. Non vi sono più "sortite giudiziarie" che sorprendono e dividono l'opinione pubblica tra fautori e critici; vi è piuttosto l'attesa sociale che le indagini vi siano, si moltiplichino e liberino la società italiana dal peso delle illegalità, restituendola ad una condizione di trasparenza e di "normalità". 10

Forzando un po' i termini del discorso, si potrebbe persino scorgere l'abbozzo di una virtù carismatica scoperta nei giudici. Com'è noto, nella trattazione weberiana, il detentore di potere carismatico si avvale della diffusa credenza nelle sue virtù o abilità straordinarie. In tale contesto, tende ad instaurarsi un rapporto diretto tra il capo ed i suòi aderenti, che gli conferiscono un potere assoluto, poco vincolato da regole. Beninteso, i giudici non sono dei "capi" politici, né si atteggiano come tali, e si limitano ad esercitare solo quel potere di controllo di legalità che è proprio del loro ruolo istituzionale. Ma non è difficile scorgere nella pubblica opinione la tendenza ad attribuire loro un ruolo diverso e più esteso rispetto a quello tradizionale: il consenso finisce così per comportare una delega in bianco ai giudici e persino la concessione a procedere senza troppe cautele di carattere formale. Ad esempio, in maniera significativa, nella pubblica opinione sono pressoché assenti preoccupazioni di natura garantistica relative alla conduzione delle fasi istruttorie. Eppure tali preoccupazioni relative all'esercizio del potere giudiziario ed ai suoi possibili attentati verso la libertà dei singoli erano presenti fino a non molto tempo fa e portarono al referendum del 1989. Oggi sono rimasti quasi solo gli appartenenti al ceto forense a farsi portatori ditali preoccupazioni, ovviamente insieme a molti esponenti (ma non a tutti) di quel mondo politico che viene inquisito e messo sotto accusa.


Il fatto che lo stesso ceto politico sia oggi diviso sul ruolo dei magistrati in materia di controllo della legalità nella sfera dell'amministrazione non riproduce solo la divisione tra politici onesti e politici disonesti, ma è influenzato in maniera decisiva dal consenso popolare verso i giudici: tutti i politici che possono permetterselo, in quanto non sono toccati da indagini e avvisi di garanzia, pur essendo stati spesso non troppo distanti dal sistema dell'affarismo politico, sposano la carta del sì alle indagini giudiziarie anche perché si rendono conto della forza del consenso popolare verso tali indagini. In altri termini, proviene dal basso, dall'atteggiamento di diffuso consenso verso le iniziative giudiziarie, un incentivo per i politici a prendere posizione su questo tema, dividendosi tra loro. Tutto quanto si è detto sulla rilevanza del consenso tributato ai giudici in questa fase può indurre a teorizzare sul significato della comunicazione politica tra opinione pubblica e magistrati, a partire da due aspetti specialmente. In primo luogo si può ritenere che quando l'istituzione giudiziaria si trova ad intervenire in vicende che hanno una elevata valenza politica, in quanto incidono su materie vitali per l'organizzazione collettiva, il consenso può intervenire come una variabile che agevola lo svolgimento del compito istituzionale dei magistrati, sottraendoli al sospetto o all'insidia di voler svolgere funzioni improprie o di arrogarsi poteri eccessivi. Ciò fa sicuramente parte di

un processo che ha visto crescere l'esposizione della magistratura alle dinamiche politiche, ma è la prima volta in Italia che questa esposizione della magistratura avviene provocando unità di giudizio piuttosto che divisioni all'interno della società.. In secondQ luogo, l'at.teggiamento di diffusò consenso verso la magistratura rivela un altro risvolto di grande interesse: la pubblica opinione, rivolgendo una domanda di rafforzato controllo di legalità ai magistrati, indirettamente rivaluta un aspetto di divisione dei poteri a vantaggio della magistratura, vedendo in essa un necessario controbilanciamento a possibili eccessi del potere politico. Come si sa, nei sistemi costituzionali di cultura giuridica continentale, ha tradizionalmente operato un sistema di divisione di poteri sbilanciato a favore delle istituzioni politiche, che vedeva la magistratura in posizione "ancillare". Tuttavia, negli ultimi decenni, in Italia specialmente, la magistratura è apparsa più volte nella posizione di un potere indipendente e capace persino di contrapposizioni forti rispetto agli altri poteri politici. Varie condizioni hanno reso possibile in Italia questo processo, come l'automatizzazione della carriera di magistrato attuata negli anni Settanta, o la collocazione del pubblico ministero nella carriera di magistrato, con tutte le garanzie di indipendenza di cui essa gode, nonché l'esistenza di un Consiglio Superiore della Magistratura, come orga11


no garante di tale indipendenza. Grazie a queste valvole di sicurezza, nacquero atteggiamenti e teorie di forte indipendenza del giudiziario: si pensi alle teorizzazioni della magistratura come "contropotere" o della "supplenza giudiziaria", che contenevano una forte carica critica e talvolta addirittura aggressiva nei confronti dei poteri politici. Questi fenomeni, tuttavia, pur richiamando a tratti una dinamica istituzionale ispirata alla divisione ed al bilanciamento tra i poteri, avevano una preminente connotazione conflittuale. E vero che alla divisione tra i poteri appartiene la possibilità di aspetti conflittuali, ma occorre che questa possibilità sia un aspetto accessorio di quella, piuttosto che un aspetto a sé stante. A volte, invece, si aveva l'impressione che il conflitto fosse preminente, un tratto a s, piuttosto che l'espressione di una consolidata divisione tra i poteri: le iniziative clamorose e nuove di alcuni magistrati sembravano piuttosto le strade attraverso cui simbolizzare una cesura con il passato e raggiungere una nuova collocazione istituzionale, che non la testimonianza di una consolidata indipendenza rispetto agli altri poteri. Nella fenomenologia attuale, invece, gli aspetti conflittuali si sono notevolmente attenuati: le indagini giudiziarie non appaiono più caratterizzate da un intento di contrapposizione ai poteri inquisiti; sono i poteri inquisiti e messi sotto accusa, semmai, a reagire lamentando un'aggressione o un "complotto" nei loro confronti. 12

Attraverso il consenso espresso verso i giudici, insomma, sembra emergere una istituzionalizzazjone della divisione tra i poteri, un aspetto non secondario della quale consiste nell'accettazione dell'idea che i magistrati abbiano il potere, in ragione del rispetto della legalità, di controllare i comportamenti di politici ed amministratori. Un ultimo aspetto va rilevato. Nonostante l'accresciuto consenso sociale verso i giudici, non si ha l'impressione di assistere ad uno spostamento di collocazione della magistratura dallo stato verso la società; a ben ricordare, anche questo tratto si era profilato negli anni Settanta, attraverso la riscoperta della magistratura come potere "dalla parte della società", quasi in contrapposizione con la tradizionale immagine tutta statale. Niente di simile sembra profilarsi oggi: la magistratura, anche grazie al generalizzato consenso di cui gode, appare fermamente caratterizzata come un'istituzione statale e super partes che, anche se talora può dare l'impressione di ripercorrere alcune strade del passato, è invece più vicina ad un'immagine istituzionale che, almeno sotto alcuni profili, appare di tipo tradizionale.

IL PARADOSSO

Di PIETRO

Gran parte dei nuovi aspetti che caratterizzano la collocazione della magistratura trovano una eccezionale cartina di tornasole nel giudice Di Pietro, assurto in un certo senso a figura sim-


bolica del prestigio e della credibilità di cui godono oggi i magistrati. Neanche Falcone aveva mai goduto di un plauso così esteso e generalizzato: pur avendo egli raggiunto elevati successi nell'impostazione delle indagini giudiziarie contro le organizzazioni mafiose, è stata soio l'atroce morte a consegnarlo definitivamente ad un'immagine di giudice-simbolo della lotta contro la mafia. Ciò in parte è dovuto alla maggiore territorialità che caratterizza le questioni di mafia, e forse, ancor più, ad una serie di polemiche che hanno avvelenato l'ambiente giudiziario palermitano e, successivamente, l'istituzione della superprocura romana contro la mafia. Ma sicuramente ci sono altre ragioni che possono aiutare a capire come mai una persona di eccezionali capacità professionali e di specchiato rigore come Falcone non abbia in vita mai raggiunto il grandioso consenso ottenuto da Di Pietro. Sicuramente, la risposta può in parte essere rinvenuta nel diverso grado di consenso sociale tributato alla magistratura nei due momenti storici in cui questi due giudici sono collocati. La popolarità di Di Pietro, in altri termini, non va considerata indipendentemente dal contesto sociale in cui è maturata. Soprattutto due aspetti vanno considerati. Innanzitutto il forte bisogno di legalità avvertito nella società; è grazie a tale bisogno che i magistrati sono diventati un referente importante per l'opinione pubblica, come forse non lo sono mai stati in precedenza.

Inoltre, non va trascurata l'importanza del particolare settore per cui Di Pietro ha conquistato tale popolarità: corruzione e concussione sono materie che toccano da vicino ed in • profondità la pubblica sensibilità, perché prgiudicano i tratti più tipici di una organizzazione politica moderna che si presume basata sull'universalismo e sull'assenza dei favoritismi e non su una logica di scambio. Consideriamo adesso la figura Di Pietro. Fare i conti con questa figura può servire ad esaminare una questione cruciale, attinente al ruolo che giocano oggi le valenze istituzionali o invece le singole figure di giudici nell'immagine della magistratura: in altri termini, ci si può chiedere se tale immagine sia oggi consegnata, come a tratti sembrerebbe, al rilievo giocato da alcuni giudici, che hanno guadagnato un'eccezionale ondata di simpatia, come appunto Di Pietro, o non piuttostò al rafforzamento di alcune valenze istituzionali che spengono il rilievo giocato da singole personalità o dal protagonismo di alcuni magistrati. Proprio l'eccezionale ondata di simpatia popolare che circonda il giudice Di Pietro potrebbe smentire la precedente affermazione, secondo cui la magistratura sta riguadagIando un'immagine istituzionale di tipo tradizionale: potrebbe invece confermare l'idea che anche in questi casi giudiziari il rilievo della persona del giudice sia considerevole o addirittura eccezionale. Ma il caso Di Pietro va osservato più in 13


profondità. Soprattutto va prestata attenzione ad un aspetto paradossale che sembra caratterizzano e che si può così riassumere: in un certo senso Di Pietro piace, ed è dunque diventato un personaggio, proprio perché n'òn è un personaggio. Se si esaminano le caratteristiche di questo giudice che vengono prevalentemente apprezzate, si può raggrupparle in due tipi: da una parte ie doti professionali, dall'altra le doti personali. Sotto il profilo professionale, piace soprattutto la straordinaria capacità investigativa di questo giudice, che risponde al bisogno di "fare luce" nell'ingorgo di corruttele e affarismi che si è addensato sul nostro paese. E da notare come questa abilità, che è propria più del poliziotto che del giudice, se nel caso specifico di Di Pietro riproduce un iter professionale che lo ha visto appunto passare dal ruolo di poliziotto a quello di magistrato, più in generale risponde bene ad una nuova aspettativa sociale: quella di magistrati capaci di dissolvere le ombre del suddetto intreccio politico-affaristico e delle varie illegalità, specie di quelle a carattere organizzato. Sotto il profilo personale, vengono apprezzati soprattutto quei tratti di serietà basati sul riserbo, sulla poca appariscenza e sulla forte indipendenza rispetto agli schieramenti politici: piace il fatto che egli non dialoghi né polemizzi con i politici, che non risponda agli attacchi, che sia poco caratterizzato politicamente e distaccato rispetto agli schieramenti della magistratura orga14

nizzata. Sono stati persino apprezzati alcuni tratti tipici della civiltà contadina che richiama Di Pietro con la sua timidezza ed il suo accento abruzzese. Come si vede, si tratta di virtù antiche, che non sembravano più tipiche della magistratura degli ultimi anni. Così il nostro eroe è in realtà un non eroe, un giudice serio e determinato, che si qualifica più in virtù di qualità professionali, che per tratti personali eccezionali. La sua straordinarietà sta, in altri termini, proprio nella sua ordinarietà. Un altro rilievo è utile. Il giudice Di Pietro, così come altri giudici impegnati in vicende di repressione di illegalità organizzate, ha tra le mani inchieste e processi che si caratterizzano per una dimensione collettiva. Come si è detto, specialmente la vicenda nota come "tangentopoli" identifica, più che un preciso caso giudiziario limitato ad un numero ben controllabile di persone, una città ideale che collega tutti (o buona parte) dei traffici politico-affaristici del nostro paese. Le dimensioni estese e, in un certo senso, illimitate ditali indagini comportano un doppio e contraddittorio riflesso sul peso che hanno le componenti per sonalistiche dei singoli giudici. Per un verso, infatti, tali giudici si trovano ad amministrare vicende estremamente complesse e delicate e a detenere nelle proprie mani un potere enorme, derivante anche dai nomi eccellenti che popolano tali vicende. Ciò porta mcvitabilmente ad accendere i fari su tali


giudici, presentandoli come personaggi investiti di un grande potere e conoscitori di trame e traffici occulti estremamente rilevanti per tutta la vita associata. Di qui la notorietà e la ricorrenza di nomi e facce sui vari mezzi di comunicazione di massa. Basterebbe pensare a quanti libri è possibile scorgere sugli scaffali delle librerie dedicati a giudici, specie impegnati in vicende di corruzione. Per un altro verso, la dimensione collettiva delle indagini si riverbera sugli stessi giudici, richiedendo l'organizzazione di veri e propri p001 investigativi che, oltre a mettere insieme vari magistrati appartenenti alla stessa procura, portano a ricorrenti intersezioni con magistrati di procure diverse. A causa di ciò, le vàlenze personalistiche dei singoli giudici sono destinate a ridursi: non si tratta di vicende giudiziarie col'legabili a singoli magistrati, ma piuttosto frutto di un lavoro di i'ntelligence congiunto e coordinato all'interno delle varie procure. Significativo, in proposito, è il ruolo giocato dal procuratore Borrelli nella vicenda milanese: è soprattutto attraverso la sua voce che passa il rapporto con i giornali ed i mass media, come a simbolizzare un'unità di intenti di tutta la procura; i sostituti, invece, pur avendo volti e nomi noti, sono meno presenti sulla scena pubblica con interventi, risposte o commenti rivolti alla pubblica opinione. Si potrebbe dire che anche attraverso semplici disposizioni come queste si contribuisce a rafforzare la valenza isti-

tuzionale dell'operato dei magistrati ed a ridurre il peso di protagonismi o sortite personali. Ciò significa, per riprendere i termini di Montesquieu, contribuire a rendere "nullo" il potere giudiziario, «così terribile tra gli uomini», in modo che si abbia a temere «la magistratura e non i magistrati» 3 .

LA MAGISTRATURA TRA RITORNI AL PASSATO E NOVITÀ

Si può ora cercare di fare il punto sulle novità ed i ritorni al passato che segnano la magistratura in questo periodo. Ci siamo finora occupati prevalentemente di quelle tendenze che segnano un ritorno a tratti tipici della magistratura tradizionale. Sarebbe tuttavia un errore grossolano credere che ci si trovi di fronte ad una pura e semplice riproposizione di alcuni tratti tradizionali. Occorre invece considerare anche gli aspetti di novità che caratterizzano la situazione attuale, anche perché, come si cercherà di mettere in rilievo, esiste una forte connessione tra essi ed il riaffiorare' di alcuni tratti tradizionali. L'idea che vada riaffiorando una dimensione istituzionale della magistratura e che si vadano attenuando protagonismi e personalismi che avevano prevalso negli ultimi anni potrebbe sembrare poco convincente 'in un periodo in cui alcuni magistrati hanno conquistato un posto eminente sulla scena pubblica italiana e sono protago15


nisti come non mai nella pubblicistica italiana. Ma, come si è cercato di spiegare, i due aspetti non sono necessariamente in contraddizione: oggi i magistrati più noti vengono visti come esponenti di un complessivo potere giudiziario che svolge funzioni pubbliche di primaria importanza; lo stesso Di Pietro appare come l'avanguardia di un piccolo ma consistente manipolo di magistrati intenti a segnare una svolta in tema di legalità nel nostro paese. E l'opinione pubblica, pur avendo l'attenzione puntata su alcuni magistrati di spicco, nutre una rinnovata fiducia sul ruolo che la magistratura nel suo complesso può giocare per una rinascita della politica in Italia. Si è già parlato diffusamente del "consenso" verso i magistrati. Si è anche detto che il consenso non è solo verso alcuni magistrati, ma, attraverso loro, verso le funzioni stesse della magistratura, e specie verso un compito di controllo e bilanciamento del potere politico a cui essa può assolvere. In altri termini, le vicende di "Tangentopoli" sono state l'occasione per una riscoperta del ruolo della magistratura: non tanto per una pura e semplice riscoperta del ruolo tradizionale, quanto dei possibili adattamenti di tale ruolo ad un contesto diverso. Va in proposito richiamata la situazione di eccezionalità in cui questo nuovo ruolo della magistratura ha avuto l'occasione di palesarsi. Essa consiste in una crisi del sistema dei partiti che ha inquinato molte istituzioni politiche, 16

rendendole permeabili alle multiformi voci degli interessi privati. Si tratta dunque di una crisi del carattere "statale" e "pubblico" di molte istituzioni politiche, specie di livello locale. Di fronte ad una ridondanza di spinte private ed affaristiche che invadono la sfera pubblica, la magistratura appare come un potere capace, attraverso il controllo di legalità, di assicurare ed imporre un recupero della dimensione pubblica delle istituzioni. Si è in precedenza parlato di alcuni aspetti positivi che ha la riscoperta del ruolo della magistratura per favorire la rinascita del sistema politico-amministrativo. Non sarà superfluo a questo punto segnalare alcuni possibili pericoli che possono derivare da una situazione di elevate aspettative verso i giudici e, ancor più, di "investitura popolare" nei loro confronti. Tali rischi sono soprattutto due e riguardano rispettivamente l'area della politica e l'area della giurisdizione. Esaminiamoli brevemente. Per quanto attiene all'area della politica, il rischio è quello che si sviluppi oltre misura un'ottica politica per così dire "a posteriori", ossia di tipo punitivo, invece che programmatorio. Mentre alla politica, infatti, conviene la scelta e la programmazione dei fini che si intendono perseguire in una data società, alla giurisdizione penale compete solo il limitato compito di individuare e colpire illegalità che si sono già compiute. Alla magistratura tocca così un compito terapeutico necessariamente limitato


nel tempo; tocca alla legislazione in tema di corruzione e ad un ridisegno dell'assetto della burocrazia inventare nuove ed appropriate difese contro i vizi emersi con tanta virulenza. Non è possibile, invece, pensare ad un sistema istituzionale basato su una diffusa presenza del controllo giurisdizionale; non solo perché la giurisdizione ed il controllo penale non sono in grado di controllare in tutta la loro estensione i fenomeni politici, ma anche perché, quando essi eccedono le proporzioni fisiologiche, segnano comunque una situazione patologica. Per quanto attiene alla sfera della giurisdizione, il rischio è che, in virtù del diffuso consenso, i giudici si sentano "investiti" della missione di perseguire tutte le illegalità. Si svilupperebbe allora uno "spirito di crociata", che sarebbe nocivo per una serena amministrazione della giustizia. Due aspetti dovrebbero essere oggetto di particolare attenzione. Vi è una contraddizione tra il bisogno della funzione del pubblico ministero,

che è particolarmente avvertito in questo periodo della storia italiana, e che è sostenuto da un forte appoggio popolare, e lo spirito della funzione giudiziaria, che è per sua natura "terzo". Occorre evitare che l'immagine del giudiziario resti troppo schiacciata sul ruolo requirente, che pure in questo momento è così attivo e necessario. Occorre peraltro controbilanciare l'accresciuto peso politico del potere giudiziario con meccanismi, per così dire, di "passivizzazione" dello stesso. Come già .affermava Tocqùeville riferendosi al potere giudiziario americano, di cui pure riconosceva l'ampio ruolo svolto nella vita politica: «per natura il potere giudiziario è privo di azione; bisogna metterlo in moto perché si muova. Gli si denuncia un crimine, ed esso punisce il colpevole; lo si chiama a riparare un'ingiustizia, ed esso la ripara; gli si sottopone un attò ed esso l'interpreta; ma non va da solo a perseguire i criminali, a trovare l'ingiustizià, a esaminare i fatti».

Note Cfr. N. LUHMANN, Stato di diritto e sistema sociale, Guida, Napoli 1978, pp. 56-59. 2 In seguito verrà spesso usato il termine "corruzione" in un senso generico, per riferirsi sia alla fattispecie giuridica della corruzione, che a quella della con-

cussione. Cfr. C. MONTESQWEU, Lo spirito delle leggi, Libro )U, VI, Rizzoli, Milano 1989, vol. I, p. 311. Cfr. A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, UTET, Torino 1981, p. 123.

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Intermediari bancari e finanziari, istituzioni di vigilanza e riciclaggio* di Donato Masciandaro

Questo saggio presenta uno schema di analisi economica del fenomeno criminale del riciclaggio posto in atto da intermediari bancari e finanziari. Le indicazioni che emergono consentono alcune riflessioni sulla recente regolamentazione italiana, in termini di conseguenze sia per le banche e gli intermediari finanziari non bancari, che per l'istituzione di vigilanza Banca d'Italia, Uic. La struttura del saggio è la seguente. Nel primo paragrafo, dopo aver definito il concetto di riciclaggio finanziario, adottando l'approccio di analisi economica del crimine, per cui quest'ultimo rappresenta il risultato delle interazioni tra soggetti criminali, autorità pubbliche e forze dell'ordine, viene messo in luce come, considerando il riciclaggio finanziario, la situazione di distribuzione asimmetrica ed incompleta dell'informazione nell'industria finanziaria ponga. in primo piano la figura dell'intermediario. L'intermediario può avere una funzione di agente delle autorità pubbliche nella segnalazione ed individuazione del reato, ed essere o meno caratterizzato da un comportamento criminale. Il problema della regolamentazione sarà 18

allora duplice: disegnare una struttura degli incentivi che induca l'intermediario agente, di cui è incerta la natura, ad avere una condotta efficace; scoraggiare l'emergere dell'intermediario criminale. La definizione della regolamentazione antiriciclaggio dovrà però anche tener conto di intervenire in una industria, quella finanziaria, in cui, proprio per la presenza delle asimmetrie informative, l'attività economica è soggetta ad una specifica regolamentazione, con relative istituzioni di controllo. Il secondo paragrafo analizza, utilizzando l'approccio introdotto dalla nuova teoria della politica economica, le conseguenze sulla efficacia della normativa antiriciclaggio dell'esistenza, per gli intermediari finanziari e le istituzioni di controllo, di definiti sistemi di incentivi e di vincoli, rappresentati dalla generale regolamentazione finanziaria. Per quel che riguarda gli intermediari, il problema centrale, che possiamo definire come quello della accettabilità, è quello di evitare che l'influenza esercitata dalla regolamentazione antiriciclaggio sul sistema degli incentivi degli intermediari sia controproducente in termini di efficacia della regolamenta-


zione stessa. La accettabilità deve essere garantita sia a livello sistemico, che di singolo intermediario finanziario. Per quel che concerne le istituzioni di controllo, concentrandosi sul caso di una singola istituzione dominante nella vigilanza finanziaria, solo per semplicità definita banca centrale, si dimostra l'opportunità di un suo coinvolgimento nella regolamentazione antiriciclag gio, vuoi per i vantaggi informativi, vuoi per la complementarietà con l'azione generale di vigilanza, purché la stessa istituzione sia sufficientemente motivata e garantita da un sistema di accountability. Il terzo paragrafo passa ad analizzare il ruolo centrale assunto progressivamente ùella evoluzione della normativa italiana da un lato degli intermediari bancari e finanziari, sia come agenti delle pubbliche autorità che come possibili soggetti criminali, dall'altro della Banca d'Italia - Uic. Nel quarto ed ultimo paragrafo si avanzano, alla luce della riflessione teorica e dell'analisi istituzionale, alcune riflessioni sulla regolamentazione antiriciclaggio attualmente in vigore in Italia.

ANALISI ECONOMICA DEI MERCATI ILLEGALI E RICICLAGGIO FINANZIARIO

L'analisi economica del fenomeno criminale rappresentato dal riciclaggio operato tramite il sistema finanziario richiede innanzitutto una sua precisa definizione.

La definizione di riciclaggio finanziario introdotta in questo lavoro presenta tre caratteristiche: 1) l'attività di riciclaggio riguarda proventi di azioni criminali genericamente intese; 2) viene posta in atto utilizzando, passivamente (interniediario agente) o attivamente (intermediario criminale), uno o più intermediari finanziari; 3) lo scopo primario di tale attività è quello dell'occultamento della origine illecita di tali proventi. La prima caratteristica intende evidenziare l'autonomia del riciclaggio in quanto attività economica criminale, prescindendo cioè dalla specifica azione criminosa che produce il flusso di proventi. La seconda caratteristica mira invece ad isolare l'attività di riciclaggio in cui il sistema finanziario svolge la funzione di scatola di trasmissione dalle altre possibili forme di riciclaggio. La terza caratteristica individua, quale funzione essenziale dell'attività di riciclaggio finanziario, quella di trasformazione di capitali illeciti in capitali leciti. E ovvio che il soggetto criminale può essere interessato ad introdurre capitali nel sistema finanziario anche per motivi diversi, quale l'investimento in un settore particolarmente remunerativo. Considereremo tali motivazioni come accessorie rispetto a quella primaria di occultamento. Ipotizziamo cioè che l'attività di riciclaggio finanziario abbia una sua funzione economica, anche in un sistema in cui il tasso di remunerazione in tutti i settori produttivi, reali e finanziari, sia uguale. Infine manterremo, nel corso della trat19


tazione, l'ipotesi di sistema finanziario chiuso, tenendo conto che, considerando in un passo successivo l'apertura dell'economia in esame, nessuna delle questioni considerate perde di rilevanza, aggiungendosi solo un ulteriore elemento di condizionamento, rappresentato dal problema del coordinamento delle legislazioni nazionali, in presenza di mercati finanziari sempre più integrati rispetto alle rispettive regolamentazioni. Il riciclaggio finanziario svolge una funzione essenziale nella crescita di tutti gli altri mercati illegali, in quanto la separazione di fondi liquidi dalla loro matrice illecita ne consente il reinvestimento, altrimenti impossibile. Il riciclaggio finanziario svolge cioè in aggregato un ruolo di moltiplicatore del volume dell'attività afferente a soggetti criminali. Il fenomeno aggregato trova la sua spiegazione ultima però nei comportamenti microeconomici degli intermediari. L'analisi microeconomica del fenomeno del riciclaggio finanziario non può che partire dalla teoria economica della criminalità. Essa tende a considerare ogni attività illecita quale risultato del comportamento di una pluralità di agenti, tra cui assumono rilevanza centrale: il soggetto criminale, la cui scelta di porre in atto l'azione illecita dipenderà da una analisi costi-benefici della stessa; l'autorità pubblica, che deve determinare le caratteristiche delle sanzioni; gli agenti dell'autorità pubblica, che devono definire l'entità dello sfor20

zo nell'attività di individuazione e repressione dell'attività illecita. In linea generale, le scelte di un soggetto economico di impiegare le sue risorse in attività illecite, divenendo quindi soggetto criminale, dipenderanno, dati i possibili ritorni, da due grandezze: la probabilità di essere incriminato e la pena che subirà nel caso sia riconosciuto colpevole. Per l'attività di riciclaggio tout court, il soggetto economico in possesso di liquidità proveniente da attività illecita deciderà se porre in atto, in un dato sistema economico, un ulteriore atto illecito, il riciclaggio, valutando appunto la probabilità di essere scoperto e la relativa pena, e confrontandola con i guadagni attesi, al netto dei costi economici di tale attività di riciclaggio. Qui interviene il ruolo della autorità pubblica. Le due grandezze cruciali per il soggetto criminale possono essere influenzate proprio dalla autorità di controllo: la prima, la probabilità di scoperta del crimine, aumentando l'intensità del controllo motivando opportunamente le forze di polizia; la seconda, l'entità della pena, inasprendo le sanzioni. Possiamo pensare, almeno in prima approssimazione, che l'autorità pubblica si comporti da "dittatore benevolente", per cui essa utilizza una funzione del benessere sociale. Poiche' l'attività di riciclaggio, al pari di ogni altro atto illecito, causa dei danni alla società, essa sceglierà livelli ottimi delle pene e delle. probabilità di incriminazione che rendano minimi i costi sociali della attività


illegale. Quando però si considera il reato di riciclaggio tramite il sistema finanziario, l'applicazione dell'approccio classico al comportamento criminale non può non tener conto della peculiarità insita in tale crimine. La peculiarità del riciclaggio finanziario è data dal fatto che esso si svolge tramite transazioni e mercati dominati da forme diverse di asimmetria informativa. Per cui l'efficacia della azione pubblica di regolamentazione, dipenderà dai comportamenti degli agenti operanti sui mercati finanziari. L'ipotesi centrale è che, proprio per la natura del crimine, gli intermediari possano svolgere una duplice funzione: di soggetti criminali; di agenti, a cui l'autorità di controllo delega principalmente l'attività di individuazione della fattispecie criminosa. Questa caratteristica differenzia il riciclaggio finanziario dalle forme di crimine analizzato dall'approccio classico, in cui l'autorità pubblica delega principalmente l'azione di controllo alle forze di polizia. Anche nella repressione del riciclaggio finanziario esistono funzioni non marginali per le forze di polizia come agenti del governo. Ma la natura del rapporto principale-agente che si instaura tra autorità pubblica e forze dell'ordine, con i relativi problemi di delega, non presenta aspetti peculiari che non siano stati affrontati dall'approcciò classico. Su questo punto possiamo anche distinguere uno sforzo di individuazione "specifico" del reato di riciclaggio finanziario (speciJìc enforcement), delega-

to principalmente agli intermediari finanziari, da uno sforzo "generale" (generai enforcement) ed uniforme di individuazione e prevenzione delle varie tipologie di reato, delegato alle forze di polizia. Occorre perciò concentrare l'attenzione sul ruolo degli intermediari finanziari. Partiamo dalla constatazione che la fattispecie illecita del riciclaggio finanziario può essere messa in atto in linea teorica con eguale efficacia sia utilizzando un intermediario bancario che un intermediario finanziario. Perciò, pur non dimenticando il dibattito teorico, peraltro non risolto, sulla "specificità" della banca, considereremo generale una impresa la cui attività è di natura finanziaria. Utilizzeremo perciò la categoria degli intermediari finanziari, comprendendo in essa sia gli intermediari bancari che quelli non bancari, in quanto, al di là di specifiche configurazioni istituzionali o temporali, entrambi i soggetti economici possono appunto essere funzionali alla attività di riciclaggio. Difatti il soggetto criminale può far assumere al riciclaggio, messo in atto attraverso intermediazione finanziaria, due diverse fisionomie che possiamo così definire: ri ci ciaggi o finanziario consapevole, utilizzando un intermediario finanziario anch'esso soggetto crimina1, la cui funzione-obiettivo è cioè disegnata precipuamente per l'attivjtà illecita; riciciaggio finanziario inconsapevole, missimizzando il numero di transazioni attraverso intermediari finanziari 21


non criminali, le cui funzioni-obiettivo sono invece dedicate alla attività finanziaria legale. Diviene così evidente la centralità per l'analisi teorica della figura dell'intermediario. Il suo comportamento può essere rispetto all'attività illecita di, riciclaggio finanziario di duplice natura. L'intermediario può semplicemente avere una funzione, passiva rispetto al riciclaggio, di individuazione e segnalazione della fattispecie criminosa, per cui il suo comportamento sarà quello di un agente che deve adempiere ad un certo compito assegnatogli dall'autorità pubblica, compiendo un certo sforzo. Avremo cioè un intermediario finanziario agente. Tra autorità di controllo, agente e soggetto criminale vi è una situazione classica di asimmetria informativa. Tale funzione viene svolta dall'intermediario quando il soggetto criminale mette in atto la tecnica che abbiamo denominato di "riciclaggio inconsapevole". Il problema della regolamentazione sarà allora quello di disegnare una struttura di incentivi che induca l'agente ad una condotta efficace rispetto al suo compito. Ma in linea generale non possiamo pensare di conoscere la natura dell'intermediario a cui affidiamo la funzione di agente: esso può essere non criminale o criminale. Difatti l'intermediario può avere anche un comportamento attivo nell'attività di riciclaggio. Può, cioè, essere un intermediario finanziario criminale. Tale funzione viene svolta quando il soggetto criminale mette in atto la 22

tecnica che abbiamo denominato di "riciclaggio consapevole". Gli intermediari criminali sono agenti razionali che possono porre in atto una scelta illegale e rimanere impuniti; ovvero essere scoperti e subire una pena. La scelta sarà compiuta in termini di utilità attesa, secondo l'approccio classico al comportamento criminale. Di nuovo la decisione di un intermediario di impiegare le sue risorse in attività illecite, divenendo quindi soggetto criminale, dipenderà da due grandezze: la probabilità di essere incriminato per riciclaggio e la pena che subirà nel caso sia riconosciuto colpevole di tale reato, comparata con i guadagni netti di tale attività. In questo secondo caso la regolamentazione deve rispondere ad una diversa finalità: scoraggiare l'emergere di un intermediario finanziario criminale. Le due possibili configurazioni dell'intermediario finanziario, onesto e criminale, sono da tenere, almeno in prima approssimazione, distinte, in quanto diverse sono le ipotesi di partenza riguardo alle rispettive strutture degli incentivi, esogene rispetto alla regolamentazione. Se allora come postulato di partenza si può assumere la centralitì delle figure dell'intermediario agente e dell'intermediario criminale, ogni regolamentazione antiriciclaggio finanziario dovrà rispondere a due esigenze diverse: efficacia della delega agli intermediari, di cui non si conosce perfettamente la natura, delle funzioni di identificazione e segnalazione; deterrenza contro


l'emergere di figure di intermediari fi- cui il prezzo non racchiude tutte le innanziari criminali. formazioni necessarie: l'utente non Ma la peculiarità della regolamentazio- può difatti conoscere ex-ante, e talvolta ne antiriciclaggio nel settore finanzia- anche ex-post, la qualità del servizio firio, causata dalle asimmetrie informati- nanziario offerto. L'asimmetria inforve, non si ferma al ruolo svolto dagli in- mativa tra domanda ed offerta del servitermediari, nella loro possibile duplice zio finanziario potrebbe essere ridotta funzione-obiettivo. La regolamentazio- attraverso continue interazioni tra i ne antiriciclaggio interviene in una in- singoli agenti, con la progressiva elimidustria, quella finanziaria, in cui, pro- nazione degli intermediari non affidaprio per la presenza delle asimmetrie bili. Questo meccanismo può però aveinformative, all'attività economica è re degli effetti sulla stabilità del sistema, connaturata una specifica attività di re- con costi economici e sociali che pogolamentazione. I connotati della rego- trebbero essere non sopportabili, per lamentazione dipendono dalle caratte- cui emerge la necessità di un intervento ristiche del rapporto tra le specifiche regolamentare. istituzioni di controllo e gli intermedia- La regolamentazione finanziaria si ri controllati. preoccupa quindi di tutelare la stabilitì, L'individuazione degli elementi costi- data appunto la fisiologica instabilità tutivi di una teoria della regolamenta- dei mercati finanziari rispetto ai settori zione del riciclaggio finanziario deve reali dell'economia, tenendo però conquindi proseguire con la analisi del ruo- to anche degli effetti collaterali sulla ef lo e della interazione tra autorità di vi- ficienza della intermediazione. gilanza ed intermediari controllati sui Nell'approccio tradizionale l'offerta di mercati finanziari. regolamentazione è una variabile essenzialmente esogena, prodotta da un singolo policy maker che cerca di perseguiISTITUZIONE DI CONTROLLO, INTERMEDIARI re alcuni obiettivi-macro socialmente BANCARI E FINANZIARI, ATTIVITÀ DI RICIottimali quali la stabilità e l'efficienza, CLAGGIO data la fisionomia delle istituzioni e dei mercati regolamentati. Se le finalità delNel sistema finanziario l'esigenza di in- la regolamentazione degli intermediari dividuare forme di regolamentazione, finanziari possono essere considerate nonché istituzioni di controllo di esse quelle di stabilità ed efficienza, non riresponsabili, nasce essenzialmente dalla sulta però altrettanto convincente l'igià richiamata questione delle asimme- potesi tradizionale di esogeneità della trie informative. Nell'attività di offerta regolamentazione. di un servizio finanziario si verifica una A parere di chi scrive occorre proporre tipica situazione di market failure, per per la teoria della regolamentazione fi23


nanziaria le riflessioni recentemente avanzate, sul piano metodologico, nell'area della teoria della politica economica. L'idea di fondo alternativa è che la regolamentazione finanziaria sia una variabile essenzialmente endogena, frutto della interazione tra le istituzioni di regolamentazione e gli intermediari regolamentati, ciascuno mosso da un sistema di incentivi e obiettivi. Tali sistemi di incentivi non sono a loro volta indipendenti dalla fisionomia delle regole, istituzionali e/o intertemporali, attraverso cui istituzioni ed intermediari interagiscono. L'interazione tra istituzioni ed intermediari finanziari diviene in definitiva il sistema di regole su cui intervengono le altre forme specifiche di intervento statale di regolazione, quale appunto quella legata alla questione del riciclaggio finanziario. La regolamentazione antiriciclaggio finanziario interverrà allora sul sistema preesistente di relazioni tra autorità di vigilanza e intermediari finanziari, con effetti sia sugli intermediari controllati che sul soggetto controllante.

GLI EFFETTI DELLA REGOLAMENTAZIONE ANTIRICICLAGGIO FINANZIARIO SUGLI INTERMEDIARI

Per quel che riguarda gli intermediari controllati, gli effetti principali dell'esistenza di una normativa antiriciclaggio finanziario vanno valutati sulla base dell'effetto sulla loro condotta, riassu24

mibili in termini di sua accettabi1itì da parte degli stessi intermediari. L'ipotesi di partenza è che ogni forma di regolamentazione tende a modificare la struttura degli incentivi, e quindi della condotta, degli intermediari. L'efficacia della regolamentazione dipende dalla capacità di influenzare nella giusta direzione le scelte degli intermediari. Con il termine di accettabilità si può indicare il problema centrale della regolamentazione finanziaria, per cui occorre evitare, influenzando la struttura degli incentivi degli intermediari, di produrre in essi comportamenti contrari in termini di efficacia della regolamentazione stessa. La possibilità che si producano degli effetti controproducenti della regolamentazione, dipendenti dal grado con cui essa è accettata dagli intermediari regolamentati, è un fenomeno generale, data l'esistenza quantomeno dei compliance costs da regolamentazione, cioè degli oneri rappresentati dall'esistenza stessa di norme e regole. Al crescere dei costi da regolamentazione si ridurrà il suo livello di accettabilità da parte degli intermediari, che implica cioè una modifica della struttura degli incentivi, e quindi della condotta, distorsiva rispetto agli obiettivi della regolamentazione. Allora ogni sistema di regolamentazione, per essere efficace, dovrà possedere un livello sufficiente di accettabilità da parte degli intermediari finanziari regolamentati. Occorre sottolineare che, alla luce di come abbiamo definito gli obiettivi ultimi della re-


golamentazione finanziaria, la struttura degli incentivi delle autorità di controllo tiene implicitamente, o meglio fisiologicamente, conto del problema dell'acceptability da parte degli intermediari, ponendosi infatti il dilemma di comporre l'obiettivo della stabilità con quello di mantenere un livello soddisfacente di efficienza. E evidente che, pèr la regolamentazione antiriciclaggio, l'acceptability problem riguarda esclusivamente gli intermediari finanziari la cui attività economica non coincide con quella illegale. I conipliance costs della regolamentazione antiriciclaggio vanno cioè bilanciati dai guadagni attesi della regolamentazione. Occorre però distinguere da guadagni attesi a livello sistemico e guadagni attesi per il singolo intermediario, sia per la regolamentazione volta alla definizione degli intermediari agenti che per quella finalizzata alla deterrenza intermediari criminali. A livello aggregato, è evidente l'incentivo del sistema degli intermediari regolamentati ad accogliere favorevolmente norme che rappresentino un deterrente per potenziali intermediari criminali. Meno scontata è invece la definizione di una regolamentazione antiriciclaggio i cui guadagni attesi netti siano positivi, in quanto essa riduce i rischi di inquinamento del sistema finanziario, attraverso norme che delineano la figura dell'intermediario agente. Qualunque regolamentazione finanziaria deve essere analizzata sulla base degli effetti che produce sull'insieme degli

intermediari sottoposti a controllo. Sotto questo aspetto, quattro sono le caratteristiche che determinano la fisionomia di una regolamentazione finanziaria: grado di interferenza, grado di uniformità, grado di discrezionalità, grado di fiscalità occulta, di cui le prime tre maggiormente rilevanti per determinare il grado di accettabilità sistematico di una regolamentazione. Il grado di interferenza indica la distorsione che la regolamentazione provoca nelle possibilità degli intermediari di definire prezzi e quantità dei servizi offerti. Il grado di uniformità indica se la regolamentazione si applica in modo omogeneo su tutti gli intermediari che, al di là delle definizioni istituzionali, svolgono la stessa attività economica, ovvero crea vantaggi e svantaggi competitivi. Infine il grado di discrezionalità segnala quali siano i gradi di libertà concessi all'autorità di controllo nella definizione ed applicazione della regolamentazione in esame, quindi i margini di incertezza per gli intermediari controllati. E evidente che al crescere del grado di interferenza, di difformità, di discrezionalità diminuirà il grado di accettabilità sistematico della regolamentazione antiriciclaggio. A livello di singolo intermediario, i guadagni attesi netti rimangono verosimilmente positivi nel caso della regolamentazione contro gli intermediari criminali, mentre ancor più incerto è l'esito della regolamentazione che produce la figura dell'intermediario agente, in quanto possibile fonte di condotta da 25


free rider. L'accettabilità di una regolamentazione va quindi verificata anche sul piano microeconomico. Per il singolo intermediario difatti esiste un evidente trade-off tra la funzione di agente dell'autorità pubblica ed i relativi costi, non soio in termini di gestione e trasmissione dell'informazione. Tanto meno la definizione di ruolo ed obblighi dell'intermediario non mciderà in maniera efficace sui suoi incentivi, tanto più sarà per lui ottimale produrre uno sforzo minimo, anche se la regolamentazione è stata accettata a livello sistematico, o formale. Se ogni intermediario troverà ottimale minimizzare lo sforzo, sfruttando le asimmetrie informative, ed anche considerando i possibili vantaggi competitivi di tale condotta, la regolamentazione sarà completamente inefficace. Quindi la presenza di un livello aggregato di accettabilità della regolamentazione antiriciclaggio non ci assicura che tale regolamentazione produca i medesimi effetti a livello microeconomico, e sia perciò, senza ambiguità, efficace.

RUOLO E POTERI DELL'AUTORITÀ DI VIGILANZA NELLA REGOLAMENTAZIONE DI ANTIRICICLAGGIO FINANZIARIO

Per quel che riguarda le istituzioni di controllo, occorre chiedersi se è opportuno il loro coinvolgimento nell'ulteriore attività regolamentare rappresentata dalla lotta al riciclaggio finanziario. Dal punto di vista dell'autorità pubbli26

ca, proprio la natura dei mercati finanziari, in cui dominante è la distribuzione asimmetrica ed imperfetta dell'informazione, appare consigliare un coinvolgimento delle istituzioni di controllo specifiche a tali mercati. Dal punto di vista delle istituzioni di controllo, occorre però valutare tale opportunità sia in termini di obiettivi, che di natura dei poteri, o degli strumenti, con cui perseguire tale ulteriore politica. In questo lavoro ci concentreremo sull'ipotesi per cui i mercati finanziari siano caratterizzati dalla presenza di un'istituzione di controllo unica, o comunque dominante rispetto ad altre agenzie di controllo, a cui afferiscono le responsabilità di vigilanza bancaria e finanziaria, che supponiamo essere la banca centrale. Il perseguimento di una politica aggiuntiva da parte della banca centrale, può essere in conflitto, o essere complementare, con il suo obiettivo prioritario di autorità di vigilanza: la stabilità degli intermediari finanziari. Se esiste un possibile conflitto, avremo sui risultati della politica di vigilanza un rischio aggiuntivo, essendo maggiori le probabilità di performances non positive. Al contrario, con potenziale complementarietà avremo un beneficio. Come valutare l'esistenza di conflitto o di complementarietà? In generale vi sarà conflitto se il perseguimento di una certa politica da parte della banca centrale aumenta la possibilità che sia pregiudicata la sua azione di istituzione garante della stabilità finanziaria. Esisterà


allora un rischio sulla condotta di vigilanza provocato dalla presenza dell'ulteriore politica. Al contrario vi sarà complementariettì se la attribuzione di una certa funzione migliora le possibilità di condotta efficace della banca centrale. Nel caso della regolamentazione antiriciclaggio finanziario, la normativa specifica appare complementare, in termini di finalità, a quella generale. Gli obiettivi di perseguimento della stabilità e dell'efficienza dell'intermediazione finanziaria possono essere ritrovati anche come finalità specifiche della regolamentazione sul riciclaggio, oltre alle finalità generali di pubblica utilità. L'attività di riciclaggio, specialmente in presenza di intermediari finanziari criminali, tende a creare distorsioni concorrenziali e allocazioni non ottimali. Abbiamo già rilevato come l'intermediario criminale possa fruire di guadagni competitivi rispetto agli altri intermediari finanziari concorrenti non criminali. Ma anche la stabilità del sistema finanziario può essere minacciata dalla presenza di intermediari finanziari criminali. In primo luogo in quanto tali intermediari possono avere un orizzonte di vita più incerto: a parità di rischio atteso della attività economica lecita, esiste il rischio di cessazione dell'attività da scoperta dell'illecito. La crisi di un singolo intermediario, o di un settore circoscritto, dell'industria finanziaria può però minare la fiducia nell'intero sistema. In secondo luogo l'instabilità può essere provocata dal pregiudizio

arrecato alla reputazione di tutto il sistema finanziario, o di parti di esso, dalla scoperta di flussi di attività finanziarie illegali, che pur non sfociano nel fallimento degli intermediari coinvolti. Quindi le finalità specifiche della regolamentazione sugli intermediari finanziari possono essere considerate, nel caso della regolamentazione antiriciclaggio, quelle generali di stabilità ed efficienza. In parallelo, inoltre, un perseguimento efficace della stabilità ed efficienza attraverso la politica di vigilanza contribuisce ad una minor permeabilità del sistema finanziario rispetto al fenomeno del riciclaggio finanziario. L'attenzione ad evitare eventuali conflittualità tra le politiche deve interessare non solo le finalità ultime, ma anche la natura dei poteri attribuiti alla banca centrale. Riguardo le differenti caratteristiche dei poteri attribuibili, possiamo individuare essenzialmente tre categorie: di informazione, di esecuzione e di regolamentazione. Per ciascun tipo di potere, attribuito dalla regolamentazione antiriciclaggio, occorrerà che sia complementare, non conflittuale, con le finalità principali della banca centrale, quale autorità di vigilanza. Il coinvolgimento da parte dell'autorità pubblica della banca centrale nella regolamentazione antiriciclaggio finanziario appare quindi opportuno, sia per i possibili vantaggi informativi, sia per la complementarietà rispetto all'azione di vigilanza, purché l'istituzione di controllo sia sufficientemente motivata. Il sistema di incentivi di una istituziòne 27


pubblica può essere influenzato attraverso un meccanismo di guadagni o perdite di credibilità, agendo cioè sui meccanismi di reputazione. La presenza dei meccanismi di reputazione è particolarmente forte nelle istituzioni preposte alla vigilanza finanziaria, fino a divenire cruciale per l'azione di quelle istituzioni che assommano in sé sia i poteri di politica monetaria che di vigilanza. Guadagni e perdite di reputazione possono essere più facilmente realizzabili attraverso un meccanismo di accountability. La presenza di procedure di accountability, oltre a garantire la posizione della banca centrale, riduce l'eventualità che l'istituzione di controllo sia soggetta a fenomeni di cattura. Nel precedente paragrafo abbiamo messo in luce come sia opportuno che l'autorità di vigilanza tenga fisiologicamente conto del problema dell'accettabilità della regolamentazione da parte degli intermediari. Un caso invece patologico è quello in cui la sensibilità delle autorità rispetto al problema della accettabilità è talmente forte che la loro funzione-obiettivo "degenera" in quella degli intermediari. In altri termini, nel caso estremo di sensibilità verso l'acceptability problem, l'agenzia di regolamentazione e le istituzioni regolamentate possono assumere condotte coordinate e collusive. L'obiettivo delle normative, piuttosto che all'interesse generale, appare volto al perseguimento di finalità più vicine a quelle dei gruppi o istituzioni professionali coinvolte nel mercato. Si verifi28

ca il caso a cui è dedicata la letteratura della captured regulation. Dunque è opportuno che la banca centrale, dotata di un sistema degli incentivi corretto, basato verosimilmente su meccanismi di reputazione, sia sensibilmente coinvolta nelle responsabilità legate alla funzione degli intermediari finanziari quali agenti dell'autorità pubblica nella azione antiriciclaggio finanziario.

INTERMEDIARI FINANZIARI, ISTITUZIONI DI CONTROLLO E RICICLAGGIO FINANZIARIO: L'EVOLUZIONE DELLA REGOLAMENTAZIONE ITALIANA

(1978-1992)

Il ruolo centrale nella regolamentazione antiriciclaggio degli intermediari finanziari, sia come agenti sia come possibili criminali, nonché del loro sistema di rapporti con l'autorità di controllo, emerge con chiarezza da una analisi della evoluzione della normativa italiana. Il delitto di riciclaggio è stato introdotto per la prima volta nella normativa italiana con la legge 18 maggio 1978, n. 191, che inseri nel codice penale l'an. 648-bis. Prima di allora l'eventuale repressione del reato era affidata essenzialmente a tre diversi articoli del codice penale, relativi alla ricettazione (art. 648), al favoreggiamento personale (art. 378), al favoreggiamento reale (art. 379). Tale disciplina non aveva ancora alcun riflesso esplicito sul ruolo degli intermediari finanziari e delle istituzioni di controllo. La norma, pur positivamente accolta


come primo esempio di previsione esplicita del delitto di riciclaggio, apparve contraddistinta da una ridotta applicabilità. Tra le cause della ridotta efficacia è rilevante ai nostri fini la specificità della fattispecie del delitto, che da un lato confondeva la allora tipica condotta criminale con l'unica possibile, dall'altro non considerava il reimpiego della liquidità illecita. In questo modo non veniva ancora individuato un ruolo specifico per l'intermediazione finanziaria, che viceversa può svolgere la sua funzione passiva (agente) ed attiva (intermediario criminale) in tale delitto attraverso rapporti economici più articolati, quali sono quelli di debito e credito. L'assenza di una specificità dell'intermediazione finanziaria spiega ovviamente anche l'assenza di una specifica funzione di vigilanza. Una sensibile novità in termini di identificabilità del ruolo degli intermediari finanziari nel delitto di riciclaggio può essere colta nella legge 19 marzo 1990 n. 55, che in particolare modificava l'art. 648-bis ed introduceva art. 648-ter. La nuova normativa consente di identificare le due possibili fisionomie, agente e criminale, che l'intermediario finanziario può assumere in connessione al delitto di riciclaggio. In primo luogo è possibile distinguere la figura dell'intermediario finanziario criminale, per una serie di segnali, tre di ordine generale, un quarto di ordine specifico. Innanzitutto viene chiarita la necessità della consapevolezza di commettere l'at-

to delittuoso del riciclaggio. Poi vi è la presenza, nel nuovo art. 648, dell'aggravante costituita dalla attività professionale, per cui la pena viene inasprita se il riciclaggio avviene nell'esercizio di una attività professionale. Infine con l'art. 648-ter viene punito chiunque consapevolmente impiega in attività economiche e finanziarie legali proventi di natura illecita. Ma soprattutto a questa prima disposizione ne è collegata un'altra nella stessa legge, che prevede esplicite sanzioni nell'ipotesi in cui i delitti connessi al riciclaggio vengano commessi «nell'esercizio di attività bancaria, professionale o di cambia-valute ovvero quella di altra attività soggetta ad autorizzazione, licenza, iscrizione in appositi albi o registri o altro titolo abilitante». In secondo luogo è possibile individuare anche la figura dell'intermediario finanziario agente dell'autorità di controllo, attraverso una delega che si esprime con gli obblighi di informazione sanciti dalla legge in esame. Già nell'art. 648-bis viene punito chiunque ostacoli l'identificazione della provenienza illecita «di denaro ed altre utilità». L'ostacolo alla identificazione i i• lii inaaempienza . I puo provenire aaii aegii obblighi informativi a carico degli intermediari finanziari. Allora tali intermediari potrebbero essere oggetto delle sanzioni previste, nel caso in cui non svolgessero con efficacia la delega a loro attribuita di individuazione delle fattispecie previste dalla legge. Infine, è opportuno notare che l'attenzione si conwj


centra sugli intermediari finanziari in di indagini dei possibili fenomeni di senso lato. crimine da riciclaggio. La legge rappreLa disciplina relativa agli obblighi di in- sent l'episodio conclusivo di un torformazione riguarda difatti: enti credi- mentato percorso legislativo che fu al tizi, operatori finanziari e di borsa centro di un vivace dibattito, istituzioiscritti in albi o soggetti ad autorizza- nale e dottrinario, in cui centrale fu zione amministrativa, altri operatori fi- proprio la questione del coinvolgimennanziari e di borsa al cui capitale parte- to del settore finanziario. Due in participano, anche per il tramite di società colare le questioni oggetto del contencontrollate o di società fiduciarie o per dere: la necessità di sottoporre ad obbliinterposta persona, i soggetti economighi informativi anche gli intermediari ci sopracitati. Tale disciplina rende ob- finanziari non soggetti ad altra regolabligatorio il censimento di operazioni mentazione, e la necessità di centralizfinanziarie di trasmissione o movimen- zare le informazioni. tazione di mezzi di pagamento superio- Il primo problema coglieva la necessità ri ai venti milioni. di aumentare quello che qui si è definiIn terzo luogo ie norme relative ad una to il grado di accettabilità della regolamaggiore trasparenza degli assetti pro- mentazione, attraverso un aumento del prietari degli enti creditizi, e la sanzio- grado di uniformità della medesima. Il ne penale della raccolta abusiva del ri- secondo problema segnalava quella che sparmio, segnalano la crescente atten- rimarrà una questione centrale della rezione alla fisionomia dell'intermediario golamentazione: l'identificazione della finanziario, alfine di identificarne l'e- struttura più efficace per la gestione ventuale natura criminale. La legge au- dell'informazione in un settore carattementa la trasparenza degli assetti pro- rizzato da una distribuzione asimmetriprietari degli intermediari, estendendo ca e imperfetta della stessa, nonché dell'obbligo di comunicazione delle parte- l'istituzione responsabile di tale gestione. cipazioni azionarie superiori al 2% del La questione della centralizzazione delcapitale a tutte le società esercenti il le informazioni si è posta in Italia come credito, nonché alle casse rurali e banuna soluzione volta a ridurre il ruolo che popolari ed ogni altro ente creditizio. degli intermediari come agenti. Su tale Dalla fine del 1989 a tutto il 1990 si sus- problematica si evidenziarono in partiseguono le iniziative legate alla regolacolare visioni diametralmente opposte, mentazione contro il riciclaggio. L'evo- sia tra le autorità di politica economica, luzione della regolamentazione segna sia tra le due Camere. Si arriva così alla un decisivo passo in avanti nel 1991 legge 5 luglio 1991 n. 197, in cui è evicon la legge 5 luglio 1991 n. 197, con dente il ruolo centrale che gli intermecui aumenta il rilievo degli intermedia- diari finanziari assumono nell'attività ri finanziari nell'attività di controllo e di riciclaggio, individuando norme vol191


te sia a precisarne il ruolo di agenti dell'autorità, sia a scoraggiare eventuali incentivi a costituire intermediari criminali. Al primo tipo di regolamentazione, legato alla definizione dell'intermediario agente, possono essere ascritte le norme che disciplinano l'uso del contante, estendono l'obbligo di identificazione e istituiscono il dovere di segnalare le operazioni finanziarie sospette. Le norme relative agli obblighi di identificazione e di registrazione rappresentano l'ultima versione di una funzione attribuita agli intermediari finanziari, in particolare creditizi, fin dal d.l. 15 febbraio 1979 n. 625. Le operazioni in contanti o in titoli al portatore, superiori a venti milioni, possono essere poste in atto solo attraverso due categorie di intermediari abilitati. La prima categoria è costituita dai soggetti espressamente citati dalla legge (tra cui ci interessano gli enti creditizi, le società di intermediazione mobiliare, le società commissionarie, gli agenti di cambio, le società per il collocamento dei valori mobiliari, i fondi comuni, le società fiduciarie, le assicurazioni). La seconda categoria comprende altri intermediar finanziari che ne facciano esplicita richiesta al Ministero del Tesoro; quest'ultimo, di concerto con il Ministero dell'Interno, di Grazia e Giustizia, delle Finanze, dell'Industria, sentite Banca d'Italia e Consob determina le condizioni dell'autorizzazione, sulla base di un regolamento. L'obbligo di identificazione e di regi-

strazione viene esteso ad una gamma più ampia di intermediari finanziari. In caso di omissione dell'identificazione, le sanzioni sono 'di natura amministrativa, se si esclude' l'omessa istituzione dell'archivio delle identificazioni da parte dell'intermediario, che è invece illecito penale. Assai importante, per il rafforzamento della funzione di agenti, è l'introduzione per gli intermediari finanziari dell'obbligo di segnalazione all'autorità giudiziaria competente delle operazioni sospette di riciclaggio. La legge 197 introduce così definitivamente nella regolamentazione italiana la figura dell'intermediario agente. In particolare l'obbligo di segnalazione per gli intermediari attribuisce a questi ultimi una funzione suppletiva rispetto a quelle esplicate nella normale attività economica, che, in linea di principio, dovrebbe invece essere assunta esclusivamente dalle forze di polizia (nel caso italiano dalla Guardia di Finanza). Trova così espressione concreta il connubio tra generai enforcement, esercitato dalle forze di polizia, e specific enforcement, attribuito agli intermediari agenti, ipotizzato nella teoria. La definizione della figura degli intermediari agenti ha così effettivamente sollevato un problema di accettabilità della regolamentazione, sia a livello sistemico che di singolo intermediario. A livello aggregato, va sottolineato come l'obbligo di identificazione si sia progressivamente esteso, sià in termini di operazioni censite, sia riguardo alle categorie di intermediari finanziari 31


coinvolti. In questo modo è aumentato, a parità di altre condizioni, il grado di accettabilità della regolamentazione, riducendone il grado di' difformità, che prima veniva percepito come sensibile dagli intermediari bancari. Per quel che concerne il singolo intermediario, esiste un evidente trade-off tra l'autonomia tipica dell'intermediario nella gestione del proprio patrimonio informativo e la funzione di agente della autorità pubblica nella normativa antiriciclaggio. Il trade-off passa attraverso gli obblighi sia di identificazione e registrazione che di segnalazione. Gli obblighi di identificazione presentano per gli intermediari due tipi di costi: costi di reputazione, in quanto la qualità del prodotto offerto si riduce, riducendosi la garanzia di riservatezza per il cliente, sia ex-ante che ex-post; costi di gestione, dovendo gli intermediari utilizzare risorse per dotarsi delle competenze umane e tecniche necessarie, tra cui la costituzione dell'archivio informatico. A fronte dei compiti di agente, e dei costi relativi allo sforzo necessario per adempierli con efficacia, esiste un sistema che dovrebbe incidere in modo efficace sugli incentivi degli intermediari bancari e finanziari. Al secondo tipo di regolamentazione, legato alla deterrenza alla creazione di intermediari criminali, sono invece riconducibili gli obblighi, previsti dalla legge per gli intermediari, di iscrizione in specifici elenchi, indipendentemente dal fatto che venga richiesta l'abilitazione alle transazioni in contanti. Difatti, 32

oltre alle due categorie di intermediari prima citate, vengono previsti una serie di obblighi per le società che svolgono attività finanziarie non riservate alle banche ed alle SIM. Il censimento delle società finanziarie di qualsiasi tipo, mediante l'iscrizione in un apposito albo presso la Banca d'Italia, mira a garantire l'esistenza di requisiti sulla fisionomia degli intermediari, quali ad esempio quelli relativi al capitale minimo, alla professionalità degli amministratori ed alla onorabilità di soci con quote superiori al 2% del capitale sociale. L'idea che la regolamentazione individui sul piano logico due possibili configurazioni dell'intermediario, agente e criminale, è suffragata dalla constatazione che le prescrizioni previste per la legittimazione ad "intermediario autorizzato" (agente) è distinta da quella per l'iscrizione agli elenchi (deterrenza al criminale). Si può dunque dedurre che mentre la prima parte della legge concerne l'identificazione dei potenziali intermediari agenti, la seconda parte è finalizzata ad un maggior controllo sulla fisionomia dell'intermediazione finanziaria, per ridurre i pericoli di infiltrazioni criminali. Anche l'identificazione di ruoli e poteri attribuiti alle istituzioni di controllo ha registrato una evoluzione con la legge n. 197. La vigilanza sugli intermediari abilitati è assegnata al Ministero del Tesoro, che si avvale dell'Ufficio Italiano Cambi. L'Ufficio Italiano Cambi verifica che gli intermediari abilitati ottemperino ai loro compiti, sia di segna-


lazione, sia di approntamento delle strutture organizzative più idonee rispetto a tale funzione. L'Ufficio Italiano Cambi effettua analisi statistiche sulla -operatività di ciascun intermediario abilitato, anche attraverso un accesso diretto agli archivi dei singoli intermediari, allo scopo di far emergere eventuali fenomeni di riciclaggio, da segnalare al Ministro del Tesoro. L'Ufficio Italiano Cambi gestisce, sempre per conto del Tesoro, l'elenco degli intermediari abilitati su autorizzazione ministeriale, e ne dà comunicazione alla Banca d'Italia ed alla Consob. Occorre rilevare che l'Ufficio Italiano Cambi, anche dopo la riforma valutaria attuata con la legge 4 agosto 1990, svolge una identica funzione rispetto alle informazioni in materia di rapporti economici e finanziari con l'estero. L'Uic ha il potere di richiedere agli intermediari abilitati, nonché agli altri operatori autorizzati, informazioni e dati concernenti la gestione valutaria e i cambi in cui sono a qualsiasi titolo intervenuti. La Banca d'Italia gestisce invece il registro degli intermediari che, per la maggior rischiosità della loro attività, necessitano di una particolare vigilanza circa la loro stabilità e liquidità.

RUOLO DEGLI INTERMEDIARI FINANZIARI E DELLA BANCA D'ITALIA ED EFFICACIA DELLA REGOLAMENTAZIONE ANTIRICICLAGGIO FINANZIARIO

L'analisi di teoria della regolamentazio-

ne sul riciclaggio finanziario, congiunta alla ricostruzione dell'evoluzione della normativa italiana, ci spinge ad una prima valutazione globale della regolamentazione recentemente entrata in vigore in Italia, oltre alle osservazioni puntuali già espresse nel precedente paragrafo. Su tale regolamentazione, rappresentata dalla sopracitata legge 197, e specificamente sulla efficacia degli intermediari nell'ottemperare al loro compito di agenti, sono state avanzate diverse perplessità. In particolare ha colpito il numero assai esiguo delle segnalazioni. Tale fenomeno può essere attribuito, scartando purtroppo l'ipotesi che l'assenza di segnalazioni indichi una immunità del nostro sistema finanziario dai rischi di riciclaggio, a due situazioni alternative: la regolamentazione è efficace, ma comporta inevitabili ritardi di adeguamento e di apprendimento; la regolamentazione è inefficace. Se fosse vera la seconda ipotesi, la causa, a parere di chi scrive, andrebbe ricercata, coerentemente con tutta l'analisi qui svolta, nell'incapacità di tale normativa di influenzare correttamente la struttura degli incentivi, sia degli intermediari bancari e finanziari che della istituzione di controllo. Diversi sarebbero allora gli aspetti della regolamentazione suscettibili di riforma. Aspetti che peraltro l'economista può solo prospettare in termini generali, riprendendo anche le indicazioni dei giuristi coerenti con il proprio approccio, ed attendendo da questi ultimi riscontri e 33


reazioni. Per quel che riguarda gli intermediari, le caratteristiche della funzione di agente, in particolare nella relazione sforzo-incentivi implicita nell'obbligo di segnalazione, appaiono poco incisive. In primo luogo sembra non convincente richiedere il collegamento tra l'operazione sospettata di riciclaggio ed una limitata serie di specifiche fattispecie criminose primarie. Per rendere più efficace l'azione dell'agente, sarebbe forse meglio non collegare il riciclaggio a specifiche fattispecie criminose. In secondo luogo il mandato è assai opaco, in quanto l'obbligo di segnalazione è basato su elementi e valutazioni assai soggettive, che aumentano sensibilmente l'incertezza nel collegare lo sforzo effettuato con le sanzioni previste in caso di mancata segnalazione. In terzo luogo la concatenazione di deleghe (dipendente-responsabile filiale-Questore provinciale-Alto Commissario) in mercati caratterizzati da asimmetria informativa e da relazioni plurime sforzo-sanzione, può essere controproducente. E stato rilevato che prevedere la delega della segnalazione dal dipendente al funzionario, in una funzione basata su elementi soggettivi, da un lato può stimolare i meccanismi di verifica e di riscontro, dall'altro rischia di ridurne ulteriormente l'efficacia. Sarebbe forse più opportuno che l'obbligo di segnalazione fosse correlato ad elementi oggettivi, magari con l'ausilio di linee di condotta dettate dalle autorità di vigilanza, ridu34

cendo inoltre la concatenazione delle deleghe. Occorre anche tener conto che, in linea di principio, la funzione di agente è stata attribuita con una delega qualitativamente equilibrata. La delega sarebbe potuta essere anche più gravosa: l'obbligo sarebbe potuto essere quello di accertare la provenienza della liquidità prima di mettere in atto qualsiasi attività di intermediazione finanziaria. Infine andrebbe meglio approfondito il legame tra entità delle sanzioni ed incentivo allo sforzo. Si ritiene comunque che la regolamentazione sia dotata di una certa flessibilità delle sanzioni previste, che consente una graduazione in ragione della gravità della violazione. Al ruolo degli intermediari, nonché alla questione del numero e delle caratteristiche delle istituzioni coinvolte dalla regolamentazione, si collega il problema della gestione delle informazioni raccolte. Su questo punto, taluni hanno giudicato l'attuale normativa come contraddistinta da una eccessiva parcellizzazione, proponendo una banca dati centralizzata. D'altro canto, secondo altri la centralizzazione della informazione può presentare dei problemi, legati rispettivamente: alla peculiarità dell'assetto culturale e normativo dell'Italia; alla non univocità dei giudizi favorevoli sulle concrete esperienze di banca dati centralizzata, segnatamente quella statunitense; alla questione della riservatezza, che è maggiore quando i dati sono raccolti al di fuori del singolo operatore finanziario; ai costi di gestio-


ne; alla assenza di una armonizzazione internazionale. A parere di chi scrive, nessuna delle perplessità relative ad una banca dati centralizzata appare decisiva. I vantaggi di una minore dispersione dell'informazione sono evidenti nei termini della analisi economica qui svolta, che ha messo in luce come l'aspetto cruciale della regolamentazione. antiriciclaggio finanziario debba proprio essere quello di ridurre la distribuzione asimmetrica e diseguale dell'informazione. Tralasciamo le obiezioni di tipo culturale e l'assenza di unanimità sulla esperienza statunitense; desta inoltre perplessità l'affermazione secondo cui una centralizzazione dell'informazione implichi tout court una minor riservatezza. Per quel che riguarda i costi di gestione, al di là della fondatezza tecnica della affermazione, su cui non siamo in grado di pronunciarci, resta da osservare che i costi di una regolamentazione possono essere affrontati sempre e comunque in una ottica di accettabilità della stessa, coordinando gli sforzi richiesti agli incentivi offerti. Infine preoccupa l'assenza di una armonizzazione internazionale, dato il pericolo che una regolamentazione troppo severa in uno Stato produca degli effetti distorsivi sui flussi finanziari internazionali leciti ed illeciti. Rimandando le considerazioni più puntuali ad un'analisi specifica della dimensione interna.zionale del riciclaggio finanziario, resta solo da sottolineare come in questo campo, in presenza di regolamentazio-

ni nazionali diverse ed in potenziale competizione, i costi della coinpetition in laxity appaiono molto più alti di quelli legati ad una competition in stringency. La principale attenzione di un regolamentatore nazionale, che ha individuato un sistema di norme efficace, che esso non sia relativamente più permissivo: la regolamentazione antiriciclaggio può divenire fattore discriminante nelle scelte dei soggetti criminali, che tendono ad indirizzarsi verso quei contesti istituzionali in cui le legislazioni sono permissive. Se dunque i vantaggi di una centralizzazione della informazione risultassero maggiori dei costi, rimane la questione finale della istituzione responsabile di tale funzione. La proposta di istituire una nuova agenzia, accentrata presso il Ministero del Tesoro è stata accolta con cautela. Tale cautela è assolutamente condivisibile. Se devono essere assegnate responsabilità nella gestione dell'informazione ai fini della regolamentazione, esse devono competere, alla luce dell'analisi teorica qui sviluppata, alla istituzione pubblica maggiormente sensibile ai meccanismi di reputazione e già in possesso di un patrimonio informativo, in virtù dei suoi poteri di vigilanza bancaria e finanziaria: la Banca d'Italia. Tale attribuzione deve però avvenire in una riconsiderazione globale del ruolo e della responsabilità di tale istituzione nella regolamentazione antiriciclaggio finanziario. Il coinvolgimento attuale della Banca d'Italia-Uic nella regolamentazione an35


tiriciclaggio finanziario appare coeren- del giudice penale), tale funzione appate con il suo ruolo di istituzione prepo- re coerente con i compiti istituzionali sta alla vigilanza bancaria e sugli inter- di tutela della stabilità e dell'efficienza mediari finanziari, ma può essere raf- degli intermediari bancari. forzato. Da un lato il coinvolgimento I maggiori poteri attribuiti alla banca della banca centrale, oltre alla eventua- centrale dovrebbero essere bilanciati, le r.esponsabilità di una banca dati censempre in base alle riflessioni teoriche, tralizzata, potrebbe servire a semplifida un sistema di accountability specificare la concatenazione di relazioni co, in grado da un lato di incidere sul siprincipale-agente oggi prevista, dall'alstema di incentivi della istituzione antro a ridurre gli elementi di incertezza presenti nella funzione di agente asse- che attraverso i meccanismi di reputagnato agli intermediari. Su questo pun- zione, dall'altro di metterla a riparo da indebite ingerenze o peggio ancora da to, è stato osservato che la banca ceninfondate accuse. trale non dovrebbe poi limitarsi ad approntare delle linee di condotta per gli La necessità di garantire e responsabiintermediari, ma tali indicazioni an- lizzare maggiormente, nell'ambito deldrebbero rafforzate, dando ad esse ri- la regolamentazione antiriciclaggio fichiamo a livello di normativa legislati- nanziario, l'istituzione preposta alla viva o amministrativa. Il rafforzamento gilanza bancaria e finanziaria non imdovrebbe riguardare anche la tipologia plica ovviamente alcuna valutazione sul dei controlli, del servizio di vigilanza fatto che la stessa istituzione svolga della Banca d'Italia. Al di là della veste contemporaneamente anche altre fungiuridica in cui questo deve avvenire zioni, specificamente legate alla politica (ispettore piuttosto che collaboratore monetaria.

Nota * Questo saggio fa parte di un progetto di ricerca, la cui prima parte, intitolata Analisi economica, teoria della regolamentazione e riciclaggio Jìnanziario, è in corso di pubblicazione nel volume, a cura di Stefano Zamagni, Analisi economica e mercati illegali, edito dal Mulino. A tale scritto, a cui il presente saggio fa ampio riferimento, si rimanda per ulterio-

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ri approfondimenti, soprattutto per quel che riguarda la parte teorica, analitica e bibliografica. L'intero progetto di ricerca è finanziato dal Centro Paolo Baffi. L'autore desidera ringraziare i professori Piergaetano Marchetti, Mario Monti, Angelo Porta e Stefano Zamagni, rimanendo ovviamente unico responsabile dello scritto.


Istituzioni antidroga nazionali e i nternaziona li* di AlisonJarnieson

Le organizzazioni che combattono la droga nel mondo svolgono una molteplicità di funzioni; ad esempio, la lotta contro la produzione e il traffico delle sostanze illecite, la riduzione della domanda e quindi del consumo attraverso l'educazione e la repressione. Dal lato sociale e umanitario vengono svolti molti altri compiti, come la cura e il recupero dei tossicodipendenti e dei malati dell'Aids: A livello internazionale, alcune istituzioni si occupano di tutti questi aspetti, come l'ONu e la CEE. Altre, soprattutto quelle nazionali, tendono a premere su un aspetto particolare come quello criminale, cioè mirano al sequestro di quantità di sostanze stupefacenti, allo smantellamento delle reti dei trafficanti e alla confisca dei loro profitti. Per quanto riguarda i paesi produttori, le forze messe in campo sono varie e spesso coinvolgono contributi dall'estero, come il rifornimento di aiuti militari e/o economici mandati dai paesi più sviluppati. Una soluzione approvata più in principio che in pratica è un impegno convincente per aiutare i paesi produttori a sostituire, attraverso strut-

ture e mezzi alternativi, la coltivazione di droga con altre forme di coltura. Le organizzazioni possono dividersi dunque in tre categorie: Globali Regionali Nazionali.

ORGANIZZAZIONI GLOBALI

Il United Nations International Drug Control Program (UNIDcP) costituisce, dal febbraio 1991, l'organo principale mondiale per la lotta contro la droga. Riunisce in sé l'ex United Nations Fund for Drug Abuse Control (UNFDAC), la Division of Narcotic Drugs (DND) e la International Narcotis Control Board (INcB). La INCB esiste dal 1961 ed ha come scopo il controllo della coltivazione, della produzione, e dell'utilizzazione delle sostanze narcotiche, per garantirne la disponibilità all'uso medico e scientifico. Nella nuova struttura dell'ONu l'INCB conserva il ruolo di esperto indipendente quale arbitro della collaborazione e degli sforzi dimostrati da parte dei paesi coltivatori. La DND costituisce innanzitutto un organo di appoggio per i trattati ONU - la 37


Singie Convention on Narcotic Drugs (1961), The 1972 Protocol amending the Singie Convention on Psychotropic Substances (1971), e la United Nations Convention against Illicit Traffic in Narcotic Drugs and Psychotropic Substances di Vienna (1988). La DND pubblica dati annuali sulla produzione illecita degli stupefacenti, organizza convegni, corsi di studio e programmi di educazione su una vasta gamma di problemi connessi al traffico illecito. Ospita inoltre le riunioni del gruppo HONLÉA - Heads ofNational Drug Law Enforcement Agencies. Alla prima riunione pan-europea di HONLEA, che ebbe luogo a Mosca nel novembre 1990, parteciparono 36 paesi. Gran parte dei finanziamenti per i lavori UNIDCP - saliti dai 18,7 milioni di dollari nel 1987 a 70 milioni nel 1990 e a 80 milioni nel 1991 - provengono, così come prima per l'UNFDAC, da due fonti: i cosiddetti "fondi generali" e i "fondi a scopo speciale". I paesi contribuenti possono scegliere le zone o i progetti di particolare interesse ai quali desiderano contribuire, oppure stanziano il loro contributo al fondo generale per lasciare agli esperti dell'ONu la scelta delle priorità. La nuova struttura dell'UNIDCP Si concentra su tre aspetti: implementazione dei trattati strategia e ricerca misure operative. L'obiettivo sempre prioritario è l'eliminazione delle fonti illecite di sostanze narcotiche e, come conseguenza naturale, la cessazione del traffico. Si realiz38

zerebbero attraverso stimoli di natura agrotecnica e sociale: i rifornimenti di mezzi agricoli moderni; la costruzione di impianti di irrigazione, di strade, di scuole e di ospedali; l'assistenza tecnica e scientifica; l'aiuto nell'elaborare nuove legislazioni antidroga e anticriminalità; la riduzione della domanda attraverso l'educazione preventiva. Tutto con lo scopo di creare una cultura e un ambiente anti-droga. Attualmente, l'UNIIcp effettua più di 120 programmi di sviluppo in 67 paesi, tra cui Pakistan, Thailandia, Bolivia, Colombia, India, Brasile, Laos, Turchia e Perù. Esistono inoltre, dal 1982, 38 progetti regionali denominati Master Plans che indicano specifiche regioni o zone per un approccio comprensivo. Essi riguardano programmi di prevenzione/educazione; reinserimento dei tossicodipendenti; preparazione scientifica e formazione in tecniche di law enforcement e aiutano governi ed altre organizzazioni, governative o no, puntando sullo sviluppo delle capacità tecniche e amministrative degli organi già esistenti. Il Global Plan of Action adottato dall'Assemblea Generale dell'ONu nel febbraio 1990 propone una azione mondiale in 2 rami: il primo richiede la cooperazione tra paesi sviluppati in precisi settori essenziali: dogana, polizia, assistenza giuridica reciproca, finanza (cioè coordinamento antiriciclaggio), sulla base di accordi multi- e bilaterali. Uguale attenzione viene data al secondo ramo: la collaborazione con i paesi


produttori al fine di ridurre e eventualmente di eliminare la coltivazione delle piante illecite. La ratifica della Convenzione di Vienna del 1988 non solo rappresenta uno spartiacque in una lotta internazionale comune, ma introduce significative novità legislative. Ogni paese ratificante è tenuto a: sanzionare penalmente la coltivazione, la produzione, la distribuzione e la vendita delle sostanze indicate nelle convenzioni del 1961 e del 1971; introdurre una legislazione che permetta l'identificazione, il blocco, il sequestro e la confisca dei profitti e dei beni provenienti dal traffico della droga; garantire l'estradizione ad un altro paese contraente di chi è accusato di reati connessi al traffico; assicurare l'assistenza giuridica reciproca (non più opponendo il segreto bancario); stimolare altre forme di cooperazione, soprattutto tra le forze dell'ordine; O introdurre il metodo poliziesco delle conseguenze controllate; introdurre misure rafforzate per reprimere il traffico via terra, mare e aerea; introdurre misure di controllo su determinate sostanze chimiche per impedirne la diversione illecita. La Convenzione è entrata in vigore dopo la ratifica dei primi venti firmatari nel novembre 1990; oggi, più di 60 paesi l'hanno ratificata.

LE AGENZIE

DELL'ONU

Altri organi dell'ONu che si occupano della droga sono: I) La World Health Organisation (WHO): che nel contesto del Global Pro grarnme on Drug Dependence coopera con gli stati membri sui problemi di abuso, sulle strategie di prevenzione e di cura e sulla gestione della tossicodipendenza. Il programma ha tre scopi: a) promuovere la cooperazione internazionale per valutare la portata del problema e per formulare politiche (policies) e programmi; b) sviluppare le tecnologie idonee per effettuare i programmi; e c) applicare queste tecnologie con una valutazione continua della loro efficacia. WHO ha un ruolo importante in quanto definisce quali sostanze vanno poste sotto controllo; per la diversità delle sue attività in campo della droga collabora strettamente con UNIDCP nelle sedi nazionali e regionali. Il) La United Nations Interregional Crime and Justice Research Institzite (UN!CRI) che effettua programmi di ricerca a livello internazionale sul rapporto tra comportamento criminoso e uso di droga; uso di iroga e legge penale; abuso di sostanze stupefacenti nei paesi in via di sviluppo. Nel marzo del 1991 l'organizzazione ha ospitato un convegno internazionale a Roma sul tema <(Cocaina Oggi» che ha attirato illustri ricercatori da tutto il mondo.

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L'International Labour Organization (ILO): che, con la collaborazione della WHO, Si occupa dei problemi della droga sul posto di lavoro. Obiettivo

di salvaguardare la salute e il benessere dei lavoratori e di intervenire per superare i problemi connessi alla droga, soprattutto tramite la disintossicazione e il reinserimento. ILO ha una rete di consiglieri che operano in Africa, Asia, America Latina e nel Medio Oriente. "Educare per prevenire" è lo scopo del programma contro l'abuso della droga condotto dalla United Nations Educational, Scientzjic and Cultural Organization. L'UNESCO organizza seminari per educatori, produce materiali scritti e audiovisivi, e nel contesto educativo-preventivo collabora frequentemente con i mass media, specialmente in Africa, in Asia, nei Caraibi e in America Latina. Date le quantità sempre crescenti di droghe che vengono trasportate via mare, l'International Maritime Organization (IÌvIO), insieme al governo britannico, alla International Chamber of Shipping e al Customs Co-operation Council (CCC) ha elaborato una guida all'attuazione degli armatori, marinai e altri operatori marittimi per l'identificazio: ne delle droghe e delle tecniche piiI usate di occultamento, e per il riconoscimento del tossicodipendente. Il CCC collabora ugualmente con l'Universal Postal Union per elaborare procedure volte all'individuazione della presenza di droga nei plichi postali. 40

L'International Civil Aviation Organisation (ICAO), che effettuò nel 1985 uno studio approfondito sui metodi di contrabbando, allo scopo di impedire l'uso degli apparecchi civili nel trasporto delle sostanze stupefacenti. La Food and Agriculture Organization (FAO) cerca di migliorare le condizioni di vita dei contadini, compresi ovviamente quelli nei paesi produttori di droga, per ridurre l'incentivazione alla coltivazione clandestina delle piante illecite. La FAO aiuta gli agricoltori ad ottenere crediti e ad estendere le loro attività ad una coltivazione alternativa redditizia. Partecipa insieme all'UNIDCP in Birmania, Pakistan, Bolivia, e, con la DND, effettua operazioni di sorveglianza dei campi di coltura.

ALTRE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI

La Customs Co-Operation Council comprende 104 stati membri e, per quanto

riguarda la droga, lavora per armonizzare regolamenti doganali al massimo livello possibile. Trasmette informazioni tra i suoi membri sui trafficanti, sui loro movimenti, sulle loro rotte e sui loro metodi preferiti. L'international Criminal Police Organization (ICPO/Interpol) ha 154 'stati membri, compresi alcuni paesi dell'Europa orientale. Esistono frequenti scambi di informazione con gli organi dell'ONu sul traffico della droga e sui


flussi finanziari illeciti. Funge da cmghia di trasmissione per le forze di polizia in tutti gli stati membri per le indagini criminali connesse al traffico. Raccoglie e analizza informazioni sul traffico e sull'uso illecito delle droghe, con l'obiettivo di disseminare con la maggiore rapidità possibile elementi utili per le indagini internazionali. Nel 1989 l'Interpol, insieme all'UNFDAC, impiantò una rete di telecomunicazioni nei Caraibi per facilitare l'identificazione dei mezzi di trasporto di droga via aerea e via mare. Entro la fine dell'1991 l'Interpol avrebbe co-sponsorizzato insieme al CICAD, OAS (vedi: America Latina) e la Drug Enforcement Agency ben quattro convegni - nei Caraibi, in America Centrale, e in America Latina - tutti dedicati al transito e al traffico dei precursori chimici (precursor chemicals). L'Interpol mantiene una banca dati di intelligence sui gruppi di trafficanti e sulle rotte preferite, alla quale possono accedere gli stati membri. La cooperazione tra l'Interpol, il Ccc e la DND è costante e armoniosa. L'Interpol sta collaborando con il governo italiano, con il Ccc e con l'UNIucr per contrastare il trasporto di eroina sulla cosiddetta «rotta balcanica» che passa dalla Turchia all'Italia e all'Austria attraverso i paesi balcanici. Il progetto comprende l'impostazione di una serie di posti di controllo per l'esame rapido ed efficiente dei veicoli Tir, e la disposizione, tramite un sistema informatico armonizzato tra tutti i paesi del-

la rotta, di una rete sicura di comunicazioni, la quale avrebbe il suo terminale nella sede dell'Interpol a Lione. Preoccupate per le cifre colossali dei profitti provenienti dal traffico della droga, le banche centrali dei 12 paesi maggiormente industrializzati fecero un importante passo avanti nel campo del riciclaggio del denaro sporco nel dicembre 1988. La Dichiarazione di Principio di Basilea impegna le banche centrali a prendere misure attive per identificare il cliente e l'origine del suo patrimonio; a segnalare qualsiasi operazione sospetta alle autorità se ci fossero motivi fondati per collegare l'operazione sospetta al riciclaggio del denaro illecito; a dare una piena collaborazione dalle autorità investigative per indagini patrimoniali entro i limiti della legislazione nazionale. Sempre nell'ambito del riciclaggio, in seguito alla riunione del Gruppo G7 del luglio 1989, fu istituita la Financial Action Task Force (FATF). La FATF si dedica allo studio del fenomeno del riciclaggio, alla valutazione delle iniziative nazionali e internazionali volte a contrastarlo e a spingere i paesi senza legislazione idonea ad introdurla. Nel 1990 la FATF pubblicò 40 raccomandazioni utili a contrastare il riciclaggio, alle quali la maggior parte dei paesi dell'OcSE hanno già aderito. Una controversia ancora in discussione nella FATF è la possibilità di introdurre sanzioni contro paesi non collaboratori o trasgressori. Seguendo il modello della FATF, è stata creata nel 1990 una Chernical Action 41


Task Force (CATF) per dare un migliore coordinamento alle azioni destinate a evitare l'uso delle sostanze chimiche, in sé lecite, nella produzione illecita degli stupefacenti. La prima relazione della CATF, presentata alla riunione del G7 di Londra nel luglio 1991, formulò cinque misure essenziali per impedire la diversione illecita e propose che 10 sostanze chimiche fossero sottoposte a controllo, oltre a quelle già indicate dalla Convenzione di Vienna.

LE ORGANIZZAZIONI REGIONALI

I) America Latina La principale organizzazione dei paesi latino-americani che si occupa di droga è la Inter-American Commission on Drug Abuse Contro! (CICAD), che si propone di intensificare la cooperazione intergovernativa per combattere il traffico degli stupefacenti, di cercare regolamenti armonizzati per le procedure di controllo e di repressione, e di sviluppare una legislazione contro il riciclaggio del denaro sporco. L'ordine del giorno della riunione, tenutasi in Messico nell'aprile. 1991, si concentrò appunto sul riciclaggio, sulla produzione e sul transito dei precursori chimici. La Comision Andina deJurista (CAJ) ha un ruolo influente nella regione: è un centro di documentazione sulla politica, la sovversione politica, i diritti umani, il terrorismo e il traffico di droga, nonché sulle azioni e la legislazione 42

contrastanti. Fa raccomandazioni e proposte per una legislazione più adeguata, e pubblica un mensile «Andean Newsletter» con il supplemento «Drug Trafficleing Update». Nell'aprile del 1991 la CAJ organizzò a Lima un convegno internazionale sul tema «Il traffico degli stupefacenti - un anno dopo Cartagena», per ricordare l'incontro storico dei Presidenti andini con il Presidente degli Stati Uniti Bush sul terreno lombiano, e per indicare, sulla base delle ricerche della CAJ, l'inadempimento degli accordi stipulati in quell'occasione. L'Organization ofAmerican States, riunitasi a La Paz, Bolivia, dal 9 al 12 aprile 1991, si è dedicata allo studio del problema droga. Riassumendo le conclusioni della riunione, il segretario generale dell'OAs, Joano Baena Soares, fece appello al gruppo dei Sette Grandi, perché intraprendessero delle misure serie per contrastare la diversione illecita dei prodotti .chimici. Il Ministro degli Esteri boliviano fece notare che la trasformazione della coca in cocaina richiede l'aggiunta di ben 41 sostanze chimiche, nessuna delle quali viene prodotta nei paesi coltivatori di coca. Il Gruppo Rio, formato da 10 paesi dell'America Latina, si occupa dal 1986 dei problemi della droga. Nel 1990 i Presidenti andini crearono un Gruppo di Coordinamento per la Lotta contro il Traffico di Droga. Il Gruppo ha una sede permanente di documentazione e di consultazione. A livello giudiziario, il Parlamento Andino ha promosso una Commissione per la


11) Europa/CEE

coordinamento dei programmi antidroga degli stati membri; misure per reprimere il traffico; riduzione della domanda; partecipazione CEE a livello multilaterale; creazione di un'Osservatorio Europeo sulla Droga (E0D).

Il Gruppo Pompidou è la più grande organizzazione europea 'esclusivamente dedicata ai problemi della droga. Si estende oltre le frontiere della CEE e comprende 23 paesi tra cui la Polonia e la Cecoslovacchia. Ha ospitato il primo convegno Est-Ovest sulla droga ad Oslo nel maggio del 1991. Il suo compito è formulare una politica e una strategia in ogni campo, partendo dalla repressione del traffico fino alla riduzione della domanda e alle cure terapeutiche. Il Comitato Europeo per la Lotta AntiDroga (CELAD) fu creato nel dicembre del 1989 per coordinare tutte le azioni dei paesi CEE a livello ministeriale. Si diede come obiettivo il compito di armonizzare l'approccio al traffico di droga tra gli stati membri e di coordinare gli sforzi europei con altri partners internazionali. Si è voluto distinguere dalla «guerra alla droga» dichiarata dai Presidenti Reagan e Bush, premendo su un programma di aiuti concreti reciproci e su uno scambio di conoscenze ed esperienze. Dopo un anno di lavoro, il CELAD ha presentato il suo programma europeo per la lotta contro la droga. E diviso in cinque campi di azione:

Lo scopo dell'EOD è di creare una rete di istituti per coordinare i vari lavori di documentazione e di ricerca in un modo sistematico, riunendo in un centro unico, ad esempio, tutti i dati relativi al traffico e al consumo, ai morti per overdose ecc. Valuterà le conseguenze economiche e politiche del traffico, e sarà il veicolo di comunicazione tra la CEE e altri interlocutori internazionali, sia a livello governativo, sia di NGO. Il Gruppo Trevi, che dal 1976 coordina l'impegno antiterrorismo della CEE5 ormai si occupa formalmente anche del traffico della droga. Trevi opera su tre livelli: il primo è composto dai Ministri della Giustizia e degli Interni dei paesi europei e si riunisce due volte all'anno. Al secondo livello lavorano i sotto-segretari o i responsabili diretti dei Ministri; il terzo livello, quello operativo, è formato da ufficiali e da esperti, divisi per quattro gruppi di lavoro (terrorismo; ordine pubblico e formazione professionale; droga e criminalità; gruppo 1992 e coordinamento). La CEE ha intrapreso due iniziative legislative molto importanti sulla droga: la prima, approvata nel dicembre 1990 e vincolante dal 1 luglio 1991, riguarda

Prevenzione e per la Lotta contro la Produzione, il Commercio e il Consumo illegali delle Sostanze Stupefacenti. Questa Commissione dovrebbe costituire la base di uno spazio giudiziario andino omogeneo.

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la diversione illecita dei precursori chimici. La direttiva impone controlli sulla documentazione, l'identificazione, le importazioni e le esportazioni di sostanze specifiche. Richiede a ognuno degli stati membri di fornire un rapporto annuale all'INcB. Entro la fine del 1992 era in programma una nuova direttiva CEE sui movimenti di prodotti chimici all'interno della Comunità. Un'altra direttiva CEE vuole impedire che il sistema finanziario venga utilizzato per il riciclaggio del denaro proveniente dal traffico della droga. E stata approvata nel giugno 1991 a Lussemburgo ed entra in vigore il 1° gennaio 1993. Una iniziativa europea ancora più impegnativa nel campo del riciclaggio è la Convention on Laundering Search, Seizure and Confiscation of the Pro ceeds from Crirne, elaborata dal Consiglio d'Europa. E un tentativo di non limitare il concetto di riciclaggio ai profitti provenienti da crimini come traffico di droga, atti terroristici, sequestro di persona, ma di allargarne la portata a tutti i reati gravi (serious crimes). La Convenzione è stata firmata da più di 15 paesi ma è stata ratificata soltanto dal Regno Unito, il 28 settembre 1992. Il programma antidroga europeo agisce sia all'esterno della Comunità che al suo interno: la Francia, la Germania e la Spagna sono osservatori permanenti dell'Inter-A merican Commission for Drug Abuse Control (CIcAD) con la quale sperano di creare un Inter-A merican Drugs Information System (JADIS). 44

Ufficiali governativi e forze dell'ordine degli Stati Uniti, della Spagna e dell'Itaha hanno formulato un accordo Trilateral per coordinare azioni comuni contro la droga e per creare nel futuro un'agenzia comune antinarcotici. Alla riunione dell'ottobre 1989 sono stati inviati partecipanti dei tre paesi andini per discutere degli aiuti economici destinati a quella regione. Altri incentivi economici sono previsti dalla CEE nell'ambito del Special Cooperation Programme. Alla fine del 1990 un sistema di tariffe preferenziali commerciali è stato introdotto a vantaggio della sola Colombia, ma adesso viene esteso anche a Bolivia, Ecuador e Perù. Con questo sistema denominato Generalized System ofPreferences (Gs) i prodotti quali il caffè, i fiori, e i beni industriali dei quattro paesi entrano duty free nella CEE per un periodo (rinnovabile) di quattro anni. Unica eccezione (per motivi sconosciuti a chi scrive): le banane! Una parte del bilancio preventivo della CEE è dedicata al programma di cooperazione Nord-Sud (North South Prograinme). Nel 1988 furono stanziati 5,8 milioni di Ecu; nel 1990, 9,8 milioni. Inoltre sono stati stanziati 10 milioni di Ecu per stimolare le economie agricole e per la cura e il trattamento dei tossicodipendenti. Nuovi meccanismi importanti di cooperazione sono stati formati tra Est e Ovest tramite la collaborazione Pompidou/CELAD. Si spera per il futuro di estendere la cooperazione inter-euro-


ga europea e si sono distinte per impegno professionale e visione complessiva del fenomeno. Sono, in Italia, la Direzione Centrale per i Servizi Antidroga (ex Servizio Centrale Antidroga) e, in Inghilterra, il National Drugs Intelligence Unit. La prima fa parte del Ministero degli Interni e costituisce il servizio di intelligence e di coordinamento a livello centrale per le attività antidroga italiane. A livello internazionale è il maggiore punto di riferimento, sia in senso ORGANIZZAZIONI NAZIONALI operativo sia per quanto riguarda la Troppo lungo sarebbe un elenco di tut- raccolta dei dati sul traffico, sui sequete le organizzazioni nazionali preposte stri delle sostanze, sugli arresti di persoalla lotta antidroga. In ogni paese i ne per reati di droga, sui decessi per compiti operativi di vigilanza sulle overdose e per le altrettanto importanti frontiere e di repressione del traffico, analisi del fenomeno italiano nell'ambidella distribuzione e del consumo; ri- to europeo e globale. mangono sotto il controllo principale Dall'aprile 1992 la National Drugs Inteldelle forze della polizia e della dogana. ligence Unit fa parte del nuovo organo di intelligence nazionale per le forze di In alcuni paesi, specialmente dove ci sono gravi problemi di ordine pubblico e polizia e di dogana: il National Criminal Intelligence Service, una forma di di guerriglia, le azioni repressive vengono affidate ai militari. E il caso, per "FBI inglese". A differenza del FBI, però esempio, di molti paesi asiatici e latino- la NcIs non è operativa; vi lavorano 2.000 agenti di polizia, dei servizi dogaamericani. Negli Stati Uniti ben 37 organi federali nali e dei civili, per costruire una mapsono impegnati in attività antidroga di pa organica dei grandi criminali, dei locui la più importante è la Drug Enforce- ro affari e dei loro movimenti. Il reparment Agency; ha 2.500 agenti ed è rap- to droga (400 unità) è in grado di coorpresentata in 43 paesi, dove gli agenti dinare a livello di intelligence un gran godono di status diplomatico. Per l'an- numero di operazioni antidroga sia in no 1991 il bilancio estero della DEA Inghilterra che all'estero. Ben 27 Drug comprendeva uno stanziamento di 17,8 Liaison Officers sono stati inviati ad almilioni di dollari per la Colombia, la trettante ambasciate inglesi all'estero dove collaborano alle indagini di droga Bolivia e il Perù. Due organizzazioni nazionali hanno del paese ospite e mandano informazioaperto la nuova via per la lotta antidro- ni utili ai servizi antidroga inglesi. Una

pea soprattutto alle organizzazioni non governative. In questo senso lavora anche il European Policy Co-operation Group on Drugs, creato nel 1990 per stabilire le linee generali di cooperazione in materia di droga con paesi in via di sviluppo, in particolare quelli maggiormente coinvolti nella produzione e nel traffico di droga.

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funzione di particolare importanza del reparto finanziario del Ncis è la raccolta delle segnalazioni di transazioni sospette che arrivano dalle banche e da altri intermediari finanziari. La creazione di un European Drugs In. telligence Unit come primo passo verso una forza di polizia europea, 1'Europol, dovrebbe realizzarsi nel prossimo futuro.

problemi del debito estero agendo concretamente contro la coltivazione delle piante narcotiche per ricevere aiuti economici. Ultimamente, con una forza non più pietosa a casa che all'estero, gli Stati Uniti si sono messi all'avanguardia di una politica severissima di repressione del consumo. Finora una filosofia fondata sulla punizione morale e penale di ogni uso di droga non ha trovato piena CONCLUSIONE concordanza nei paesi europei. La Comunità europea si sta muovendo molto La crescita esplosiva del mercato illeci- cautamente su questo terreno, ma certo degli stupefacenti non ha risparmia- tamente non vuole diventare un mercato nessuno. Ogni singolo paese ha do- to unico e libero di droghe, troppo in vuto fare i conti con il fenomeno droga contrasto con l'alleato oltreoceano. da due punti di vista potenzialmente In qualche modo, dunque, ognuno ha contrastanti: dall'interno del suo pro- preso atto dei gravissimi interrogativi prio paese e in quanto membro respon- posti dall'esistenza di un forte mercato sabile di una comunità internazionale. illegale e ha reagito. Con quali risultati? Gli Stati Uniti hanno agito per primi, In teoria le strutture e i mezzi tecnici introducendo nel 1970 la legge RICO per una perfetta collaborazione esisto(Racketeer Influenced and Corrupt Orga- no, ma a tutti i livelli il processo di nizations - la "Rognoni-La Torre" ame- coordinamento risulta più lento di ricana) e sono stati i primi ad elaborare quanto si potrebbe immaginare. Le difuna legislazione antiriciclaggio. Va ri- ficoltà sono da un lato pratiche e da un conosciuto che l'impegno e la profes- altro politiche: anche nella stessa Cosionalità degli investigatori americani munità europea, giurisdizioni e culture in materia di criminalità economica diverse e la indisponibilità dei paesi hanno favorito l'arresto e la confisca membri a rinunciare alla propria sovradei beni di numerosi narcotrafficanti e nità, escludono per esempio, almeno hanno spinto tutti i paesi industrializ- per ora, la costituzione di una Corte zati a coinvolgere i loro istituti finan- unica europea che riunisca tutti i proziari nazionali nella difesa comune dal- cessi per crimini denominati "internal'infiltrazione criminale internazionale. zionali" come certi reati di terrorismo, Sotto la forte pressione della carota e di traffico di armi e di droga. del bastone, molti paesi in via di svilup- Alcuni hanno dubitato della volontà po si sono visti costretti a far fronte ai sincera di trovare una soluzione altrui46


stica. Troppo spesso la lotta alla droga è stata subordinata ad un altro tipo di lotta di natura politica. Coniugare aiuti militari ed economici in paesi dove la democrazia è fragile vuoi dire fare un gioco pericoloso, che apre interpretazioni ambigue. La stessa UNIDCP gode di maggiore stima proprio perché è e viene riconosciuta come apoiitica. Ma, con i suoi 80 milioni di dollari all'anno, non può fare miracoli. I contadini asiatici e sudamericani preferirebbero certamente non vivere di un guadagno clandestino; vanno aiutati finché il vantaggio. economico della pianta illecita diventi via via inferiore al valore di una coltivazione alternativa. E una trasfor-

mazione che richiede non tanto una sostituzione di colture quanto una sostituzione di economie. Ciò vuoi dire che sono necessarie cifre molto più elevate di quelle mai finora previste - comunque meno del costo sociale ed econòmico dell'abuso della droga negli Stati Uniti, stimato cautamente a 60 miliardi di dollari all'anno. Se veramente i paesi industrializzati vogliono trovare una soluzione al problema del traffico degli stupefacenti, devono agire coerentemente e generosamente con e non contro i paesi produttori, per l'interesse proprio e altrui. Solo così possiamo costruire insieme una società più sana e più vivibile per tutti.

Nota * Siamo consapevoli che, da quando l'articolo è stato composto, si sono verificati alcuni cambiamenti, i qua-

li però, non avendo mutato la prospettiva di fondo, non inficiano l'interesse di questo contributo he pertanto pubblichiamo [N.d.R.].

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Un'intervista a Falcone di Alessandro Silj

Il testo che segue è la trascrizione (appena emendata per renderla grammaticalmente accettabile) degli appunti dettati in stile telegrafico subito dopo aver parlato con Giovanni Falcone, a Palermo, nel maggio del 1988. L'intervistafaceva parte di un mio lavoro di ricerca sul prezzo pagato, in termini di vita affettiva e familiare e di rapporti sociali, da chi si trova a dover vivere costantemente sotto scorta. In alcuni casi ho avuto la possibilità di parlare anche con la moglie e ifigli dell'intervistato. Non così per quanto riguarda Falcone, il quale, dei cinque magistrati palermitani incontrati in quella occasione, fu senza dubbio il pili restio a parlare della sfera privata della sua vita. Oggi lo ricordo come un uomo totalmente assorbito dal proprio lavoro e dalla lotta alla mafia, appassionatamente impegnato in quella che egli considerava una missione, la cui importanza giustificava qualsiasi sacrificio; eppure, al tempo stesso, scettico, eforse dovrei dire ironicamente scettico, sulla possibilità di sconfiggere il fenomeno mafioso in tempi ragionevolmente brevi. «Forse soltanto i nostri nipoti, e forse, chissà, nemmeno loro mi disse, accompagnandomi alla porta del suo ufficio bunker dopo l'intervista - riusciranno a vivere in una Palermo migliore». PALERMO 20 MAGGIO 1988

Uscendo dall'ufficio del magistrato Conte ho fatto una passeggiata. Sono andato fino a via Notarbartolo e mi sono seduto su un muretto su1 lato opposto della strada dove si trova il palazzo in cui abita Falcone. Erano le tredici e trenta e sapevo che all'incirca a quell'ora Falcone sarebbe tornato a casa. Volevo vedere questo apparato di scorta e di protezione di cui a Palermo tutti parla48

no. Ho dovuto aspettare una buona mezz'ora. Di fronte al palazzo stazionano due poliziotti armati di mitra e con giubbotto antiproiettile, in una garitta di cemento con i vetri antiproietti-. le, costruita appositamente sul marciapiede (fa una certa impressione, messa lì di fronte ad una abitazione civile, in una strada così normale, in città). Improvvisamente alle due e cinque ho visto, attraverso il vetro, uno dei due agenti che confabulava concitatamente


al telefono; l'altro intanto correva all'incrocio e mitra in mano bloccava il traffico, e subito dopo il primo correva in direzione opposta, verso il semaforo, e bloccava il traffico anche lì. Quando la strada era ormai completamente sgombra sono apparse tre auto, prima una macchina della polizia, di quelle bianche e celesti, a sirene spiegate, poi due Alfa. Si sono parcheggiate all'ingresso di Falcone in parallelo, da quella più esterna sono saltati fuori tre uomini, e ho riconosciuto quelli che avevo visto nel corridoio del Tribunale mentre aspettavo di vedere Conte (anche uno di loro mi ha visto e ci siamo sorrisi - eh, sì, sono io, salve) e questi tre si sono disposti intorno all'altra macchina, ne è uscito Falcone che ho visto di spalle e che è salito lentamente (ci sono circa tre o quattro scalini di fronte al portone), poi è entrato nel palazzo. Ecco, nel momento in cui lui passava dalla macchina al portone io ho avuto un'impressione di estrema fragilità e pericolo e infatti poi quando ci siamo incontrati proprio da questo episodio partita l'intervista.

IL MAGGIOR PERICOLO

Gli dico: «l'ho vista oggi entrare a casa>', e lui dice: «sì, l'abbiamo notata ... >'. «Mi domando fino a che punto queste misure siano sufficienti - continuo perché ero seduto lì sul muretto, avevo una grossa borsa nella quale poteva esserci un'arma e avrei potuto spararle;

poi mi avrebbero ammazzato ma intanto io avrei sparato a lei; e così pure potrebbero spararle dalla finestra di uno dei palazzi di fronte». «Sì - Falcone ammette - effettivamente quello è il momento di maggior pericolo, proprio quel tragitto brevissimo dalla macchina al portone, e così sono stati ammazzati gli altri; d'altra parte non c'è niente da fare, cosa possiamo fare? Perù la sua ipotesi, che lei avrebbe potuto spararmi, non corrisponde ai comportamenti della mafia. Infatti il mafioso saprebbe già in partenza che verrebbe ammazzato, perché gli agenti risponderebbero e questo non è il tipo di rischio che un mafioso prende, il mafioso non è un kamikaze, i mafiosi colpiscono quando sanno che possono farla franca; e infatti non si mai dato il caso di un mafioso colto e arrestato subito dopo un attentato». L'intervista è iniziata alle ore 16, puntualissima, nell'ufficio di Falcone. Io tiro fuori subito il volume Rapporto sulla mafia degli anni '80, a cura di Galluzzo, La Licata e Lodato, che contiene gli atti dell'ufficio istruzione del Tribunale di Palermo su quello che poi sarebbe diventato il primo maxi processo, ma contiene anche una lunga intervistaracconto a Giovanni Falcone, che io mi sono letto con molta cura, e annotato. Metto il libro sul tavolo e gli dico: «Senta, per non perdere tempo, visto che lei non ne ha molto, e per evitarmi di fare domande per avere risposte che ho già qui, le voglio soltanto chiedere se lei approva questo testo, cioè se pos49


so ritenere che le opinioni a lei attribuite sono autentiche», e mi risponde che sì, era tutto esatto: «quello che lei legge in quel testo io lo condivido, lo approvo'>. Qui mi limiterò a citare alcuni punti di quel testo, pochi perché bisogna dire che Falcone parla con estrema riluttanza della sua vita privata, lo considera un argomento non importante. E costretto 16 ore su 24 a vivere in un ufficio d'acciaio e cemento perennemente illuminato al neon, seguito a vista da uomini armati, il che significa semplicemente, ormai da tanti anni, quasi l'impossibilità di assaporare i piccoli piaceri della vita quotidiana, il cinema, una cena al ristorante, andare per negozi, una banalissima passeggiata. Ma, aggiunge l'autore dell'introduzione al citato volume, di questo aspetto della sua esistenza Falcone con noi ha preferito non parlare. Bisogna riandare ad alcuni fatti della vita, della gioventù di Falcone, che sono a mio parere significativi e che ne illustrano il carattere... i suoi rapporti con i genitori, come è cresciuto, in che condizioni economiche e via dicendo, e sono alle prime pagine dell'intervista. Parliamo della scorta, Falcone dice nell'introduzione, e viene citato dall'introduttore: «Quello fu un anno di svolta nella mia vita, quando divenni titolare dei processo Spatola, al centro dell'attenzione dei penalisti palermitani, infine scortato». L'introduttore vuoi sapere da Falcone se pecca di personalismo chi subisce i titoli di prima pagina o è costretto a vivere scortato. «In entram50

bi i casi anche se magari all'inizio provi un piacere, un orgoglio innaturale, ti accorgi presto che sei tu a pagare un prezzo altissimo». «Certo non c'è proprio di che essere orgogliosi di avere la scorta - Falcone osserva - però si può capire come l'ego di alcuni di noi possa esserne gratificato».

IL PREZZO ALTISSIMO

Riferendomi a quest'ultima citazione, gli chiedo: «Ma per lei, quando si parla di prezzo altissimo, ecco, se io le chiedessi adesso qual è il prezzo più alto che lei sente di pagare per questo lavoro che sta facendo?». Risponde subito, senza esitazioni: «l'assenza di relazioni sociali». Spiega: «si vedono amici, ma uno finisce per perdere il gusto delle piccole cose; anche quando in teoria si potrebbe avere tempo di farne alcune, l'insieme delle condizioni di vita in cui uno si trova ad operare, te lo fa perdere». Insisto: «ma lei ha un hobby? C'è una cosa che le piace in particolare al di fuori del suo lavoro?». Risponde: «i concerti». Gli chiedo quando è andato l'ultima volta a un concerto. «Diversi anni fa», risponde, e poi viene fuori su mia insistenza che è stato prima che lui passasse all'ufficio di Palermo; quindi praticamente da quando fa questo mestiere come capo del nucleo antimafia del Tribunale di Palermo, quella che è una delle sue attività, dei suoi svaghi preferiti, andare ad un concerto, non l'ha più fatto. Gli domando: «ma allora


come passa le serate?». Intanto mi conferma che lui sta sempre a casa, cioè va in Tribunale e torna a casa, poi di nuovo in Tribunale e a casa, lavora il sabato e lavora anche la domenica a casa. Gli domando: «ma allora quali sono i suoi svaghi? Che cosa fa al di fuori del lavoro, nelle poche ore che ha libere, tra virgolette libere, che cosa fa? Guarda la televisione?». Dice: «sì, guardo la televisione qualche volta, con mia moglie, la sera dopo cena». Ma chiaramente .è restio a parlare di questo aspetto della sua vita. Io insisto: «Legge libri?». «Sì sì, leggo, anche quello è un passatempo». Gli chiedo quali libri, se ha un autore preferito e lui mi risponde che per molto tempo è stato Sciascia, risposta prevedibile, forse, poi aggiunge: «non più adesso», gliene chiedo la ragione, risponde: «perché trovo che Sciascia si è inaridito, che non è più quello di una volta, è diventato forse troppo, non lo so ... ». Non si spiega, sembra che voglia dire che Sciascia è diventato adesso un po' artificioso... che ha perso forse il contatto con la realtà, comunque è chiaro che a lui piaceva lo Sciascia prima maniera e non lo Sciascia degli ultimi anni. Gli domando: «ma allora, mi dica un altro autore, adesso che non ama più Sciascia, mi dica un altro autore che lei legge volentieri» e mi risponde: «Consolo». Gli confesso che non lo conosco. «E un altro autore siciliano, messinese per la precisione - spiega - molto, molto bravo, legga i suoi libri pubblicati da Adelphi».

MAFIA E TV

Poiché parlìamo di libri e televisione, gli chiedo: «Ma lei in televisione guarda anche i films sulla mafia, e che cosa ne pensa?». «Anni fa - risponde - venne da me Gillo Pontecorvo che voleva fare un film sulla mafia, anzi aveva già scritto praticamente tutta la sceneggiatura. E parlammo numerose volte, mi venne a trovare.., voleva consigli... mi fece leggere la sceneggiatura ... poi non se ne fece nulla, lui non fece più il film perché capì che inevitabilmente ogni film sulla mafia sarebbe diventato un film agiografico». «Perché agiografico?». «Per la presenza di eroi, di eroi negativi ma pur sempre eroi». Chiedo: «anche La Piovra?». Ci pensa su un attimo poi risponde. Non crede che sia possibile fare un vero film sulla mafia. Gliene chiedo i motivi e lui mi cita due ragioni: una riguarda proprio il mezzo utilizzato che forse non è il più adatto, il cinema, e poi la complessità del fenomeno. Insisto: «veramente non riesce a pensare a nessun film tra quelli che ha visto in tutti questi anni sulla mafia, sulla criminalità organizzata, che gli è parso abbastanza credibile?». E lui cita Mani sulla cittì, di Francesco Rosi. E poi aggiunge: «perché poi tutto sommato se lei fa un film sulla mafia in realtà fa un film sulla Sicilia. Ed è forse, proprio questa la difficoltà. Altrimenti si finisce semplicemente per fare cronaca, come 100 giorni a Palermo, il film su Dalla Chiesa». Gli chiedo: «ma le è piaciuto?». «Sì.. come cronaca - e aggiun51


ge - è pedagogico ... ti spiega un po' le cose ... ». Però insiste, ripete che le difficoltà nel fare un film sulla mafia sono, a suo parere, quasi insormontabili (testualmente ha detto: «quasi insormontabili<).

VIVERE A PALERMO

Torniamo sull'argomento di che cosa significhi vivere facendo il magistrato antimafia a Palermo, e lui, di nuovo, come tutti gli altri (e questo dato è impressionante, perché veramente tutti mi hanno detto la stessa cosa) mi dice: «Palermo è una strana città, si fa l'abitudine a tutto, al punto che la consue tudine diventa quotidiana, e - precisa - allora inevitabilmente la guardia si abbassa». Gli dico: «ma è un caso (domanda che ho fatto a tutti i suoi colleghi) che voi dell'antimafia a un certo livello, siate tutti siciliani? In particolare palermitani? E un bene che a occuparsi di mafia siano i giudici siciliani o è una necessità? Nel senso che un giudice di altra estrazione non riuscirebbe ad affrontare questo problema perché avrebbe difficoltà a capirlo veramente fino in fondo, a capire certi meccanismi, la mentalità che c'è dietro... non soltanto nei mafiosi ma nei siciliani generalmente». «Ci sono degli svantaggi - mi risponde -, degli svantaggi e dei vantaggi: il vantaggio è che il giudice palermitano che si occupa di mafia è dentro la mentalità, conosce la mentalità, il modo di esprimersi, le abitudini, i 52

comportamenti di questa gente, e questo lo facilita nella comprensione di certi fatti. Per quanto riguarda gli svantaggi torniamo al solito famoso problema della "contiguità", quindi della possibilità di inquinamenti; forse la vicinanza al fenomeno è eccessiva, in alcuni casi. Ma qui viviamo, qui respiriamo mafia tutti i giorni, la città ne è permeata; lei non si può rendere conto - mi dice Falcone - di quanto spesso e in quante persone, io abbia riscontrato atteggiamenti esplicitamente o inconsciamente mafiosi, anche in quelli che non sono mafiosi... è proprio un modo di essere, di pensare, è una mentalità, è una cosa che va indietro, indietro, indietro nel tempo». Torno sull'argomento della sicurezza, che lui continua ad evitare. «Senta - gli dico - un suo collega mi ha detto che quando va a Roma, talvolta con lei talvolta senza di lei, insomma quando andate a Roma voi magistrati del nucleo antimafia, a Roma o in un'altra città, provate la "goduria" di poter andare al bar dell'angolo a prendere un caffè, senza la scorta e senza guardarvi alle spalle». «Sarà vero per loro, ma non è vero per me - risponde Falcone - io anche quando sono fuori devo guardarmi le spalle e certo non mi muovo molto liberamente». Gli chiedo di sua moglie che fa il magistrato (e lui precisa: «sì, fa il magistrato, fino a poco tempo fa presso il Tribunale dei minorenni e molto recentemente è stata trasferita alla Corte d'appello»): «ma sua moglie in quanto moglie di Giovanni Falcone, subisce delle conseguenze per


questo? Problemi nella sua vit'a professionale o privata, per es. limiti alla sua libertà di muoversi?». Mi risponde: «No, non veramente, non veramente». Che significa: roba di poco conto. Gli chiedo qualche esempio.. .non me lo dà; insomma è evidente che di questo aspetto Falcone non vuole parlare. A questo punto rinuncio e passo a parlare del suo lavoro, delle prospettive del suo lavoro, di come lui vede il fenomeno mafia, e devo dire è interessante, come d'altronde era prevedibile. Gli chiedo: «ma lei a che punto crede che siate con la lotta alla mafia? La vede in prospettiva come un successo? E di che tempi parliamo, di una generazione?». Lui risponde: «no... per carità, parliamo di tempi molto più lunghi... molto più lunghi». D'altronde la cosa che mi ha colpito nella conversazione con Falco•ne è che lui, pur credendo fortemente in quello che sta facendo, non è così convinto che alla fine porterà un contributo determinante allo sradicamento della mafia; tra l'altro sembra nutrire dei dubbi sul fatto che a lui e ai suoi del nucleo antimafia verrà permesso a lungo di continuare a operare in questo modo. «Perché - mi dice (una frase significativa) - certo noi facciamo questo lavoro e continueremo a farlo» ma poi aggiunge: «fino a quando ce lo faranno fare». E io: «scusi, quando lei dice fino a quando ce lo fanno fare, a chi si riferisce? Chi?»... Sorride. Di nuovo insisto: «i mafiosi e anche gli altri?». Annuisce e dice: «sa, non nascondiamoci il fatto che noi siamo persone scomo-

de, che si creano a causa nostra situazioni di malessere e che alla lunga questo dà fastidio. Ora si tratta di vedere fino a quando, e fino a che punto noi diamò fastidio, fino a che punto il sistema, l'ambiente, non solo palermitano, è disposto a tollerare la nostra presenza, il nostro comportamento, questo nostro modo di agire». La cosa interessante che aggiunge a questo punto Falcone è il timore che quella che lui chiama «tendenza alla normalizzazione» possa minare il lavoro suo e dei suoi. Si riferisce al clima di normalizzazione post-emergenza, determinato dalla fine del terrorismo; clima di normalizzazione che la gente è portata ad estendere anche alla lotta antimafia. «E questo - dice - è profondamente sbagliato; perché in Sicilia non si può parlare da questo punto di vista di emergenza, come nel caso del terrorismo: c'è stata emergenza, l'emergenza è finita, inizia la normalizzazione. In Sicilia è assolutamente improprio parlare di emergenza perché la mafia c'è sempre stata, c'è, è un dato che permea la società, è un dato permanente, non è che prima non c'era e adesso c'è, adesso c'è l'emergenza e poi forse non ci sarà, diciamo, c'era prima, c'è adesso; dopo non sappiamo, ma certo non si può pensare che oggi la situazione si vada normalizzando. Perche la mafia c e e anche adesso che abbiamo colpito Cosa Nostra con questi processi, non facciamoci illusioni, perché è, semmai, indice di maggiore pericolosità che la mafia non faccia parlare di sé come in questo 53


periodo recente; se non fa parlare di sé questo è un pericolo; non è detto che è perché si sta rafforzando, si sta riorgadebba poi sfociare in una totale passivinizzando dopo i colpi subiti. Mentre tà, però certamente siamo in una fase quando ci sono degli omicidi, quando involutiva rispetto al nostro primo peci sono delle guerre di cosche, è un sin- riodo di inchieste, di istruttorie, e di tomo di debolezza della mafia; nel sen- lotta alla mafia; ed è per questo che io so che al suo interno ci sono delle osti- non sono molto ottimista, non posso lità; quando viceversa non succede nul- esserlo perché vedo questi segni, questi la, quello è il momento in cui noi dob- sintomi di involuzione; spero che ribiamo stare più all'ei-ta, perché vuoi di- mangano soltanto un momento passegre che la mafia sta lavorando per conso- gero, che non debbano confermarsi o lidarsi». Aggiunge Falcone: «noi parlia- rafforzarsi, ma sarei ciecose non li regimo sempre della Sicilia, ma non dimen- strassi». tichiamoci che c'è anche la situazione A questo punto cerco di verificare con della Calabria, che è molto peggiore, Faicone quanto dettomi da altri, come ma di gran lunga peggiore, non soltan- Conte, per esempio, sui fatto che la coto come conteggio degli omicidi, ma da siddetta omertà come abitudine di vita, un punto di vista più generale; là la si- come abitudine di rapporti con le autotuazione è molto arretrata, cioè non ci rità, si sta incrinando, che i cittadini sosono nemmeno quei sintomi di pro- no più disponibili per testimoniare, ecgresso dal punto di vista generale del- cetera; e qui Falcone scuote la testa e dil'opinione pubblica, della popolazione, ce di no, che non è proprio vero. (E delle forze dell'ordine; anche se in alcu- queste differenze di opinioni fra giudici ni paesi si incominciano ad avere dei ri- che lavorano insieme sulle stesse cose sultati e alcuni magistrati cominciano a va registrata, perché è di per sé signififare del buon lavoro; ma nell'insieme è cativa). No, Falcone non crede che tra i una situazione molto arretrata, è anco- cittadini c'è veramente un atteggiamenra un po' com'era la mafia in Sicilia 20 to nuovo, e sottolinea la differenza tra i anni fa». pentiti e il cittadino qualunque; dice: «Tornando alla Sicilia - dice Falcone «sì, i pentiti adesso sono un fenomeno - il pericolo che vedo, e che citavo pri- che si sta rafforzando, esistono, e l'inma come normalizzazione , e il peri- troduzione al volume citato prima spiecolo di tornare alle vecchie abitudini e ga anche perché. Ma la cosa è diversa ai vecchi metodi di lavoro, che noi abnel caso di un cittadino qualunque, perbiamo superato, con la nostra attività; ché il cittadino qualunque non si sente ma noi siamo, se vogliamo, un'isola. Le protetto, non si sente sicuro; cioè, io abitudini burocratiche, questo sedersi, Stato non ha fatto quello che avrebbe rilassarsi, che è evidente anche nell'a- dovuto fare o potrebbe fare per farlo zione delle forze della polizia, ecco, sentire sicuro. Quindi i cittadini temo54


no sempre che per effetto di loro eventuali testimonianze, o collaborazioni con le autorità, qualcosa potrebbe accadere a loro personalmente o a qualcuno della loro famiglia e dunque non c e grande cambiamento da questo punto di vista». «Perché il nostro lavoro possa continuare - dice Falcone - occorre una forte spinta dall'opinione pubblica». E nota che per fortuna ancora adesso la stampa nazionale è abbastanza attenta a quello che sta accadendo in Sicilia, e tutto sommato dà un buon appoggio al lavoro dei giudici. Peraltro, e questo non deve affatto sembrare strano, lo stesso non può dirsi della stampa siciliana. Infine, osserva che la repressione del fenomeno mafioso non può essere affidata soltanto alla magistratura. E qui torniamo al problema della bonifica sociale che già altri colleghi di Falcone hanno citato. Perché la magistratura può fare la sua parte, ma quando ci sono altre forze sociali che non fanno la loro, allora il fenomeno mafioso viene soltanto incrinato, ma certo trova altri alimenti. Infine, parliamo dell'atteggiamento generale della cittadinanza palermitana rispetto ai giudici e qui Falcone mi conferma quanto già dettomi dagli altri, e cioè che c'è ostilità. E una ostilità molto evidente! L'incontro con Falcone volge al termine. Ci sono diverse telefonate, c'è gente che aspetta fuori, d'altra parte delle cose che mi interessavano di più, come la vita familiare i rapporti con l'esterno, Falcone non vuole assolutamente parlare; quindi lo ringrazio e

gli chiedo se può aiutarmi a contattare la vedova Chinnici e la vedova Cassarà, perché nel quadro di questo mio lavoro mi interesserebbe molto poter parlare con loro. Mi dice: «sì, secondo me, meglio la vedova Cassarà che non la vedova Chinnici, perché la vedova Cassarà è più giovane, parla di più, ha vissuto questa esperienza in maniera molto più intensa ed emotiva e sono sicuro che per lei sarebbe più interessante parlare con la Cassarà che con la Chinnici, però la Cassarà in questi giorni non è a Palermo; mi richiami da Roma e le fisserò un appuntamento». E così restiamo. Dico: «ma non potrei tentare oggi, visto che sono a Palermo, e visitare la vedova Chinnici?» Mi ha detto: «ma guardi trova il numero sull'elenco telefonico, la chiami lei anche da parte mia, comunque non credo che le dirà molto». E su questo si chiude il mio incontrointervista con Falcone che, al di là delle cose che mi ha detto, è stato interessante per i giudizi meno ottimistici di quelli espressi da molti suoi colleghi. C'è uno scetticismo di base, direi, che apparentemente deriva dal fatto di una sua consapevolezza che l'impegno dello Stato è soltanto marginale o superficiale. Sono venuto via con l'impressione di un uomo, molto impegnato, ma non convinto che quello che sta facendo giungerà in porto. L'altra impressione molto forte, e devo registrarla perché tale è stata veramente, è che mentre gli parlavo, dall'altra parte della scrivania, continuavo a vederlo morto, cioè con55


tinuavo a pensare, questo qui prima o poi lo fanno fuori. Io aprirò il giornale un mattino e leggerò che lo hanno am-

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mazzato. E mi ricorderò di questi 45 minuti passati nel suo ufficio a parlargli di mafia.


queste istduzioni-

Il nuovo delle Fondazioni Casse di Risparmio

Il lettore di Queste Istituzioni sa bene quanto sia stata sottolineata, in piiì occasioni, l'importanza del "terzo settore". E non soltanto per gli aspetti descrittivi del fenomeno quanto per le sue potenzialità. Basta ricordare il dossier L'organizzazione del non profit (nn. 85-86, 1991) e gli articoli di Marina e Pierre Schneider: Le fondazioni culturali europee, e di Mario Colacito: Fondazioni e Assoiazioni: istituti da tenere insieme o da separare?(nn. 87-88, 1991). In questa prospettiva rientra anche il compito di fare ricognizione delle iniziative in corso. Di qui l'ospitalità che viene data su queste pagine agli atti del convegno organizzato il 27 novembre dalla Cassa di Risparmio in Bologna. Non è ancora chiarissimo còsa siano le Fondazioni Casse di Risparmio. Si tratta di una realtà nuova, nata quasi per caso dalla necessità di dare agli organismi pubblici del credito una maggiore omogeneità nei confronti delle normali aziende bancarie. Ma solo di ciò si tratta? Tali istituti potrebbero essere chiamati a giocare un ruolo di primo piano nella vita sociale e culturale del paese, recuperando via via la funzione che in altri paesi e contesti sociali le grandi 57


fondazioni storiche hanno svolto. Ci riferiamo a quelle degli Stati Uniti e della Germania. E dunque importante stimolare una riflessione ed un dibattito che permettano l'emergere di una cultura incentrata sull'autonomia e la responsabilizzazione in concreto, con precise iniziative, di quella che s'usa chiamare "societì civile". Si tratta di elaborare gli strumenti organizzativi e gestionali necessari, ma anche di introdurre quelle riforme legislative che permettano di regolare e definire una realtì che, complice il disinteresse fondato su una generale delega allo• Stato in materia di interessi umanitari, filantropici e culturali è ancora disciplinata da un 'ormai inapplicabile normativa codicistica. Il settore, privo di quei punti chiari e definiti che solo la legge può offrire, si è perciò sviluppato in modo disorganico, con sprechi e abusi che ne condizionano negativamente la crescita. Per questo, accanto alle numerose giornate di studio e di dibattito, si pone con urgenza la necessitì di organizzare iniziative dagli obiettivi concreti e definiti. E in quest'ottica che il Gruppo di Studio Societì e Istituzioni, in collaborazione con la Banca di Roma, ha elaborato una proposta di riforma del primo libro del codice civile che è stata presentata al pubblico il 15 e 16 marzo del 1993. Riprenderemo il discorso sul tema.

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I nuovi modi del dare nella società di oggi di Sergio Ristuccia

Questo tema si presta a varie interpretazioni, ho scelto di interpretarlo nel senso di riferire le osservazioni, in qualche modo organizzate, di chi credo possa presentarsi come un osservatore del "fenomeno del dare" di questi ultimi trent'anni, soprattutto per quanto riguarda la realtà delle fondazioni. Questa relazione diviene, quindi, come il racconto in qualche misura di un testimone, di chi cioè ha cominciato ad occuparsi e a essere nel mondo delle fondazioni, dapprima quello rarefatto delle fondazioni italiane - rarefatto sia in termini di numero, sia in termini di consistenza - e in seguito in quello delle fondazioni europee. Ho partecipato, infatti, in qualità di segretario generale della Fondazione Olivetti, al Club dell'Aia, - quel club (tuttora esistente) dei direttori delle principali fondazioni europee che hanno origine dal mondo privato e dal mondo industriale -, mentre attualmente faccio parte del comitato esecutivo della Fondazione Europea della Cultura. E proprio dall'osservatorio di quest'ultima Fondazione - di cui faccio parte proprio grazie a questo collegamento stabilito negli ultimi quindici anni fra

gli uomini delle fondazioni in Europa -, ho potuto constatare anche quel fermento di interesse, di grande attenzione che c'è stato nei paesi dell'Est dopo la caduta del muro, rispetto ai temi fondazione e settore non proJìt. Ricordo, ad esempio, la conferenza tenuta a Vienna due anni fa, in cui si riunì un gruppo molto vasto di persone dell'Europa centrale e dell'Est, tutt'intorno al tema di cosa potesse rappresentare nella realtà dei nuovi paesi dell'Est il modulo fondazioni, il modulo organizzazioni non projìt. La mia impressione ed osservazione, sulla base di questa conferenza, ma anche di molte altre iniziative, è quella di aver vissuto una realtà in altri momenti del tutto eccentrica, del tutto marginale, da cultore di rarità ed ora trasformata in un fenomeno che ha la consistenza solida e la possibilità di divenire un fenomeno sociale diffuso. In questa nuova attenzione al mondo delle fondazioni e delle organizzazioni non profit, chi ha qualche esperienza e quindi qualche retroterra di studi e di concreta gestione, a volte ritrova presentati come novità fenomeni e aspetti che già esistevano ma che erano stati in qualche modo margina59


lizzati. Per chiarire, desidero raccontare una delle mie esperienze o curiosità intellettuali sul tema delle fondazioni. Negli anni '50 chi, come me, allora giovane neo-laureato, ha avuto la possibilità di conoscere e di partecipare agli ultimi tratti della breve stagione culturale, industriale e politica di Adriano Olivetti, ha incontrato un tema che per Olivetti era una idea precisa, ripetuta, quasi un'idea fissa, una predilezione comunque particolare ed esclusiva perché in realtà non condivisa né dal suo ambiente familiare, né dal suo ambiente culturale: esattamente, il tema della Fondazione Titolare d'Impresa. Un modo, forse, di uscire da una proprietà di impresa di cifra esclusivamente familiare, ma anche e soprattutto uno strumento per una gestione d'impresa che legasse produzione, interessi collettivi - ma non siglati come interessi statali -, territorio e che aveva come riferimento esperienze del diritto e della prassi sociale nord-europea, del diritto germanico; un altro modello, riferito e illustrato in articoli e libri d'epoca, era la Fondazione Karl Zeiss del periodo fra le due guerre. Quello della Fondazione Titolare d'Impresa è un esempio tuttora presente, ne sono esempio la Karlsberg in Danimarca, la Wellcome Trust in Gran Bretagna, la Volkswagen Stiftung in Germania; esempi di Fondazioni Titolari d'Impresa di origine diversa: alcune provenienti dal mondo privato, altre, come la Volkswagen, originate da una trasformazione di un'impresa nazionale. Te

LE FONDAZIONI TITOLARI D'IMPRESA

Alla tipologia di Fondazione Titolare d'Impresa appartengono anche le Fondazioni bancarie. Al riguardo, c'è da chiedersi se la Banca d'Italia, nel 1981, quando usò il termine "fondazione" nel primo documento sulla trasfòrmazione degli istituti di credito di diritto pubblico, fosse consapevole che tale trasformazione apriva (e per i pochi conoscitori e cultori del fenomeno fondazione, quasi inopinatamente) un capitolo del tutto nuovo e per questo sorprendente, nella situazione italiana della storia, appunto, delle Fondazioni Titolari d'Impresa. Allora, parlandone con il governatore Ciampi lo trovai abbastanza sorpreso quando gli dissi che l'iniziativa mi appariva molto saggia anche perché non solo risolveva il tema e il problema degli istituti di credito di diritto pubblico, ma apriva anche un capitolo nuovo e importante per l'Italia: appunto il capitolo delle fondazioni. Comunque, bisogna dare atto a questa iniziativa, a tutto il seguito che ha avuto, agli sviluppi effettuali che conosciamo e di cui trattiamo oggi, perché proprio il caso delle Fondazioni Casse di Risparmio appartiene a questa tipologia di fondazione che è un importante capitolo nel configurare il dare (per usare un'espressione dell'amico Cavazza) in termini di interessi collettivi, ma non di organizzazione statale.


SOGGETTI PRIVATI ED INTERESSI COLLETTIVI

Il tema dei nuovi modi del dare mi suggerisce altre osservazioni. Innanzitutto, da almeno un quinquennio e forse un po' più, è andata crescendo la discussione su quali siano i rapporti fra i centri di profitto e i mondi degli interessi collettivi diffusi, nobili, quali da una parte la cultura d'arte e dall'altra gli interessi del Welfare State. Si è passati, inoltre, da un interesse latentemente ideologico, quasi si trattasse di scoprire la cosiddetta Terza Via, ad un interesse più concreto e preciso in termini di politiche pubbliche, legislative e anche di problemi di gestione, di tecniche operative del mondo che deve sovrintendere a questi legami. Si sono avuti, quindi, da una parte il tema delle sponsorizzazioni nel campo della cultura (ma non solo in questo) e poi, dall'altra, il tema delle organizzazioni non profzt come dimensione economica e sociale, come tecnica gestionle. Ci troviamo, insomma, in una riscoperta importante che giustifica iniziative nuove anche d'ordine professionale qual è quella, per esempio, a cui mi sono recentemente dedicato, cioè quella di immaginare servizi professionali utili al mondo delle organizzazioni non profit. Nel campo delle sponsorizzazioni, quello che viene anche detto del mecenatismo culturale, qualche anno fa vi sono state le iniziative di Confindustria che portarono a un libro, valido sul piano descrittivo: Il matrimonio cultura-

industria, dove si fece ricognizione e repertorio delle iniziative che l'industria stava prendendo, definendo così le dimensioni del fenomeno sponsorizzazione. Naturalmente, questo affol!arsi di interessi rischia di confondere temi e problemi che sono diversi e su questo è necessario fare maggiore chiarezza. Il tema sponsorizzazione ormai sembra riferirsi direttamente e inevitabilmente al mondo dell'evoluzione delle tecniche e del marketing, della pubblicità, non riguardando semplicemente le sponsorizzazioni nobili, ma anche le sponsorizzazioni difatti sociali, dello sport, ecc., e quindi assumendo una valenza che attiene alle modalità del fare pubblicità oggi. In questo senso c'è, evidentemente e giustamente, il problema del ritorno degli investimenti anche soltanto in termini di immagine, per chi ha effettuato la sponsorizzazione. Il dibattito di questi giorni sulle sponsorizzàzioni televisive in ragione delle reprimende CEE richiama e riporta chiaramente il tema a questa realtà. Pero, si parla anche - come gia si faceva nel testo di Confindustria -, di ciò che è chiamato neo-mecenatismo, cioè del fenomeno che riguarda il rapporto tra committenza e artisti, il mercato dell'arte e quello degli studi, fenomeno che ha dato vita ad iniziative quali riviste e associazioni sull'economia della cultura, nelle quali viene fondamentalmente ripreso il discorso sulle motivazioni del dare prima che sui modi del dare, tale da suscitare interesse su quelle 61


iniziative che non essendo sponsorizzazioni nel senso più tipico, sono tuttavia promozione di attività di cultura, di attività d'arte non del tutto esibita, non del tutto classificata. E interessante il fatto che proprio negli ultimi anni anche in questo campo vi sia stata una ripresa di studi, sia storici che appunto economici. Sulla base di questi studi è risultato che una connotazione del mecenatismo permanente nel tempo è quella della sua sostanziale ambiguità, se per mecenatismo si intende anche l'espressione della promozione liberale delle arti e della cultura; c'è un filone di studiosi che proprio risalendo allo stesso Mecenate - classificato, un po' malignamente come Ministro della Cultura di Augusto - hanno ricordato in che modo, in fondo, il legame non sia né chiaro, né del tutto riproponibile come mera promozione liberale. A fronte, quindi, di una rilettura del fenomeno del mecenatismo che, naturalmente, si ripropone tutte le volte in cui esista nel mondo della produzione possibilità di destinare ricavi, è chiaro che anche il tema del mecenatismo ha la stessa ciclicità dell'andamento economico e quindi non a caso c'è stata una certa ripresa di studi, di dibattiti sul tema in certi momenti degli anni '80 che si può prevedere non siano proseguiti nei prossimi tempi. Al di là, comunque, di questi studi di un fenomeno un po' informe che suggerisce e stimola interpretazioni sociologiche e qualche volta delle dietrologie

storiche, vi è un filone di realtà prima e di studi poi che oggi ha come campo il settore cosiddetto non projìt per il quale, sia in ragione di ciò che sta avvenendo nell'Europa Occidentale, sia delle vicende dell'Europa Orientale, vi sono motivi precisi per una attenzione nuova.

IL "TERZO SETTORE"

Non c'è dubbio, a mio parere, che ripensare a fondazioni e organizzazioni non profit ha questi due motivi nell'Europa Occidentale: il primo è che la crisi del Welfare State toglie naturalmente dalle strutture pubbliche una serie di funzioni o, comunque, afferma una tendenza alla riduzione di queste funzioni, e, nel far questo, apre il campo alle organizzazioni non profit e ne segnala un punto specifico, cioè il legame fra il dare e il mondo del volontariato; cioè, la necessità che il dare, per esempio, serva a organizzare; a offrire strutture di base al volontariato (ne è esempio, in Italia, l'iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma che ha creato la Fondazione Italiana del Volontariato). Il secondo specifico motivo è anche qui, malgrado il disincanto e le crisi che viviamo in questo periodo, l'effetto dei processi di integrazione e ibridazione fra diritti e prassi operative dei paesi della CEE che stanno portando, per esempio, all'idea di uno statuto europeo delle associazioni. Quindi, a mio giudizio, ci sono queste ragioni forti per cui nell'Europa Comunitaria


si sta riproponendo il tema del non profit. Nell'Europa Orientale, come ricordavo, c'è stata una corsa, forse rallentata data anche l'estrema difficoltà di tutte quelle economie in questo ultimo periodo, ma una vera e propria corsa all'interesse dei modelli non profit che va interpretata - a mio giudizio ma anche secondo molti che a queste esperienze partecipano -, come la ricerca di un modello di azione per così dire collettiva che, tuttavia, sia lontanissima dai modelli dell'estremo burocratismo statalista dei regimi comunisti. Qualche volta questo interesse è stato anche una via verso l'Occidente, verso il recupero di un'autonomia privata che tuttavia fosse elemento di organizzazione sociale; infine, forse, l'ingenua speranza che attraverso questi modelli si potesse anche accedere a forme di finanziamento diffuse in Occidente, ingenua speranza perché poi tale si è rivelata.

UNA NUOVA PROSPETTIVA STORICA

Davanti a questa realtà estremamente in movimento, mentre chi conòsce questo mondo vive nell'attesa che il fenomeno fondazioni e organizzazioni non profit acquistino una loro dimensione istituzionale e quindi anche una realtà effettuale vera, concreta e consistente, in altre aree di cultura di fondazioni e organizzazioni non profit c'è un profondissimo ripensamento, riorganizzazione e riassettamento. Mi riferisco al mondo d'elezione delle fondazio-

ni, ovvero quello anglosassone, che vedremo più avanti. Ora vorrei invece identificare la situazione di quello italiano o meglio, gli ordinamenti e i paesi ad ordinamenti amministrativi di tradizione legislativa napoleonica. La fondazione in questo nuovo tornante storico esce del tutto, fuori da quello che è stato uno storico veto all'esistenza stessa delle fondazioni: il veto illuminista, ovvero il veto dell'Enciclopedia. La voce di Turgot sulle fondazioni ne è allo stesso tempo la condanna: le fondazioni, infatti, erano considerate come creazioni da non favorire in quanto avrebbero immobilizzato e sottratto alla ricchezza delle nazioni, alla ricchezza sociale, patrimoni destinati dalla volontà dei fondatori e dalle presunzioni dei fondatori. Questo veto illuminista si ritrova poi negli ordinamenti di origine napoleonica, ovvero in, quegli ordinamenti dove c'è l'egemonia del diritto pubblico e quindi anche nel nostro, dove la fondazione è - come sostanzialmente nel Codice Civile italiano del 1942 - un'ipotesi che solo lo Stato, il riconoscimento dell'interesse pubblico può ammettere e che quindi non può essere lasciato all'autonomia privata. Non a caso, quindi, questo tema ritorna nell'attuale contesto storico sociale ed economico, in cui non esiste più l'immobilizzazione dei patrimoni, dove il problema anzi è se e come possa partecipare la fondazione a titolarità di impresa, in cui però si ripropone anche una ridefinizione del fenomeno in ter63


mini giuridici. Non a caso in Francia, di recente, è stata emanata una legislazione ad hoc proprio sulle Fondazioni Titolari d'Impresa e non a caso anche in Italia chi si occupa del tema sta tentando di riproporre - io stesso con alcuni amici come Pietro Rescigno - all'attenzione degli studiosi, ma anche del legislatore, la riscrittura del libro primo del Codice Civile.

L'ACCRESCIUTA RESPONSABILITÀ SOCIALE

Come accennavo, anche nell'area d'elezione delle fondazioni sta avvenendo una grande risistemazione, anche qui con possibili sbocchi di carattere legislativo, ma anche nella ricerca di una nuova identità. E successo, infatti, che sul mondo del settore non proflt è ricaduto e sta ricadendo tutto il peso della crisi del Welfare State. Nel passato i trust si connotavano come quelle entità che facevano ciò che lo Stato non fa, ma nel senso di cose nuove - non di ordinaria amministrazione -, come, per esempio, contributi di incoraggiamento a nuove iniziative, all'innovazione in vari campi del sapere. Ne derivava, così, un'attenzione al momento del dare più che a ciò che sarebbe seguito e quindi l'importante era individuare la persona giusta, lo scolaro eccellente, l'iniziativa da incoraggiare. Il problema, ad esempio, dell'accountability, della responsabilità era un problema in realtà relativamente poco sentito Oggi, vi sono invece gran64

di cambiamenti soprattutto in ragione di una accresciuta responsabilità sociale delle organizzazioni non profzt. Per cui, da una parte, c'è il problema della raccolta fondi che non si può demandare solo al caso eccezionale di grandi donatori, ma diventa esso stesso un problema tecnico, gestionale; dall'altra, c'è il problema di quale personale, come vanno reclutati e che professionalità debbano avere gli amministratori e poi, soprattutto, il problema dell'accounta bility, della valutazione dei risultati conseguiti, della trasparenza di queste valutazioni e delle conseguenze, anche in termini di gestione, di tutto questo. Sta quindi tramontando l'idea di un giving without account che aveva sempre un po' guidato il mondo dei trust e delle fondazioni. C'è poi, per quanto riguarda ancora il fenomeno, la questione fiscale. Infatti, si intravede una sorta di singolare ibridazione fra settore pubblico e settore non profit perché, in fondo, quanto più grande è la defiscalizzazione in vari aspetti, sia per i donatori, sia per chi gestisce i fondi, quanto più in realtà si tratta nient'altro che di risorse pubbliche che vengono meno; quindi si tratta di finanziamenti, che usufruiscono del meccanismo del tax expenditure. Si realizza, quindi, quanto più cresce questo settore anche attraverso la defiscalizzazione, una privatizzazione sui generzs nel modo di gestirlo. A maggior ragione, se è questa una delle chiavi di crescita, diviene importante una serie di con-


seguenze gestionali di chiarezza e trasparenza. Probabilmente queste mie osservazioni non appariranno organiche e chiare; nel concluderle, comunque; vorrei sottolineare la mia prsonale convinzione che se il momento storico che viviamo, definito per lo più come momento di transizione, comporta un forte e profondo ridisegno delle stesse funzioni dello Stato - e questo al di là di tutte le specificità del caso italiano, poiché è questione che riguarda la gran parte dei paesi industriali -, allora questa problematica generale comprende anche il tema delle nuove forme e del nuovo assetto del dare. Dal punto di vista dello studioso istituzionale quale mi conside-

ro, questo è un tema non classico da diritto pubblico, ma da nuovo diritto comune con cui deve essere ripensato lo Stato, un tema classico da ridisegno istituzionale. Quindi: regole nuove, nuove soggetti istituzionali e nuovi percorsi per far emergere professionalità e dirigenze ad hoc. Credo, infine, che il capitolo così importante che si è realizzato in Italia sul piano istituzionale e legislativo - e che oggi comincia a essere operativo - delle Fondazioni Casse di Risparmio, sia in questo senso un'esperienza preziosa, da seguire, quindi, con molta attenzione, da incoraggiare in quaiito credo sia il primo passo verso questo più generale ripensamento.

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Il "terzo settore": suo ruolo sociale, espansione e sviluppo di Pippo Ranci

Il tema della relazione implica che vi sia un importante nesso tra le fondazioni bancarie in genere e il terzo settore. Naturalmente, resta aperta la questione se le fondazioni facciano parte del "terzo settore" o se tra loro vi sia solo una relazione sia pure stretta. Poiché per "terzo settore", in genere, si intende qualcosa che non è il settore pubblico, allora è difficile ritenere che le fondazioni bancarie facciano parte del terzo settore dal momento che sono giuridicamente enti pubblici. D'altra parte, le fondazioni nel settore pubblico ci stanno con disagio perché godono di un'ampia autonomia alla quale tengono particolarmente e quindi mal si configura la loro appartenenza alla pubblica amministrazione, quanto meno nel senso stretto. E cruciale definire ciò che si intende per "terzo settore" poiché la realtà che sta dietro queste parole è stata spesso oggetto di definizioni diverse, non sempre coerenti e spesso abbastanza vaghe. Lo si definisce all'estero, in molti paesi, come il settore delle istituzioni non profit (noi diciamo senza fini di lucro) e questo è rilevante per le fondazioni bancarie perché proprio su questo pun-

to mi pare, si impernia la distinzione tra l'azienda bancaria che recupera o acquista una funzione di società commerciale con fini di lucro e quello che rimane invece della vecchia istituzione senza fini di lucro. Lo si chiama "terzo" perché non è né pubblico né privato commerciale; ciò che legittima anche un'altra definizione che in campo sociologico è stata usata, quella di un settore "privato sociale", termine usato appunto a sottolineare l'iniziativa privata per obiettivi di interesse sociale. Ancora, in Inghilterra soprattutto, lo si chiama "settore indipendente", a sottolineare evidentemente la sua indipendenza dal mondo politico. E, ancora, lo si chiama, in diversi paesi e specialmente in Inghilterra, "settore volontario", indicando quindi il perseguimento di una finalità collettiva mediante non la coercizione délla legge, ma un apporto spontaneo di attività, non necessariamente solo di lavoro.

VOLONTARIATO E ASSOcIAZIONISMQ

In Italia, il termine è fonte di confusione perché convive con altri termini. 1


più usati sono "volontariato", "associazionismo" e "fondazioni"; nella cultura comune son tre cose diverse. Si riconosce che vi sia una sovrapposizione tra volontariato e associazionismo, ancorché non proprio un'identità; mentre le fondazioni si ritiene in genere siano tutt'altra cosa. A me pare invece fondato l'uso di un termine, qualunque esso sia, per comprendervi l'insieme di questi mondi trovando il nesso e la ragione comune in un apporto volontario di fattori produttivi, capitale o lavoro, alfine di conseguire degli obiettivi di interesse non diretto dei soci, ma della collettività. Il volontariato e l'associazionismo sottolineano l'apporto di lavoro e sottolineano quindi il fare; le fondazioni sottolineano l'apporto di capitale e quindi sottolineano il dare. Qui entrano altri termini: beneficienza, mecenatismo. Il punto interessante di questa realtà in evoluzione e di questa ipotesi di comprendere il tutto entro un unico settore, mi pare che sia la fertilità della combinazione di capitale e lavoro (che non è poi una novità nel mondo dell'economia) al fine di produrre risultati e in particolare di produrre servizi, qualcosa di utilizzabile da parte della collettività. Non ha senso che vi sia una separazione istituzionale tra chi apporta capitale e tra chi apporta lavoro se il risultato viene dalla combinazione di capitale e lavoro. In realtà, poi, il mondo delle fondazioni è un mondo nel quale il capitale assume la forma propria di un patrimonio che dà frutti e lo si è sotto-

lineato: il patrimonio è una sorgente di "servizi del capitale", che assicura la possibilità di programmare l'attività e quindi di mettere in atto progetti di qualche respiro. Il compito che abbiamo di fronte, in questo vasto settore di iniziative private a finalità sociale, è la combinazione di capitale e lavoro. A questo compito le fondazioni bancarie possono dare un apporto molto significativo, ed è su questo che mi voglio intrattenere nella relazione, senza volere più oltre affrontare il problema della collocazione di queste fondazioni interna o esterna al settore pubblico, che è problema strettamente giuridico, anche se dalla realtà economica mi sembra di cogliere elementi di convergenza verso un unico settore "terzo" o non profit.

LA COLLABORAZIONE FRA CAPITALE E LAVORO

Naturalmente, la collaborazione tra capitale e lavoro, per essere nello spirito del settore, dev'essere collaborazione spontanea e volontaria e quindi mi ritrovo perfettamente d'accordo con le critiche che già sono state rivolte al famigerato art. 15 della legge 266. A questo riguardo, è possibile che si inneschi un equivoco: quando si dice che il terzo settore svolge compiti che lo Stato non può o non può più svolgere, si implica che queste istituzioni trovino la loro ragion d'essere nell'aggirare un problema di incapacità o insufficienza di mezzi della pubblica amministrazione. Se 67


questa fosse l'unica ragion d'essere delle organizzazioni private non a fini di lucro, allora forse la soluzione coerente sarebbe una nuova legge Crispi: se ci sono dei fondi della collettività che stanno fuori del patrimonio dello Stato per qualche ragione storica, e se è vero che con quei fondi si possono svolgere compiti che sono inerentemente dello Stato, allora è auspicabile che lo Stato si appropri dei fondi e svolga i suoi compiti; se poi i compiti non vengono svolti perché lo Stato è inquinato da clien telismo o da inefficienza, il problema andrà risolto all'interno dello Stato con la riforma dello Stato medesimo. Sarebbe in questo caso improprio e inopportuno sostenere il "terzo settore". Invece la ragion d'essere del terzo settore e, in particolare, delle fondazioni bancarie può essere fondata su un terreno ben più solido che non la carenza di mezzi dello Stato.

IL TERZO SETTORE

Ma, lasciamo per un attimo le fondazioni bancarie e veniamo all'insieme del "térzo settore". Che cosa sappiamo di questo settore? Sappiamo poco in Italia. Di questo posso dare testimonianza diretta perché mi trovo a lavorare in questi mesi ad un progetto internazionale di ricerca, nel quale i colleghi degli altri paesi ne sanno molto di più e io mi trovo malissimo perché l'Italia abbonda di studi di casi, di riflessioni sociologiche, di piccole indagini, di stu68

di anche pregevoli sulle motivazioni, ma non dispone dei parametri quantitativi. In altri paesi il settore è comunque definito, anche se ci sono importanti questioni definitorie nelle quali non entro; esiste una base sulla quale fondare le stime circa la dimensione economica del settore. Negli Stati Uniti, dove le cifre sono disponibili e pubblicate, si stima che questo settore partecipi alla formazione del prodotto lordo con una percentuale che supera il 5%, cioè superiore a quella dell'agricoltura, e occupi una quota dell'occupazione complessiva che ancora è nell'ordine del 5%. Per altri paesi, grandi paesi europei, non abbiamo ancora dei dati citabili, ma posso ricavare dagli incontri di ricerca che abbiamo tenuto finora che le stime preliminari dei miei colleghi portano non lontano da questo ordine di grandezza; almeno, la Gran Bretagna e la Germania, non sono lontane dal 5%. Per l'Italia siamo in alto mare, stiamo cercando di costruire una stima, facendo un ottimistico, anche se non completo, affidamento sui risultati del prossimo censimento nel quale l'IsTAT, per la prima volta, ha inserito la rilevazione delle organizzazioni senza fine di lucro, e qualcosa speriamo che si possa ricavare. Ci sono stime, invece, da vari studi disponibili sul volontariato che è parte del settore, ma queste stime hanno una gamma di valori così ampia (per prendere i casi estremi: da 650.000 volontari operanti in Italia a 6.000.000 di volontari operanti in Italia) che servono poco, anche se in realtà, andando a


ed è la sorpresa continua del nostro lavoro di ricerca. Piccoli mondi come quelli delle cooperative di solidarietà sociale che non sono vere cooperative, nel senso che non perseguono primariamente l'interesse dei soci, e quindi appartengono piuttosto al mondo del volontariato, oppure in senso lato del terzo settore, secondo l'accezione che ho dato del termine, che non al mondo della cooperazione produttiva in senso tradizionale. In generale infatti non si può ravvisare nel mondo della cooperazione una prevalente finalità di servizio alla società, ma si ravvisa solo una peculiare modalità di organizzare l'attività produttiva e commerciale, che però rimane orientata ad un interesse privato prevalente, per quanto socialmente utile possa essere la diffusione e la prosperità del modello cooperativo. Invece, le cooperative di solidarietà sociale, indubbiamente orientate a fini di interesse generale, sembrano essere una piccola cosa nel paese, ma una volta rilevate LA COOPERAZIONE e misurate si presentano come una realSono importanti le grandi istituzioni tà di grande rilievo, importantissima per le quali si pone semmai il problema nello specifico settore del recupero della tossicodipendenza nel quale operano della collocazione sui margini del settore pubblico (il corpo delle ex IPAB). Si con delle realizzazioni di assoluta àvanpone analogo problema anche per le guardia. università libere, che in Italia non sono molte ma sono significative. E vi sono grandi istituzioni indubbiamente priva- LA TRADIZIONE STATALISTA te nei campi della sanità e dell'istruzione. Poi c'è la quantità sterminata dior- Che cosa possiamo dire a livello quali-' ganizzazioni di minor dimensione sin- tativo del terzo settore in Italia rispetto gola, ma che complessivamente hanno a quello di altri paesi? E difficile ragun'importanza che colpisce, sorprende giungere qualche certezza. Si è portati a

vedere le definizioni che sono state usate, si può ridurre un poco il margine dell'incertezza e spiegare, la varietà delle stime: ma soltanto in parte. Quindi, su questo punto purtroppo oggi non sono in condizione di dare alcuna informazione solida e preferisco non darne alcuna. Se capiterà di ritrovarci qui fra un po' di mesi avrò forse qualcosa di più. Se non abbiamo cifre, abbiamo comunque elementi sufficienti per ritenere che il settore non sia affatto trascurabile. Emerge, nel lavoro che stiamo facendo, una molteplicità di esempi, e una molteplicità di esempi ha sotto gli occhi, credo, ciascuno di noi. Il settore delle istituzioni senza fine di lucro, private o comunque non appartenenti alla pubblica amministrazione in senso stretto, è un settore molto ricco, è un complesso di organizzazioni molto importante.


credere, di fronte all'ampia letteratura degli altri paesi, che l'Italia sia relativamente povera di istituzioni private non profit per via di una tradizione statalista, per una storia che ha visto sorgere e concentrarsi le opere di questo genere nell'ambito ecclesiastico e poi ha visto il sistema delle organizzazioni ecclesiastiche assumere ruolo pubblico. La statizzazione introdotta dalla legislazione dello Stato unitario ha accentuato gli aspetti di prevalenza del settore pubblico. Se il confronto lo facciamo con gli Stati Uniti, che e il riferimento più chiaro, il risultato è evidentissimo: negli Stati Uniti l'intero mondo dell'istruzione universitaria è dominato dalle università private e non da quelle pubbliche e le private sono costituite in forma di non profit; gli ospedali e i musei, la cultura e l'arte sono prevalentemente imperniate sull'operare di istituzioni senza fini di lucro. Noi, in Italia, non vediamo niente di questo genere; quando troviamo una realizzazione di qualche rilievo la notiamo, ma non vediamo una prevalenza di organizzazioni di questo genere, non vediamo la miriade di organizzazioni locali, associazioni e comitati che caratterizza la società americana, dall'epoca nella quale Tocqueville faceva le sue osservazioni sull'importanza delle associazioni nella democrazia americana. Quindi si può notare una certa carenza nel nostro paese, accentuata da quel periodo, gli anni '70, nel quale per un atteggiamento statalista prevalente in campo politico, di ispirazione ben di-

versa rispetto alla legislazione crispina, piuttosto ispirato a un'utopia socialista, si sono di fatto nuovamente accentuati gli aspetti di statizzazione. D'altra parte, questa valutazione negativa sullo sviluppo del settore confligge con la ricchezza della realtà che, a livello soprattutto di piccola dimensione, si vede e si nota. Non si tratta solo delle cooperative di solidarietà sociale, che sono un fenomeno degli ultimi sette-otto anni, ma di uno sviluppo ampio e diffuso di realizzazioni, già ben presente quarant'anni fa. E stata una sorpresa interessante per me trovare negli atti della commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria, quella del 195 1521, i concetti seguenti (la citazione non è letterale): la differenza nella quale si sviluppa l'assistenza in Italia rispetto ad altri paesi è una differenza profonda e la si nota, per esempio, nel confronto tra il sistema assistenziale del nostro paese e quello anglosassòne. Questa differenza è dovuta in parte al più rapido affermarsi nei paesi anglosassoni di una solida struttura statale. Invece, nei paesi cattolici, e particolarmente in Italia, la beneficienza facoltativa fiorì prevalentemente per impulso e sotto l'egida della chiesa cattolica. Allora, l'intervento dello Stato si dovette limitare, per non intralciare l'azione caritativa delle antiche fondazioni di beneficienza, a stabilire un collegamento e un coordinamento legale a queste istituzioni, sottoponendole a un generico controllo pubblico.


LA TRADIZIONE CATTOLICA

Indipendentemente da un'ottica forse di parte dell'estensore di questo rapporto, è interessante notare che sono sempre presenti le due caratteristiche opposte nella realtà italiana: da un lato uno statalismo opprimente e una tradizione ecclesiastica che hanno tolto spazio alle iniziative spontanee e, però, dall'altro lato la tradizione di uno Stato complessivamente debole, che ha compiuto alcuni atti di forza, ma che poi non è riuscito a occupare stabilmente l'area conquistata. Uno Stato che non ha saputo imitare la pubblica amministrazione francese, vero modello di sistema centralizzato con il quale va fatto il confronto anziché con i paesi anglosassoni come fa il relatore della commissione parlamentare. Non riuscendo a occupare stabilmente l'area dell'organizzazione della società lo Stato finisce di fatto con il lasciare uno spazio, non ben definito giuridicamente, ma che viene occupato.

PRI VATIZZARE

Si nota qui una contraddizione che si può ritenere fertile, e che emerge in questi ultimi anni nei quali, se riusciamo a leggere le tendenze del momento sono in atto due importanti linee di cambiamento connesse proprio con l'incapacità, l'impotenza dell'amministrazione pubblica di fronte ai suoi compiti: una è il decentramento del-

l'amministrazione pubblica stessa, ma anche in generale dell'organizzazione sociale, e la rinascita o la valorizzazione del localismo; l'altra è la privatizzazione nell'accezione più ampia del termine, cioè l'idea ormai sempre più larga : mente accettata che lo Stato deve definire in modo meno ambizioso i suoi compiti, diciamo fare più seriamente le cose che può fare e non pretendere di farne molte. Ora, se questa tendenza alla privatizzazione, in questa accezione di autolimitazione dello Stato, vale nei confronti del sistema delle imprese e si traduce in privatizzazioni delle imprese statali, se vale nel settore della produzione, non c e motivo perche essa non valga, e con le stesse conseguenze, nel settore delle opere con finalità sociale, laddove si può constatare che le energie e le organizzazioni adatte esistono o possono nascere nel campo privato. In attesa di qualche certezza sulla misurazione quantitativa, si può notare a livello qualitativo che siamo in una fase creativa, sulla base di una realtà che esiste e che è chiamata dalle tendenze in atto a crescere. Il punto centrale delle istituzioni e le organizzazioni che fanno parte del terzo settore è la loro autonomia. Autonomia locale rispetto al centro, autonomia delle istituzioni private rispetto al potere pubblico. Mi preme notare che il modo nel quale questa autonomia è riconosciuta ed è orgogliosamente rivendicata in tutto il mondo, non implica una totale indipendenza finanziaria. Negli Stati Uniti si stima che almeno il 71


25% delle entrate delle istituzioni private non profit venga dal settore pubblico (Stato Federale e Stati locali). In Europa naturalmente questa percentuale è molto più alta: in Gran Bretagna l'affidamento di compiti del servizio sanitario nazionale o del welfare state nella sua accezione più ampia a organizzazioni private non profit è sistematico. E allora, in che cosa consiste l'indipendenza che pure è orgogliosamente rivendicata? Consiste nella chiarezza delle responsabilità, nella definizione precisa di chi corre quale rischio, di quali sono i patti. L'affidamento di compiti può esserci ma ci devono essere patti chiari, così come chiari devono essere il regime fiscale e le norme che regolano 1 operare, il piu possibile libero, ma non estraneo agli ordinamenti, delle istituzioni private non profit. Se non è essenziale l'indipendenza finanziaria totale, se può esserci una dipendenza finanziaria dal settore pubblico, entro certi limiti, tanto meno è da escludere che l'origine delle organizzazioni possa essere pubblica.

L'ESPERIENZA TEDESCA

A questo proposito è interessante osservare l'esperienza tedesca: la più grande fondazione operante in Germania, la Fondazione Volkswagen, è nata dalla privatizzazione di un'azienda pubblica, è stata costituita per decisione del governo federale tedesco che ha conferito ad una nuova fondazione, all'atto del 72

collocamento presso il pubblico delle azioni della società automobilistica Volkswagen, il capitale così ottenuto, cioè i proventi della vendita delle azioni, e ha successivamente aggiunto altri apporti con le successive privatizzazione di altre tranches del capitale della Volkswagen società automobilistica. Oggi la Fondazione Volkswagen, con un capitale di 3 miliardi di marchi, è una istituzione di grande importanza in Germania, un sostegno alla ricerca di qualità e di quantità senza pari. E la Germania ha ripetuto l'esperimento con la Fondazione per l'Ambiente, qualche anno fa, in occasione di un'altra privatizzazione di una società chimica. Queste fondazioni sono interessanti perché stanno sul crinale tra il pubblico e il privato. In questo senso richiamano le nostre fondazioni bancarie; se le guardiamo con un'ottica molto restrittiva possiamo dire che sono ancora fondazioni pubbliche, nel senso che la maggioranza dei membri dei consigli di amministrazione è di nomina pubblica; ma se usiamo il criterio dell'indipendenza, vediamo che esse non fanno parte del settore pubblico perché questi membri sono nominati in parte, sia pure minoritaria, con una sorta di meccanismo di cooptazione all'interno della fondazione stessa, mentre l'altra parte, che pure è di nomina pubblica, viene selezionata da una procedura che coinvolge governo federale, Lii nder e altre istituzioni pubbliche, ed è così dominata dalla necessità di avere personale di elevata reputazione scien-


tifica che la possibilità di inquinamenti da parte di interessi particolari dei partiti politici è molto ridotta. Una volta nominati, i membri di questi consigli hanno una lunga durata in carica e un'autonomia decisionale che è fuori discussione. Qual è allora il ruolo dello Stato nei confronti del terzo settore? Non è certo quello di porsi come intermediario forzoso, come tenta di fare il citato art. 15 della legge sul volontariato, però un compito c'è e di esso oggi bisogna parlare: il mondo delle organizzazioni senza fini di lucro, soprattutto quelle che hanno importanza per il capitale più che per il lavoro, è un mondo di ricchezza e di reddito non trascurabile; quindi è un mondo per il quale dev'essere definito il trattamento fiscale.

IL REGIME TRIBUTARIO

Il regime tributario riveste grande importanza per lo sviluppo del settore, anche se non è da condividere a mio avviso l'opinione comune secondo cui negli Stati Uniti ci sono le grandi fondazioni perché ci sono le esenzioni fiscali. E vero il contrario, ci sono le esenzioni fiscali per le fondazioni, anche a causa dell'azione compiuta dalle grandi fondazioni, le quali però sono nate ben prima, da altre motivazioni, e stanno in piedi lo stesso molto bene anche quando il governo federale e il parlamento riducono l'entità delle agevolazioni, co-

me hanno fatto con la riforma tributaria di Reagan. Deve comunque essere chiarito il regime tributario ed è importante stabilire una normativa generale e non, come si è fatto finora in Italia, tante leggine, settoriali per i beni culturali una volta, per la 'fame nel mondo un'altra volta, quando non per occasioni storiche ma singole come il nono centenario dell'Università di Bologna. Non si tratta solo di stabilire quanta agevolazione e a vantaggio di quali istituzioni singole, ma di definire le categorie dei beneficiari, i criteri di accesso e poi soprattutto di organizzare il controllo. Il problema cruciale è il controllo: chi sono i soggetti che fanno parte del terzo settore e che hanno diritto aun trattamento tributario agevolato? Nei paesi nei quali esiste una solida tradizione e il fenomeno assume importanza, l'amministrazione tributaria ha una funzionalità accettabile e si vede riconosciuto un prestigio: è l'amministrazione tributaria a stabilire chi fa parte del settore o no, nel senso che vede i bilanci, esamina l'attività e, sulla base di parametri stabiliti nel codice delle leggi fiscali, decide se l'organizzazione in questione può essere classificata in quella tale fascia per la quale vigono le agevolazioni fiscali. Il sistema americano, fra l'altro, è complesso, ci sono tre livelli successivi e crescenti di agevolazioni, e una organizzazione può essere collocata al primo, al secondo o al terzo gradino, a seconda di quanto si avvicini al modello ideale della non profit; così che c'è p073


sto anche per le cooperative che hanno una situazione intermedia. Per noi tutto ciò appare molto lontano. Noi siamo fermi alla cultura dei registri, degli elenchi, del riconoscimento statale delle fondazioni concesse sulla base di requisiti formali, una volta e per tutta l'eternità. Così la possibilità di distorsioni e di abusi è molto maggiore, e la conseguenza della possibilità di distorsioni e di abusi è il crearsi o il permanere di un atteggiamento diffuso di minor favore per il settore. Viviamo in un contesto ondeggiante tra incoraggiamento e plauso per un verso, e per contro sfiducia o sospetto. a volte non infondato. Se non si esce di qui, lo sviluppo del settore è seriamente impedito.

IL RUOLO DELLE FONDAZIONI BANCARIE

Che cosa possono fare nel terzo settore le fondazioni bancarie? Le fondazioni bancarie sono una realtà molto grande; la loro dimensione, stante la povertà di fondazioni in Italia, le mette a un livello di assoluta priorità. E imbarazzante vedere come negli incontri, nei confronti o nelle riunioni europee delle fondazioni, la sedia degli italiani sia spesso vuota. Non parlo degli incontri mondiali dove siedono i giganti come la Fondazione Ford; parlo delle riunioni europee dove siedono la Fondazione Volkswagen, il National Trust, la Fondation de France che è piccola, ma molto attiva, o la Fondazione Gulbenkian portoghese che ha una grande impor74

tanza e ha fatto delle bellissime cose. Gli italiani non ci sono; le fondazioni italiane di maggior prestigio cercano di fare qualcosa ma hanno capitali irrisori, anzi spesso non hanno capitali ma solo redditi, quindi sono soggette all'incerta volontà di elargizione di qualcun altro. Se guardiamo al complesso delle fondazioni bancarie che si è creato in Italia, osserviamo un salto dimensionale di importanza mondiale: si. è creato in Italia l'equivalente di due grandi fondazioni che possono stare nelle classifiche mondiali. Naturalmente, invece di due sono tante, però qualcuna è grande e le altre possono anche forse collaborare. La dimensione della loro potenzialità economica è difficile da stimare perché dipenderà dal loro modo di operare e dalla politica dei dividendi delle aziende bancarie. Labeneficienza che le banche pubbliche hanno fatto è stata dell'ordine di 300 miliatdi l'anno, 200 le Casse e 100 le altre banche. Il flusso di fondi alle fondazioni sarà probabilmente maggiore, per il fatto che le banche dovranno aumentare il loro pay out ratio se vogliono remunerare gli azionisti privati. Quindi, la distribuzione degli utili aumenterà, ma naturalmente le fondazioni potranno utilizzarla a loro volta con dei pay out ratios di diverso livello, a seconda che prevalga in loro l'obiettivo di essere soprattutto piloti della crescita bancaria, o di essere invece prioritariamente motori del terzo settore, campioni di responsabilità sociale, promotori dello sviluppo civile. Quest'ambivalenza è nelle cose, è uno


dei grandi interrogativi che si pongono oggi davanti a noi e riveste grandissimo interesse.

CONSEGUENZE DELLA FRAMMENTAZIONE

Finisco con una nota sulla frammentazione. Abbiamo ora in Italia l'equivalente di due grandissime fondazioni internazionali suddiviso in una molteplicità di enti. Questa frammentazione non è necessariamente un elemento negativo. Corrisponde un pochino a tanti altri aspetti del sistema italiano, ad esempio alla frammentazione industriale di cui si discute a lungo e che ha anche aspetti positivi. La frammentazione significa erogazione a pioggia: quei 200 miliardi, quei 300 miliardi sono erogati in genere su tutto il territorio nazionale a una molteplicità di organizzazioni, di cui molte del terzo settore. Erogazione a pioggia è un'espressione che ha spesso una connotazione negativa, ma la pioggia può essere benefica, dipende da come si fa piovere. Dipende da alcuni requisiti che indicherei essenzialmente in tre. Primo, una netta separazione della erogazione al terzo settore per finalità sociali dalle operazioni di politica dell'immagine e di promozione commerciale che sono legittime, ma che non vanno confuse. Secondo, un compito di selezione; chi detiene il capitale deve svolgere, nell'erogare mezzi a chi opera invece prevalentemente con il lavoro, un compito fondamentale che è quello di selezionare le iniziative da finanzia-

re. Il capitalismo ha risolto questo problema con le istituzioni finanziarie e i mercati finanziari. Nel suo piccolo, il terzo settore deve risolvere lo stesso problema. Verso la molteplicità delle organizzazioni che operano, l'uso di criteri di selezione è una condizione fondamentale per incentivare non solo a operare, ma a operare bene. Un aspetto del fare bene consiste nel far di conto, avere un'attività ordinata, programmare la propria attività. Nessuno meglio di chi proviene dall'impresa e ha cultura di impresa può insegnare ai volontari una buona programmazione, una buona contabilità, una buona valutazione dei costi e benefici di scelte alternative. Questi sono compiti, credo, cruciali (e lo si vede in altri paesi) che riguardano chi detiene il capitale piuttosto che il lavoro, e gli consentono di fare operare meglio chi apporta il lavoro. La selezione è tanto più fruttuosa quanto più si accompagna all'assistenza tecnica e amministrativa, e questo è il terzo aspetto qualificante dell'erogazione frammentata. Non i comitati regionali, ma una vera assistenza tecnica che va costruita nella collaborazione tra chi ha la cultura di impresa dietro le spalle e il patrimonio da amministrare davanti a sé, e chi opera nella vivacissima, ma spesso disordinata, realtà delle iniziative sociali di volontariato. Da ultimo, la frammentazione in qualche caso deve poter essere superata perché alcune iniziative settoriali nei campi della ricerca scientifica o della cooperazione internazionale hanno una so75


glia dimensionale minima molto elevata. Perché le nostre iniziative di aiuto al Terzo Mondo sono in genere risibili nei confronti di quello che fanno le organizzazioni tedesche, scandinave e inglesi? Ce lo dobbiamo domandare. Evidentemente i nostri volontari fanno quello che possono, ma non hanno la dimensione organizzativa, non hanno il respiro finanziario, la capacità di programmare, si sono aggrappati con un'ingenuità commovente ai fondi del Dipartimento per la Cooperazione del Ministero degli Esteri andando a finire tutti quanti malissimo. Nella coopera.-

zione internazionale le cose più significative nel mondo le hanno fatte le organizzazioni del "terzo settore" e non i governi, nel campo della rivoluzione verde, della diffusione dell'igiene e della sanità. E peréhé l'Italia deve limitarsi alle microrealizzazioni scoordinate o affidarsi unicamente alle opere ecclesiastiche? Quindi, in alcuni campi, credo che una qualche cooperazione tra fondazioni sia necessaria per superare il localismo che pure è costruttivo, positivo e fertile, ma che coglie solo alcuni aspetti dei grandi compiti che invece stanno davanti a noi.

Nota 'Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-52), Materiali

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della commissione parlamentare, a cura di Einaudi 1978, pp. 153-154.

GHIN,

PAOLo BRA-


Le fondazioni indipendenti a fini culturali Gestione, amministrazione, funzionamento, processi decisionali, interventi, dimensioni di bilancio, esempi concreti di Fabio Luca Cavazza

In Italia, nel paese che condivide con la Francia il dubbio onore di possedere forse la regolamentazione più ostile alle fondazioni che esista al mondo, e mi riferisco in modo speciale all'assenza d'un regime di deducibilità fiscali, l'istituto della fondazione irrompe d'improvviso con la legge 218 del 1990. In un batter d'occhio la fondazione muta stato e condizione: da sempre figlia negletta e trascurata dal nostro ordinamento giuridico, una sorta di Cenerentola, viene socialmente legittimata e data in sposa al più prestigioso dei pretendenti che essa mai potesse aver sognato di conquistare nella sua povera e misera esistenza: l'istituto di credito, il custode e il motore, per eccellenza, di tutte le attività economiche dell'uomo. All'origine di questo inusuale matrimonio, avvenuto in barba ai cento Don Rodrigo d'Italia che avevano tentato d'impedirlo o di dilazionarlo, c'è la fantasia crea trice, talora ma fortunatamente, iconoclasta, di Nino Andreatta. Naturalmente, come sempre avviene in Italia, celebrato il matrimonio con i crismi di legge, tutto viene lasciato come prima, e, nascoste fra le pieghe dell'abito nuziale, si celano buchi che ancora si ritrovano

nel nostro ordinamento a proposito di fondazioni. Ma ormai, con la legge 218, è stata aperta una breccia tipo Porta Pia, e credo che sia solo questione di tempo: prima o poi si dovrà por mano alla questione e sistemare le fondazioni nell'ordinamento giuridico italiano.

UNA NUOVA CONCORRENZA

Che in un paese esistano e siano operative un gran numero di fondazioni private, indipendenti, gestite con stretti criteri privatistici e dotate di rilevanti patrimoni, è cosa che ha un solo e preciso significato: sta a dire che in quel paese non esiste un quasi monopolio dello Stato in fatto di spesa per fini di pubblica utilità: cioè che nel mercato della spesa a scopi culturali, scientifici e sociali sono stati introdotti e sono all'opera fattori di concorrenza. Agli organi dello Stato si affiancano i privati cittadini che, nei consigli delle fondazioni, prendono decisioni di spesa intervenendo autorevolmente sulla vita e sullo sviluppo di campi, settori e discipline che lo Stato aveva finito con il monopolizzare. Fra lo Stato, che s'incarna nella buro77


crazia, e la libera e civile società, che s'incarna nell'istituto privato della fondazione, si apre un regime di concorrenza di cui il massimo beneficiano è la collettività nazionale. Il bene che le fondazioni proprietarie di istituti di credito possono fare in Italia indirizzando le loro erogazioni secondo indirizzi e fini di pubblica utilità e grazie a decisioni prese in assoluta autonomia è non solo potenzialmente immenso, ma incalcolabile. Certo, spendere, e spendere bene e responsabilmente, è tanto difficile quanto fare utili in un mercato aperto alla concorrenza. Come non si producono utili nel tempo, anno dopo anno, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, e non a caso siamo qui riuniti presso una istituzione che ha felicemente superato il secolo e mezzo di vita, se alla base di tutto non vi sia una organizzazione appositamente disegnata per produrli e uomini che costantemente la aggiornino e la rinnovino con creatività e spirito imprenditoriale, così non si spenderà bene e responsabilmente denaro se alla base non vi sia uno strumento, un'organizzazione appositamente disegnata e costantemente aggiornata e rinnovata con creatività e spirito imprenditoriale. Insomma, fare profitti e spenderli bene sono due facce della stessa medaglia. La mia tesi è che per spendere bene rilevanti quantità di denaro, e qui stiamo parlando di miliardi, per evitare o ridurre al minimo gli errori, per far sì che ogni soldo speso renda bene e pro78

duca effetti positivi capaci di moltiplicarsi nel tempo, lo strumento organizzativo ideale sia la fondazione, e non un tipo qualsiasi di fondazione, ma quella che è venuta prendendo forma e corpo nel corso di questo secolo e che ormai si è diffusa in tutto il mondo, o, più precisamente nei paesi di democrazia liberale.

LA FONDAZIONE, UN'IMPRESA DI SPESA

Nel corso di questo secolo la fondazione è andata sempre più assumendo la fisionomia di un'impresa dotata di sue peculiari regole gestionali e organizzative che il tempo ha ormai collaudato. Possiamo dire che la fondazione è un'impresa la cui organizzazione è finalizzata a spendere denaro per fini di pubblica utilità, e secondo uno spirito che, nell'escludere ogni personale gratificazione, è e resta un atto di responsabilità, e di dovere sociale nei riguardi della comunità di appartenenza. Si comprenderà allora che le fondazioni sono una cosa e che le sponsorizzazioni sono un'altra, e che mescolare le due cose è come mettere insieme il diavolo e l'acqua santa. Che queste due attività non avessero nulla in comune era cosa già chiara nella Chicago del 1870. In quell'anno, l'esponente di una fondazione avente scopi caritativi, così si espresse a proposito delle signore e dei signori dell'alta società che sponsorizzavano a più non posso concerti, opere, banchetti e balli in nome della carità:


«Non mi risulta che Gesù abbia mai pensato di organizzare balli di beneficienza per dimostrare, nelle voluttuose ondulazioni delle danze, fra il fruscio delle sete e lo scintillio dei diamanti, fra coppe di champagne, cibi prelibati e occhiate ai décolleté delle signore, il suo amore per i poveri e per i diseredati». A parte la colorita e un poco démodé prosa ottocentesca di estrazione puritana, resta il fatto che lo sponsor investe una somma, quale che ne sia la destinazione, secondo un criterio di occasionalità, alfine d'ottenere un immediato ritorno, a fini vuoi di pubblicità, vuoi di personale (e spesso mondana) gratificazione. (Non a caso nel clima di permissivismo spendereccio che ha caratterizzato gli anni Ottanta si sono avute leggi in Italia a favore delle sponsorizzazioni, mentre le pagine del capitolo "fondazioni", e relativa ammissibilità di appropriate deduzioni fiscali, non sono state nemmeno aperte). Del resto, quanto siano strumentali le iniziative degli sponsor è quella stessa Chicago fine Ottocento, a offrircene una riprova. Nessuna di quelle ricche famiglie che sponsorizzavano balli e concerti pensò mai di dare un dollaro per trasformare in Università la sola istituzione di studi superiori esistente in quegli anni a Chicago, una sorta di collegio di terz'ordine diretto da alcuni ministri della Chiesa Battista di proverbiale ignoranza. Quella che è oggi l'Università di Chicago nasce alla fine del secolo scorso grazie a una donazione di

milioni di dollari studiata, disegnata e organizzata m'tutti i suoi dettagli operativi da John D. Rockefeller. Il quale Rockefeller, pur rientrando a pieno diritto nella confraternita di dubbia fama di quei "baroni ladri" che non poco contribuirono a far ricca l'America, resta però colui che, insieme a Andrew Carnegie, ha presieduto alla nascita della moderna fondazione: ovvero un'aggregazione permanente e organizzata di ricchezza da erogare per fini di pubblica utilità, e la cui operatività deve proiettarsi nel tempo ben oltre la vita di colui che ha istituito la fondazione stessa. 35

L'OPERA DI ROCKEFELLER E CARNEGIE

Nel 1901 Rockefeller diede vita all'omonimo Istituto per la Ricerca Medica, ancora oggi funzionante, e due anni dopo al General Education Board la cui missione consisteva nel fornire ai negri del sud degli Stati Uniti la preparazione di base necessaria per accedere alle scuole superiori. La Fondazione Rockefeller vera e propria, quella che ancor oggi esiste, sarebbe, nata solo nel 1913 dopo questi primi esperimenti. Non diverso l'approccio di Carnegie: molti esperimenti nell'ultimo decennio del secolo scorso, fra i quali spicca il programma di costruire, dotare e assicurare il funzionamento di più di 2.500 biblioteche pubbliche sparse in tutti gli Stati Uniti: sta di fatto che da allora la costruzione e l'esercizio di una biblio-


teca pubblica è entrata nel novero di quei doveri basilari che ogni municipalità o contea o provincia del mondo civile non può non assolvere. Andrew Carnegie, come tutti sanno, non era uno stinco di santo; per certo non un uomo paragonabile quanto a princìpi morali al Cardinal Federigo Borromeo, quello dei Promessi Sposi, il fondatore della Biblioteca Ambrosiana. Per dotarla di libri acquistati in tutte le regioni del mondo di allora, il gran Cardinale spese del suo non meno di centomila scudi prescrivendo, fra l'orrore e lo sgomento dei suoi contemporanei, che si dessero i libri in consultazione agli studiosi che ne facessero domanda, e, per giunta, che li si provvedesse di carta, penna e calamaio per prender note e appunti. Carnegie di dollari ne spese 43 milioni e i fatti sono lì a mostrare che diede vita a un'innovazione non meno importante di quella introdotta dal Cardinal Federigo. In un modo o nell'altro, due uomini tanto diversi fecero qualcosa di pratico e di lungimirante al servizio del prossimo e della cultura, creando istituzioni fatte per vivere oltre la loro vita terrena. E su questo ceppo che sono fiorite diverse specie di fondazioni. Mi soffermerò sulle principali, combinando le definizioni del Foundation Center di New York con quelle della sezione 501 C 3 del manuale dell'Internal Revenue Service, il fisco americano. 80

LA FONDAZIONE CULTURALE

Madre di tutte le fondazioni è la Fondazione culturale indipendente, quella disegnata fra la fine del secolo scorso e l'inizio di questo appunto dai Rockefeller e dai Carnegie, e a cui gli altri, da Kellogg, quello dei corn flakes, fino ai Ford, quelli dell'automobile, si sono via via conformati, senza dimenticare, per l'Inghilterra, Lord Leverhulme, quello della Unilever, per la Germania, i Thyssen dell'acciaio e interrompo qui un rosario di nomi che spazierebbe sui cinque continenti comprendendo quasi tutti i nomi che hanno illustrato il capitalismo industriale del XX secolo. A qualificare la fondazione culturale indipendente intervengono i seguenti elementi: primo: le sue risorse finanziarie provengono da una sola fonte, di norma, dai redditi di un patrimonio donato da una persona, da una famiglia, o, infine, per usare il termine inglese, da una corporation; secondo: i suoi fini sono genericamente stabiliti quanto a contenuti; devono riguardare attività relative al campo sociale, educativo, religioso o caritativo, o comunque essere indirizzati al benessere delle persone e delle comunità; terzo: gli amministratori della fondazione hanno il potere di interpretare con larga, ampia discrezionalità i fini statutari i quali, come appena ricordato, sono solo genericamente formulati; quarto: le decisioni di spesa devono riguardare, in contemporaneità, più indi-


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rizzi, più settori, più campi disciplinari: la fondazione culturale indipendente si caratterizza per soddisfare una molteplicità di scopi. In inglese, al riguardo, si usa l'espressione multi:purpose; quinto: la realizzazione dei fini per i quali la fondazione è stata costituita avviene attraverso lo strumento delle donazioni (traduco così la parola inglese grant, e, infatti, sempre in inglese si usa dire che la fondazione è una grantmaking organization); sesto e ultimo: la fondazione dev'essere amministrata e gestita da un consiglio di persone senza diretta relazione con colui o con coloro che l'abbiano istituita.

LE ALTRE FONDAZIONI

Da questo ceppo nascono altri tipi di fondazioni: quella operativa: essa realizza i propri scopi sociali non attraverso donazioni, ma finanziando attività di ricerca svolte direttamente al suo interno; quella a scopo unico o speciale: lo statuto la obbliga a erogare donazioni per una sola e vincolante attività; infine, la fondazione di famiglia: i suoi amministratori sono, in maggioranza, membri della famiglia che l'ha istituita. Fa categoria a sé la fondazione eretta da una società per azioni, in inglese la Company-Sponsored Foundation. Essa si distingue per tre caratteristiche di solito compresenti: ha una mòdesta dotazione patrimoniale annualmente integrata da contributi versati dalla società per azioni che l'ha istituita, contributi

che la società stessa può dedurre dall'utile lordo; quasi sempre i suoi amministratori sono dirigenti, cioè rnanagers, della società che la controlla; infine, una fetta cospicua delle sue erogazioni è destinata per statuto ai dipendenti della società stessa, per scopi sia educativi sia caritativi, o, più latamente, per scopi similari, a istituzioni delle comunità in cui si trovino stabilimenti della società.

LA COMMUNITY FOUNDATION

Chiude questa sintetica rassegna la Community Foundation ovvero la fondazione che agisce per statuto in una determinata comunità definita secondo criteri geografici o amministrativi. La Community Foundation nasce a Cleveland nel 1914 per la tenacia del Signor Frederick Goff. Era l'avvocato di John Rockefeller. All'inizio del secolo, Goff guadagnava centomila dollari all'anno. All'improvviso, decise di abbandonare l'attività legale per assumere la posizione di gerente di un piccolo e pericolante istituto di credito conosciuto in quella città come la banca dei poveri. I suoi introiti annuali si ridussero da cento a dieci mila dollari. Raddrizzò la banca senza farle perdere le caratteristiche che le avevano valso quella fama. Mentre Goff lavorava a risanare la banca dei poveri rimase colpito dal fatto che essa amministrava centinaia di piccole e piccolissime volontà testamentarie, vecchie anche di un secolo, legate a scopi 81


che avevano perso nel tempo gran parte del loro valore, sia perché le svalutazioni avevano tosato l'iniziale dotazione, sia perché lo scopo stesso aveva nel tempo perso significato. Poiché le volontà testamentarie sono considerate immutabili, Goff cominciò una battaglia furiosa contro queste, come lui le chiamava, manomorte socialmente immorali che immobilizzavano capitali che se, viceversa, riuniti insieme in una fondazione avrebbero ritrovato scopo e utilità. Ossessionato da questo problema, Goff non faceva che parlarne in ogni momento della sua giornata. Anni dopo sua figlia confessò che da bambina quando le capitava di salire le scale di casa al buio aveva una paura matta di essere afferrata e rapita da questa per lei misteriosa mano morta. Goff venne a capo di cento battaglie legali riuscendo a riunire tutti i lasciti divenuti ormai socialmente immorali in una Fondazione di Comunità il cui scopo consisteva nell'educare i poveri di Cleveland e nel pagarne le degenze in ospedale. Così nacque la Community Foundation. La quale, specifica il fisco americano, può ricevere dotazioni patrimoniali da un numero potenzialmente illimitato di donatori e/o integrare il proprio patrimonio con quello di altre fondazioni destinando le rendite patrimoniali ad attività caritative, educative e di assistenza medica e sociale alla popolazione di un'area geografica o amministrativa statutariamente prefissata. Nel 1989 i fondi patrimoniali delle circa 300 maggiori comrnunities 82

foundations americane ammontavano a 6 miliardi di dollari per un totale erogato nell'anno di circa 430 milioni di dollari. Sempre nel 1989 le fondazioni americane di tutte le specie hanno erogato circa 11 miliardi di dollari, una cifra pari aI 10% dei circa 114 miliardi defluiti dalle tasche degli americani per scopi filantropici e caritativi, naturalmente dedotti nelle dichiarazioni dei redditi. A fronte degli 11 miliardi di dollari erogati nel 1989 dalle fondazioni americane vi sono fondi patrimoniali che ammontano a circa 140 miliardi di dollari. Infine, quegli stessi 11 miliardi di dollari sono stati cosi ripartiti: il 22% delle erogazioni e stato destinato al settore dell'educazione, il 17% al settore igiene e salute, il 15% al settore assistenza sociale, il 14% alle arti e alle scienze umane e l'll% alle scienze esatte e sociali. Come si può rilevare si tratta di settori è di campi disciplinari che si ritrovano tutti nell'articolo che elenca gli scopi della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna: ricerca scientifica, istruzione, arte, cultura, sanità, come può leggersi all'art 2 dello statuto. E al riguardo occorre aggiungere che queste fondazioni italiane proprietarie di istituti di credito, pur derivando i loro patrimoni da una legge, e non da una volontà testamentaria, sono però pienamente assimilabili alle fondazioni culturali indipendenti di matrice privata, purché, come ha giustamente sottolineato l'amico Ranci nella sua relazione al convegno che sul tema delle fondazioni venne indetto dall'AcRi, le eroga-


zioni vengano decise in piena autonomia e indipendenza dal consiglio di amministrazione.

L'AUTONOMIA DEGLI AMMINISTRATORI

Infatti, di tutti gli elementi che caratterizzano la fondazione culturale indipendente e che ho prima elencato pare a me, e pare anche a Pippo Ranci, che l'autonomia decisionale degli amministratori rappresenti il vero punto discriminante, quello che separa le fondazioni culturali indipendenti dalle fondazioni controllate da una famiglia o da un'impresa. Le iniziative assunte da queste fondazioni potranno avere grande valore, ma resta il punto, non cancellabile, che esse vengono decise in un contesto in cui gli amministratori non godono di reale, sostanziale autonomia.

L'ESPERIENZA TEDESCA

La Germania, dopo gli Stati Uniti, è il paese a più alta concentrazione di fondazioni che funzionano secondo le regole gestionali e manageriali consolidatesi nell'esperienza americana, eccetto una: la notorietà dei dati. Infatti, il fisco tedesco sembra esser meno prescrittivo di quello americano in fatto di pubblicità dei dati. Ne segue che quelli che si possono raccogliere intorno alla situazione tedesca sono assai modesti e pochissimo illustrativi di quella che è invece una cospicua realtà finanziaria e

sociale. Non sono molte le fondazioni tedesche che pubblicano un rapporto annuale e l'annuario delle fondazioni tedesche non è certo paragonabile, per abbondanza d'informazioni, a quello delle fondazioni americane. Ciò premessO, pare a me che se fino ai primissimi anni '70 le tecniche di gestione delle fondazioni americane erano quanto di più moderno e di più sofisticato potesse trovarsi sul mercato mondiale, da un decennio almeno quelle delle fondazioni tedesche sono andate raffinandosi a ritmo accelerato, e oggi, dovendo- far partire una fondazione, credo che occorra riservare una relativa maggiore attenzione alle esperienze tedesche, quali sono andate maturando negli ultimi quindici anni, che a quelle americane. Affermazione, questa, che va presa evidentemente con un grano di sale: gli Stati Uniti sono uno straordinario laboratorio sociale di cui la fondazione e, più in generale, il terzo settore, quello del non profit, rappresenta, sotto il profilo istituzionale, la colonna portante. Se, dunque, soprattutto le attività, le iniziative, i. programmi delle fondazioni americane devono essere conosciuti, seguiti e valutati, resta il fatto che le fondazioni tedesche hanno, a loro volta, messo a punto eccellenti tecniche gestionali. Queste tecniche non sono altro che la traduzione in termini gestionali, organizzativi e funzionali degli elementi che caratterizzano la fondazione culturale indipendente e che ho sintetizzato nei sei punti elencati più sopra. 83


L'EQUILIBRIO E LA COMPATIBILITÀ Per entrare, ora, nei temi gestionali e organizzativi una delle più delicate e importanti funzioni che gli uffici di una fondazione sono chiamati a svolgere consiste nel compiere le istruttorie preliminari alle scelte e alle decisioni che il consiglio d'amministrazione deve prendere in fatto di indirizzi di spesa. Negli scopi generali e generici di una fondazione può trovar posto tutto lo scibile umano. Ma, ovviamente, la fondazione non può far tutto, deve fare delle scelte e, com'a nello •stile delle fondazioni culturali indipendenti deve convogliare in contemporanea le proprie risorse su più settori o campi disciplinari. Allora, il problema diventa quello di trovare un punto di equilibrio e di compatibilità tra lo stile operativo della fondazione, l'ammontare delle risorse disponibili e la necessità di soddisfare gli scopi sociali. Avviene così che i consigli delle fondazioni devono compiere, nel momento stesso in cui sono chiamati a interpretare con ampia discrezionalità i fini statutari, (per così dire) un'opera di restringimento del pressoché infinito numero di opzioni e di possibilità che davanti ad essi si aprono. Le istruttorie hanno quindi due scopi preminenti: fornire materia al consiglio perché esso possa focalizzare propri indirizzi di lavoro e d'intervento; ed in secondo luogo, una volta che essi siano stati in linea di massima sfoltiti, ristretti e focalizzati, preparare per il consi84

glio un documento che, in realtà, non altro che un vero e proprio rapporto di fattibilità. I principali capitoli di esso sono, per esemplificare in modo molto sommario, i seguenti: che cosa fa l'iniziativa pubblica in materia e, in particolare, nell'area geografica di pertinenza della fondazione; se vi sia spazio per interventi privati, come questi ultimi potrebbero essere organizzati, e, infine, qualora vi siano, illustrare esempi di analoghe iniziative prese da altre fondazioni. Per il restringimento e la focalizzazione degli indirizzi di lavoro e d'intervento di una fondazione culturale indipendente possono essere adottate altre tecniche gestionali; ad esempio, vi sono fondazioni che hanno deciso di sottomettere a rotazione certi indirizzi o aree d'intervento: per un determinato periodo, che di solito si misura in cinque o in sei anni, si occupano, ad esempio, di ricerca scientifica non medica, tanto per fare un esempio, per rioccuparsene poi successivamente. Altre fondazioni, stabilito questo principio di rotazione ogni sei anni, decidono per tre anni di investire risorse in alcuni campi o settori della ricerca scientifica, e in altri nei tre anni successivi. In breve, nella ricerca del punto di equilibrio tra risorse e necessità, la fondazione cerca sempre di salvaguardare un suo carattere distintivo, e cioè. che le sue erogazioni siano dirette verso un obiettivo, che il suo impegno non sia effimero, che le risorse investite non vengano disperse, ma concentrate per fare massa


critica. L'obiettivo di una fondazione è sempre quello di modificare una situazione, migliorandola, se possibile, e di obbligare gli altri, in particolare la mano pubblica, a modificare i propri comportamenti, grazie al regime di concorrenza esistente.

terzo: quali siano i soggetti esclusi da erogazioni: ad es., possono essere tanto un laboratorio di ricerca posseduto da una società per azioni quanto una persona fisica non in possesso di certi requisiti.

I REFERENTI ESTERNI

LA LISTA NEGATIVA

Un altro caposaldo organizzativo della fondazione culturale indipendente è la cosiddetta lista negativa. Come ben si può immaginare, una fondazione, sol che abbia anche un modesto mezzo miliardo da spendere annualmente, è assediata da domande e petizioni. Una regola di buona gestione vuole che la fondazione, quasi per prima cosa, definisca ciò che non fa e che lo faccia sapere: se l'arte rientri nei suoi scopi e una volta deciso di quale delle arti vuole occuparsi, deve elencare nella lista negativa le arti di cui non intende occuparsi. Nella lista negativa di solito si ritrovano: primo: i campi disciplinari e i settori operativi di cui la fondazione non intende occuparsi. Vi sono fondazioni che specificano se ciò sia per sempre, o per un periodo temporaneo; secondo: quali siano i tipi d'intervento che esclude in via permanente di finanziare; nelle liste negative delle fondazioni americane compare, ad esempio, un'espressione quale brick znd mortar, cioè mattoni e calcina, per segnalare che non si finanzia la costruzione di edifici e di opere murarie in genere;

È poi pratica comune a quasi tutte le fondazioni sottoporre a referenti esterni per un esame di merito le domande di erogazione che ad esse pervengono. Nel suo ultimo rapporto annuale la Fondazione Volkswagen, le cui erogazioni annuali ammontano a circa 160 milioni di marchi, si è avvalsa dell'opinione e del giudizio di ben 1122 referenti. Un preciso regolamento fissa il rapporto fra costoro e la fondazione, spingendosi fino a disciplinare l'uso che la fondazione può fare del parere e i casi in cui l'anonimato dell'autore possa essere svelato. Vi sono poi fondazioni che danno vita a un consiglio scientifico. Nel prendere tale iniziativa, molte di esse hanno cura di non conferire al consiglio scientifico il mandato esclusivo di vagliare per un giudizio di merito le domande ricevute. Per certo possono chiedere ai singoli membri del consiglio scientifico di fungere da referenti, ma il consiglio, come organo, funziona assai più da veicolo per il reclutamento dei referenti e da garante della loro libertà di giudizio. Ma, in realtà, la vera e primaria funzione del consiglio scientifico risiede nei pareri che darà a titolo consultivo in sede delle istruttorie che 85


portano gli amministratori a selezionare e a decidere gli indirizzi di spesa della fondazione. Ciò non toglie che consiglio scientifico, da un lato, e referenti, dall'altro, permettano alla fondazione di innervarsi nelle strutture culturali, di ricerca come in quelle istituzionali e amministrative dell'area geografica di pertinenza intessendo una rete di preziosi contatti da cui la fondazione stessa, per il suo lavoro, può ricevere stimoli non meno preziosi. La fondazione dovrà, inoltre, con molta cura uniformare le proprie procedure. Naturalmente, non vi è necessità d'inventarle, scoprendo per l'ennesima volta l'acqua calda. Dai formulari per le domande di erogazione fino alle diarie di viaggio e soggiorno per eventuali borsisti e ricercatori, parametrate sul costo della vita per gruppi omogenei di paesi, fino all'eventuale contributo per le spese di stampa dell'opera che colui che ha ricevuto una donazione deve scrivere, molte fondazioni hanno predisposto il materiale amministrativo d'uso. Qual è lo scopo di questa regolamentazione invero assai minuziosa? A ben vedere si tratta di due scopi fra loro collegati: il primo è di dare uniformità agli atti per snellire e ridurre al minimo l'apparato amministrativo: infatti, più si riducono le varianti, più si abbassano i costi di gestione. Il secondo è di limitare drasticamente la soglia di quanto possa essere oggetto di negoziato fra donatore e ricevente. Premesso che è diritto sovrano di ogni fondazione respingere una domanda di erogazione 86

senza motivare il rifiuto, può essere invece assai importante, tenute presenti le indicazioni dei referenti che saranno stati interpellati, negoziare con il presentatore della domanda che è stata accolta il metodo e il programma di lavoro, gli strumenti d'indagine che sono stati o non sono stati previsti, i tempi di lavoro, insomma tutto quanto è suscettibile di ottimizzare il rendimento dell'investimento che una fondazione compie erogando una somma, anche modesta.

IL REGOLAMENTO INTERNO

In sintesi, una fondazione deve darsi un regolamento interno. Esso riguarda le istruttorie per la definizione delle aree d'intervento e la scelta dei programmi, i compiti attribuiti al consiglio scientifico, là dove esista, i compiti attribuiti ai referenti esterni, la definizione della lista negativa, la definizione dei soggetti abilitati a ricevere donazioni, le tipologie erogative e, infine, le procedure che devono regolare il rapporto fra donatore e ricevente. I costi di gestione di una fondazione oscillano di norma fra l'8 e il 12% delle risorse annualmente erogate. Tuttavia, queste percentuali variano al variare di una serie di fattori: ad es. maggiore è il numero delle erogazioni, maggiori saranno le spese amministrative. Quindi, c'è un ulteriore punto di equilibrio di cui andare in cerca: e cioè il rapporto fra risorse erogabili e nume-


ro delle erogazioni, avendo tuttavia chiaro che una fondazione non può limitarsi a pochi, grandi interventi annuali, perché delle due l'una: o fraziona su più erogazioni il rischio d'impresa oppure, per evitarlo, decide erogazioni di tutto riposo, ma allora perde il connotato costitutivo della fondazione per diventare lo sportello presso il quale talune istituzioni, peraltro giustamente gelose della loro autonomia, siano esse un ospedale o una università, passano a ritirare un assegno. Se questo è vero, è però anche vero che una fondazione non può nemmeno frazionare le sue risorse in mille rivoli. In un caso come nell'altro la fondazione perderebbe uno dei suoi segni distintivi, la prerogativa di compiere delle scelte e di prendere delle decisioni meditate e vagliate, in grado, come detto, di fare massa critica, di incidere su una determinata realtà nel tentativo di modificarla in meglio, di assicurarne lo sviluppo. Infine, un'ultima questione: qual è la dimensione al di sotto della quale una fondazione non riesce a onorare i requisiti d'influenza e d'impatto che sono stati passati in rassegna, e non riesce nemmeno a darsi una struttura che, sotto il profilo gestionale, la qualifichi come una fondazione nel senso pieno del termine? Rispondo alla domanda dicendo che, a mio avviso, una fondazione comincia a esercitare un ruolo di rilievo, rispetto all'area geografica di pertinenza o rispetto ai campi disciplinari nei quali ha deciso di operare, se il suo ammontare

annuo di risorse erogabili si attesti all'incirca fra i tre e i quattro miliardi di lire, e sia possibilmente più vicino ai quattro che ai tre. Vi sono esempi di eccellenti fondazioni di taglia media, come il German Marshall Fund di Washington le cui erogazioni annue sfiorano i 5 milioni di dollari; ve ne sono alcune tedesche, che svolgono nelle scienze politiche, sociali ed economiche, un eccellente lavoro di avanguardia come la Ernst Reuter che eroga 7 milioni di marchi, o come la Reimers che ne eroga 2 e mezzo. Certo è che nulla impedisce a una fondazione di essere un punto di aggregazione di altre risorse: ciò significa mettere a punto un progetto, allocare una somma base e raccogliere fondi aggiuntivi, fino all'ammontare ritenuto necessario, che consentano di materializzare il progetto stesso. Sono, questi fondi aggiuntivi, quelli chiamati in inglese i matchingfunds, ed è, questa, una pratica seguita da non poche fondazioni. Molte altre cose resterebbero da dire, altri esempi in tema di gestione e di amministrazione delle fondazioni potrebbero esser portati. Tuttavia, qui mi fermo, anche per non annoiare coloro che mi stanno leggendo. So perfettamente di non aver sfiorato quel che è il cuore del cuore di ogni fondazione: i contenuti del suo operare, le sue scelte, i suoi indirizzi e i suoi programmi. L'argomento non fa però parte del titolo della mia relazione, e, pertanto, non mi resta che concludere. 87


Fondazioni e tradizione giuridica

GIUSEPPE DELFINI

Occorre prendere consapevolezza che siamo in una fase di evoluzione dell'ordinamento giuridico. In realtà, sta scomparendo in gran parte quell'ordinamento ispirato ai principi illuministici, filtrati dalla normativa napoleonica, che durante il secolo scorso ha creato una realtà giuridica prevalentemente pubblicistica e statalistica; siamo in una fase di evoluzione, ispirata al rovesciamento ditale concezione. Fin dai tempi della mia esperienza professionale ho acquisito l'abitudine, ogni volta che mi pongo di fronte ad un problema giuridico, di esaminare quale sia il fondamento costituzionale di esso e delle norme da prendere in considera-, zione. Occorre perciò chiedersi quale sia il fondamento costituzionale della disciplina giuridica che regola l'esistenza e l'attività delle fondazioni, del volontariato e di tutte le istituzioni di questo tipo. Io credo che la base morale, politica e, soprattutto, giuridica di tale disciplina si trovi in un principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale, laddove, all'art. 2, si afferma che la Repubblica riconosce e ga88

rantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali nelle quali si svolge la sua personaliti Quando fu scritta questa frase, probabilmente, coloro che la formularono non capivano bene quello che affermavano e quali ne fossero le possibili implicazioni; in realtà è una frase ricca di contenuto evolutivo. Le formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell'uomo sono moltissime. Si è scoperto che la stessa Chiesa cattolica è una di queste formazioni, e che anche la Comunità Internazionale va annoverata fra di esse; e possiamo ben dire che esse comprendono quelle istituzioni, che una volta si chiamavano Opere Pie e che l'ordinamento di ispirazione napoleonica ha praticamente soppresso (e, sia detto per inciso, proprio da Bologna, è sorta quella controversia che ha indotto la Corte Costituzionale a dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge Crispi). Può sorprendere l'affermazione di un'analogia fra le Opere Pie e le fondazioni bancarie, ma a livello di valori costituzionali questo è certamente possibile. Io voglio sottolineare che queste


fondazioni, ed i problemi giuridici che ad esse si collegano trovano il loro punto di riferimento, il loro valore sostanziale sul piano strettamente giuridico e normativo del nostro diritto positivo (prima ancora che sul piano della filosofia, della morale e dell'etica) nell'art. 2 della Carta Costituzionale della Repubblica italiana, sia - di per sé - perché tali sono, sia specialmente per il loro substrato associativo, che dà una particolare vitalità umana a queste istituzioni. Ed è proprio con riferimento a questa norma che va letta, interpretata, applicata tutta la normativa (legislativa, regolamentare, statutaria) che riguarda una fondazione come la nostra.

FRANCO MANARESI

Vorrei proporre una nota storica ricordando che la maggior concentrazione di fondazioni si è avuta proprio in Italia prima dell'unità. Infatti a quell'epoca vi erano tante piccole fondazioni private, denominate "Luoghi Pii" con un patrimonio destinato alla cura dei malati, all'aiuto dei poveri, a costituire doti per giovinette, all'educazione e all'istruzione, o ad altre finalità assistenziali. Quasi ogni parrocchia aveva la sua "fondazione" e infatti nella sola provincia di Bologna furono individuate quasi 400, dico quattrocento istituzioni di questo tipo, come risulta dalla relazione di Paolo Silvani Sull'ordinamento delle Opere Pie di Bologna (Bologna, Regia Tipografia, 1879, pp. 4 e 34).

Tra il 1859 e il 1880 furono pubblicizzate per legge e "concentrate" in alcune "Opere Pie" maggiori e nelle "Congregazioi di Carità" che più tardi avrebbero assunto il nome di Enti Comunali di Assistenza (E.C.A.). La pubblicizzazione suscitò grandi polemiche perché dettata prevalentemente da ragioni politiche. Infatti tali fondazioni erano quasi tutte amministrate dai parroci e comunque controllate dall'autorità religiosa, fatto non tollerabile nel clima di acceso anticlericalismo dell'epoca in cui si voleva togliere alla Chiesa ogni possibilità di influenza non strettamente religiosa. Venendo a parlare delle Casse di Risparmio vorrei fare un altro richiamo storico e cioè constatare come esse siano nate e vissute finora con uno stretto legame al territorio in cui hanno operato. Credo che questo legame al territorio sia stato l'origine delle maggiori difficoltà ad ogni tentativo di fusione, ricercato anche dalla Cassa di Bologna. Ritengo che anche per superare questo legame si sia arrivati alla costituzione delle fondazioni al fine di separare l'attività economica bancaria dal patrimonio legato ad interessi locali. Qui vorrei soffermarmi su di una mia profonda convinzione più volte espressa anche a rischio di sembrare talvolta polemico e testardo: la necessità di separare dall'attività bancaria il patrimonio più legato alle tradizioni della città e del territorio, e cioè i tesori d'arte e di cultura accumulati dalle vecchie Casse di Risparmio nella loro più che secolare 89


vita, come peraltro prevede esplicitamente lo statuto della Fondazione di Bologna. Sarebbe opportuno sapere come si sono comportate le altre Casse di Risparmio e cioè se l'intero patrimonio, compreso quello artistico e non funzionale, sia stato trasferito alle S.p.A., come è avvenuto a Bologna, oppure se sia avvenuta la differenziazione statutaria tra l'attività creditizia passata alle S.p.A. e il restante patrimonio mantenuto dalla fondazione. Qualora fosse stata prevalente la prima soluzione penso potrebbe essere inte-

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ressante una proposta di legge che preveda facilitazioni fiscali per il ritorno dei beni artistici e culturali in proprietà alle fondazioni. Infatti ritengo di grande interesse pubblico che i patrimoni artistici, storici e culturali in genere accumulati dalle vecchie Casse di Risparmio restino legati ai territori di origine. Il permanere di tali patrimoni in proprietà alle aziende bancarie anziché alle fondazioni, come è stato per il passato, sarà anche in futuro ostacolo ad eventuali fusioni e in generale ad una disinvolta attività economica libera da remore culturali e campanilistiche.


Fondazioni bancarie e volontariato

ANGIOLA SBAIZ

È importante segnalare le gravi difficoltà che, a mio vedere, possono derivare alla struttura funzionale della fondazione di una Cassa di Risparmio da recenti provvedimenti legislativi gravemente conflittuali con la sua struttura. Sempre in via di premessa, devo anche rilevare che il problema della disciplina delle fondazioni si pone anche per altri istituti che vorrei qualificare privatistici in tutto o in massima parte, il cui insorgere non può certo essere in sé e per sé contestabile, salvo l'attuale assoluta carenza di loro regolamentazione, e cioè di una regolamentazione che non sia in conflitto con la legislazione esistente. Chiudo la parentesi ritornando al problema che mi turba, prima ancora che come cittadino e come socio della Cassa di Risparmio di Bologna, come attuale (per quanto modesto) coamministratore del Consiglio della Fondazione che da essa è sorta. Di fronte a noi come ho detto - in posizione conflittuale, e vorrei dire gravemente conflittuale, sta la recente legislazione sul volontariato.

Regolare il volontariato è certamente diventato necessario. Il fenomeno infatti è sempre più diffuso, specie nella deplorevole attuale vacanza, o comprovata debolezza, di strutture fondamentali della nostra Repubblica. E per questo è merito incontestabile dell'On. Silvia Costa di aver con passione e impegno seguito tale via. Ma nella disciplina legislativa del volontariato, oltre ad eccezionali eccessive prescrizioni di natura vecchio-burocratica sulle modalità di esercizio, del servizio e dei rispettivi controlli (che forse sono più idonei a soffocare o ridurre che a porre seri problemi di limiti) vi è una grave ragione di netto contrasto in atto con l'attuale disciplina delle fondazioni. E cioè di quelle fondazioni che vengono realizzate per enti che, come le Casse di Risparmio, erano e sono rimasti solo in parte enti bancari. E alla loro attività c.d. residuale di cui è autorizzata la "continuazione" per le finalità riconosciute dalle stesse leggi Amato (n. 258 e n. 356 del '90) nei settori previsti per i relativi statuti (e così per ricerca scientifica, istruzione, arte e sanità, assistenza e beneficienza) che attenta gravemente, e direi con peso di91


struttivo, la legge sul volontariato, precisamente là dove essa finanzia l'attività delle organizzazioni di volontariato a danno e pregiudizio di quanto già riservato alle attività e funzioni residuali delle Casse di Risparmio. Mi richiamo infatti alla normativa costituita dalla recente legge-quadro sul volontariato dell'li agosto 1991 n. 266 e al più recente ancora d.m. del 21 novembre 1991, relativo alla costituzione dei fondi speciali per il volontariato presso le Regioni per porre in luce l'eventuale applicazione delle disposizioni di cui all'art. 15 della legge citata (transitoriamente un decimo di somme destinate ad attività residuali, e successivamente un quindicesimo dei propri proventi come misura stabile minima) per l'evidente sconquasso che potrebbe derivarne. Il che pone, e direi prima ancora che tali gravi eventi possano verificarsi, evidenti necessità di interventi modificativi a rimuovere quanto può apparire dovuto alla inconsiderata fretta con la quale disposizioni tanto gravi sono state formulate. Ritengo perciò, che questo debba formare oggetto di attenta considerazione da parte degli organi responsabili.

GIANCARLO LENZI

Sono veramente preoccupato dell'art. della legge che impone alle fondazioni di versare un quindicesimo del proprio bilancio al netto delle spese di gestione. Sono preoccupato perché, al di là degli

aspetti giuridici che non voglio e non sono in grado di trattare, la vedo comunque come una gravissima lesione dell'autonomia. Dieci leggi così per interventi sulla cultura, sull'arte, sul restauro, sulla ricerca e le fondazioni sono completamente svuotate. Non m'importa che poi, bontà del legislatore, il 50% di questo contributo possa essere erogato a scelta della fondazione tra le associazioni del volontariato e mi importa ancora meno che l'organo di amministrazione dell'organismo regionale sia amministrato con una maggioranza sostanzialmente di rappresentanti delle fondazioni; questi sono tutti fatti che vengono dopo. La lesione del principio contro la quale io ritengo che l'Associazione che rappresenta a livello nazionale le Casse di Risparmio dovrebbe prendere una precisa posizione, credo che sia gravissima proprio perché avvenuta nel momento di nascita delle fondazioni e precostituisca un gravissimo precedente che, se non viene abolito in questa legge (e questo non perché io sia contrario al contributo al volontariato, anzi mi raccomanderò sempre molto che gli sia destinata una grossa fetta degli interventi della fondazione) si moltiplicherà in altre; con la carenza di mezzi che ha oggi lo Stato, che hanno le regioni, che hanno i comuni, si tenderà a trovare il modo di utilizzare i beni delle fondazioni per coprire la loro carenza di mezzi. Colgo l'occasione anche per un altro aspetto e sono brevissimo: è invalso l'uso, come sappiamo bene noi amministratori, soprat-


tutto nelle USL, nelle gare di appalto, di chiedere anche il quantum di quella che sarebbe beneficienza, contributo libero che l'ente, in questo caso la S.p.A. (ma poi i soldi sono quelli), è disposto a erogare in cambio della vittoria della gara. Io credo che questa sia una cosa che va duramente combattuta perché è immorale e perché, di nuovo, va a ledere la libera disponibilità della fondazione, alla fine (sia pure attraverso un giro) per interventi che le competerebbero, ma che essa deve essere libera di poter. scegliere; e non lo è più nella misura in cui, (io sto nel consiglio della S.p.A.) la S.p.A., se ritiene di avere interesse ad avere quel servizio, nella misura in cui fa parte del bando anche questa voce, legittimamente, doverosamente, se ne fa carico. Però, così si realizzano due lesioni - per motivi diversi - di princìpi che compromettono sul nascere la libertà e l'autonomia delle fondazioni.

GIAN FRANCO GALLETTI

È opportuno riflettere su due informazioni. La prima è che le stesse organizzazioni di volontariato, laiche o di ispirazione religiosa, che erano presenti in un convegno recentemente tenuto a Bologna, hanno manifestato la loro insofferenza per il controllo pubblico sulle loro attività. L'hanno manifestata all'unisono, questa insofferenza: il discorso che viene fatto sulla autonomia delle fondazioni non è quindi dissimile da ciò che chiedono le organizzazioni

del volontariato. Con questo non hanno ovviamente rinunciato ai contributi, perché sarebbe stato assurdo; hanno però, ben ripetuto chiaramente che non volevano avere direttive o imposizioni come associazioni di volontariato. Questa è stata la prima delle cose, fra le tante che hanno detto, ma è su questa che hanno particolarmente insistito. La seconda è la loro delusione ma partiva evidentemente da uh'informazione sbagliata - a proposito di una affermazione del Presidente del Consiglio, Amato che aveva ipotizzato in 700 miliardi il famoso 15° che doveva confluire alle organizzazioni di volontariato. Lamentavano che alla data di questo convegno i versamenti, o comunque gli impegni presi dalle banche in tutta l'Italia, fossero arrivati soltanto a 12 miliardi. Ora, la differenza fra 700 miliardi ipotizzati e 12 miliardi praticamente versati o promessi, aveva creato in loro questo sconcerto. Questo per dirè che probabilmente qualcuno aveva dato i numeri.

CLAUDIO TRA VAGLIN!

La legge n. 266 sul volontariato dà alle fondazioni bancarie un compito preciso (di cui non discuto la liceità o la correttezza) nel finanziamento dei centri di servizi per le stesse organizzazioni di volontariato, superando in questo caso le donazioni o i contributi a pioggia alle singole organizzazioni. Le fondazioni sono quindi chiamate a fornire servi93


zi che aiutino la crescita della cultura gestionale delle stesse odv, quali particolari aziende non projìt. Nella cultura economica e nell'elaborazione scientifica straniera, specie dei paesi anglosassoni c'è una corposa documentazione ed un diffuso sforzo di ricerca e didattica specificamente orientato alla gestione delle aziende non profit (con alcune centinaia di corsi universitari di vario tipo ed argomento quali contabilità per le non profit, marketing per le non profit, etc.). Negli stessi paesi è consolidato il ruolo delle organizzazioni non proflt nella gestione di settori e servizi quali la sanità, l'istruzione, l'assistenza o la cultura, particolarmente importanti per la nostra vita civile; i soggetti che gestiscono questi servizi sono aziende che perseguono obiettivi ben diversi dal raggiungimento del profitto. Del resto l'identificazione del profitto quale obiettivo dell'azienda è una semplificazione, che appare drastica ed eccessiva, del complesso degli obiettivi presenti all'interno della stessa azienda, e la stessa dottrina aziendale italiana ha sempre sostenuto la non identificabilità nel profitto dell'obiettivo del complessivo sistema aziendale, identificato invece nel raggiungimento e mantenimento di un equilibrio a valere nel tempo. Lo spazio tipico e proprio delle fondazioni bancarie appare allora quello di superare la prassi del milione all'una e dei cinque milioni ad un'altra organiz•zazione, e di fornire risorse in forma di servizi qualificati per sviluppare la cuIPIAI

tura aziendale in queste organizzazioni che non di rado utilizzano risorse in misura rilevante, anche acquisite con benefici fiscali, con l'apporto determinante del volontariato. In questo io vedrei lo specifico della banca, in cui certamente la cultura aziendale della prudente ed avveduta gestione delle risorse, nel rapporto con le odv. Una iniziativa di carattere strategico, da proporre alle fondazioni singole od associate, potrebbe essere, accanto alla gestione dei centri servizio, la definizione e l'offerta di uno spazio di formazione ed aggiornamento ai dirigenti ed ai responsabili delle organizzazioni di volontariato. Un complesso di momenti formativi per questi soggetti, che sarebbe di impegno e di costo limitato anche per la difficoltà di togliere queste persone al proprio lavoro ed alla loro vita professionale, ma di grande efficacia per l'incremento della cultura aziendale nelle organizzazioni di volontariato. Giungendo poi al mio specifico professionale, che è la ragioneria, ossia i metodi di rilevazione e rappresentazione della realtà aziendale nel linguaggio monetario, dobbiamo affermare la necessità di un adeguato sistema informativo per le organizzazioni non profit, orientato opportunamente dai loro obiettivi e dalla loro struttura. Alla diversità del vettore di obiettivi delle aziende non profit rispetto alle altre aziende, corrisponde una diversità in termini di sistema informativo-contabile. Allora, a mio parere, il contemporaneo


obbligo di presentazione del bilancio delle odv per usufruire delle agevolazioni fiscali, e la necessitĂ di promuovere una crescita della cultura aziendale nelle stesse odv, deve portare a trasfor-

mare l'obbligo di presentazione del bilancio, in opportunitĂ di conoscenza, governo e comunicazione esterna sui processi che l'organizzazione attua, anche con rilevante impegno di risorse.

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Le fondazioni bancarie, problemi e prospettive

ENZO ANCESCHI

È importante concentrare l'attenzione su alcuni punti specifici, innanzitutto su quello delle finalità delle fondazioni. Finora appare un quadro della fondazione astratto o teorico; si è pensato alla fondazione ideale partendo dalle premesse della legge, istitutiva, che le ha inventate distinguendole dalla banca. Noi nella realtà ci troviamo di fronte a una normativa complessa, quindi ci dobbiamo rifare alle finalità che sono previste dal decreto che ha stabilito come dovrebbero essere le fondazioni. Quel decreto indica con precisione quelle che sono le finalità che può avere una fondazione bancaria e che sono state tradotte in modo non perfettamente esatto, rispetto al decreto, nello Statuto della Fondazione Cassa di Risparmio di Bòlogna. Le finalità sono: la ricerca scientifica, l'istruziòne, l'arte e la sanità. Il decreto dice anche che possono essere mantenute le finalità preesistenti, purché siano indirizzate «all'assistenza e alla tutela delle categorie sociali più deboli». Lo statuto riporta invece una indicazione generica di «pubblica utilità» contenuta nel precedente statuto

che invece non può essere mantenuta, se non nel senso che venga indirizzata all'assistenza e alla tutela delle categorie più deboli; non è quindi lo stesso criterio dell'utilità generale, che era previsto nel primo statuto, ma è soltanto l'assistenza specifica di tutela per le categorie più deboli. E vero che nel decreto c'è una indicazione per quanto riguarda i fini fondamentali, perseguibili in modo «preminente». Ma è da presumersi che, se qualche altra finalità può essere pensata, essa deve essere soltanto marginale, o succedanea, eventualmente collegata con quelle che sono le finalità specifiche fondamentali, cioè la ricerca scientifica, l'istruzione, l'arte, la sanità e la tutela delle categorie più deboli. Mi pare che questo trovi conferma anche in quanto ha detto il professore Rescigno in un convegno svolto di recente; egli precisava che le finalità vengono individuate in maniera tipica e c'è solo un ristretto margine di elasticità da parte dell'ente. Questo a me interessa, perché il precisare in questo modo consente di evitare la possibilità delle erogazioni di contributi a pioggia, il fatto di disperdere le eventuali iniziative in molteplicità di finalità che sono al

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di fuori di quelle specifiche determinate dal decreto istitutivo. A me pare che questo sia molto importante e, mi pare importante anche tradurre tutto ciò in un regolamento preciso, che stabilisca quelle che sono le modalità di erogazione, le modalità attraverso le quali si riescano a determinare, nell'ambito delle finalità generiche, i compiti specifici e direttamente perseguibili caso per caso, anno per anno, momento per momento, da parte dell'istituzione. La precisazione delle finalità e la regolamentazione delle modalità del loro perseguimento portano ad una conseguenza importante. Di solito gli enti tendono ad espandersi, è un fatto che è sociologicamente spiegabile, gli enti non solo tendono ad esistere, ma tendono anche a diventare forti, a diventare ampi, a diventare sempre più potenti. E quindi questo nell'ambito della fondazione può andare a scapito della banca, come viceversa lo straripamento delle iniziative della banca potrebbe andare a scapito della fondazione. E qui è bene ribadire la netta distin ; zione delle due strutture, la struttura fondazione e la struttura banca. La banca deve fare bene il suo mestiere di banca, la fondazione deve fare bene il suo mestiere di fondazione; altrimenti ci possono essere dei rischi, rischi che sono indipendenti dalla volontà degli uomini, dipendono appunto dal fatto che gli organismi si muovono al di fuori di quella che è la volontà degli stessi gestori, degli stessi amministratori. Può esserci il pericolo che la banca tenda a

scaricare sulla fondazione dei costi che sono suoi propri. A questo proposito è molto pertinente l'esempio gare negli appalti dei servizi di tesoreria, in cui potrebbe darsi che la banca scarichi sull'ente fondazione dei costi che invece sarebbero propri della banca in gara con delle altre banche E questo potrebbe anche rendere meno evidente la concorrenza, perché ci sono delle banche che non hanno una fondazione che le sostiene, le quali non potrebbero scaricare i costi su nessun'altro. E viceversa sarebbe anche deprecabile che la fondazione utilizzasse la banca per i suoi fini, per esempio imponesse alla banca certi interventi che invece non sono da un punto di vista bancario utili. Quindi la determinazione precisa dei compiti e delle modalità, la redazione del regolamento che stabilisca le forme di comportamento della fondazione a me paiono assolutamente prioritari rispetto a qualunque altro tipo di intervento. Ci sarebbe poi una ultimissima considerazione da fare, su di un aspetto che è forse eccessivamente tecnico, che però ha uno stretto riferimento all'autonomia. In Italia siamo soliti rivendicare le autonomie, sono quasi cinquant'anni che s'insiste nell'esaltare le autonomie locali, le autonomie degli enti, ecc. ecc., anche forse al di là di quelli che sono limiti di una saggia amministrazione e una sana vita pubblica. Noi siamo attaccati a questo fatto delle autonomie, vogliamo che nessuno ci controlli e che nessuno ci venga a mettere i bastoni fra le ruote. Però nella realtà si urta contro 97


una serie di ostacoli non facilmente superabili. Nello statuto della Cassa di Risparmio di Bologna era stato stabilito che il bilancio doveva essere dal primo di gennaio al 31 dicembre. Di recente è stata proposta la modifica dello statuto, nel senso di andare dal primo di ottobre di un anno al 30 di settembre dell'anno successivo. Perché questo? Perché il Tesoro e la Banca d'Italia sostengono la tesi che bisogna mettere nel preventivo solo le entrate che sono state acceriate, cioè che sono determinate dal bilancio precedente della banca. Ora a me hanno insegnato, che le previsioni sono previsioni, non è che si devono fare su dei dati certi, si fanno su dei dati che sono previsionali e che sono approssimativi. Ecco, allora noi che cosa abbiamo fatto? Abbiamo modificato uno statuto per accontentare Banca d'Italia e Tesoro presentando la proposta di anticipare al 10 ottobre, mentre invece sarebbe stato meglio a mio modestissimo parere, o rimanere fermi o anzi avvicinare il più possibile al 31 dicembre la formazione del preventivo. Il nostro bravissimo Direttore Generale sa già in ottobre quello che sarà l'utile della Banca; ce lo viene a dire delle volte in Consiglio, e noi constatiamo che azzecca sempre, non dico al centesimo, ma quasi, l'utile dell'anno in corso. Quindi sarebbe stato possibile con quel dato, fare per la fondazione per l'anno successivo, un bilancio contenente dati previsionali largamente attendibili, che le avrebbero consentito di scegliere, in piena autonomia le ero98

gazioni di sua propria competenza. Ma non sempre si riesce a tradurre gli intendimenti in realtà.

BENIAMINO ANDREATTA

Negli anni '50 gli amici de «Il Mondo» sostenevano la tesi del privato più privato, del pubblico più pubblico. Era la cultura di chi considerava che solo il tornaconto facesse parte delle attività private e che onere e servizio potessero essere inquadrati soltanto nel servizio pubblico. E interessante invece ricordare che, quando il Kaiser Guglielmo TI, all'inizio del secolo si pose il problema della inferiorità della Germania nella concorrenza internazionale, mandò il teologo Arnak a esaminare il perché .gli Stati Uniti, che avevano università meno prestigiose di quelle tedesche - c'era stata la grande rivoluzione dei dipartimenti nelle facoltà di chimica e di ingegneria in Germania - fossero più avanti della Germania. Il teologo tornò e suggerì all'imperatore di costituire in Germania una fondazione sul tipo della Carnegie. L'imperatore diede quindi incarico ai prefetti di chiedere alle famiglie nelle varie provincie della Germania di dare i fondi, e così nacque nel dopoguerra - ma i fondi si trovarono prima - l'istituto Planck in Germania. Tanto poco era vera questa distinzione tipica del diritto pubblico liberale e della concezione liberale della distinzione tra privato da un lato e pubblico dall'altro, che le due potenze più importanti


all'inizio del secolo, nell'esaminare la situazione facevano riferimento proprio a strumenti quali le fondazioni. Bene, la vicenda delle Casse di Risparmio, per dimensioni finanziarie - si tratta di 50 miliardi di dollari, il patrimonio complessivo degli istituti di credito italiani che sono stati costituiti in fondazione -, è abbastanza vicina alle cifre del volume patrimoniale delle fondazioni americane mentre il reddito è cinque, sei volte inferiore. Ecco, quello che è accaduto ha risolto il problema delle fondazioni? Certamente tutto quello che è accaduto si è verificato un poco casualmente: nessuno ha pensato di lanciare un nuovo rinascimento italiano utilizzando questo strumento. E di fondazioni esistono vari tipi, quali ad esempio le fondazioni di impresa. Credo che la Glaxo, cioe 1 impresa europea che ha la maggiore capitalizzazione in borsa, sia in realtà di una fondazione. Una fondazione impresa è un genere completamente diverso, un tipo ideale completamente diverso dalla fondazione che siamo abituati a considerare. La fondazione impresa può risolvere dei problemi di fissazione di obiettivi aziendali di lungo periodo. Tutto quell'insieme di discorsi che si fa sul confronto tra le imprese in Giappone, in Germania, negli Stati Uniti, sull'importanza del mercato dei capitali o di qualche altra entità che controlli le imprese, riguarda un genere completamente diverso. Che cosa dobbiamo fare? In qualche modo il Tesoro ci indica di fare una fondazione di impresa. Qual

è stato lo scopo, come è nata questa strana avventura? E nata su un processo di parziale privatizzazione. All'inizio degli anni '80 si introdusse il criterio del capita1 risle per il controllo della rischiosità del credito. Ma c'era una serie di imprese che non avendo l'accesso al mercato dei capitali poteva costituire un ostacolo all'applicazione dei rapporti tra mezzi patrimoniali e le operazioni o talune operazioni. E allora si decise di lasciare queste imprese libere di raccogliere capitale in forma tipica di azioni. Ma per fare questo dovevano essere trasformate in società per azioni e ci voleva una cassaforte che detenesse i pacchetti di controllo. La parola fondazione non ha nessun riferimento a tutti i contenuti culturali, istituzionali che vengono normalmente i fatti, è un ente, una compagnia, una cassaforte in cui viene detenuto ciò che rimane al pubblico, ciò che non viene messo sul mercato. Per trasformare questa fondazione come mero strumento giuridico che è il massimo, al ricordo della politica di beneficienza delle Casse di Rispamio, in qualche cosa di diverso, occorre una grande consapevolezza. Occorre una volontà da parte delle classi dirigenti delle Casse di Risparmio, di fare qualcosa che va molto al di là delle intenzioni della Banca d'Italia, del Ministero del Tesoro e di quelle contenute nei testi legislativi. E questo può essere fatto. Naturalmente nascéranno delle tensioni nel fare questo, perché sarebbe necessario poter massimizzare i flussi di cassa, ma certa-


mente tenere tutto in un'unica partecipazione non equivale a massimizzare i flussi di cassa. E utile per una fondazione essere legata ad un settore come il credito, con un legame profondo qual quello imposto dalle leggi fiscali esistenti. Le plusvalenze che si sono determinate nella fase di costituzione della S.p.A. sono, e vero, in sospensione di imposta, ma vengono tassate nel momento in cui si realizzano le azioni. Di fatto il costo di ogni trasformazione patrimoniale estremamente elevato, è nell'ordine del 40-45%, dato il punto di partenza e il punto di arrivo che rappresenta più del 90% dei valori attuali delle plusvalenze accertate al momento dell'applicazione della legge Amato. La legge rende quindi difficile la finanza di una fondazione del tipo tradizionale, in cui le donazioni sono gestite con cura evitando di concentrare la destinazione dei mezzi in un investimento abbastanza rischioso quale quello in una banca. E allora occorrono politiche di frazionamento dei rischi, di valutazione dei rendimenti e della dispersione dei rischi del rendimento. E tuttavia in Italia osta il fatto fiscale. Ci sono logiche di contrapposizione tra i gestori della banca e chi rappresenta la proprietà. Il gestore vuole il massimo dell'autofinanziamento, chi ha in mano la proprietà valuta, al di là dei teoremi della finanza, se un alto flusso di dividendi non sia un elemento importante nel caso di aumenti di capitale. Noi che abbiamo una banca di dimensioni medie, avremmo bisogno, nel caso di fusioni, di avere delle azioni che 100

siano molto appetibili; e quindi abbiamo bisogno di una storia di alti pay out, perché al di là delle capacità del mercato un dividendo è sempre un elemento più sicuro di una posta in bilancio. Naturalmente l'ottica di chi gestisce considera sottratto ad un autofinanziamento un profitto che viene distribuito, ma diversa la logica del proprietario. E qui nascono tutta una serie di problemi. Io mi domando se volendo esercitare la propria funzione di fondazioni, e quindi immaginando che tra cinquanta o cento anni i rapporti con gli istituti saranno molto più laschi di quelli attuali, immaginando operazioni di collocamento sul mercato, di fusioni ecc., e quindi cominciando a costituirci una logica di fondazione, non convenga affrontare questo nodo del regolamento fiscale, delle plusvalenze in una fase che presenta l'amministrazione pubblica un poco debole. Certamente con questa regolamentazione poche Casse differenzieranno il loro patrimonio; quindi poco gettito fiscale si determinerà. E allora non conviene che, agendo di comune accordo, le maggiori fondazioni negozino con l'amministrazione finanziaria, con il Parlamento, degli interventi in settori che per l'amministrazione oggi sono critici, contro la trasformazione in definitiva di quella temporanea esenziòne della tassazione sui capital gains? E vorrei indicare delle strade possibili che però meritano di essere analizzate, perché mi pare che le fondazioni hanno prosperato perché hanno applicato un me-


todo razionale di grande impegno tecnico e morale nel prendere le decisioni. Allora mi domando cosa accadrebbe se la Repubblica si trovasse di fronte alle maggiori fondazioni delle Casse che assumessero l'impegno di gestire per dieci anni cento ospedali del paese, preparando la trasformazione di questi ospedali a loro volta in fondazioni autonome, oppure se assumessero l'impegno di gestire cento istituti di alta eccellenza nel campo professionale. Cioè, c'è una Repubblica che ha da risolvere dei problemi che difficilmente riesce a risolvere nell'ambito della amministrazione pubblica e della legge é ha bisogno di capacità gestionali per risolvere questi problemi; e allora mi pare che se ci fosse una proposta del complesso delle fondazioni, indirizzata in una fase in cui per dieci anni lo Stato italiano non potrà prendere nessuna nuova iniziativa, nessun settore potrà ricevere fondi dallo Stato italiano. Ecco allora una iniziativa di razionalizzazione, di introduzione di tecniche di gestione più scientifica, una risposta alla crisi dello Stato del volontarismo sociale esasperato, del benessere contro una transazione in campo fiscale, che abbia il vantaggio di permettere una gestione più razionale della finanza delle fondazioni. Il Presidente della fondazione potrebbe assumere una iniziativa in questo senso valutando con i Presidenti ed i Consigli di amministrazione di analoghe fondazioni se sia considerato importante il problema di acquisire un maggiore grado

di libertà nella gestione del proprio portafoglio, della propria ricchezza; e in secondo luogo se non convenga identificare due o tre settori in cui intervenire, come a mio parere quello di assumere i cento migliori ospedali italiani e di gestirli sotto forma di ospedali convenzionati, o di gestire una serie di iniziative scolastiche, contro l'impegno di una modifica, in una prossima occasione parlamentare, di una imposta che un deterrente importante per raggiungere degli equilibri finanziari ottimali, ma che nelle condizioni attuali non offre nessuna possibilità di introiti per il bilancio statale, perché semplicemente immobilizza la gestione finanziaria di tutte le fondazioni. Io credo che ci sia la possibilità di ottenere un risultato positivo. Questo risultato positivo ci muoverebbe anche come disincaglio del patrimonio dall'obbligo di sostenere un'unica iniziativa, ci porterebbe verso quelle fondazioni che desideriamo, e che non sappiamo affatto se sono il nostro futuro oppure se sono un sogno di alcuni amici che hanno pensato di caricare su di noi il senso che in Italia, mancando le fondazioni, manca un pezzo importante della organizzazione sociale del paese. Ci hanno quindi chiesto, pur avendo uno strumento che probabilmente mal si presta a causa del trattamento fiscale esistente, di svolgere queste funzioni. Forse queste funzioni potrebbero essere svolte, ma richiedono questa capacità di iniziativa. 101


FRANCESCO MORLINI

È opportuno essere consapevoli che, per perseguire l'obiettivo di interventi di grande rilevanza sociale, e che possano avere una continuità nel tempo, è indispensabile ricercare forme di collaborazione e sinergie tra le varie fondazioni, almeno a livello regionale. Siamo la Nazione delle cento città e dei cento distretti industriali, come dice Romano Prodi, ed ora forse anche delle cento fondazioni, dotate però di patrimoni che, a quanto mi risulta, mediamente, non consentono interventi che siano al tempo stesso di grande rilevanza sociale-culturale e che possano avere continuità negli anni. Collaborazioni possibili, superando anche particolarismi e interessi locali, attraverso consorzi, o qualche altra forma, dovranno essere studiate, se si vorranno perseguire questi obiettivi. Il secondo punto che vorrei trattare riguarda la questione del rapporto tra fondazione e banca, secondo lo spirito della legge Amato. Mi riferisco in particolare alle affermazioni, relative al matrimonio tra fondazione e banca, ove la fondazione è stata definita la parte debole. Se la fondazione rappresenta la proprietà, se le compete la nomina degli amministratori della banca, non riesco bene a capire come possa essere considerata la parte debole. Al di là di questo, però, non mi è chiaro e non mi è stato chiarito il significato della parola "amministra" nel contesto della legge Amato. Mi sembra infat102

ti che questa sia la parola chiave da interpretare, per comprendere bene questo rapporto, inserendola nella realtà di una organizzazione non profit. Ovviamente il significato della parola "amministra" in organizzazioni profitoriented, ove ho sempre svolto le mie esperienze professionali, mi è perfettamente chiaro: ciò che mi chiedo è se la stessa interpretazione possa valere anche per queste fondazioni non profit.

VIRGINIANGELO MARABINI

Desidero subito esprimere la mia preoccupazione in ordine alla incompatibilità sancita fra gli amministratori della fondazione e quelli della S.p.A. bancaria. Oggi infatti gli amministratori delle due nuove realtà istituzionali provengono dalla stessa "madre" pertanto per i primissimi anni difficilmente possono prevedersi delle difficoltà o peggio ancora delle conflittualità, però cammin facendo non vorrei che da parte della società bancaria si pensasse alla fondazione come alla "bella mantenuta". Allora, proprio perché ciò non' possa verificarsi occorrerà che tutti i soci si adoperino perché la parte più debole, cioè la fondazione, non si venga a trovare in una situazione di forte disagio. La seconda considerazione che faccio è questa: la nuova Fondazione della Cassa di Risparmio non può dar vita solo ad iniziative destinate ad esaurirsi nel corso dell'anno. Sulla base quindi, non certo delle esperienze delle fondazioni


italiane, che sono quasi tutte antiche e quindi "decotte", ma di quelle costruite in paesi esteri dove molte delle scelte di intervento sono continue nel corso degli anni, raccomando alla neonata Fondazione di stare sì dentro agli obiettivi della nuova legge nazionale ma di impegnarsi prevalentemente per iniziative permanenti. La terza raccomandazione: le fondazioni delle Casse e dei Monti avranno sempre più in avvenire, specie nella vita delle singole comunità, un considerevole peso economico e finanziario, ma siccome in Italia esse sono all'anno zero occorrerà che fra di loro ci sia, specie nei primi tempi della loro vita, un buon raccordo e che per la loro "ricerca creativa" venga inserito nei vari bilanci un particolare stanziamento di spesa. Credo che ciò sia un fatto molto importante. L'attività di una fondazione deve essere l'offerta di un servizio, accanto al soddisfacimento di una domanda. Limitandomi a qualcosa che possa essere congruocon le nostre possibilità, e limitandomi al settore dell'alta cultura e della ricerca, trovo un valido suggerimento ripensando all'attività svolta dopo l'ultima guerra dalle Fondazioni Guggenheim e Ford e dalla legge Fulbright. Se c'è stato un modo efficace con cui Europa ed America hanno mantenuto un contatto scientifico di ottimo livello, questo si è concretizzato atraverso le borse di studio e di viaggio elargite

dagli Enti sopra nominati, e, da notare, operanti nei due sensi. Noi abbiamo doveri verso l'America Latina che abbiamo sempre trascurato, e abbiamo ora doveri verso i paesi europei di nuova democrazia che molto si aspettano da noi europei occidentali. Per non mettere in moto una impresa troppo impegnativa si potrebbe far centro, per quanto riguarda l'Italia, sul coinvolgimento di alcuni centri di eccellenza delle Università ed Istituti di Ricerca delle singole regioni.

GIAN CARLO CORAZZA

Io vorrei portare qui un contributo come Presidente di una piccolissima fondazione, forse neanche degna di essere chiamata tale, visto l'ammontare di denaro che gestisce, che è la Fondazione Marconi. Vorrei parlarne perché forse da un'esperienza pratica può venire un suggerimento anche su quello che potrebbero fare le Fondazioni Casse di Risparmio. La Fondazione Marconi, quando sono venuto a Bologna, nel 1967, aveva 5 milioni all'anno di dotazione ordinaria, oggi ne ha 60, 60 milioni ed è "iscritta in tabella", il che significa che è riconosciuta come fondazione degna di qualche attenzione da parte del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Proprio per l'esiguità delle sue disponibilità finanziarie ordinarie, quando sono diventato Presidente della fondazione mi sono reso conto che c'erano due 103


possibilità, una era quella di impiccarmi al trave più alto della fondazione, l'altra era quella di chiudere tutto e passare la mano. Ecco, avevo queste due possibilità oppure dovevo cercare un'altra strada. L'altra strada che, non io da soio, ma insieme ad alcuni colleghi dell'Università di Bologna abbiamo trovato è stata quella percorsa da molte fondazioni statunitensi e cioè, semplicemente, vivere del proprio lavoro. Abbiamo cominciato ad operare vendendo quello che sapevamo fare: ricerca scientifica. A proposito della ricerca vi può essere un altro equivoco: se non si specifica non si sa di quale ricerca si sta parlando. Noi universitari facciamo ricerca di base, poi c'è la ricerca finalizzata, quella pre-competitiva, quella applicata. La ricerca di base non si vende, la ricerca pre-competitiva e quella finalizzata si vendono e non si vendono, quella applicata si vende. Noi, per sopravvivere, abbiamo mirato prevalentemente a quella applicata. Sono qui a parlarne, come Presidente della Fondazione Marconi, perché l'iniziativa ha funzionato, ed ha funzionato senza che noi ci si sia trasformati in un ente con fini di lucro, per il semplice motivo che abbiamo sempre operato nei confronti di enti come Ministero delle Poste, Sip, Ferrovie dello Stato, che per loro natura non ci chiedevano di muoverci su di un terreno che non era il nostro. A questo punto mi ricollego a quello che, a mio avviso, potrebbero, tra l'altro, fare le Fondazioni Casse di Risparmio. Una delle difficoltà nelle quali 104

personalmente mi sono imbattuto è stata quella della disponibilità di capitali, difficoltà quindi di natura finanziaria. La Fondazione Marconi ha ùn Consiglio direttivo nel quale sono presenti molti politici i quali vengono e, da buoni amministratori di denaro pubblico, ragionano sulla base di un bilancio di competenze. Ciò vuol dire che all'inizio dell'anno vi è una certa somma disponibile e quello che viene richiesto è soltanto di spenderla bene, perché all'inizio dell'anno successivo la somma viene reintegrata e così via. Nella situazione in cui noi ci trovavamo non era possibile operare in questo modo, perché ci saremmo bruciati tutto il capitale e, di conseguenza, non avremmo potuto ricominciare a lavorare l'anno dopo. Può allora capitare che uno dei consiglieri dica: «Se vi sono dei fondi disponibili ripuliamo tutta la sede della Fondazione», per cui occorre spiegargli che così facendo bruceremmo tutte le possibilità che abbiamo di creare nuovo capitale, investendo i fondi messi da parte, faticosamente, un po' alla volta. Allora, se la difficoltà per una fondazione modesta come è la Fondazione Marconi, risiede nel possedere i fondi per avviare una certa attività che poi di per sé può autofinanziarsi, una possibile strada da percorrere per le Fondazioni Casse di Risparmio è questa: aiutare altre fondazioni, quelle che il professor Ranci ha denominato fondazioni operative, mettendo a loro disposizione i capitali per poter operare. Per perseguire fini sociali una strada mette a dispo-


sizione il pesce, l'altra insegna a pescare. Bene, io credo che le Fondazioni Casse di Risparmio in Bologna possano aiutare quelle come la Fondazione Marconi affinché insegnino agli altri a pescare e a svolgere una funzione di addestramento, di acculturamento, di apertura verso l'innovazione tecnologica, verso alcune delle nuove possibilità offerte dalla tecnica e dalla scienza.

FRANCESCO MASSARI

Per cercare di identificare un modulo operativo per una istituzione del tutto nuova (almeno per noi) con uno Statuto cui dovremo sempre fare riferimento, la Cassa di Risparmio di Bologna ha costituito una commissione mista di soci e amministratori. In buona sostanza, con la Fondazione vengono istituzionalizzati ed ampliati questi obiettivi di utilizzo per fini di pubblica utilità di parte consistente degli utili derivanti dall'attività bancaria, che i fondatori della Cassa già perseguirono sin dall'inizio. La commissione ha identificato due ruoli per la Fondazione: - erogazione degli utili nei settori indicati dallo Statuto, fatta anno per anno, senza un'azione coordinata nel tempo; - diventare, anche attraverso una erogazione mirata e coordinata delle somme anno per anno disponibili, un autorevole punto •di riferimento nella vita civile, culturale ed economica della città, cercando di operare in simbiosi con

la S.p.A. bancaria, il cui sviluppo consentirà maggiori capacità di intervento. La commissione, che ha ritenuto vada perseguita la seconda alternativa, ha anche formulato alcune linee operative alle quali informare l'attività della Fondazione. Fra queste vorrei citare le seguenti: - salvaguardare, per quanto possibile, l'autonomia della nuova istituzione nei confronti dello Stato e degli enti pubblici; - regolare correttamente e con chiarezza i rapporti fra i due organismi Fondazione e S.p.A. bancaria - dopo l'intervenuta formale separazione; - fornire la Fondazione di una sua propria struttura minima di funzionamento compatibile con gli stanziamenti che il Consiglio di Amministrazione deciderà di impegnare annualmente a questo fine; - raccogliendo il desiderio espresso da molti soci è raccomandata una soluzione sollecita per dare una sede alla Fondazione e per la tutela delle raccolte d'arte della Cassa in parte frutto di donazioni, il riordinamento e l'individuazione dei filoni di specializzazione delle raccolte nell'archivio storico; - la Fondazione non dovrà limitarsi alle funzioni di ente erogatore ma essere promotrice di iniziative concrete e di un certo respiro; dovrà avere una sua tipicità di funzionamento rispetto ai criteri gestionali della S.p.A. bancaria, orientare e regolamentare le erogazioni, attraverso la definizione di un budget settoriale; verificare i risultati e la 105


loro rispondenza alle finalità delle erogazioni; - concepire la Fondazione in una visione dinamica attraverso il potenziamento di iniziative culturali, sostenere la ricerca e la beneficenza in settori significativi, assicurare appoggio all'arte in settori creativi, fornire aiuto ai giovani meritevoli; - dare importanza ai valori personali, finanziando eventuali équipes di ricerca più che l'acquisto di strumentazioni; - per il miglior assolvimento dei suoi fini istituzionali, chiedere un attivo contributo a componenti del corpo sociale di spiccata competenza nei diversi settori, coinvolgendo quindi lo stesso corpo sociale per operazioni di significativo rilievo.

GIOVANNI BERSANI

Le fondazioni legate alle Casse rappresentano un fatto innovativo per tutto il settore. Questo non è soltanto in movimento sul piano nazionale, ma anche in campo europeo. A livello comunitario, infatti, si cerca di definire il cosiddetto "terzo settore" dell'economia sociale che dovrebbe riguardare, tra l'altro, anche le fondazioni. E nata così una apposita divisione XXffl nella direzione generale del mercato interno. Vorrei notare, al riguardo, che da circa due anni, anche nella legislazione italiana il riferimento al settore dell'economia sociale è entrato in una serie di nostre leggi e che in questo momento la 106

situazione in materia è comunque tutt'altro che chiara. Si discute, ad esempio, di statuti-tipo: statuti che pongono dei problemi anche alle Fondazioni delle Casse di Risparmio, ed è importante offire un contributo a questo aperto dibattito che, anche in campo internazionale, tende ad una ridefinizione dell'economia sociale e dei suoi principali soggetti, tra cui le fondazioni. Per quanto riguarda le fondazioni bancarie si ripropongono i problemi relativi alle "fondazioni di impresa": in che modo, ad esempio, la propria autonomia si gioca nel nesso che inevitabilmente lega la fondazione alla banca? Quando si doveva affrontare in concreto questo problema, ci si chiedeva: se questa iniziativa va finanziata, vi è anche un qualche interesse per la banca? E se aveva un interesse, anche indiretto, per la banca, l'iniziativa veniva di fatto preferita. Fino a che misura questo criterio deve restare? Fino ad oggi il settore beneficenza della banca collegava in qualche modo le due cose. Adesso si afferma una nuova autonomia, una reale indipendenza, ma in che modo, con che metodo? Sono questi interrogativi a cui è importante cercare di dare una risposta. Sorgono poi spontaneamente altre problematiche; innanzitutto come le Fondazioni delle Casse di Risparmio di una regione possano collaborare tra di loro. Non è semplice allo stato attuale delle cose vedere in che modo queste collaborazioni, queste sinergie potranno realizzarsi. Peraltro è indùbbio che è


una direzione lungo la quale bisogna andare. E anche opportuno non dimenticare la dimensione internazionale: in un mondo, in una società internazionalizzata possiamo continuare a considerare il tutto in ambiti circoscritti, pur dovendo preservare il radicamento nel territorio e il serivizio al territorio? Il fatto è che questo territorio ha dei collegamenti non solo economici, ma ideali e morali con realtà che vanno ben oltre la nostra regione. Condivido perciò il fondo delle osservazioni del Prof. Ranci, anche se mi rendo conto delle dif -

ficoltà che derivano oggi dalla legge e dagli stessi statuti. Per finire, vorrei riprendere il suggerimento del dottor Cavazza circa i matching funds. Credo che sia un modo molto interessante per recuperare tutta un'antica tradizione delle fondazioni. Ritengo che sarà opportuno tenerne conto nella rielaborazione degli statuti e dei programmi. Sarebbe un modo peculiare per coinvolgere le energie più vive della società, al di fuori dell'ambito stesso della banca e della fondazione, per gli obiettivi ritenuti meritevoli di essere sostenuti.

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queste istituzioni

PerchĂŠ Adriano Olivetti

Dopo aver pubblicato, nell'ultimo numero, l'articolo di Umberto Serafini, teniamo aperto il dossier su Adriano Olivetti con l'intervento di Saveria Addotta. Esso ci permette di scoprire una delle fonti intellettuali della tensione ideale e dell'opera politica e culturale di Olivetti. Fonti spesso ben poco note in Italiq e che, come Simone Weil, poco si lasciavano catalogare nel dibattito ideologico di allora.

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Simone Weil e Adriano Olivetti di Saveria Addotta

LE PRIME PUBBLICAZIONI WEILIANE

La maggior parte degli scritti di Simone Weil: saggi, articoli, poesie, lettere e quaderni di appunti sono giunti fino a noi grazie ai genitori che ne hanno ricopiato con cura i manoscritti. Altri testi sono stati invece affidati da lei stessa a due amici: il filosofo cattolico tradizionalista Gustave Thibon e lo scrittore, padre domenicano, JosephMarie Perrin. In vita Simone Weil pubblica solo articoli. Dei libri conosciuti, solo due: L'Enracinement e Reflexions sur les causes de la Iiberté et de l'oppression sociale, sono redatti dall'autrice, i rimanenti sono tutte raccolte di scritti dei diversi curatori. Al due amici cattolici, Thibon e Perrin, la pensatrice consegnò i suoi Cahiers, le Intuitions préchrétiennes e La source grecque. Dai Cahiers, Thibon trasse un primo libro, pubblicato con il titolo: La Pesa nteur et la Grace; mentre da altri brevi scritti weiliani e da conversazioni con la pensatrice, padre Perrin trasse il terzo libro pubblicato in Francia: Attente de Dieu. Gli scritti conservati dai genitori furo110

no pubblicati a partire dal 1949 per miziativa del «suo grande amico-innamorato postumo Albert Camus», nella col: lana da lui fondata presso le edizioni Gallimard: Espoir. Si è fatto questo breve resoconto delle pubblicazioni weiliane per sottolineare l'iniziale presenza di due filoni editoriali ben distinti: quello, appunto, dei due amici della scrittrice e quello promosso dalla famiglia Weil e da Albert Camus. I primi hanno sempre cercato di sottolineare con forza l'aspetto religioso-cristiano del pensiero di Simone Weil, mentre i secondi ne hanno pubblicato anche gli scritti di altro genere: politici, storici, letterari, ecc. Causa essenziale del crearsi di questi due filoni editoriali stata la controversa personalità dell'autrice, così complessa da apparire a volte difficilmente collocabile. Simone Weil infatti, nel corso della sua breve esistenza (trentaquattro anni), vive esperienze ideologiche eterogenee. Dall'attività pacifista, la militanza nella Ligue des droits de l'Homme e l'insegnamento agli operai durante gli anni universitari, l'ex-allieva del filosofo Alain (Emile Chartier) passa a collaborare, a partire dal 1931, a riviste quali La Révo-


lution prolétarienne e La critique sociale, iniziando così la sua militanza nel sindacalismo attivo accanto a sindacalisti rivoluzionari come Pierre Monatte e a fuoriusciti dal P.C.F. come Boris Souvarine. La giovane Weil si dedica presto ad uno studio approfondito, direttamente dal tedesco, dei testi di Marx: ne seguirà una critica non apprezzata dai comunisti del tempo, spesso più interessati a problemi di organizzazione che alla teoria marxista. Nel 1935 entra in fabbrica per fare l'esperienza diretta di quel lavoro meccanizzato su cui scriverà pagine di analisi lucidissima. L'anno seguente, l'ex militante pacifista partecipa alla guerra di Spagna arruolandosi nelle file degli anarco-sindacalisti; ma si accorge ben presto che non si tratta di «una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e il clero complice dei proprietari» ma di «una guerra tra la Russia, la Germania e l'Italia». Il pacifismo verrà abbandonato del tutto nel 1939, dopo l'invasione della Cecoslovacchia da parte dell'esercito hitleriano. E in Italia, nella primavera del 1937, che ha il suo «primo contatto con il cattolicesimo>) a cui sentirà di dover aderire in quanto «religione degli schiavi»; non si convertirà poiché è suo desiderio rimanere accanto a ciò che invece la Chiesa «ha tenuto fuori di sé», ai non credenti. Proveniente da una famiglia ebrea, ma agnostica, aveva sempre considerato il problema di Dio affrontabile soltanto nel momento in cui avesse avuto «i termini della questione» e que-

sii le si sono mostrati ad un certo punto della sua vita come un "incontro"; ella infatti giunge alla certezza immediata dell'esistenza di Dio, vive ciò che comunemente si definisce "un'esperienza mistica", alla quale comunque non si abbandona irrazionalmente ma al contrario, si rapporta con il suo peculiare metodo d'analisi. Negli stessi anni, ormai gli ultimi che le restano da vivere, studia con particolare fervore la storia delle religioni, interessandosi soprattutto alle religioni indiane - imparando anche il sanscrito -, e al catarismo. Muore nell'agosto 1943 a Londra, dove stava collaborando con la resistenza francese allo studio di progetti per la riorganizzazione della Francia a guerra ultimata.

PRIME TRADUZIONI E EDIZIONI DI COMUNITÀ

Quando i testi weiliani furono tradotti per la prima volta in Italia, in Francia erano già stati pubblicati, oltre ai testi di Thibon e di Perrin, anche due testi curati da Camus L'Enracinement e La Connaissance surnaturelle. Il primo volume dei Cahiers, La Condition ouvrière, Intuitions préchrétiennes e Lettre à un religieux, furono pubblicati nel 1951, lo stesso anno della prima traduzione italiana: quella di La Pesanteur et la Grace, a cura di Franco Fortini, con il titolo di L'ombra e la grazia, presso le Edizioni di Comunità. Il fatto che siano state tali edizioni a tradurre per prime Simone Weil in Ita111


ha non è affatto casuale se si guarda alla loro Storia, iniziata soltanto cinque anni prima della pubblicazione di L'ombra e la grazia. La casa editrice era stata fondata nel 1946 da Adriano Olivetti, allora già presidente dell'omonima industria delle macchine da Scrivere fondata dal padre Camillo. L'ex direttore editoriale, Renzo Zorzi, nella Presentazione al Catalogo generale delle edizioni del 1980, ricorda che «pur godendo di diverse e molto valide collaborazioni... la casa editrice è il ritratto del suo ispiratore, delle sue personali letture, delle sue preferenze» 1 una sorta di grande biblioteca privata, quindi. L'iniziativa editoriale era già partita nel 1943, ma la situazione politico-militare che si era venuta a creare, aveva fatto sciogliere le attività. Ancora Zorzi cita Cesare Musatti secondo il quale, la Edizioni Comunità: «avrebbe dovuto a guerra finita presentare al pubblico italiano una serie di opere idonee a favorire un rinnovamento culturale, dopo il lungo periodo di distacco dalle correnti più vive del pensiero mondiale». Le aree tematiche prevalentemente trattate erano quella filosofico-religiosa e la saggistica politico-economica-sociale. Ma ebbero la loro particolare importanza anche «il filone letterario - con le traduzioni, ad esempio, di Kessner, Ortega y Gasset, Rilke - e quello psicologico - con le prime traduzioni di Jung, Piaget e altri» 2 I temi più ricorrenti erano quelli, in :

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particolare, dell'iniziale discorso sull'unità europea, le prime analisi critiche del regime parlamentare, la problematica della pianificazione economica e le proposte di un socialismo antiautoritario e antiburocratjco. «Furono così tradotti autori poco noti da noi come Galbraith e Kissinger, o molto discussi come Schumpeter o Friedmann, dallo slancio progettuale di Neutra e di Mumford». Per ciò che riguarda l'area filosofico-religiosa, erano presenti le correnti più vive del pensiero cattolico - riformato e ortodosso -, riflettenti un cristianesimo principalmente etico, le quali ponevano le basi di ciò che diverrà il dialogo conciliare ed ecumenico. Temi, anche questi, molto cari ad Olivetti convertitosi al cattolicesimo proveniente da una famiglia in cui la religiosità era vissuta per lo più in termini di ricerca: la madre figlia di un pastore valdese e il padre di origine ebrea, negli ultimi anni della sua vita convertito alla Chiesa Trinitaria. Le Edizioni Comunità e la rivista omonima sono il nucleo iniziale di ciò che sarà il Movimento di Comunità, un'organizzazione dapprima culturale e sociale chè diverrà in seguito anche politica, realizzando in piccoli contesti parte di un progetto che si poneva un generale rinnovamento delle istituzioni nel senso di uno «Stato comunitario, autonomista, di democrazia integrata)).


cata non idonea a dare vita ad un giusto ordine sociale realmente democratico; PARTITOCRAZIA al contrario, viene ritenuta un ponte Il Movimento nasce a Torino, sempre verso regimi totalitari. per iniziativa di Adriano Olivetti insie- Lo stesso tema della critica ai partiti pome «a due amici scomparsi che avevano litici e la proposta della loro abolizione appartenuto alle correnti della sinistra è presente anche nell'opera di Simone cristiana, Giuseppe Rovero e Giovanni Weil, da lei elaborata in modo più orgaCairola»3 . La sua sede fu inizialmente nico soprattutto durante il periodo lonIvrea; altre se ne crearono poi nell'inte- dinese, all'interno del progetto di una ro Piemonte e in seguito in altre regio- nuova Costituzione per la Francia che ella stava preparando poco prima di ni italiane. Le nuove concezioni istituzionali e so- morire. ciali di cui il movimento era testimo- Tra i suoi manoscritti è stato ritrovato, nianza si ponevano come fine la "per- fra l'altro, anche un articolo Note sur la sona" e la protesta contro lo Stato ac- suppression générale des partis politiques, centratore rappresentato dai partiti p0- pubblicato postumo nel 1950 sulla rivilitici, a cui veniva posta l'alternativa di sta «La table ronde», da dove viene riuno Stato di "comunità concrete", so- preso da Franco Ferrarotti e tradotto vranazionale. Tali idee erano state riu- per la rivista Comunità l'anno seguente. nite in un testo dal titolo: L'ordine poli- Nello scritto Simone Weil analizzava la tico delle Comunità. Le garanzie di liber- tendenza intrinseca dei partiti politici tà in uno Stato socialista, che Adriano all'autoritarismo, secondo la famosa Olivetti aveva cominciato a scrivere formula di Tomskij: «Il mio partito al agli inizi del 1942, durante il suo esilio potere e tutti gli altri in prigione», ne di antifascista in Svizzera e qui pubbli- proponeva quindi l'abolizione e in alternativa un Parlamento composto da cato agli inizi del 1945. In questo, che rimane il volume politi- candidati singoli, con propri programco fondamentale di Olivetti e, di conse- mi, a cui potevano unirsi anche altri guenza, per il Movimento Comunità, colleghi, con in più, al di fuori del Parviene delineata la nuova organizzazio- lamento, gruppi di pressione rapprene societaria nella quale, accanto agli sentati da "riviste d'idee" attorno alle enti territoriali (Comune e Provincia), quali si sarebbero costituite «del tutto appaiono con rilevanza decisionale an- naturalmente delle aree di affinità». 4 che gli ordini professionali, le associa- L'articolo weiliano verrà più volte citazioni artigiane, operaie e contadine, le to dallo stesso Olivetti, che, quando camere di industriali, di commercianti, vorrà esprimere le proprie idee sulla dedi agricoltori e i corpi di insegnanti. La cadenza dei partiti, come nello scritto Libertà di associazione e partiti politici, democrazia parlamentare viene giudiIL MOVIMENTO COMUNITÀ: CONTRO LA

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dichiarerà di far proprie le opinioni centrali dello scritto, ritenuto «violento e profetico». Ne Il cammino della comunità (1955) uno dei diversi opuscoli che Olivetti aveva scritto per divulgare il programma del suo Movimento -, l'autore parla di Simone Weil come di «una cattolica francese, morta a 33 anni di fatica nell'ansia di servire la Resistenza e la verità», che «scrisse pagine roventi, per noi profetiche intorno alla decadenza e alla soppressione dei partiti politici» 5 . Nello stesso scritto, Olivetti, riporta poi brani tratti dalla traduzione dell'articolo weiliano, in particolare dove si dice che in realtà non si è mai conosciuto niente che assomigli ad una democrazia e che in ciò che si è definito tale non vi è nessuno spazio per l'influenza effettiva del popolo sulla vita pubblica ma, al contrario, gli interessi degli individui vengono schiacciati dalle passioni collettive, le sole che vengono sistematicamente incoraggiate dallo Stato. Il partito politico viene quindi definito da Simone Weil come una macchina per fabbricare passioni collettive con l'unico scopo del proprio potenziamento nel completo abbandono e tradimento degli ideali che lo avevano mosso. Il tema della lotta alla partitocrazia, almeno da quanto risulta dagli scritti olivettiani, è sicuramente quello in cui l'opera dell'imprenditore appare più affine a quella della pensatrice, anche se le analogie si estendono ad altri aspetti riguardanti soprattutto i progetti politico-sociali che quasi contemporanea114

mente, e in contesti non del tutto diversi - Olivetti in esilio in Svizzera, Simone Weil a Londra -, essi andavano elaborando.

UN NUOVO STATO CON LEGGI SPIRITUALI

Alla base dei rispettivi piani di riforma, gli autori ponevano la stessa attenzione ai bisogni spirituali dell'uomo considerati essenziali al pari di quelli materiali. E Olivetti, infatti, mostra di apprezzare molto il progetto weiliano contenuto per lo più in La prima radice (la traduzione di L'Enracinement) che egli cita, ad esempio, nello scritto Urbanistica e libertà territoriali, in cui, parlando di pianificazione urbana e territoriale, delinea quali caratteristiche queste debbano assumere per tenere nella giusta considerazione i bisogni umani più importanti. Dopo aver sostenuto l'importanza del decentramento amministrativo e il vitale connubio di città e campagna, egli afferma che la società è «mentalmente malata» e ne individua la ragione in una «malattia dell'anima, lo sradicamento involontario», e continua parlando in particolare delle persone che sono costrette a lasciare il proprio paese per poter sopravvivere. "Sradicamento" è termine sicuramente weiliano e infatti subito dopo Olivetti cita la parte de La prima radice dove Simone Weil parla dello sradicamento degli emigrati; quindi prosegue parlando di un altro tipo di "sradicamento": l'alienazione prodotta dal fanatismo totalita-


rio, quel fanatismo cioè, che «non distingue il bene dal male, che esalta la menzogna e con essa l'errore, che si ostina nel credere all'oppressione e alla violenza, rinnegando visibilmente le forze spirituali che pur sono le sole creative». Quindi fa proprie le considerazioni weiliane su cosa è importante per vincere questo sradicamento, cioè il guardare alle collettività (la patria, ma anche la famiglia o qualsiasi altro tipo di collettività) non come degne di rispetto in sé ma in quanto "nutrimento" spirituale di un certo numero di individui, «così come un campo di grano non è degno di rispetto per sé, ma per il nutrimento che reca agli uomini». La pagina, che Olivetti continua a citare, prosegue descrivendo l'importanza essenziale delle collettività se considerate in rapporto all'uomo: il nutrimento da esse fornito dura nel tempo in quanto le loro radici sono nel passato e rappresentano quindi, l'organo di trasmissione mediante il quale «i morti parlano ai vivi». Le collettività sono per Simone Weil «l'unica cosa terrestre che abbia un legame diretto con il destino dell'uomo». Queste valutazioni fanno da base all'Olivetti dello scritto sulla pianificazione per suggerire agli urbanisti delle soluzioni che tengano conto nelle loro costruzioni di "città per l'uomo", oltre che dei "bisogni primari" anche di quelli morali, non meno essenziali. Bisogni che, pur non essendo in rapporto con la vita fisica, potrebbero, se non

soddisfatti, «gettare l'uomo in una condizione vicina a quella della morte». Olivetti, quindi, ricorda quello che ritiene «un fervente messaggio» da parte di Simone Weil, «da rimettere ai timidi e ai pessimisti affinché non ignorino che ogni sforzo anche modesto non sarà vano, purché nella giusta direzione'>, ovvero quello di «dare al nostro popolo i mezzi culturali affinché si esprimano le più nobili intelligenze, i più nobili cuori». Per entrambi gli autori, gli ostacoli che rendono difficile al popolo l'accesso alla cultura sono la mancanza di tempo e, solo in secondo luogo, la mancanza di forze: infatti ciò che sarebbe importante non è tanto l'intensità dello sforzo da applicare per l'apprendimento ma la sua qualità. E la priorità assoluta data alla qualità da parte weiliana è condivisa totalmente da Olivetti che prosegue il suo discorso sulla cultura del popolo, ancora riunendo frasi da La prima radice, nelle quali viene sottolineato che il valore della verità è nella sua purezza, non nella sua quantità: «un po' di verità pura vale quanto molta verità pura», così come per un metallo non è il peso che conta, ma la lega. Ovvero: il fatto che un operaio in un anno di sforzi impari dei teoremi di geometria ha eguale valore di quanto, nello stesso tempo, impari uno studente di matematica superiore. Per Olivetti: «i politici conoscono assai bene queste preziose sentenze; ma esse in pratica stentano ancora a penetrare nel mondo del denaro al quale ubbidi115


scono... i tesorieri, gli amministratori, i saggi difensori dei bilanci... Essi nei loro calcoli ormai facilitati da cervelli elettronici non danno eccessivo valore a quei fermenti spirituali e culturali che potrebbero avviare il paese verso la sua vera rinascita». Fermenti che, al contrario, verrebbero alimentati nelle "comunità" dove mondo spirituale e mondo materiale sarebbero finalmente riconciliati. Nello scritto olivettiano Le forze spirituali, dòpo la presentazione delle "autentiche forze spirituali" - l'Amore, la Verità, la Giustizia e la Bellezza -, compare, l'affermazione virgolettata: «L'ordine è certamente di potenza divina, perché solo per opera sua può manifestarsi il bello nel numero e nella qualità», sicuramente un'altra citazione da scritti di Simone Weil, benché non ne venga fatto il nome, segno che Olivetti ritiene il pensiero suo allo stesso modo di quanto appartiene a chi lo ha pronunciato originariamente. Il disordine, viene poi ribadito, è ancora prevalentemente nella società e lo sarà fino a quando «l'economia, la tecnica, la macchina prevarranno sull'uomo nella loro inesorabile logica meccanica», in questo modo «l'economia, la tecnica, la macchina non serviranno che a congegnare ordigni di distruzione e di disordine»: anche queste considerazioni che Simone Weil avrebbe indubbiamente sottoscritto.

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L'INDUSTRIALE UTOPICO E LA "CATTOLICA FRANCESE"

Gran parte dell'opera teorica del fondatore del Movimento e delle Edizioni Comunità appare così molto vicina a quella dell'autrice francese, tanto da far supporre una precisa influenza di questa sulla prima, almeno per quanto riguarda lo sviluppo ulteriore delle tesi che Olivetti, comunque, aveva già espresso nel suo testo scritto in Svizzera. Purtroppo, allo stato attuale delle conoscenze, sul modo e sul momento precisi in cui Olivetti avrebbe conosciuto Simone Weil, sono possibili solo supposizioni. Come sostengono diversi suoi stretti collaboratori, fra gli altri ad esempio l'allora suo segretario personale, Geno Pampaloni, l'imprenditore incontrava i suoi autori molto spesso "rabdomanticamente". Pampaloni fa l'esempio emblematico dell'incontro avvenuto con il teologo Martin Buber, incontro fisico in questo caso; infatti, «Olivetti lo pubblicò prima di averne apprezzato il valore» poiché «... lo vide alla stazione di Zurigo.., e somigliando molto a suo padre, non poté fare a meno di offrirgli un contratto». Nell'archivio storico della Fondazione Olivetti ad Ivrea - ente creato dopo la morte nel 1960 di Adriano Olivetti non è conservato nessun tipo di documentazione riguardante la pubblicazione dei testi weiliani, come del resto di diversi altri autori trattati dalla casa editrice. Ed anche Giovanni Maggia, - se-


gretario generale della Fondazione e autore, fra l'altro, di una ricchissima bibliografia degli scritti, molti anche inediti, di Adriano Olivetti -, conferma quanto sostiene Pampaloni, sul modo molto "personale" dell'imprenditore di scegliere gli autori da pubblicare. Fra questi ultimi vi sono anche Emmanuel Mounier e Jacques Maritain, che egli aveva conosciuto personalmente, entrambi i quali, a loro volta, avevano conosciuto Simone Weil. Mounier era il fondatore del "movimento personalista", un movimento cristiano-sociale, propugnatore di una terza via tra il liberalismo e il collettivismo, che ispirò notevolmente il movimento Comunità. Simone Weil conosceva Mounier proprio in quanto fondatore del movimento e della rivista da lui diretta, Esprit. Anche Maritain, con la sua filosofia dell'Umanesimo integrale, fu uno dei più importanti ispiratori del movimento olivettiano e fu anche a lui che la pensatrice, poco dopo il suo arrivo a New York nel giugno 1942, si rivolse con delle lettere per chiederne l'aiuto per il proprio inserimento nelle forze della Resistenza in Europa, sottoponendogli fra l'altro il progetto da lei elaborato per la costituzione di un servizio di infermiere di prima linea. Quindi, probabilmente, fu proprio attraverso Mounier o il suo maestro Maritain che avvenne l'incontro tra l'industriale utopico e la "cattolica francese". Per 1 ex direttore delle Edizioni di Comunità, Renzo Zorzi, quasi sicuramen-

te non ci fu una conoscenza da parte di Olivetti precedente alla pubblicazione degli scritti in Francia. Ma questa deve essere avvenuta quando, essendo «esploso il caso Weil, la casa e1itrice italiana, particolarmente attenta ai cataloghi esteri, decise di tradurla». Le affinità tra i due autori sarebbero così una felice scoperta conseguente ad un'attenta gestione editoriale. In ogni caso, per quanto riguarda gli intellettuali che facevano parte del movimento, sicuramente l'unico per cui Simone Weil rimase un punto di riferimento evidente è stato lo stesso Adriano Olivetti. Pampaloni sostiene che egli e l'imprenditore erano «i due più sinceri ammiratori di Simone Weil, gli altri, essendo di formazione laica, erano meno interessati all'eroismo cristiano della giovane ebrea», e continua dicendo che con lui «l'ingegnere Adriano ne parlava spesso come di uno spirito religiosamente eretico», e che «in realtà in Comunità c'erano, come quasi sempre accade, due anime: una pragmatico-politica e una religiosa. Il compito che Olivetti si era assegnato era di comporre una sintesi, non compromissoria ma proiettata in alto». Anche lo stesso Pampaloni, almeno per quanto riguarda gli anni delle prime traduzioni (i primi anni '50), non contribuì molto a dare risalto ai testi; benché come curatore del filone filosoficoreligioso della casa editrice ne avesse, come ammette egli stesso, <(in buona parte, la responsabilità», egli fu autore 117


per quegli anni sbio di una recensione a La condizione operaia - di cui parleremo più avanti -, pubblicata sulla rivista «Civiltà delle macchine». Olivetti, invece, quando nel 1957 ratificherà la bozza di accordo con gli altri membri di Comunità, per la partecipazione alle elezioni politiche dell'anno seguente, - che lo vedranno unico deputato eletto della lista del movimento -, avrà ancora come riferimento un'affermazione weiliana, ovvero che «la formula del minor male è sempre la sola valida, purché la si applichi con la più fredda lucidità»6 L'unico aspetto tematico di Simone Weil che Olivetti non richiama direttamente nei suoi scritti è quello sviluppato dall'autrice in La condizione operaia, a cui certo non poteva essere iidifferente l'ideatore delle "comunità di fabbrica". Sempre Pampaloni sostiene che fu "l'accentuazione operaistica" dello scritto weiliano a rimanergli estranea, poiché Olivetti concepiva essenzialmente la fabbrica come "matrice di vabn", "produzione di cultura". Secondo il sociologo Aris Accornero, invece, che aveva conosciuto Olivetti e la sua azienda da operatore sindacale: «l'immagine di una Weil operaia doveva aleggiare sulla fabbrica di macchine da scrivere come un fantasma», poiché pur essendo le industrie Olivetti, al tempo dell'ingegnere Adriano, «aziende con spirito umanitario», vi era comunque un «taylorismo nel senso bestiale non essendo la lavorazione meccanizzabile. La manodopera, inoltre, .

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proprio per il tipo di lavorazione era prevalentemente femminile». Gli operai, uomini e donne, vi vivevano una condizione schizofrenica in cui ad un lavoro alienante corrispondeva all'esterno della fabbrica una vita molto più confortevole a confronto di quella di altri operai delle fabbriche vicine: «gli operai della Olivetti avevano la loro casa, magari con un piccolo pezzo di terra». Tuttavia, tali considerazioni non escludono, per lo stesso Accornero, le affinità tra Olivetti e la Weil anche di La condizione operaia, poiché infatti in entrambi è presente «lo stesso mistico affiato umanitario proteso ad instaurare una civiltà del lavoro, al posto della schiavitù del lavoro: sintesi tra uomo e produttore, fra produttore e prodotto» 7 Accornero sottolinea, inoltre, «le analogie fra le proposte fatte da S. Weil ad alcuni imprenditori francesi e le iniziative teorizzate o realizzate da Olivetti: compartecipazione gestionale e sociale delle rappresentanze sindacali, forme di interessamento al lavoro e all'impresa, democratizzazione della disciplina di fabbrica». Purtroppo, lamenta ancora lo stesso, «non ne potevano scaturire né la "gioia del lavoro" auspicata dalla scrittrice, né la "comunità dei produttori" preconizzata dall'industriale. Ne scaturì soltanto un'intensificazione sempre più scientifica e negoziata, meno empirica e dispotica, dello sfruttamento». Ma già in La condizione operaia, accanto alla "gioia del lavoro", la stessa autrice aveva riconosciuto l'inevitabilità del peso del lavoro per ogni .


uomo, al di là dei contesti di produzione: «una certa subordinazione e •una certa uniformità sono sofferenze connesse con l'essenza stessa del lavoro e inseparabili dalla vocazione sovrannaturale che vi corr isponde» S . Se anche alle iniziative promosse da Olivetti per il miglioramento delle condizioni di vita degli operai corrispondeva, quindi, un modo di produzione all'interno della fabbrica particolarmente pesante, nulla toglie al valore delle pur parziali realizzazioni del programma comunitario: quell'«esaltare i migliori, proteggere i deboli e sollevare gli ignoranti>), che è alla base della stessa opera weiliana. La ricercatrice di una costituzione ideale, inoltre, avrebbe sostenuto l'intero progetto dello Stato delle Comunitì, con i suoi comuni, centri comunitari, comunità di fabbrica e centri culturali; lei stessa, ad esempio, aveva ritenuto che le radici della fabbrica fossero nella comunità, per questo aveva proposto fabbriche aperte e interagenti con il mondo circostante.

LA CONDIZIONE OPERAIA

E LE "COMUNITÀ

DI FABBRICA"

Fra gli studiosi delle iniziative olivettiane, vi è stato chi, come lo storico Giuseppe Berta, ha visto una diretta influenza di La condizione operaia sulla realizzazione delle Comunità di fabbrica. Berta - autore di saggi di storia sociale, politica e del movimento operaio ingie-

se e italiano, ricercatore presso la Fondazione Olivetti -, nel suo testo dedicato all'industriale e alle sue iniziative Le idee al potere (1980), afferma la tesi che «la pubblicazione della Condizione operaia di Simone Weil fu assai più che un atto dovuto alle ragioni del chiarimento ideologico)) del movimento, «fu l'esposizione di un programma che sarebbe stato incorporato nella politica aziendale olivettiana e nella prassi sindacale comunitaria», e a riprova di ciò, egli suggerisce, «basta legger brani della Condizione operaia»9 . Lo studioso, infatti, sostiene la sua tesi confrontando quanto, detto nel testo weiliano con le realizzazioni di Olivetti: «rendere intelligibile la fabbrica agli operai, far loro capire l'utilità sociale del lavoro, restituire ad esso la dignità che può avere soltanto uno sforzo compiuto per adempiere scientificamente ad un fine, sono tutti concetti che Simone Weil, prima di Olivetti, enuncia' con intima convinzione». L'influsso di La condizione operaia «condizionò in profondità il modello culturale olivettiano. Il modo di rappresentare la realtà di fabbrica della Weil e le istanze per la sua riforma che ella aveva abbozzato si trasposero in grande misura nella cultura e nell'ideologia del lavoro sostenute dal Movimento Coihunità». Ancora secondo Berta: «La traduzione degli scritti dell'autrice francese non rimase un gesto isolato, scaturito da un atteggiamento di umanitarismo astratto di Olivetti e senza riflessi sulla sua linea di condotta 119


politica, si potrebbe piuttosto constatare che, mettendo a paragone il programma di Comunità di fabbrica e del riformismo aziendale olivettiano con le esortazioni della Weil a mutare la condizione del lavoro, esiste tra essi una sostanziale consonanza». Infatti, lo stile di denuncia della condizione operaia da parte weiliana «sospingeva verso l'esito della trasformazione della fabbrica in "comunità di lavoro" e domandava una gestione delle relazioni aziendali che si evolvesse verso la compartecipazione operaia. Nonostante la drammaticità del tono delle sue perorazioni, il manifesto di riforma morale e sociale della Weil era gradualistico, delegato all'impegno individuale e collettivo degli imprenditori al pari - e forse più ancora - degli operai». Malgrado il misticismo che pure traspare dal testo, a giudizio di Berta non si può non vedere «l'appello alla ragione affinché ci si adoperasse subito alla risoluzione pratica, non demandata ad un'ipotetica rivoluzione, degli aspetti più gravosi della condizione operaia, che era di per sé incapace di emancipazione». La pensatrice, viene notato, «invitava più a un progetto di riforma della struttura aziendale, che alle rivendicazioni sindacali», infatti, «qualora non ci si lasci distrarre dal titolo, ci si avvedrà che il libro della Weil verte sulla condizione di lavoro, non sulla condizione degli operai. Che si tratti poi del lavoro parcellare della grande industria o del lavoro come categoria morale e mezzo di 120

elevazione spirituale, ha minore importanza; conta invece che il lavoro sia preso come la chiave interpretativa per eccellenza della civiltà moderna e che i suoi problemi siano considerati come aventi valore universale». Berta sottolinea inoltre che «volgendo l'e iica in politica, si tornava con maggior forza alla questione della rappresentanza - economica e politica, nell'impresa e nello Stato - dei diritti del lavoro, secondo l'indubbia accentuazione "laburista" del comunitarismo olivettiano. L'etica cristiano-sociale e la politica laburista si riproponevano l'una come il codice morale e l'altra come lo strumento politico all'altezza dei tempi nuovi della società industriale». Concludendo quindi il paragrafo di Le idee al potere, dedicato al rapporto tra opera weiliana e Adriano Olivetti, l'autore del testo ribadisce che «i passi avanti verso una forma di capitalismo organizzato come se lo raffigurava Olivetti, preceduti dalla creazione di un'adeguata strumentazione culturale, seguivano con buona approssimazione il solco, diritto pure se povero di indicazioni pratiche, tracciato dalla Weil». Malgrado le plausibili considerazioni di Giuseppe Berta, ci sembra difficile poter accertare con sicurezza se il programma olivettiano abbia "seguito il solco" tracciato da quello weiliano, o se vi abbia trovato solo una valida conferma. E, sostanzialmente, neanche lo storico porta a supporto della sua tesi dei documenti che attestino il preciso influsso de La condizione operaia sul


programma di Comunità di fabbrica, a parte la lettura dei brani dell'opera weiliana. E altrettanto indicativo sembra essere il fatto che altri stretti collaboratori dell'industriale, oltre Pampaloni anche Franco Ferrarotti - che all'interno del movimento si occupava proprio di questioni sindacali -, e Franco Fortini autore della «nitida traduzione» di La condizione operaia, non affermino nulla in merito alla tesi di un decisivo condizionamento dell'opera di Simne Weil su Adriano Olivetti. Probabilmente una risposta definitiva in tal senso potrebbe essere data dai diari personali dell'imprenditore, ma questi, almeno per il momento, sono documenti riservati della famiglia. Rimane comunque il dato incontestabile che la tensione utopica di Simone Weil era, come giustamente ancora sostiene Berta, «facilmente assimilabile dall'ideologia olivettiana», e che quest'ultima abbia rappresentato per la storia italiana un valido contributo nella direzione del miglioramento di una società in ricostruzione. Le iniziative del movimento furono tutte validi contributi alla ricostruzione dell'Italia del dopoguerra: a partire da quelle strettamente culturali con la casa editrice, - che nella scelta dei libri da pubblicare ha continuato a mantenere fede all impegno di laicizzazione e di critica delle ideologie -, alle altre iniziative sociali ed economiche attuate nel Canavese; la costituzione dell'IRUR, l'Istituto del rinnovamento ur-

bano e rurale; la presidenza di Olivetti dell'Unrra-Casas, l'ente di ricostruzione di edilizia popolare che si occupò di piani regolatori quali quello di Matera. E sicuramente lo stesso Olivetti non dovette disperare della parzialità delle realizzazioni della sua societa nuova se amava ripetere l'aforisma weiliano: «un grammo d'oro vale quanto un chilo d'oro».

SIMONE WEIL E ALTRI COMUNITARI: FORTINI E PAMPALONI

Ancora nel contesto del Movimento di Comunità è indicativo il modo in cui Simone Weil ha avuto fortuna presso il suo principale traduttore: Franco Fortini. Illetterato italiano infatti ha tradotto i primi tre libri pubblicati dalle Edizioni di Comunità: L'Ombra e la Grazia, La condizione operaia, e La prima radice. Le traduzioni furono giudicate unanimemente "irreprensibili", eppure Fortini scelse di non tradurre il quarto e ultimo libro di Simone Weil pubblicato dalle edizioni olivettiane, Oppressione e libertì del 1956 perché, dichiara egli stesso: «dopo le prime tre traduzioni ne avevo abbastanza di tradurre, non di leggere la Weil». Questa mancata traduzione fu criticata da Geno Pampaloni che ne vide la motivazione nel fatto che nel testo weiliano «la critica al comunismo vi era troppo serrata». Fortini rispose a questa "accusa" con un articolo, nel quale replicava ricordando che 121


nei testi che erano già stati pubblicati «la critica al comunismo non è meno robusta ma semmai più lucida e meno equivoca che nell'ultimo volume'> e continua: «non volli tradurre quel libro perché avevo ormai saputo bene di quale realtà la venuta della Weil era servita come giustificazione; in Francia era diventata la piccola santa dei Laniel, dei Bidault e dei paracadutisti di Indocina; in Italia la protettrice di chi (l'espressione è volgare ma meno della cosa) ha "il Gesù facile"». Fortini fu quindi infastidito dal «clima di venerazione legato alla Resistenza» che nella Francia del TI dopoguerra vedeva prevalere «il culto del martirio volontario», che coinvolse anche la figura dell'autrice divenuta un «santino della destra francese», sicuramente a causa del vivissimo desiderio che ella aveva mostrato nel periodo del suo esilio di Londra di partecipare ad una missione di guerra. Per Fortini, Simone Weil ha valore per la sua personalità complessa ed è sua ferma convinzione che ella «non sia da ricondurre a questa o quella teologia o ideologia, ma sia un esempio straordinario, anche nei suoi limiti ed errori, di un incrocio di cristianesimo/anarchia/ comunismo di cui abbiamo avuto, e abbiamo, bisogno». Il poeta dichiara che l'influenza dell'autrice su di lui è stata «grandissima e dura tuttora... la Weil (che associo spesso a Milani) è uno degli spiriti che mi hanno sempre accompagnato». Dagli scritti dell'autore italiano si evin122

ce che i temi weiliani che più lo hanno ispirato siano stati quello dell"attenzione" e quello "pedagogico della scuola" e più estesamente del valore morale della cultura, della possibilità per tutti di accedere alla conoscenza. Se una immagine di Simone Weil ha prevalso sulle altre per Fortini è stata quella della «seria insegnante di scuola seondaria francese». In uno scritto del 1955: L'altezza della situazione o perché scrivono i poeti, dopo aver affermato che «in poesia almeno, la grazia segue le buone maniere», egli trae a supporto della sua tesi un brano da La prima radicè, centrato appunto sul concetto di "attenzione". Secondo la Simone Weil citata dal critico italiano, chi non è capace di ispirazione poetica ne puo' ottenere la capacità se soltanto ne ha molto desiderio e si applica con molta costanza: mancando il desiderio e l'applicazione non si avrebbero le condizioni di base per «fare dei bei versi». 10 Nella prima raccolta di suoi testi, Dieci inverni del 1957, l'autore richiama Simone Weil in due brani diversi. Nel primo intitolato: La biblioteca immaginaria, Fortini dopo essersi rammaricato del fatto che «il libro è divenuto uno dei peggiori segni della nostra miseria.... l'esatto contrario della comunicazione» desidera invece «ricordare quei libri che vogliono quella virtù d'attenzione di cui ci ha parlato la Weil» e più in là sostiene, ancora a proposito di libri e lettori, che: «I modi della lettura moderna riflettono soprattutto la divi-


sione fra lavoro intellettuale e manuale, fra lavoro per il guadagno (eseguito, direbbe la Weil, non appena con dolore ma con disgusto) e loisir, la divisione delle classi»U. In un altro testo della raccolta dal titolo: Industria e cristianesimo, parlando del rapporto fra classi superiori e subalterne, l'autore sottolinea che: «bisognerebbe ricordare sempre (come la Weil ha fatto spesso) di quali abbietti pensieri sono stati capaci uomini che noi onoriamo e che sono stati maestri di intere generazioni. Dopo aver contribuito con tutte le loro forze a sopprimere la coscienza di classe, rimproveravano al proletariato di non aver la virtù della solidarietà». A quanto risulta, Fortini non contribuì a dare rilievo alla traduzione de La condizione operaia, che fra gli altri testi doveva essere quello "ideologicamente" a lui più vicino, come sostiene anche Pampaloni dichiarando che, all'interno di Comunità, Fortini era il principale estimatore del libro weiliano. In un brano del 1954 2 una recensione a Les Communistes et la paix, Fortini vede nel libro sartriano «mai citata, ma presente, la Weil de La condizione operaia» e a proposito di quest'ultimo testo dice: «La Weil concludeva male ma vedeva bene: lo sradicamento sindacale come conseguenza del taylorismo, il significato dell'occupazione delle fabbriche del 1936, l'invecchiamento dell'attrezzatura industriale, l'incoscienza del ceto impiegatizio dei gradi inferiori». L'accenno del brano può quindi spiegare, almeno in parte, quali erano le con-

siderazioni di Fortini sul testo weiliano: positive sul contenuto ma contrarie alle proposte dell'autrice. Queste infatti sembrano non soddisfare l'intellettuale italiano, forse perché' eccessivamente "spiritualistiche" anche per un poeta, comunque in quei primi anni Cinquanta impegnato in una "fronda marxista" e a cui quindi dovette sembrare insufficiente: «la rappresentazione completamente esatta della destinazione sovrannaturale d'ogni funzione sociale» 13 proposta da Simone Weil come prima condiiione per la risoluzione al problema dell'oppressione sociale. Malgrado le divergenze, la presenza della pensatrice rimane importante per il suo primo traduttore e, come conferma egli stesso, soprattutto nella veste di interlocutrice nella sfera privata.

LA FABBRICA, CASA DELL'UOMO

Chi in quei primi anni Cinquanta parla de La condizione operaia in termini totalmente positivi è invece Geno Pampaloni, "cultore di Simone Weil" e collaboratore di Adriano Olivetti, insieme al quale fu autore di quell'«iniezione spiritualista data... a quello che era in fondo il Partito d'azione». Pampaloni scrive un articolo sulla rivista «La Civiltà delle macchine» dal titolo spiccatamente "comunitario": La fabbrica, casa dell'uomo, nel quale parla appunto del testo weiliano. All'inizio dello scritto, l'autore cita come nota introduttiva l'affermazione weiliana se123


condo la quale era prima di tutto necessario che «gli specialisti, gli ingegneri e gli altri, fossero sufficientemente preoccupati non solo di costruire oggetti, ma di non distruggere gli uomini» 14 . Affermazione che ben sintetizza l'intero contenuto dello scritto. Lo studioso continua poi citando altri brani da La condizione operaia, il cui senso ultimo vede riassunto in quella che definisce «un'affermazione vigorosa quanto sconsolata della difesa dell'uomo, al di sopra di ogni altro interesse: economico, industriale, scientifico». Secondo l'autore la testimonianza di cui Simone Weil è portatrice riguarda non «l'uomo morale, l'uomo estetico e l'uomo culturale, ma l'uomo, semplicemente, nel suo destino elementare di sofferenza o di felicità, di sconfitta o di salvezza». Pampaloni precisa che quando l'autrice «scrisse questo libro non era stata toccata dalla Rivelazione e da Dio, ma non era meno profondamente religiosa.., si poteva definire.., un'anarchica religiosa». In realtà, non si tratta di un libro scritto, dalla pensatrice in un unico periodo, ma di una serie di scritti appartenenti ad un arco di tempo che va dal 1933-34 al 1942, comprendenti quindi anche il cosiddetto. "periodo di Marsiglia" nel quale ella si avvicina al cristianesimo. L'osservazione serve però a Pampaloni per affermare che «tutta l'impostazione spirituale della vita intrapresa dalla Weil... è già chiaramente post-comunista». L'autore, spiegando più avanti la sua tesi, ricorda ciò che egli definisce 124

«una constatazione terribile» di Simone Weil, la quale, assistendo agli scioperi del '36 ed all'occupazione di una fabbrica, giungeva a formulare il giudizio che la vita sociale doveva essere proprio corrotta «fino al proprio cuore» se gli operai arrivavano a sentirsi «in casa propria nella fabbrica quando scioperano, ed estranei quando vi lavorano». Pampaloni seguita il suo articolo centrando l'attenzione sul tema particolare della fabbrica come casa dell'uomo, dicendo che si tratta di un tema affrontato da molti ma in genere dall'esterno, «raramente... con il carattere di necessità, di lotta contro un'ingiusta condanna, di impegno morale che la Weil suggerisce». La pensatrice, egli spiega, aveva capito che: «la soluzione del problema operaio va cercata nel seno stesso della struttura produttiva dell'industria, nei rapporti tra capi e dipendenti.., e che solo nella cooperazione è la possibile dignità per entrambi. La proprietà della fabbrica è per l'operaio ormai quasi un astratto, il concreto è il potere di un altro uomo sulla sua vita, sulla sua anima». Lo studioso quindi elenca i tre soggetti contro i quali si rivolge la critica di Simone Weil: «1) la lotta sindacale impegnata soltanto sugli aumenti di salario, poiché l'operaio non lotta per la sua libertà ma per guadagnare di più; 2) l'assistenza sociale, se la si consideri più di un beneficio materiale in quanto anch'essa aumenta la dipendenza; 3) la razionalizzazione del lavoro e il taylorismo, il lavoro a cottimo, il lavoro a catena, i cronometristi,


gli stakanovisti, l'imperio dei managers ecc.». Simone Weil, così, sembra essere contro l'intero orientamento dell'industria moderna, e il critico italiano si chiede se in questo modo ella non sia anche contro tutto il mondo moderno, non riuscendosi a spiegare come possa conciliarsi questo suo ribellismo con il «suo intrepido amore per il collettivo e le forme di vita della industria moderna», e la sua coscienza di classe con il «suo rifiuto alla lotta di classe nei suoi termini politici e la sua affermazione della cooperazione come supremo ideale». L'autore, a questo punto, dichiara la sua probabile responsabilità nella presentazione della pensatrice nei termini di un pensiero contraddittorio, forse a causa di una sua eccessiva schematizzazione, ma che, in ogni caso, «è difficile chiedere proprio a lei la soluzione di una crisi che attanaglia da un secolo l'intera civiltà, e del resto il suo messaggio non fu il suo pensiero ma la sua vita». Eppure è proprio il suo pensiero che, in ultima analisi Pampaloni desidera far presente a coloro che si occupano «nel fervore degli studi per la produttività... delle human relations, per «ricordare se non altro che non esiste nessuna tecnica dell'uomo, nessuna precettistica del dialogo se non abbiamo come presupposto l'uguaglianza dei due interlocutori». Il critico italiano scriverà in anni seguenti altri articoli su Simone Weil, considerandone sempre il messaggio

come «l'accento accorato di una religiosa», di «una santa fuori dalla Chiesa» che aveva professato un «Vangelo nelle fabbriche>'.

LA RIVISTA «COMUNITÀ»

Sulla rivista «Comunità», il mensile di politica e cultura la cui apparizione in edicola nel marzo 1946 aveva segnato «l'atto formale di nascita»' 5 delle edizioni omonime, i testi di Simone Weil non hanno trovato lo spazio che si presumeva trovassero dei libri pubblicati dalla stessa casa editrice. «Comunità», come la casa editrice, era strettamente legata al movimento di Adriano Olivetti, di cui anzi divenne l'organo, pubblicandone, fra l'altro, anche lo statuto (1949). Di conseguenza, le caratteristiche della rivista, come spiega Elisabetta Mondello, autrice del volume Gli anni delle riviste, erano, oltre la progressiva presa di distanza dai partiti politici, la particolare attenzione «verso i movimenti di opinione e le. comunità di base intese come momento d'incontro delle componenti popolari, socialiste e cattoliche» 16 e, in genere, verso tutte le iniziative intraprese dal "movimento". Riguardo ai testi weiliani, comunque, «Comunità» non sembra aver particolarmente contribuito alla loro fortuna. Non di tutti, ad esempio, compare la recensione: solo nel IX fascicolo della rivista (sett.-ott. 1950) Ferrarotti traduce una recensione che un autore france125


se, Jean Jacquot, fa ai due primi testi pubblicati in Francia e alla fine della traduzione compare una breve nota con la notizia dell'imminente traduzione del primo testo per Comunità. Nel 10 numero della rivista del 1951, appare invece l'articolo weiliano sulla soppressione dei partiti politici tradotto ancora da Ferrarotti che premette allo scritto una nota introduttiva. Ferrarotti presenta «gli appunti dell'autrice... in un momento di scarsa fantasia creativa e di passiva rassegnazione a schemi mentali ed organizzativi» come «una lettura particolarmente interessante». Lo scritto metterebbe a fuoco «un punto dolente delle strutture politiche attuali; esso illumina la crisi della democrazia formale analizzando.., l'insufficienza del partito politico». Per l'autore, Simone Weil, pur denunciando in modo appassionato e definitivo il «settarismo ideologico» e «l'esclusivismo ideologico», non offrirebbe, però, «elementi concreti, misure politicamente valide se non altro per una prima soluzione del problema». Elementi che, invece, scrive Ferrarotti «ci è dato rinvenire nei presupposti ideologici del Movimento di Comunità» 17. Il pensiero di Simone Weil è quindi giudicato di «estrema lucidità», di «raro vigore concettuale» ma non corrispondente interamente al programma di cui la rivista è sostenitrice. Forse è questo il motivo per cui la nostra autrice comparirà ancora su «Comunità» soltanto l'anno seguente, nel numero di giugno, con un brano: Il 126

grosso animale, tratto da L'ombra e la grazia, e Tre lettere sulla condizione operaia, tratte appunto, da La condizione operaia. Di Oppressione e libertà, tradotto nel 1956, la rivista non farà neanche la recensione, così come nessuna recensione compare de La condizione operaia, che invece un comunitario di rilievo come Pampaloni, recensisce come abbiamo visto - su un'altra rivista: «La Civiltà delle macchine» nel marzo 1953. Purtroppo le pubblicazioni dei primi testi, come giustamente sostiene Adriano Marchetti - uno dei maggiori studiosi di Simone Weil - «avevano già consolidato l'immagine di una moderna mistica» e sicuramente, in questa "non presenza" dell'autrice sulle pagine della rivista del movimento ha avuto un ruolo determinante il suo essere stata collocata, in quei primi anni '50, all'interno del filone cattolico dei Mounier, dei Maritain, dei Peguy, al quale erano estranei i "pragmatici" del movimento che costituivano la redazione della rivista. Altrettanto sicuramente ciò ha rappresentato un'occasione mancata per un'adeguata conoscenza dell'autrice, ritardando «la scoperta di tutta la portata politica e sociale del pensiero weiliano ...» che avverrà solo in anni più recenti.

LA CONDIZIONE OPERAM

E IL "PADRONE"

La fortuna di Simone Weil dopo le prime traduzioni delle Edizioni di Comu-


nità sarà affidata per lo più a case editrici cattoliche quali Borla e Morcelliana e ad altre più piccole come la vicentina La Locusta. Soltanto negli anni '80, con le traduzioni di Adelphi, sarà ripresa l'opera di divulgazione dei testi weiliani, anche di quelli non a contenuto strettamente religioso, come già avevano iniziato a fare le edizioni olivettiane nei primi anni '50. Ed è infatti a partire dalle pubblicazioni di Adelphi che si ha un vero e proprio "caso Weil". Su di lei si scrivono articoli, si tengono corsi universitari e convegni. Tra questi ultimi, quello tenuto l'il e il 12 novembre 1983 a Reggio Emilia promosso dall'Istituto "Mounier", patrocinato dal Comune, dalla Regione e dalla Fondazione Olivetti -, suscita una polemica a proposito del rapporto tra Simone Weil e il promotore delle sue prime traduzioni, Adriano Olivetti, come è possibile vedere da una pagina che la «Gazzetta del Popolo» del 1.4.12.1983, dedica all'argomento. Sul quotidiano compaiono due articoli, uno a firma di Aris Accornero 18 l'altro di Sergio Ristuccia, segretario della Fondazione Olivetti. Il primo, dopo aver ribadito la "scomodità" del personaggio Simone Weil e la sua poliedricità che è stata causa di diverse strumentalizzazioni, ricorda a proposito che «in Italia, durante gli anni '50, Simone Weil è stata tirata addosso alla sinistra come se si trattasse di una Giovanna d'Arco che aveva scelto la libertà. E qui l'uso olivettiano - di,

ciamo pure padronale - non fu meno opportuno di quello cattolico». A tale affermazione risponde l'articolo di Ristuccia: La condizione operaia e il "padrone"19 in cui dapprima si sostiene che «Non deve stupire che Olivetti si interessasse anche ai risvolti religiosi e mistici, perché va ricordata la sua attenzione "libera" non confessionale per il filone etico-religioso e gli stessi influssi valdesi che ebbe. Indubbiamente nell'editoria italiana fu assai singolare la presenza di cultura religiosa da parte delle Edizioni Comunità, che non a caso con la morte di Olivetti cessarono di interessarsi a quei temi». Più avanti Ristuccia esprime la propria contrarietà al fatto che vi sia stato una sorta di "filtro" olivettiano all'opera weiliana e aggiunge che a suo parere sarebbe stato «impensabile che Simone Weil potesse venire tradotta in italiano ad opera di case editrici cattoliche a meno di non pagare il prezzo di drastiche censure e mutilazioni del testo originale». In ogni caso, Simone Weil «rimane un personaggio con forti connotazioni religioso-spiritualiste sicché si potrà osservare che quando uscì La condizione operaia sarebbe stato difficile che le sue conclusioni etico-religiose potessero essere "digerite" tranquillamente», di conseguenza, aggiunge Ristuccia, «si tratta della difficoltà di un rapporto diretto tra universo operaio di quegli anni ed elaborazione weiliana. E ben altra cosa da un presunto "uso" olivettiano». L'allora segretario della Fondazione Olivetti si chiede, quindi, che cosa ,

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avrebbe dovuto fare l'imprenditore, «forse ricorrere a qualche censura o fare subito un'edizione critica?», ritenendo che «al di là delle polemiche rimane un fondato dubbio», ovvero «sarebbe stata tradotta in Italia la Weil se non se ne fosse occupato Olivetti? In caso affermativo, da chi? Non certamente dalla sinistra, allora prigioniera dei suoi schemi. Tanto meno dall'area laica tradizionale aliena, nel suo agnosticismo religioso, dal raccogliere le contaminazioni weiliane». Concludendo il suo articolo, Ristuccia afferma che sicuramente la brevità della stagione olivettiana può aver «favorito il rapido riassorbimento del pensiero della Weil in una lettura cattolica classica, anche se in rapida evoluzione con la novità giovannea del Concilio» e aggiunge che «Oggi una rivalutazione di Simone Weil non può muovere dal presupposto di liberare le potenzialità del suo messaggio da un "filtro" olivettiano che non c'è stato, perché comunque si tratterebbe di un'operazione riduttiva». I testi che Adriano Olivetti aveva fatto tradurre presuppongono sicuramente da parte sua una scelta precisa, ma questa non sembra essere stata dettata dal

"padrone"che cercava un valido appoggio alle proprie iniziative "paternalistiche", ma appare piuttosto la scelta dello studioso di nuove Costituzioni che aveva individuato come problema centrale della politica la creazione di «uno speciale rapporto fra la società e lo Stato, rapporto che tenga conto e sviluppi le forze e le forme dello spirito» 20. Come Simone Weil, Olivetti avrebbe voluto «un nuovo tipo di civiltà che lungi dall'essere schiava della tecnica», fosse invece «al servizio dei fini ultimi e superiori dell'umanità». Per questo entrambi erano fermamente contrari ad un Parlamento diviso in partiti, considerati come tendenti all'unico fine fraudolento di ingrandire la propria potenza «favorendo clientele e interessi particolari». Il Parlamento e il governo, propone Olivetti, per essere «secondo l'ordine e il metodo della scienza, dovrebbero essere composti da educatori, economisti, urbanisti, igienisti, giuristi.., cioè dei veri studiosi nella teoria e nella pratica, delle funzioni sociali». Ovvero da uomini e donne che quotidianamente prendano su di sé la responsabilità di operare secondo le proprie competenze per il solo vero fine: il bene.

Note 'RENZO Z0RzI, Prefazione, Catalogo generale delle Edizioni Comunità 1946-1 982, Milano, Comunità, 1982,

p. 14.

2

SAVERIO SANTAMAITA,

Educazione Comunità Sviluppo, 1987, p. 127.

Roma, Fondazione Olivetti, 128

ADRIANO OLIVETTI, Il cammino della Comunità, in La città dell'uomo, Milano, Comunità, 1959, pp. 56-86. SIMONE WEIL, Appunti sulla soppressione dei partiti politici, in «Comunità», (Milano), (gen.-feb. 1951), pp. 1-5.


ADRIANO OLIVETTI, 11 cammino della Comunit4, in La citti dell'uomo, Milano, Coìnunità, 1959, p. 59. 6 BRUNO CMZZI, Biografia. Camillo e Adriano Olivetti, Torino, U.T.E.T., 1962, p. 397, p. 280. ARIS ACCORNERO, La condizione operaia, in «Rinasci ta», (Roma), n. 14. (2/4/1966). 8 SIMONE WEIL, La condizione operaia, trad. Franco Fortini, Milano, Mondadori, 1990, p. 307. GIUSEPPE BERTA, Le idee al potere, Milano, Comunità, 1980,pp. 196-201.

L'altezza della situazione o perché si scrivono poesie, Antologia della rivista «Officina», Torino, Einaudi, 1975, p. 182. Il FRANCO FORTINI, Dieci Inverni, Milano, Feltrinelli, 1957; in particolare pp. 77-79. 12 FRANCO FORTINI, Les Communistes et la paix, in «Nuovi Argomenti», n. 8 mag.-giu. 1954. IO FRANCO F0RnNI,

La condizione operaia, Milano, Monin particolare p. 304. 14 GENO PAMPALONi, La fabbrica, casa dell'uomo, in «La Civiltà delle macchine», n. 2, marzo 1953, pp. 60-6 1. IS RENZO ZORzI, Prefazione, Catalogo generale delle Edizioni di Comunitì, Milano, Comunità, 1982 6 ELISABETTA MONDELLO, Gli anni delle riviste, Lecce, Milella, 1985. In particolare p. 98. 7 FRANCO FERRAROTTI, nota introduttiva a Appunti sulla soppressione dei partiti politici, in «Comunità», (Milano), (gen.-feb. 1951), pp. 1-5. Aos ACCORNERO, Più usata che conosciuta, in «Gazzetta del Popolo», (14.12.1983). SERGIO RISTUCCIA, La condizione operaia e il "padrone", in «Gazzetta del Popolo», (14.12.1983). 20 ADRIANO OLIVETTI, op. cie., p. 27. IS SIMONE WEIL,

dadori,

1990;

129'



Taccuino



I nostri temi L'eccedenza dell'immagine di Piero Stefani Accettando tutti i gravi rischi intellettuali connessi all'effettuazione di un discorso globale (o forse addirittura epocale), può essere opportuno tentare una provvisoria lettura del quadro entro cui emergono le manifestazioni di xenofobia e antisemitismo ritornate così prepotentemente alla ribalta. Il discorso non può prendere le mosse se non dalla Germania, in quanto questo paese si pone in modo diretto e cruciale in un'epoca che ormai deve qualificarsi, oltre che in base al suo essere "dopo Auschwitz", anche in virtù del suo venire "dopo il 1989". Raramente, o forse mai, l'Europa ha assistito a un cambiamento di assetto degli equilibri geopolitici così radicale come quello rappresentato simbolicamente dal crollo del muro di Berlino, subendo come contropartita la presenza di un tasso di violenza così basso. I grandi cambiamenti dell'ordine europeo dalla Rivoluzione francese fino alla seconda guerra mondiale hanno avuto alle loro spalle sempre guerre devastanti. Da questo punto di vista il caso dell'ex-Iugoslavia rappresenta la regola, non l'eccezione. In Europa l'uscita dall'ordine scaturito dalla seconda guerra mondiale è perciò avvenuta senza essere accompagnata da un grande "mito fondatore". Non a caso i primi usi ideologici riferiti alla fondazione di un "nuovo ordine mondiale" si sono dispiegati in aree lontane dall'Europa (la guerra del Golfo). In un siffatto contesto, pur senza voler essere hegeliani a oltranza, appare storicamente

inevitabile che l'Europa attraversi un periodo piuttosto lungo di convulsioni più o meno intense, o se si vuole di doglie destinate a far nascere un nuovo assetto relativamente stabile. La riunificazione tedesca, resa possibile dal crollo del sistema sovietico, ha ridato alla Germania la sua vocazione di potenza mitteleuropea, destinata per la sua collocazione geopolitica ad assumere una posizione egemonica nell'intero scacchiere dell'Europa orientale. La riunificazione, cancellando la traccia più visibile fino ad allora pagata dai tedeschi alla "follia nazista", rappresenta davvero la fine di un capitolo, rispetto al quale la rinuncia a ulteriori ridefinizioni territoriali a oriente appare, di fatto, come un fattore di minor importanza. Gli elevati costi economici e sociali richiesti dalla repentina riunificazione tedesca, pagati in larga misura da ampi settori della popolazione dell'ex-Germania orientale (e tra essi vanno annoverati in prima fila ex-militari ed ex-appartenenti all'apparato statale) hanno favorito la rilegittimazione dell'ultimo linguaggio politico parlato dalla Germania unita. E se è vero che stereotipi antisemiti tornano anche nel ricco sud-ovest, è altrettanto innegabile che, la coniugazione di un linguaggio xenofobo con uno antisemita, a fronte di una presenza ebraica praticamente nulla, trova ad est le sue più intense manifestazioni. La presenza di una componente straniera all'interno delle società occidentali è dato quantitativamente rilevante e socialmente 133


non trascurabile, ma non si tratta certo di un fenomeno da considerare come causa primaria e diretta del disagio sociale. La mano d'opera turca in Germania Federale non ha mai catalizzato attorno a sé una protesta sociale rilevante per tutto il lungo periodo in cui dava un indispensabile contributo al funzionamento dell'apparato produttivo. Né crea disagio la presenza di collaboratrici domestiche filippine, la quale consente, tra l'altro, a donne, libere professioniste o altro, di esercitare una presenza più diretta e attiva nel mondo del lavoro. Di contro, in tutte le società europee, e segnatamente in Italia e in Germania, la componente ebraica è quantitativamente ridottissima, nell'ordine delle poche decine di migliaia, e in quanto tale non rappresenta alcun problema socialmente consistente. A entrare in gioco è perciò soprattutto una questione di immagine, rispetto alla quale i media, strutturalmente legati come sono all'immagine più che alla realtà oggettiva, appaiono particolarmente sensibili. Arrischiando una generalizzazione si può affermare che la presenza ebraica è stata colta dall'Occidente sempre sotto l'insegna dell'eccedenza dell'immagine rispetto alla realtà effettiva. E su questa lunghezza d'onda vi è una straordinaria continuità tra antigiudaismo cristiano e antisemitismo contemporaneo; per vie diversissime, anzi reciprocamente incompatibili, entrambi hanno infatti elaborato, dall'esterno, una particolare immagine dell'ebreo e poi si sono opposti agli ebrei in carne e ossa, resi potenti e perturbatori in virtù di quella stessa immagine. La piccola componente ebraica è stata così, ad esempio, ritenuta capace di tenere in scacco l'intera storia della salvezza (la fine dei tempi è legata alla conversione degli ebrei) o, sull'altro versante, vista come detentrice di un plutocratico pote134

re mondiale esteso anche alle povere o poverissime masse di ebrei dell'Europa orientale. L'attuale scomparsa di riferimenti di ascendenza religiosa negli usi dell'immagine dell'ebreo, compiuti dagli skinheads, è facilmente spiegabile, sullo sfondo della generale laicizzazione della società, in virtù dell'origine "pagana" della loro ideologia che interpreta il cristianesimo come una filiazione ebraica. D'altra parte l'infima o inesistente capacità di elaborazione culturale autonoma da parte dei cosiddetti neonazisti li costringe alla ripetizione di moduli stereotipati. Il fatto che l'odierna ondata di antisemitismo abbia come uno dei suoi bersagli più tipici la devastazione di cimiteri ebraici si spiega anche con la costatazione che quei cimiteri sono spesso gli unici, o almeno i più visibili, segni restati di un'effettiva presenza ebraica. Spezzando lapidi tombali l'antisemitismo senza ebrei attua così i propri lugubri riti. Il grido «morte agli ebrei» sfocia nel prendersela con gli ebrei morti. Invece l'episodio di Roma, una città in cui la presenza ebraica ha ancora una sua consistenza, culminato in un corpo a corpo fisico tra giovani ebrei ed esterrefatti skinheads, per quanto di portata assai limitata, può risultare ugualmente eloquente in quanto rappresenta un confronto/scontro tra l'immagine "esterna" che si raffigura un ebreo .potente ma imbelle e l'elaborazione "interna" di una nuova identità in cui l'ebreo del "dopo Auschwitz" e rinfrancato dall'esistenza dello Stato d'Israele, manifesta la propria volontà di non subire più passivamente la violenza altrui (anche tra gli ebrei tedeschi si è risentita risuonare questa voce). Implausibile dal punto di vista fattuale, l'associazione xenofobia-antisemitismo appare ugualmente sintomatica in quanto evoca l'esistenza di alcuni nodi problematici iscritti nella visione democratica, a iniziare da quello co-


stitutivo, rappresentato dal, raffronto tra una presupposta uguaglianza generale tra tutti gli uomini e la presenza di differenze irriducibili. E se per piĂš di un secolo una grande, e ormai almeno apparentemente sconfitta, tradizione ha individuato il cuore di questo nodo nella

contraddizione connessa alla permanenza all'interno delle societĂ democratiche di vistosissime disuguaglianze sociali, ora, accanto a quelle sociali riemergono irriducibilitĂ di ordine antropologico e culturale che esigono di nuovo un loro spazio.

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Notizie dal Gruppo di Studio "Società e Istituzioni"

5 1 Incontro Cortonese (Cortona, Sala Sant'Agostino, 2 e 3 ottobre 1992)

in gran parte pubblicata nell'editoriale del numero scorso (90-9 1). I vari interventi avutisi nel corso dell'incontro hanno affrontato anche alcune specifiche problematiche contenute nel Trattato di Maastricht. Particolarmente interessante l'intervento di Luigi Ferrari Bravo che ha dato un'ampia e lucida testimonianza di partecipe al negoziato che ha condotto al Trattato. Sono inoltre intervenuti Francesco Papadia, Giuseppe Cogliandro, Marco Cimini, Vincenzo Spaziante, Antonio di Majo, Luigi Sai, Fabrizio Saccomanni, Girolamo Caianiello, Sergio Lariccia, Maria Teresa Salvemini.

La prima delle due giornate di studio del Gruppo, che si sono tenute come di consueto a Cortona in occasione dell'assemblea annuale dei soci, è stata dedicata - proseguendo il dibattito già iniziato nella precedente edizione - alla "Costituzione dell'Europa" ed ha avuto quale tema culturale di discussione "Quale Costituzione dopo il referendum francese?" Il dibattito politico che fino a pochi mesi prima sembrava interesse di pochi studiosi o "militanti" del federalismo ha ricevuto un Il futuro della democrazia "occidentale" violento colpo di accelerazione con lo svolgersi dei referendum danese e francese, innalzando in tal modo il livello della discussione Il Gruppo di Studio, in collaborazione con la Fondazione Europea della Cultura e la Cassa in relazione agli accordi di Maastricht. Refedi Risparmio di Firenze, ha organizzato, in rendum, in particolare quello francese, che occasione delle giornate cortonesi, un dibattivanno considerati sia nei risultati, sia nella to sul futuro dei rapporti fra la società civile e portata. Infatti, il si all'Europa è venuto in il potere politico. Si tratta di un'iniziativa che buona parte da elettori che, come in Francia, mira ad inseririsi in un più vasto progetto la non sono "d'accordo" con Mitterand. cui ambizione finale sarà la costituzione di un Ciò sta a dimostrare quanto il tema Europa osservatorio permanente per studiare l'evolusia stato recepito e fatto proprio dagli elettori zione ditale realtà. e a indicare come non sia più valida l'afferma- Il nostro progetto è partito dalla consapevozione dei molti che considerano l'Unità Eu- lezza che il modello democratico che noi.coropea quale un fatto squisitamente intergo- nosciamo è nato per rispondere alle esigenze vernativo. di una società tutto sommato semplice, con La relazione introduttiva all'incontro è stata una divisione in classi abbastanza netta, all'in136


temo di uno stato nazionale per tanti aspetti omogeneo. La sempre più complessa articolazione della struttura economica e sociale e lo sviluppo di una realtà multietnica, sia per le imprescindibili esigenze di una sempre più completa integrazione europea che per la presenza di imponenti fenomeni migratori dalle caratteristiche più diverse, non facilmente riconducibili al modello occidentale, pongono dei problemi che non potranno essere risolti facendo appello soltanto ai tradizionali istituti che hanno finora retto i nostri governi. Inoltre il concetto stesso dell'unità e indissolubilità della sovranità, fondamento ideale dello Stato moderno, non sembra essere sempre in grado di rispondere alle esigenze di una realtà che da un lato impone delle soluzioni globali a livello planetario, ma che dall'altro riscopre l'esigenza della salvaguardia delle singole specificità. La tutela della libertà e della dignità umana impongono, quindi, immaginazione e spreiudicatezza per le quali sono però indispensabili una riflessione ed una conoscenza scientifica non solo dei meccanismi istituzionali, ma anche e soprattutto di come possa essere garantita la partecipazione dei soggetti interessati alla definizione delle scelte politiche. La giusta affermazione degli ideali del pluralismo e la necessaria critica dello Stato provvidenziale non può ridursi ad una semplice deregulation, ma impone una responsabilizzazione della società civile con nuovi e specifici strumenti normativi. Altrimenti il rischio che tutto si tramuti in una maschera destinata a celare cinismo e ipocrisia potrebbe diventare reale e quindi fomentare tragiche reazioni. La storia europea della prima metà di questo secolo dovrebbe infatti costringerci a meditare su tali rischi. È opportuno a tal proposito ricordare che furono proprio i migliori intel-

lettuali a desiderare l'intervento nella prima guerra mondiale per purificare il nostro paese dall'affarismo dell'età giolittiana e che, in seguito, i giovani più generosi ed entusiasti aderirono in massa al fascismo, al nazismo e al comunismo in nome di una tensione ideale contro un formalismo troppo spesso destinato a coprire con una patina di rispettabilità le ingiustizie e le menzogne di quell'epoca. La discussione, che contiamo pubblicare in un prossimo numero della rivista, è stata introdotta da Robert D. Putnam che ha descritto il suo progetto "Revitalizing American Democracy" e da un intervento di Alessandro Pizzorno che ha commentato e integrato le analisi dello studioso americano. Nel pomeriggio Mattei Dogan ha invece cercato di individuare i fattori che potrebbero favorire lo sviluppo della società civile o al contrario imporre una più massiccia presenza dello Stato nella vita economica e sociale delle democrazie occidentali. Il dibattito, al quale sono intervenuti studiosi di numerosi centri di ricerca italiani ed esteri, oltre a responsabili del mondo delle amministrazioni pubbliche, ha toccato molteplici aspetti della vita politica dei nostri paesi: dal ruolo dei partiti a quello della magistratura, dalle autonomie locali ai nuovi problemi posti dal contesto internazionale, ma ha infine riconosciuto il ruolo strategico ed ineludibile di una forte ed autonoma società civile per la tutela della libertà e dei valori maturati in questi secoli di esperienza democratica. Sono intervenuti: Giovanni Aldobrandini, Ernesto Basile, Gianfranco Bettin, Peter Bogason, Girolamo Caianiello, Giuseppe Carbone, Bernardino Casadei, Luciano Cavalli, Fabio Luca Cavazza, Marco Cimini, Giuseppe Cogliandro, Donatella Della Porta, Antonio Di Majo, Mattei Dogan, Robert Evans, Franco Ferrara, Maria Rosaria Ferrarese, 137


Carlo Fusaro, Pietro Gambioli, Wanda Gawronska, Alison Jamieson, Antoni Z. Kaminski, Giampaolo Ladu, Sergio Lariccia, Robert Leonardi, Guido Maccagno, Maurizio Meloni, Maurizio Mirabella, Valerio Onida, Giorgio Pagano, Gaetano Pecora, Alessandro Pizzorno, Ignazio Portelli, Robert D. Putnam, Marcello Romei, Fabrizio Saccomanni, Luigi Sai, Maria Teresa Salvemini, Francesco Sidoti, Pio Silvestri, Vincenzo Spaziante, Jacques Vandamme e Alberto Zuliani.

Seminario sulla Riforma urbanistica a cmquant'anni dall'emanazione della L. 17 ago. sto 1942, n. 1150 (Roma, Villa Huffer, 4 novembre 1992) La vetustà della legislazione urbanistica nazionale e l'inadeguatezza dei meccanismi e delle procedure di attivazione, rendono evidente l'esigenza di revisione e di riorganizzazione complessiva del fare "urbanistica" nel nostro Paese. Seguendo questo filone di dibattito in collaborazione con il CRESME il Gruppo di Studio ha tenuto, il 4 novembre 1992, presso l'Istituto italiano di Credito Fondiario una giornata di studio sulle tematiche connesse alla riformulazione del quadro legislativo nazionale in materia di urbanistica e pianificazione territoriale. L'opportunità per una simile riflessione è nata in occasione del cmquantenario della legge 17 agosto 1942, n. 1150, resa tanto più interessante, se riferita anche all'attuazione della legge 142/9 1, sulla

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riforma delle autonomie locali, da una parte, ed alla progressiva omogeneizzazione delle politiche e delle normative in ambito comunitario, dall'altra. Gli interventi hanno affrontato la carenza delle norme regolatrici generali, la loro mattivazione amministrativa, l'inefficienza e l'incapacità dell'amministrazione pubblica di portare avanti progetti, la discrasia tra piano e realizzazione. D'altra parte la natura e le tendenze dell'attività di programmazione, caratterizzate da un'enorme crescita sia della domanda che dell'offerta, impongono una revisione profonda dei rapporti tra i diversi interessi soggettivi e di gruppo, tra le svariate competenze pubbliche e private, tra i molteplici livelli di operatività possibili. È emersa inoltre, correlata all'ormai accertata crisi e declino del Piano regolatore generale, una prospettiva innovativa per la pianificazione del territorio: la cosiddetta "pianificazione per progetti", che disarticola il complesso problema di pianificazione territoriale in sotto-sistemi più maneggevoli, aventi una maggiore capacità di controllo sulla qualità della progettazione; superando in tal modo tutte le esperienze negative accumulate in questi anni a livello di intervento "straordinario". Sono intervenuti, tra gli altri: Nicolò Savarese, Maurizio Coffo, Bruno Dente, Federico Spantigati, Sergio Ristuccia, Lorenzo Bellicini, Sandro Amorosino, Michele Talia, Franco Karrer, Michele Pallottino, Roberto Martocci.


Notizie dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali Le infrastrutture militari nelle aree urbane In Italia, come in altri paesi, vi è una cospicua e diffusa presenza militare su tutto il territorio. Tuttavia le sue implicazioni non sono mai state adeguatamente approfondite. Tale presenza viene generalmente accettata, ma si dà per scontato che essa comporta soprattutto disagi per la società. In merito il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale D. Corcione, ha espresso recentemente la convinzione che: «al Nord prima protestavano perché c'eravamo, oggi perché siamo andati via. Al Sud, invece ci volevano ma soprattutto come consumatori. L'esodo dal Nord è stato voluto all'insegna della campagna contro le servitù militari. Caso unico al mondo, per il soio fatto d'esistere siamo considerati una servitù anche quando occupiamo aree nostre'>. Tale affermazione rispecchia lo stato d'animo di larga parte dei militari, convinti di essere considerati un corpo estraneo e inutile della società nazionale. Sintesi empirica di molteplici esperienze di una lunga e importante carriera, essa tuttavia non è confermata né contestata da una seria e obiettiva analisi data l'insufficienza di studi approfonditi in materia. Quanto agli stessi mass media, che pure tanta importanza hanno avuto ed hanno nella formazione della cultura militare della Nazione, alcuni recenti studi hanno evidenziato come la loro attenzione per la materia difesa, sia in generale che nei suoi aspetti specifici, sia inadeguata all'importanza dei problemi.

È infatti assai poco noto che cosa la presenza militare sul territorio del paese realmente significhi, quale sia il suo effettivo ruolo istituzionale, quali siano i suoi compiti, e, infine, quali siano i suoi rapporti con la società nazionale. Queste ed altre incognite sono emerse nel corso di una ricerca effettuata per conto della Commissione Parlamentare della Camera dei Deputati sulla Condizione Giovanile che, peraltro, per insufficienza di tempo e risorse, non ha potuto approfondire sufficientemente questa delicata e complessa materia. Si concludeva allora che non s'era potuto «trattare il problema sotto l'aspetto della sociologia militare né condurre una ricerca mirata a definire i trend sull'informazione militare nell'ambito dei mass media» Si è quindi accolta con molto favore l'opportunità offerta dal Dipartimento delle Aree Urbane di approfondire con una ricerca scientifica alcuni aspetti inesplorati dei rapporti di convivenza tra società militare e società nazionale. Con la presente ricerca si è voluto accertare quanto la società civile e quella militare siano in grado di interpretare le reciproche esigenze nonché di accertare seriamente ex ante la natura e le conseguenze per entrambe le parti dell'adozione di determinati provvedimenti, onde decidere responsabilmente in merito alla loro adozione, rifiuto o modifica. Premesso che, in una società democratica, i 139


diritti di una parte non devono essere esercitati a spese dell'altra e che ogni parte è tributaria di doveri sia verso la società nel suo complesso sia verso la propria diretta controparte, è evidente che provvedimenti di natura complessa, quali il trasferimento di enti e reparti (cioè di organismi fatti di centinaia di migliaia di uomini, con o senza nuclei familiari e con materiali pesanti e complessi e relative attrezzature), meritino di essere adeguatamente studiati in anticipo per accertarne l'impatto sulle strutture militari, su quelle civili e sull'ambiente e, di conseguenza, per guidarne la corretta impostazione e applicazione. A tale fine si è concentrata l'attenzione su una serie di provvedimenti, di elevato interesse sia per la società civile sia per quella militare, connessi con i cambiamenti di sede delle unità o degli enti militari, conseguenti ad un programma generale di regionalizzazione inteso a ripartire più equamente gli oneri della presenza militare sul territorio fra le varie regioni. A tale proposito, anche se non è stato oggetto di specifica ricerca, in questa sede si può correttamente affermare come il complesso problema della ridistribuzione della presenza militare (ri-localizzazione) sul territorio nazionale sia stato fino ad oggi visto quasi esclusivamente in chiave politica, per i riflessi cioè che il provvedimento avrebbe potuto avere nella società civile e sulla opinione pubblica. Sono aspetti rilevanti ditale fenomeno la riduzione delle serviti'i militari nel Nord, e specificamente nel Nord-Est, in parallelo con una spiccata regionalizzazione (intesa in larga parte come meridionalizzazione) rivolta sia a ridistribuire benefici ed oneri della presenza militare sia a dare il modo ai "ragazzi" di prestare servizio in prossimità delle loro sedi di origine. I tentativi fatti (nei dibattiti nei partiti o in se140

de parlamentare) di accreditare questa marcia verso il Sud dei reparti dell'esercito con presupposti strategici di una poco credibile e militarmente inattuabile invasione dell'Italia meridionale, secondo una forzosa interpretazione della "minaccia da Sud", sono risultati poco convincenti. Non convincono neppure i tentativi militari di assecondare la scelta politica, minimizzando le conseguenze operative dei trasferimenti con esercitazioni di movimento intese a dimostrare un'alta mobilità operativa, tale da compensare i problemi connessi con l'accresciuta distanza delle prevedibili zone d'impiego. Si tratta in realtà di mobilità generica assai distante da quella "operativa" che ha ben altri requisiti. Oggi i problemi connessi con il trasferimento da Nord a Sud si sono considerevolmente attenuati, sia per il tramonto della temuta aggressione da Est sia perché si tende a incrementare in termini reali la mobilità operativa di tutti i reparti. Oggi, quindi, non vi sono insuperabili motivi di natura strategica per schierare le forze in qualsiasi punto della penisola. I problemi sono altri: politici, sociali, economici, addestrativi, ecc. Ma sono proprio quelli che sono stati e sono esaminati con insufficiente attenzione e serietà. Ne consegue che le scelte di de-localizzazione, che pure appaiono sotto alcuni aspetti opportune, sono state e sono tuttora adottate non di rado per i motivi sbagliati o comunque diversi da quelli dichiarati, nonché sostenute con argomentazioni approssimative e non corrette e vengono perciò subite dalle Forze Armate, più che con convinta partecipazione, con una buona dose di fatalismo. Ciò ha impedito una serena ed equilibrata impostazione e attuazione dei provvedimenti il cui risultato spesso dipende soprattutto dalla buona volontà degli esecutori.


Nell'affrontare questa tematica la nostra ricerca si è posta in uno scenario ex post, di analisi dei modi e tempi dei trasferimenti e dei cambiamenti che hanno già avuto luogo, nonché di scrupolosa verifica degli effetti reali che i provvedimenti hanno avuto ed hanno sulla società civile come su quella militare e sulle loro rispettive attività. In questo contesto si è tenuto conto anche dell'atipicità della vita militare rispetto alla vita civile. Un aspetto importante di tale atipicità è l'addestramento, ovunque riconosciuto come requisito indispensabile della preparazione militare. Ciò che a suo tempo scrisse Machiavelli, «si vede con gli antichi esempi come in ogni paese con lo esercizio si fa i buoni soldati», è stato ampiamente confermato dagli eventi nei secoli oltre che dalla sociologia militare più aggiornata ed evoluta. Nel valutare i pro e i contro dei trasferimenti, soprattutto quelli dei reparti dell'esercito più vincolati al territorio, vanno tenute presenti le relative condizioni addestrative (soprattutto disponibilità di aree addestrative e poligoni), che modificano sostanzialmente il livello di operatività acquisibile dai reparti. Infatti senza un adeguato addestramento, un reparto militare non può in alcun modo assolvere con competenza i suoi compiti ed è inoltre fonte potenziale di malcontento, di demotivazione, di rischio, oltre che inutile e inutilmente costoso impegno di uomini e materiali. Questa osservazione può apparire banale, se riferita a paesi diversi dal nostro, ma non lo è per l'Italia, dove l'addestramento è considerato, nei migliori dei casi, un fastidio oppure un rito incomprensibile all'esterno. Trattasi di una materia vasta e complessa, per la quale non esistono in Italia precedenti di studio rigorosamente scientifici. La nostra ri-

cerca l'ha affrontata attraverso l'analisi di tre casi specifici. Il primo caso riguarda il trasferimento all'interno della città di Roma, dal centro alla periferia, di un Alto Comando, il Comando della Il Regione Aerea. È noto infatti come, presso l'opinione pubblica, trovi largo consenso la tesi che il decentramento delle strutture burocratico-amministrative rappresenti una delle principali soluzioni al decongestionamento del centro urbano. E anche noto come, per motivazioni che riescono assai meno comprensibili, ma che non spettava a questa ricerca identificare e catalogare, il decentramento delle sedi militari trovi maggior consenso che non quello di altre civili. E ciò anche quando esse ospitano organismi burocratici di dimensioni assai minori di quelli che dovrebbero sostituirli. Il secondo caso si riferisce al binomio città di Salerno/Reggimento Cavalleggeri Guide, quest'ultimo trasferito al Sud dalla propria quarantennale sede friulana. Il trasferimento delle Guide, avvenuto per non chiari motivi con carattere di estrema urgenza (preavviso di meno di un mese) è parte del generale sforzo di de-localizzazione dei reparti già schierati nell'Italia Nord-Est. Nel determinare il binomio città-reparto, onde accertare più agevolmente i punti di possibile difficoltà ed attrito si è deliberatamente ricercato un contrasto potenziale maggiore associando una città meridionale a fitta densità abitativa, e con precedenti di modesta e pressoché sedentaria presenza militare, e un reparto ad alta reputazione professionale ed operativa oltre che dotato di mezzi e sistemi d'arma di notevole peso ed ingombro. Il terzo caso si riferisce alla presenza militare in Friuli, dopo il rilevante decentramento e a premessa di altri movimenti. Questo caso è stato scelto per operare un confronto fra la si141


tuazione generale dei reparti, prima e dopo i trasferimenti, al fine di valutarne meglio le conseguenze. Ciò ha consentito peraltro anche il confronto fra il modus operandi sia civile sia militare maturato in una regione a tradizionale presenza militare operativa e quello in una regione, quale la Campania, in cui tale presenza rappresenta un fatto pressoché nuovo, determinato dai nuovi affiussi. Il confronto fra due realtà tanto diverse potrà ancheconsentire di travasare ammaestramenti ed esperienze in merito dal Nord al Sud. La ricerca, che ha comportato tra l'altro molteplici visite ad enti e reparti scelti nelle sedi campione (Friuli, Salerno, Roma), ha confermato l'ipotesi iniziale che all'origine delle chiusure od aperture di insediamenti militari, di rado vi sia una seria e approfondita valutazione preventiva delle conseguenze di tali scelte, sia per la struttura militare ospitata, sia per l'ambiente civile in cui essa si collocava. Molte scelte appaiono invece frettolose e fortuite. I risultati della ricerca evidenziano come le chiusure di enti e reparti derivino soprattutto dalla contrazione generale dell'apparato militare. Quanto ai mutamenti di sede (ri-localizzazione), essi sembrano invece ispirati non dal desiderio di soddisfare esigenze reali (militari e civili) obiettivamente riscontrate e ben valutate, bensì da motivazioni di politica interna ispirate da percezioni più o meno corrette del possibile gradimento, da parte dell'opinione pubblica nazionale e locale, della chiusura in un caso o apertura in un altro di una sede militare. Un altro elemento significativo comune a molti provvedimenti è l'urgenza con la quale vengono decisi ed attuati. Ed è proprio l'urgenza a impedire la preventiva e approfondita 142

individuazione delle esigenze, militari e civili, nonché l'adozione di opportune misure per soddisfarle ex ante, cioè prima che la de-localizzazione abbia luogo. Quanto ai motivi dell'urgenza, si può solo dire che essi non sono in alcun modo legati a obiettive esigenze di ordine politico o militare. Si può invece ritenere anche in questo caso, e proprio l'assenza ditali condizioni concorre a confermarlo, che nel determinare l'urgenza prevalgono sia la convenienza politica di offrire in tempi brevissimi reali o presunti benefici alle comunità, locali, sia la convinzione che solo con provvedimenti d'urgenza si può sperare di attuare misure impopolari. Di questa seconda tesi è convinta un'alta autorità militare che, pur convenendo sulla necessità di operare anche in questo campo con più serietà e quindi in tempi necessariamente brevi, ha bonariamente affermato che in Italia solo creando un fait accoinpli si può assicurare l'accettazione di un radicale cambiamento della situazione esistente. In ogni modo, qualsiasi sia la causa dell'urgenza del provvedimento di de-localizzazione, si e sempre optato per la repentina imposizione di uno stato di fatto, nella convinzione che i problemi emersi ex post sarebbero stati risolti grazie alla buona volontà delle strutture e del personale coinvolti e a una serie di successivi interventi, per la maggior parte surrettizi, ispirati a un pragmatismo generalizzato nonché condizionati dalla disponibilità contingente di consenso e risorse per la loro attuazione. È un metodo largamente insoddisfacente perché vieta un razionale e preventivo adattamento al cambiamento, perché può creare situazioni non rimediabili, perché porta a un costoso e disordinato impiego delle risorse, perché convalida soluzioni improvvisate che,


diventate poi permanenti, radicalizzano i propri vizi d'origine. Infine, e ciò è anche più grave, questo metodo incide seriamente sull'efficienza/efficacia delle strutture interessate. Secondo un'altra autorità militare, alcuni reparti trasferiti d'urgenza impiegheranno almeno dieci anni per riconquistare l'efficienza/efficacia persa in conseguenza del trasferimento d'urgenza. Si tratta tuttavia, anche in questo caso, di un apprezzamento intuitivo anch'esso non convalidato da analisi serie. Impera quindi un pragmatismo dissociato da una visione degli obiettivi a medio-lungo termine. Con un carpe diem rassegnato e piuttosto diffuso, si procede a tentoni senza sapere con chiarezza quanto potrà o dovrà avvenire in futuro. Questo modo di provvedere che accresce indebitamente l"attrito" sociale-organizzativooperativo di ogni provvedimento, estendendolo inevitabilmente nel tempo tanto da renderlo cronico, è chiaramente in contrasto con le esigenze di una società evoluta e del resto, non trova riscontro in altri paesi del centro e Nord Europa né nell'America del Nord (Stati Uniti e Canada). In un momento in cui l'Italia si pone come traguardo un più razionale impiego delle proprie risorse in ogni settore, oltre che una sempre migliore collaborazione fra le sue parti sociali, anche in questo settore un radicale mutamento sembra indispensabile. Occorre cambiare radicalmente e in positivo un modus operandi che non è all'altezza di una società evoluta e che penalizza seriamente e in vari modi gli attori, civili e militari, coinvolti dai provvedimenti. Sarebbe gratificante per il gruppo di ricerca se si traesse vantaggio dagli esiti di questa indagine per eliminare, sia ex ante sia ex post, i vizi

d'origine e di percorso dei provvedimenti che riguardano la neo-localizzazione o ri-localizzazione dei reparti. Appare anche evidente come, senza sforzo conoscitivo adeguato e congrua direttiva politica, la volontà di porre comunque rimedio agli errori può avere effetti negativi in quanto vista come conferma che a tutto c'è riparo e che quindi si può continuare a.sbagliare. Non è solo questione di metodo. Infatti affinché problemi di questo tipo siano affrontati con più serietà e competenza occorre che fra gli attori (politici, civili e militari) si stabilisca un rapporto migliore nonché scevro di pregiudizi. Questa ricerca ha comunque il merito di avere affrontato un problema che non solo è ignorato dai mass media e dalla classe politica ma è anche sottovalutato, per pigrizia o rassegnazione, dagli stessi militari. Ci si augura quindi che questa indagine serva a qualcosa. Si coglie l'occasione per ringraziare il Gabinetto del Ministro della Difesa, lo Stato Maggiore della Difesa, lo Stato Maggiore dell'Esercito e quello dell'Aeronautica che, con la loro collaborazione, hanno contribuito a superare le difficoltà burocratiche e organizzative connesse con le molteplici visite ad enti e reparti. Si ringraziano anche gli enti civili che più si sono dimostrati disponibili al dialogo: fra essi merita un cenno particolare la Regione Friuli e il Comune di Palmanova. Fra gli enti militari e i reparti, meritano un grazie particolare per la loro pazienza, franchezza e disponibilità: il Comando della Brigata Garibaldi, il Comando del Reggimento Cavalleggeri Guide. Tutti hanno offerto un contributo fondamentale alla riuscita di questo lavoro. 143


Notizie dalla Fondazione Europea della Cultura L'Europa dei cittadini e il programma Erasmus Alan Smith, l'attuale Director ofEducation alla Fondazione Europea della cultura, è stato per anni il direttore dell'ERAsMUs BUREAU. Ne pubblichiamo una recente intervista.

Il mio trasferimento a Bruxelles fu parte di una più generale ristrutturazione del lavoro dell'European Institute. È probabilmente poco noto, che in realtà, questo cominciò la propria attività proprio a Bruxelles. Nel 1980 Lei ha iniziato a lavorare nel network della fu deciso di compiere una riallocazione dei Fondazione Europea della Cultura nel 1978, in compiti fra l'ufficio di Parigi e quello di Bruquello che poi diventò l'European Institute of xelles, il quale divenne competente per tre tiEducations and Social Policy; come è iniziata la pi separati di attività. sua attività e quali erano le sue funzioni? Prima di tutto eravamo responsabili della realizzazione dei progetti di cooperazione nel La mia funzione all'Istituto era duplice. In campo dell'educazione superiore della Comuquanto assistente del Direttore avevo la renità Europea, attività che seguivo sin da Parisponsabilità del lavoro d'informazione e di gi. In secondo luogo si organizzò un segretavarie funzioni di supporto. Inoltre ero re- riato per associazioni di istruzione superiore sponsabile del lavoro iniziale che l'Istituto in Europa la cui funzione è stata da allora trastava compiendo, per mandato della Fonda- sferita al segretariato HEURAS nell'ambito del zione Europea della Cultura, al lancio dei Fondo di Cooperazione Europea. Infine, si programmi della Comunità Europea per la era responsabili per Io sviluppo di una attività cooperazione nell'educazione superiore: il di ricerca rivolta allo studio del processo di Joint Study Programmes Scheme e successiva- cooperazione internazionale nell'istruzione mente il Study Visits Scheme per i professori. superiore, con particolare enfasi sull'impatto Sono stato coinvolto in cjuesta attività da dello studio svolto all'estero dagli studenti. Landislav Cerych, l'allora Direttore, con il quale avevo già lavorato ed ebbi un contratto Il lavoro dell'Ocr si è sviluppato rapidamente da parte della Commissione Europea. In quel nel programma ER,iSMUS. Quale è stata la motiperiodo ero appoggiato dall'Institute of the vazione e la filosofia che hanno realizzato tale West German Rectors Conference di Bonn. sviluppo? Dopo Parigi, lei si spostò a Bruxelles per organizzare l'Office for Cooperation in Education come parte dell'Istituto. Che cosa comportò questo lavoro? 144

Ci sono stati numerosi fattori che hanno realizzato questa evoluzione di interessi nell'ambito della Comunità Europea per la cooperazione nell'istruzione superiore, comunque il


più importante è stato sicuramente la volontà politica intesa al raggiungimento del mercato unico. Infatti non ci sarebbe potuto essere il lancio del programma ERASMUS, a dispetto di tutte le buone basi che si erano stabilite in quegli anni, se il clima politico non fosse cambiato a questo riguardo. Infine si ebbe una situazione politica nella quale la cooperazione tra le istituzioni universitarie, e in particolare la mobilità degli studenti e la cooperazione tra il personale accademico, nàn erano più considerate come qualcosa di marginale o individualistico, ma piuttosto come qualcosa che aveva a che fare con gli obiettivi macropolitici a fondamento dello sviluppo della Comunità Europea. Questi obiettivi erano essenzialmente di due tipi: innanzitutto economici: il mercato unico stava diventando una realtà e l'Europa non avrebbe avuto bisogno solo di un decreto legislativo, ma anche delle risorse umane capaci di muoversi in un contesto europeo. Per tale obiettivo sarebbe stato necessario preparare delle generazioni di studenti che considerino naturale il muoversi nella Comunità Europea nell'ambito della loro professione. In secondo luogo, ma molto importante, c'è, nel programma ERASMUS, una dimensione sociale e culturale di grande rilevanza. Approssimativamente nello stesso periodo in cui si stava completando il mercato unico vi è stato un concomitante movimento verso l"Europa dei Cittadini" e certamente ERASMUS è Uno dei programmi di prima linea nella formazione di questa nozione, dato che coinvolge molti giovani in uno stage altamente formativo.

ma in tutte le sue forme in questi ultimi 10 anni?

Il programma ERASMU5 è stato formalmente adottato nel giugno 1987. Esso esiste dunque da soli 5 anni sebbene si abbia l'impressione che sia in giro da molto più tempo proprio per il grande impatto che ha avuto, sia in termini quantitativi che in quelli qualitativi. Nell'anno accademico 1992-93 circa 60.000 studenti si muoveranno con il programma ERASMUS. Circa 5.000 docenti saranno coinvolti in un modo o in un altro nello svolgimento dei compiti di insegnamento integrativo e qualche altro migliaio farà visite individuali per informarsi in modo più approfondito sui sistemi di educazione superiore negli altri paesi della Comunità. Ciò mostra come da un punto di vista quantitativo il programma abbia riscosso un enorme successo. Anche il rapporto costi-benefici per il contribuente europeo è stato un grande successo. Si sono potuti conseguire dei risultati molto positivi utilizzando una parte alquanto ridotia del bilancio comunitario. Per quel che concerne gli aspetti qualitativi del programma, io credo che ERASMUS abbia conseguito numerosi ed importanti risultati. Partita quale attività marginale all'interno delle istituzioni di istruzione superiore, la cooperazione europea è oggi considerata come qualcosa molto vicino ai principali interessi accademici ed organizzativi di queste istituzioni. Certamente il fatto di avere messo tante persone in contatto fra di loro significa che la dimensione europea nell'ambito di un processo di istruzione superiore è parte integrante di un ampio spettro di corsi universitaLei ha collaborato al programma ERA SMUS per ri ovunque in Europa. In termini amministra14 anni. Lo ha seguito dalle sue fasi iniziali sino tivi noi abbiamo avuto una gratificante rispoal punto in cui è divenuto uno dei programmi sta da parte del mondo dell'istruzione supedella Commissione fra i più conosciuti. A parte riore che è ora convinto della necessità di una i semplici numeri, come è cambiato il pro gram- maggiore cooperazione europea. Quasi tutte 145


le maggiori istituzioni in Europa hanno un responsabile di collegamento con 1'ERASMUS e molte di queste hanno creato uffici internazionali per coordinarsi con le attività ERAsMus. Naturalmente questi uffici hanno dato vita a sviluppi di più ampio respiro, dato che sono usati non solo per le attività del progetto ERASMUS, ma anche per la gestione di altri programmi di cooperazione per l'istruzione superiore. Per quel che concerne gli aspetti accademici, abbiamo, penso, contribuito in modo sostanziale alla qualità dell'educazione semplicemente riunendo docenti da diversi paesi. Il fatto di dover condividere i propri programmi per poter insegnare ai rispettivi studenti, significa che i docenti universitari sono costretti a pensare criticamente ai propri corsi, al modo di provvedervi e alla loro funzionalità, il che è un processo benefico per lò sviluppo del mondo accademico in molti paesi europei. Infine vorrei attirare la vostra attenzione sul ruolo di collegamento che ERASMUS ha avuto. I programmi di scambio che costituiscono la parte principale delle attività di ERASMUS sono contraddistinti dalla presenza di più istituzioni di istruzione superiore, di diversa nazionalità, che lavorano tutti insieme ad un particolare progetto accademico. In questo senso, ERA5MU5 ha certamente contribuito alla formazione di una più ampia rete di contatti fra i più importanti istituti per l'istruzione superiore nelle differenti parti della Comunità. Sono così sorte reti di collegamento fra questi istituti in molte delle principali aree di studio e sono state create associazioni tra università.

Ha lasciato ERA SMUS con la sensazione di avere fatto un buon lavoro? Penso che il programma 146

ERASMUS

possa essere

fiero di ciò che ha raggiunto in così poco tempo. D'altro lato molto rimane da fare e penso di lasciarlo al punto dove si intravedono un notevole numero di scenari differenti per il futuro del programma. Si è quindi giunti alla definizione della terza fase di ERA5MUS, che occorrerà impostare, anche in funzione del mutato clima politico: clima che sarà certamente influenzato dal dibattito sul trattato di Maastricht e dal relativo processo di ratifica. Infatti per il suo ulteriore sviluppo ERASMUS necessita di ulteriori fondi provenienti dalla Comunità o dagli stati membri, finanziamento che dovrà avvenire riconsiderando il principio di sussidiarietà come è stato definito dallo stesso trattato. In secondo luogo credo che ci sarà bisogno di alcuni mutamenti marginali nella struttura del programma ERASMUS se si vuole che la terza fase abbia il suo pieno impatto. Le sfide che il programma sarà chiamato ad attivare saranno molte e diverse. Ci sono alcuni problemi che abbiamo già incontrato in questi anni che devono ancora essere superati. Alcuni di questi sono puramente finanziari, ma ne esistono anche altri di natura strutturale. Fra questi c'è, per esempio, il problema della sistemazione logistica degli studenti. Esiste infatti un'effettiva mancanza di strutture per gli studenti di ERASMUS. Questo problema, anche se non riguarda direttamente il BUREAIJ, ha certamente un impatto negativo per la futura espansione di questo programma. Un altro potrebbe essere quello della lingua. Abbiamo fatto, per la verità, progressi significativi durante i primi anni di ERASMUS, ma ancora molti ne rimangono da fare per incoraggiare gli studenti a frequentare gli stati le cui lingue non sono molto diffuse altrove. Un terzo problema è l'allocazione delle borse di studio ai differenti stati membri. Le attuali disposizioni stabilite dal Consi-


glio non sono orientate alla soddisfazione delle richieste degli studenti, e ciò ha portato ad una situazione nella quale le borse di studio, che vengono messe a disposizione degli studenti, possono variare sostanzialmente per progetti di studio molto simili.

Certamente collaborare con la Commissione per l'ulteriore sviluppo di queste attività è un compito molto interessante con il quale si sta già confrontando il mio successore nell'ERA5M1J5 BUREAU.

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I di*ri*tti* dell'uomo cronache e battaglie

organo dell'unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo direttore Mario Lana EDITORIALE

Mario Lana SAGGI

Indipendenza della magistratura alla luce della Carta Costituzionale Vincenzo Atripaldi La Convention européenne de sauvegarde des droits de l'homme et le droit pénal de fond Mireille Delmas-Marty Uso, abuso e pseudouso delle indagini preliminari Giuseppe De Luca

La dimensione umana della CSCE nella riunione dei seguiti di Helsinki Giuseppe Nesi Informazione di garanzia o garanzia dagli informatori? Salvatore Orestano Il referendum francese e i diritti politici nell'unione europea Gian Piero Orsello Focus (e fuoco) sulla Yugoslavia che fu Paolo Raffone

RUBRICHE EST EUROPA: GIORNALE A PIU VOCI

I centauri della transizione e i processi al passato Alberto Benzoni Russia oggi: quali diritti dell'uomo? Aldo Berna rdini La situazione dei diritti umani in Ungheria Edit Papàcsi Democratizzazione versus nazionalismo in Russia Felix Stanievski Ombre sull'ex URSS Demetrio Volcic

Consiglio d'Europa a cura di Maurizio de Stefano Lo straniero e la Pubblica Amministrazione a cura di MarioLana Salute a cura di Umberto Randi Lavoro a cura di Silvana Arbia Corti penali a cura di Nicola de' Angelis Minori a cura di Sebastiano Ferlito

INTERVISTE

Dieci domande per un'intervista con il Re del Marocco a cura di Mario Lana Con il Ministro Margherita Boniver a cura di Paolo Ungari

DOCUMENTI Risoluzione dell'Assemblea Generale ONU sull'Iran del 18 dicembre 1992 Prima assistenza a Fiumicino: una proposta C.I.R. Protocollo e accordo sulla politica sociale

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Conferenza internazionale sul la Situazione coreana Matteo Carbonelli La dimensione umana della Conferenza sulla sicurezza e cooperazione in Europa Francesca Brunetta d'Usseaux L'inferno iraniano e il diritto internazionale Cornelia Ghaed

Marocco e i diritti dell'uomo Un voto del Parlamento Europeo Meeting a Parigi sulla verità su Ben Barka L'Associazione per la difesa dei diritti dell'uomo in Marocco (ASDHOM) sul bagno penale di Tazmamart L'ASDHOM sulla prigione centrale Kenitra ISSN 1121-8754


democrazía e dírítto trimestrale del centro di studi e di iniziative per la riforma dello stato

4 DENTRO LA POLITICA IL TEMA Passione e politica Remo Bodei, Passione politica e modernità Giuseppe Cantarano, Ontologia de/declino e silenzio delle passioni Pietro Barcellona, Passione e sinistra. Una discussione in redazione Pasquale Serra, «Né destra né sinistra»: uno studio su Zeev Sternhell Pierluigi Onorato, Laicità e democrazia Pier Cesare Bori, Natura umana e con-passione ne/primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo Biancamaria Scarcia Amoretti, Passione e politica: un 'anomalia recente nell'Islam? Maria Luisa Boccia, Passione per la dffèrenz.a epassione per la politica Fabio Giovannini, Passione e protesta: Los Angeles e dintorni -

IL DIBATTITO Sull'emigrazione delle passioni Franco Crespi, Passione e distacco Salvatore Mannuzzu, Pezzi facili (sulla pietà) Nino Bigi, Languore, firore.e passioni Maria Luisa Boccia - Livia Turco, La passione delle donne. Un confronto Gloria Buffo, Politica: un 'i rrinunciabile passione LA QUESTIONE Una democrazia senza partiti? Augusto Barbera, Una democrazia con ipartiti Danilo Zolo, Stato di diritto e autoreferenza del sistema dei partiti Pietro Ingrao, Un deficit di colla nte politico e di rappresentanza Giuseppe Cotturri, Ricerca e politica. Esperienze e prosp etti ve del Crs IL SAGGIO

Pietro Barcellona, Tecnicizzazione del mondo e fondazione di un punto di vista critico Giovanni Mazzetti, Oltre la politica

L. 18.000- abb. 1993 L. 70.000- Associazione Crs, Via della Vice 13, 00187 Roma, ccl. (06) 6784101 - c.c.p. 53029005


MAILAMME rivista di spiritualità e politica

SOMMARIO

DIZIONARI

DE DOCTRINA SOCIALI ECCLESIAE (Il) di Edoardo Benvenuto IL DOPPIO PRINCIPE di Mario Tronti

LA FASE

CATTOLICESIMO DEMOCRATICO: VERSO UN NUOVO INIZIO? di Massimo De Angelis

LA PIETÀ

RICORDANDO 13 - CANDIDIOR INTERIUS. DON DE LUCA TRA CONFESSIONE E DIREZIONE SPIRITUALE di Romana Guarnieri SCRITTURA, MISTICA, DIFFERENZA SESSUALE: DANTE E ANGELA DA FOLIGNO di Giuliana Carugati ANGELA O DELL'AMICIZIA di Romana Guarnieri MARGHERITA E IL SUO LIBRO (lI) di Luisa Murato L'OSSERVANZA FRANCESCANA AL FEMMINILE di Mario Sensi

ESPERIENZE

L'ANTISEMITISMO FASCISTA E L'INTERRUZIONE DELLA STAMPA EBRAICA ITALIANA NEL 1938 di Michele Sarfatti REALTÀ STORICA E PROBLEMI TEORICI DELLA DEMOCRAZIA NEL PENSIERO DI FRANCO RODANO di Vittorio Tranquilli TAMBRONI: ANALISI DI UNA TRANSIZIONE (NOTE IN MARGINE A UN RECENTE VOLUME) di Giuseppe Trotta

SCENARI DEL SAPERE

ESSERE APPARIRE SEMBRARE. RIFLESSI E RIFLESSIONI DAL PENSIERO DI SEVERINO di Italo Valent

LETTURE

INCONTRO CON MICHELE RANCHETI ULTIMA LINEA RERUM di Michele Ranchetti POESIE DELLA MANO SINISTRA di Fabio Milana

MEDITAZIONI E PREGHIERE

SALMO 104 (103) traduzione di David Maria Turoldo

LETTERE E RECENSIONI

TESTIMONIANZA di Giordano Remondi

I\P UNDICl/DODICI - GENNAIO/DICEMBRE 1992

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queste ìstituzìooì La rivista Queste Istituzioni fin dal 1972 si confronta su temi di politica istituzionale, cogliendo gli aspetti più significativi dei diversi problemi che di volta in volta sorgono e vengono analizzati. Oggi dunque è strumento indispensabile per gli operatori dell'amministrazione dello Stato, a tutti i livelli ed in tutte le categorie, e per quanti con essi entrano in rapporto provenendo dall'ambiente accademico, dai partiti politici, dai sindacati, dal mondo imprenditoriale e da quello dell'informazione e della cultura in senso lato.

I contenuti - Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse. - I dossiers, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L'«Istituzione Governo», la sanità e la spesa farmaceutica l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, sono gli argomenti trattati negli ultimi numeri. - Il taccuino, con le notizie relative all'attività del gruppo di studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni culturali, e con la rubrica i nostri temi nella quale approfondire quanto è stato già oggetto di trattazione nei dossiers. L

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E in preparazione un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano.


La collana Maggioli - Queste Istituzioni La società QUES.I.RE. sri, editrice di Queste Istituzioni, ha da qualche anno avviato un progetto ambizioso che oggi vede finalmente raggiunti gli obiettivi iniziali. Nei 1992, in collaborazione con Maggioli editore, sono stati pubblicati tre volumi collegati ai temi solitamente trattati sulle pagine della rivista. Sono i primi titoli di una collana mirata a trasferire nel settore pubblico le motivazioni e le esperienze che nel settore privato vengono definite cultura dell'innovazione.

volumi già pubblicati: Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. SIof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000

volumi in corso di pubblicazione: Advisory Commissiòn on Intergovernmental Relations Come organizzare le economie pubbliche locali J ean Raynaud Le «Chambres Regionales des Comptes»: caratteri di una innovazione istituzionale


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