Queste istituzioni 136 137

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ueste ititllZi011i XXXI n. 136/137 Direttore: SERGIO Ri SI UCCA 6ondirettore: ANTONIO DI MAIo Vice Direttore. GIOVANNI VETRITTO Redattore Capo: SAVERIA ADDOTTA 6omitato di redazione: FABIo BIscoTtI, ROSALBA CORI, FRANCESCA DI LAscIo, FRANCESCO DI MAJO,

Anno

ALESSANDRO HINNA, EMANUELE LI PUMA, GIORGIO PAGANO, ELISABETTA PEZZI, MASSIMO RIBAUDO, CRIStiANo A. RISTUCCIA, CLAUDIA SENSI, ANDREA SPADETTA

Collaboratori: ARNAI oo BAGNASCO, AD0I FO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUsEI'IN BERTA, GIANFRANCO BETEIN LAF FES, ENRICO CANICLIA, OSvDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVID B0GI, GIROLAMO CAIANII;uo, GABRIELE CAI VI, MAN1N CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, CARLO CHIMENTI, MARCO CIMINI, GIUSEPI'E COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBFRG), MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA DI GREGORIO, CARlO D'ORTA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO EDOARDO FR0SINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLo, SILvI0 GAMBINO, GIUIIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIL:SISI'PE GODANO, ALBERTO LACAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMI'AOLO LADy, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, QUIRINO LORELLI, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAI0RIN0, GIAMI'AOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAoi.O MIELI, WALTER Nocvro, ELINOR OSTROM, VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZÀ, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIZZETTI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUIDO MARIO REY, GIANNI RIOrFA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA ROSSI, FABRIZIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARI o SALVEMINI, MARIA TERESA SAI.VEMINI, STEFANO SEPE, UMBERTO SERAFINI, FRANCESCO SIDOTI, ALESSANDRO SILJ, FEDERICO SPANTIGATI, VINcENzo SPAZIANTE, PIERO STEFANI, DAVID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMINI, TIZIANO TIRZAN6, GIANLUIGI

Tossro,

GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZANIPINI, ANDREA ZOPI'INI

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Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE sri QUESTE iSTITUZIONI RICERCHE ISSN 1121-3353 Stampa: Spedalgraf- Roma Chiuso in tiografia nel marzo 2006 Foto di copertina: realizzazione QUES.1.RE

Associato all'Uspi: Unione Stampa PerIodica Italiana

14.847 (12

dicembre

1972)


N. 136/137 invernoprimavera 2005

Indice

III

E allora Europa? Un memorandum per le scienze sociali Taccuino

i

Tra formula omnibus e boom del free press. Il "giornale" nel nostro Paese Barbara lannarella

10

Il microcredito secondo il l Rapporto sulle esperienze italiane Saveria Addotta

16

Il professor Serafini, Umberto Gabriele Panizzi

28

Cittadinanzae immigrazione. Europa e

a confronto Enrico Caniglia

USA

Dibattito 51

Europa e Turchia: perchĂŠ no Felice Mili Colorni

75

Turchia ed Europa: quo vadis? Alessandro Silj

I


La modernizzazione dell'amministrazione: teoria e prassi 101

Sostenere l'innovazione nelle pubbliche amministrazioni Ruth Rennie

116

Programma di razionalizzazione degli acquisti nelle PA Giorgio Pagano

Quali regole e quali attori per il mercato globale 127

Istituzioni di vigilanza bancaria e finanziaria Donato Masciandaro

138

Quale impresa e quali controlli per l'economia globale Dario Velo

Europa e parlamenti 151

/

I'

Parlamenti nazionali e Unione europea. Quale coinvolgimento? Maria Romana Allegri


queste istituzioni n. 136/137 inverno-primavera 2005

editoriale

E allora, Europa? Un memorandum' per le scienze sociali

LEuropa sembra aver perso, e non da poco tempo, ogni forza mediatica. O meglio ha l'appeal mediatico che di solito hanno le disfatte: se ne parla in termini catastrofici e poi non se ne parla più. Il rifiuto francese ed olandese del Trattato costituzionale (comunque assai mal congegnato) attraverso dei referendum che non sono esempi di buona democrazia europea (o si vota tutti insieme o non si può neppure metaforicamente dire: ha parlato una parte del popolo d'Europa); la debolezza della Commissione; gli effetti boomerang dell'allargamento ai suoi inizi mentre si comincia a parlare del rischio di un enlargement disguste quando - come già previsto - entreranno nell'Unione la Romania e la Bulgaria; il risveglio di spinte centrifughe verso arroccamenti nazionali se non nazionalisti all'insegna delle "identità". L'elenco è lungo. Così la Costituzione sembra una questione archiviata e per ora avvolta da una buona coltre di (finto) oblio. Le preoccupazioni economiche e sociali alimentano frenate protezionistiche anche nei rapporti fra i grandi paesi storici dell'Unione. Sono riflessi condizionati del ceto manageriale al potere nelle grandi imprese nazionali o prospettive ragionate? In quest'ultimo caso quali sono gli scenari su cui si fondano? Chi ha detto che sui grandi mercati e nel contesto della globalizzazione i "campioni nazionali" del cosidetto patriottismo economico alla Dominique de Villepin possano contare di più di solidi campioni europei? Il caso Airbus (di cui l'Italia non è partecipe), sia pure con i suoi conflitti interni di cui si legge, non è un caso di campione europeo di successo che da tempo conta sul mercato mondiale degli aerei quanto la Boeing? Insomma, se la globalizzazione non torna indietro, cosa fanno gli stati membri in ordine sparso guardandosi in cagnesco fra loro? Questi sono alcuni dei quesiti a cui si deve rispondere. Nella consapevolezza che gran parte delle politiche (le policies) non possono neppure essere declinate a scala nazionale (si veda, a questo riguardo, i'ultimo Libro verde della CommisIII


sione sull'energia) mentre la visione complessiva d'Europa e i modi di interagire fra gli Stati membri sulla base degli umori delle opinioni pubbliche (più o meno informate e più o meno ben interpretate) sono sempre più orientate a visuali nazionali. La grande contraddizione da affrontare. Naturalmente le cose non sono riconducibili alle semplificazioni di alcune domande. Le questioni al centro della crisi politica europea sono molte e converrebbe ricapitolarle, insieme alle opinioni espresse al riguardo. Con ciò cercando di contribuire ad un dibattito che crediamo necessario nell'ambito degli addetti ai lavori e fuori, molto fuori, quest'ambito. Una premessa, tuttavia, va fatta a riguardo dei punti di vista con i quali si affronta il dibattito. Va sottolineato, ancora una volta, come le opinioni espresse siano fortemente condizionate o, diciamo, ancorate alle logiche disciplinari che vengono usate: quelle delle relazioni internazionali che tendono a dare spicco all'azione delle diplomazie e al gioco intergovernativo (pur basilare nell'Unione) e delle classi dirigenti nazionali (anche in ragione delle possibilità di un ruolo dell'Unione nel campo della politica estera e della difesa); quelle della geopolitica che ripropone la centralità delle aree geografiche e dei confini e della storia che li ha segnati e fondati; quelle della macroeconomia che considera tendenze e interrelazioni dello sviluppo economico del continente come condizioni fondamentali del futuro europeo; quelle del diritto europeo che, da una parte, ridisegna gli schemi tramandati del diritto internazionale e, dall'altra, realizza un fitto tessuto connettivo di regole che governano aspetti importanti dell'economia e gli stessi diritti degli individui. E altre prospettive analitiche potrebbero essere enucleate. Sono prospettive che concernono aspetti veri del problema Europa ma tuttavia mancano, come dire, di tavoli di confronto frequentati e attendibili. Prospettive alle quali sfuggono spesso i fenomeni altri ma importanti se non decisivi dei processi che caratterizzano oggi la vita sociale nei paesi europei in forte interrelazione fra loro. Non sono soltanto i processi dell'immigrazione percepiti negli aspetti di pericolosità più che in quelli di riconfigurazione di buona parte della società europea ma i fenomeni di «europeizzazione" indotti da manifestazioni di idem sentire (come nel caso della guerra in Iraq), dalla maggiore mobilità, turistica e non, giovanile e non, creata dai più accessibili mezzi di trasporto (com'è dimostrato, per esempio, dal moltiplicarsi dei voli low cost) ma anche dal crescente interscambio di studenti agevolato da programmi europei come EÉasmus, dal diffondersi di comportamenti e gusti comuni e così via. Qualcuno ha ricordato, per esempio, quanto si siano europeizzati gli inglesi e non solo perché la cucina inglese è scomparsa a favore degli influssi delle varie cucine euIV


ropee ma anche per tanti altri aspetti della vita quotidiana, primo fra tutti il gusto di far turismo in Europa. Si tratta di capire il peso specifico delle prospettive analitiche e poi, in definitiva e soprattutto, dei fenomeni sociali in corso. Questo è un tema obbligato di riflessione per le scienze sociali. In ogni caso, un fatto è di tutta evidenza: l'Europa di oggi è profondamente diversa da quella di mezzo secolo fa. Che non sia il frutto delle Comunità europee è più che probabile. Ma sarebbe impensabile questa Europa senza le Comunità europee. Ci sono modi impropri di guardare all'Europa e alla sua storia recente. Prendiamo l'incipit dell'editoriale dell'ultimo numero di «Limes» (L'Europa è un biuffi n. 112006). È categorico: "L'Europa doveva abolire la storia. La storia ha abolito l'Europa: ha travolto l'europeismo. Jean Monnet, uno dei suoi padri, ne riassumeva così lo scopo: 'L'Europa non è mai esistita. Ora si tratta di crearla davvero'. È passato oltre mezzo secolo, ma quell'utopia resta tale. Nel mondo sempre più affollato di competitori continua a mancare un soggetto europeo". A parte le ragioni della polemica dove - come è noto - occorre sempre avere un obbiettivo o un avversario con cui confrontarsi, è arduo immaginarsene uno come "l'europeismo". Innanzitutto perché l'europeismo non è stato mai un soggetto forte, è stato un agente di complemento. Sono state forti le idee di alcuni padri fondatori e di alcuni leader spesso definiti "inaspettati" che hanno avuto a punto di riferimento l'Europa unita. Sono state forti o, comunque, convintamente perseguite le ideè e le iniziative dei Movimenti federalisti o delle associazioni come quelle dei Comuni d'Europa che ebbe in Umberto Serafini (che in questo numero ricordiamo), un infaticabile promotore. Ma è difficile pensare a questi soggetti ed agenti come quelli decisivi e non, da subito o molto presto, ai margini delle evoluzioni dell'integrazione europea, pur svolgendo importanti funzioni di pungolo. A parte, certo, il ruolo di alcuni statisti come Kohl che, in certi momenti, hanno saputo affermare la loro visione europeista d'Europa. Quanto all'europeismo come condimento retorico dell'azione dei Governi da tempo ne è nota la poca consistenza. A parte quando serve a sostenere qualche causa di interesse nazionale. Andando al cuore della visione europeista delle origini, bisogna riconoscere che vi troviamo la proposta federalista come risposta all'analisi della catastrofe europea della prima metà del Novecento, che individuava neglistati nazionali e nella loro degenerazione totalitaria il fattore decisivo della catastrofe stessa. Un'analisi che storicamente e sul piano del vissuto dei popoli europei trovava UV


molto più che una giustificazione (anche quando poi si rivelò che gli stati nazionali potevano essere anche buoni incubatori di una buona democrazia). Il vero elemento di spinta dell'europeismo come aspirazione ad una Europa unita era, tuttavia, la volontà di trasformare i rapporti fra gli stati e i popoli europei in modo che la catastrofe del Novecento non si ripetesse, volontà che trovò motivi per rafforzarsi nel periodo della guerra fredda con l'URss. Ci Si accorse progressivamente, anche per la lungimiranza di alcuni padri fondatori delle Comunità che non soltanto la proposta federale in senso stretto avrebbe potuto garantire la migliore convivenza fra le nazioni europee ma anche l'affermazione progressiva di una politica di sovranità decentrate o delegate dagli stati nazionali ad istituzioni europee. Ora, di questa volontà originaria si va appannando la memoria. Per questo si può ragionare in termini di fallimento del disegno europeista come se questo fosse sempre stato, compiutamente, un disegno federale. Sarebbe diverso il giudizio se guardassimo alla realizzazione di quella volontà. E difficile, infatti, ritenere che corra oggi per l'Europa uno spirito divisivo appena lontanamente paragonabile a quello dalla cui desolata constatazione i padri fondatori erano partiti. Ed è chiaro che l'elemento forte dell'europeismo è il processo dell'integrazione europea che non va interrotto e che, se interrotto, va ripreso. Processo che rende compatibili le riprese di spirito identitario legate alla storia geopolitica. Quando Monnet disse che bisognava creare l'Europa che non c'era (qualcuno quasi cento anni prima aveva fatto lo stesso discorso per l'Italia) e quando, alla fine delle sue memorie affermòche, se avesse potuto ricominciare sarebbe partito dalla cultura voleva dire che, malgrado la felice creazione del metodo funzionalista applicato prevalentemente all'economia, il processo di integrazione doveva muoversi su più piani anche quello dei valori e dei comportamenti. Se tutto ciò può essere chiamato ideologia, allora: evviva l'ideologia. Due avvertenze però sono necessarie. È bene guardare all'Europa con maggior ampiezza di visione liberandosi da quella che Jacques Lévy chiamava, alcuni anni fa, la "ricorrente impossibilità di vedere il mondo diversamente che con gli occhiali deformanti e appannati delle fedeltà comunitarie", soprannominandola 1" europeanité" È bene cercare di avere una sempre maggiore e coordinata conoscenza dei fenomeni sociali che attraversano il continente. A questo riguardo bisogna rilanciare un piano ampio di studi e approfondimenti. Non basta, per esempio, l'attuale impostazione di Eurobarometro per cogliere non solo le opinioni utili ai sondaggi ma i fenomeni sostanziali: europeizzazione, da una parte, la portata reale dei fenomeni identitari, dall'altra. VT


Occorre ricordare, a questo proposito, che le tante nazioni che partecipano all'Unione Europea parlano altrettante lingue diverse e ciò crea - malgrado l'esistenza dell'inglese come lingua franca - problemi formidabili che non.possono essere rimossi e vanno, invece, indagati. Alessandro Cavalli, nell'articolo Social Sciences and European Society in the making (sul n. 3-2005 di «European Review») ha sottolineato come alcune scienze sociali siano state impegnate moltissimo nel processo di integrazione europea. Per esempio, la letteratura giuridica in tutte le lingue sui vari aspetti dell'Unione Europea è astonishing. In prospettiva, ad anticipare e facilitare il processo, molte altre discipline devono essere impegnate in maniera coordinata. Insomma, è grande la sfida a cui sono chiamate le scienze sociali.



taccuino

Tra formula omnibus e boom 'del free-press. Il 'giornale" nel nostro Paese. di Barbara lannarella

"Ogni Paese ha la stampa che si merita. E questa è un'ovvietà: sa-' rebbe strano se la stampa, presa nel suo insieme, fosse profondamente diversa dal Paese in cui alligna; così come sarebbe strano se fosse profondamente diversa la classe politica' Piero Ottone in Jader Jacobelli, Check-up del giornalismo italiano, Laterza Roma-Bari 1995, pp. 110-111.

P

erché non esiste una stampa di massa, una stampa popolare in Italia? Il nostro. è l'unico Paese che; al contrario dei suoi cugini europei, 'non ha' una netta distinzione tra "popular" papers e giornali d'élite. La storica assenza dei giornali popolari nel nostro Paese è un argomento che è sempre stato sfiorato nei discorsi sulla imperitura crisi del giornalismo italiano, ma in modo frammentario e superficiale. Risulta, invece, un nodo cruciale per capire il panorama odierno dei giornali italiani e l'innegabile crisi della stampa italica, schiacciata e risucchiata sempre di più dallo strapotere della televisione. Alla luce dei grandi cambiamenti in atto nell'era dell"information society"; la progressiva e rapidissima tecnologizzazione dei media, divenuti ormai sempre più "personal" che "mass oriented", con un conseguentecrescente divario tra chi è già ricco di informazione e chi lo è sempre di meno, è importante capire dove va il giornalismo in Italia, paragonandolo con quello degli altri Paesi. Se il livello di democrazia e modernità di un Paese si misura, ancora, dalle copie di giornali

LAutrice è esperta in Comunicazione.


venduti, se è vero che "senza una stampa seria.., non esiste una democrazia matura" 1 allora è innegabile l'importanza dell'argomento che stiamo trattando, in queste pagine, e che potrebbe dare, peraltro, seguito ad interessanti dibattiti. Procedendo per ordine all'interno del nostro "discorsus" sul tema della stampa popolare in Italia, non si può prescindere dall'analizzare, prima di tutto, l'identità di natura estetica e sociologica del tabloid come medium di massa e la valutazione delle cause e degli effetti della sua assenza sul mondo dell'informazione nazionale. I quotidiani popolari, i cosiddetti "tabloids", nascono in Inghilterra nel XIX secolo come fogli della classe operaia, si sviluppano come Sunday papers, giornali . della domenica, e diventano in breve tempo i giornali più letti da un'audience di massa. Negli ultimi cento anni, l'appeal di questo tipo di stampa "popolare" non è mai diminuita, e ancora oggi, nonostante gli eccessi a cui è andata incontro (vedi Lady Diana), rimane il pane quotidiano di milioni di lettori in tutto il mondo. Il "Sun" è l'esempio più eclatante di questo potere mediatico in Inghilterra ed il primo che ha dato il via all'era del sensazionalismo e del gossip in puro stile british. "Riscattato da un allora giovane Rupert Murdoch che dai limitati orizzonti dell'Australia era partito alla conquista dei media inglesi, il 'Sun', da vecchio 'broadsheet' ormai in decadenza, inizia la sua produzione nel nuovo formato tabloid nel novembre del 1969. Dal primo giorno il Sun scelse il 'sesso' come terreno di competizione su cui 'combattere' la guerra per la circolazione con i suoi rivali, ma soprattutto come punto di forza contro il Daily Mirror. La terza pagina del Sun divenne un'istituzione inneggiante all'emancipazione sessuale, cavalcando l'onda della società permissivista degli anni Sessanta-Settanta. Ma la svolta che diede un immenso potere al Sun fu la sua conversione politica da Laburista a Conservatore e l'appoggio dato alla campagna elettorale di Margareth Thatcher che le fecero vincere le elezioni. Il giorno delle elezioni il Sun pubblicò il pezzo politico più lungo della sua storia, il cui messaggio centrale - rivolto in particolare al tradizionale elettorato labùrista era: 'Votate per i Conservatori questa volta, è l'unico modo per fermare il collasso'. La Thatcher vinse le elezioni con il 43,9% dei voti 2

Popular Press: spazzatura o ricchezza per un'opinione pubblica forte?


contro il 36,9% dei Laburisti. Ovviamente, il contributo che i giornali danno nella determinazione dell'esito delle elezioni è difficile da valutare con precisione, ma, è un fatto che Larry Lamb, (il primo direttore del più famoso dei tabloid) un anno dopo, fu investito del titolo di 'Sir' su proposta del nuovo Premier" 2 Diverso come humus sociale in cui prese piede, rispetto al tabloid inglese, ma simile nelle tecniche grafiche, nei contenuti, nel target di riferimento, ma soprattutto per il potere che ha esercitato e continua ad esercitare sull'opinione pubblica tedesca, la "Bild Zeitung" è l'altro poio da cui scaturisce il confronto sull'informazione popolare e sui suoi pregi e/o difetti. Secondo un'analisi (autoanalisi) commissionata nel 1965 dalla stessa casa editrice della testata, la Springer di Axel Springer, per spiegare il fenomeno "Bild" soprattutto al mondo intellettuale tedesco, la cosiddetta Frankfurter Schule, la "scuola" che ruotava attorno a Horkheimer e Adorno, che lo aveva duramente criticato, la Bild-Zeitung si autodefìnisce "quotidiano popolare tedesco per antonomasia". La "totale adesione" alle esigenze e aspettative del pubblico, alla realtà comune è il principio che il tabloid tedesco incarna fin dal principio. "Il nostro tempo: suonano le campane e esplodono le bombe atomiche. Vengono costruiti ponti che i flutti si portano via. Nascono eroi e prospera l'omicidio. Così è il nostro tempo, così è anche Bild. La nostra vita: una casa con molte stanze. Nell'una l'amore sensuale. Nella seconda l'odio. Nella terza un parto. Nella quarta una morte. Così è la nostra vita, così è anche Bilci. L'uomo: mai totalmente buono, mai totalmente cattivo. Mai totalmente felice, mai totalmente infelice. Così è l'uomo, così è anche Bild. Di tutto ciò parla Bild" 3 Oggi, a distanza di più di vent'anni da queste pagine, la "Bild", con i suoi 4.248.406 milioni di copie vendute (dati relativi al I trimestre 2000) è ancora il quotidiano tedesco più comprato e letto. .

.

In Italia le cose sono andate diversamente; la nascita di una stampa di massa non ha mai attecchito nel Bel Paese, anche se, negli ultimi crnquant anni di storia del giornalismo nazionale, ci sono stati vari tentativi di fare un tabloid all'italiana. Il primo è stato un famoso giornale della sera di Milano, "La Notte" di Ni-

La formula ornnibus, unanomalia tutta italiana

3


no Nutrizio, nato negli anni Cinquanta, che per molti aspetti si può considerare anche un esempio di giornale popolare: per il grande risalto che dava alla cronaca, allò sport e alla televisione e, soprattutto, per il rapporto di corrispondenza e di fiducia che si era creato con i suoi lettori. Sicuramente, l'unico esempio riuscito di "popolare" in Italia. Lo stesso tipo di rapporto che ha cercato invano "L'Occhio" di Maurizio Costanzo, il primo tentativo vero e proprio di quotidiano popolare in Italia, costruito a tavolino sul modello della "Bild Zeitung" tedesca e del "Mirror" inglese. Un tentativo, costato miliardi alla Rizzoli, in una fase molto delicata della storia della casa editrice milanese, fallito per vari motivi e con molte differenze rispetto ai "popolari" stranieri. ' Prima di tutto era nato quando la televisione in Italia, agli inizi degli anni Ottanta, era già molto forte e aveva ormai assorbito gran parte dei non lettori; inoltre, rivolgendosi ai non lettori abituali di quotidiani, considerati il target principale del tabloid, doveva essere venduto al di fuori dei luoghi tradiziònali di vendita, e non solo nelle edicole. Il fallimento de "L'Occhio" confermò 'l'ipotesi per cui, in un Paese come il nostro, dove l'informazione'sportiva era già coperta da tre quotidiani, la' cronaca rosa e il pettegolezzo dai settimanali e il resto dell'intrattenimento dai programmi televisivi, non c'era posto per un quotidiano popolare che riuscisse ad avere un mercato di massa. Ultimo tentativo di fare un tabloid in Italia, il più recente e an- L'ultimo che il più breve è stato il "Telegiornale" di Gigi Vesigna. Nato nel tabloid 1995, uscì di scena dopo soli 33 giorni. Vesigna provò a trasferire modelli e tecniche dei telegiornali in un quotidiano, ma il legame diretto con'la Tv non bastò per avere successo. "Tra giornale televisivo e giornale di qualità, la formula scelta negli anni Novanta dagli editori e direttori dei quotidiani italiani è la formula omnibus, che tiene insieme informazione alta e bassa, notizie internazionali e popolari, le opinioni degli intellettuali e dei teledivi, il mondo della finanza e del cabaret, in un mix dove la politica si mescola con il pettegolezzo, gli affari 's'intrecciano con la cultura, la cronaca gronda sangue e sesso, il costume si nutre di scandali e confidenze, mentre la televisione è il grande col4


lante. Questa formula condiziona un'informazione che non scende al livello dei popular papers americani ("Daily News") e inglesi ("Daily Mirror"), capaci di vendere milioni di copie, ma diffida del pedigree dei quality papers e di scelte alternative al modello tv per ragioni di tiratura e pubblicità. Confrontati con la maggior parte delle grandi testate straniere, i quotidiani italiani fanno l'effetto dell'equilibrista sui filo, spettacolare protagonista di un esercizio di bilanciamento fra opposte tendenze." 4 Ed è proprio la metafora dell'equilibrista sul filo evocata da Papuzzi a rendere meglio di altri l'idea dell'anomalia creata dalla formula omnibus, un prodotto di infotainment, a metà strada tra informazione e intrattenimento. Una delle tante degenerazioni di questa formula è proprio la forte dipendenza dei quotidiani dalla Tv che nel nostro Paese è il mezzo di comunicazione popolare per eccellenza e luogo deputato per la formazione dell'opinione pubblica. Siamo un Paese più di teledipendenti che di consumatori di carta stampata, con le nostre 99 copie di giornali vendute ogni mille abitanti 5 siamo lontanissimi non solo dalle quasi 600 copie della Norvegia o del Giappone, ma anche dalle 300 e più copie di Germania e Regno Unito, dalle 200 copie degli Stati Uniti o dalle 145 copie della Francia. Persino Paesi che siamo abituati a pensare meno sviluppati del nostro, come la Slovenia, la Croazia, la Polonia o la Spagna, sono davanti a noi in questa classifica. Sicuramente l'assenza dei quotidiani popolari ad alta tiratura è una delle cause della scarsa familiarità degli italiani conil consumo dei quotidiani unita ai bassi livelli di scolarizzazione media (solo un italiano su tre possiede un diploma o una laurea), l'alto livello di diffusione dei periodici, e allo scarso sviluppo dei mezzi di trasporto pubblico, luoghi d'elezione per il consumo di quotidiani. Secondo una ricerca pubblicata da Eurobarometr0 6 nel maggio 2003, dal titolo "I cittadini europei e i media", e condotta da Dg Press per Eurostat e Dg Eac, gli italiani non reggono il confronto con gli altri cittadini europei per quel che riguarda il consumo di carta stampata. Siamo, infatti, agli ultimi posti della classifica europea, sia per il numero di vendite che per la ripartizione pubblicitaria. Sul versante vendite una delle cause imputabili di questo

Il ruolo forte della TV..

e gli altri fattori ...

5


ritardo cronico può essere rintracciato nella mancanza di canali di vendita alternativi alle edicole, e nella scarsa percentuale di vendita per abbonamento (l'Italia con il suo 9% di vendita in abbonamento sui totale di copie vendute supera solo la Grecia e la Croazia), altro dato negativo che ci allontana e distingue dai nostri cugini d'oltralpe. Se la maggioranza degli italiani legge poco e male, allora la cau- Il boom sa principale di questo deficit risiede in una mancata diversifica- del frce-press in Italia zione nel nostro Paese tra giornali per 1 élite e giornali per la massa. Per dirla come il grande sociologo francese Pierre Bourdieu, (scomparso nel 2002), tra capitale culturale alto (che si riferisce e quindi caratterizza l"habitus" di una determinata classe sociale alta che generalmente lo consuma: intellettuali, professionisti, professori, manager) e capitale culturale basso (destinato ad una classe medio bassa: operai, impiegati del terziario, casalinghe). Continuando nella parabola sociologica di Bourdieu, mancando il capitale culturale riferito al gusto popolare (quello che lui chiama "estetica popolare") o, meglio, essendo in difetto la possibilità di scelta nell'offerta di prodotti culturali, come i giornali (essendo sovrana quella televisiva), non ci può essere conflitto di gusti (tra quello alto del "lusso" e quello basso dell"estetica popolare") e quindi conflitto di classi, con la conseguenza di un becero appiattimento e logorio delle menti. La cura alla malattia dell'omologazione della nostra carta stampata, forse, potrebbe risiedere, allora, nell'ondata dei giornali gratuiti che hanno invaso i metrò delle nostre città. I "neo quotidiani" come sono stati definiti, sfruttando le stazioni della metropolitana come luogo d'elezione per la lettura, ritagliata nello spaziotempo compresso del viaggio quotidiano, stanno allenando, infatti, la schiera degli italiani che prima non leggeva affatto e tra queste molti giovani, donne ed immigrati stranieri ad entrare in contatto con il giornale, questo sconosciuto. Sarà un primo passo verso abitudini di lettura più radicate nel nostro Paese? Prendendo spunto da alcune indagini statistiche effettuate nell'ultimo anno sulla diffusione dei free-press in Italia, vogliamo aprire una piccola finestra su questi nuovi inquilini nel palazzo della stampa italiana che hanno avuto, almeno, il merito di avere 6


portato una ventata di novità nel panorama editoriale nostrano e di aver creato un nuovo tipo di lettore metropolitano, come del resto accade già nei Paesi dell'Europa che risentono di una lunga tradizione democratica legata al connubio mezzi di trasportomezzi di comunicazione. Quello dei quotidiani gratuiti è un fenomeno che, secondo una ricerca dell'Eurisko, presentata il 17 febbraio 2005 a Milano e commissionata dagli editori e dai concessionari di pubblicita dei tre quotidiani City, Leggo e Metro, "si conferma come una realtà". Secondo questa ricerca, sono 1.738.00 i lettori di almeno uno dei quotidiani gratuiti nel giorno medio, con un lieve incremento, stimato in circa 100 mila. unità (erano 1.642.000), rispetto alla medesima ricerca compiuta nel 2004 e la crescita è stata definita "tendenziale" dai ricercatori che hanno comunque spiegato che "il fenomeno è importante in termini qualitativi". In sostanza, la free press, la stampa gratuita normalmente distribuita presso le fermate dei mezzi pubblici o nelle stazioni, è un media che riesce a raggiungere un pubblico che altri mezzi non riescono a coprire: viene stimato che si tratti di circa un milione di persone. Nell'analisi per sesso ed età risulta che i gratuiti sono letti più da donne che da uomini (52 a 48) e soprattutto nelle fasce d'età che vanno dai 25 agli oltre 64 anni. Il titolo di studio dei lettori è in prevalenza quello delle medie inferiori (39), seguito da elementari (29), medie superiori (25) e laurea (7). Per quel che riguarda la professione, sono in testa i pensionati (22), seguiti da casalinghe (17), operai e commessi (16), impiegati (14), studenti (10), artigiani e commercianti (9) ma ci .sono anche disoccupati (6) e imprenditori, dirigenti e liberi professionisti (3). Metro è stato il primo quotidiano free-press a mettere radici in Italia. Dopo Milano e Roma (le sue "piazze" tradizionali dal 2000, vista la presenza di reti di metrò), Metro è oggi in distribuzione in tutta la Lombardia e in altre sei città italiane: Genova, Torino, Padova, Verona, Firenze e Bologna. Il quotidiano, che fa capo ad Edizioni Metro Italia, filiale italiana di Metro International, punta a raggiungere un tetto di 900.000 lettori, e a superare la diffusione di City (distribuito a Milano, Bologna, Firenze, Ro-

Un milione di lettori perogni Iree paper


ma, Napoli e Bari), che, sempre secondo una recente inchiesta di Eurisko, ne ha 747.000, mentre Leggo (distribuito a Milano, Torino, Padova, Verona, Venezia, Bologna, Firenze, Roma e Napoli) raggiunge 1.157.000 lettori. Secondo quanto afferma la società, Metro International, che nasce da MTG (Modern Times Group), gruppo europeo leader nel mercato dei media e della comunicazione, pubblica ogni giorno 54 edizioni del giornale, distribuite in 19 Paesi e in 16 lingue differenti e risulta il quotidiano d'informazione a diffusione gratuita più letto nel mondo. "La filosofia di 'Metro' è quella di un prodotto che si legge nel tempo necessario al viaggio in metropolitana: venti, venticinque minuti. Noi, con questo nuovo prodotto editoriale, crediamo di svolgere un servizio 'sociale' perché ci rivolgiamo per il 90% ad un'utenza che prima non leggeva". Fabrizio Paladini, direttore dell'edizione romana di Metro (in una mia intervista del 2000) parlava così del suo quotidiano, spiegandoci le caratteristiche e le differenze con i quotidiani tradizionali, oltre a quello più ovvio: la gratuità. "Il principio di fondo del giornale è la completezza dell'inforUn giornale mazione - continuava Paladini - "E, infatti, non siamo dissimili completo dai giornali tradizionali. Basta sfogliare Metro per rendersene conto: c'è tutto, dalle notizie sulla politica, a quelle internazionali, la cronaca, l'economia, lo sport e gli spettacoli, con i cinema e i programmi tv. Metro è all'opposto dei cosiddetti tabloid popolari. A parte il formato, il nostro è un giornale del mattino e non della sera, non si occupa di mondanità, non cerca il pettegolezzo, non pubblica foto di donne discinte. Metro è un quotidiano tradizionale dal punto di vista della scelta e gerarchia delle notizie, non tradizionale per la lunghezza degli articoli, degli approfondimenti e degli editoriali. Le notizie sono brevi, senza commenti, senza aggettivi. Uno dei nostri slogan pubblicitari più riusciti suona così: "È successo e basta", ed è esattamente quello che noi pensiamo: diamo l'informazione senza cercare di orientare il lettore. Non abbiamo una parte politica referente e questo ci consente grande libertà di movimento". Per essere un tipo di giornale che si legge in 20 minuti, possia-


mo definire, dunque, il free-press un fenomeno editoriale di successo globalizzato e globalizzante (ed il logo distintivo del giornale è proprio un mappamondo verde), che anche in Italia ha superato ogni aspettativa iniziale. Ad oggi l'unico esempio di prodotto giornalistico ben definito che, a differenza dei tabloid, siamo riusciti ad esportare dall'estero senza fallimenti. A conclusione del nostro viaggio suiio stato di salute della no- I "big" staranno a stra carta stampata e delle sue rivoluzioni, vogliamo riportare le guardare? parole di un interessante e recente tesi di laurea in Scienze delle Comunicazioni sul boom del giornale gratuito: 1 l'evento editoriale del momento. Si chiama free press... Dinanzi all'anomalia italiana del quotidiano omnibus, rivolto indistintamente a tutte le classi sociali, il free journal si indirizza ad un target nuovo, differente. La stampa gratuita, infatti, si rivolge a quei diciotto milioni di telespettatori in cerca d'informazione, ai non-lettori finora sottovalutati e trascurati. Differenziando stile, agenda e format, la free press sta cominciando a recuperare la generazione perduta di giovani lettori... La crescente e rapida diffusione della stampa gratuita ha dimostrato da un lato, che il mercato della carta stampata non è saturo, e dall'altro, che valide strategie di marketing, intese sia come filosofia gestionale, che come interpretazioni delle necessità del lettore, sono indispensabili per il successo di una testata" 7. Si tratterà di vedere fino a che punto i big dell'editoria saranno disposti a farsi rubare copie dai pionieri della filosofia dell'informazione gratuita. "

'ANTONIO POLIT0, Cool Britannia, Donzelli Editore 1998, p. 35. 2 Estratto dalla tesi di DANIELA Di PIETRO, La stampa popolare inglese. La mo-

narchia britannica nell'immaginario collettivo, Università degli Studi di Roma La AA. 1996-97, pp. 57-75. BIRGIT RAUEN, I quotidiani "popolari": in Germania in GIUSEPPE RICHERI, Un quotidiano popolare?, Franco Angeli Editore, 1980, pp 73-8 1. ALBERTO PAPUZZI, Professione giornalista, Donzelli Editore, 1998, pp. 99-101. 5 La stampa in Italia, relazione annuale della FIEG. Ultime due edizioni relative agli anni 2004-2005. 6 Il testo integrale della ricerca è consultabile, in inglese, sul sito de!l'Eurobarometro: http://europa.eu.int/comm/public_opinion/archives/eb/ebs_1 58_media.pdf 7 Tesi di laurea di ARIANNA FABIANA DE CHIARA, Leggo City in Metro. Viaggio nel fenomeno della free press, Università degli Studi di Roma Roma Tre, AA 200 1-02. Sapienza,


queste istituzioni n. 136/137 inverno-primavera 2005

Il microcredito secondo il l Rapporto sulle esperienze italiane di SaveriaAddotta

CC

on era diversa nell'aspetto dai milioni di donne che ogni giorno lavorano dal mattino alla sera in una condizione di totale indigenza. 'Come si chiama?' 'Sufia Begum'. 'Quanti anni ha'? 'Ventuno'. Non prendevo nota delle risposte perché questo l'avrebbe spaventata; al ritorno avrei chiesto di farlo ai miei studenti. 'È suo il bambù che usa per lavorare?' 'Si'. 'Dove lo prende?' 'Lo compro'. 'E quanto lo paga?' 'Cinque taka'... equivalevano a 22 centesimi di dollaro. 'Impiega soldi suoi per comprare?' 'No, me li faccio dare dal paikar'. 'Dal rivenditore? E quali sono i vostri accordi?' 'Io gli rivendo gli sgabelli a fine giornata, così ripago il debito e quello che rimane è il mio profitto'. 'A quanto rivende gli sgabelli?' 'Cinque taika e cinque paisa'... Il guadagno di una giornata ammontava in tutto a due centesimi. 'E non potrebbe farsi prestare il denaro e comprare per conto suo il materiale?' 'Si ma quelli che lo prestano vogliono molti interessi. E quando ci si intriga con quelli, si diventa solo più poveri". Questo è uno dei racconti che Muhammad Yunus fa nel suo Il banchiere dei poveri (edito da Feltrinelli in prima edizione nel 1998 e in una edizione ampliata nel 2000). Quando si parla di Microcredito è appunto, Yunus, - economi- Dalla teoria sta del Bengala, laureatosi negli Stati Uniti, dove ha anche inse- alla realtà gnato per diversi anni - ad essere chiamato in causa per primo. Durante una terribile carestia scoppiata in Bangladesh neI 1974, Yunus si rende conto che vi sono molti uomini e donne dotati di buona volontà e di capacità lavorativa, il cui destino è comunque segnato perché privi di qualsiasi cosa. Il giovane economista realizza che tale destino potrebbe cambiare con uno strumento essenziale: un capitale, anche molto piccolo, con cui iniziare un'attività. Yunus riesce, quindi, a convincere una banca della sua regione ad aprire una linea di crediti molto piccoli (i più alti superava10


no di poco i venti dollari), riservati quasi esclusivamente alle donne, senza alcuna richiesta di garanzia e senza neppure la necessità di riempire un modulo, cosa che la maggior parte delle clienti, comunque, non avrebbe potuto fare, in quanto analfabeta. Il risultato dell'iniziativa è stato quasi sorprendente: non soltanto persone tra le più povere della Terra realizzavano attività redditizie di vario tipo - fabbricazione di sgabelli in bambù (Sufia Begum fu une delle prime persone a ricevere il prestito), vendita di focacce, coltivazione di riso, ecc. - senza ricorrere ad usurai, ma rimborsavano puntualmente i prestiti con una puntualità di gran lunga maggiore dei clienti tradizionali delle banche. Yunus era certo della solvibilità dei debiti da parte di queste persone poverissime poiché era cosciente che da quei prestiti, che potevano rinnovarsi di volta in volta, dipendeva la stessa sopravvivenza dei richiedenti. La garanzia, come dice Yunus, è la loro stessa vita. L'iniziativa ebbe molta resistenza. In una società tradizionalista Il progetto si come quella del Bangladesh - un Paese mussulmano in cui la se- sviluppa parazione tra uomini e donne è particolarmente netta - un'iniziativa, che consentiva, in particolare, l'emancipazione delle donne non poteva essere ben accolta. Il senso del microcredito è proprio nella capacità di coniugare spirito imprenditoriale e attenzione agli ultimi, e fra questi, parafrasando Orwell, "i più ultimi": le donne povere. E questo non soltanto nei Paesi asiatici, africani o sudamericani ma anche nelle nostre evolute città occidentali, come dimostrano le diverse esperienze di microcredito, comprese quelle portate avanti da Banca popolare etica nel nostro Paese, (organismo di cui abbiamo parlato su1 n. 114-115/1998 di «queste istituzioni»), nel cui Statuto, non a caso, si afferma che "il credito, in tutte le sue forme, è un diritto umano". Oggi la Grameen Bank, fondata da Yunus nel 1976 per sviluppare, appunto, la pratica del microcredito, è una banca rurale (grameen in bengalese significa contadino), una banca indipendente molto importante (è la quinta banca del Bangladesh), che concede prestiti e supporto organizzativo ai più poveri, altrimenti esclusi dal sistema di credito tradizionale. Nel tempo, molte di queste persone sono diventate anche azioniste della banca. La 11


Grameen Bank ha aperto filiali anche in altri Paesi, compresi i pii ricchi, fra cui gli Stati Uniti. Lo stesso Yunus ritiene che il successo dell'iniziativa sia dòvuto all'introduzione di una serie di regole molto rigide: a partire dalla richiesta, ai clienti, di riunirsi in piccoli gruppi (5 persone) in modo che ognuno è responsabile anche di fronte ad altri soggetti diversi dalla banca e poi per quanto riguarda il meccanismo di rimborso, che vede una restituzione di piccole somme in rate settimanali. Sull'esempio della Grameen Bank, diverse Organizzazioni Non Governative (ONG) internazionali hanno adottato, nel corso degli ultimi venti anni, programmi di microfinanza/microcredito, per integrare progetti d'intervento a sostegno dell'economia locale dei Paesi in via di Sviluppo. Sono state create, inoltre, sia in Asia, Africa che America Latina, delle Istituzioni di microfinanza specializzate nella gestione di progetti di microcredito: quali, ad esempio, Vita Microbank in Benin, Fundasol (Fundacion Uruguaya de Cooperacion y Desarrollo Solidario) in Uruguay, Financiera Calpia in EI Salvador solo per citare alcuni esempi. I programmi di microfinanza/microcredito sono di diverso tipo, a seconda delle caratteristiche del contesto locale, in quanto naturalmente tengono conto degli aspetti socio-economici caratteristici dei diversi Paesi in cui sono realizzati. In ogni caso, i programmi di sviluppo economico, soprattutto di quelli che utilizzano lo strumento del microcredito, non seguono specifiche regole nella realizzazione, in quanto non esiste una disciplina che dia indicazioni precise al riguardo In Europa e in Italia gli esèmpi di microcredito si rifanno alle esperienze di finanza etica. Nel nostro Paese queste sono state promosse, già a partire dagli anni Settanta, (ne abbiamo parlato nell'articolo su «queste istituzioni» prima citato) con le MAG (Mutue Auto Gestione), che ràccolgono risparmio dai soci per utilizzarlo in progetti nell'ambito dell'economia sociale e della cooperazione internazionale. Anche numerose ONG italiane hanno adottato lo strumento del microcredito nei loro programmi di sviluppo, ritenendolo un importante mezzo per la ridefinizione delle politiche di sviluppo economico. 12

Le altre esperienze


Come giustamente viene ricordato nel i °Rapporto sul microcre- Radici dito in Italia (edito da Rubettino nel 2005 e curato dalla c.borgo- lontane nei tempo meo&co, società fondata da Carlo Borgomeo e Marco Vitale) quello della Grameen Bank è, in realtà, il programma di credito sostenibile che ha conosciuto il maggiore successo. Il microcredito era già stato preceduto, negli anni Cinqunta, da iniziative di credito sovvenzionato ad agricoltori di aree marginali dell'Indo nesia, del Bangladesh o di alcuni Paesi dell'America Latina, ma questi prestiti sovvenzionati non avevano raggiunto il risultato sperato, poiché "esaurivano il capitale delle istituzioni che li erogavano e, spesso, non venivano restituiti". In Europa, le prime esperienze di microfinanza si hanno già alla fine dell'800 con le piccole banche di villaggio prussiane e le banche popolari in ambiente urbano, nate appunto, per sostenere le, categorie di popolazione pii svantaggiata. Dagli inizi del Novecento si sviluppano, anche in altri Paesi europei, istituzioni di tipo cooperativo e mutualistico (tipo le banche di credito cooperativo in Italia) con lo stesso scopo. Si può dire, però, che attraverso l'esperienza a cui Yunus ha dato il via nel "Terzo mondo" rifluisce in Europa, e in Italia, una nuova linfa. Il Rapporto curato dalla c.borgomeo&co (realizzato con il con- Microcredito tributo di Unicredito), distingue, a ragione, il microcredito dalla e microfinanza piu ampia microrinanza, - poicne quest'ultima « riguaraa non solo l'erogazione di credito ma anche l'offerta di alcuni servizi finanziari, come la raccolta e la gestione di'piccoli risparmi, le rimesse, ecc." - ricordando che attualmente, si occupano di microfinanza almeno quattro tipologie di soggetti: ONG, Credit Unions (cooperative finanziari), Casse di risparmio e Banche commerciali. Il Rapporto, comunque, censisce "iniziative - siano esse di microfinanza o di microcredito - finalizzate alla promozione di lavoro autonomo oi microimprese" poiché "sono certamente le pii importanti in termini sociali ed economici". Gli autori del Rapporto tentano, comunque, una definizione terminologica del concetto di microcredito, definendolo come: "l'offerta di credito che esclude il ricorso a garanzie personali, che prevede una serie di servizi di assistenza tecnica e che riguarda il 13


finanziamento di piccoli progetti con obiettivi definiti". Naturalmente, "la dimensione dei prestiti dipende dal contesto economico di riferimento", anche se "sulla base del lavoro svolto, si potrebbe immaginare un valore limite attorno ai 50.000 Euro". Il Rapporto viene presentato nel 2005, anno internazionale del L'anno del microcredito, con lo scopo, appunto di "realizzare una rassegna microcredito ragionata che consenta di 'leggere' le diverse tendenze in atto" in Italia, seguendo la chiave interpretativa di "individuare le esperienze che mirano, seppure con gradualità, ad affermare meccanismi strutturali, sottratti cioè a due rischi: da un lato produrre interventi estemporanei ed episodici... e dall'altro, limitarsi a riprodurre in Italia modalità di intervento progettate e realizzate in Paesi poveri". A proposito di povertà, il Rapporto ricorda anche l'ambizioso obiettivo che si era dato il primo vertice mondiale del microcredito, svolto a Washington dal 2 al 4 febbraio 1997: quello di raggiungere con iniziative di microcredito - appunto entro il 2005 -, 100 milioni di famiglie povere. Sebbene soltanto nel novembre 2006, quando si terrà il vertice finale della campagna, si potranno valutare i risultati finali, il dato che si registra alla fine del 2003, di 54,8 milioni di famiglie raggiunte, non fa ben sperare circa il raggiungimento dell'obiettivo stabilito nel 1997. Non a caso, i promotori della campagna stanno discutendo della possibilità di prolungarla fino al 2015, ampliando l'obiettivo a 150 milioni di famiglie, in modo da contribuire al progetto lanciato dall'ONu nel 2000, il Millennium Development Goal, con diversi scopi tra cui quello di dimezzare (appunto entro il 2015) il numero di poveri nel mondo. L'obiettivo appare ancora più ambizioso e, per questo, irraggiungibile, ma dimostra di quante aspettative si investa il microcredito. Per quanto riguarda il nostro Paese, gli autori del Rapporto fan- Il contesto no la scelta di analizzare, in particolare, strumenti quali il cosid- italiano detto "prestito d'onore", introdotto dalla Legge 608 del 1996, - a cui viene dato ampio spazio, in quanto ritenuto "la più grande operazione di microcredito in Europa" - e, in generale, programmi che sostengono: 1) studenti (universitari e post laurea); 2) attività di impresa o lavoro autonomo; 3) fabbisogni finanziari indi14


stinti. Le iniziative presentate sono state promosse sia da enti privati, profit (es. da banche) e non profit (fondazioni e associazioni, soprattutto) che enti pubblici, soprattutto locali (Comuni, Province e Regioni). In Italia, le esperienze di microcredito "sono riconducibili ai prestiti per il consumo, per lo studio, per il sostegno all'autoimprenditorialità... ma indubbiamente, la questione più rilevante dal punto di vista economico e sociale è quella riferita al credito per quanti vogliono mettersi in proprio" poiché cresce "la propensione verso il lavoro autonomo". I dati rilevati dal Rapporto "rimandano ad un numero di operazioni pari a circa 8.000 e ad un volume di prestiti pari a oltre 75M di euro". Diversi sono i soggetti promotori, mentre la distribuzione è concentrata nel centro-nord. La ricerca rileva "una scar sissima attitudine ad accompagnare i prestiti con servizi di assistenza tecnica" ed "una pressoché nulla attenzione a verificare i risultati degli interventi". Per gli autori del Rapporto, sarebbe necessario "realizzare uno sforzo per rendere il microcredito un prodotto ordinario del no,, , . stro sistema creditizio , promuovendo « 1 assunzione di ruolo e di responsabilità delle banche in questo settore, con sperimentazioni e procedure innovative, sia sul versante delle garanzie sia su quello, più difficile, dei costi". A proposito viene ricordata come esperienza che può servire da modello una recente iniziativa della Regione Marche "che ha avviato un programma di microcredito rivolto a disoccupati, immigrati e donne, prevedendo che i prestiti siano concessi da un istituto di credito, da individuare con apposita gara, e finanziando i servizi di promozione, istruttoria, tutoraggio e monitoraggio con propri fondi". Nel modello del microcredito i diversi soggetti coinvolti hanno un ruolo attivo, diverso in base alle proprie capacità. Se quello al credito è un diritto, questo deve corrispondere, più che a un dovere, (come avrebbe detto Simone Weil) a un obbligo: di ciascuno secondo il suo ruolo. È questo che deve aver pensato Sufia Begum nel restituire il piccolo prestito dopo aver venduto i suoi sgabelli.

11 microcredito come prodotto ordinario

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queste istituzioni n. 1361137 inverno-primavera 2005

Il professor Serafini, Umberto. di Gabriele Panizzi

Umberto Serafini ci ha lasciti lo scorso 22 settembre 2005. Come è noto ai lettori di questa Rivista, Serafini è stato nostro collaboratore per molti anni, partecipando attivamente anche agli incontri di Cortonz. Teniamo a ricordare alcuni suoi vivaci interventi sulle pagine di queste istituzioni: "La nascita della partitocrazia italiana e il Movimento Comunità" (n. 92 del 1992); "Gentile e il francobollo" (n. 94 del 1993; "Qualche noti cina sul federalismo" (n. 106-107 del 1996); "L'anarco-autonomismo e ilfederalismo' (n. 113 del 1998) e "Ilfederalismo: uso e abuso" (n. 121 del 2001). La Rivista conti nuerà, naturalmente, ad occuparsi difederalismo: ci sembra il modo migliore per continuare a fare camminare le idee del nostro Umberto, anche perché sono in parte le nostre.

C

onobbi il professor Umberto Serafini nel 1954, quando avevo 16 anni. Lui ne aveva 38. L'occasione fu il Movimento Comunità, quello di Adriano Olivetti, perché a Terracina era stato costituito un Centro Culturale di Comunità, al quale avevano aderito molti giovani (ed io tra questi). Renato Brugner (l'ingegnere svizzero, scampato per caso all'eccidio delle Fosse Ardeatine), Massimo Fichera (Segretario del Centro Culturale di Comunità di Roma), Giuseppe Motta (già Capo Ufficio Stampa del Ministro Romita ed allora a fianco dell'ingegner Adriano Olivetti), Riccardo Musatti (quello de La via europea del sud) ed il professor Serafini erano i nostri riferimenti per un'azione di rinnovamento della cultura e della politica locale, a partire dall'impegno sociale, congelate dallo scontro tra Dc e Pci, con il Psi sostanzialmente idéntificato nel Pci ed il PRI rappresentativo (soprattutto ai nostri occhi giovani) di interessi troppo conservatori. Noi eravamo un gruppo di giovani terraciL'Autore è Membro della Direzione Nazionale AIccRE e Segretario Sezione Movimento Federalista Europeo, Roma. 16


nesi riuniuti intorno al professore di filosofia del nostro Liceo Scientifico "Leonardo da Vinci", Diego Are, di Santulussurgiu, che aveva conosciuto il professor Serafini al Centro Culturale di Comunità di Roma, partecipando alla organizzazione del convegno "Abolire la miseria. Per un fronte di r/rme e di lotta popolare contro il bisogno", 1954, e del ciclo di discorsi su "Laicismo e non laicismo", Edizioni di Comunità, 1955) Sentimmo, allora, parlare di cose per noi, provinciali e giovani, nuove, che il professor Serafini scavava tra i suòi ricordi, ancora vivi, della prigionia egiziana ed indiana (quest'ultima fu per lui occasione di approfondimenti di alcune tematiche già affrontate durante gli studi alla Normale di Pisa, nella metà degli anni Trenta, e di tematiche nuove, ad esempio, l'urbanistica, grazie all'incontro con Ludovico Quaroni) ovvero traeva dalla sua cultura filosofica e dai fondamentali scritti dell'ingegner Adriano (in primis, "L'ordine politico delle comunità. Le garanzie di libertà in uno Stato Socialista ", Nuove Edizioni Ivrea, 1945) e dalla recente (gennaio 1953) "Dichiarazione politica" del Movimento Càmunità ('Tempi nuovi metodi nuovi"), alla elaborazione della quale aveva partecipato: la libertà della persona umana; la radicale critica del fascismo, compreso il severo giudizio su Giovanni Gentile (si veda, a proposito, l'articolo di Serafini, Gentile e il francobollo, sul n. 94 di questa rivista); il concetto di pace legato alla traduzione istituzionale di Immanuel Kant; il federalismo integrale (dalle autonome comunità a misura d'uomo agli Stati Uniti d'Europa, compresi gli aspetti relativi alla struttura proprietaria ed a quella economica, intrecciati con l'architettura istituzionale e delle rappresentanze democratiche e frnzionali); il "Manifesto per una Europa libera ed unita" (Manifèsto di Ventotene); la battaglia concreta per l'Europa federale (ancora non era caduta la Comunità Europea di Difesa, ma il professor Serafìni nutriva alcune perplessità in quella fase finale del processo che si concluse negativamente con il voto dell'Assemblea nazionale francese il 30 agosto 1954). Già era difficile per noi ragazzi capire le cose che ci venivano raccontate (nonostante gli sforzi del professor Are, che ci riuniva nella sua casa di Terracina per illustrarci le finalità del Movimento Comunità). A queste difficoltà si aggiungeva l'atteggiamento

Cose nuove

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intellettualmente rigoroso e (all'apparenza) burbero del professor Serafini. Ai rari incontri terracinesi con i comunitari, seguì, nel dicembre 1954-gennaio 1955, un soggiorno canavesano e torinese, al quale partecipammo in più di venti, e, nel luglio 1955, nel Canavese, un seminario per quadri del Movimento Comunità. Soprattutto nelle calde giornate eporediesi e canavesane, di nuovo ascoltammo e cercammo di apprendere le lezioni del professor Serafini. Cominciavo ad avvicinarmi con attenuato timore alle tematiche che il professore delineava, con i suoi discorsi logicamente strutturati ed ineccepibili (a me così apparivano) e caratterizzati da quella organicità ed interdipendenza concettuale che nei suoi scritti si traduceva in un periodare lungo, denso di punteggiatura e di parentesi (e, quindi, per chi era alle prime esperienze intellettuali, come me, non di immediata comprensione). Era il periodo in cui la sede dell'AiccE (la Sezione' nazionale italiana di una organizzazione sopranazionale europea - il Consiglio dei Comuni d'Europa -, come il professore preferiva chiamarla) era in Via Lombardia, 30, a Roma, vicina alla sede del Centro Culturale di Comunità, in Via di Porta Pinciana, 6. Il professor Serafini era Segretario dell'AIccE (aveva fondato, insieme ad altri federalisti europei, nel gennaio 1951, a Ginevra, il CcE) ed autorevole sollecitatore ed attore delle importanti iniziative, politiche e culturali, che avevano luogo nel Centro Culturale di Comunità (ricordo i tentativi del professor Serafìni di catalizzare la riunificazione socialista eravamo nel 1956 - anche attraverso la collaborazione con un'altra autorevole personalità socialista ed europeista, Mario Zagari). Il professore partecipava con intensità anche alle battaglie locali, politiche ed amministrative, come esponente di rilievo del Movimento Comunità. Fu Consigliere comunale a Vidracco, nel Canavese, e, dopo molti anni, sempre nel Canavese, a Strambinello (non a caso, privilegiava i piccoli Comuni). A Terracina intervenne, tra l'altro, a difesa della autonomia della politica dalla religione, in una vicenda che aveva visto noi giovani comunitari attacca'ti dal Vescovo attraverso le omelie domenicali che i parroci declamavano nelle chiese, durante la campagna.elettorale per il rinnovo del Consiglio Comunale. 18

Le lezioni del Professore

...e l'impegno politico


Tuttavia, del 1956, il mio ricordo migliore, è quello dei III Stati III! Stati generali del Consiglio dei Comuni d'Europa. Il professor Serafini generali i dell'AICCE tu relatore poiitico in queiia importante manirestazione europea (Francoforte sul Meno, 5-7 ottobre 1956), e svolse una mirabile relazione ("I Comuni e l'Europa di domani") che ancora oggi potrebbe costituire un testo di riferimento per le battaglie federaliste europee. Il professore "prese le mosse dalla seconda rivoluzione industriale, che ci sovrasta, e dall'affermazione che la politica ora si svolge nella misura dei continenti, e che se si vuole una politica comune europea occorrono le istituzioni corrispondenti. Il relatore fece, quindi, una disamina dei problemi politici che attualmente tormentano gli Stati nazionali d'Europa, per dimostrare che soltanto sul piano europeo questi problemi possono trovare adeguata soluzione: viceversa si tenta di costruire l'Europa attraverso strumenti inadeguati, e per questo ilcammino è così lento. Serafìni ha quindi attaccato Chaban Delmas, ricordando il suo comportamento anti-europeo al Parlamento nazionale francese; ma non ha risparmiato gli atteggiamenti nazionalistici di responsabili politici italiani e tedeschi, che pur si dicono europeisti. Ha quindi concluso che il progresso verso gli Stati Uniti d'Europa è un progresso verso il federalismo integrale, che da una parte vedrà la realizzazione della Comunità politica sopranazionale e dall'altra il nuovo rigoglio di istituzioni locali a misura d'uomo". (Da «Comuni d'Europa», n. 11, 15dicembre 1956). Dopo Francoforte, ricordo le approfondite discussioni circa il significato e l'importanza (dal punto di vista della costruzione degli Stati Uniti d Europa) dei Trattati di Roma, che furono firmati il 25 marzo 1957. Il professor Serafini tornò, ancora una volta, nel nostro Centro di Terracina a ragionare sul Jirnzionalismoe sul federalismo (costituzionalismo) europei, per farci capire come, nonostante le necessarie riserve federaliste, fosse utile sostenere i Trattati (egli riteneva che, sulla base di essi, si sarebbe potuta sviluppare una battaglia autenticamente europea. Di diverso avviso era, allora, Altiero Spinelli). In quegli ultimi anni Cinquanta le mie frequentazioni romane

"Funzionalismo e federalismo

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del professore furono numerose (dalla fine del 1956 mi ero trasferito a Roma per gli studi di ingegneria), tra AICCE e Centro Culturale di Comunità, ove Massimo Fichera proseguiva l'azione culturale e politica iniziata nei primi anni del decennio. Nel 1958 vi furono le elezioni politiche, con la partecipazione del Movimento Comunità nella lista Comunità della cultura degli operai dei contadini d'Italia. L'impegno del professor Serafini fu notevole. Il Movimento Comunità, per l'occasione, ripubblicò (Napoli, 1958), in un libricino con la copertina verde, "La via comunitaria del socialismo" di Umberto Serafini, scritto nel 1956, con "la sola aggiunta finale di una postilla ('Una questione meridionale europea?')", nella quale Serafini così concludeva: "Vi è da aggiungere, per altro, che l'unità politica dell'Europa necessariamente sarà ottenuta a spese dei nazionalisti e dei colonialisti: pertanto essa, se non arriverà troppo tardi, ed essa sola, aprirà serie possibilità per la costituzione di una Federazione euro-africana. Nessuno ignora il grande avvenire che si pronostica per il Sahara: e non si deve tacere il decisivo peso politico che una Federazione euro-africana avrebbe nell'assetto mediterraneo e medioorientale. In ogni caso, nel Mare Mediterraneo si verrebbe a trovare il baricentro di una zona di straordinario sviluppo economico, fra le più importanti nel mondo: mentre l'Africa, oltre che dal punto di vista della produzione, dovrebbe diventare assai rilevante come mercato di consumo. Le conseguenze, di portata incalcolabile, per il Mezzogiorno d'Italia (e per tutta l'Europa meridionale) si intuiscono facilmente". L'insuccesso del Movimento Comunità nelle elezioni del 1958 e la successiva morte dell'ingegner Adriano (27 febbraio 1960) indussero il professor Serafini a dedicarsi con rinnovato impegno alle questioni europee, attraverso l'AiccE ed il CcE, per sviluppare l'idea del "fronte democratico europeo" e darvi corpo. A tal fine, particolarmente esaltanti furono, nell'ottobre 1964, i VII Stati generali dei Comuni e dei Poteri locali d'Europa: "Per l'Europa dei popoli", "Il più grande congresso democratico europeo di ogni tempo... sotto il segno della Resistenza europea" («Comuni d'Europa», n. 10, ottobre 1964). 20

La partecipazione alle elezioni

IVI! Stati generali


"Il congresso di Roma non ha mancato di ribadire con estrema chiarezza il serso della battaglia per gli Stati Uniti d'Europa nel contesto internazionale. Tre fini si disegnano al di sopra di tutti gli altri: 1) dare un contributo decisivo alla costruzione della pace (dall'equilibrio del terrore alla Comunità mondiale); 2) dare un contributo, parimenti decisivo, al problema, anch'esso tragico, della fame nel mondo (nel cosiddetto 'terzo' mondo); 3) costruire, a misura continentale, una democrazia esemplare, che adegui gli istituti tradizionali di libertà alla società nucleare ed elettronica, fermo rimanendo che la persona umana deve essere fine e non mezzo in qualsiasi comunità non patologica (una democrazia postcapitalista e postcomunista, si potrebbe dire con una definizione alquanto sbrigativa). Non limitarsi, dunque, a unire l'Europa e a costruire - in senso formale - una democrazia sopranazionale: non siamo più ai tempi di Jay, di Madison, di Hamilton. Nel momento di portare alla vita la costruzione federale si presenta a noi la grande e irripetibile occasione di dare un volto alla nuova Europa. Una Europa, di cui sono negazione la disoccupazione e la sottoccupazione, ma anche la mancanza di una democrazia del lavoro, di una autentica democrazia locale, di una difesa istituzionale dei consumatori, il prevalere delle esigenze della produzione (e degli interessi costituiti) su quelli della cultura, il prevalere di una classe politica 'chiusa' (oligarchia), il dislivello crescente fra Regioni ricche e surchargèes e Regioni povere, la morte della campagna e l'avanzare delle megalopoli, che - secondo l'espressione di un famoso urbanista - sono piuttosto necropoli. In questa radicale lotta contro ogni monopolio in Europa - lotta che deve vedere, appunto, un fronte di tutti i democratici avvertiti e coerenti - un avamposto spetta al Consiglio dei Comuni d'Europa: siamone fieri, ma sappiamo ricavarne la coscienza precisa delle nostre responsabilità". (<Comuni d'Europa», n. 10, ottobre 1964). Attraverso l'azione per il "fronte democratico europeo" si ri- Il "fronte composero anche alcune incomprensioni con Altiero Spinelli (il democratico professore me lo fece conoscere nel 1965, quando Altiero dirigeva europeo l'Istituto Affari Internazionali, allora costituito con il concorso della Fondazione Adriano Olivetti).. Gli )U Stati generali di Vienna (1975), ai quali Altiero Spinelli partecipò come Commissario 21


CEE, con la rivendicazione delle elezioni europee e con la indicazione che il Parlamento europeo eletto debba operare come Assemblea Costituente, costituirono l'occasione per rinnovare la solidarietà tra i due personaggi, con un preciso impegno di lotta federalista (nel 1979 vi furono le prime elezioni a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo. Altiero Spinelli fu eletto e sviluppò l'azione che si concluse il 14 febbraio 1984 con l'approvazione, a larga maggioranza, del «Progetto di Trattato che istituisce l'Unione europea"). Il professor Serafini, dopo la morte di Adriano Olivetti, aveva perseverato nell'azione politica e culturale condotta insieme all'ingegner Adriano, approfondendo il pensiero di questi in diverse occasioni, a partire dal ricordo che ne fece su Comuni d'Europa, n. 3, marzo 1960 (Ci ha lasciato uno dei più grandi Maestri del federalismo integrale. Adriano Olivetti). Meritano di essere ricordati anche: la commemorazione ("Adriano Olivetti e le dottrine politiche") che il professor Serafini tenne al Teatro Giocosa di Ivrea nel secondo anniversario della scomparsa dell'ingegnere; "Il socialismo personalista e comunitario di Adriano Olivetti" (10 gennaio 1980), "L'utopia razionale di Adriano Olivetti" (Mondoperaio, giugno 1986) e "La comunità di Adriano Olivetti e il federalismo" (Comuni d'Europa, marzo 1993).

I saggi su

Costituita, nel 1962, la Fondazione Adriano Olivetti, il professorene assunse la Presidenza (a partire dal 1982 ne è stato Presidente onorario). Tra le diverse iniziative della Fondazione va ricordata la ricerca sul tema "Le implicazioni sociali e politiche dell'innovazione scientifico-tecnologica nel settore dell'informazione": una iniziativa culturale con la quale la Fondazione, a dieci anni dalla morte dell'ingegner Adriano, lo volle ricordare al di fuori di ogni intento celebrativo. Fu svolto (nel 1971) un seminario internazionale, i cui atti furono pubblicati dalle Edizioni di Comunità (1973) in tre volumi sotto il titolo "Razionalità sociale e tecnologie della informazione Scrisse il professor Serafini nella presentazione dei volumi: "mettemmo l'accento sull'urgenza - nell'era della cibernetica, della

La presidenza

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Olivetti

della Fondazione


strategia nucleare, ecc. - di un rinnovamento e. quindi adeguamento delle istituzioni politiche in senso garantista, ben sapendo per altro - che il garantismo opera effettivamente, di volta in volta, contro il tiranno o contro il riformatore: ma accanto alla preoccupazione della divisione, dell'articolazione, della frantumazione del potere, pubblico e privato, non ci sfuggiva l'altra urgenza, quella di studiare una reale partecipazione democratica a un mondo che ormai vive di previsioni e di programmazione, per altro usate largamente in senso autoritario o settoriale o nazionalista. Insomma, la nostra inclinazione verso il federalismo integrale e la nostra comprensione avant lettre della funzione storica della contestazione si muovevano per altro nella piena consapevolezza del contesto della società attuale; 'tecnetronica' come taluno la chiama... Quel che desidererei maggiormente sottolineare è che la Fondazione, che si intitola ad Adriano Olivetti, vuole sviluppare o quanto meno verificare nella maniera meno scolastica possibile e, certamente, senza intenzioni celebrative il suo pensiero politico e le sue proposte di 'ingegneria istituzionale'. Sono passati diversi anni da 1945, anno in cui uscì L'ordine politico delle Comunità... eppure siamo convinti che una serie di intuizioni olivettiane restino valide e feconde. Il sottotitolo del libro, vale ricordarlo, era delle garanzie di libertà in uno Stato socialista e - avverso al capitalismo privato e a quello di Stato - l'autore postulava un suo tipo di socializzazione federalista dei mezzi di produzione. Attentissimo a tutti i progressi della tecnica e non disposto a rifiutarla nella teoria dopo essersene servito nella pratica, Olivetti era per altro un nemico irriducibile e razionale della tecnocrazia e del corporativismo, da qualsiasi regime siano formalmente coperti... Quando Adriano Olivetti chiede la simultaneità della programmazione economica e della pianificazione del territorio, rifiuta una razionalizzazione unilaterale della produzione industriale - col tipo di società consumista, che ne è la fatale derivata - e cerca invece una istituzionalizzazione politica, che ponga il cittadino in condizione di operare scelte globali per sé e per il complesso sociale in cui vuole vivere". Il professore, dopo l'insuccesso elettorale del Movimento Comunità del 1958, non aveva, tuttavia, trascurato di contribuire al dibattito circa i principi informatori del Movimento. In una lettera

Il ruolo nel Movimento Comunità

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del 28 novembre 1958 egli riprende la delicata questione del "fondamentale equilibrio tra il principio territoriale e locale, delle comunità, e il principio 'verticale' degli ordini politici: i quali... rappresentano non istanze tecniche o interessi sezionali, ma sintesi in funzione di vere e proprie radici spirituali (o momenti essenziali della persona umana)", per affrontare con l'ingegner Adriano Olivetti, Massimo Fichera, Giuseppe Motta ed altri la questione delicata della destrà e della sinistra e del ruolo dei partiti politici (sono necessari ulteriori approfondimenti rispetto all'ordine politico delle comunità dell'ingegnere). La questione del ruolo dei partiti in una società democratica, che trova però altri momenti attraverso i quali i cittadini possano manifestare la propria idea di societa e battersi per realizzarla viene affrontata dal professor Serafini anche attraverso la partecipazione al dibattito politico nazionale, con particolare riferimento alle vicende dei socialisti. Egli, tra l'altro, nel 1968, in occasione del Congresso del Partito Socialista unificato, concorre alla elaborazione dei contenuti della componente socialista denominata "Impegno socialista", che aveva in Antonio Giolitti il rappresentante di maggior evidenza. Le battaglie interne al Partito non sortirono grandi risultati.

Il ra?porto COfl 1

socialisti

Anche approfittando della mia elezione al Consiglio regionale ... e con le Regioni del Lazio (1975), l'AiccRE intensificò i rapporti con le Regioni. A Roma, il 29-3 1 marzo 1979, organizzata dal Cci (Aicc) e dalla Regione Lazio, si svolse la conferenza internazionale su: "Le Regioni per la nuova Europa. Dalle Regioni periferiche dell'Europa l'impulso per un equilibrato processo di sviluppo". Gli anni Ottanta sono caratterizzati, nella mia memoria dei rapporti con il professor Serafini, dalla celebrazione (Ventotene, 10-11 ottobre 1981), del XL anniversario del "Manifesto di Ventotene"; dal XII Congresso nazionale del MFE (Cagliari, 2-4 novembre 1984), al quale il professore dedicò un inserto speciale di Comuni d'Europa (n. 2, febbraio 1985) con il suo articolo "Uno storico congresso, su misura per il frorte delle autonomie e in vista di un Fronte Democratico'Europeo"; dalla riunione del Comitato Direttivo del Ccr&i, ospitata dalla Regione Lazio (30 no24


vembre 1984), incentrata sul Progetto di Trattato per l'Unione europea, dalla conferenza Le Regioni per i Unione europea: una sfida per la IV legislatura regionale" (Roma, 18-19 marzo 1985), promossa dalla Regione Lazio di intesa con la Sezione italiana del Ccrt. A Ventotene (la Regione Lazio, il Movimento Federalista Europeo e l'Aicci, insieme al CIME, all'AEDE ed al CIFE, avevano assunto l'iniziativa) si incontrarono, tra gli altri federalisti, Umberto Serafini, Altiero Spinelli e Mario Albertini. La celebrazione della ricorrenza provocò la decisione di avviare una azione formativa sui temi del federalismo che si concretizzò attraverso apposite leggi regionali. Dopo la morte di Altiero Spinelli (23 maggio 1986), fu costituito l'Istituto di studi federalisti allo stesso intitolato 0 luglio 1987), per iniziativa della Regione Lazio, del MFE, dell'Aicca, dell'AEDE, della Fondazione Lucianò Bolis, della Provincia di Latina e del Comune di Ventotene. Finalmente interruppi la mia riluttanza, per rispetto ad una persona che ho ritenuto e ritengo di qualità superiori, a chiamarlo semplicemente, come egli mi aveva esortato a fare, Umberto. Umberto, nel 1982 (Officina Edizioni),- pubblicò i! libro: "Adriano Olivetti e il Movimento Comunità. Una anticzazione scomoda un discorso aperto , che mi regalo con questa dedica: a Gabriele, a cui ho consegnato il testimone, perché - giovane e bravo - lo porti, prima e meglio di me, al traguardo di tappa. 6III282. Umberto". Nel volume si susseguono e si intrecciano i temi e le battaglie per i quali Umberto si è impegnato durante la sua vita e che ne hanno fatto un personaggio scomodo. Al termine del 1991 scrisse interessanti pagine, indirizzate a Giovanni Vigo, Segretario del MFE, come "Contributo di Umberto Serafini per la Conferenza organizzativa" dei federalisti, che si svolse a Tirrenia (Pisa) il 25-26 aprile 1992, "perché vorrei che si capisse che io non improvviso la proposta di una svolta del movimento federalista, ma proseguo ancora dopo quarant'anni e più il tentativo di verificare come da un atteggiamento elitario si possa passare a un movimento popolare, che non persuada ma costringa: questo senza cadere nell'errore del partito federalista (che oltretutto sarebbe una scelta pesantemente riduttiva)". Da quelle

Umberto e la sua anticipazione scomoaa

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pagine si evince, sulla base della ricostruzione settica di una serie di eventi che lo videro partecipe ed attore, il suo incrollabile convincimento che la costruzione europea o sarà basata sulla consapevolezza dei cittadini europei, attraverso iniziative che competono in primo luogo ai federalisti, ovvero non avrà successo. Nel fascicolo n. 92 (ottobre-dicembre 1992) di ((queste istituzioni», Umberto torna sul tema de La nascita della partitocrazia italiana e il Movimento Comunità: "Dalla battaglia contro la partitocrazia dobbiamo passare alla battaglia per la liberalizzazione dei partiti, nell'universale quadro federalista. Il potere deve rigorosamente cercarsi al servizio delle idee, anche se nessuno vuoi trasformare i partiti in clubs di predicatori". L'ultimo contributo organico di Umberto al dibattito europeo è costituito dalla "Breve storia dei Consiglio dei Comuni e delle Regioni d'Europa nel quadro di due secoli di lotta federalista" (1995): "Nei quadro di questa grande associazione europea, il Cciu - senza dubbio là più grande ed estesa, in latitudine e in profondità, associazione democratica europea -' ogni 'quadro di base' ha di solito la sensazione che la più periferica e sconosciuta delle sue iniziative è una nota di una sinfonia, per la quale lavoriamo tutti insieme e simultaneamente... Forse questo ci ha indotto a scrivere questa storia sintetica seguendo un filo rosso, che dovrebbe dimostrare non solo quale sia stato il nostro contributo, tra i massimi, alla lotta per la Federazione europea, ma quanto occorra che la giovane generazione europea degli amministratori, quella che crede in certi valori - e c'è -, aderisca massicciamente a questo sforzo, di cui c'è gran bisogno, perché la lotta federalista è ancora tutta da combattere. Questo breve testo, dunque, è una 'memoria storica' utile soprattutto per creare consapevolezza ed incitare all'azione" (dalla Prefazione alla Breve storia ... ).

Un discorso aperto

Tuttavia, anche in "La mia guerra contro la guerra" (Europea Editrice, gennaio 2002), ove figurano le puntate che erano apparse su Comuni d'Europa ed ove riecheggiano alcuni temi già trattati ne "I libri e il prossimo" (Passigli Editori, 1991), si trova quell'itinerario che si snoda attraverso gli eventi del XX secolo che Umberto ha percorso con coraggio e con coerenza e con la

Un maestro fondamentale

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capacità di prevedere i problemi, grazie alla organicità del suo approccio alle tematiche complesse della nostra epoca, delle quali riusciva a cogliere le fondamentali interdzpendenze che dovrebbero suggerire strutture, strumenti e metodi di governo adeguati, nel rispetto della libertà delle singole persone umane, finalizzati al perseguimento degli interessi generali dei cittadini. Umberto resta per me un maestro che, con il quotidiano esercizio della intelligenza, della ragione, della coerenza e della tenacia, ha saputo concorrere, soprattutto attraverso il Cci, l'AiccRE e Comuni d'Europa, nell'ambito della forza federalista, a non far dimenticare le finalità di un disegno politico ed istituzionale (la Federazione europea come momento di una più vasta organizzazione federale), dall'attuazione del quale dipenderà il passaggio dalla tregua armata alla organizzazione planetaria capace di assicurare la pace. Un'avvertenza, per concludere. Ho scritto quello che, quasi immediatamente la sua scomparsa, ricordo di Umberto, per aver vissuto direttamente gli eventi che ho raccontato. Nei circa cinquanta anni durante i quali ho conosciuto Umberto, molti altri sono stati gli eventi ai quali insieme abbiamo partecipato:. ad esempio, gli Stati generali del CcRE di Londra (1970), di Madrid (1981), di Torino (1984), di Berlino (1986), di Glasgow (1988), di Lisbona (1990); numerose riunioni degli organi direttivi del Cc1.E e dei socialisti europei. Tuttavia, ritengo, che già, quelli 'sopra. raccontati possano essere riferimenti sufficienti per capire la complessità e la ricchezza del pensiero e della umanità di Umberto. Altri che, come me e più di me, abbiano avuto il privilegio di operare insieme ad Umberto, potranno arricchire il quadro, affinché si possa comporre una complessiva sintesi dell'opera di Umberto, utile per chi, dopo di lui e dopo di noi, voglia continuarla.

Una

battaglia da continuare

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queste istituzioni n. 1361137 inverno-primavera 2005

Cittadinanza e immigrazione. Europa e USA a confronto di Enrico Caniglia

U

n aspetto che colpisce del dibattito politico contemporaneo è il carattere problematico che hanno assunto i concetti di nazione e di cittadinanza. In passato, le due espressioni indicavano fenomeni politici la cui natura era ovvia per tutti, data per scontata, insomma fondamentalmente aproblematica, come dimostrava anche la diffusa tendenza a sovrappone semanticamente, ad usarle scambievolmente quasi fossero due sinonimi che indicassero la stessa cosa: la nazionalità coincideva con la cittadinanza e viceversa. Da un p0' di tempo a questa parte, iloro significati tendono non solo a divaricarsi ma anche a essere oggetto di una profonda valutazione critica. Oggi siamo diventati sempre più consapevoli che la nazionalità indica l'identità di un determinato gruppo organizzato politicamente in uno specifico Stato, mentre la cittadinanza designa l'incorporazione legale di un individuo in uno Stato. Le due cose non sempre coincidono, in quanto si può possedere l'identità nazionale di un certo Stato ma essere incorporati legalmente in un altro. Non solo. Si può trascorrere tutta la propria vita in uno Stato, beneficiarne dei diritti e anche caricarsi di certi oneri, senza averne né l'identità nazionale né la cittadinanza, insomma esserne membri senza tuttavia averne i titoli politici e legali - una situazione di appartenenza senza cittadinanza che viene indicata in lingua inglese con l'espressione denizenshzp. Dalla constatazione -empirica che questa La è sempre più spesso la situazione di molti individui che vivono denizenship nelle democrazie occidentali prende le mosse un certo sguardo critico verso la cittadinanza nazionale. Come istituzione preposta a regolare la formazione della membership dello Stato la cittadinanza sta mostrando tutti i suoi limiti. Questa "rivoluzione" è il risultato dell'incremento esponenziale

Enrico Caniglia è ricercatore di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Perugia. 28


dei flussi immigratori verificatosi negli ultimi cinque decenni L'immigrazione è un processo che mette in discussione l'ossatura storica dello Stato moderno in quanto ne sfida sia alcuni dei suoi aspetti costitutivi - l'omogeneità nazionale, la suddivisione della popolazione mondiale in un sistema internazionale di Stati indipendenti, e così via - sia le capacità di controllo dei suoi confini geografici e simbolici. La fine dell'equivalenza tra nazione e cittadinanza non sarebbe altro che il riflesso della crisi, dello Stato-nazione innescata dai processi immigratori contemporanei. L'esito di questi processi di trasformazione è stato riassunto con l'espressione "cittadinanza postnazionale", con cui si vuoi mettere in rilevo come occorre ormai passare a una forma diversa di cittadinanza, in cui l'identità nazionale smetta di costituire il presupposto essenziale per l'acquisizione dello status di cittadino (Soysal 1994; 1998). Per chiarire meglio questa faccenda è opportuno procedere con Nazione e l'analizzare meglio il significato del concetto che costituisce il fo- cittadinanza cus polemico del dibattito: la nazione. In termini molto generali, la nazione può essere definita come quel "noi" collettivo a cui "appartiene" un certo Stato. Tale soggetto "nazione" va però inteso come un "progetto" collettivo piuttosto che come un fatto "naturale". Come in tutti i gruppi di grandi dimensioni, anche l'identità collettiva espressa dalla "nazione" non può che essere un'identità immaginata (Anderson 1996) o meglio "realizzata" attraverso tutta una serie di pratiche rituali e culturali - celebrazioni di festività nazionali, elaborazione di una lingua nazionale, creazione di un dibattito pubblico nazionale attraverso un sistema di giornali e Tv esteso su tutto il territorio, e così via. Ragion per cui, l'obiettivo dello studioso non è tanto quello di rintracciare l'origine naturale della nazione o, al contrario, di svelarne il carattere socialmente "costruito", quanto piuttosto quello di analizzare i diversi modi di immaginare l'identità nazionale, oppure di assumere l'identità nazionale non tanto come una proprietà naturale degli individui quanto come l'esito di un processo sociale di identificazione collocato nel tempo e nello spazio (Brubaker 1998; Berezin 1998) 1 In generale si possono rintracciare due principali modi di "immaginare" e di rappresentare discorsivamente una nazione. Il pri.

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mo modo è quello che Jurgen Habermas definisce la "nazioneethnos" (Habermas 1992) e Anthony Smith chiama "modello etnico di nazione", (Smith 1992), ma che per brevità indicherò come nazione etnica. In questo caso, la nazione viene "immaginata" a partire da un nucleo (in parte mitico, in parte reale) di tipo etnico, insomma pensata come la diretta derivazione di una discendenza e di una storia collettiva ereditata, quasi che la nazione sia una sorta di fatto socio-biologico-culturale che precede e fonda il costituirsi di un distinto Stato territoriale. Ilsecondo modo assume invece la nazione come fondata solo politicamente. In questo caso, l'identità nazionale non viene immaginata a partire da somiglianze etnociìlturali quanto come l'esito della condivisione di elementi di tipo politico: le istituzioni rappresentative, i diritti di partecipazione, i principi costituzionali. In questa concezione si riconosce facilmente la tradizione repubblicana francese e quella democratica americana: è la pratica di partecipare e di interagire pubblicamente (Habermas 1992) che crea un gruppo distinto e lo autorizza a rivendicare un'autonoma sovranità politico-territoriale. Tale forma viene definita da Habermas "nazione-demos", mentre Smith preferisce chiamarla "modello civicoterritoriale di nazione". Qui la indicherò come nazione civica. Ovviamente, la loro natura "immaginata" non impedisce affatto Esclusione alle nazioni di avere conseguenze concrete e assai vincolanti per ed inclusione gli individui, siano essi membri oppure stranieri. Per quanto riguarda piìt strettamente il problema immigratorio, ad esempio, le due forme differenti di immaginare la nazione hanno implicazioni diverse sul grado di apertura/chiusura dello status di appartenenza legale alla comunità nazionale. Nel caso della nazione etnica, l'identità nazionale funziona come un meccanismo potente di esclusione dalla cittadinanza: il possesso di proprietà ascrittive di tipo etnoculturali appare determinante per poter accedere alla società-Stato, e chiunque non le possieda è di fatto escluso. In breve, l'appartenenza è ristretta soltanto a coloro che fanno parte di una determinata comunità di discendenza; non a caso, il criterio di attribuzione della cittadinanza della nazione etnica è lo jus sanguini bisogna essere figli o discendenti di cittadini per essere cittadini di uno Stato. 30


Nel caso della nazione civica il confine simbolico della comunità nazionale è più permeabile. In generale, chiunque può entrare a far parte di una nazione civicamente intesa, in quanto le caratteristiche ascrittive (etniche, culturali o razziali) non giocano alcun ruolo. Quello che conta è la scelta di essere leali verso le istituzioni statuali e i valori fondamentali che esse incarnano, nonché di essere elettivamente solidali con i membri della propria comunità nazionale. Questa tendenza "inclusivista" è confermata dall'adozione dello jus soli come criterio di attribuzione della cittadinanza: non è necessario essere figli di cittadini, basta nascere nel territorio dello Stato. Che succede nel caso della presenza di minoranze nazionali o di consistenti gruppi immigrati nel territorio di uno Stato-nazione? Rispetto a questi gruppi, uno Stato nazionale, sia civico che etnico, può comportarsi in due modi differenti e che possiamo indicare attraverso la distinzione tra nazionalismo assimilazionista e nazionalismo differenzialista (Brubaker 1998). Rispetto ad una presenza eterogenea nel territorio nazionale il nazionalismo assimilazionista procede a rimodellare il materiale umano dello Stato al fine di uniformano ad un certo modello di riferimento "nazionale". Ciò può essere realizzato in due modi: sradicando le differenze per ricondurle ad uno standard culturale nazionale, come nél caso dei nazionalismi ottocenteschi europei impegnati in veri e propri processi di nation-building, oppure annullando la rilevanza pubblica delle differenze, cioè relegando queste ultime nella sfera privata. In sintesi, l'assimilazione immagina che l'inclusione sociale dello straniero/immigrato possa avvenire attraverso la trasformazione delle loro identità: l'immigrato entra a far parte della sua nuova società in virtù dell'abbandono della sua identità originana e l'assunzione di una nuova corrispondente al modello "nazionale Il nazionalismo differenzialista, al contrario, parte dall'assunto che le differenze identitarie non possono essere annullate o trasformate perché sono naturali, inevitabili e immodificabili. Il problema dell'inclusione sociale dei "non nazionali" si pone quindi in termini completamente differenti. Innanzitutto, l'identità nazionale diventa più il risultato di processi di scorporo piuttosto che di

Nazionalismo assirnilazionista

.

Nazionali-

31.


assimilazione, nel senso che lo Stato procede all'esclusione se non addirittura all'espulsione delle minoranze nazionali presenti nel Paese. Per chiariie meglio il punto basta pensare ai vari nazionalismi europei sorti o risorti nei territori della ex Jugoslavia e, in generale, nell'Europa orientale dopo la caduta dei regimi comunisti. In Croazia, Lituania o nella Repubblica Ceca, la formazione di uno Stato nazionale non si è realizzata affatto attraverso una trasformazione in senso nazionale (assimilazione) dei gruppi minoritari intrappolati entro i nuovi confini territoriali. Piuttosto, l'obiettivo di creare l'identità nazionale è stato perseguito, da un lato, invitando i propri connazionali tagliati fuori dai nuovi confini a ricongiungersi alla loro "patria esterna" e, dall'altro, espellendo dal proprio territorio i gruppi minoritari. Ogni tentativo di assimilazione di questi ultimi è stato ritenuto una prospettiva "non realistica", per usare l'eufemismo di Brubaker (1998, 100). Tuttavia, questo non è il solo modo con cui il nazionalismo differenzialista può affrontare la questione dei "non nazionali". Non necessariamente la forma differenzialista di nazionalismo deve dare luogo a pratiche di espulsione se non addirittura di "pulizia etnica", realizzate attraverso spostamenti fisici di intere popolazioni o, peggio, attraverso la loro eliminazione. Esiste anche una soluzione "inclusiva", che combina il nazionalismo con i principi della democrazia e del liberalismo e che potremmo chiamare il modello dello "Stato nazionale eterogeneo" (Dahrendorf 1994). L. Stato Questo modello di Stato-nazione prevede che accanto al gruppo nazionale fondatore, che "possiede" lo Stato al punto da dargli il nome (la eterogeneo Svezia: lo Stato degli svedesi; l'Italia: lo Stato degli italiani), possano coesistere dei gruppi minoritari che conservano le proprie distinte caratteristiche identitarie, in un quadro giuridico paritario con la maggioranza nazionale. L'equiparazione giuridica tra maggioranza nazionale e gruppi minoritari, tuttavia, non snaturerebbe affatto il carattere eminentemente nazionale dello Stato (Kymlicka 1999)2. Per le sue virtù di tolleranza e di pluralismo, pensatori liberali di diversa estrazione, come Dahrendorf e Kymlicka, considerano lo Stato nazionale eterogeneo una grande conquista di civiltà, ma ciononostante esso appare oggi sempre più in difficoltà, ed è questo il punto che occorre analizzare. Per fare ciò occorre prima incrociare le due dicotomie concet32


Tipologia dei nazionalismi occidentali

Nazionalismo etnico

Nazionalismo civico

Nazionalismo differenzialista

Nazionalismo assimilazionista

Etno-differenzialista (Gran Bretagna, Svezia, Olanda, Spagna)

Etno-assimilazionista (Germania, Italia Austria, Giappone)

Civico-differenzialista (Stati Uniti, Australia, Canada)

Civico-assimilazionista Francia

tuali prima descritte, nazionalismo civico e etnico da un lato, e nazionalismo assimilazionista e differenzialista dall'altro, e ottenere così una tipologia a quattro caselle in cui risulta possibile collocare i diversi nazionalismi occidentali. Un esempio classico di nazione etno-differenzialista è la Gran • Gli etno-differenzialisti Bretagna. Davanti ai flussi immigratori, fattisi già intensi a partire europei dagli anni Cinquanta, i governi britannici si sono indirizzati verso l'inclusione dei nuovi membri tramite la concessione facilitata della cittadinanza. Fino a poco tempo fa, l'acquisizione della cittadinanza britannica non imponeva affatto l'assimilazione del neo cittadino all'identità nazionale inglese. L'inclusione nella società britannica procedeva attraverso una logica di tipo differenzialista: ogni gruppo immigrato conservava la propria religione, i propri costumi, etc., pur entrando a pieno titolo legale nella società britannica (Caniglia 2002). Ciò era possibile perché tradizionalmente la cittadinanza britannica consiste in uno status formale privo di qualsivoglia connotazione etnonazionale. Tale carattere formale si era già dimostrato utile per tenere insieme diverse e irriducibili identità nazionali (inglese, scozzese, gallese e nord irlandese) e venne poi impiegato per includere la differenza di origine immi33


grata. In questo modo, lo Stato britannico si manteneva fedele all'ideale dello Stato nazionale eterogeneo. Tuttavia, già alla fine degli anni Sessanta, l'espandersi della presenza immigrata nel suolo inglese, favorita proprio dalla facilità di accesso alla cittadinanza, portò per la prima volta a tentare di dare una sostanza a quel contenitore formale che era la cittadinanza britannica o, se si vuole, a dargli un contenuto "etnico" Ciò è avvenuto con l'introduzione della figura del patrial, uno status di appartenenza legato alla "discendenza di stirpe" e che è diventatò il prerequisito indispensabile per l'accesso alla cittadinanza britannica. Da allora, il nuovo sistema funziona come un meccanismo di esclusione dalla cittadinanza attraverso un preciso riferimento ai caratteri etnorazziali. Il patrialè, infatti, un membro del Commonwealth che possiede un antenato nato nelle isole britanniche, insomma un britannico di stirpe (di discendenza). Infatti è difficile che un indiano o un pakistano, anche se cittadini del Commonwealth, possano vantare un antenato nato nelle isole britanniche; come è, invece, il caso di un australiano o un sudafricano bianco. L'adozione di un meccanismo rigido, ma più equo, avrebbe portato all'esclusione dalla cittadinanza britannica non solo di pakistani, indiani o giamaicani, ma anche di sudafricani e australiani bianchi. Al contrario, il sistema è stato congegnato per rendere arduo l'accesso alla cittadinanza per i cittadini del Commonwealth "di colore", mentre resta agevole per quelli di "stirpe insulare". Non è del tutto fuori luogo sostenere che "dietro la stirpe dunque si nasconde la razza, che silenziosamente entra nel campo del diritto" (Kepel 1996, 173). In questo modo, la Gran Bretagna ha rigettato il modello dello Stato nazionale eterogeneo. I nazionalismi etno-assimilazionisti, come la Germania o l'Italia, prevedono forme di accesso privilegiato alla cittadinanza per immigrati che possiedono l'identità nazionale, mentre continuano a far passare l'incorporazione legale (cittadinanza) degli altri immigrati attraverso una lunga e faticosa procedura. Tale procedura punta a realizzare l'assimilazione individuale dell'immigrato nella cultura nazionale, piuttosto che includerlo rispettando le diversità identitarie (etniche o culturali) di cui è portatore, come invece fanno i nazionalismi etno-differenzialisti. Del resto, non è 34

Il Patria!

I nazionalismi etno-assimilazionisti


un caso che l'istituzione giuridica che regola l'acquisizione della cittadinanza si chiami "naturalizzazione", quasi che il neo cittadino cambi "natura" e non semplicemente il suo status giuridico. La legge tedesca sulla cittadinanza e l'immigrazione prevede due trattamenti differenti: da un lato, l'accesso automatico alla cittadinanza per gli immigrati di "ernia tedesca" (Aussiedier); dall'altro, la figura del "lavoratore ospite" (Gastarbeiter) a cui si riconosce esclusivamente lo status di Duldung (residente temporaneo). La figura del Duldung chiarisce perfettamente l'idea tedesca dell'immigrato: si tratta di un soggetto che è visto come destinato prima o poi al rimpatrio. Tuttavia, come è già successo per la grande maggioranza dei 9avoratori ospiti arrivati in Germania attraverso gli accordi internazionali di scambio, anche per i futuri immigrati si può prevedere che in molti decideranno di restare, alimentando ulteriormente i 7,3 milioni di stranieri che già vivono stabilmente nel Paese. Ciò nonostante, l'impostazione ufficiale del problema relativo al loro status di cittadinanza non è destinata a cambiare. Attraverso un iterlungo, e in cui la concessione della cittadinanza resta un atto discrezionale delle autorità statali, la legge tedesca punta essenzialmente all'assimilazione individuale. "La naturalizzazione deve rimanere un processo essenzialmente individuale, non una forma di integrazione collettiva" (Brubaker 1997, 344). L'immigrato diventa cittadino a condizione che diventi tedesco. Queste politiche della cittadinanza non riescono però ad evitare Stratificazione la crescita dell'eterogeneità culturale nella società tedesca. Il loro unico risultato è piuttosto quello di escludere il riconoscimento gerarchica ufficiale di identità etnoculturali differenti da quella nazionale: il pluralismo etnico e culturale c'è di fatto, ma ufficialmente non esiste. Non solo. Dato che l'acquisizione della cittadinanza tedesca impone la rinuncia di quella originaria, molti immigrati preferiscono lasciar perdere pur di non tagliare i legami con il proprio Paese di nascita, dove vivono ancora familiari e-amici. Infine, un altro problema di questa procedura di assimilazione individuale è che crea facilmente situazioni di marginalità sociale tra i gruppi immigrati. Anche se invocato per assicurare l'assimilazione dell'immigrato nella cultura nazionale, il lungo iter della conces-sione della cittadinanza produce inevitabilmente il fenomeno dei 35


clandestini: un grosso esercito di irregolari alimentato da coloro che, per svariati motivi, perdono nel tempo i titoli necessari per il soggiorno. In sintesi, sotto la spinta immigratoria le attuali legislazioni sulla cittadinanza non solo non riescono affatto a mantenerel'omogeneità etnoculturale del Paese, ma stanno lentamente introducendo forme di differenziazione sociale che sembravano ormai scomparse in Europa. La sòcietà tedesca contemporanea, ad esempio, appare sempre piìi stabilmente stratificata in almeno tre diversi livelli disposti gerarchicamente: a) i cittadini (tedeschi etnici o naturalizzati) individui titolari di tutti i diritti, compresi quelli politici, che possono entrare e uscire dal territorio nazionale liberamente; b) i denizens (immigrati di etnia non tedesca), residenti ormai stabili che sono titolari di diritti civili e. sociali, ma restano privi di quelli politici; c). le non persone, (clandestini, irregolari ovviamente di etnia non tedesca) soggetti pressoché privi di qualsiasi diritto civile e .sociale, che rischiano in qualsiasi momento di essere rinchiusi in campi appositi e avviati all'espatrio, ma la cui presenza risulta in costante aumento. Visto questo stato di cose, non si può certo dire che la Germania sia un vero e pròprio Stato nazionale eterogened: le disparità in termini di opportunità economiche e di benessere che vengono concesse ai membri dei diversi gruppi etnici non indicano affatto una equiparazione giuridica tra le diverse identità. Prive come sono di concezioni "naturali" dell'identità naziona- Il civicojmu1j0 le, le nazioni civiche, sia nella versione assimilazionista che differenzialista, tendono a far risiedere la coscienza nazionale nella nista francese condivisione di principi politici fondamentali, mentre i criteri etnici dovrebbero essere del tutto marginali. La repubblica rrancese incarna perfettamente questo modello. In quanto combinazione di assimilazionismo con nazione civica, il modello repubblicano francese sembrerebbe un sistema che offre grandi possibilità di accesso alla cittadinanza per i gruppi immigrati. Inizialmente è stato così. In tempi recenti tale tendenza all'inclusione è stato progressivamente ripudiata. Vediamo come. Per la tradizione civica francese la nazione è creata dallo Stato e non ne costituisce un fondamento prepolitico di natura etnocul36


turale. Per questa ragione, a differenza delle nazioni etniche, lo Stato francese ha potuto procedere ad assimilare, a trasformare in cittadino, chiunque e indipendentemente dalle sue caratteristiche ascrittive e culturali, che sono confinate nella "sfera privata". Lo ius soli ha rappresentato lo strumento principe di una politica assimilazionistica nel campo della cittadinanza. La concessione automatica della cittadinanza ai nati nel territorio francese, anche se figli di immigrati e dunque di non-cittadini, ha lo scopo di immettere automaticamente questi individui nella membershzp della nazione, così come avviene per i francesi di discendenza. Alla fine degli anni Ottanta, le note querelles innescate dall'apparizione pubblica dell'identità islamica ha avviato una radicak ridefinizione di tutta la faccenda. Le rivendicazioni delle comunità immigrate sono state lette come il segnale di un crescente rifiuto all'assimilazione che spalancherebbe le porte alla balcanizzazione della membership nazionale. Ben lungi dall'essere considerato portatore di legittime richieste di riconoscimento della differenza, l'attivismo dei gruppi immigrati è stato accusato di favorire l'indebolimento dell'ideale francese dell'unità nazionale. La tendenza degli immigrati a costituirsi in "corpi intermedi" (comunità etniche e religiose) è stata interpretata unicamente cme il rifiuto di sviluppare lealtà e identificazione verso lo Stato francese. In sintesi, ilrisveglio dell'interesse verso l'islam da parte di immigrati di seconda e terza generazione (giovani di origine magrebina, ma nati e cresciuti in Francia), è apparsa come parte di un più complessivo processo che rivela la loro indisponibilità, anzi impossibilità, a diventare francesi. Non solo. Rispolverando vecchie immagini dell'Oriente islamico e interpretando attraverso di esse quanto avviene nelle comunità immigrate parigine - come la protesta del velo a scuola - i gruppi islamici sono stati descritti come portatori di una "cultura" radicalmente incompatibile con i valori del laicismo repubblicano francese (Commissione Stasi 2004). Una nuova Questa nuova impostaziàne del dibattito sulla presenza immigrata è sfociata nella Legge Pasqua del 1993, che ha aperto una fase nuova fase nella politica francese della cittadinanza. Il punto di svolta fondamentale è la rinuncia allo ius soli: i figli di immigrati

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cessano di acquisire automaticamente la nazionalità francese anche se nati sui suolo francese. Il carattere restrittivo dei provvedimenti del 1993 è stato solo in parte mitigato dalla successiva Legge Chevenement del 1998, che prevede l'acquisizione automatica della cittadinanza al compimento del diciottesimo anno, salvo diversa scelta. Fino ad allora, però, i figli di immigrati saranno solo stranieri residenti. La rinuncia allo ius soli sembra riflettere il radicamento in Francia di un processo di esterizzazione degli immigrati: lungi dall'includere gli immigrati, la politica dello Stato francese tende ad escluderli dalla membership nazionale con la motivazione che si dubita fortemente della loro propensione a lasciarsi assimilare, insomma a sviluppare le caratteristiche giuste per .diventare francesi. Ma le cose stanno veramente così? Per capire meglio il caso francese e la sua recente svolta in termini di esclusione verso gli immigrati occorre meglio ricostruire le caratteristiche dei modelli civico-assimilazionisti di nazione. In tali modelli, l'inclusione è subordinata alla completa fusione dei nuovi aderenti nella membership nazionale così come questa viene definita dal punto di vista della sua identità politico-culturale. Prive come sono di un'identità definita dal punto di vista prettamente etnico, nelle nazioni civiche la possibilità stessa della solidarietà collettiva è vista risiedere nello sviluppo di un carattere quasi sacrale dell'appartenenza nazionale. La nazione è l'appartenenza più importante tra tutte le altre appartenenze dell'individuo (religiose, etniche, locali etc.) ed è per questa ragione oggetto di una vera e propria "fede civile", di un attaccamento quasi religioso che la rende una vera e propria "religione civile". Fare della nazione un culto significa anche sacralizzare lo specifi- La religione co patrimonio etico che la contraddistingue. Tale patrimonio civile affonda le sue radici nella storia, nella cultura e nella tradizione di una determinata collettività di individui. Ciò comporta che la nazione, in quanto religione civile, risulta incompatibile con la presenza di altre forme organizzate di appartenenze nella società. Queste ultime possono entrare facilmente in competizione con i valori e i sentimenti di identificazione veicolati dalla nazione. Ragion per cui le credenze religiose (non solo islamiche ma anche 38


quelle cristiane) non possono assumere un ruolo pubblico e possono sussistere soltanto a livello privato, nelle coscienze individuali. Date queste caratteristiche è inevitabile che le religioni civili giudichino negatiyamente l'eterogeneità etnica e culturale nella società civile: ogni differente manifestazione di solidarietà particolari (religiose o etniche) appare inevitabilmente come un'identità antagonista verso lo Stato, in quanto portatrice di valori e appartenenze in concorrenza con quelli incarnati dalla nazione. In forza di queste caratteristiche costitutive, il modello francese non può che stigmatizzare duramente le richieste di riconoscimento pubblico delle identità islamiche portate avanti dai gruppi immigrati in tempi recenti. Ma il laicismo francese non è l'unico modello di religione civile. Esiste anche un modo del tutto diverso di intendere la religione civile, in cui la nazione assume una natura religiosa solo in senso molto generico. In questo caso, si parla di carattere religioso della nazione soltanto in riferimento alla presenza di cerimonie, rituali e simboli che ne operano una sorta di sacralizzazione, senza però comportare l'esistenza di un nucleo ben preciso di valori sostanziali. Insomma, la comunità politica avrebbe un carattere religioso in senso molto generale, come sacralità della vita pubblica, ma senza che ciò implichi contenuti morali benprecisi. Ciò rende possibile l'accettazione, anzi la valorizzazione dell'eterogeneità interna alla società civile. Il pluralismo di valori e identità presente nella società civile non costituisce affatto un problema, anzi è visto come. fornitore di principi civili fondamentali, quasi che il dibattito che si svolge nella sfera pubblica assicuri il necessario patrimonio di valori al proceduralismo costituzionale che organizza l'azione dello Stato. Gli Stati Uniti rappresentano il Paese pii vicino a questo primo modello di religione civile. Ciò consente alla società americana di affrontare e risolvere la questione degli immigrati in modo diametralmente opposto a quanto si registra in Europa. La civicoNella concezione civica americana, l'essere cittadino non è il riflesso naturale di un'appartenenza identitaria (etnonazionale) ben differenzialidefinita, quanto piuttosto un contenitore universale capace di sta americana creare legami sociali senza però cancellare le diversita di cui ciascuno è portatore. L'aver combinato la nazione civica con il nazionali-

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smo differenzialista permette poi alla società americana di includere gli immigrati senza necessariamente assimilarli ad un preciso contenuto culturale, sia etnico sia laicista. In altre parole, a differenza di quanto accade in Germania o in Francia, il sistema americano non solo non impone l'annullamento dell'identità originaria dell'immigrato, ma ne promuove anche il riconoscimento pubblico. Ovviamente ciò non significa affatto tolleranza assoluta, quanto una forma di accettazione della "diversità gestibile" (Santambrogio 2003); cioè il riconoscimento solo di ciò che risalta compatibile con i limiti fissati dai valori fondamentali del Paese. In.quanto combinazione di valori generali e di riconoscimento pubblico della diversità, il modello americano di nazione civica assomiglia ad una sorta di "patriottismo costituzionale", per citare la nota espressione di Habermas (1992), piuttosto che al laicismo repubblicano della tradizione francese. Se il modello civico francese si fonda su una laicità intesa come la messa al bando di ogni professione pubblica di differenze identitarie, il presupposto storico e sociale del modello americano è costituito invece dall'attivismo pubblico di una pluralità di identità diverse (etniche, religiose, razziali etc.) unicamente vincolate dal rispetto e dalla fedeltà ad una cornice normativa generale. La comparazione tra gli Stati europei e Stati Uniti può forse apparire poco appropriata. Dopo tutto, si dice spesso, quelli europei sono Stati-nazione, mentre gli Stati Uniti sono una cosa diversa, sono un Paese fondato sull'immigrazione. Certamente è vero che gli Stati Uniti sono il prototipo del Paese di immigrazione, ma è altrettanto vero che non sempre quella americana è stata una società accogliente e "aperta". La sua storia rivela che si tratta di un Paese che in passato è stato spesso tentato dalle pratiche di esclusione tipiche degli Stati-nazione all'europea 3 . Dagli anni Sessanta in poi il Paese è entrato in una fase di grande apertura, fondata da un lato sull'estensione a tutte le differenze etniche e culturali del principio di tolleranza inizialmente nato per regolare la diversità religiosa (Lacorne 1999), dall'altro su un'interpretazione dell'immigrazione come risorsa piuttosto che come minaccia. In passato gli Stati Uniti si concepivano come un Paese dove le Il meltingpot più diverse identità etniche e culturali erano destinate a fondersi 40


in un'omogeneità nazionale attraverso i processi di melting pot. Uomini, donne e bambini provenienti da diverse parti del mondo abbandonavano la propria identità originaria per dare vita ad un modello del tutto nuovo: l'identità americana. Oggi, al contrario, la valorizzazione e il riconoscimento della differenza sono diventati i nuovi cardini normativi del Paese. Lintegrazione e la solidarietà della società americana non sono tanto basate sul possesso di un certo profilo, etnico o culturale quanto, invece, sul rispetto di una serie di valori centrali, sanciti dalla Costituzione, che funzionano principalmente come'regole e procedure che rendono possibile la convivenza reciprocamente tollerante di una pluralità di identità diverse in uno stesso spazio societario. Inoltre, una serie di riti, simboli e cerimonie politiche (bandiera, inni, commemorazioni, discorsi presidenziali etc.) permettono di rigenerare costantemente l'attaccamento all'identità nazionale americana e ai suoi valori costituzionali, ma senza che vengano messe in discussione le differenze tra i diversi gruppi presenti nella società civile. Agli occhi degli europei l'esistenza stessa di una società attraversata da profonde fratture identitarie appare come un miracolo o un paradosso vivente. Ancor più stupisce la sua natura democratica. Per la tradizione intellettuale europea, la democrazia è vista come un regime politico intrinsecamente fragile, possibile solo in presenza di un'omogeneità 'etnoculturale di fondo, al punto che si prevede la sua inevitabile crisi in presenza di conflitti e spaccature a carattere etnico o culturale. Insomma, per la tipica riflessione europea, i Paesi. attraversati da una pluralità di identità differenti sono destinati o a essere retti da regimi autoritari oppure presto o tardi a disintegrarsi; e la lezione jugoslava viene spesso citata come dimostrazione di questo assioma politico fondamentale. Al contrario, in America vale il ragionamento opposto: la de- Il ruolo della mocrazia funziona come il meccanismo fondamentale per la ge- democrazia stione delle problematiche connesse alla differenza identitaria presente nella società civile. In altre parole, la democrazia, lungi dall'essere in pericolo, è ciò che permette di governare e mantenere "integrato" un Paese estremamente eterogeneo sotto diversi punti di vista. Il multiculturalismo americano, con le sue politi41


che di riconoscimento e di affirmative action, può essere visto come un tentativo di realizzare una gestione democratica della differenza: esso garantisce che nessuna cultura o etnia possa prevalere sulle altre e che il conflitto si svolga nel rispetto della tolleranza reciproca (Caniglia 2003). La democrazia americana non è però solo un vuoto proceduralismo giuridico. Al centro c'è un nucleo costituzionalmente sancito di principi che prendono il nome di Credo Americano. Il Credo Americano fondato sui valori liberali del lavoro, dell'individualismo e delle libertà viene presentato come il nucleo fondamentale dell'identità americana forgiato sulla cultura del protestantesimo dissidente (Huntington 2005). Questa definizione "minimalista" dell'identità nazionale americana ha favorito il dispiegarsi di un vero e proprio "mercato mondiale delle identità", per cui gli aspiranti immigrati e aspiranti cittadini americani si sforzano di ridefinire la propria identità per presentarla come compatibile e in sintonia con le rappresentazioni prevalenti dei valori "tradizionali" americani. Se i valori americani sono quelli della dedizione al lavoro e dell'iniziativa individuale, ecco ad esempio gli asiatici avvalorarsi come i "nuovi americani", grazie alle loro autorappresentazioni come imprenditori volitivi e portatori attivi di uno spirito neoconfuciano, inteso come la versione asiatica del protestantesimo anglosassone. Gli immigrati riescono così ad "aggirare" le leggi sull'immigrazione degli Stati Uniti per ricavare profitti economici e per sistemare in luoghi privi di pericolo i propri familiari. Ma questi interessi trovano soddisfazione soprattutto perché convergono con le esigenze strategico-economiche dello Stato americano. In altri termini, la spiegazione della diversità americana si trova nella diffusa consapevolezza che l'immigrazione rappresenta una potente risorsa per il successo economico nel nuovo contesto globale, una consapevolezza che non è stata scalfita neanche dai drammatici avvenimenti dell' 11 settembre 2001, quando ci si poteva aspettare che la questione della sicurezza nazionale spingesse verso un mutamento sostanziale di rotta. Infatti, l'Homeland Security Act del novembre 2002 non ha cambiato di molto l'impostazione "inclusivista" delle politiche immigratorie americane. Un'altra differenza rispetto all'Europa è marcata dal diverso approccio verso i clandestini. In America vivono circa 9 milioni di 42

Un "mercato mondiale

delle identità"


immigrati clandestini a cui sono riconosciuti tutta una serie di diritti: intestarsi imprese, aprire conti corretti, acquisire immobili, iscrivere alle scuole pubbliche i loro figli, etc. - possibilità impensabili in Europa. Neanche la loro espulsione è possibile. Una serie di sentenze ha riconosciuto a molti di loro la facoltà di risiedere negli Stati Uniti anche se privi di cittadinanza e di permesso di soggiorno. Molti "clandestini" possiedono delle carte d'identità rilasciate dai consolati dei rispettivi Paesi e che ormai sono ritenuti documenti validi per circolare liberamente nel territorio americano. I clandestini americani non sono dei cittadini, ma in quanto "persone" sono titolari di diritti intangibili. Ovviamente, lungi dal rappresentare soltanto l'implementazione delle spinte morali contenute nei Diritti umani, anche questo fenomeno risponde ad un preciso interesse economico della società americana. Al contrario del sistema americano, tutti le nazioni europee so- Contro la no oggi accomunate dall'incapacità di metabolizzare i processi diaspora immigratori. Lungi dall'implementare il modello dello Stato na- immigratoria zionale eterogeneo, i Paesi europei sono impiegati in uno sforzo immane di contenere l'immigrazione. Non penso che la spiegazione di questo fenomeno stia tanto in una recrudescenza di sentimenti nazionalisti o addirittura razzisti nella politica europea. Piuttosto, questa reazione complessiva di chiusura è il risultato di alcune caratteristiche dell'immigrazione contemporanea in cui si riflettono le nuove sfide che il mondo globalizzato sta lanciando ai principi classici dello Stato-nazione europeo. Alla base di tutto c'è l'incapacità della cultura europea di comprendere il mondo globalizzato e le sue ineditèdinamiche sociali. L'assimilazionismo come politic4 di inclusione postula che l'immigrato sia guidato dalla volontà di lasciarsi alle spalle il proprio passato per radicarsi nella nuova patria adottiva. In realtà, ciò non ha mai trovato piena corrispondenza nei pròcessi empirici Gli immigrati sono, in effetti, dei veri e propri "migranti". I migranti non progettano di ritornare prima o poi da dove sono partiti, ma neanche recidono i legami con la società di origine. C'è il desiderio di crescere i propri figli in un Paese occidentale, ma nello stesso tempo di avvicinarli all'identità e alla cultura del loro Paese d'origine. Luoghi diversi e lontani dalla loro residenza europea 43


fanno ugualmente parte delle loro biografie. E se le concezioni tradizionali della nazionalità ci hanno abituati a vedere i sentimenti nazionali come ancorati in un determinato territorio, i nuovi processi immigratori mostrano, invece, che è possibile continuare a mantenere sentimenti di identificazione con la patria di origine: si può continuare a sentirsi turchi o algerini anche se si risiede per tuttala vita in Germania o in Francia. Le nuove tecnologie, di comunicazione (Tv satellitari, Internet, videocassette etc.) permettono di continuare a partecipare al processo di "immaginazione" della propria originaria identità nazionale anche se non si risiede più nel suo territorio. Ciò, ovviamente, non esclude una "contaminazione" da parte La doppia della cultura e degli stili di vita del Paese ospitante e lo sviluppo di cittadinanza un certo attaccamento anche verso quest'ultimo. Gli immigranti sono cioè degli ampersanc& soggetti caratterizzati da sentimenti di appartenenza e d'identità che non sono più unici ed esclusivi ma bidirezionali. Gli immigrati marocchini in Francia si sentono sia marocchini sia francesi, quelli turchi in Germania sono turchi e tedeschi nello stesso tempo. Da qui la richiesta, vitale, della doppia cittadinanza, che diventa il mezzo giuridico fondamentale per restare legati a due Paesi contemporaneamente. La doppia appartenenza è il tratto costitutivo della loro identità. Gli immigrati turchi in Germania, ad esempio, portano con sé elementi della loro cultura originaria che irrompe nel panorama tedesco, ma sono anche promotori di aspetti della cultura tedesca e occidentale nella loro Turchia (Soysal 1998). La loro identità è ambivalente e non facilmente riconducibile ad un distinto centro nazionale. Essi sono turco-tedeschi in Germania, ma anche tedesco-turchi in Turchia. Ma c'è anche qualcos'altro di più rilevante. Quello che colpisce maggiormente in alcuni dei nuovi flussi immigratori è che, spesso, le loro lealtà vanno verso identità post o transnazionali piuttosto che nazionali (Appadurai 2001). Ciò succede perché le migrazioni attuali assumono la forma di vere e proprie diaspore e non sono soltanto un semplice travaso di individui da un posto ad un altro. J2immagine della diaspora è quella che riesce a descrivere meglio le caratteristiche di fondo degli attuali processi immigratori. Le diaspore indicano un flusso migratorio sparso contempo-

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raneamente su parecchi Paesi e che mantiene un unico centro di identificazione di tipo transnazionale. Si tratta di gruppi immigrati che non gravitano attorno ad uno specifico territorio, piuttosto essi si coagulano attorno ad un'identità che è essenzialmente deterritorializzata, postnazionale, e rispetto alla quale la patria di origine è solo una componente e non il suo centro naturale. Le attuali diaspore migratorie indiana, cinese, filippina, messicana, caraibica, magrebina sono costituite ciascuna da circa venti milioni di persone strette attorno ad un'identità di tipo transnazionale che ignora del tutto gli Stati nazionali. Si tratta di comunità i cui membri si muovono con disinvoltura in diverse parti del mondo, promuovendo la loro causa indifferentemente in Europa, America e Australia oltre che nella patria di origine. L'unico paragone azzeccato cheserva da modello interpretativo per questi flussi migratori è proprio la diaspora delle comunità ebraiche del medioevo europeo. Le immigrazioni diasporiche insistono per una trasformazione La della tradizionale cittadinanza nazionale in un modello ben diver- cittadinanza so che potremo definire cittadinanza flessi bile (Ong 2002). Citta- flessibile dinanza flessibile significa che non è più necessario sviluppare un senso di appartenenza nazionale verso il Paese ospitante, e neanche cancellare i legami etnoculturali specifici dell'immigrato. Insomma, non si richiede più l'assimilazione come condizione per l'incorporazione legale dell'immigrato. Inoltre, la cittadinanza flessibile rifiuta l'idea che l'identificazione debba riferirsi ad un specifico locus territoriale, piuttosto essa può riguardare un'identità definita in termini transnazionalL Il cittadino flessibile può infatti sviluppare legami e interessi con più di un Paese alla volta (risiedere in uno, lavorare in un altro, sviluppare interessi in un altro ancora, come nel caso dei cinesi di Hong Kong che risiedo no negli Stati Uniti, lavorano in Malaysia e possiedono proprietà immobiliari in Gran Bretagna) e identificarsi in una comunità a carattere transnazionale. Le nuove tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni di fatto agiscono nel senso di favorire l"immaginazione" di comunità deterritorializzate. Queste caratteristiche diasporiche dei nuovi modelli di immigrazione si scontrano duramente con il principio classico della 45


territorializzazione dei popoli che sta alla base dello Stato-nazione all'europea: ogni popoio deve avere un suo Stato e risiedere in un territorio specifico. Per lungo tempo lo Stato nazionale eterogeneo ha rappresentato un compromesso accettabile tra il rispetto di tale principio e la presenza inevitabile di minoranze. Ma davanti alla sfida più radicale del mondo globale tale modello, piuttosto che essere trasformato per meglio applicarne i contenuti, viene messo in discussione. Alcuni Paesi del mondo si stanno trasformando per adeguarsi alle sfide della nuova immigrazione diasporica e globale. Gli Stati Uniti sono uno di questi. Sfruttando il modello del pluralismo tollerante che costituisce un elemento inscritto nel suo codice genetico, la società americana sta provando ad armonizzare l'idea di società nazionale con le nuove caratteristiche dei gruppi immigratori. In America si è ormai consapevoli che molti nuovi immigrati non puntano più a "radicarsi" nel Paese: stanno negli Stati Uniti perché conviene, ma sono con la testa e il cuore anche in altri Paesi. Da questi immigrati è illogico aspettarsi la forma di allegiance (fedeltà) connesso al patriottismo tradizionale, e meno che mai lo sviluppo di uno spirito di appartenenza unica. Per questa ragione la doppia cittadinanza negli Stati Uniti è un dato acquisito e indiscusso. Gli Stati Uniti hanno cioè pienamente accettato di non essere più considerati una "terra d'immigranti", una nuova patria, quanto invece un punto di snodo di un fitto reticolo transnazionale di diaspore (Appadurai 2001). In un contesto come quello americano, il modello della cittadinanza flessibile può senz'altro apparire come un legittimo criterio operativo per organizzare gli status individuali e le appartenenze collettive. Al contrario, in Europa sentirsi parte di una società significa Una sfida ancora sviluppare sentimenti esclusivi di appartenenza nazional- del mondo globale territoriale. Di conseguenza, ogni forma di cittadinanza flessibile non può che essere vista come l'esito di un processo di erosione della cittadinanza, un fattore di dissoluzione dei legami societari. Le nuove caratteristiche diasporiche e postnazionali dei processi immigratori mettono in subbuglio le élite politiche europee, di destra come di sinistra, che le interpretano, sbagliando, come una "vocazione a ritornare nella patria di origine", oppure le giudica-

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no severamente, stigmatizzandole come "atteggiamenti strumentali verso la cittadinanza" o come "segnali di scarsa lealtà". A sua volta, la doppia cittadinanza è interpretata come un fattore di "banalizzazione" e di "perdita di sacralità" di quest'ultima, mentre il multiculturalismo, cioè il riconoscimento pubblico delle differenze identitarie prodotte con l'immigrazione, è accusato di fomentare un pluralismo malsano, che, da un lato, genera lealtà alternative a quella nazionale e, dall'altro, legittima costumi in aperto contrasto con i valori occidentali. Questa incomprensione rispetto ai mutamenti prodotti dalla Il nuova realtà del mondo globale non si manifesta soltanto in una nazionalismo scarsa propensione a ridiscutere la forma tradizionale della citta- locale dinanza e della nazione. Quello che più: preoccupa è che si sta mettendo in discussione Io stesso modello dello Stato nazionale eterogeneo, come dimostra l'emergere aggressivo dell'etnoregionalismo. Davanti alla natura "porosa" dimostrata dagli Stati-nazione storici, è diventata forte la tentazione di trasferire il senso di appartenenza e il "nazionalismo" a livello locale. Il ragionamento di fondo è semplice quanto sconcertante: se l'Italia o la Francia si svelano per quello che sono, delle "comunità immaginate", allora non resta che tornare alle regioni - le varie Padania, Bretagna, Catalogna, Scozia, Baviera, Vallonia etc. - che non sono entità "finte", ma trasudano una "vera" identità nazionale (culturale e biologica). Come ha ben visto Dahrendorf (1994), l'Europa dei regionalismi non sarebbe altro che il rilancio in forme estreme della logica del nazionalismo, cioè senza la mediazione storica rappresentata dal modello dello Stato nazionale eterogeneo. Si tratta di un processo di fuga all'indietro dalle conseguenze incalcolabili e che non risparmia neanche il processo di integrazione continentale. I recenti "no" alla Costituzione europea riflettono anche questa logica di chiusura verso ogni evoluzione in senso postnazionale delle società europee.

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"J moderni nazionalismi racchiudono entro Stati nazionali definiti su base territoriale comunità di cittadini che invece di condividere l'esperienza collettiva del contatto interpersonale o della subordinazione ad una figura della regalità, condividono la lettura, di libri, opinioni, giornali, mappe e altri testi della moder47


nità ( ... ). Da questo punto di vista il moderno Stato nazionale si fonda più su un fatto essenzialmente culturale, un prodotto dell'immaginazione collettiva, che su fatti 'naturali' come il linguaggio, il sangue, il suolo o la razza" (Appadurai 2001, 209). 2 Nell'Est Europa un esempio di questo modello è lo Stato bulgaro postcomunista. La nuova Costituzione lo definisce come l'organizzazione statuale dei bulgari, che tuttavia promuove e riconosce un contesto di convivenza paritaria con altri gruppi minoritari presenti nel territorio nazionale (in particolare rumeni, turchi ed ebrei). 3 Per lungo tempo la concessione della cittadinanza americana è stata regolata attraverso il riferimento ad un meccanismo bipolare a carattere razziale (Ong 1999). Essere collocati come vicini al polo bianco garantiva maggiori possibilità di ottenere la cittadinanza, mentre essere accostati a quello nero significava esclusione dalla cittadinanza. Ciò è ben dimostrato dal Chinese Exclusion Act del 1882, che definiva i cinesi come "stranieri ineleggibili per la cittadinanza", oppure dalle restrizioni del 1924, che chiudevano il Paese all'immigrazione di ebrei provenienti dall'Europa orientale (Lacorne 1999).

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dibattito I'

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Europa eTurchia: perché no? di Felice Mi/I Co/orni

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rima di decidere quanto l'Unione europea possa essere allargata e a quali ulteriori Paesi possa e debba esserlo, gli europei dovrebbero decidere che cosa vogliono fare della loro comunità. Il nodo non fu sciolto nel 1957, quando, nell'impossibilità di accordarsi già allora su1 fine che i sei Paesi fondatori intendevano porre al processo che stavano mettendo in moto, per evitare di dover scegliere fra una prospettiva di lungo termine apertamente federalista e una meramente intergovernativa, si convenne sulla formula ambigua che ancora compare nel preambolo alla versione consolidata del trattato e che è stata anche ripresa nel progetto di trattato costituzionale: i Paesi fondatori si dissero allora "determinati a porre le fondamenta di un'unione sempre più stretta (une union sans cesseplus étroite) fra i popoli europei". Dopo quasi mezzo secolo, gli europei non hanno ancora deciso in che cosa debba consistere questa "unione sempre più stretta", e forse, molti di loro non sono nemmenò più molto determinati a perseguirla. Eppure, rispondere a questa domanda è operazione necessariamente preliminare alla domanda successiva: quanto estesi possono essere i confini di una tale "unione sempre più stretta"? Non dovrebbe, infatti, sfuggire a nessuno che le due cose sono Più "stretta" O PiÙ in stretta relazione l'una con l'altra. Se l'Unione europea deve rassegnarsi a continuare ad essere anche in futuro piu o meno "larga"?

L'Autore è membro della Fondazione Critica Liberale e collaboratore delle riviste Critica Liberale, Gli Stati Uniti d'Europa, Lettera Internazionale e Confronti. 51


quel che è già oggi e niente o poco di più, si tratterà, magari, di trovare qualche aggiustamento per rendere meno probabile la paralisi decisionale di un'Unione a trenta o a quaranta membri: quanti auspicano che ne conti tra qualche anno l'Unione gli euroscettici e gli antieuropei più spinti, a cominciare dall'attuale Presidente del Consiglio italiano, che vorrebbe membri a pieno titolo dell'Unione non solo la Turchia, non solo tutti gli Stati balcanici, non solo l'intera Europa orientale, Bielorussia compresa, ma anche la stessa Russia. E, dato che sarebbe una pretesa eccessiva pretendere di ottenere con ciò la secessione della parte non geograficamente europea della Russia, coerentemente, si vorrebbe che l'Unione la ricomprendesse tutta, spingendo le sue frontiere a Est dell'estremo Oriente, a Est del Giappone, fino allo stretto di Bering. Non si capisce proprio, a quel punto, perché discriminare così brutalmente i nostri ben più prossimi cugini canadesi. E, sempre che ci si accontenti dell'Unione più o meno così com'è, assume anche legittimità la richiesta, avanzata mesi fa dallo scrittore Tahar Ben Jelloun, di integrare nell'Ue anche i Paesi della costa Sud del Mediterraneo, a cominciare dal Marocco, la cui candidatura era già stata avanzata a metà degli anni Ottanta dà! Re Hassan TP. Un Se si ritiene, come molti sembrano ritenere, che l'appartenenza formale di un Paese all'Ue abbia la capacità di curarne tauma- tocsana turgicamente qualunque tara storica, qualunque conflitto, qua- miracoloso lunque ritardo, qualunque propensione bellicista, qualunque tentazione di ricorrere a pulizie etniche; se si ritiene che l'abbraccio della membership europea sia capace di rendere miracolosamente stabile, prospero e virtuoso qualunque Paese; se si ritiene che l'Unione anziché indebolirsi non possa che rafforzarsi per effetto di qualunque allargamento e che le classi politiche più corrotte e autoritarie non possano che redimersi e rigenerarsi al contatto con le istituzioni di Bruxelles; se soprattutto si ritiene che l'Unione europea possieda gli anticorpi necessari per digerire nel suo grande corpo e debellare qualunque morbo nazionalismo, populismo, autoritarismo, corruzione, sottcisviluppo economico o civile, etnicismo, fascismo, militarismo, integralismo, fondamentalismo - anziché farsene travolgere essa

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stessa: perché non integrare l'intero orbe terracqueo, fornendo a tutti i Paesi membri della comunità internazionale gli strumenti di una virtuosa integrazione politica ed economica più salda ed efficiente di quella assicurata delle Nazioni Unite? C'è un doppio ordine di retoriche politiche, oggi largamente in auge, che spinge verso "un'unione sempre più larga", anziché verso "un'unione sempre più stretta". Entrambe queste retoriche politiche si basano suiio smarri- Valori mento delle radici comuni dell'Occidente europeo risorto dalla scontati barbarie totalitaria del Novecento, che quasi tutti gli intellettuali e i politici del continente sembrano da anni considerare ormai scarsamente significative. Sembra quasi che diritti umani, libertà civili, democrazia liberale, governo delle leggi, certezza e mitezza del diritto, integrazione sociale, laicità delle istituzioni siano beni così scontati da apparire scarsamente significativi, scenario banale, scontato e forse troppo noioso del paesaggio civile europeo anziché il nucleo di ciò che (assieme all'avanzato processo di secolarizzazione delle nostre società) distingue l'Occidente europeo di oggi, non solo e non tanto dalla barbarie ancora così diffusa appena al di là dei suoi confini, quanto e soprattutto dalla barbarie che esso stesso ha vissuto da protagonista fino a pochi decenni or sono, e per riscattarsi dalla quale, per assicurarsi contro il cui ritorno, gli Stati fondatori decisero di unirsi mezzo secolo fa in quell"unione sempre più stretta". Sono stati esattamente questi beni - la libertà civile propria e Identità eterogenee... tipica di un Paese - ad avere fondato, in età moderna, l'idea stessa di "patria", come ha persuasivamente illustrato Maurizio Viroli: l'amor di patria come amore per la libertà caratteristica e tipica della propria nazione 2 . Eppure oggi, comuni come sono diventati all'intero Occidente europeo e non soio ad esso, questi beni sembrano avere perso. agli occhi di gran parte degli intellettuali europei qualunque valore caratterizzante: tanto che, si dice, quel che costituirebbe l'identità più profonda dell'Europa (assieme o meno alle «radici cristiane che abbiamo in comune con larga parte del mondo democratico e no, al retaggio classico o a quello umanistico - mai che venisse sottolineata anche l'eredità 53


illuministica e liberale) sarebbe proprio l'incommensurabile eterogeneità dei popoli che la compongono. Nulla avrebbero in comune fra loro i popoli del Nord e del Sud dell'Europa, i popoli germanici, latini e slavi, se non la loro assoluta eterogeneità, e la capacità di convivere e cooperare e prosperare insieme proprio nonostante o grazie a questa loro assoluta mancanza di una comune identità. Sembra quasi che la sola virtù che viene da molti riconosciuta all'Ue sia di aver fatto convivere in questi anni fra loro delle entità incommensurabilmente fra loro diverse. Sembra quasi che nulla, oltre al legame istituzionale e ai trattati, possa legare i Paesi dell'Europa fra loro, nulla conferire loro una qualche identità comune capace di distinguerli dal resto del mondo. I beni che abbiamo qui invece indicato come propri e tipici dell'identità europea - di un possibile "senso di individualità storica" dell'Europa, per usare la formula che secondo Federico Chabod connotava l'idea stessa di nazione 3 - sembrano a molti europei, e anche a molti intellettuali europei, privi di un valore caratterizzante, o in qualche caso addirittura meritevoli di essere disprezzati in quanto parte dell'armamentario ideologico dell'aborrito "pensiero unico" della globalizzazione: quasi che alla gbbalizzazione dell'economia internazionale avesse davvero fatto seguito, o stesse visibilmente facendo seguito, anche la globalizzazione di quelle conquiste civili. Conquiste, invece, sempre minacciate e precarie, come la marea montante dei populismi dovrebbe avere insegnato in questi ultimi anni, in Italia molto più ancora che altrove.

con beni caratterizzanti

L'altra delle retoriche oggi prevalenti è quella che, per un verso, insiste sul carattere non europeo, o almeno non esclusivamente tale, di queste conquiste: Amartya Sen, riducendo i requisiti della democrazia al mero government by discussion, ne nega la stessa caratterizzazione e radice storica, ritenendola fenomeno dalle radici plurime e pressoché universali 4. Ma, in questo, Sen si trova in sintonia con numerosi commentatori e analisti, soprattutto d'Oltreoceano ma non solo, per i quali l'elezione di un ayatollah "riformista" nel regime teocratico, iraniano, la tenuta di elezioni più o meno formalmente regolari in Iraq o in

Retoriche prevalenti

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qualche società a struttura tribale, l'inizio di una discussione sui diritti delle donne anche nelle società arabe più tradizionaliste sarebbero segni sufficienti a far dichiarare vinta la battaglia per l'universalizzazione dei diritti umani e della democrazia liberale. La "fine della storia", promessa non mantenuta dopo il crollo del comunismo, sarebbe ancora dietro l'angolo. E d'altronde un'altra fra le retoriche prevalenti assicura che la modernità democratica sarebbe portatrice di almeno altrettanti mali che beni, che l'Occidente, e in particolare l'Occidente europeo, si sarebbe spinto troppo oltre nell'affermazione della libertà dell'individuo, che vi sarebbe del vero nella plurisecolare lamentazione tradizionalista e clericale contro l'atomismo individualistico delle società liberali, che le conquiste della modernità europea, a cominciare dalla libertà della ricerca scientifica e dalla libera scelta individuale degli stili di vita, dovrebbero 'essere, almeno in parte, rimesse in discussione: che, quindi, l'Occidente avrebbe tutto da guadagnare a ritrovare un giusto mezzo tra le eccessive, disgregatrici libertà proprie della tradizione liberale e le magari eccessive costrizioni delle società tradizionaliste. Un Paese comé l'Italia, in questa prospettiva, dovrebbe smetterla di guardare alle società dell'Europa Nordoccidentale come a mòdelli da imitare, per porsi invece alla guida di un riconducimento degli eccessi liberali a più miti consigli, attraverso l'alleanza strategica con il "pensiero meridiano" espresso dalla saggezza mediterranea5. Di qui il ripudio, sempre più esplicito, dell'intero processo risorgimentale, fondato, come del resto già aveva ammonito, criticandolo radicalmente, Alfredo Rocco al congresso nazionalista del 1913, sull"ammirazione per lo straniero" anziché sull'orgògliosa rivendicazione delle tradizioni controriformiste e autoritarie della storia italiana 6: una tradizione che andrebbe ora rivalutata proprio grazie al nuovo e più maturo punto di mediazione che andrebbe ricercato nell'incontro con le tradizioni autoritarie e comunitaristiche della sponda Sud del Mediterraneo anziché con l'arrogante pretesa di "omologare" 'anche quel 'mondo ai freddi e inumani modelli del calvinismo democratico e individualista anglosassone. In questa prospettiva, qualunque apporto di 'culture diverse e "altre" costituiÉebbe sempre e comunque un "arricchimento": tale sarebbe anche quello costituito da valori etico-poli-

Ridimensionare gli "eccessi" liberali

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tici e da stili di vita individuali e famigliari improntati ad un autoritarismo tradizionalista e patriarcale troppo radicalmente e troppo frettolosamente ripudiato dall'Europa. Si può, semmai, più fondatamenté bbiettare che un'identità La etico-politica fondata sulle conquiste della civiltà liberale non ci concezione i. i. caratterizza in moao esciusivo, percne iia conaiviaiamo aimeno civica della aemocra.zia con quelle Turope extraeuropee d Oltremare , come le chiamava Braude17, che comprendono anche gli Stati Uniti e le altre democrazie extraeuropee di radice politicò-culturale òccidentale. Ed. è vero. Però, se è tipica della forzaespansiva della democrazia liberale la capacità di estendere il godimento delle libertà e dei diritti di cittadinanza e dei diritti umani a sempre più ampie categorie di soggetti che prima ne erano esclusi, già ora il "patriottismo costituzionale" europeo che ci manca, o che almeno non è radicato e diffuso come potrebbe e dovrebbe essere, pòtrebbe autorizzarci a vantare la pervasività delle garanzie e la mitezza dei nostri ordinamenti come un risultatofino ad oggi insuperato nella storia dell'umanità. Non possono essere in ogni caso che queste conquiste a costituire il fulcro del "senso di individualità storica" degli europei, se e in quanto si voglia continuare a tener fede a una concezione civica piuttosto che etnica della soggettività politica. Il punto è decisivo, pena il disarmo davanti alla marea montante degli etnonazionalismi sciovinisti e xenofobi a base nazionalista o etnoregionalista.. Se a "fare la nazione" è il patriottismo della Costituzione, cioè dei valori e delle libertà che la caratterizzano, se sono la qualità delle istituzioni, i valori etico-politici che ne stanno alla base e le libertà che esse garantiscono e che divengono ethos condiviso, a farne un unicum rispetto alle altre nazioni, o che per lo meno conferiscono una qualche individualità a questo soggetto: che cosa di così essenziale distingue oggi, sotto questo profilo., la libertà, gli ordinamenti e la democrazia dell'Olanda rispetto a quelli della Gran Bretagna, della Germania o della Spagna? Oggi tener fede ad una concezione civica anziché etnica della Leggi democrazia è imperativo, perché non vi è altra via, nelle nostre radicate non assem- espedienti società sempre più pluralistiche, per non ridurci ad un

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biaggio di microcomunità integraliste e settarie, ostili fra loro o meramente conviventi nell'attesa di essere abbastanza forti per sopraffarsi a vicenda. Ma, per poter mantener salda una concezione civica della soggettività politica e rafforzare lo stesso valore universalistico della democrazia liberale, noi non possiamo non attribuire oggi all'Europa almeno una parte della rilevanza e anche dell'affezione che nel corso degli ultimi due secoli è stata attribuita, in misura assorbente, alle nazioni storicamente date. C'è però un equivoco di fondo quando si parla di "patriottismo cotituzionale". Non si deve trattare solo della Costituzione, statale o domani europea e federale, come documento che vincolale istituzioni, e non èsolo questione di norme giuridiche. È anche questione di valori radicati nel costume che tali norme devono al tempo stesso promuovere e di cui devono essere effettiva espressione. Se abbiamo potuto fare assieme alla Germania non solo un mercato comune, ma anche un'unione europea, è perché abbiamo avuto ed abbiamo la ragionevole fiducia che la Germania non tornerà ad alimentare al suo interno i demoni che ha scatenato nella storia del XIX secolo, che gli elettori tedeschi non affideranno prevedibilmente mai più il gòverno del Paese, come nel 1933, ad un partito totalitario. Se così stanno le cose, allora è necessario che, - dopo l'allargamento alla Mitteleuropa ex comunista, cioè dopo la necessaria e per certi versi inevitabile unificazione con i Paesi da cui eravamo stati artificiosamente tenuti separati da un'occupazione militare durata mezzo secolo, - per quel che riguarda gli allargamenti futuri, i cittadini europei possano avere altrettanta fiducia nei confronti non solo delle strutture istituzionali e delle leggi vigenti negli eventuali futuri Paesi membri, ma anche nel fatto che esse siano effettivamente radicate nella mentalità e nei costumi, anziché rappresentare un mero espediente per l'ammissione al club, un risultato provvisorio e soggetto al possibile e verosimile rigetto periodico da parte degli elettori. Se questa fiducia reciproca viene a mancare, il progetto europeo non potrà sopravvivere. Tanto per fare un esempio, sul numero maggio-giugno 2004 di I casi "Foreign Affairs" - utile lettura per il Presidente del Consiglio in russo e serbo carica - si poteva leggere una panoramica (curata da un disfatti57


sta filocomunista come l'ex consigliere di Reagan Richard Pipes) dei sondaggi effettuati negli ultimi anni in Russia, su quale sia l'atteggiamento dei cittadini di quel Paese, dopo un decennio di vita formalmente democratica, nei confronti della democrazia e delle libertà individuali: un documento agghiacciante 8 Allo stesso modo, solo un convinto euroscettico può davvero pensare che sia possibile prevedere sin d'ora e in tempi politici l'allargamento dell'Unione europea a un Paese come la Serbia, cioè ad un Paese nel cui sistema politico hanno un ruolo determinante, da un lato, un partito guidato da un personaggio pieClassi namente corresponsabile della politica stragista di Miloevk, politiche anzi, suo interrete estremo, come il leader del Partito radicale discutibili serbo Vojislav SeeIj, attualmente sotto processo all'Aja (partito di maggioranza relativa alle politiche, con il 35% dei voti, e che alle presidenziali ha raccolto sul suo candidato il 46% dei consensi), e dall'altra, un personaggio che passa inspiegabilmente per "moderato" uomo di legge agli occhi dei media occidentali (e che, per gli standard della politica serba, magari potrà anche essere ritenuto tale), come l'ex Presidente Kostunica, che, in piena guerra del Kosovo, si faceva fotografare sorridente dalla stampa locale imbracciando un kalaJnikov spianato, oggi alleato di governo del partito di Miloevi. Tutta la solidarietà che è doveroso manifestare nei confronti degli studenti e dei non pochi intellettuali liberali belgradesi, tutta la comprensione per le ambasce delle diplomazie europee legate alla Serbia dagli affari, dalla storia e magari da memorie belliche e dinastiche non possono far chiudere gli occhi di fronte alla realtà di un Paese che appare, nella sua maggioranza, nonostante quattro guerre scatenate e perdute in un decennio, ancora incapace di venire a patti con la schiacciante responsabilità dei suoi governanti nello scatenamento di tali conflitti, accecato dal nazionalismo criminale che ne ha determinato le sorti per un quindicennio, ostaggio di una politica e di un'economia essenzialmente malavitose e, soprattutto, tuttora largamente estraneo ai valori ai principi e alle istituzioni della democrazia liberale. In queste condizioni, come si può pensare di chiedere ai cittadini dell'Ue di accettare che il proprio destino sia codeciso dalla classe politica serba? Un'Unione europea disomogenea in fatto di valori etico-poli.

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tici condivisi non può in alcun modo diventare, come dovrebbe, almeno un elemento, un livello, in prospettiva il più rilevante, del "senso di individualità storica" degli europei. Ma vi è di più: un'Unione europea incapace di coesione e incapace di diventare almeno in parte, almeno a pari livello di di• gnita con ciascuno Stato membro, nella coscienza dei suoi cittadini, quel che un tempo erano le "nazioni", non può aspirare a diventare un soggetto della politica internazionale nel mondo globalizzato. Ed è ora che qualcuno si assuma la responsabilità di spiegarlo ai cittadini elettori: qui si tratta pUramente e semplicemente della sopravvivenza dell'Europa. Non dell'Europa come soggetto unitario, ma di tutti e ciascuno i popoli e gli Stati europei. Ha detto bene Tommaso Padoa-Schioppa: "In una democrazia non vi sono solo compiti e diritti del popolo; vi sono anche compiti e doveri delle élite, senza il cui corretto esercizio la democrazia stessa non produce buongoverno e forse neppure sopravvive" 9 E la posta in gioco nella costruzione europea oggi messa in crisi dai risultati dei referendum francese e olandese e dalla marea montante della demagogia populista è molto semplice. Si tratta di decidere se ci si vuole rassegnare a divenire irrilevanti in un mondo dominato da altri soggetti portatori di culture più autoritarie, a lasciare ai soli Stati Uniti l'onere di rappresentare la civiltà politica dell'Occidente (compito al quale gli Usa' da soli si stanno dimostrando del tutto inadeguati). Si tratta di decidere se siamo rassegnati ad uscire dalla storia, a lasciare che siano altn, portatori di culture e agende politiche ispirate ad altrui interessi e valori, a decidere del nostro destino. Abbandonare il progetto di un'Europa capace di. parlare con voce propria nella politica internazionale del mondo globalizzato significa avere introiettato la sconfitta, l'ineluttabilità di un declino epocale dell'intera Europa. Ma un'Unione europea capace di parlare con una voce e di agire nella politica internazionale non può essere un'Europa in• • • tergovernativa a venticinque, e tanto meno a ventisette, a ventinove o a quaranta. Deve essere, presto o tardi, di fronte alla presa di coscienza che la sola prospettiva alternativa è quella dell'eu-

Rassegnati 'nik vanza

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... e quindi, all'eutanasia collettiva

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tanasia collettiva, un'Europa federale, legittimata democraticamente, con un esecutivo responsabile di fronte al Parlamento. Se si dà invece per scontato che l'impasse causata dal fallimento dei referendum francese e olandese è insuperabile, non ci resta che prepararci ad affrontare nel modo meno traumatico l'eutanasia collettiva, cercando magari di procrastinarla nel tempo e di renderla il meno penosa possibile. E in questo caso possiamo anche allargare l'Unione fino a raggiungere le coste dell'oceano Indiano. Se, invece, classi dirigenti europee responsabili vogliono ancora tenere aperta là prospettiva dell'integrazione federale dell'Europa, è in questa prospettiva che va inquadrato il problema dei futuri ulteriori allargamenti, a cominciare da quello più problematico e discusso nell'immediato che riguarda la Turchia 10 .

Se dovessimo escludere in partenza sia la prospettiva di conti- . . . 0 Europa nuare a perseguire l'"unione sempre più stretta" che ci siamo im- federale con pegnati da mezzo secolo a costruire, sia quindi quella di arrivare partnership a un'Unione capace di far sentire una propria voce unitaria e coerente nella comunità internazionale (non più soltanto in materia di politiche commerciali e, in sostanza, protezionistiche), non vi è dubbio che gli argomenti a favore dell'integrazione della Turchia nell'Ue sarebbero fortissimi, sia dal punto di vista economico (nonostante gli iniziali costi astronomici) sia e soprattutto dal punto di vista geopolitico. Il fatto è che l'Ue non è una semplice organizzazione internazionale, ma un organismo originale, che esercita direttamente in tutti gli Stati membri quella parte della loro sovranità conferita dai trattati alle istituzioni comuni, che sono composte da rappresentanti di tutti gli Stati membri. Come già accennato, perché questo sistema funzioni, è necessario che i cittadini e le classi dirigenti degli Stati membri possano ragionevolmente ritenere pienamente comuni e condivisi da tutti i decisori politici interni all'Unione almeno i valori etico-politici di fondo. A questo proposito è sicuramente vero che la candidatura all'adesione all'Ue può favorire comportamenti e sviluppi virtuosi nei Paesi cui si schiude la prospettiva dell'allargamento, e la stessa Turchia in questi anni ne è una testimonianza. Ma è altrettanto vero che la storia pesa, che il mutamento delle culture civili 60


è molto più lento di quello dell'economia, delle mode e dei consumi. Ed è un fatto che l'adesione all'Ue è spesso vista dalle classi dirigenti dei Paesi aspiranti, e certamente da quella turca, più come una mera opportunità di sviluppo economico, come un salto di status o come un rafforzamento della sicurezza esterna che come partecipazione a un progetto comunitario in divenire. Per l'Ue è certo necessario esportare sviluppo e sicurezza nei Paesi limitrofi, ma per far questo è necessario inventare nuovi strumenti, accordi, istituzioni, che non facciano della piena membership la sola chance di stabilizzazione, trasformazione e avanzamento economico e civile a disposizione delle nuove democrazie: strumenti come l"anello degli amici" suggerito da Prodi ("condividere tutto, tranne le istituzioni")" o come la vecchia idea della confederazione allargata, che pure non era proponibile, come avrebbe voluto Mitterrand, anche ai più vicini Paesi della Mitteleuropa già abbandonati dall'Occidente nelle mani del nazismo prima e del comunismo sovietico poi. Altrimenti ci sarà sempre qualcun altro che non vorrà trovarsi escluso da quel che apparirà sempre più un club di privilegiati e sempre meno un progetto politico, e l'Unione europea finirà per abbassare progressivamente i propri stessi standard di libertà e di democrazia e per accrescere la propria eterogeneità interna fino a smarrire qualunque specificità, riducendosi a una piccola Onu regionale e perdendo ogni possibilità di pesare nella politica internazionale: cioè, puramente e semplicemente, rinunciando ad esistere. Scartando a priori per la Turchia l'ipotesi di integrazione nel- Cosa fare della• l'"anello degli amici" e anche qualunque forma di partnership privilegiata, e puntando tutto sull adesione piena o nulla, Ue e Turchia? Turchia si sono messi in rotta vèrso una catastrofe geopolitica pressoché certa. Già prima che i negoziati iniziassero, la prospettiva dell'adesione turca ha giocato un ruolo pesantemente negativo nel dibattito e nel risultato dei referendum sul trattato costituziònale. Et pour cause ben più importante delle innovazioni non certo rivoluzionarie che esso conteneva rispetto ai trattati esistenti, quel che conta nell'Ue è la fiducia reciproca fra i Paesi membri e le loro opinioni pubbliche. Un conto è stabilire la ripartizione del61


le competenze fra Unione e Stati membri e fra Parlamento, Commissione e Consiglio, ben altro conto è chiedersi se sia ragionevole la previsione che i titolari di queste istituzioni, nel prevedibile futuro, continueranno a riconoscersi nei valori e nelle regole della democrazia liberale. In questo non a torto, buona parte dell'elettorato francese e olandese si è chiesto se poteva nutrire una tale fiducia nella classe politica turca in caso di futura adesione ed ha risposto di no. Ma naturalmente, ben piit che queste considerazioni di carattere razionale ha contato l'aspetto emotivo, con risvolti fortemente razzisti e xenofobi. Non è difficile prevedere che lo stesso scenario si riproporrà aggravato se e quando si tratterà di votare con referendum nei diversi Paesi che, a cominciare dalla Francia, si sono già impegnati solennemente a farlo, sul trattato di adesione della Turchia. Se infatti i negoziati con la Turchia andassero in futuro a buon Un referendum fine e un tale trattato venisse concluso, è fin d'ora prevedibile che non sarebbe ratificato, come necessario, da tutti gli Stati scontato membri: pur dopo avere richiesto e ottenuto dai turchi importanti concessioni e sacrifici. Se ragioni meramente economiche hanno spinto i bravi e cattolicissimi cittadini irlandesi a rischiare di mettere a repentaglio l'intero processo di allargamento ai cattolicissimi Paesi ex comunisti della Mitteleuropa votando in prima battuta contro quell'allargamento nonostante i diretti appelli del Papa polacco, figuriamoci quale sarebbe il risultato di referendum in cui gli elettori di qualunque Paese europeo fossero messi di fronte, contemporaneamente, alla salatissima bolletta da pagare per integrare un Paese delledimensioni ben maggiori e dell'arretratezza economica della Turchia, a tutti i gravissimi problemi di affidabilità democratica che questo Paese pone e, insieme, alle campagne razziste e populiste .che l'adesione di un Paese mediorientale e di tradizione musulmana susciterebbe. È ovvio che l'esito quasi inevitabile, del resto già ampiamente previsto senza eccezioni da tutti i sondaggi, sarebbe un rifiuto che, a quel punto, sarebbe davvero vissuto dalla Turchia, dopo anni di sforzi e investimenti economici e immateriali, come un rigetto ed uno schiaffo ingiustificabili da parte dell'Europa, tali da rendere possibile qualunque violenta involuzione, con esiti imprevedibili sugli equilibri dell'intera regione. 62


Questa ragione da sola avrebbe dovuto essere sufficiente a trattenere i politicanti turchi ed europei dall'avventurarsi sulla strada prescelta, con avventatezza i primi e con rassegnazione burocratica mista a cinismo i secondi (tanto, a riparare i cocci ci penseranno non loro ma i loro successori fra più di dieci anni). Da decenni, ormai, gli europei si rifiutavano di dire di sì ma non se la sentivano di dire di no, e il gioco non poteva continuare in eterno 12 .

Resta che il problema maggiore non è solo quello dell'estrema Il rischio di arretratezza della Turchia sia in termini economici sia e ancor una Europa delle patrie piu in termini di sviluppo umano rispetto agli attuali membri 13 , anche a quelli di più recente adesione; non solo quello dei costi immensi che l'integrazione di un Paese così arretrato e di dimensioni così vaste comporterà e che si sommeranno a quelli già ingenti che l'Ue deve sobbarcarsi per l'integrazione degli attuali nuovi membri (e, tanto per dare un termine di paragone, si calcola che ci vorranno, ad alcuni degli attuali nuovi Stati membri, dai trentacinque ai quarant'anni per raggiungere i livelli di reddito medio pro capite dei più poveri degli altri Stati membri)' 4 La Turchia, con i suoi circa settanta milioni di abitanti, sarebbe già oggi il secondo maggior Paese dell'Ue; a causa dei divergenti trend demografici, nel periodo in cui ne sarebbe prevista l'adesione avrà superato in popolazione anche la Germania, divenendo il maggiore dei Paesi dell'Ue. E non si tratta certo di un Paese che non intenda far valere fino in fondo il peso che demografia, ruolo geopolitico, storia e orgoglio nazionalista gli assicurano. Basti pensare che la Turchia si rifiuta addirittura di riconoscere uno degli attuali Stati membri, Cipro (altro caso; sia detto per inciso, di decisione sull'allargamento quanto meno affrettata). Basti pensare a quanto pesi nelle scelte di politica internazionale della Turchia il contesto geografico: l'Europa ha sempre confinato con la Turchia, non con l'Iran, l'Iraq e la Siria, i vicini della Turchia che, in caso di allargamento, diventerebbero i nostri vicini. Si tratta, al contrario, di un Paese fortemente sovranista, portatore di priorità e interessi economici e geopolitici diversi da quelli europei, la cui adesione, soprattutto se non preceduta da una riforma delle istituzioni europee ben più radi.

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cale di quella attualmente bloccata, impedirebbe certamente qualunque ulteriore passo dell'Ue verso una "unione sempre più stretta" capace di esistere come tale nel mondo globalizzato: tanto più che, una volta entrata la Turchia, sarà verosimilmente impossibile negare uguale trattamento ad altri Paesi arretrati e dalle scarse credenziali democratiche, come tutti i Paesi balcanici e, almeno, l'Ucraina; poi, come auspica Berlusconi, la Bielorussia, la Moldavia e forse perfino a tutti i Paesi del Caucaso (e si pensi soltanto a che cosa questo significherebbe nei rapporti fra Unione europea e Russia). È certo che un'Ue con la Turchia non sarebbe altro che un'impotente "Europa delle patrie" votata alla nullità politica come la vorrebbero gli euroscettici: non a caso, il primo ad evocare la possibilità di un'adesione turca alla Comunità fu a suo tempo il generale De Gaulle e non a caso oggi quasi tutte le forze politiche euroscettiche ne sostengono l'adesione (con l'eccezione, in Italia, dei leghisti, accecati dalla demagogia xenofoba, che oltre tutto impedisce loro di vedere nei turchi i loro più stretti prevedibili alleati futuri in sede europea nelle loro battaglie tradizionaliste, omofobe e sovraniste). Non è neppure un caso che il principale sponsor esterno del- Lo sponsor americano l'allargamento della Ue alla Turchia sia il governo americano. È vero, peraltro, che la mancanza di consapevolezza e di conoscenza sulla natura di quel soggetto di difficile classificazione che è l'Unione europea è straordinariamente radicata ad ogni livello decisionale, anche di vertice, della classe politica Usa. Se ne è avuto un ulteriore stupefacente segnale nel corso dell'interessantissimo incontro promosso a Roma nel marzo scorso dalla Margherita e dall'Udf francese con gli ambienti del Partito democratico americano più preoccupati di porre rimedio al logoramento delle relazioni euroatlantiche: perfino a quel livello apicale, perfino quegli interlocutori così simpatetici con l'Europa dimostravano una mancanza di conoscenza del ruolo e delle competenze delle istituzioni europee che, dopo così tanti anni di presenza dell'Ue sulla scena internazionale, non poteva che lasciare allibit1 15 . Assume così molta verosimiglianza l'aneddoto che si racconta su una telefonata intercorsa anni fa fra l'allora presidente 64


della Commissione Ue e Bill Clinton, nel corso della quale il Presidente Usa, perorando la causa dell'allargamento alla Turchia, faceva notare come anche gli Usa, dopo tutto, avessero coinvolto il Messico nel trattato Nafta: per sentirsi chiedere in risposta, si dice, dal Presidente della Commissione, quanti senatori e congressmen messicani sedessero nel Campidoglio di Washington. E si è letto che uno degli elementi capaci di sbloccare la situazione quando si trattò, settimane fa, di fissare la data di inizio dei negoziati per l'adesione della Turchia, siano state le telefonate del Segretario di Stato Rice ai capi di Stato e di Governo riuniti nel vertice europeo: non è difficile immaginare che si sia trattato di telefonate altrettanto informate e consapevoli delle implicazioni di quel che pretendevano (anche se seguite da pressioni ben più difficilmente resistibili) quanto i più compiti interventi degli esponenti democratici presenti al convegno romano della Margherita. Almeno a questi ultimi, però, politici europei più consapevoli della posta in gioco dovrebbero essere in grado di far presente che la tradizionale posizione kennediana dei democratici di sostegno all'integrazione europea e alle sue istituzioni, come necessario secondo pilastro dell'alleanza occidentale accanto a quello americano, presuppone un'Unione non paralizzata da un'insostenibile mancanza di coesione e omogeneità interna. Se ne riparlerà, ma questo possiamo solo augurarcelo, al termine del mandato dell'attuale Amministrazione. In ogni caso, se già le condizioni economiche arretrate, l'ancor Adesione maggiore arretratezza in termini di indici di sviluppo umano, le azzardata divergenti priorità economiche e strategiche, il populismo e il razzismo diffusi nei Paesi europei che ne verrebbero dicerto incrementati in misura pericolosissima rendono l'adesione della Turchia all'Ue un azzardo pari soltanto all'irresponsabilità collettiva di cui stanno dando prova le classi politiche delle due parti, resta che i problemi maggiori vengono soprattutt9 dalle profonde differenze di ordine etico-politico cheintercorrono fra le due parti. È inutile nascondere la testa sotto la sabbia: il fatto che la Turchia sia un Paese di tradizione musulmana ha molto a che vedere con queste differenze. Fino a poco più di un secolo fa la paro-

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la "turco" era in Europa sinonimo corrente per "non europeo" 6 La storia pesa, ma i politici europei sembrano ignorarlo: ripetono in questo, in sordina, con la Turchia, lo stesso errore che imputano agli americani in Iraq: voler applicare a una realtà storica, politica e sociale molto diversa dalla propria standard e regole domestici, attendendosi ingenuamente che "funzionino" nello stesso modo in cui funzionano da decenni a casa propria. Certo, gli europei non si impongono con le armi, ma perché quel che viene denunciato come rozza incapacità di' fare i conti con la storia da parte degli americani dovrebbe essere considerato raffinata opera di illuminati statisti europei? Va subito detto che questi problemi non hanno assolutamente niente a che fare con la questione delle pretese "radici cristiane" dell'Europa: semmai quel che oggi caratterizza i Paesi europei rispetto a tutto il resto del mondo è di essere la parte di gran lunga più secolarizzata del pianeta, quella in cui, salvo deprecabili rigurgiti come quelli a cui una classe politica di infimo livello sta sottoponendo l'Italia, più radicato è negli ordinamenti e nei valori diffusi il principio della laicità delle istittzioni e della separazione fra vita civile e comportamenti e appartenenze religiose. .

Si obietta, a questo proposito, che la Turchia è da ottant'anni uno Stato rigorosamente laico: anzi, si afferma, proprio l'adesione della Turchia, per il carattere laico delle sue istituzioni e per il pluralismo religioso che potrebbe apportare alla società europea, non potrà che rafforzare la laicità dell'Europa. Ed è proprio questa, probabilmente, la ragione dell'ostilità all'adesione manifesta ta inizialmente dalla diplomazia vaticana (ostilità che, peraltro sembra essersi molto attenuata negli ultimi tempi) e dallo steso cardinale Ratzinger prima della sua elezione a pontefice.' Bisogna però intendersi sul significato dei termini. In Turchia lo Stato è bensì laico, ma solo, o soprattutto, per effetto del carattere autoritario del regime kemalista e della tutela fin qui esercitata sulla laicità delle istituzioni dalle forze armate turche. In Turchia democrazia, libertà individuali, laicità delle istituzioni, secolarizzazione della società (almeno nei suoi settori urbani e maggiormente sviluppati) sono stati il frutto di quel peculiare esperimento politico, non privo di forzature autoritarie e di as66

Un Paese

ico?


sonanze con il giacobinismo francese (tratto ben rilevato e molto apprezzato a suo tempo da Maurice D uverger 17), che è stato la rivoluzione kemalista. Come per ogni altro fenomeno storico, si possono cercare elementi di continuità con la storia precedente di quel Paese che ne abbiano favorito o reso possibile l'affermazione, ma non c'è dubbio che si sia trattato di una svolta epocale e di un esperimento segnato da forti dosi di volontarismo. Basata sull'idea che non esistesse altra civiltà e altra modernità che quella occidentale ed europea, la rivoluzione kemalista costituì il più massiccio - e relativamente riuscito - tentativo di modernizzazione autoritaria di un Paese di tradizione musulmana. Fondato su un forte nazionalismo, su una concezione statalista e centralizzatrice della sovranità, su uno sforzo di omogeneizzazione autoritaria di tutte le articolazioni della società, su un laicismo di Stato che mirava allo sradicamento di superstizioni e religiosità popolare e sulla diffusione dell'istruzione, essa vedeva l'islam come un ostacolo sulla via della modernità, della civiltà e dello sviluppo, e non poteva basarsi, in una società contadina e scarsamente sviluppata, privadi un'estesa classe media e di ogni altro genere di establishment, che sul. ruolo centrale delle forze armate, poste a tutela .e garanzia di tale progetto di modernizzazione e di occidentalizzazione. Per ben tre volte ricorrendo all'assunzione diretta, anche se temporanea del potere, e molte altre intervenendo con pressioni e intimidazioni esplicite, le forze armate turche hanno preservato il nocciolo del progetto kemalista, assumendo il ruolo politico di supplenza riconosciuto dalla stessa Costituzione. Sarebbe ipocrita nascondersi che ciò ha evitato più volte alla Turchia il pericolo di consegnarsi alla guida di movimenti fondamentalisti a vocazione totalitaria. Ma è ovvio che un sistema politico del genere non è compatibile con gli standard democratici europei. Proprio al primo governo esplicitamente islamico di Recep Un Paese Tayyip Erdoan, un politico finora forzatamente "moderato" in bilico ma dal passato estremista ("Non si può essere musulmani e laici al tempo stesso, un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo aspetta la nostra sollevazione", sosteneva anni fa 18 ), l'Ue ha chie67


sto, e ottenuto, assieme a molte riforme liberalizzatrici in materia diritti umani (repressione della tortura, trattamento delle lingue minoritarie, ecc., che seguono la già conseguita abolizione della pena di morte) una profonda riforma di un elemento cardine del sistema costituzionale kemalista: il Consiglio nazionale di sicurezza, l'organo controllato dai militari preposto alla sorveglianza e alla tutela del sistema e della laicità delle istituzioni, che è stato, almenò formalmente ridotto a funzioni essenzialmente consultive, ovviamente con il voto favorevole ed entusiasta degli islamisti più radicali. Questa mossa è forse la più rivelatrice delle inestricabili aporie Il ruolo dei militari in cui l'Ue si è avventurata nel suo rapporto con la Turchia. Non laicisti c'è alcun dubbio che, se finora il totalitarismo islamista non ha mai conquistato il potere in quel Paese, ciò è stato dovuto al ruolo, certamente "antidemocratico" e incompatibile con principi e standard europei, dei militari laicisti (che peraltro, nonostante gravissime violazioni dei diritti umani, non hanno raggiunto l'indiscriminata ferocia del pouvoir algerino). Per potersi guadagnare il rango di membro dell'Ue la Turchia viene ora privata di questo argine, certamente estraneo al costituzionalismo europeo, ma grazie al quale essa si è fatta parzialmente "europea" in senso moderno; un argine che forse, magari circondato da garanzie e limiti più stringenti, era per ora ancora adeguato alla situazione di un Paese che si trova da decenni nel mirino del totalitarismo fondamentalista 19 . Se questa è però - e ovviamente non può non essere - la strada per l'adesione della Turchia all'Ue, che cosa farà l'Ue quando si dovesse ritrovare al proprio interno un eventuale futuro governo turco fondamentalista, eventualità a questo punto tutt'altro che inverosimile? Farà finta di nulla, come sta facendo con Berlusconi, Bossi e Fini in materia di pluralismo dell'informazione e di rule oflaw? Accetteremo nella Commissione e nel Consiglio, oltre che nel Parlamento e magari nella stessa Corte di Giustizia, commissari, ministri e giudici fautori della shari'a? O, al più, ricorreremo alla procedura di "sospensione dei diritti di appartenenza" (art. 7 Trattato Ue, art. 58 progetto di Costituzione), che richiede tra l'altro una decisione unanime del Consiglio, irraggiungibile dal coraggio civile e dal sagace "realismo" di cui certamente darebbero prova i nostri grandi statisti? C'è qualcuno disposto a credere 68


che l'ipotetico governo turco fondamentalista ne sarebbe granch impressionato? O si confida semplicemente che l'ingresso nell'Ue produrrà, per magia) una radicale e spontanea renovatio antropologica del Paese e nessuna reazione di rigetto? Del resto già ora, anche senza che vi siano stati intoppi o disastri imprevisti come quelli qui ipotizzati, la Turchia è ancora ben lontana dal comune sentire democratico dell'Occidente europeo anche dopo anni di accidentato e doloroso percorso di avvicinamento finalizzato all'adesione. Gli indubbi progressi fatti in materia di diritti linguistici dei curdi sono ancora ben lontani dall'avere assicurato a tale minoranza qualcosa di simile alla pari dignità sociale con la maggioranza turcofona; le riforme in materia di diritti civili, ordinamento penale e carcerario, polizia, sono ben lungi dall'essersi tradotti nella pratica, soprattutto nelle immense aree rurali del Paese; perfino nei centri urbani di Istanbul e di Ankara pacifiche manifestazioni di dissenso vengono represse con una violenza e una brutalità che sarebbero del tutto ingiustificabili anche nel caso di manifestazioni vietate in base a motivazioni teoricamente accettabili in una democrazia liberale.

Alcuni (pochi) progressi

Vi è poi l'imbarazzante rapporto dello Stato turco con il suo passato. Mai avremmo potuto pensare di creare un'unione politica con la Germania, se quel Paese fosse attestato su posizioni negazioniste a proposito dello sterminio degli ebrei. E anche se lo sterminio degli armeni non è pienamente comparabile a quest'ultimo, per pianificazione e pervasività (ma neppure il tardo Impero ottomano era paragonabile per efficienza alla Germania nazista); a novant'anni di distanza un assoluto negazionismo è tuttora l'inaccettabile posizione ufficiale dello Stato turco, appena temperata dalla proposta di far scrivere una sorta di "storia ufficiale" (cioè, inevitabilmente, una nuova "storia di regime" politicamente concordata) a una commissione internazionale di storici Ccdili ci". Ancor oggi, le poche pagine in inglese del sito Internet ufficiale del Parlamento turc0 20 sono in larga parte dedicate a documenti di propaganda sciovinista antiarmena, a cominciare da una selezione di documenti di archivio dedicati alle atrocità e al "genocidio" asseritarnente commesso dagli armeni ai danni dei turchi

Il peso del passato

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("Documents about the atrocities and genocide inflicted upon Turks by Armenians"): un atteggiamento a dir poco contrapposto con i fondamenti stessi su cui fu iniziato il processo di integrazione europea all'indomani della seconda guerra mondiale2 1 E va ancora ricordato come, in pieno processo di avvicinamento all'Europa, la maggioranza islamica "moderata" del Parlamento turco è stata a un passo dall'inserire nel nuovo codice penale, nel 2004, il reato di "infedeltà sessuale", manovra accantonata solo cedendo a malincuore e con sorpresa alle esterrefatte pressioni dell'Ue. Ancor più incredibile ai nostri occhi, ma evidentemente non a quelli di almeno una buona parte, se non della maggioranza, dei cittadini turchi, l'atroce episodio avvenuto nell'estate dello stesso 2004 a Smirne, quando una decina di ragazze di una scuola media religiosa in gita scolastica fu lasciata morire annegata perché le insegnanti impedirono ai bagnini maschi di toccare quelle ragazzine per soccorrerle: senza che ciò comportasse neppure l'apertura di alcun procedimento penale e, ancor più incredibilmente, senza che dai vertici del governo islamico "moderato" venisse una sola parola di condanna per quanto era accaduto. Come si può chiedere ai cittadini europei di far codeterminare il proprio destino da una classe politica che, anche nelle sue attuali espressioni, ritenute particolarmente filoeuropee, non riesce a trovare una sola parola di orrore e di condanna per fatti come questo, per non urtare il proprio elettorato "moderato"?

Episodi allarmanti

Tutto questo non significa ignorare o sottovalutare che la parte "occidentalista" della società turca, che comprende gran parte degli appartenenti ai ceti urbani e intellettuali, si considera parte naturale e scontata dell'Europa e dell'Occidente. I turchi sono stati alleati dell'Occidente nella Nato per l'intera durata della guerra fredda: magari perché era obbligato a farlo dall'insostituibile posizione strategica del Paese, a loro (a differenza che alla Spagna franchista) fu riconosciuta fin da allora dall'Occidente la condivisione del "comune retaggio e civiltà, fondati sul principio della democrazia, sulle libertà individuali e sull'impero del diritto", come recitava il preambolo del trattato Nato. Questi

Occidentalisti:

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purtroppo,

una minoranza


turchi sanno e sono orgogliosi di essere stati, fin dal 1950, membri del Consiglio d'Europa. Sentono, credono, di appartenere già alla civiltà europea e la riluttanza ad ottenere il riconoscimento pieno di tale appartenenza da parte degli altri europei è da loro vissuta come una ferita al già debordante orgoglio nazionale e nazionalistico 22 . Sono queste cerchie urbane e intellettuali le sole che davvero mettono in crisi le nostre stesse convinzioni, proprio perché le sappiamo vicine per sensibilità, aspirazioni, principi e scelte civili, e perché siamo ben consapevoli che, se fossimo turchi, condivideremmo in pieno le loro aspirazioni. Purtroppo, però, la società turca non coincide con i giornalisti, i docenti e gli studenti delle Università di Istanbul e di Ankara che ci interpellano dalle pagine dei media occidentali in nome dei nostri valori comuni e con lo stesso nostro linguaggio. Certo, i popoli e le culture cambiano ed evolvono. Ma altrettanto certamente non possono cambiare nel. giro di una decina di anni e per effetto di decisioni politiche pianificate dai capi di Stato e di governo riuniti in vertici internazionali. E del resto, come già detto, anche le aspirazioni europee dei turchi occidentalisti rischierebbero di essere travolte dall'esito verosimilmente negativo dei referendum.che si dovessero svolgere sull'eventuale trattato di adesione, così come la costruzione europea lo sarebbe dall'allargamento alla Turchia. Proprio per questo sembra essenziale trovare fin d'ora una via d'uscita alla catastrofe a scoppio ritardato che l'insipienza dei politicanti turchi ed europei sta preparando. C'è infine un risvolto italiano da sottolineare in questa vicen- Il risvolto jtauio da. L'abbandono da parte dell'attuale governo della destra italiana di quella politica di coerente impegno europeista a vocazione federalista che era diventato da decenni un patrimonio comune e realmente bzpartisan dell'Italia e che era stato in più occasioni determinante per l'avanzamento del processo di integrazione è certamente coerente, come si è detto, con il convinto sostegno all'allargamento alla Turchia. Perfetta coerenza può vantare l'attuale Ministro degli Esteri con il suo stesso passato neofascista, se si considera che, ancora all'epoca della "svolta" di Fiuggi, continuava.a sostenere di prefe71


rire un'Italia "tuffata nel Mediterraneo piuttosto che agganciata alla locomotiva tedesca" 23 . Del resto, quell'obiettivo può oggi dirsi perfettamente raggiunto. Coerenti anche Berlusconi, che non ha mai fatto mistero di considerare l'Ue come un fastidioso vincolo che gli impedisce di "rivoltare l'Italia come un calzino", secondo i suoi iniziali propositi, o il Ministro Martino, già membro o almeno simpatizzante del "gruppo di Bruges" di ispirazione thatcherita 23 . Del resto, come potrebbe pensarla altrimenti uno statista come Berlusconi, abituato a dover fronteggiare l'immotivato senso di superiorità degli altri governanti europei nei suoi confronti, e gratificato invece dall'establishment turco della qualifica di "grande mente" (sic) nella campagna pubblicitaria a pagamento condotta quattro anni fa su tutti i principali giornali italiani per il suo sostegno alla candidatura della Turchia? Coerenti anche gli alleati dell'Udc, nonostante il loro conclamato europeismo, se si considera che, con un centinaio di deputati turchi in più, la nomina di Buttiglione a commissario europeo non avrebbe certo corso il rischio di essere bocciata, dato che le opinioni sue e del suo partito in materia di donne e omosessuali, e su tutta la vasta partita dei diritti umani legati alla secolarizzazione, sono certo più omogenee a quelle ampiamente diffuse in Turchia (e più ancora negli altri Paesi islamici) che nell'Occidente europeo. E, del resto, la stessa diplomazia vaticana ha sempre tenuto in gran conto, e fatto ampio uso in sede di conferenze internazionali, dell'opportunità di intessere alleanze con i Paesi islamici e con le amministrazioni Usa repubblicane, contro le propensioni laiciste e liberali della diplomazia europea, in materia di politiche di controllo delle nascite o di prevenzione dell'Aids. Solo la demagogia xenofoba impedisce invece alla Lega Nord di intravedere analoghe opportunità di alleanza con i settori del mondo islamico europeo che maggiormente ne potrebbero condividere sia la difesa dei valori tradizionalistici sia l'agenda omofoba, clericale e familista. È semmai il centrosinistra italiano a non vedere la contraddi- L'importanza zione fra il proprio impegno europeista, sempre ribadito, per ea.neo un unione sempre piu stretta , e un allargamento dell Ue alla amici Turchia che rischia di rivelarsi come la miglior trappola ideata aegii 72


da euroscettici e antieuropei per provocare la "fine dell'Ue", come non a torto intravide quattro anni fa Giscard d'Estaing. C'è da sperare che vi sia ancora spazio per una pur tardiva resipiscenza, tanto più che proprio la formula prodiana dell"anello degli amici" potrebbe costituire lo strumento provvidenziale per salvare da questa sconsiderata avventura l'intera costruzione europea.

TAHAR BEN JELLOUN, Cara Europa, fatti coraggio e integra i barbari del Sud. «La Repubblica», 13 gennaio 2005. 2 MAuluzio VIR0LI, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari, 1995 (ed. or. Oxford 1995). 3 FEDERICO CHABOD, L'idea di nazione, a cura di Armando Saitta ed Ernesto Sestan, Laterza, Bari, 1961, più volte riedito. ' AMARTYA SEN, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un'invenzione dell'Occidente, Mondadori, Milano, 2004. 5 Uso alquanto arbitrariamente, e con un significato polemico certamente non del tutto coincidente con quello inteso dall'autore, una formula di Franco Cassano, mutuata da Albert Camus: FRANCO CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari, 1996. 6 Cit. in SiLvio LANARO, L'Italia nuova. Identità e sviluppo 1861 -1988, Einaudi, Torino 1988, p. 218. 7 FERNAND BRAUDEL, Il mondo attuale, Einaudi, Torino, 1966 (ed. or. Paris

1963). Richard Pipes, Flightfrom Freedom. What Russians Think and Want, «Foreign Affairs», volume 83, n. 3, May/June 2004. 9 TOMMASO PADOA-SCHIOPPA, Non mentire sul no francese, «Il Mulino», n. 4, Luglio/Agosto 2005. IO Ampio è il dibattito apertosi, sopratutto in Francia, sulla questione, sollecitato là anche dalla centralità assunta negli ultimi anni dal rapporto fra islam e laicità "alla francese", tanto nell'ambito nazionale quanto in quello europeo. In italiano, ANTONELLO BIAGINI, Storia della Turchia contemporanea, Bompiani, Milano, 2002 e L'Europa e i ruoli della Turchia, a cura di GIAMPAOLO CALCHI NOvATI e MARIA ANTONIA Di CASOLA, Giuffré, Milano, 2001. Si vedano inoltre le opere collettanee La Turquie, diretta da Semih Vaner, Fayard/CERI, 2005; il numero monografico La Turquie, della rivista «Pouvoirs», n. 115, novembre 2005, Seuil; La Turquie vers un rendez-vous décisifavec L'Union européenne, diretto da Didier Billion, IRIS/Puf. Feroz Ahmad, Turkey. The questfor Identity, Oxfor, Oneworls, 2003; The European Transformation ofModern Turkey, Brussels, Centre for European Policy Studies, 2004. Su fronti opposti, ALEXANDRE DEL VALLE, La Turquie 8

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dans l'Europe. Un cheval de Troie Islamiste?, Paris, Éditions des Syrtes, 2004, e Lettres aux turco-scemtiques, diretto da Cengiz Akatar, Aries, Actes Sud, 2004. I Se ne veda la formulazione nei due interventi di Romano Prodi nel dibattito L'identitt' dell'Euopa, svoltosi presso il Collegio Ghislieri di Pavia il l giugno su 2004, i cui atti sono pubblicati nel numero speciale del trismestrale «Gli Stati Uniti d'Europa» (supplemento del mensile «Critica liberale»), n. 5, Primavera 2004. 12 Così GIANLUCA SARDELLONE, La commedia degli equivoci, «Limes» n. 3199. MARIA ANTONIETTA C0NFAI0NIEIu, La trappola di un negoziato senza fine, in L'Europa e i ruoli ... , cit. 13 ENIUcA CHIAPPERO MARTINETTI, Dallo sviluppo economico allo sviluppo umano: quali distanze separano la Turchia dall'Ue, in L'Europa e i ruoli..., cit. 14 TIT0 BOERI e FABRIZIO C0RIcELLI, Europa: più grande opiù unita?, Laterza, Roma-Bari, 2003. 15 Mi permetto di rinviare a questo proposito al mio intervento di commento al convegno, Democratici sulle due sponde, «Gli Stati Uniti d'Europa», n. 8, Inverno 2004. 16 Si veda il curioso volume di GIovANNI RICCI, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell'Europa moderna, Il mulino, Bologna, 2002, che peraltro ne ricava stimoli per giungere ad un radicale superamento di quel passato. 17 MAURICE DUVERGER, Ipartiti politici, Comunità, Milano, 1975, pp. 344 (ed. or. Parigi 195 1/67). 18 Cit. in MAURIZIO MOLINARI, I rischi di una Turchia islamica scuotono l'Occidente, «La stampa» 18 luglio 2003. 9 Un quadro articolato dell'islam turco nel recentissimo volume di MASSIMO INTROVIGNE, La Turchia e l'Europea. Religione e politica nell'islam turco, Milano, Sugarco, 2006. Sulle vicende del fondamentalismo islamico in Turchia, anche GILLES KEPEL, Jihad, ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Roma, Carocci, 2001, pp. 389 ss. (ed. or. Gallimard 2000). Questo autore, come è noto, ritiene il fenomeno, in generale, in via di riassorbimento; l'opera citata è tuttavia precedente all'il settembre, alla vittoria elettorale degli islamisti "moderati" nelle scorse elezioni politiche e alla guerrra in Iraq. Assumono il caso turco come positivo banco di prova del rapporto fra islam e modernizzazione i due volumi di Nilufer Gòle, Musulmanes et modernes. Voile et civilisation en Turquie? La Découverte, Paris, 1993 (ed. or. Istanbul 1991) e Interpénétrations. L'Islam et l'Europe, Paris, Galaade, 2005. 20 http://www.tbmm.gov.tr/english/english.htm 21 Sull'argomento numerosi testi sono comparsi negli ultimi anni in Italia per i tipi di Guerini e Associati. Fra questi, TANER AKAM, Nazionalismo turco egenocidio armeno. Dall'Impero ottomano alla Repubblica, Milano 2005 (ed. or. LondonNew York 2004), e MARCO IMPAGLIAZZO, Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), Milano 2000. 22 SELIM DERINGIL, Turkey and its European Vocation, in L'Europa e i ruoli... , cit. 23 Intervista a Gianfranco Pini di Stefano Brusadelli, «Panorama», 14 gennaio 1994. 74


queste istituzèoni n. 1361137 inverno-primavera 2005

Turchia ed Europa: quo vadis? di Alessandro Silj

N

el clima di perdurante polemica sulla questione dell'adesione della Turchia all'Unione Europea, alimentato anche da episodi verificatisi recentemente in quel Paese (vedasi, ad esempio, la vicenda dello scrittore Pamuk), il rischio è che si perdano di vista quali sono veramente le poste in gioco, e che non vengano percepite; e valutate con la necessaria lucidità e serenità, alcune realtà di fatto. È quindi importante fare chiarezza. Tenendo conto, peraltro, che il negoziato per l'ammissione della Turchia durerà almeno dieci, se non quindici anni. Non sappiamo quali saranno le situazioni che avremo di fronte allora, in Turchia e più generalmente in Europa. Molto può cambiare nel frattempo, e certe opinioni potrebbero venire radicalmente modificate. Il buon senso, quindi, vorrebbe che oggi ogni giudizio venisse sospeso. E, tuttavia, le attuali polemiche e prese di posizione potrebbero influire negativamente sui cambiamenti in atto e alterarne quello che altrimenti sarebbe il loro corso naturale. Ultimamente i media e gli ambienti che in Europa sono contrari La Turchia ad accogliere la Turchia nella UE, commentando i casi dello scrit- oggi tore Ohran Pamuk, accusato di avere denigrato l'identità turca e della proibizione di un convegno sul genocidio degli armeni, hanno voluto vedere in questi eventi la prova che un abisso incolmabile divide quel Paese dai valori e dalle regole che vigono nei paesi europei. Lo stesso è avvenuto in occasione della proposta ventilata nel settembre 2004 dal governo turco di reintrodurre il reato di adulterio punibile con il carcere. Ma in realtà quegli eventi, invece, confermano che si è innescato un processo di avvicinamento e ciò che sta avvenendo rivela quanto le forze più tradizionaliste e

L'Autore ha pubblicato numerosi saggi sui problemi europei; attualmente dirige una ricerca sullo stato delle relazioni tra comunità musulmane e popolazione e istituzioni dei paesi nei quali vivono dopo l'li settembre. 75


conservatrici della Turchia temano che questo processo possa rivelarsi irreversibile. Le polemiche che li hanno accompagnati nella stessa Turchia sono le espressioni esteriori delle fibrillazioni e dei conati di resistenza che accompagnano ogni mutamento di un organismo quando questo avverte, nel più profondo di sé, i segni di quel mutamento. Chi li vive e tenta di opporvisi sono minoranze, frange del giudiziario e dell'esercito, alcuni settori della pubblica amministrazione, settori dei media - delle sacche di irriducibili nel tessuto di una società che sta vivendo, un processo di trasformazione che per molti aspetti può definirsi rivoluzionario. Sulle questioni Pamuk e armena il governo e le istituzioni competenti sono intervenuti per correggere la rotta: Pamuk non sarà processato; il convegno sugli armeni si è tenuto, seppure in una sede diversa da quella prevista inizialmente, e il primo ministro, Recep Tayyip Erdogan, ha condannato i pronunciamenti dei giudici (che pure erano stati incoraggiati dal ministro della Giustizia dei proprio governo, il quale aveva dichiarato che il convegno avrebbe rappresentato per la Turchia "una pugnalata alla schiena"). Non era mai accaduto che un leader politico al governo criticasse pubblicamente l'ordine giudiziario. In entrambi i casi la correzione di rotta, va detto, è avvenuta con il ricorso a cavilli tecnici, senza entrare nel merito. Rimane quindi da completare, e dovrà essere completata, la riforma di una legislazione penale che ha reso possibili quei casi (Bruxelles la considera cruciale ai fini di un buon esito del negoziato con la'UE), riforma che dovrà trovare riscontri nel cambiamento della mentalità di molti giudicL Quanto alla proposta di criminalizzare l'adulterio, era sponsorizzata dagli ambienti musulmani militanti più conservatori del partito di Erdogan, generalmente critici delle riforme occidentalizzanti promosse dal governo, e profondamente delusi per il fallito tentativo dello stesso Erdogan di abolire il divieto per le donne di indossare il velo negli edifici pubblici. Per questo Erdogan aveva inizialmente appoggiato la proposta, malgrado l'ostilità dei gruppi di diritti civili, dell'opposizione e dei media. La proposta è poi caduta nel settembre 2004 a causa anche del monito pervenuto da Bruxelles che la criminalizzazione dell'adulterio avrebbe potuto "complicare" il processo di avvicinamento alla UE, monito cui 76

L'impegno riformista di Recep Tayyip Erdoan


Erdogan aveva reagito accusando la Commissione UE di interferire negli affari interni del Paese, per poi arrendersi. Si era, dopo tutto, alla vigilia del Consiglio europeo che doveva deliberare sull'inizio del negoziato per l'adesione. Senza dubbio, Erdogan, il quale non deve guardarsi soltanto dagli attacchi che gli vengono dalla destra nazionalista, ma nemmeno può sempre contare sull'appoggio di quella intellighenzia laica e liberale che ancora non riesce a conciliarsi con l'idea che il Paese venga governato da un partito islamico, fino ad oggi ha saputo muoversi intelligentemente tra fuochi opposti, dando prova anche di coraggio, come quando a Diyarbakir, in territorio curdo, lo scorso anno dichiarò che la Turchia aveva sbagliato nei suoi rapporti con i curdi. Erdoan, ha dichiarato Pamuk, in tre anni ha fatto per la democrazia più di quanto i suoi predecessori abbiano fatto in trenta o cinquanta anni. Noi europei, nel giudicare il suo impegno riformatore, dovremmo sforzarci di valutarlo tenendo conto anche della storia e del contesto culturale del Paese. La questione del ve- Una lo è emblematica. Erdogan ha aspramente criticato la sentenza questione con cui il 10 novembre la Corte europea ha respinto il ricorso di emblematica una studentessa turca, con motivazioni che appaiono confuse e contraddittorie. Il divieto di portare il velo nelle università non viola i diritti umani, così ha deliberato la Corte, ed è anzi "necessario alla protezione del sistema democratico in Turchia", una considerazione, quest'ultima, dal significato piuttosto oscuro; è sconcertante, inòltre, l'ammissione della Corte di non essere riuscita a individuare in Europa "una concezione unifòrme del significato di una religione in seno alla società". Una tale sentenza non poteva riuscire gradita al premier, il quale, riferendosi se pur non esplicitamente al costume e alle tradizioni islamiche, e di nuovo senza temere di contraddire l'establishment militare e i suoi oppositori laici, nonché chi in Europa sostiene che la Turchia è troppo "diversa" per poter ambire a dirsi europea, ha affermato che l'autorizzazione a portar il velo è una "questione di libertà". Qui è forse il caso di ricordare che la recente legge francese sui simboli religiosi ha un illustre precedente in una legge emanata agli inizi del secolo scorso da Ataturk, che vietava tutte le manifestazioni pubbliche della religione. In un paese laico ma pur sempre musulmano, nel clima odierno di risveglio dell'orgoglio e del77


le tradizioni islamiche, il compito di un primo ministro musulmano non è invidiabile. Rimane il fatto, incontrovertibile, che molte delle riforme promosse dal nuovo governo non sarebbero mai avvenute in assenza del vigile monitoraggio esercitato dalla Commissione Europea. Tornerò tra breve sul peso che sta avendo la volontà di entrare nella UE sul processo di modernizzazione della società turca. Le pressioni esercitate da Bruxelles, è quasi superfluo notarlo, non sempre sono gradite. I turchi non hanno mai digerito la decisione di "promuovere" paesi come la Romania e la Bulgaria, e di porsi invece nei confronti della Turchia come guardiani fin troppo vigili delle sua azione riformatrice. E molti turchi argomentano che l'Europa non sempre è fedele essa stessa a un modello di democrazia irreprensibilmente rispettoso dei diritti umani e civili. Lo stesso Erdoan, in occasione del dibattito sulla proposta di criminalizzare l'adulterio, ebbe a dichiarare che l'Occidente non era necessariamente e su ogni questione "un modello di perfezione". Dobbiamo riconoscere che i turchi, in questo, hanno in parte ragione. A quanti hanno gridato allo scandalo per la vicenda di Pamuk, si potrebbe chiedere se, in materia di libertà di espressione, ritengano che davvero gli europei abbiano i titoli per scagliare la prima pietra. David Irving, lo storico inglese revisionista ("negazionista") è stato condannato dalla giustizia austriaca a tre anni di carcere in base a una legge che vieta la giustificazione dei crimini del nazismo, ed è persona non grata anche in altri paesi. Un editore tedesco si è rifiutato di pubblicare il saggio di Luciano Canfora La democrazia, pur avendo già firmato il contratto, a causa delle pagine sul riciclaggio dei nazisti durante i governi Adenauer. Paul Giniewski, un anziano studioso della religione, di nazionalità austriaca ma residente a Parigi, è stato portato in giudizio da Agrif, l'Alleanza contro il razzismo e per il rispetto dell'identità francese e cristiana, per aver criticato, in un articolo, l'enciclica Splendore della verità, di Giovanni Paolo TI. Riconosciuto colpevole dai tribunali francesi, ha fatto ricorso alla Corte europea per i diritti dell'uomo, e la Corte ha condannato la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione. Allora non scandalizziamoci più di tanto se Amr Moussa, il segretario generale della 78

La UE "modello di perfezione"?


Lega Araba, riferendosi alle famigerate vignette satiriche, ha dichiarato: "E che dire della libertà di espressione quando si tratta di anti-semitismo? Che essa non vale, perché l'anti-semitismo è un atto criminale? Tuttavia allorché l'islam viene insultato, certe potenze invocano il principio della libertà di espressione...". Quanto a Awraham Soetendorp, il rabbino olandese fondatore dell'Istituto Ebreo per i Valori .Umani, si è espresso in termini ancora più duri: "Quando una moschea viene assalita, tutti i luoghi di culto sono assaliti. Quando ascolto ingiurie contro i musulmani, provo lo stesso senso di nausea di quando ascolto pronunciamenti anti-semitici, sento che un intero popoio e la religione di. un miliardo di persone vengono stigmatizzati... è un crimine che non possiamo commettere Quanto sta avvenendo oggi nella nuova Turchia è un confron-. Società to/conflitto tra una emergente società civile riformista e:la cultura civile e di quello che è stato definito lo "Stato profondo", difeso da alcuni "Stato profondo" intellettuali, dai nazionalisti, da alcuni ambienti dell'establishment militare e della burocrazia che non vogliono rinunciare ad antichi privilegi e al potere di intervento e controllo nella vita politica del Paese, potere di cui avvertono il tramonto. Lo strumento di cui si avvalgono questi irriducibili è, in primis, l'articolo 301 del codice penale che vieta le "offese all'identità turca", reato punito con diversi anni di reclusione. Questa era l'accusa mossa a Pamuk. Ma il caso più clamoroso e più recente è quello di due eminenti giuristi, Baskin Oran e Ibrahim Kaboglu, autori di un rapporto sui diritti delle minoranze nel Paese, redatto nell'ottobre del 2004 nella qualità rispettivamente di relatore e presidente di una istituzione turca, ufficiale, il Consiglio consultivo sui diritti umani, creato su raccomandazione del Consiglio d'Europa, entrambi tradotti in giudizio per lo stesso reato. Il caso ha indotto oltre cento giuristi e intellettuali italiani, tra i quali Leopoldo Elia, Franco Bassanini, Andrea Manzella e Gustavo Zagrebelsky, a scendere in campo lo scorso gennaio (2006) con un appello al primo ministro turco. Erdogan e altri membri del suo governo hanno.dichiarato la loro volontà di cancellare il famigerato articolo 301. Ma nel frattempo, e quale che sia l'esito della vicenda (che probabilmente si risolverà con un luogo a non procedere, come nel caso Pamuk), è evidente 79


che episodi come questo non possono che indebolire la posizione dei sostenitori dell'ingresso della Turchia nella UE e, prima ancora, creare imbarazzo e spinosi dilemmi. politici al governo turco. Sempre recentemente (gennaio) la scure dell'articolo 301 ha rischiato di abbattersi su un alto funzionario dell'Unione Europea, l'olandese Joost Lagendijk, co-presidente del comitato UE sulJa Turchia, il quale si era recato a Istanbul in dicembre per assistere all'apertura del processo contro Pamuk. Parlando con i giornalisti, Lagendijk aveva affermato, tra l'altro, che un rifiuto dei curdi di dialogare con il governo rischiava di rafforzare l'esercito turco, perché in una situazione di conflitto l'esercito meglio può giustificare l'importanza del proprio ruolo nella vita del Paese, dichiarazione che ha spinto i gruppi nazionalisti, sorretti da un agguerrito manipolo di avvocati (gli stessi che si sono mobilitati contro Pamuk e il convegno sugli armeni) a denunciano alla magistratura con l'accusa di avere insultato l'esercito. Non mi risulta che l'inchiesta della magistratura abbia avuto un seguito. I nazionalisti turchi, una minoranza molto vocale e bellicosa, con la quale Erdoan è costretto periodicamente a fare i conti, sono convinti che il separatismo curdo e un islam politico rappresentano una minaccia mortale per il proprio Paese, e fanno di tutto per bloccare o almeno ostacolare per quanto possibile la missione riformatrice del governo. Tutto ciò, come si è detto, non può che alimentare l'opposizio- L'evoluzione ne di chi ritiene che la Turchia non è matura, né forse lo sarà mai, della politica per ambire a conquistare un seggio nel consesso europeo. E, tut- in Turchia tavia, occorre ragionare sul lungo termine; e ogni giudizio non può prendere in conto soltanto certi episodi specifici dell'oggi, ma deve guardare anche a quelli che sono stati gli sviluppi della società turca in generale e, in particolare, alle profonde trasformazioni del movimento islamico verificatesi in quel Paese nel corso dell'ultimo decennio, e alle loro implicazioni per quanto riguarda il futuro. I rapporti che Mario Zucconi ha scritto per Ethnobarometer, in particolare l'ultimo, del settembre 2005, sono senza alcun dubbio la più approfondita analisi di tali sviluppi e trasformazioni pubblicata a tutt'oggi. Il lettore interessato potrà trovarla su www.ethnobarometer.org . Qui mi limiterò a una brevissima sintesi. .


La prima fase dell'evoluzione politica della Turchia nell'ultimoL'islam politico e decennio riguarda la profonda trasformazione sociale che ha porantieuropeo tato la "periferia" (le masse dell'interno dell'Anatolia emigrate nei grandi centri urbani con la loro cultura islamica) al centro della di Na.kinettm politica turca gia alla meta degli anni Novanta. Trattandosi di Erbk uno sviluppo sgradito per le vecchie élite laiche, quella profonda trasformazione e il suo significato per l'evoluzione politica del Paese è stata largamente trascurata nelle analisi degli osservatori e nella letteratura scientifica. A suo tempo, la vittoria del Refah (o Partito del Benessere), il partito islamico guidato da Nekmettin Erbakan, fu vista come un evento temporaneo determinato da fattori affatto contingenti. Invece, quella trasformazione sociale fu la premessa del più ampio successo elettorale dell'attuale partito al potere, l'AKP, nel novembre 2002. Essa porta anche ad una compiuta istituzionalizzazione della vita politica turca con la progressiva demotivazione delle politiche ribellistiche e anti-sistema presenti in settori della "periferia" non toccati dalla rivoluzione kemalista (in qualche misura, lo Stato kemalista, laico e nazionalista, e la ribellione di settori della minoranza curda sono da considerare elementi complementari). Nekmettin Erbakan ha rappresentato la continuità dell'islam politico nella Turchia repubblicana. Egli è stato il leader di una serie di partiti politici di ispirazione islamica fra il 1970 e il 2001. Il primo partito, fondato da Erbalcan nel 1970, islamista e antieuropeo, veniva messo al bando l'anno seguente; il nuovo partito, fondato lo stesso anno, era poi spazzato via dal colpo di stato militare del 1980. Il Refah, fondato nel 1983, doveva avere vita più lunga, ma alla fine veniva messo al bando dopo le dimissioni forzate dello stesso Erbakan nel 1997. -

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Eppure, qualunque sia la continuità rappresentata dalla figura di Erbakan stesso, c'è evidentemente una frattura fra il sostegno a Refah negli anni Ottanta e quello raccolto dallo stesso partito negli anni Novanta. Mentre nel 1987 il partito aveva ottenuto solo il 7,2% dei voti (al di sotto della soglia del 10%, fissata dalla Costituzione del 1982, necessaria per sedere in Parlamento), alle elezioni parlamentari del 1991, il partito balzava a quasi il 17% (con una piccola quota di voti da attribuire anche al MHP, Miiz),etci 81


Hareket Partisi, il partito nazionalista che si presentava nella stessa lista). Successivamente e dopo le elezioni amministrative.del 1994, in cui riportava il 19,1% dei voti a livello nazionale, alle politiche del dicembre 1995, il Refah diveniva il primo partito del Paese, con il 21,4% dei voti e 158 seggi (su 550). Era una svolta rivoluzionaria difficile da accettare per le vecchie élite laiche abituate a controllare il potere in Turchia. Pertanto, secondo alcuni analisti, esisteva una "stretta correlazione fra il declino della socialdemocrazia come forza trainante della politica turca e l'ascesa del Refah quale alternativa radicale alla tradizionale socialdemocrazia laica". Un esempio cui faceva riferimento in modo specifico tale analisi erano le elezioni del 1994, quando sia ad Istanbul che ad Ankara i sindaci socialdemocratici uscenti erano stati sostituiti da membri del Refah. Così, sempre secondo questa analisi, l'islam politico, da una parte riempiva il vuoto lasciato dal fallimento della socialdemocrazia, e dall'altra incanalava il malcontento di quegli strati sociali rappresentati da. gruppi professionali e dal mondo degli affari, da persone con una mentalità modernista, ma che si sentivano ancora esclusi dai gruppi di élite. Altri osservatori definivano il successo del Refah in termini analoghi, ovvero come espressione di chi si considerava tenuto fuori dalla politica tradizionale: erano i "perdenti" nel processo di trasformazione economica del Paese, i più polemici nei confronti delle pratiche politiche corrotte (analogamente, a proposito del successo dell'AK.P, nel novembre 2002, molti osservatori avrebbero sottolineato le conseguenze della profonda recessione economica del 2000-200 1). L'identità religiosa aiutava costoro a differenziarsi dall"irreligiosità" dello Stato kemalista. La seconda fase dell'evoluzione politica della Turchia è quella del La condizionarapporto simbiotico che, negli anni più recenti, la politica interna lita turca ha sviluppato con l'Europa nell'accettazione rapida della condizionalita imposta dall Unione. Si tratta diun rapporto dellUnione nuovo che non va confuso con.la vecchia aspirazione all'occidentalizzazione delle élite ottomane e poi kemaliste, pur sommandosi ad esse. Si riferisce, invece, all'evoluzione successiva al 1997 del partito di origine islamica già al centro della politica turca dalla metà di quel decennio. Ma nel 1997, con lo scontro fra quel par82


tito (Partito del Benessere, fondato su dettami religiosi) - veicolo di una partecipazione più avanzata di vasti settori dell'elettorato e, quindi, di consolidamento democratico nel Paese - e i. principi laicisti dello Stato kemalista, lo. sviluppo politico del Paese si trova in una pericolosa impasse. In altre parole, l'avanzamento democratico che avviene attraverso un partito islamico e i dettami dello Stato laico risultano inconciliabili. Successivamente, la trasformazione dei partiti eredi del Partito del Benessere, con il loro progressivo identificarsi con le norme e i valori richiesti per l'integra-. zione in Europa, permette il superamento di quella condizione di stallo politico e istituzionale e, insieme, una più rapida assimilazione nella politica e nelle istituzioni del Paese di quelle norme e quei valori. In sostanza, .se il viaggio della Turchia verso l'Europa era iniziato alcuni decenni prima, ora la funzione dell'Europa nella politica interna turca, diviene un elemento integrale e condizione essenziale dell'evoluzione democratica di quella politica. I meccanismi decisionali dell'Unione Europea sono già talmente macchinosi che è difficile credere che l'ingresso della Turchia, dopo quello di Romania e Bulgaria, e in prospettiva della Croazia, potrebbe rappresentare un fattore a tal punto negativo da giustificare, da solo, la sua esclusione. Tuttavia, c'è chi sostiene (incluso Robert Badinter, il costituzionalista francese che ha ispirato le costituzioni di alcuni degli Stati emersi dal collasso della Jugoslavia di Tito) che l'ingresso della Turchia, a causa delle dimensioni del paese potrebbe provocare un "infarto istituzionale". Ma, se érrori vanno lamentati nella strategia di allargamento dell'Unione, questi sono stati semmai l'ammissione di un paese diviso, come Cipro, e della minuscola Malta, i quali, grazie al loro status di membri, detengono un diritto di veto che, se esercitato, potrebbe portare a situazioni paradossali. Altri paesi, Albania e Macedonia, oggi sono stati indotti a credere, come fu per la Turchia già quaranta anni fa, che le porte della UE un giorno potrebbero aprirsi, e sappiamo che la Polonia, per proprio conto, sponsorizza l'ingresso dell'Ukraina. In realtà, l'Unione ha imboccato una strada, quella dell'allargamento, senza ritorno, con tutte le conseguenze che, questo comporta sul piano del proprio funzionamento, dal momento che non ha saputo e voluto riformare i propri meccanismi istituzionali.

Quale Europa domani?

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Quella unione più stretta, auspicata come prospettiva dai padri fondatori dell'Europa, è sempre stato soltanto un miraggio, e tale destinato a rimanere. Ed è forse il caso di ricordare che ad affossar la non è stato certo l'allargamento: fu invece l'Olanda, nei negoziati segreti del lontano 1962, quando silurò, con la complicità della Francia, il progetto di unione politica noto come piano Fouchet. Chi ha riso e chi ha pianto sui successi della politica di allargamento? Hanno riso soprattutto gli inglesi, da sempre e tenacemente oppositori di qualsiasi sviluppo suscettibile di condurre a una entità anche soltanto lontanamente configurabile come federazione o comunque "unione stretta". Gli storici un giorno, forse, confermeranno che, nella convinzione di dover crescere, e non potendo o volendo imboccare la strada che poteva portare a quest'ultima, la UE ha imboccato come alternativa quella dell'allargamento. Alla quale, comunque, indipendentemente da ogni altra considerazione, va dato atto di essere stato l'atto politicamente più significativo dell'Europa del dopoguerra, una decisione storica grazie alla quale per la prima volta il ruolo della UE è stato quello di una grande potenza, avendo, dopo la caduta del Muro, teso la mano ai paesi dell'Est, superando divisioni antiche e ponendo le fondamenta di una nuova era in Europa. Se una qualche forma di unione stretta un giorno nascerà, verrà dalla decisione di un manipolo ridotto di paesi, i quali, nel marasma paludoso costituito da trenta e oltre paesi conviventi nell'Unione, imboccheranno la strada della geometria variabile e dei cerchi concentrici (e forse nemmeno necessariamente concentrici, quando si pensi che oggi la Svizzera fa parte dello spazio Schengen), e in parte già imboccata, con la zona Euro e il G6 (Gruppo dei ministri degli Interni, già G5) ispirato da Nicolas Sarkozy, accettando rinunce di sovranità più sostanziali di quelle realizzate fino ad oggi. Ma evidentemente questo, ammesso che abbia possibilità di divenire realtà, prescinde e nulla ha a che vedere con la questione dell'adesione turca oggi sul tappeto. Oggi l'Europa sta diventando il nuovo Commonwealth, il primo Un nuovo grande Commonwealth del terzo millennio, una comunità di Sta- Comti diretta a promuovere il bene comune. È chiaro che grazie a monwealth quanto realizzato fino ad oggi, sul piano delle cessioni di sovranità - politiche comuni, obbligo degli Stati di dare applicazione 84


alle direttive della Commissione, ecc. - questa entità sarà molto di più di una zona di libero scambio, ma significherà anche che il cammino verso una unione più stretta sarà stato definitivamente interrotto. Vero è che il Commonwealth di più recente memoria, quello britannico, ribattezzato nel 1949 Commonwealth di Nazioni, riconosceva in Londra un punto di riferimento e centro di direzione (peraltro, non accompagnato da un reale potere) che la nuova Europa ancora non ha, sebbene non manchino i candidati, (un rinnovato asse franco-tedesco o la stessa Gran Bretagna), ma, al tempo stesso, i legami sostanziali che uniscono i suoi membri sono molto più stretti di quelli del Commonwealth britannico. Infine, un'ultima considerazione: forse, chissà, se si prendesse atto di questa nuova realtà europea, diversi sarebbero i ragionamenti e certe scelte meno lancinanti. E diciamo, provocatoriamente, che allora la partecipazione della Turchia alla vita dell'Unione potrebbe tranquillamente venire definita di natura associativa senza per questo essere, di fatto, diversa da quella degli altri Stati. In ogni caso, se diamo per inevitabile l'espansione del processo di allargamento, si può ipotizzare che essa non avvenga soltanto verso Est e, in tal caso, dovremmo parlare di un Commonwealth euro-mediterraneo... Nel dibattito in corso sul problema dell'adesione della Turchia alla UE le argomentazioni degli uni e degli altri possono essere di volta in volta politiche, o ideologiche, o economiche, o culturali, oltre che storiche, con il risultato di eludersi a vicenda, e talvolta usate a pretesto (ad esempio, quelle economiche) per mascherarne altre. Il paese che appare più di altri dilaniato da dubbi e posizioni opposte è la Francia, dove Giscard d'Estaing, forte della posizione conquistata come presidente della Convenzione che ha redatto la tanta controversa costituzione, fin dall'inizio si è dichiarato contro ("Davvero volete che un domani un presidente turco rappresenti l'Europa?", e ancora: se la Turchia entrasse "sarebbe la fine dell'Europa"), mentre Chirac, in linea di principio è favorevole, ma non senza ambiguità: il suo emendamento alla costituzione che impone di sottoporre la questione a un referendum popolare è un masso gettato sul percorso che porterebbe all'adesione. Nella strategia elettorale del suo rivale, Nicolas Sarkozy, in vi-

Turchia sì, Turchia no

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sta del voto che dovrà eleggere il prossimo Presidente della Repubblica, troviamo invece la proposta di non andare oltre un "partenariato privilegiato". Merita attenzione ed è significativo, per via anche del suo personale prestigio, per l'opera svolta quando era presidente della Commissione della UE, e da sempre tenace europeista, il cambiamento di posizione di Jacques Delors, inizialmente contrario, oggi invece in favore di una adesione della Turchia all'Unione. I paesi che oggi sono più apertamente ostili all'ingresso della L'Europa Turchia, semmai proponendo l'alternativa del partenariato privi- contro, legiato, sono la Germania (peraltro, soiò recentemente passata.nel il cas tedesco i campo aegii oppositori, non io era quanao ai governo era cnroeder), l'Austria, l'Olanda e la Danimarca; ma non sono i soli. Gran Bretagna e Italia sono tra i più convinti sostenitori, almeno a livello dei governi. Il caso della Germania merita attenzione per almeno due motivi: perché dei 3,2 milioni di musulmani che vi vivono oltre due milioni e mezzo sono turchi (circa la metà dei 5 milioni che vivono nella UE, Bulgaria e Romania comprese) e perché il fatto che la maggioranza di questi non si sono integrati viene citato come emblematico da chi sostiene che la Turchia non potrà mai veramente "europeizzarsi". In anni recenti, il tema della mancata integrazione, affrontato in alcune opere letterarie e film da autori turchi cittadini tedeschi o residenti in Germania, ha vivacizzato il dibattito. Così il film Gegen die Wand (Contro il Muro), di Fatih Akin, vincitore nel 2004 del primo premio al Festival di Berlino, la storia di una giovane donna che racconta della sua fuga dai genitori e delle tragiche conseguenze del principio dell'onore nelle famiglie turche; il film descrive l'integrazione come una illusione. Così il romanzo Die Fremde Braut (La sposa straniera), di Necla Kelek, che narra di tre giovani donne turche costrette a lasciare il loro paese per sposare un loro compatriota residente in Germania. Non conoscendo la lingua e essendo del tutto dipendenti dal marito e dai parenti più stretti, scoprono che l'integrazione è impossibile: "In realtà mi sono resa conto che non sono venuta per vivere in Germania, ma in una famiglia", commenta una di esse. L'autrice è molto critica dell'islam i cui valori, argomenta, forse non sono compatibili con le democrazie, e 86


chiede: "Quanta tolleranza sollecita noi musulmàni al fine di po ter praticare l'intolleranza?" È appena il caso di notare che queste e altre testimonianze portano abbondante acqua al mulino non solo della propaganda anti-immigrazione dell'estrema destra, ma più generalmente alimentano i dubbi anche di quegli osservatori liberali e non prevenuti che si interrogano sulla volontà o capacità dei musulmani di condividere i valori di una democrazia occidentale. Commentando una causa giudiziaria che tre anni fa ha avuto grande risonanza in Germania, di una giovane insegnante afgana, Fereshta Ludin, che rivendicava il diritto di indossare il velo nella scuola, la famosa femminista Alice Schwarzer ha definito il velo vero e proprio simbolo della separazione tra musulmani e non musulmani. "È ora" ha detto, "di porre fine a questa generosa pseudo-tolleranza, e di cominciare a rispettarci, con un vero rispetto-rispetto per quei milioni di musulmani che dalla loro stessa gente sono minacciati dal terrore anche più di quanto non lo siamo noi Non bisogna generalizzare, evidentemente, poiché non è detto Società che le opinioni espresse nelle opere sopra citate riflettano quelle parallele della maggioranza dei. turchi che vivono in Germania, ma tutto ciò deve fare riflettere. Se è vero che l'Europa oggi è un mosaico di diverse culture e religioni nel quale convivono minoranze provenienti da tutti i continenti, e spesso gli europei che dicono questo lo dicono con il compiacimento di chi è tentato di porsi come esempio e modello, tuttavia è anche vero che dobbiamo interrogarci sulla natura e sulle modalità di tale convivenza. Convivenza è qualcosa di diverso da una contiguità fisica o coabitazione. Oggi la Germania ospita società parallele, culture aliene l'una all'altra, che comunicano tra loro con difficoltà perché non hanno valori e un linguaggio comuni. Addossare tutto il biasimo per questa situazione alla comunità musulmana, vista come prigioniera della propria cultura e incapace di dialogare con altre culture, significherebbe travisare, almeno in parte, la realtà. Fino a ieri, letteralmente fino a ieri, la politica ufficiale della Germania è stata di considerare gli immigrati come presenze temporanee, "ospiti" che prima o poi sarebbero tornati nelle loro terre di origine, a dispetto del fatto che molti immigrati avevano acquisito la cittadi-


nanza tedesca (oggi sono 800.000 i turchi che hanno il passaporto tedesco). Soltanto nell'aprile 2005, con una legge ad hoc sull'immigrazione, per la prima volta, a cinquanta anni dall'arrivo dei primi lavoratori turchi, la Germania ha preso atto veramente di essere un paese di immigrazione e varato misure atte a favorire l'integrazione, quali ad esempio corsi di lingua tedesca - per bambini ed adulti, riconoscendo che senza le necessarie conoscenze linguistiche non può darsi piena partecipazione al mercato del lavoro, - e anche corsi e iniziative che favoriscano la partecipazione alla vita, nelle sue diverse manifestazioni, della società civile. Anche negli altri paesi dell'Unione, in alcuni più di altri, sono stati avvertiti sentimenti se non sempre di ostilità, certamente di preoccupazione rispetto alla prospettiva di un ingresso della Turchia. Tra l'altro, nel fallimento dei referendum sulla costituzione europea è stato letto anche un rifiuto di tale prospettiva, secondo un sondaggio del giorno successivo al voto nella proporzione del 18% di coloro che in Francia hanno votato no. In realtà, l'ostilità dei cittadini dell'Unione si manifesta, in primo luogo, sulla questione dell'allargamento in generale e non soltanto per quanto riguarda la Turchia. Secondo recenti sondaggi della UE, il 58% dei francesi sarebbe ostile non solo all'ingresso della Turchia, ma anche di Romania, di Bulgaria e di altri paesi dei Balcani, il 58 anche in Austria, il 61 in Germania, contro il 38% in media in tutta la UE. Le motivazioni non sono univoche, e si intrecciano. I timori generati dall'immigrazione, in generale, sono senza dubbio un fattore, ma questo va visto in relazione alla percezione negativa che nella maggior parte dei casi la gente ha delle proprie condizioni economiche e sociali, presenti e future. E allora entrano in gioco la disoccupazione e problemi connessi, e, in generale, le incertezze a paure generate da processi di cambiamento che potrebbero condurre a una minore sicurezza sociale. Incertezze e paure rafforzate, in molti paesi, dalla crisi di fiducia dei cittadini nei confronti della capacità della loro classe politica di gestire l'economia e i rapporti sociali interni, non solo, ma anche nei confronti delle loro politiche in ambito europeo. La crisi determinata dal fondamentalismo e dal terrorismo di matrice islamica rappre-

Il no europeo a immigrazione e allargamento


senta non soio un elemento dirompente a livello internazionale, ma un ulteriore fattore di incertezza e di paura che si somma e rende tanto pi1 problematici i nodi irrisolti all'interno di ciascun paese. E allora non bisogna sorprendersi se allargamento e immigrazione vengono percepiti come potenziali minacce. Per quanto concerne l'immigrazione di musulmani in particola- Il fattore re, la percezione delle differenze culturali rappresenta un fattore culturale ulteriore di diffidenza. Secondo un sondaggio Pew del 2005, esso è presente soprattutto in Francia, Germania e Olanda, ma anche in Spagna e Polonia. Sarebbero molti i cittadini europei in questi ed altri paesi dell'Unione che avrebbero espresso il parere che la coscienza della identità religiosa tra le comunità di immigrati musulmani va crescendo e che ciò rappresenta un fatto negativo (a bad thing) per il proprio paese. In alcuni paesi, sempre secondo quel sondaggio, sarebbe aumentato il numero delle persone che temono che il rafforzamento dell'identità islamica possa impedire l'integrazione dei musulmani nella società, ed inoltre, dubbi sarebbero stati espressi sulla possibilità che la Turchia continui ad essere uno Stato laico; nel qual caso, la Turchia non dovrebbe essere ammessa nella UE. Su quest'ultimo aspetto, notiamo incidentalmente, perché mi sembra interessante, il dissenso di chi (come Anatole Kaletsky, in "Let Turkey join the UE", Times Online, ottobre 2004) si chiede il successo di una assimilazione di musulmani turchi nella civiltà laica dell'Europa non potrebbe costituire la sfida definitiva alla fantasticherie fondamentaliste di un nuovo Califfato destinato a governare un mondo musulmano riunificato". Sarebbe un errore ritenere che certi atteggiamenti da parte dell'opinione pubblica europea vadano interpretati riduttivamente come un prodotto di quel razzismo e di quella xenophobia, da tempo presenti in Europa e amplificatisi dopo gli attentati dell'il settembre e successivi. Infatti, si è evidentemente ormai inserita, anche nell'opinione liberale che razzista non è mai stata, una riflessione critica sulla validità dei modelli di multiculturalismo fino ad oggi praticati. Ed è altrettanto evidente che, al.punto in cui sono le cose, un certo vittimismo delle comunità musulmane va superato e che è nel loro interesse e spetta a queste comunità partecipare al dibattito e cercare esse stesse, nel confronto, un ruolo di mediazione. 89


E anche di informazione, poiché, tornando al caso Turchia, è un L'immagine fatto che tradizionalmente l'immagine di questo Paese non è stata della Turchia delle migliori e, soprattutto, che sono pochissimi gli europei che possono dire di conoscerne la storia, la cultura e la sua odierna realtà; e questo vale anche per gli altri paesi di origine degli immigrati, eccezion fatta, forse, per il Maghreb. Non si può d'altronde dire che il governo turco, per quanto ambisca a far parte dell'Unione, fino ad oggi abbia fatto molto per promuovere l'immagine del proprio Paese, che agli occhi della grande maggioranza degli europei appare ancora come economicamente arretrato, povero e agricolo, il che è vero se si guarda ad alcune sue regioni ma non al Paese nel suo insiemè, nel quale la popolazione agricola non supera 1, 11% del totale, e i servizi rappresentano il 55% del prodotto nazionale lordo. In realtà, l'economia turca è molto più dinamica di quelle di alcuni paesi membri della UE, nonché dei due paesi già alle soglie dell'ammissione, Bulgaria e Romania. Sul piano dei diritti umani, le vicende di violenza e di soprusi in un carcere turco, nel film del 1978 di Oliver Stone, Midnight Express, programmato con grande successo in tutta Europa, aveva diffuso l'immagine di una società corrotta nella quale all'insegna dell'illegalità si calpestavano i più elementari diritti umani e civili, e generalmente presentato dei turchi una immagine molto negativa. Recentemente si è mossa la Tusiad, l'Associazione degli industriali turchi, che ha avviato una campagna decennale per rimuovere quella e altre immagini negative e convincere gli europei a "guardare oltre gli stereotipi". "Il nostro target" ha dichiarato la dirigente delTusiad responsabile della campagna, "non sono né il mondo degli affari né gli uomini politici, ma gli elettori nei paesi dell'Europa. È questo il problema che abbiamo di fronte. Il danno causato da Midnight Express è stato pazzesco, la gente ancora lo ricorda...". Va detto che l'imprenditoria turca è molto occidentalizzata, e di idee liberali. Nel 1997 il Tusiad promosse e finanziò la prima ricerca sui processi di democratizzazione nel Paese e sulla questione curda. Probabilmente è dal settore delle attività economiche che verrà il principale contributo al miglioramento dell'immagine turca, grazie ai frequenti viaggi in Europa di imprenditori del Paese, e agli scambi commerciali che nel 2004 hanno sfiorato i 70 miliardi di euro (nella classifica degli scambi 90


con la Turchia la Germania occupa il secondo posto dopo gli Stati Uniti, l'Italia è terza). Inoltre, sono numerose le imprese europee che investonò in Turchia. Ma non solo. Più significativo mi sembra essere, ai fini dell'integrazione, il fatto che in Germania operano 65.000 imprenditori di origine turca, immigrati, molti dei quali hanno ottenuto la cittadinanza. Il loro fatturato nel 2004 ammontava, secondo alcune stime, a 'quasi 30 miliardi di euro. Alcuni di loro sono entrati in politica, come Vural Òger, una celebrità ad Amburgo, eletto al Parlamento europeo nelle liste del Partito Socialdemocratico. Naturalmente parliamo di minoranze, e occorreranno alcuni anni, considerati i ritardi, le manchevolezze e l'inazione (più sopra citate) che fino ad oggi hannci caratterizzato il processo di integrazione in Germania, perchè il fenomeno si espanda, ma tutto ciò è nondimeno molto positivo. E si può dire che, di fatto, con la sua gente migrata in Europa, le esportazioni e gli investimenti delle sue imprese in molti paesi della UE, la Turchia è gia attore e partecipe della realtà europea. Riepiloghiamo: aprile 1949, la Turchia viene ammessa nel Consiglio d'Europa; febbraio 1952, diventa membro della NATO; settembre 1963, firma l'Accordo di Associazione alla Comunità Europea e De Gaulle e Adenauer prendono atto della "vocazione europea della Turchia; settembre 1986,. 1 Accordo di Associazione, congelato dopo il colpo di stato militare del 12 settembre 1980, viene riattivato; aprile 1987, la Turchia presenta la domanda di ammissione alla Comunità Economica Europea; dicembre 1989, la Commissione europea dà il suo avvallo alla domanda di ammissione; gennaio 1996, entra in vigore l'Unione Doganale; dicembre 1999, il Consiglio europeo concede alla Turchia lo status di candidato all'ammissione; marzo 2001, il governo di Ankara vara il Programma Nazionale per l'adozione della normativa UE; settembre 2001, il parlamento turco approva circa 30 emendamenti alla costituzione per adeguarla ai criteri politici della UE per l'ammissione; agosto 2002, il parlamento turco vota una serie di riforme per allinearsi ai criteri Eu sui diritti umani; dicembre 2002, il Consiglio europeo di Copenaghen delibera che i negoziati per l'ammissione verranno aperti se lo stesso Consiglio, nel dicembre 2004, sulla base di un rapporto della Commissione, p0-

La lunga marcia della Turchia lEuropa

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trà constatare che la Turchia è fedele ai criteri politici di Copenaghen, e delibera inoltre il rafforzamento dell'Unione Doganale e concede alla Turchia un aumento dell'assistenza finanziaria normalmente concessa ai candidati all'ammissione; maggio 2003, il Consiglio Eu stabilisce i principi, le priorità, gli obiettivi e le condizioni per l'ammissione; dicembre 2004, il Consiglio europeo si pronuncia a favore dell'apertura di negoziati formali per l'adesione; gennaio 2004, la Turchia abolisce la pena di morte; ottobre 2005, il Consiglio europeo dà il via libera ai negoziati per l'ammissione. Queste sono le date che scandiscono l'oltre mezzo secolo di rap- Un'istruttoria porti tra la Turchia e l'Europa. La Turchia è anche membro del- severa l'OEcD, della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, dell'OSCE, ed è soggetta alla giurisdizione della Corte Europea per i Diritti Umani. Ha sempre avuto fondato motivo di credere che un giorno sarebbe entrata a far parte di quella che oggi è l'Unio ne, già Comunità Economica Europea. Nessun uomo di governo europeo, in passato, l'ha indotta a sospettare il contrario. Se l'etica fosse la regola nei rapporti internazionali, un rifiuto a questo punto screditerebbe gravemente l'Europa agli occhi del mondo. Ma il clima è cambiato, perché oggi i governi della UE non vogliono e in verità non possono permettersi di ignorare le proprie opinioni pubbliche. E non troviamo in Europa leader politici con la statura e il prestigio necessari per anche soltanto tentarlo. Non era possibile, sarebbe stato politicamente insostenibile, negare alla Turchia l'apertura di un negoziato. Tuttavia, certamente, la UE non sarebbe tenuta a mantenere le promesse fatte in passato qualora la Turchia non desse prova di attenersi ai criteri stabiliti. Ma è la prima volta che l'apertura di un negoziato per l'adesione è open ended, ovvero comporta una indicazione esplicita che esso potrebbe non concludersi necessariamente con l'ammissione del candidato. Inoltre, l'istruttoria è molto più severa di quelle precedentemente seguite per tutti gli altri paesi candidati, anche nel caso della Bulgaria, alla quale sarebbe azzardato concedere credenziali migliori di quelle che vanta la Turchia. Infine, altre condizioni sono state enunciate in aggiunta ai criteri di Copenaghen. Ora, domandiamoci che cosa accadrebbe se la Turchia, avendo ti92


spettato tutti i criteri e tutte le condizioni, si vedesse negare l'ingresso. Cadrebbero tutte le pretese e ambizioni dell'Europa di essere una società aperta a culture e religioni diverse, sensibile ai grandi cambiamenti in corso nel nostro pianeta. Soltanto il verificarsi di eventi traumatici in Turchia potrebbe concederci di concludere il negoziato negandole l'accesso, e di concluderlo salvando l'onore e senza rimorsi. Un nuovo colpo di stato dei militari, per esempio, o un generale contagio fondamentalista della popolazione turca, musulmana. Entrambi questi eventi, pur non potendo essere ritenuti impossibili a priori, appaiono improbabili (attenzione a non leggere nell'assassinio di un prete cattolico da parte di un giovane esaltato il sintomo di una sindrome collettiva). Ma se davvero dovessimo temere tali eventualità, allora la nostra risposta, l'antidoto, non potrebbe che consistere nel perseverare sulla strada intrapresa, non certo nel lasciare sola la Turchia. Non si può infine escludere che, confrontata con una perdurante e aperta ostilità dell'opinione pubblica e dei governi di alcuni paesi europei, con riserve e critiche avanzate dai negoziatori della UE percepite come eccessive ed esose, e con una durata del negoziato oltre le previ, sioni, siano la stessa opinione pubblica e il governo turchi a mutare atteggiamento. Il sostegno popolare per l'adesione alla UE, fino a non molto tempo fa superiore all'80%, già oggi è sceso al 65%. La proposta avanzata in un discorso a Berlino lo scorso febbraio da Sarkozy, che nel corso del negoziato, l'accordo raggiunto tra i negoziatori della UE e i governi dei paesi candidati su ciascuno dei 35 capitoli dell'acquis comunitario debba, singolarmente e di volta in volta, venire approvato da tutti i parlamenti nazionali, è, in tutta evidenza, un marchingegno concepito in primo luogo in funzione del negoziato con la Turchia, e comunque tale da rendere estremamente macchinoso e lungo qualsiasi negoziato per l'adesione, e di fatto chiudere la porta ad ulteriori allargamenti. Abbiamo già detto dell'importanza che, nell'evòluzione politica Quali scelte della Turchia, ha avuto il rapporto simbiotico che negli anni re- per l'Europa . centi la politica turca ha sviluppato con.l'Europa. Se il nuovo governo è riuscito, contro mille difficoltà, a condurre in porto innumerevoli riforme, lo si deve a quella che statisti come De Gaulle e 93


Adenauer hanno definito "vocazione europea" del Paese, e al costante e attento monitoraggio, nonché pressioni di Bruxelles. Questa è una innegabile realtà. Se l'impresa giungerà a buon fine, con l'ammissione della Turchia, l'Europa avrà dimostrato che è possibile sostenere processi di democratizzazione usando metodi democratici e una adeguata politica di sostegno per le forze che in quei processi sono impegnate, e sarà questo un suo grande merito. Oggi, come si può leggere nel rapporto redatto da Mario Zucconi e pubblicato da Ethnobarometer sopra citato, occorre coerenza nei comportamenti europei verso quel Paese più di quanto non sia avvenuto ripetutamente nel recente passato, condizionato dai dubbi e dai ripensamenti dovuti agli allarmismi di molta opinione pubblica e di certi governi (Turchia ostaggio dei problemi turco-greci prima e poi turco-ciprioti ora). L'alternativa sarebbe di buttare alle ortiche tutto il gran lavoro già fatto, e ciò a sua volta sanzionerebbe l'incapacità dell'Europa a riformare se stessa. Infatti, non si può parlare delle condizioni e possibilità di accesso della Turchia senza parlare di evoluzione politica e di riforma delle istituzioni dell'Unione Europea. Di fronte alle difficoltà attuali della UE, per ragioni storiche e culturali molteplici, la Turchia rischia di venire considerata un elemento spendibile. Al contrario, la Turchia va considerata oggi la cartina di tornasole di un'Europa capace di uscire in avanti dalla propria crisi istituzionale anziché arroccarsi e tornare indietro proprio riguardo alla politica di allargamento che fa di essa un attore internazionale di carattere assolutamente nuovo. Tanto più forte è il senso e la certezza della propria identità, Crisi di tanto più facili sono le aperture ad altri. Ma è un fatto ormai ge- identità neralmente ammesso che l'Europa oggi stia vivendo una crisi di identità, e questo ha un peso non indifferente sulla questione dell'allargamento. Nel pubblico dibattito sulla Turchia si specchia la crisi che oggi attraversa l'Unione; che è alle radici dell'assenza di una strategia e dell'impasse istituzionale. E crisi di identità è anche quella della Turchia, nel suo processo di identificazione con e di avvicinamento all'Europa, sempre sognato ma mai prima d'ora così concretamente tradotto in azione. La somma delle due crisi può condurre a un impasse insormontabile,, che per l'Europa 94


significherebbe il ripiegamento su stessa, e per la Turchia il rovesciamento del presente governo e l'andata al potere, anche questo nella scia del risentimento per il mancato ingresso in Europa, dei nazionalisti. Non va sottovalutato il pericolo di un rinato nazionalismo turco. Questo comprometterebbe seriamente la stabilità della regione, con rovesciamenti di alleanze e iniziative avventuristiche, di fronte alle quali l'Europa non potrebbe rimanere indifferente perché toccherebbero la sua sicurezza e i suoi interessi economici, e generalmente i suoi rapporti con il resto del mondo. Molte delle argomentazioni - le dimensioni del Paese, i confini dell'Unione, ecc. - avanzate da coloro che si oppongono all'ingresso della Turchia non sono di per sé, prese separatamente, ve di fondamento. Ma nemmeno è possibile liquidare facilmente le argomentazioni in favore. Oggi l'Europa è, già da tempo, un mosaico composto da diverse culture. Sarebbe paradossale se la religione dovesse avere un peso determinante, dal momento che le forze che si battevano affinché le radici cristiane dell'Europa venissero citate nel progetto di costituzione non hanno prevalso. La verità è che la prospettiva di un ingresso della Turchia nell'Unione solleva interrogativi ai quali nemmeno il più onesto e meno prevenuto dei cittadini europei può facilmente rispondere. Negli ultimi anni nuovi eventi hanno reso la questione ancora più complessa. È un fatto che, sé un referendum fosse indetto oggi, la maggiorana dell'elettorato europeo voterebbe contro. Gli attentati dell'il settembre, di Madrid e di Londra, la guerra in Iraq hanno evidenziato e dato una nuova dimensione ai problemi riguardanti la presenza di comunità musulmane nelle società occidentali. Oggi la maggioranza dell'opinione pubblica europea guarda all'islam in termini allarmistici, e un numero crescente di persone vedono l'islam come una minaccia. La paura degli attentati, l'enfasi data da governi e media al pericolo rappresentato dal terrorismo hanno scoso antiche certezze e la percezione che la gente ha della propria sicurezza (qualcosa che, prima dell'il settembre, non era considerato particolarmente importante, perché la si dava per scontata). Così, mentre secondo i principi dell'Unione Europea, la libertà di circolazione e l'integrazione devono essere strettamente connessi allo scopo di costituire la cosiddetta "area di si-

Turchia, vittima della paura dell islam...

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curezza, di libertà e di giustizia", oggi è soprattutto il problema della sicurezza che interessa l'opinione pubblica, la quale rischia di esserne ossessionata, tendendo a interpretarla in maniera sempre più restrittiva. Ma intanto la Turchia, che fin dai lontano 1963 è stata indotta a sperare che un giorno sarebbe potuta entrare a far parte della famiglia europea, rischia di diventare la vittima più illustre della paura dell'islam che oggi tormenta le opinioni pubbliche dei nostri paesi. Chiediamoci tuttavia, infine, quale sarebbe l'impatto che la decisione di ammettere la Turchia nell'U nione potrebbe avere. Chiediamoci se una siffatta decisione non potrebbe avere come effetto di indurre alla riflessione e alla moderazione quegli elementi nelle comunità musulmane che vivono in Europa, e specialmente tra i più giovani, che nel lima di crescente isiamofobia potrebbero cedere alla tentazione di radicalizzarsi e di arruolarsi nei gruppi più estremisti. Chiediamoci se una siffatta decisione non incoraggerebbe il dialogo e non migliorerebbe i rapporti tra le comunità musulmane e la popolazione e le istituzioni del Paese europeo nel quale risiedono. Chiediamoci infine, e soprattutto, se in una siffatta decisione non verrebbe letto un segnale di enorme rilevanza politica, in un mondo dominato da eventi tragici che cospirano per tradurre in realtà io scenario dello scontro di civiltà disegnato da Samuel Huntington.

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mediatrice nel dialogo con il mondo musulmano?


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dossier

I,

La modernizzazione dell'amministrazione: teoria e prassi

Dopo più di un decennio di rincorsa affannosa, nell'ultima legislatura la "riforma amministrativa" ha fortemente rallentato il suo ritmo, fino a segnare decisamente ilpasso nella fase più recente. È questo, dunque, il momento più favorevole per tentare di iniziare un bilancio su alcune linee generali di polic-y della rfirma stessa, ma anche su alcuni specfìci strumenti di modernizzazione che sono stati attivati nell'ultimo decennio. In questa duplice ottica, ildossier che presentiamo mette volutamente insieme due interventi di taglio radicalmente diverso sul problema della modernizzazione dell'amministrazione pubblica. llprimo si muove sul piano teorico, fornendo un quadro dei fattori critici di successo e delle tendenze di modernizzazione dei sistemi amministrativi nei Paesi dell'area dell'OCSE, a partire dall'esperienza della Nuova Zelanda, a lungo considerata quella paradigmatica del modello del new public management. Il secondo, viceversa, focalizza punti di forza e di debolezza di uno strumento squisitamente pratico ed operativo del sistema italiano, ma che rappresenta una leva di potenziale grandissimo impatto generale per la modernizzazione complessiva, quale il programma di razionalizzazione degli acquisti del Ministero dell'Economia e delle Finanze. 97


Entrambi gli interventi portano la testimonianza di protagonisti che hanno vissuto in prima persona, al di là dell'oceano come nel nostro Paese, la teoria e la prassi della modernizzazione amministrativa condotta secondo il mainstream riformistico del paradigma OcsE; o, almeno, di quel tanto delle riforme che ha realmente inciso nei rispettivi si stemi amministrativi. Un nesso comune sembra evidente nei due interventi; un nesso tanto più importante da sottolineare, proprio perchè emerso in riferimento ad esperienze tanto distanti l'una dall'altra nello spazio come pure nei rifirimenti giuridici e organizzativi dei paradigmi burocratici di rifirimento. Questo nesso può essere così riassunto: ciò che troppo spesso manca nell'approccio alla modernizzazione dei sistemi amministrativi - nelle dinamiche generali di rforma come nella gestione dei singoli programmi operativi che dovrebbero favori rla - è un'ottica strategica "di sistema;, la capacità di andare oltre la retorica dell'emergenza (organizzativa o finanziaria; la voglia di "alzare lo sguardo "per adottare indirizzi e strategie operative coerenti con un moderno sistema di governance. Il concetto di "innovation readiness" suggerito da Ruth Renne, a partire dall'esperienza neozelandese (ma anche dall'analisi della letteratura internazionale sui tema della modernizzazione burocratica) focalizza proprio questo aspetto: la necessità di superare la logora retorica della rfòrma amministrativa (intesa come mutazione one shot, che dovrebbe attualizzare metodi e finalità dell'agire amministrativo una volta per tutte, magari per via legislativa) per approdare ad un più funzionale paradigma di innovazione (che consiste, viceversa, nel progressivo - e costante - adattamento di quei metodi e di quelle finalità alle continue trasformazioni che le amministrazioni sono chiamate a fronteggiare e governare). Ma, non a caso, anche la critica suggerita da Giorgio Pagano rispetto ai criteri seguiti negli ultimi anni nella gestione del programma acquisti si muove nell'identica direzione: ciò che Pagano sottolinea (e che però non è sempre stato valorizzato a sufficienza) è l'implicazione organizzativa del programma, la sua funzionalità ad un modello nuovo di amministrazione (meno focalizzato su ripetitive operazioni routinarie - gli acquisti, le gare - e più orientato alla costruzione di azioni di policy), la sua potenzialità in funzione di reingegnerizzazione dell'organizzazione e dei processi. Anche in questo caso, è dunque l'ampiezza della vision a condizionare gli esiti dell'azione: rispetto al programma acquisti, il superamento di una ristretta "politica della lesina' in favore di una ambiziosa filosofia di riorganizzazione. I risparmi, alla lunga, se si gestirà correttamente una simile filosofia, non potranno non seguire, ed in maniera certamente più stabile e funzionale che non mirando ad obiettivi immediati (ma privi di respiro strategico) di contenimento della spesa. L'amministrazione pubblica è ancora in mezzo al guado. Molti degli obiettivi perseguiti dalla riforma nella fase delle "3 E" dei primi anni Novanta (efficacia, efficienza, 98


economicitĂ ) non sono ancora stati raggiunti; ma, nel frattempo, giĂ si pongono alle amministrazioni nuove sfide di costruzione di complessi sistemi di governance, nell'ottica dei quali l'accento princzpale si sposta dall'efficienza miciogestionale all'efficacia di politiche pubbliche concertate ed inclusi ve. In questo quadro, spunti come quelli contenuti in questo dossier ci aiutano a tenere presente come l'orientamento strategico e l'approccio "alto" ai/a,modernizzazione dell'amministrazione siano caratteri necessari di ogni opzione vincente di carattere generale, ma anche di ogni singola azione concreta a livello operativo. Senza questa consapevolezza, saranno inevitabilmente inferiori alle attese anche i risultati di un "secondo tempo" dello sforzo di innovazione amministrativa di cui si sente una sempre maggiore urgenza. (G.V.)

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Sostenere l'innovazione nelle pubbliche amministrazioni di Ruth Rennie

N

egli ultimi decenni la promozione dell'innovazione è stata un tema costante nel discorso sulla modernizzazione nelle amministrazioni pubbliche. L'attenzione all'innovazione nel settore pubblico, e gli approcci adottati da diversi governi per sostenerla, sono stati fortemente segnati dalle teorie di new public management, dominanti negli anni Ottanta e Novanta, che consideravano l'operato delle organizzazioni pubbliche in tutto paragonabile a quello delle imprese private. La maggiore parte delle iniziative per promuovere l'innovazione nelle pubbliche amministrazioni, quindi, sono state focalizzate a rafforzare singoli elementi operativi considerati proficui per spingere il cambiamento organizzativo. Negli ultimi anni, però, una crescente consapevolezza della complessità degli obiettivi organizzativi e politici che perseguono le pubbliche amministrazioni ha sottolineato una sostanziale differenza, a livello strategico, tra le organizzazioni pubbliche e quelle private. L'insufficienza dell'attenzione dedicata finora a collegare l'innovazione al livello operativo con i molteplici obiettivi strategiéi delle organizzazioni pubbliche spiega, in grande parte, perché gli interventi per sostenere l'innovazione sviluppati secondo modelli aziendali stentano a produrre risultati nelle pubbliche amministrazioni. Gli studi intrapresi in diversi Paesi e dedicati all'individuazione degli elementi organizzativi che favoriscono l'innovazione aiutano a mettere a fuoco i fattori chiave per elaborare approcci adeguati alla realtà complessa delle pubbliche amministrazioni. In effetti, questi studi sottolineano l'importanza di rafforzare le organizzazioni tanto al livello operativo quanto al livello strategico, per potenziare lo sviluppo di una cultura dell'innovazione durevole. Così, questo articolo parte da qualche riflessione sui modelli teoL'Autrice è ricercatrice e consulente, già Senior Ana!yst presso il Ministero del Tesoro della Nuova Zelanda. 101


rici Iell'i.nnovazione nell'ambito dell'attività pubblica, per poi confrontarle con qualèhe osservazione delle grandi linee delle esperienze neozelandesi (Paese con un'esperienza approfondita delle riforme delle pubbliche amministrazione), per, infine, proporre qualche indirizzo per affrontare la sfida futura di collegare i processi di innovazione conil ruolo svolto dalle pubbliche amministrazioni nellagovernance di sistemi complessi. LA SPINTk Aff INNOVAZIONE NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Negli ultimi anni, molti Paesi hanno assegnato un rilievo particolare alla promozione dell'innovazione nelle pubbliche amministrazioni. Dai vari studi condotti in contesti nazionali diversi, emerge una forte concordanza sul fatto che la spinta all'innovazione nel settore pubblico riconduce alla dinamicità del contesto in cui operano le pubbliche amministrazioni. Secondo questi studi, le organizzazioni pubbliche sono chiamate a svolgere i loro compiti di fronte alle aspettative ed ai bisogni dei cittadini e utenti dei servizi sempre più esigenti, in un mondo in cui l'impatto dei fenomeni economici, sociali ed ambientali è in mutamento costante. In un tale contesto, perfino per assicurare un livello costante di attività, e ancora di più per migliorare la qualità dei servizi e la performance organizzativa, le amministrazioni hanno bisogno di cambiare in modo continuo le attività per adeguare la loro offerta ai nuovi bisogni Si può facilmente notare che queste affermazioni rispecchiano argomenti analoghi avanzati nell'ambito delle imprese private che identificano la capacità d'innovare come il nodo critico del successo aziendalel. La corrispondenza tra gli argomenti in favore di un maggiore livello d'innovazione nei settori pubblico e privato è significativa soprattutto perché mette in rilievo le basi, che spesso rimangono implicite, degli approcci al sostegno dell'innovazione nelle pubbliche amministrazioni. Effettivamente, simili argomenti sono radicati in una visione dell'attività pubblica fortemente segnata, come detto, dai principi del new public management, che hanno indirizzato in modo significativo l'onda di riforme delle amministrazioni pubbliche in quasi tutti gli Stati sviluppati negli anni Ottanta e W'ovanta. Per rispondere alle sfide delle esigenze crescenti del pubblico, delle opportunità di rivoluzionare i processi amministrativi e l'erogazione degli servizi pubblici che sono offerte dalle nuove tecnologie, e della necessità di una maggiore efficienza negli apparati statali, dovuta a grandi pressioni fi102


scali, le teorie del new public management proponevano soluzioni fondate sull'applicazione di modelli aziendali nell'ambito dell'attività pubblica. Quelle riforme miravano, appunto, ad un miglioramento della qualità dei servizi pubblici per mezzo di una più elevata capacità di rispondere con flessibilità alle esigenze degli utenti dei servizi, chiamati consapevolmente "clienti", rispecchiando così l'offerta dei servizi commerciali. Inoltre, le riforme avevano per obiettivo una maggiore efficienza, efficacia e trasparenza nelle operazioni delle amministrazioni pubbliche, da perseguiÈe soprattutto mediante l'introduzione delle pratiche manageriali del settore privato. Ne consegue che questi approcci davano per scontato che gli obiettivi delle pubbliche amministrazioni erano almeno strettamente paragonabili, se non di fatto identici, a quelli delle imprese private, almeno rispetto ai processi operativi. In quest'ottica, la spinta a un maggiore orientamento all'innovazione nelle organizzazioni pubbliche, come in quelle private, risiedeva nelle opportunità di migliorare i processi produttivi. Così, ancora nel 2003, uno studio svolto dalla London School of Economics constatava che la flessibilità nell'innovare poteva aiutare le amministrazioni pubbliche a raggiungere livelli superiori di produttività (una crescita di 53%), di soddisfazione dei utenti dei servizi (31% in più) e del benessere organizzativo dei propri dipendenti (più 35%)2. Negli ultimi anni, però, si è sviluppata una maggiore consapevolezza della specificità dell'attività pubblica, che non sempre offre le condizioni adatte all'applicazione dei modelli concepiti per il settore privato. Questa consapevolezza riconduce in larga misura all'esperienza concreta dell'impatto delle riforme NPM nei numerosi Paesi in cui sono state adottate; soprattutto di quelli, come la Gran Bretagna e la Nuova Zelanda, in cui sono state attuate riforme radicali alla struttura e all'operato delle amministrazioni pubbliche. Vent'anni dopo la grande onda delle riforme, questi Paesi sono stati in grado di constatare una maggiore efficienza e produttività e la creazione di una cultura organizzativa più imprenditoriale nelle pubbliche amministrazioni, basata su una libertà gestionale più ampia, su un miglioramento dei servizi pubblici basato sulla definizione di indici di performance specifici della qualità dei servizi; allo stesso tempo, sono anche stati obbligati a riconoscere che i vantaggi raggiunti a livello operativo sono spesso stati acquisiti a spese di un indebolimento a livello strategico. Così si sono verificati uno scarso allineamento delle attività delle diverse amministrazioni pubbliche, perché ogni organizzazione era concentrata sui 103


propri outputt, ma anche l'assenza di una definizione concreta dei risultati attesi dell'attività pubblica per i cittadini e, quindi, di un quadro strategico coerente 'per indirizzare l'attività pubblica complessiva 3 . L'importanza di trovare rimedi a questi gap è sempre più grande nel contesto attuale, in cui le pubbliche amministrazione hanno un ruolo di erogazione diretta dei servizi sempre minore ma un compito sempre più focalizzato sulla governance di sistemi multi-attore. Perciò, anche le spinte all'innovazione nelle pubbliche amministrazioni hanno cambiato natura, con un'enfasi sempre più grande sul livello strategico come complemento del focus finora molto centrato sul livello operativo. La sfida attuale, quindi, è la creazione di un approccio all'innovazione adeguato ai cambiamenti di funzioni e contesto strategico in cui operano le amministrazioni pubbliche. Cos'È

L'INNOVAZIONE?

L'innovazione, nella letteratura internazionale, è stata definita in molti modi e in molti contesti diversi. Comunque, le definizioni sono in larga misura caratterizzate da un focus stretto alle singole organizzazioni, e da un enfasi particolare sui processi ed apparati produttivi. Anche nella maggioranza delle definizioni applicate specificamente al settore pubblico, gli elementi centrali del concetto sono essenzialmente centrati sulle attività operative. Queste attività sono state definite come: inventare, cioè trovare modi di fare cose nuove o di fare cose esistenti in modi nuovi; - applicare, cioè usare metodi sperimentati altrove, pure in contesti diversi, e adattarli al contesto specifico dalla propria organizzazione ed attività, e - disseminare le novità perché diventino "business as usual' per l'organizzazione, e/o "patrimonio comune" nel settore rilevante 4 . A volte vengono anche precisati l'implementazione di queste attività ai sistemi, processi, prassi, tecnologie o modelli operativi ( "business models')5 -

.

Peraltro, vari studi che trattano dell'innovazione nel settore pubblico vanno oltre la classifica dei tipi di attività che essa comporta, per individuare il nodo critico dell'innovazione nelle attitudini o atteggiamenti organizzativi basati su un'alta ricettività dell'organizzazione verso il cambiament06 . In quest'ottica, il concetto d'innovazione non è contenuto al livello di un'attività o una serie d'attività specifiche, ma comprende anche un aspetto di capacità, o addirittura di cultura, organizzativa, che com104


porta un insieme di conoscenze, di competenze, d'atteggiamenti e d'attitudini che favoriscono l'adozione di nuove pratiche e il miglioramento dei servizi e dell'attività. Queste due definizioni sollevano, comunque, qualche interrogativo sull'applicabilità di modelli nati nel settore privato alla realtà delle amministrazioni pubbliche. Per quanto un focus sulla singola organizzazione come punto di riferimento sia coerente e sensato nel contesto aziendale, è discutibile che lo sia altrettanto nel settore pubblico, in cui le singole amministrazioni sono in trecciate in un sistema complesso di interazioni e interdipendenze tanto politiche quanto operative. Un focus troppo stretto sull'ottica organizzativa, di fatto, impedisce alle amministrazioni pubbliche di individuare tanto le spinte all'innovazione che sorgano nelle interazioni con altri organizzazioni, quanto le opportunità di realizzare innovazioni insieme ad altri attori. Rischia anche di limitare la definizione degli strumenti per l'innovazione ai processi e sistemi interni, senza tenere sufficientemente conto delle leve di cambiamento interno che operano attraverso azioni di governo di tutto un sistema territoriale. Tuttavia, i tentativi di sviluppare approcci e strumenti per il sostegno dell'innovazione basate su una vera comprensione dell'importanza di queste interrelazioni, e della funzione di governance, sono ancora nella loro infanzia. Il terzo elemento chiave delle definizioni dell'innovazione sviluppate nell'ambito pubblico enfatizza, oltre le attività e le capacità organizzative, la finalità specifica dell'innovazione. Un approccio basato sull'individuazione degli obiettivi finali dell'innovazione sembra potenzialmente il più fruttuoso per dare un senso specifico all'innovazione nel contesto dell'attività pubblica. Tuttavia, questi obiettivi sono spesso descritti in modo molto generico, per esempio di "creare valore e migliorare la performance delle amministrazioni pubbliche" 7 , o di creare "una amministrazione pubblica che faccia meglio e costi meno, ma soprattutto che sia capace di rispondere ai bisogni di realtà sociali in continuo mutamento" 8 ; definizioni che non permettono di distinguere una specificità dell'innovazione nell'ambito pubblico da quella realizzata nell'ambito aziendale. Esistono alcune definizioni che risultano più specifiche nell'individuazione della finalità desiderata: ad esempio, assicurare un "miglioramento durevole nei risultati e negli effetti delle politiche pubbliche, capace di rendere affidabili le amministrazioni nei confronti dei cittadini e delle imprese" 9 . E 105


qui affrontiamo proprio il terreno più problematico rispetto all'innovazione nel settore pubblico, perché risulta chiaro che questi obiettivi, più che fini organizzativi, sono in realtà finalità politiche (o almeno delle politiche pubbliche). In effetti, le definizioni e gli approcci per sostenere l'innovazione sviluppati nel settore privato presuppongono una concordanza completa tra obiettivi strategici ed obiettivi organizzativi. Invece, la dualità, per non dire molteplicità, degli obiettivi è una caratteristica fondamentale della complessità che condiziona l'operato delle amministrazioni pubbliche, e che rende molto più complicata la definizione e l'adozione di nuovi strumenti o azioni innovative. Questa differenza significativa, ma raramente affrontata in modo esplicito, è il secondo elemento che spiega perché gli approcci al sostegno dell'innovazione maturati nel privato stentano a .produrre risultati durevoli nelle pubbliche amministrazioni. Proprio perché non è stata data un'attenzione sufficiente a collegare lo strumento o l'iniziativa e i suoi obiettivi operativi con le finalit2 strategiche dell'organizzazione o delle politiche pubbliche che è chiamata ad attuare. "INNOVATION READINESS": CAPIRE LE CONDIZIONI PER IL CAMBIAMENTO

L'importanza delle divergenze tra i contesti pubblico e privato rispetto allo sviluppo dell'innovazione diventa molto evidente nel concetto di "innovation-readiness" o "change readiness", spesso proposto come sostrato degli approcci al sòstegno dell'innovazione. Molti degli studi internazionali in questo ambito insistono nel sottolineare che l'obiettivo del sostegno all'innovazione nel settore pubblico (come nel privato, peraltro) deve essere la creazione di organizzazioni pubbliche capaci di adattarsi costantemente ai mutamenti delle esigenze e di contesto 10 . Perciò un'attenzione considerevole è stata dedicata ad individuare gli elementi organizzativi che favoriscono l'innovazione". Gli elenchi diversi di fattori proposti variano nella loro èspressione e nell'enfasi accordata a certi tipi di elementi, ma testimoniano complessivamente di una forte convergenza nella definizione delle condizioni chiave. Adottando un modello interpretativo schematico, per ben impostare ed attuare il cambiamento occorrono quattro condizioni essenziali. In ognuno di questi ambiti sono stati individuati gruppi di fattori specifici senza i quali l'impostazione e il sostegno dell'innovazione risulta in qualche modo compromesso 12 :

106


Spinta al cambiamento

Visione chiara e condivisa

Capacità di cambiamento

Azioni d'avvio attuabili

I primi due fattori (in alto del diagramma) rappresentano in realtà le condizioni necessarie al livello strategico. Il primo fattore è una pressione, una domanda o un bisogno concreto che serve da spinta al cambiamento. I vari studi si accordano nel ritenere opportune: - un'analisi del contesto in cui l'organizzazione opera, - una conoscenza delle relative tendenze di mutamento, affinché siano individuate le opportunità e le necessità d'innovazione. La spinta al cambiamento serve ad accordare una priorità alle azioni d'innovazione, che altrimenti rischiano di essere sempre rimandate per fare posto ad esigenze più urgenti. 2. Il secondo fattore messo in rilievo degli studi è l'importanza di una visione chiara e condivisa dègli obiettivi dell'innovazione. Per creare questa visione occorrono: - la definizione di una strategia organizzativa robusta, e un'enfasi sulla pianificazione a lungo termine; - un focus sui risultati (nel senso degli impatti o degli outcome dell'attività);. - un'attenzione alle relazioni con gli stakeholder o portatori di interessi su cui incidono le attività dell'organizzaziore. Se manca questa visionechiara dell'obiettivo del cambiamento, si rischia il fallimento delle iniziative avviate, perché mancano al personale coinvolto gli elementi di base per indirizzare e modificare l'implementazione affinché serva ad uno scopo preciso. I due fattori in basso del diagramma rappresentano, invece, le condizioni che sostengono l'innovazione al livello operativo. 107


Gli studi puntano tutti sull'importanza della capacità, all'interno dell'organizzazione, di gestire il cambiamento in modo sostenibile. C'è un consenso generale sulla necessità di una capacità di adeguare strutture e processi organizzativi per favorire l'innovazione attraverso: - risorse e tempo dedicati all'innovazione, - incentivi e premi (formali o informali) all'innovazione, e - il coinvolgimento e la collaborazione degli stakeholder interni ed esterni nei processi decisionali. Diversi studi sottolineano anche l'importanza dei - sistemi di monitoraggio ed apprendimento per sostenere processi d'innovazione. Oltre ai sistemi e processi, la capacità di cambiamento richiede anche competenze specifiche e una gestione delle risorse umane mirate ad assicurare: - una capacità manageriale di gestione del cambiamento, - una corrispondenza tra capacità individuali e compiti lavorativi. Di più, molti studi mettono a fuoco la necessità di creare una cultura organizzativa favorevole all'innovazione, fondata su: - la leadership e la capacita di creare un mandato per il cambiamento dentro e fuori dall'organizzazione, - il sostegno del livello direzionale all'innovazione, - relazioni di fiducia tra la direzione e il personale, - autonomia ai diversi livelli dell'organizzazione. È evidente che senza la capacità di implementare e sostenere le iniziative d'innovazione, si creano frustrazione ed ansietà all'interno dell'organizzazione, dovute alla mancanza di progressà e all'incapacità di portare avanti cambiamenti ben impostati e chiaramente voluti. L'ultimo quadro del modello sottolinea la necessità di un punto di partenza concreto e realistico per avviare il cambiamento nella direzione voluta, senza il quale le iniziative rischiano di essere implementate in modo disordinato, spesso in una maniera inadeguata o in un ambito sbagliato, che diminuisce le possibilità dell'innovazione di conseguire risultati positivi. La forza analitica di questo modello risiede nella dimostrazione dell'interazione' di questi quattro elementi per creare le condizioni propizie all'innovazione nelle organizzazioni. 108


Così facendo, però, mette bene in evidenza anche le carenze negli approcci maturati finora per sostenere l'innovazione nelle amministrazioni pubbliche. Perché le condizioni per sostenere l'innovazione richiedono la creazione di legami forti tra obiettivi strategici e strategie organizzative rispetto all'innovazione che vengano modificati insieme mediante processi idonei del ciclo gestionale aziendale. Tuttavia, tali condizioni esistono raramente nel settore pubblico, nel quale gli obiettivi strategici sono fissati in parte all'esterno dell'organizzazione operativa, mediante un indirizzo strategico delle politiche pubbliche locali, nazionali o sovranazionali. Tanto è vero che fino a poco tempo fa, scarsa attenzione è stata dedicata in generale alla definizione dello scopo finale dell'attività pubblica in termini di risultati per i cittadini, con la conseguente mancanza d'attenzione alla costruzione di una logica di pianificazione strategica robusta, in grado di collegare le scelte operative ed organizzative con il raggiungimento degli obiettivi strategici e politici. Così sono stati trascurati una serie di elementi chiave per il radicamento di una cultura dell'innovazione diffusa e sostenibile nelle amministrazioni pubbliche.

LA PRATICA DELLA PROMOZIONE DELL'INNOVAZIONE: UN FOCUS SUL LIVELLO OPERATIVO

Benché i modelli di "innovation readiness" insistano sull'importanza di rafforzare i fattori. organizzativi che favoriscono l'innovazione, tanto al livello strategico quanto al livello operativo, in pratica, la maggior parte delle attività avviate dai Governi in diversi Paesi per potenziare l'innovazione nelle pubbliche amministrazioni sono state mirate ad intervenire sul livello operativo, in cui erano pi1 direttamente applicabili i modelli e strumenti esistenti e importabili del mondo aziendale. Infatti, i tipi di interventi pii frequenti rimangono l'impostazione per via normativa, o la creazione d'incentivi - spesso finanziari - per favorire l'adozione di particolari strumenti considerati proficui per cambiare la prassi delle pubbliche amministrazione nella direzione voluta. Basta pensare all'introduzione delle strutture come gli Ui.p in Italia, o la promozione di soluzioni tecnologiche associate allo sviluppo dell'e-government che sono attualmente in corso in diversi Paesi 13 . E anche però un'esperienza tristemente comune a questi Paesi quella di risultati per lo meno deludenti, se non inesistenti, di queste iniziative, spesso peraltro molto costose da implementare. In numerosi casi, il fallimento delle iniziative riconduce, come segnalato prima, alla mancanza d'attenzio109


ne a collegare gli obiettivi operativi dello strumento con le finalità strategiche dell'organizzazione o delle politiche pubbliche con cui viene utilizzato. Un altro approccio, particolarmente favorito nei Paesi in cui le strutture stesse delle pubbliche amministrazioni sono state riformate negli anni Ottanta e Novanta secondo i principi del NPM, è stato la creazione di una gestione di tipo aziendale nelle organizzazioni pubbliche affinché i dirigenti potessero potenziare l'innovazione dei processi sotto la loro responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi propri. Il caso della Nuova Zelandaè un esempio istruttivo in questo senso. Nel 1988, lo State Sector Act provvedeva alla creazione del ruolo di ChiefExecutive (Direttore generale) per le pubbliche amministrazioni. Questa funzione era intesa non piii come un amministratore, ma come un vero leader organizzativo, con il compito di assicurare la migliore performance possibile della sua organizzazione, e di innovare continuamente per mantenere l'efficacia nonostante i cambiamenti di contesto. Per adempiere alla responsabilità contrattuale per la performance della sua organizzazione, espressa in un contratto di servizi ("purchase agreemen1?') stabilito con il ministro responsabile, era consentita al Direttore generale una libertà gestionale molto.ampia, con massima flessibilità sui metodi da impiegare per raggiungere gli obiettivi definiti. Alle singole amministrazioni è passata anche la responsabilità unica per la selezione e la gestione delle risorse umane, e la possibilità di ricorso a strumenti diversi come il "performance-relatedpay" per incentivare la buona performance del personale 14 . Così, il Direttore generale aveva mano libera tanto rispetto al cambiamento, quanto rispetto all'individuazione delle azioni d'avvio attuabili (cioè degli elementi operativi che sostengono l'innovazione) nella sua organizzazione. Però mancava ancora, in questo contesto, il collegamento fondamentale tra il livello operativo e il livello strategico. In effetti, i Dirigenti generali pubblici neozelandesi potevano indirizzare gli elementi operativi verso il raggiungimento degli obiettivi organizzativi, definiti in termini di prodotti e servizi nel contratto stabilito con il ministro. Ma mancava una visione chiara e condivisa con i vertici politici dell'impatto dei servizi prodotti sui cittadini e sulla società. E così, senza una definizione chiara dei risultati attesi, mancava alle organizzazioni la visione strategica per valutare la scelta dei prodotti, o per riorientare le loro attività per adeguarle alle esigenze in costante mutamento; fattore che costituisce, come segnalato sopra, una delle condizioni chiave per sostenere l'innovazione. 110


Perciò, uno studio recente che ha individuato delle iniziative d'innovazione nelle pubbliche amministrazioni in Nuova Zelanda dimostra l'esistenza di una gamma ampia d innovazioni incrementali utilizzate per migliorare i processi e servizi esistenti, spesso attuate per rispondere a pressioni di tipo finanziario, al fallimento dei sistemi o alle esigenze degli utenti dei. servizi, quindi, a pressioni di natura operativa. Invece, sono stati individuati pochi esempi d'innovazione "trasformativa" dettati da una forte spinta a livello strategico' 5 .

ALZARE LO SGUARDO AL LIVELLO STRATEGICO: INNOVAZIONE E GOVERI'/ANCE

In realtà, dopo quasi vent'anni d'attuazione di riforme di tipo aziendale negli apparati dello Stato dei Paesi occidentali, è ormai chiaro che la specifìcità delle organizzazioni pubbliche risiede non nei princzpi operativi, che rispecchiano sempre di più quelli delle imprese private, ma nel contesto strategico dell'attività pubblica e nello svolgimento delle pubbliche amministrazioni di un ruolo di governance rispetto ad un ventaglio ampio di soggetti istituzionali e sociali. In effetti, le amministrazioni pubbliche sono sempre di meno coinvolte nell'erogazione diretta dei servizi ai cittadini, spesso adesso affidati a soggetti esterni per via contrattuale. Dall'altro lato, le amministrazioni sono sempre di più éhiamate a contribuire allo sviluppo di soluzioni ai problemi sociali complessi e multi-dimensionali insieme ad altri attori pubblici e privati. Per svolgere il ruolo di coordinamento ditali processi, che può essere esercitato solo dalle amministrazioni pubbliche, queste organizzazioni richiedono una direzione strategica molto chiara, che permetta loro d'indirizzare attori esterni diversi verso il raggiungimento di obiettivi comuni. È appunto questa visione strategica che costituisce il nodo critico della promozione dell'innovazione, perché potenzia l'individuazione di cambiamenti specifici collegaii alla realizzazione di finalità tanto organizzative quanto politiche che sono proprie delll'organizzazione. Ancora una volta la Nuova Zelanda ci offre un esempio interessante di un approccio per rafforzare la creazione di un quadro strategico per l'innovazione nelle organizzazioni pubbliche. I primi passi per rimediare alla carenza strategica sono stati fatti alla metà degli anni Novanta, con l'elaborazione di un chiara strategia di medio ter111


mine al livello politico del Governo con la pubblicazione nel 1993 di un "Vision Statement" intitolato Path to 2010 in cui venivano individuati i risultati desiderati degli interventi pubblici in termini di impatti sui cittadini e sui territori nazionali. In seguito, il Governo ha anche formulato una serie di Strategic Result Areas che individuavano le priorità particolari ai vari settori per la realizzazione dei risultati desiderati, e un'altra serie di Key Result Areas che definivano, in termini generali, gli output necessari al raggiungimento degli obiettivi prioritari. Dopo un cambiamento di Governo nel 1999, però, la definizione esplicita del quadro strategico al livello politico veniva abbandonata a favore di un modello basato sul potenziamento della pianificazione strategica al livello delle singole amministrazioni pubbliche. Dopo l'introduzione a tappe dei nuovi provvedimenti, dal 2005 tutte le amministrazioni pubbliche devono implementare un processo di pianificazione strategica mirata a mettere a punto una gestione organizzativa finalizzata ai risultati, conosciuta con la denominazione di managingfor outcomes. Il nuovo approccio richiede che ogni organizzazione produca un documento in cui vengono definiti in modo chiaro e preciso i risultati o "outcomé', espressi in termini di miglioramenti per la società e i cittadini, a cui l'attività dell'organizzazione deve contribuire (lo Statement oflntent). Sono questi risultati che forniscono il quadro strategico per il lavoro dell'organizzazione e per indirizzare cambiamenti ed innovazioni. Il documento strategico deve anche spiegare gli output o prodotti che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi strategici, mediante l'esposizione di una logica d'intervento (intervention logic) in cui viene esplicitata la catena degli impatti attesi delle attività dell'organizzazione. Ad ogni amministrazione pubblica è richiesta anche una strategia di valutazione nella quale l'organizzazione deve definire le priorità e le modalità di valutazione delle attività e dei risultati raggiunt1 16 . Il documento strategico ha anche rimpiazzato il Purchase Agreement come base dell'accountability dei Direttori generali delle amministrazioni pubbliche. In questo modo, la responsabilità del Direttore generale viene esplicitamente legata al contributo della sua organizzazione al raggiungimento degli impatti desiderati, e non più solamente alla produzione di servizi e prodotti senza collegamento specifico ai risultati finali. Un aspetto centrale di questa capacità strategica consiste nell'assicurarsi dell'allineamento della strategia organizzativa con le priorità governative, che nel contesto dell'attività pubblica richiede il coordinamento tra le azio112


ni di varie amministrazioni. Così, ogni amministrazione è chiamata ad individuare le altre organizzazioni pubbliche che si propongono risultati comuni, ed a lavorare con loro per allineare strategie ed attività in un modo coerente ed efficace 17 . Così, il ruolo di governance, mediante le azioni di indirizzo e coordinamento delle azioni di attori diversi, diviene il motore per trainare l'innovazione al livello organizzativo, fornendo la spinta all'adeguamento dell'apparato operativo verso la realizzazione di obiettivi delle politiche a medio e lungo termine. QUALCHE INDIRIZZO PER IL FUTURO

La grande sfida per il sostegno dell'innovazione nelle pubbliche amministrazioni del futuro consiste, dunque, nel rafforzare i collegamenti tra: l'impiego degli strumenti e delle iniziative di innovazione, il raggiungimento degli obiettivi organizzativi e la realizzazione delle finalità strategiche definite dalle politiche pubbliche. Concretamente ciò significa rafforzare gli elementi organizzativi presenti in tutti i quattro quadri del modello di "innovation readiness". Ma richiederà sicuramente una maggiore attenzione alla promozione di una chiara visione strategica, in grado di fare confluire gli indirizzi delle politiche pubbliche e delle attività organizzative delle amministrazioni verso il conseguimento di risultati positivi per i cittadini. In quest'ottica, qualche indirizzo-chiave per il sostegno all'innovazione nel futuro sembra essere: I. ragionare costantemente sulle spinte al cambiamento e su come i processi di cambiamento e di miglioramento possono aiutare a raggiungere obiettivi e priorità nazionali e locali (ad esempio, come l'innovazione può contribuire a rafforzare la produttività nazionale, ad assicurare la governance locale o a migliorare i servizi pubblici); IL assicurare l'integrazione delle iniziative d'innovazione in una visione strategica di cambiamento, mediante lo sviluppo di una robusta logica d'intervento che imposti l'impatto atteso delle attività dell'organizzazione sul raggiungimento delle obiettivi, e il potenziamento del collegamento tra i diversi temi e le molteplici iniziative di innovazione. Peraltro, converrà necessariamente trovare un modo per colmare lo scarto esistente tra un approccio all'innovazione centrato sulle singole organizzazioni, e la realtà delle amministrazioni pubbliche sempre di più chiamate a lavorare insieme ad altri soggetti per affrontare problemi sociali complessi e multi-dimensionali; 113


III. puntare sullo sviluppo del ruolo di governance, per trainare l'innovazione al livello organizzativo, potenziando l'indirizzo e il coordinamento delle azioni di attori diversi, per spingere all'adeguamento dell'apparato operativo verso la realizzazione di obiettivi delle politiche a medio e lungo termine

Vedere, per esempio: ALSHULER, A.A., Public Innovation and Political Incentives, Occasionai paper 1-97 Harvard, 1997. HAMMER, M., Deep Change: How Operational Innovation Can Transform Your Company» Harvard Business Review, Aprii 2004. HAMEL G. and VALIKANGAS L., The Questfor Resilience, «Harvard Business Review», September 2003. 2 LSE POLICY GROUP, Improving Performance in the Public Sector, an AT Kearney study on Agile Government, 2003. 3 Vedere, per esempio: BOSTON, Jonathan The Challenge ofEvaluating Systemic Change: The case ofPublic Management Reform in New Zealand, «International Pubiic Management Journal», Vol. 3, no 1, 2000. POLLITT, Christopher & GEERT Bouckaert, Public Management Reform, A Comparative Analysis, Oxford University Press, 2000. ' Basato su GLOR, Elenor, An Innovative Manager's Check-list, «The Innovation Journal», 27 May 2001. 5 New Zealand Treasury, Department et aL, Public Service Innovation, p. 10, 2004. 6 DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA,

Proposte per il cambiamento nelle amministrazionipubbliche 2002, LSE Poiicy Group, Improving Performance in the Public Sector, an AT Kearney study on Agile Government 2003, OECD, Go,vernment of the Future, 2001 OECD/PUMA. 7 New Zealand Treasury, Department et al., Public Service Innovation, p. 10, 2004. 8 OECD, Government òf the Future, OEcD/PuMA, 2001. DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA,

Proposte per il cambiamento nelle amministrazionipubbliche, p. 11, 2002. 114

IO DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA,

Proposte per il cambiamento nelle amministrazioni pubbliche, 2002. LSE POLICY GROUP, Improving Performance in the Public Sector, an AT Kearney study on Agile Government, 2003. OECD, Government of the Future, OECD/PUMA, 2001. li DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA, Strumenti per la pianificazione integrata del cam biamento nelle amministrazioni pubbliche, 2004. GLOR, Elenor, An Innovative Manager's Check-list, «The Innovation Journal», 27 May 2001. LSE POLICY GROUP, Improving Performance in the Public Sector, an AT Kearney study on Agile Government 2003. New Zealand Treasury, Department of Prime Minisrer and Cabinet (DPMC), and the State Services Commission (SsC), Public Service Innovation, 2004. 12 OFFICE FOR PUBLIC MANAGEMENT, Managing Organisationai Change, 1999. 13 LIPPI, Andrea, As a voluntary choice or as a legaI obligation: Assessing New Public Management po!icy in Italy, «Evaluation in Public-Sector Reform» 2003, a cura di Helimut Woliman, Edward Elgar, pp. 140-168. 14 BOSTON, Jonathan & JOHN Martin, JUNE Pailot, PAT Waish, Public Management: The New Zealand Mode!, Oxford University Press 1996. IS NEW ZEALAND TREASURY, Department et aL, Pub!ic Service Innovation, 2004, 16 MANAGING FOR OUTCOMES STEERING

2004105 Statements oflntent: Guidance and Requirements, 2003.

GROUP,

17 MANAGING FOR OUTCOMES STEERING

Getting Better at Managing for Shared Outcomes - A Resource for Agency Leaders, 2004.

GROUP,


Note Bibliografiche ALSHULER, A. A., Public Innovation and Political Incentives, Occasional paper 1-97 Harvard, 1997. BOSTON, Jonathan & JOHN Martin, JUNE Pallor, PAT Walsh, Public Management: The New Zealand Model, Oxford University Press, 1996. BOSTON, Jonathan, The Challenge ofEvaluating

Sysemic Change. The case ofPublic Management Reform in New Zealand, «International Pub!ic Management Journal», Voi. 3, no i 2000. DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA, Pro-

poste per il cambiamento nelle amministrazioni pubbliche, 2002. DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA, Strumenti per la pianficazione integrata del cambiamento nelle amministrazioni pubbliche, 2004. GLOR, Elenor, An Innovative Manager's Check-Iist, «The Innovation Journal», 27 May, 2001. HAMEL G. and VALIKANGAS L., The Questfor Resilience, «Harvard Business Review», September 2003. HAMMER, M., Deep Change: How Operational

Innovation Can Transform Your Company, «Harvard Business Review», Aprii 2004. LIPPI, Andrea, As a uoluntary choice or as a legaI

obligation: Assessing New Public Management

policy in Italy, «Evaluation in Public-Sector Reform», ed Helimut Woliman, Edward E!gar, pp. 140-168, 2003. LSE POLICY GROUP, Improving Performance in the Public Sector, an AT Kearney study on Agile Government, 2003. MANAGING FOR OUTCOMES STEERING GROUP,

2004105 Statements oflntent: Guidance and Requirements. http://www.ssc.govt.nz/display/document.asp?NavID=1 14&DocID=3540, 2003. MANAGING FOR OUTCOMES STEERING GROUP,

Getting Better at Managingfor Shared Outcomes - A Resource for Agency Leaders, http://www.ssc.govt.nz/display/document.asp ?NavID=1 14&DocID=4125, 2004. NEW ZEALAND TREASURY, Department of Prime Minister and Cabinet'(DPMC), and the State Services Commission (SSC), Public Seruice Innovation, 2004. OECD, Government of the Future, OECD PUMA, 2001. OFFICE FOR PUBLIC MANAGEMENT, Managing Organisational Change, 1999. POLLI1T, Christopher & GEERT Bouckaert, Pu-

blic Management Reform, A Comparative Analysis, Oxford University Press, 2000. REPORT OF THE ADVISORY GROUP OF THE REVIEW OF THE CENTRE, presented to the Ministers of 'State Services and Finance, November 2001, http://www.ssc.govt.nz/roc.

115


queste istituzioni n. 1361137 inverno-primavera 2005

Programma di razionalizzazione degli acquisti nelle PA: tra esigenze di cassa e di i nnovaz i one* dì Giorgio Pagano

T

ra descrivere il Programma di razionalizzazione degli acquisti nella pubblica amministrazione delineato negli ultimi tre anni di modifiche normative, limitando l'intervento ad un exscursus normativo, oppure, iniziare una riflessione un po' atipica, e per certi versi critica dello stesso, scelgo quest'ultima prospettiva. La riflessione è - da parte di chi, come me, il Programma lo gestisce - su come sia stata intesa dagli addetti ai lavori, gli esperti del settore, la politica e le amministrazioni pubbliche, una delle riforme strutturali e - possiamo dirlo senza timori di essere smentiti - più incisive sull'organizzazione delle strutture pubbliche della storia recente dell'amministrazione italiana. Se prendessimo gli articoli pubblicati sulle principali testate economiche, e non solo,'dall'avvio del Programma sino ad oggi, nei periodi a ridosso del varo della legge finanziaria, o delle numerose manovre correttive, risulterebbe evidente che l'attenzione è stata sempre rivolta al tema dei risparmi di spesa sui consumi intermedi. Poca è stata l'attenzione alla semplificazione dei processi, all'innoyazione tecnologica ed organizzativa, anche mediante l'utilizzo dell'information and communication technologies, e alle più generali capacità del progetto di modificare - con un approccio top-down alcuni di quei processi cristallizzati nel tempo ed oramai divenuti obsoleti ed inefficaci, che costituiscono sicuramente uno dei terreni su cui i prossimi legislatori dovranno incidere profondamente, per garantire quel recupero di competitività da più parti auspicato per la pubblica amministrazione. Pertanto, una prima riflessione dovrebbe riguardare la natura del progetto: è un progetto di innovazione e promozione del cambiamento organizzativo o, più semplicemente, un progetto di finanza pubblica che serve a generare risparmi ? -

L'Autore è Dirigente Generale del Ministero dell'Economia e delle Finanze - Responsabile per il Programma di razionalizzazione degli acquisti nella Pubblica amministrazione. 116


Qualcuno si stupirà di ciò, ma lo "strumento" non persegue in alcun modo obiettivi diretti di risparmio; pone, però, le condizioni affinché questi obiettivi possano essere realmente conseguiti dalle singole amministrazioni. Ma allora ciò vuoi dire che il Programma non consegue risparmi di spesa nella categoria dei consumi intermedi - più precisamente beni e servizi per le amministrazioni pubbliche? IL BANDITORE "WALRASIANO"

Basti osservare il meccanismo delle convenzioni-quadro: l'aggregazione della domanda consente alla pubblica amministrazione di andare sul mercato in maniera compatta, ottenendo prezzi unitari su beni e servizi altrimenti irrealizzabili. Attraverso questo meccanismo, le imprese riescono a conseguire quelle economie di scala che, in ultima analisi, si riflettono nella riduzione dei prezzi unitari. Il Programma, in buona sostanza, è una sorta di riedizione del banditore walrasiano , nonche luogo figurato di incontro di una parte della domanda pubblica e dell'offerta. E evidente che questo da solo non basta a garantire i risparmi di spesa sugli approvvigionamenti delle amministrazioni. Paradossalmente, finché le amministrazioni non adotteranno una serie di misure che hanno attinenza al sistema dei controlli in generale, ed in particolare al controllo della domanda, il Programma è potenzialmente un formidabile "acceleratore di spesa", che consente di acquistare meglio, ma non necessariamente di ridurre la spesa complessiva. Infatti, affinché i risultati ottenuti mediante il Programma di razionalizzazione degli acquisti - riduzione dei prezzi unitari e realizzazione del cosiddetto effetto benchmark - possano incidere positivamente sul bilancio delle pubbliche amministrazioni, occorrerebbero nuove metodologie di controllo, meno invasive rispetto alle strutture ed ai procedimenti amministrativi, associate a politiche di bilancio (qualitative e quantitative) più strettamente connesse ai risultati richiarhati. In particolare, rispetto ai controlli legati al benchmark, oltre ai parametri di qualità e di prezzo, si potrebbero - e dovrebberò - utilizzare anche quelli di quantità. Per i primi due parametri, che sono fuelli previsti dalle norme sul Programma, occorre disporre dei dati dei prezzi ottenuti mediante il Sistema delle Convenzioni e delle caratteristiche tecniche dei beni e dei servizi. Per il controllo sul terzo parametro - la quantità - occorrerebbe, da un lato, creare degli standard di consumo, attraverso l'utilizzo di metodologie 117


finalizzate ad identificare i fabbisogni di beni e servizi in relazione a determinati parametri quantitativi (numero di risorse umane per struttura organizzativa/centro di costo, superfici e spazi totali, ecc.), dall'altro, potrebbe utilizzarsi il sistema dei codici gestionali del Sistema di Contabilità Generale per effettuare 'le valutazioni sugli scostamenti tra consumo teorico e consumo effettivo. In relazione alle politiche di bilancio, una volta strutturato il sistema di controlli sopra descritto, potrebbe ipotizzarsi una riduzione percentuale degli stanziamenti, pari alle riduzioni dei prezzi unitari ottenuti mediante il Sistema delle Convenzioni. Tali politiche, oggi, sono fortemente influenzate dalla struttura dei capitoli di bilancio relativi alla spesa per consumi intermedi. Infatti, nel caso dei capitoli promiscui, è difficilmente ipotizzabile un taglio tout court delle risorse disponibili, in quanto occorrerebbe ponderare l'incidenza delle varie voci di spesa (varie tipologie di beni e di servizi all'interno dello stesso 'capitolo). RIPENSARE L'ORGANIZZAZIONE

Ma torniamo al tema dell'innovazione e della gestione e promozione del cambiamento organizzativo. Pensare di ottenere risultati di efficienza coi soli meccanismi di benchmarking, ,senza ripensare all'organizzazione e all'ottimizzazione' dei processi interni, rischierebbe, come in parte è accaduto, di rendere vano ogni sforzo innovativo operato nell'ambito del Programma e di limitarne i risultati rispetto alle concrete potenzialità. Attraverso il sistema delle convenzioni, che è uno degli strumenti realizzati e gestiti nell'ambito del Programma insieme' al Mercato Elettronico della puiica amministrazione e aiie gare teiematicne, i uomo ciegii acquisti dopo aver completato il processo di autenticazione ed accesso al sistema, può - con un ordine on-line - approvvigionarsi di beni e servizi attinenti al proprio fabbisogno per qualsiasi importo nell'ordine di qualche giorno. Il vero valore aggiunto del progetto è quello appena descritto. Infatti, se provassimo a quantificare la durata di una procedura di gara (per semplicità ipotizziamo una gara sopra soglia comunitaria, ma lo stesso discorso potrebbe valere per una procedura sotto soglia ed informale) ed i costi diretti e indiretti ad essa associati (giornate/uomo per la redazione della documentazione di gara, gestione della procedura, costi di pubblicazione, emolumenti per i componenti della commissione di gara, la gestione del contenzioso, ecc.) ci accorgeremmo che il risparmio effettivo - non potenI I I•

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ziale come il caso dei risparmi da effetto benchmarking - si attesta tra 40 e 60 mila euro per gara (dal 2000 ad oggi, solo come mancati oneri amministrativi per le procedure ad evidenza pubblica, si è generato un risparmio superiore ai 100.000.000 di euro - e si tratta di un dato fortemente sottostimato). Ribadisco: senza considerare quelle che sono le procedure fuori dall'ambito della disciplina comunitaria. Infatti, i punti ordinanti possono, senza alcun problema, ordinare beni e servizi al di sotto della soglia comunitaria, evitando anche in questo caso i costi connessi alla procedura. Non è più necessario occuparsi degli aspetti procedurali standardizzati a basso valore aggiunto - e dei controlli di natura amministrativa legati alla stipula .dei contratti; quanto, piuttosto, alla programmazione degli approvvigionamenti, alla verifica della qualità e dei livelli di servizio delle fornitu-: re e al controllo della spesa, attività molto più proficue nell'ottica dei controlli di risultato che negli ultimi anni fortunatamente - anche se stentano ad affermarsi nella loro interezza - si sono affiancati a quelli amministrativi per la valutazione dell'azione delle Pubbliche Amministrazione. Tutti questi elementi di cambiamento e di innovazione, per citare un esempio, si possono riscontrare in un qualsiasi corso-seminario sugli appalti pubblici. Fino a qualche anno fa, frequentare un corso su queste tematiche rischiava di risolversi in rilettura ed esplicazione delle norme, in senso strettamente giuridico. A parteciparvi, oggi, ci si accorge sia dello stravolgimento semantico dei concetti, sia della più generale innovazione dell"armamentario" di cui un'amministrazione pubblica dispone per l'approvvigionamento di beni e servizi. Questo è sicuramente uno dei meriti maggiori del Programma. La reazione delle strutture amministrative a questo nuovo meccanismo è stato il più vario, come del resto era ipotizzabile: in alcune circostanze si è pienamente inteso il valore dello strumento, e lo si è utilizzato come catalizzatore per la riorganizzazione dei processi interni alle amministrazioni; in altri casi, che costituiscono ancora una porzione importante di amministrazioni pubbliche, lo si è ritenuto - a tortò, ritengo - uno strumento che avrebbe limitato l'autonomia organizzativa dell'amministrazione e, perciò, osteggiato in ogni modo. DISCIPLINA INNOVATIVA

Per la realizzazione degli strumenti citati all'interno del. Programma, il nostro Paese ha dovuto dotarsi di un regolamento (il DPR 101/2002) che ci ha 119


consentito di essere la prima pubblica amministrazione in Europa ad effettuare gare telematiche sopra la soglia di rilievo comunitario. Costituisce una disciplina di grande novità, come si diceva, e di grande impatto nel nostro ordinamento, che anticipa abbondantemente la normativa europea sul tema. Infatti, solo con la disciplina contenuta nella direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004, che gli Stati membri dovranno recepire entro il 31 gennaio 2006, sono state previste e disciplinate le aste elettroniche (art. 54). Un'ulteriore riflessione su1 punto, a ridosso della data di recepimento della direttiva, mi porta ad affermare che in. questa fase sarebbe stato opportuno verificare gli scenari evolutivi del modello di e-procurement italiano per tenerne conto in sede di attuazione della direttiva menzionata. Un simile sforzo non è stato compiuto, è un'occasione mancata. Queste procedure, con le loro potenzialità innovative, hanno dimostrato, per come disciplinate dalla normativa italiana, di coniugare l'efficienza, la semplificazione e la celerità, che nascono dall'utilizzo delle metodologie informatiche (basti pensare che i tempi di una procedura passa dai 160 giorni in media per una gara tradizionale di servizi, a 90 giorni in media di una gara telematica) con le garanzie che sono associate alle procedure ad evidenza pubblica tradizionali. Oggi, lo strumento della gara telematica costituisce la procedura ordinaria per espletare le procedure di gara che alimentano il Sistema delle Convenzioni, quando l'oggetto della procedura è rappresentato da beni o servizi che per caratteristiche tecnico-merceologiche consentano l'utilizzo delle nuove metodologie. Altro elemento legato al tema dell'innovazione di processo che caratterizza il Programma è l'utilizzo di modelli di gestione nuovi, più aderenti alle esigenze di una pubblica amministrazione moderna. Si è cercato di coniugare un approccio integrato e multidisciplinare (come, ad esempio, per la gestione integrata degli immobili e per il servizio integrato energia) che la singola amministrazione difficilmente potrebbe essere in grado di assicurare in maniera autonoma, introducendo, al tempo stesso, una logica di prestazione a risultato in grado di assicurare un corretto equilibrio economicofinanziario della gestione. Questo particolare scorcio di innovazione sui servizi integrati, nei cinque anni di vita del Programma, ha dimostrato ancora una volta, semmai ce ne fosse stato il bisogno, che i progetti di innovazione, prima e più di ogni altra cosa, devono riconsiderare in senso critico ed evolutivo le organizzazioni pubbliche ed i processi interni. 120


E qui arriviamo ad un punto cruciale di cui dobbiamo assumere consapevolezza per il futuro, quando si vorrà decidere di realizzare un tipo di progetto di così vasta portata come quello in commento: alcuni la definiscono "legge di Murphy", altri "scope creep", noi semplicemente la definiamo gestione del cambiamento, ovvero, l'insieme di azioni, di processi, di moduli operativi, che consentono di gestire e "trasformare in positivo" le conseguenze della realizzazione di nuovi progetti. I PUNTI DI DEBOLEZZA Facendo autocritica, probabilmente, la mancanza di una forte e parallela azione di change management non ha consentito la comprensione e la metabolizzazione da parte del sistema imprenditoriale e delle pubbliche amministrazioni, determinando considerevoli e non sempre coerenti interventi del legislatore che hanno bloccato il Programma, almeno sui Sistema della Convenzione, per quasi un anno e mezzo. Sul tema, prendendo spunto dall'analisi del Professor Nardozzi, - in "Miracolo e declino" - quando, a proposito del miracolo economico italiano, lo definisce "uno dei più clamorosi esempi di quella che l'analisi economica chiama rincorsa (catching-up)", che rappresenta il sistema economico come una gara in "cui, a differenza che in pista, i ritardatari godono di un vantaggio che può farli correre più velocemente". In altri termini, potremmo sicuramente giovarci degli errori dei "battistrada". Infatti, secondo il paradigma del catching-up, i ritardatari (chi non lo è nel caso delle pubbliche amministrazioni?) hanno il vantaggio di poter copiare, imitare, cose che già si sono fatte o, almeno, scritte e proposte. Infatti, è più agevole imitare nuove tecnologie che produrle (in questa legislatura - un esempio - si è lanciato lo slogan del riuso delle applicazioni informatiche) in quanto gli investimenti danno alti rendimenti quando la dotazione di capitale è scarsa. Secondo il paradigma citato era veramente necessario che alcune Regioni iniziassero ad acquistare piattaforme per costruire modelli di procurement locali; quando, oramai la maggior parte dei servizi su piattaforma possono essere acquistati sul mercato, evitando ingenti investimenti da destinare a percorsi di knowledge e change management per le amministrazioni? Forse sarebbe necessario ripensare congiuntamente - lo Stato, le Regioni e gli Enti locali - la strategia complessiva degli ultimi anni sull'e-government in generale, e sull'e-procurement in particolare. Infatti, è necessario ottimizza121


re l'utilizzo delle risorse divenute sempre più scarse attraverso una ridefinizione delle politiche pubbliche che porti alla indicazione di una strategia più generale in un ottica di complementarietà centro-periferia: forti perplessità, infatti, sussistono riguardo all'elargizione a pioggia di finanziamenti su progetti ed iniziative riguardanti l'information and communication technology, talvolta slegati da un disegno complessivo coerente. Questa autocritica, però, deve far riflettere anche gli altri due attori del Programma di razionalizzazione degli acquisti che devono acquisire - anche loro - la consapevolezza del confronto e della sfida, con sfumature diverse. Per quanto riguarda le imprese, e più in particolare quelle piccole e medie, gli strumenti gestiti dal Programma - le gare telematiche e il mercato elettronico della pubblica emministrazione - potrebbero rappresentare un'ulteriore opportunità per quelle imprese che per caratteristiche dimensionali, operative e logistiche sono vincolate alle forniture delle pubbliche amministrazioni locali. Tuttavia, si rileva che l'impatto innovativo dovuto al Programma nella fornitura di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni porterà le piccole e medie imprese a confrontarsi con strumenti e modelli contrattuali relativamente nuovi, l'utilizzo dei quali è strettamente correlato alla capacità innovativa e di gestione del cambiamento delle imprese medesime. Lo stesso, ma con aspetti più accentuati sul lato dell'organizzazione, potrebbe dirsi per le pubbliche amministrazioni. Accettare la sfida dell'innovazione e del cambiamento diventa un imperativo. QUESITI APERTI

Concludo, però, con qualche domanda, le cui premesse sono state poste in precedenza e con una proposta di natura metodologica: le azioni di questi due "settori" dell'azienda Italia sono coerenti? Ed ancora. Esiste nel nostro Paese un modello efficace di governance dell'innovazione, intesa nel senso più ampio? E se a queste domande dovessimo rispondere negativamente, quali sarebbero le prospettive future su questi temi? Il tema dell'innovazione non può essere oggetto di dispute di natura ideologica. La letteratura economica classica, nonché quella più recente, dimostrano come attraverso questa "leva" si possono creare le condizioni per lo sviluppo sostenuto e durevole di un sistema economico. Se si consi122


dera la parte dei sistemi economici che riguarda le pubbliche amministrazioni, ci si rende conto facilmente che sussistono notevoli margini di miglioramento della produttività: chiunque si troverà alla guida del Paese nella prossima legislatura dovra inserire nella propria agenda tra i primi punti programmatici - anche a rischio dell'impopolarità - quello della creazione di un "nuovo governo" dell'innovazione dell'IcT. In Italia, molti sono i progetti di innovazione realizzati e alcuni di questi non sono riscontrabili in altre economie avanzate sia a livello europeo, sia internazionale. Il vero problema, quindi, è la definizione di una strategia unitaria di governo dell'innovazione e, all'interno di questa, di una razionalizzazione e manutenzione dei progetti stessi. Prescinderne contribuirebbe al processo. di declino - si possono trovare infiniti sinonimi - del sistema Paese.

* Relazione presentata al Seminario "Più valore alla Pubblica amministrazione - Appalti pubblici tra efficienza e trasparenza", Roma, 23 novembre 2005, presso il CNEL.

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dossier

Quali regole e quali attori per il mercato globale

Pochi anni orsono, in un importante volume, Natalino Irti ha ricordato come il mercato sia un luogo storico, plasmato dalle regole, e non un luogo naturale non plasmabile dall'uomo, come vorrebbe una certa ideologia neoliberista (L'ordine giuridico del mercato, Laterza, 1998). Negli ultimi anni, dal crack Enron negli Stati Uniti al caso Parmalat in Italia, fino ai più recenti scandali bancari che hanno sconvolto il nostro paese, è emerso, con sempre maggiore forza, un nuovo bisogno di regole nel campo dell'economia che ha spazzato via, probabilmente in modo definitivo, l'illusione della sostenibilità della deregulation nella complessità dei sistemi economici e sociali della modernità. In questo dossier Donato Masciandaro e Dario Velo affivntano la questione delle regole dell'economia sotto due aspetti di grande momento. Il primo è quello della discplina dei mercatifinanziari e del ruolo dell'autorità di regolazione, dopo le turbolenze che hanno occupato le prime pagine dei giornali e monopolizzato il dibattito pubblico per molti mesi. Proprio in relazione a questi eventi, con la legge 28 dicembre 2005, n. 262, sono state alfine dettate "Disposizioni per la tutela del risparmio e la disczplina dei mercatifinanziari" Ilpreczpitare della crisi in Banca d'Italia, con le dimissioni del Go125


vernatore Antonio Fazio, ha costretto Governo e maggioranza parlamentare ad approvare con massima rapidità la legge, divenuta necessaria per la nomina del nuovo Governatore con nuove norme. L'altra questione è quella della natura dell'impresa e della necessità di ricostruire un nesso tra attività economiche e nuovi livelli di statualità, sempre più sopranazionali e federali, che assicurino il necessario equilibrio tra libertà di intrapresa e responsabilità sociale. Si tratta, come è evidente, di due questioni cardine in relazione alle prospettive di evoluzione del mercato globale. Due questioni rispetto alle quali il nostro sistema ha accumulato un particolare ritardo. In confronto alle prospettive ed ai criteri esposti nell'articolo di Masciandaro, ad esempio, è probabile che la legge appena approvata risulti ilproverbiale "topolino" a petto dei problemi sul tappeto. Per questo non c'è nulla da cambiare nel testo che pubblichiamo, scritto prima dell'approvazione della legge. L'articolo, piuttosto, sarà la base redazionale per una discussione che speriamo sia vivace e possa andare oltre il ricatto dell'emergenza. (G.V.)

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Istituzioni di vigilanza bancaria e finanziaria. Lezioni internazionali per il caso it a li ano* di Donato Masciandaro

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n questi mesi è cresciuta nel nostro Paese l'attenzione al.tema del riordino dei poteri tra le diverse istituzioni di vigilanza sui mercati bancari e finanziari. Alta è stata la sensibilità interna: la tutela del risparmio dei cittadini ha conquistato subito il proscenio dei media. Ma alta è stata anche la sensibilità internazionale: i casi Cirio e Parmalat hanno riacceso i riflettori internazionali sull'Italia, e l'interrogativo più frequente nei commenti è stato proprio legato alla capacità di reazione dei nostri governanti rispetto a scandali societari, con risvolti finanziari, di proporzioni inusitate. Dalla risposta regolamentare può dipendere una buona fetta della ripresa di fiducia che i risparmiatori italiani ripongono nel proprio sistema finanziario, come pure della reputazione estera. Ed allora questa risposta deve essere soprattutto chiara ed immediata, nonostante la domanda di partenza - quale deve essere l'assetto ottimale dei controlli finanziari - si presta molto di più a riflessioni scientifiche e tecniche, che - ad esempio - ai taik show televisivi. Il punto che non si può certo eludere è la presa di coscienza del fatto che i cittadini, dopo gli scandali, domandano maggiore tutela per il proprio risparmio. Il Parlamento - negli ultimi giorni rimasti prima della fine della legislatura - dovrà provare, possibilmente in un'ottica bzartizan, a dare una risposta adeguata a tale domanda, cogliendo dalle esperienze internazionali le lezioni più adatte ai propri mercati. I casi Gino e Parmalat sono una manifestazione patologica del modo in cui un'impresa può rapportarsi con i mercati finanziari. Quando si è in presenza di ipotesi continue e sistematiche di truffa e falso, occorre subito chiarire che di patologia si tratta. Ma è dall'analisi dei comportamenti devianti messi in atto dai diversi attori delle vicende parmense e romana, e dallè relative reazioni provocate nei mercati e nei risparmiatori, che si possono trarre insegnamenti sul da farsi. L'Autore è Professore Ordinario di Economia Politica, Cattedra di Economia della Regolamentazione Finanziaria, Università Luigi Bocconi, Milano. . . 127


La prima considerazione riguarda la necessità di garantire ai cittadini che la rete nazionale di sorveglianza sui loro risparmi sia adeguata alle caratteristiche di un sistemafinanziario sempre più globale, integrato e complesso. E chiaro che le riflessioni da trarre dai dissesti societari non si fermano qui. La circostanza per cui una primarià azienda nazionale abbia potuto mettere in atto frodi contabili e finanziari per oltre una decina d'anni, operando indifferentemente sui mercati nazionali ed internazionali solleva interrogativi su tutto il sistema di pesi e contrappesi che dovrebbe garantire l'efficienza e la correttezza dei manager e degli azionisti di controllo nei confronti dei diversi soggetti che con l'impresa si trovano ad interagire. Il disegno della supervisione finanziaria è solo uno dei meccanismi di tutela, e sulla sua importanza relativa, in generale e nelle specifiche vicende societane, si potrebbe aprire un lungo, forse interminabile, contraddittorio. Ma solo chi non gira per strada e non frequenta luoghi pubblici, ovvero è endemicamente affetto da disonestà intellettuale, può ignorare che il cittadino medio vede le frodi societarie come l'ennesimo episodio in cui qualcosa non è funzionato anche nel monitoraggio dei rapporti tra finanza, banca ed impresa. Ora, quello che il mercato percepisce non è né giusto né sbagliato; esiste, punto e basta. Si lasci pure agli psicologi ed agli economisti - che lavorano sempre più spesso insieme - l'analisi di più lungo orizzonte delle ragioni economiche e non economiche delle percezioni degli agenti; il dovere dei governanti è rispondere adeguatamente alle domande del mercato. Al risparmiatore medio italiano una cosa appare ben chiara: allocare al meglio i propri soldi diverrà sempre più difficile, perché le categorie con cui è di solito abituato a pensare - le banche, le assicurazioni, la borsa, le obbligazioni, le azioni, i depositi - si stanno pian piano sciogliendo in un unico grande e complesso mondo: il mercato finanziario globale. Ed allora, si chiede sempre il risparmiatore medio, come posso essere tutelato? La risposta non è poi alla fine così complicata, perché, per provare a fare consapevolmente le scelte migliori, il risparmiatore ha bisogno di almeno tre cose: contare sul fatto che esista sempre una forma di allocazione del risparmio priva di rischio di perdite nominali in conto capitale (liquidità, o strumento di pagamento); sapere quale è il rischio che affronta con ogni altra allocazione del risparmio, e quale sia il relativo rendimento; avere l'opportunità di scegliere tra più allocazioni. Dunque, occorre garantire al risparmio almeno tre proprietà: fiducia nella stabilità sistemica nell'industria che produce e distribuisce gli strumenti 128


di pagamento; trasparenza e correttezza delle proposte di investimento finanziario; pluralità delle stesse grazie alla concorrenza tra intermediari. Ma come dotare la nostra industria bancaria e finanziaria delle necessarie dotazioni di stabilità, trasparenza e correttezza, concorrenza? Il presente lavoro mostra come, partendo da una riflessione generale sul rapporto tra sistema politico, mercati finanziari ed autorità di vigilanza, e passando ad una analisi comparata delle tendenze in atto nella supervisione, grazie un campione di 80 Paesi, si possa arrivare ad utili indicazioni sul caso italiano. SISTEMA POLITICO, MERCATI FINANZIARI E DISEGNO DELLE AUTORITÀ

Ridisegnare ruolo e poteri delle Autorità di controllo, al fine di perseguire finalità pubbliche, evitando due rischi opposti: creare burocrazie irresponsabili, ovvero ancelle del potere politico. L'intenso dibattito di questi mesi sul disegno della supervisione finanziaria impone di definire alcuni principi di fondo, in modo da poter meglio giudicare le diverse proposte in campo e le azioni che da esse potranno scaturire. Operazione, quest'ultima, sempre utile, ma che diviene indispensabile in un Paese in cui né la Destra né la Sinistra hanno una solida tradizione liberale, coerente con le esigenze di una società di mercato evoluta. Quando e come, in un Paese moderno, nasce una cosiddetta Autorità? Il processo dovrebbe essere più o meno questo: la classe politica si rende conto che una certa funzione di controllo e/o di regolazione in un dato settore produttivo è opportuno che venga delegata ad un soggetto terzo, appunto l'Autorità. La ragione è legata all'analisi costi benefici economica e/o politica. Ci sono motivazioni legate all'efficienza dell'azione di controllo e di regolamentazione, in quanto essa presuppone specifiche competenze e/o richiede tempi e. modalità particolari; ci sono poi ragioni connesse all'efficacia di tale azione, in quanto essa deve essere sottratta - in tutto o in parte alle caratteristiche del ciclo politico, per evitare effetti indesiderati, o addirittura controproducenti Embiematico il caso dell'Autorità di tutte più famosa, vale a dire la Banca centrale, responsabile del valore della moneta. La gestione della politica monetaria presuppone capacità, modalità e tempi affatto particolari; ma, soprattutto, va sottratta al controllo diretto dell'Esecutivo, in quanto ciascun Governo può essere tentato di utilizzarla per finalità specifiche, elettoio ideologiche, che alla fine si risolvono essenzialmente in maggiore inflazione. Dunque, l'autorità politica volontariamente "si lega" le mani, e 129


frappone una barriera tra sé ed una determinata area della politica di controllo, disegnando una delega a favore di una Autorità. Tutto il successo dell'operazione riposa nel disegno di quella delega, che dovrà consentire all'Autorità di svolgere con efficacia ed efficienza la missione per cui è nata; il che significa, soprattutto, evitare le Autorità irresponsabili, da un lato, e le Autorità catturate, dall'altro. Per questa ragione è divenuto cruciale, nel corso degli anni, il tema dell'indipendenza della Banca centrale; non certo solo in quanto oggetto privilegiato della letteratura economica, ma anche come fonte di animate discussioni politiche. Occorre, allora, forse intendersi sui significato di indipendenza monetaria in una moderna economia di mercato. L'indipendenza della Banca centrale è uno strumento di ingegneria istituzionale, che serve, in tempi normali, a ridurre il rischio che i cittadini siàno "ingannati" dai governi in carica, attraverso le manovre di politica monetaria. L'inganno si realizza quando, grazie alla capacità di crear moneta, il Governo riesce a risolvere nel breve periodo problemi di varia natura - dai disavanzi fiscali alle anemie occupazionali - posticipandone o occultandone i relativi costi. Occorre allora creare una istituzione che tenga a "distanza di braccio" i governi dalle leve monetarie. Con due importanti avvertenze. Per evitare di cadere dalla padella alla brace, cioè che i cittadini siano "ingannati" dalle banche centrali, magari colluse con i governi in carica, occorre che esse rendano conto in Parlamento, secondo modalità che non ne riducano l'autonomia. Inoltre, in circostanze eccezionali, può accadere che il conflitto tra Banca centrale e Governo assuma caratteristiche e toni non sanabili; occorre che esso sia risolto, sempre in Parlamento, con la garanzia di maggioranze qualificate per deliberare. Dunque, nella moderna analisi economica, indipendenza ed accountabilùy sono due facce della stessa medaglia. Tornando al tema generale, il tema del ruolo della Banca centrale è poi divenuto progressivamente più complesso, ma anche più interessante, nel momento in cui, oltre ad interrogarsi sull'assetto ottimo dei poteri monetari, nelle economie di mercato sviluppate ci si è posti il quesito sull'architettura dei poteri di supervisione bancaria e finanziaria. Detto in altri termini, è meglio Dublino o Londra? È preferibile, cioè, avere un'istituzione - come di fatto accade per la Banca centrale in Irlanda dal 2003 - che assomma in sé tutti i poteri di controllo sui mercati, da quelli monetari a quelli bancari, finanziari ed assicurativi; ovvero puntare su di una Banca centrale - come è la Old Lady londinese dal 1997 - con130


centrata esclusivamente sul perseguire una politica monetaria stabile, lasciando invece i compiti di sorveglianza dei mercati ad un'altra sola Autorità finanziaria? LE TENDENZE INTERNAZIONALI

Il dato da cui partire è che l'esigenza di riconsiderare, per razionalizzarla, la struttura dei controlli nasce da un tratto comune a tutte le economie di mercato, in forme sempre evidenti dagli anni Novanta in avanti: l'integrazione verticale, orizzontale, e internazionale tra i diversi segmenti dell'industria bancaria, finanziaria ed assicurativa (b1urrin. Fino a qualche tempo fa, infatti, era facile distinguere, pressoché in ogni Paese, tali tre settori, ed era altrettanto facile verificare che anche il sistema dei controlli seguiva un modello "istituzionale", per cui ad ogni settore corrispondeva (almeno) una Autorità. La desegmentazione di mercati, strumenti ed operatori ha messo in crisi il modello "istituzionale", in quanto ne sono emersi i rischi in termini di efficacia (possibilità di arbitraggio tra regolamentazioni) e di efficienza (costi dei controlli per i controllati, diseconomie per i controllanti). Negli ultimi anni, si è assistito ad un fenomeno insieme generale e graduale, rappresentato dal diversificarsi, da Paese a Paese, del grado di accentramento dei poteri di regolazione finanziaria. Quello che è avvenuto è che, rispetto al tradizionale modello di controllo per settori, talune nazioni hanno confermato tale modello, altre lo hanno radicalmente cambiato, adottando l'Autorità Finanziaria Unica, altri ancora hanno fatto o confermato scelte intermedie. Per cui si pone un problema di misurazione del grado di accentramento dei poteri, Paese per Paese, al fine di provare a descrivere in termini quantitativi un fenomeno qualitativo. Quindi, il primo obiettivo empirico che ci si può proporre è utilizzare un indicatore sintetico di tale fenomeno, per migliorare l'analisi descrittiva. La domanda è: come "misurare" il grado di concentrazione dei poteri finanziari? A tale scopo abbiamo provato a costruire un Indice di Concentrazione dei Poteri Finanziari (Financial Authorities Concentration Index, FAc Index). La creazione dell'Indice si è basata su un'analisi di quali e quante Autorità sono preposte alla vigilanza dei tre tradizionali settori dell'attività finanziaria - banche, mercati mobiliari, assicurazioni - in 80 Paesi. A questo punto, è opportuno tener conto anche della natura delle istituzioni coinvolte nelle responsabilità di controllo; in particolare, occorre 131


chiedersi quale è il ruolo che la Banca centrale gioca nei diversi assetti istituzionali nazionali. L'attenzione al grado di coinvolgimento che la Banca centrale ha nel complesso della supervisione finanziaria è immediatamente spiegabile con la specificità che tale istituzione ha rispetto a tutte le altre, per rivestire appunto il ruolo di autorità responsabile della politica monetaria. Dunque, al fine di mettere in luce tale specificità, introdùciamo un indice di coinvolgimento nella vigilanza finanziaria della Banca centrale (Central Bank as Financial Authority Index, CBFA mdcx). Ogni assetto istituzionale nazionale può allora essere individuato per almeno due caratteristiche: il grado di concentrazione dei poteri di regolamentazione e di controllo (FAU mdcx); il grado di coinvolgimento della Banca centrale in tale distribuzione dei poteri (CBFA Index). La fotografia complessiva mostra come i due modelli più frequenti siano polarizzati: da un lato, Paesi ad alta concentrazione dei poteri con basso coinvolgimento della Banca centrale (Assetto Concentrato con Autorità Finanziaria Unica - Single Financial Authorities Regime); dall'altro, Paesi con una bassa concentrazione dei poteri con alto coinvolgimento della banca centrale (Assetto Diversificato con Banca centrale dominante - Central Bank Dominated Multiple Regulators Regime). L'Italia appartiene senza dubbio a questa seconda tipologia.

Il caso italiano Siamo tutti ad attendere che termini una vicenda legislativa che - a volerla ben datare - inizia due anni fa, quando il Parlamento decise di occuparsi dell'assetto della vigilanza bancaria e finanziaria. Sul tema, il Parlamento non ha mai legiferato. Ma ancora, al Parlamento si guarda. Magari pensando che, così come è successo negli Stati Uniti dopo lo scandalo societario Enron, o nel Règno Unito dopo lo scandalo bancario Bcci, i politici - ancorché con grande ritardo - non potranno alla fine non mettere mano alle regole. È una pia illusione. In quei Paesi i politici hanno trovato elettoralmente conveniente reagire a crisi di reputazione con riforme legislative. Da noi la tutela del risparmio non viene percepita come uno strumento che fa guadagnare voti. Per cui, se mai legge ci sarà, avremo il solito topolino partorito dalla montagna. Partiamo da una constatazione: in questo periodo è maturata, in Italia 132


come l'estero, una diffusa percezione - almeno nella pubblica opinione che si forma sui giornali - che sia maturata una forte crisi di credibilità subita dal nostro Paese a causa delle vicende bancarie legate alle OPA lanciate dalla banca olandese Abn Amro e dalla spagnola Bilbao. Una crisi di credibilità mette in moto una domanda di riforma delle regole: è questa la lezione che si ricava dall'esperienza internazionale degli ultimi anni. Ricordiamo alcuni episodi. Nel Regno Unito, il neogoverno laburista appena insediato di Tony Blair, dopo che la sequenza di scandali Johnson Matthey (1984), Bcci (1991) e Barings (1995) avevano minato la reputazione della Banca d'Inghilterra come buon supervisore, decisero di mettere mano al disegno complessivo della vigilanza, creando l'Autorità Finanziaria Unica. In Svezia, la crisi bancaria degli anni 1991-92 spinse il governo ad avviare la riforma di supervisione sui mercati. In Estonia, dopo le crisi bancarie del 1998 e del 1999, il Parlamento si avviò nella medesima direzione. In Lettonia la crisi di fiducia nell'efficacia della vigilanza ha motivato, nel 2001, la creazione di una nuova Autorità di controllo. Lo stesso è accaduto in Corea, dopo la crisi finanziaria del 1997. È interessante notare che la caduta reputazionale può colpire anche istituzioni diverse dalla Banca centrale: in Norvegia, nel 1990, è stata invece l'Autorità Unica ad essere messa in discussione dal Parlamento, al seguito di cattive performance nella vigilanza. La percezione di un deficit reputazionale del sistema dei controlli di solito, mette in moto i politici. Non è detto, poi, che l'esito della dinamica politica avviata dalle ipotesi di riforma delle regole di vigilanza sia scontata. Embiematico il caso dell'Irlanda, in cui un iter parlamentare che doveva inizialmente portare ad una radicale riforma della vigilanza, ha finito poi per accentrare completamente nelle mani della Banca d'Irlanda tutte le responsabilità di controllo, bancarie e finanzarie. In ogni caso, i Parlamenti ed i Governi hanno sempre discusso, magari a lungo, ma poi agito. In Italia, niente di tutto questo. O meglio : proclami tanti, contenuti zero. Mette un po' di tristezza ricordare il lungo inter del disegno di legge a tutela del risparmio, avviato dopo gli scandali societari Cirio e Parmalat. Ache qui, occorre segnalare i fatti. All'epoca, fu evidente che il riordino complessivo delle regole poteva essere anche una buona occasione per dare razionalità ad un assetto della vigilanza oramai obsoletoed incoerente. Cosa era accaduto? Semplicemente che l'assetto della vigilanza bancaria e finanziaria aveva mostrato i difetti che la sua attuale fisionomia provoca: Tale fisionomia può essere così fotografata: nell'architettura dei controlli ci sò133


no troppe Autorità (cinque), con responsabilità confuse, dominate dalla figura della Banca centrale. Il modello italico di vigilanza - frutto, come tutti i modelli istituzionali, di una sua peculiare evoluzione storica - appare poco adatto a controllare mercati ed intermediari bancari e finanziari caratterizzati da una continua globalizzazione ed integrazione (il sopra citato blurring. Il fenomeno del blurring sta interessando tutti i Paesi sviluppati, ed in ciascuno di essi il modello di vigilanza ha tentato di adeguarsi. Non esiste un modello di vigilanza dominante, ma almeno tre diverse tipologie di contro!lo possono essere indivuate. Esiste il modello irlandese, in cui un'unica autorità - la Banca centrale - è l'autorità che assomma tutte le responsabilità di supervisione. Esiste il modello anglo-tedesco, in cui un'unica istituzione - diversa dalla Banca centrale - ha tutti i poteri di vigilanza sui mercati. Infine, vi è il modello olandese, o per finalità, in cui un soggetto - la Banca centrale - è responsabile della stabilità finanziaria, un'altro - definiamola autorità finanziaria - si occupa del rispetto della trasparenza e della correttezza. Per l'Italia, il modello che sembra dare più garanzie di efficacia appare quello olandese. L'accentramento di tutti i poteri di controllo in un solo soggetto appare, infatti, poco auspicabile in un Paese in cui i rischi di cattura del regolatore - dall'alto, a causa delle ingerenze dei politici, e/o dal basso, per effetto delle lobbies dei controllati - appaiono particolarmente alti. Dunque, rispetto all'attuale configurazione, la riforma dovrebbe introdurre un assetto per finalità, con la Banca d'Italia responsabile per la stabilità finanziaria e la Consob per la trasparenza e la correttezza. Di conseguenza, i poteri antritrust andrebbero ricentrati sull'Autorità Garante per la Concorrenza, e Isvap e Covip verrebbero eliminate. Ma, al di là delle indicazioni dell'analisi economica, quale strada è stata scelta dal Parlamento italiano? Finora, nessuna. Il Parlamento avviò una sequela di audizioni, e, fino alla vigilia delle elezioni europee, i politici di entrambi gli schieramenti fecero a gara nell'affermare la sacralità della tutela del risparmio. Passate le elezioni, l'indignazione lasciò il passo alla meditazione, poi. all'indifferenza assoluta. Ora, sull'onda delle preoccupazioni - talune strumentalmente moralistiche - causate dalle indagini giudiziarie legate alle OPA bancarie ancora in corso, la nostra classe politica ha riscoperto la centralità dei problemi legati all'assetto della vigilanza e delle sue autorità. Sono riprese a fioccare le ipotesi di riforma, ma riesce difficile individuare una proposta organica e condivisa nella Destra come nella Sinistra. È facile prevedere che il dibattito continuerà, anche acceso, distaccandosi progressivamente dal nocciolo del 134


problema: produrre una riforma seria della vigilanza sui mercati bancari e finanziari. A quanti elettori interesserà questo dibattito? Crediamo a pochi. E con noi - almeno da come s •i è comportata finora - lo crede anche la maggioranza del nostro Parlamento. Poi magari una piccola legge verrà varata. E sufficiente cambiare una sola norma, magari divenuta famosa, come quella della carica del governatore. Per arrivare alle prqssime elezioni, potrebbe bastare. SUPERARE LA SUPERVISIONE PER MERCATI

Qua! è il modello ottimo di vigilanza sulla banca e sulla finanza? Questa domanda viene proposta sempre più spesso, un p0' in tutto il mondo. L'Italia non fa eccezione: sono passati dieci anni dall'ultimo riordino delle regole del gioco in materia - il Testo Unico del 1993 - che ha definito un modello con autorità multiple, con la Banca centrale in una posizione dominante. Negli ultimi mesi, un dibattito - purtroppo spesso scomposto nel merito e strumentale nei fini - ha riportato il tema alla ribalta. In conclusione, è possibile fare un primo preliminare bilancio. L'esperienza dei mesi passati ci ha mostrato i punti di debolezza, ma anche di forza, del nostro sistema di controllo; non prenderne atto, magari per calcoli elettorali od opportunismi di varia natura, costituirebbe un secondo tradimento per quel risparmio che, ingannato la prima volta dalle vicende di mercato, si troverebbe ora preso per il naso dalla propria classe politica. Non solo: risulterebbero traditi gli stessi interessi del sistema bancario e della struttura imprenditoriale, che hanno visto intaccati asset primari -. quali la fiducia e la affidabilità sistematica - con minor dotazione dei quali sia l'attività di impresa che quella finanziaria risultano più difficili. Il Parlamento sembra però incagliato in un metaforico mare dei sargassi, rappresentato da una marea di dubbi e tentennamenti. Tale marea è stata diversamente spiegata: citando solo le interpretazioni più serie, si è detto, di fatto, che il decreto tocca le fondamenta stesse della nostra architettura dei controlli, senza che tali fondamenta siano di fatto state messe in discussione dai recenti episodi di scandali societari e finanziari. In fondo, si conclude, la riforma delle autorità di vigilanza non è centrale, né urgente, rispetto alla tutela del risparmio, presente e prospettica. L'errore di valutazione è macroscopico. In primo luogo, la crisi irreversibile del modello di supervisione per mercati (bancario, finanziario, assicurativo) va affrontata con decisione e rapidità. In ciascun Paese sviluppato, i fenome135


ni di desegmentazione degli intermediari, delle attività e degli strumenti (b1urring) ha mostrato l'obsolescenza della vigilanza basata sul principio "per ogni mercato (almeno) una Autorità". In pillole, la supervisione segmentata per mercati, quando i confini tra questi ultimi tendono a sparire, provoca carenza informati ve, fonte di inefficienze, e, quando qualcuno le "sfrutta", anche di frodi. In effetti, il fenomeno dell'integrazione e della globalizzazione delle banche e della finanza ha prodotto anche eventi traumatici: crisi e scricchiolii bancarie - Regno Unito, Paesi scandinavi, ovvero societari - Italia, ma anche Olanda. Occorre, quindi, abbandonare la supervisione per mercati, a favore di una supervisione per funzioni, in cui si assegnino responsabilità di vigilanza legate al perseguimento di determinate finalità di pubblico interesse, essenzialmente: stabilità, trasparenza, concorrenza. In Italia, gli scandali societari hanno mostrato la maggiore debolezza del nostro sistema "ibrido": la presenza di carenze informative, poi sfruttate fraudolentemente in alcuni punti del sistema, senza che sia stato possibile definire in modo chiaro le responsabilità dei diversi livelli di regolazione e di monitoraggio. In questa situazione, diviene più probabile che si confondanò responsabilità individuali, aziendali, e sistematiche, nonché i ruoli relativi delle varie autorità di controllo. Di riflesso, è più probabile scambiare casi patologici ed isolati con tratti fisiologici - per taluni addirittura endemici - fino ad arrivare ad episodi paradossali e scandalosi, come vedere il governatore della Banca d'Italia ed il presidente della Consob fatti oggetti di una indagine - per fortuna subito archiviata - per concorso in truffa. Il modello italiano di vigilanza va, dunque, corretto nelle sue zone d'ombra e rafforzato nei suoi punti di forza. Il modello più efficace appare il seguente: una architettura omogenea per funzioni "due più uno", con la Banca d'Italia, la Consob e il Garante per la Concorrenza responsabili dei tre obiettivi principali, con espliciti meccanismi istituzionali, sia per l'indipendenza che per l'accountability. Il nuovo modello italiano della supervisione valorizzerebbe la reputazione della Banca centrale come responsabile della vigilanza prudenziale, modernizzando, nel contempo, la disciplina della concorrenza. In assenza di un modello ottimo della supervisione, ed in un contesto finanziario in cui l'armonizzazione europea e, in generale, internazionale delle regole avverrà proprio attraverso la cooperazione ma anche la competizione tra modelli alternativi, è un dovere dei nostri parlamentari irrobustire proprio le fondamenta della vigilanza. Staremo a vedere se e cosa legiferà il nostro Parlamento. 136


* Questo saggio utilizza e riassume risultati ottenuti dall'Aut6re in una serie di lavori scientifici, ricordati nelle note bibliografiche che seguono.

Divide. et Impera: Financial Supervision Unification and Central Bank Fragmentation Effect, in «European Journal ofPolitical Economy», 2006, (forthcoming).

E Pluribus Unum? Authorities Design in Financial Supervision: Trends and Determinants, in «Open EcoNote bibliografiche

The Handbook of Central Banking and Financial Authorities in Europe, (ed.), Edward Elgar, Cheltenham, 2005.

nomies Review», 2005, (forthcoming).

Unijìcation in Financial Sector Supervision: The Trade 0ff between Central Bank and Singie Authority, in «Journal of Financial Regulation», 2004, VoI. 12, n. 2, pp. 151-169.

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istituzioni n. 1361137 inverno-Drimavera 2005

Quale impresa e quali controlli per l'economia g l o ba l e* di Dario Velo

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1 tema delle forme di controllo delle imprese pubbliche e private è o!tremodo ampio, in quanto pone una serie di problematiche differenziate. I controlli sulle imprese private hanno registrato una evoluzione non sempre coincidente con le tendenze in atto per le imprese pubbliche. In entrambi i segmenti i controlli si sono specializzati e frammentati. Forme di controllo che non fanno riferimento alla natura pubblica o privata dell'impresa costituiscono una componente di rilievo del nostro tema. L'ampiezza del tema espone al rischio di una trattazione analitica, disorganica, con il rischio di sviluppare una rassegna piuttosto che un'interpretazione critica. Esiste anche il rischio contrario, di una trattazione troppo semplificata, che colga alcuni aspetti comuni alle forme di controllo, smarrendo, peraltro, l'importanza delle specificità; ha valenza limitata cogliere alcune linee di tendenza se non si giunge a definirle in modo adeguato e a sistematizzarlel. CoNsIDEzIoNI DI METODO

Vorremo proporre una scelta metodologica radicale e concentrare l'analisi su un solo aspetto della problematica, da noi ritenuto di importanza centrale. In presenza di trasformazioni profonde che investono l'economia, le società e le istituzioni, si tratta di cogliere il punto cruciale da cui dipendono una serie di aspetti, secondo una sequenzialità storicamente determinata. Questa scelta, anche fosse non corretta, esposta con chiarezza ha comunque il merito di offrire allo studioso una chiave interpretativa dell'analisi proposta; è questo uno degli insegnamenti della tradizione weberiana 2 La convinzione di fondo che guiderà l'analisi di seguito proposta è che le specifiche vicende in tema di controlli possono essere inquadrate facendo riferimento all'evoluzione dell'impresa, piuttosto che all'evoluzione della .

Professore ordinario di Economia e gestione delle imprese, Università di Pavia. 138


sua qualificazione pubblica/privata. L'evoluzione delle forme di controllo va ricondotta, in primo luogo all'oggetto del controllo stesso, cioè all'impresa, per quanto concerne la problematica qui affrontata 3 Questo approccio ha l'ambizione di evidenziare la causa dell'evoluzione delle forme di controllo: essa è essenziale per comprendere l'insieme dei profili che caratterizzano l'evoluzione di queste ultime. Questo approccio non è, nella convinzione di chi scriYe, troppo semplificante, in quanto l'evoluzione dell'impresa è fenomeno complesso che ha assunto forme diverse nei vari sistemi e ha registrato trend non lineari. Tale complessità impone un approccio analitico ed empirico; mancando una teoria predominante, si tratta di ricercare alcuni punti fermi possibili, a cui ancorare lo sviluppo della nostra analisi. .

MODELLI D'IMPRESA E CLEAVAGES STORICI

Storicamente abbiamo assistito all'affermazione di diversi modelli d'impresa. Se si prendono in considerazione i Paesi più sviluppati, è lecito affermare, almeno in prima approssimazione, che tali modelli si sono sviluppati in specifici sistemi per poi diffondersi in tutti gli altri sistemi 4 . Lo sviluppo dei diversi modelli non è stato simultaneo nei diversi Paesi. Singoli sistemi sono caratterizzati dalla prevalenza di specifici modelli d'impresa. Precisati questi aspetti, va peraltro sottolineata l'ampia comunanza delle esperienze maturate nei diversi sistemi economici avanzati. Solo in anni più recenti ha iniziato a delinearsi una possibile divaricazione fra un modello d'impresa statunitense e un modello d'impresa europeo. Per comprendere la specificità di ogni modello d'impresa e la ratio del suo sviluppo, può essere utile ripercorrere, pur sinteticamente, le tappe principali fino ad oggi percorse. Schematizzeremo la nostra interpretazione, rinunciando a prendere in considerazione, almeno in questa fase della nostra analisi, una serie di aspetti di grande momento in sé, ma non essenziali per cogliere il trend di fondo. Nel corso degli ultimi due secoli abbiamo assistito al nascere di cinque modelli fondamentali • di impresa. Questi modelli convivono, influenzandosi a vicenda e dando vita ad una serie di modelli intermedi. Il primo modello d'impresa vede la luce con la rivoluzione industriale. È il modello liberale d'impresa, ove lo stakeholder fondamentale. è costituito dall'azionista. Imprenditore e proprietario d'impresa tendono a coincidere. 139


Questa forma d'impresa contribuisce ad affermare la libertà della borghesia e con ciò segna una tappa fondamentale nella storia della libertà. Il secondo modello d'impresa si delinea quando nell'impresa fa irruzione, con crescente potere contrattuale, una seconda categoria di stakeholder, costituita da quanti lavorano nell'impresa stessa. Nell'esperienza statunitense sono i dirigenti dell'impresa a guidare questo cambiamento. Nell'esperienza tedesca sono i sindacati a fare maturare nuove forme di partecipazione. Questi soggetti tendono ad allearsi con i piccoli azionisti, con cui condividono alcuni interessi di fondo. Si delineano, così, l'impresa manageriale e la public company, coniugazioni diverse di un modello sostanzialmente unitario. Questa evoluzione segna un declino progressivo della centralità del capitalista imprenditore 5 Un terzo modello d'impresa si delinea con l'affermazione di una terza categoria di sta keholder costituita dai consumatori e, più in generale, dalla società entro cui si colloca l'impresa. L'impresa è chiamata a rispondere delle risorse chieste alla società e del valore restituito a questa; il riferimento agli interessi degli azionisti e di quanti lavorano nell'impresa resta fondamentale, ma deve sempre più tener conto degli interessi della società, e in modo specifico, dei consumatori. Assume crescente importanza il bilancio sociale, inteso come documento con cui l'impresa comunica a tutti i propri sta kehola!er quanto valore ha prodotto per ess1 6 Quando questa terza categoria di stakeholder assume importanza preponderante sulla prima categoria tradizionale, costituito dagli azionisti, l'impresa, può assumere la forma non-profit. In questo modo emerge ancor più chiaramente come si sia di fronte ad un terzo modello d'impresa; nello schema interpretativo qui proposto l'impresa non-profit costituisce solo una delle manifestazioni del terzo modello d'impresa, che si applica senza distinzione sia alle imprese profit che non-profif. Problema aperto è se oggi stiamo assistendo alla nascita di un quarto modello d'impresa, con l'ingresso a pieno titolo di una quarta categoria di stakeholder. Nostra convinzione è che tale processo sia in atto; la nuova categoria di stakeholder è costituita dalle generazioni future. L'impresa è chiamata a fare sempre più i conti con le generazioni future. Ciò esprime l'importanza strategica crescente delle prospettive a lungo termine per le imprese. L'affacciarsi di questa nuova categoria di stakeholder, pone il problema di chi possa rappresentarla: è senza alternativa il riferimento allo Stato o meglio alla statualità concepita nelle forme innovative che sta assumen.

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do - come unico soggetto legittimato a parlare a nome delle generazioni future. Il quarto modello d'impresa vede, dunque, come nuovo fondamentale sta keholder lo Stato in quanto interprete e portatore degli interessi delle generazioni future. Ciò non significa affermare un ruolo dello Stàto come azionista; questo approccio sarebbe riduttivo e concettualmente erroneo. In discussione non è la riaffermazione della tradizionale impresa pubblica. Questa impostazione, porta, piuttosto a concepire l'impresa del quarto modello come una componente della statualità, come un corpo intermedio in un ordine costituzionale plasmato secondo il principio di sussidiarietà. Concepire l'impresa come corpo intermedio nell'ambito di una statualità in divenire significa calare la teoria d'impresa in un processo in corso, volto a ridisegnare l'ordine economico-sociale e costituzionale. Questa impostazione consente di iniziare a delineare una teoria d'impresa per il ciclo storico secolare che si sta aprendo. Abbiamo definito, in un altro lavoro, "cosmopolitica" l'impresa così concepita 8 . Un quinto modello è l'impresa globale; tale tipologia d'impresa si contrappone al quarto modello sopra descritto (l'impresa cosmopolitica), in quanto essa opera nella logica della globalizzazione, minimizzando i rapporti con le autorità statuali. Nell'ultima parte del XX secolo, con l'accelerazione del processo di gbbalizzazione, abbiamo assistito alla nascita di un mercato mondiale al di fuori del controllo di qualsiasi Stato, come diretta conseguenza delle diverse dimensioni del mercato e degli Stati. Alcune imprese hanno scelto di operare sul mercato globale, concependo l'assenza di uno Stato regolatore e garante come opportunità 9 . Possiamo identificare questo orientamento strategico con il termine globale. Questo quinto tipo di impresa è eterogeneo rispetto ai precedenti, al di fuori della linea di sviluppo da noi presentata. Abbiamo identificato quattro modelli di impresa, che compongono una sequenza, ordinata utilizzando come criterio interpretativo l'ampliamento degli stakeholder, tutti questi modelli soddisfano la condizione di base del modello liberale, teorizzato da Smith, per cui il mercato è una componente dello Stato; nel modello liberale, lo Stato è responsabile di garantire le regole fondamentali per la comunità che con esso si identifica. Un mercato in assenza di uno Stato non è patrimonio culturale della tradizione liberale IO La gestione di un mercato globale richiede, come logico sviluppo del 141


cammino democratico guidato negli ultimi secoli dai Paesi dell'area nordAtlantica, forme innovative di statualità a livello internazionale; lo stesso fenomeno è già stato vissuto dall'Europa che, per gestire un mercato continentale di dimensioni più ampie dei singoli Stati membri, ha dato vita a forme innovative di statualità europea. Il tentativo di sostituire il mercato allo Stato è al di fuori di questa linea di sviluppo storico. In una fase intermedia, in attesa che si sviluppino le istituzioni a livello internazionale per gestire il mercato globale, le imprese europee potranno mantenere il loro carattere liberale soio se sarà rafforzata la capacità a livello europeo di dare ordine al mercato. Il rafforzamento della statualità europea è la condizione perché l'impresa in Europa possa proseguire in modo ordinato la traiettoria di sviluppo tracciata progressivamente negli ultimi due secoli. MODELLI DI IMPRESA E FORME DI CONTROLLO

La scelta metodologia proposta ha portato a concentrare l'attenzione sull'evoluzione dell'impresa e, più precisamente, sulle forme che essa ha assunto in coincidenza con l'ampliamento degli stakeholder in grado di svolgere una effettiva influenza a tutela del proprio ruolo. Mantenendo la stessa scelta metodologica, si tratterà ora di riportare le specifiche vicende in tema di controlli all'oggetto del controllo, piuttosto che all'evoluzione della qualificazione pubblica/privata dei controlli stessi. Con questa impostazione, emerge immediatamente una indicazione chiara, in grado di orientare possibili ulteriori approfondimenti. Si prendano in considerazione le prime quattro forme di impresa sopra considerate, dall'impresa liberale all'impresa cosmopolitica. E agevole cogliere la relazione diretta fra le nuove forme di controllo via via introdotte e i nuovi sta keholder emergenti. Nell'impresa liberale di prima generazione, ove il capitalista-imprenditore era chiamato a svolgere un ruolo centrale, il controllo esercitato dalle autorità era costituito, per l'essenziale, dalla garanzia del rispetto del diritto commerciale. La comparsa dei piccoli azionisti e lo sviluppo del ruolo svolto dai mercati finanziari sono alla base dello sviluppo delle nuove forme di controllo esercitate dalle Authorities preposte al buon funzionamento delle borse valori; la nascita della SEC negli Stati Uniti segna una svolta fondamentale in questa direzione. La capacità dei lavoratori di difendere i propri diritti in misura crescente 142


e la loro partecipazione alla vita dell'impresa come sta keholder imprime una accelerazione al diritto del lavoro, contribuendo alla sua modernizzazione e facendone uno strumento di controllo dell'agire d'impresa. Lo sviluppo dei controlli sulla qualità dei prodotti va messo in relazione alla importanza crescente assunta dalle organizzazioni rappresentative dei diritti dei consumatori e alla capacità di questi ultimi di incidere, con i propri comportamenti, sulle strategie produttive delle imprese. I controlli sull'impatto ambientale delle attività d'impresa si sono sviluppati quando i cittadini hanno preso coscienza del ruolo di stakeholder di cui erano portatori nei confronti delle imprese in grado di incidere sulla qualità della vita nel territorio in cui erano insediate. Questa sintesi, anche se solo di prima approssimazione, non solo indica la relazione diretta fra l'evoluzione delle forme di controllo via via introdotte e i nuovi sta keholder emergenti; essa, inoltre, indica come tale relazione possa essere utilizzata per approfondire la ratio dei controlli introdotti. Punto cruciale in questa evoluzione è rappresentato dal New Deal. Negli anni Trenta, da un lato si affermal'impresa manageriale; dell'altro, la legislazione statunitense innova profondamente i meccanismi di controllo con la creazione delle prime Authorities e l'emanazione di norme federali di portata fortemente innovativa. Il New Deal nasce, come noto, negli Stati Uniti; le innovazioni da esso portate si sono diffuse gradualmente in tutti i sistemi economici avanzati, assumendo di volta in volta caratteristiche specifiche, coerentemente alle diverse esperienze nazionali' I . J capisaldi su cui esso si basa sono la ridefinizione dei ruoli fra Stato e mercato, con l'assunzione da parte delle pubbliche autorità di una responsabilità crescente nel garantire il buon funzionamento del mercato; l'affermazione di una governance rinnovata del sistema economico-sociale fra i principali attori pubblici e privati dei processi decisionali; l'affermazione di una governance rinnovata dell'impresa, con il riconoscimento del ruolo assunto da nuovi stakeholder a fianco dei capitalisti; l'attribuzione alle autorità pubbliche di un potere economico crescente, necessario per promuovere lo sviluppo equilibrato del sistema. Il rapporto che si stabilisce fra forme di controllo e impresa uscito dal New Deal resta sostanzialmente valido fino agli anni Novanta. Il passaggio dal secondo al terzo modello d'impresa, sopra ricordato, impone un processo innovativo significativo nelle forme di controllo. Si delineano nuovi ambiti sottoposti a controllo e, conseguentemente, vengono modificate le legislazioni e create nuove Authorities. L'ordine economico subisce evolu143


zioni profonde; ciò rende lecito individuare una nuova tappa, successiva al New Deal, nella ricostruzione storica qui sintetizzata. I contenuti essenziali che caratterizzano il New Deal mantengono, peraltro, la loro capacità di orientare le scelte fondamentali, come punto fermo di riferimento. Negli anni Novanta questo ordine entra in crisi per effetto della globalizzazione, che rompe l'equilibrio fra Stato e mercato affermato dal New Deal. Per orientare il pensiero di fronte alle innovazioni emergenti in tema di controllo, è possibile individuare due alternative a tali crisi che si delineano. Le imprese globali, da un lato, sottrattesi alle forme tradizionali di controllo radicate negli Stati, tendono a divenire autoreferenziali. Lideologia della business ethics - che poco ha a che vedere con l'Etica, nel senso pregnante del termine - giustifica l'assenza di controlli in quanto si afferma capace di garantire comportamenti virtuosi da parte delle imprese 12 . L'autoregolamentazione si sostituisce ai controlli esercitati dalle autorità. Lo Stato leader risponde a questa crisi, cercando di estendere la propria competenza regolamentativa e di controllo al mercato globale, al di fuori dei propri confini; questo tentativo è condannato strutturalmente a scontrarsi con la contraddizione costituita dalle diverse dimensioni degli Stati Uniti e del mercato globale. Questa contraddizione vale per qualsiasi Stato. L'impresa cosmopolitica rappresenta, dall'altro lato, la seconda alternativa praticabile. Essa costituisce la possibile frontiera innovativa del processo di sviluppo dei modelli d'impresa di matrice liberale, ove lo Stato è il quadro entro cui si sviluppa la vita economico-sociale. In questo contesto emerge la problematica di adeguare i controlli alla sussidiarietà, cioè di recepire quest'ultima come principio per riorganizzare i controlli in modo coerente con le nuove caratteristiche che stanno assumendo l'impresa, il mercato, lo Stato, la socjetà 13 Chi cerca risposte univoche alla domanda di quale nuova forma di controllo dell'impresa sia oggi ottimale, è destinato a rimanere in vana attesa. In questo contesto, il problema non è dato dalla definizione di specifici controlli; ma dalla costruzione di un ordine che dia coerenza ed efficacia ad una serie di controlli. In un ordine fondato sulla sussidiarietà, i controlli sono destinati a moltiplicarsi, in quanto sono destinati a crescere gli interessi da tutelare e i soggetti aventi la capacità di svolgere un proprio ruolo come stakeholder. Il problema è dare ordine a questa crescita di forme di controllo; esso ha, in ultima analisi, carattere costituzionale, nel senso materiale del termine 14 .

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Quest'ultima osservazione ha una valenza economica di grande portata. Il punto può essere chiarito in modo empirico. In un sistema fondato sulla sussidiarietà, sono destinati a moltiplicarsi gli stakeholder e i controlli finalizzati alla tutela degli interessi di questi ultimi; ciò può costituire un onere che riduce la competitività dell'impresa, in primo luogo rispetto a competitors operanti in mercati meno regolamentati. In assenza di un'autorità internazionale in grado di garantire regole comuni, è evidente come emerga la necessità, nei sistemi pi1 evoluti, di gestire i controlli in modo da garantirne la sopportabilità. Emerge, cioè, la problematica del "controllo sostenibile", problematica destinata a intensificarsi con lo sviluppo della sussidiarietà. In un sistema fondato sulla sussidiarietà, quale centro di controllo deve farsi carico di ridurre l'impatto del proprio operato per evitare ricadute insopportabili a livello di competitività? La sussidiarietà richiede un attento coordinamento dei controlli come problema economico con portata costituzionale. -

UN PARADOSSO ISTRUTTIVO: GLI INSEGNAMENTI DEL CASO AIRBUS

L'impostazione data alle riflessioni sviluppate in questa sede sposta l'attenzione verso le innovazioni in fieri, anche per meglio interpretare l'esistente. La metodologia della ricerca scientifica insegna che passato, presente e futuro costituiscono una catena, ogni anello délla quale è indispensabile per comprendere i restanti anelli. L'innovazione in fieri costituisce certamente l'anello la cui definizione è pi1 problematica 15 . Un esempio paradossale può essere illuminante per intuire il percorso che sarà seguito dalle forme di controllo, nell'ipotesi che queste non siano annullate da forme estreme di globalizzazione. Alcuni Paesi europei, su iniziativa franco-tedesca, hanno avviato, oltre 30 anni fa, il progetto Airbus. Un Paese, o un insieme di Paesi, che voglia preservare la propria capacità di produrre valore, deve sapere investire in una "spina dorsale" dell'economia, in grado di trainare la modernizzazione dell'intero sistema 16 . Il progetto Airbus aveva questo obiettivo ed era specificatamente finalizzato a sostenere lo sviluppo del settore aeronautico civile in Europa. O Il progetto, così come si presentava al momento del suo varo, risultava del tutto irrealistico, tanto da scoraggiare l'adesione di altri Paesi o altre imprese all'iniziativa franco-tedesca. 145


In estrema sintesi, un confronto fra i punti di forza e debolezza del progetto Airbus e del principale concorrente, l'impresa americana Boeing, chiarisce la drastica affermazione precedente. All'epoca del varo del progetto Airbus, il mercato aeronautico civile era controllato quasi totalmente dalle imprese statunitensi, fra cui Boeing vantava una sicura leadership; Airbus avrebbe dovuto superare una posizione di debolezza tanto grave da costituire una barriera all'entrata apparentemente insormontabile. Boeing operava sul mercato interno statunitense, di dimensioni nettamente superiori a quello dell'intero continente europeo; Airbus non poteva contare sul mercato interno europeo, all'epoca fortemente frammentato in mercati nazionali. Boeing poteva contare su una politica tariffaria gestita dalle autorità federali, finalizzata a sostenere lo sviluppo dell'aviazione civile; in Europa, Airbus era chiamata a fronteggiare politiche fortemente differenziate da Paese a Paese. Il governo federale statunitense ha tradizionalmente sostenuto la penetrazione internazionale delle proprie industrie e ciò è certamente verificabile per l'industria aeronautica civile; l'Europa non aveva alcuna politica estera commerciale all'epoca. Boeing poteva vantare una sinergia strategica fra la propria produzione civile e la produzione militare, sottratta in ogni sistema a rigorosi criteri economici; Airbus nasceva per concentrarsi nel solo settore civile. Boeing traeva profitto dagli aiuti pubblici federali alla ricerca; tale vantaggio sarebbe stato replicabile per Airbus solo a livello nazionale, mancando una politica della ricerca europea. Altre considerazioni dovrebbero essere sviluppate, per completare e approfondire la descrizione degli aspetti di maggior rilievo. In questa sede può essere utile concludere il caso utilizzando una espressione evocativa: come gli scienziati a lungo non sono riusciti a dimostrare come il calabrone possa volare, eppur vola; così gli economisti potevano prevedere con certezza che Airbus non avrebbe potuto aver successo, eppur ha nel 2004 conquistato la leadership del mercato mondiale superando Boeing. Airbus è un calabrone che è riuscito a volare, smentendo tutti i calcoli scientifici. Il paradosso fa immediatamente cogliere le ragioni per cui è stata data scarsa attenzione al problema del controllo di questa forma innovativa di cooperazione industriale intra-comunitaria; una forma di cooperazione strutturata utilizzando la terminologia che molti anni dopo sarebbe stata messa a punto nel progetto di Costituzione elaborato sotto la guida di Giscard d'Estaing 17 È intempestivo predisporre controlli su una realtà che prima deve consolidarsi. .

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Queste conclusioni, in forma evoc; ativa, desiderano riportare al punto da cui è iniziata l'analisi qui presentata: la priorità del riferimento all'impresa per comprendere le forme di contrc dio su di essa. "Ld suivra": i controlli sono importantissimi, strategici, ma possono venire dopo, una volta ben comprese le necessità 18 .

Relazione al Convegno Le società di proprietà il P. SARACENO, Iniziativa privata e azione pubblica - Controlli e responsabilità, Università pubblica: un piano di sviluppo economico, Giufdi Roma Tre, 3.3.2006. frè, Milano 1959. I Si veda G. Rossi, Gli enti pubblici, il Muli12 A. SEN, Etica ed economia, ed. it. Laterza, no, Bologna 1991. Dello stesso autore si veda Bari 1998; A. ETZIONI, The Moral Dimension, inoltre il saggio G. Rossi, Problemi evoluti vi delle New York 1988. istituzioni nelle società omogenee. Il sistema italia13 P. MAILLET, L'Europe comme réponse aux déno fra patologia e prototipo, in AA.Vv., Studi in fis du XX! siècle, in «The European Union Reonore diMS. Giannini, Giuffrè, Milano 1988. view», 1/02; G. Rossi, Riflessioni sulle finzioni 2 M. WEBER, Il lavoro intellettuale come profesdello Stato nell'economia e nella redistribuzione sione, ed. it. Einaudi, Torino 1966. della ricchezza, in «Diritto Pubblico», 1997. S. TAGLIAGAMBE, G. UsAi, L'impresa tra ipote14 A. QUADRIO Cuizio (a cura di), Profili della si, miti e realtà, I5ED1, Torino 1984. costituzione economica europea, il Mulino, Bolo45• SCIARELLI, Economia e gestione dell'impresa, gna 2001; S. ZAMAGNI (a cura di), Economia, deCEDAM, Padova 1997. mocrazia, istituzioni: in una società in trasforma5 R. MARR1S, La teoria economica del capitalizione, il Mulino, Bologna 1997; U. DE SIERVO smo manageriale, ed. it. Einaudi, Torino 1972. (a cura di), Costituzionalizzare l'Europa ieri e og6 C. CATTANEO (a cura di), Il bilancio sociale gi, il Mulino, Bologna 2001. nell'evoluzione dei rapporti tra economia e società, IS P. DRUCKER, Economia, politica e manageGiuffrè, Milano 2003. ment: nuove tendenze nello sviluppo economico, G. MANZONE, La responsabilità dell'impresa, imprenditoriale e sociale, ed. it. ETAS, Milano Queriniana, Brescia 2002; C. CATTANEO, Terzo 1989; R. KOSELLECK, Futuro passato: per una sesettore, nuova statualità e solidarietà sociale, Giuf- mantica dei tempi storici, Marietti, Genova frè, Milano 2001. 1986. 8 D. VELO, La grande imp resa federale europea. 16 F. MOSCONI, La politica industriale europea e Per una teoria cosmopolitica dell'impresa, Giuffrè, la competitività italiana nei settori high-tech, in Milano 2004; U. BECK, La società cosmopolitica, AA.Vv., Tornare a crescere, Roma 2005. 7 Si veda l'analisi anticipatrice di ed. it. Il Mulino, Bologna 2003. P. MA1LLET, 9 W. HUTTON, Europa Vs. USA, ed. it. Fazi, D. VELO (a cura di), L'Europe à géometrie variaRoma 2003. ble, transition vers l'integration, Paris 1994. IO J ROSENAU, E. CZEMPIEL 18 L'intendance suivra: il dizionario Larousse (a cura di), Governance without Government: Order and Change in offre la seguente traduzione "le questioni econoWorld Politics, Cambridge 1992. miche seguiranno quelle politiche". 147



queste istituzioni n. 1361137 inverno-primavera 2005

dossiér

Europa e parlamenti

Dei malesseri dell'Unione europea se ne parla, indubbiamente, più chè degli aspetti positivi ma, come giustamente sostiene lAutrice del nostro saggio, la storia dell'integrazione fra gli Stati europei ha conosciuto momenti diversi, di slancio e di stallo, e nulla fa ritenere impossibile che anche gli attuali problemi vengano presto superati. Fra questi ha un posto di rilievo il cosiddetto deficit democratico: le istituzioni europee appaiono scarsamente rappresentative della volontà politica dei cittadini europei. Questione che potrebbe risolversi riconoscendo al parlamento europeo prerogative simili a quelle dei parlamenti nazionali o, comunque, coinvolgendo sempre più quest'ultimi nel sistema europeo. Maria Romana Allegri rzpercorre il periodo storico che nel corso di un decennio, da Maastricht a Nizza, ha portato ad un sempre maggiore coinvolgimento dei parlamenti nazionali nel sistema istituzionale dell'Unione europea. Il Consiglio Europeo riunito a Laeken aveva approvato una Dichiarazione sull'avvenire dell'Europa (15 dicembre 2001) che attribuiva ad una apposita Convenzione il compito di esaminare le questioni essenziali. L4utrice analizza, in particolare, il lavoro di due Gruppi di lavoro interni alla Convenzione che hanno lavorato congiuntamente: il Gruppo I sulla sussidiarietà e il Gruppo IV sul ruolo dei parlamenti nazionali. Il 149


Gruppo I nella relazione finale ha ritenuto, particolare innovativo, che "al controllo ex ante sull'applicazione dei due principi dovessero essere associati i Parlamenti nazionali": Naturalmente, non tutte le proposte formulate dai Gruppi di lavoro della Convenzione sono state recepite dalla nuova Costituzione firmata a Roma il 29 ottobre 2003. In particolare, il Trattato-Costituzione, non contiene una formula che riconosca il coinvolgimento attivo dei Parlamentari nazionali nelle attivitĂ dell'Unione nĂŠ norme che sottolineino la necessitĂ che i Parlamenti supervisionino l'azione dei Governi nell'ambito del Consiglio dei Ministri. Nel Protocollo allegato che riguarda il controllo sull'applicazione del principio di sussidiarietĂ , invece, viene precisato che la Commissione deve trasmettere ai Parlamenti nazionali i progetti di atti legislativi europei e i progetti modificati (ed anche altre proposte legislative di organi diversi quali un gruppo di Stati membri o la Corte di Giustizia) "nello stesso momento in cui li trasmette al legislatore dell'Unione": Una procedura che eliminerebbe completamente la funzione dei Governi nazionali come tramite fra le istituzioni europee e i rispettivi parlamenti. Anche il Protocollo sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell'Unione europea rzproduce, fondamentalmente, quanto affermato nel Protocollo precedente L2lutrice, in sostanza, analizza la complessa "opera di ingegneria istituzionale" realizzata con il Trattato-Costituzione nel tentativo di dare un ruolo rilevante anche ai Parlamenti nazionali e conclude riconoscendone la sostanziale "debolezza strutturale" ma apprezz.andone lo sforzo nel cercare di equilibrare le diverse esigenze.

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queste istituzioni n. 136/137 inverno-primavera 2005

Parlamenti nazionali e Unione europea. Quale coinvolgimento? di Maria Romana Allegri

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a situazione dell'Unione europea, in questo momento storico, è quella che è. Gli Stati membri stentano a mantenersi in linea con i criteri di convergenza richiesti dal Patto di stabilità e di crescita, mentre l'economia ristagna, nonostante i tentativi di rilancio della strategia di Lisbona; l'allargamento ai nuovi dieci membri non sembra aver apportato nuova linfa vitale ma, anzi, ha reso ancora più difficile la ricerca del consenso e ancora più fragile la struttura istituzionale; la difficile situazione internazionale, l'incombente minaccia terroristica e la pressione crescente dell'immigrazione aprono divisioni sempre più ampie nell'atteggiamento dei diversi Stati membri in relazione alla politica estera e al controllo delle frontiere. In questa situazione, l'approvazione della nuova Costituzione ha avuto una genesi assai difficile e tutto lascia pensare ad un esito per niente scontato, considerando l'atteggiamento negativo di alcuni Stati - soprattutto la Francia - in sede di ratifica. Senza voler ricadere in uno scontato pessimismo, non si può fare a meno di riconoscere la realtà oggettiva del malessere che affligge oggi l'Europa. Malessere che, visto in un'ottica positiva, potrà auspicabilmente costituire Io stimolo per un impegno più intenso verso una sempre maggiore integrazione fra gli Stati europei, come già accaduto in passato. La storia dell'Unione europea è stata sempre caratterizzata da una alternanza fra momenti di slancio e momenti di stallo e la precedente esperienza lascia presumere che, anche nel caso attuale, gli ostacoli potranno essere superati.

L'Autrice è Docente di Istituzioni di Diritto pubblico presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università degli Studi di Roma, La Sapienza. 151


DIAGNosI DI UNA PATOLOGIA ISTITUZIONALE: IL DEFICIT DEMOCRATICO

Fra i mali da cui l'Unione europea appare affetta, è da molti diagnosticato quello del cosiddetto "deficit democratico"l. Espressione, questa, che comprende vari aspetti, tutti riconducibili ad una generale inadeguatezza delle procedure attraverso cui il demos europeo dovrebbe, attraverso l'istituto della rappresentanza parlamentare, determinare e condizionare l'attività decisionale delle istituzioni. Ci si riferisce, naturalmente, al fatto che le istituzioni europee appaiono scarsamente rappresentative della volontà politica dei cittadini europei e non certo ad una presunta insufficienza del tasso complessivo di democrazia in Europa, considerando che gli Stati nazionali di cui l'Europa è composta assicurano, comunque, ai propri cittadini il godimento dei diritti di partecipazione democratica. La patologia presenta numerosi sintomi, alcuni dei quali ricorrono spesso negli scritti di molti autorevoli commentatori. Ripercorriamone, in sintesi, i più evidenti. Tanto per cominciare, è ben noto come la procedura detta "di codecisione" - quella che pone il Parlamento europeo in una posizione paritaria rispetto al Consiglio dei Ministri nella fase di approvazione degli atti normativi - per quanto estesa a sempre nuove materie con i Trattati di Amsterdam e di Nizza, riguardi per ora circa l'80% dei settori decisionali; residuano, infatti, importanti aree di intervento - si pensi alla moneta unica o alla politica estera e di sicurezza comune - in cui il Parlamento europeo continua ad essere relegato ad un ruolo di semplice consultazione. Si può proseguire nella diagnosi ribadendo come la mancanza di veri e propri partiti politici europei che prescindano dalla dimensione nazionale e la mancata attuazione di una procedura elettorale uniforme per i membri del Parlamento europeo contribuiscano a rendere ancora più labile la rappresentatività politica dell'organo. Il Parlamento europeo, infine, ha ottenuto la facoltà, al pari delle altre istituzioni, di adire la Corte di Giustizia, con l'importante limite, però, della necessità di ancorare il ricorso alla salvaguardia delle proprie prerogative. Un organo siffatto non appare pienamente in grado di tutelare gli interessi e veicolare la volontà dei cittadini europei, senza considerare che i sondaggi mettono in luce una diffusa disinformazione fra i cittadini stessi sul ruolo e sulle funzioni dell'istituzione che più delle altre è chiamata a rappresentarli. È stato messo acutamente in luce che "il modello parlamentare si insinua nel discorso europeo per il tramite dell'ancoraggio della storia dell'integrazione comunitaria alle tradizioni costituzionali comuni" 2 , anche se "si deve 152


notare come le tradizioni costituzionali comuni sull'organizzazione pubblica abbiano influenzato l'evoluzione comunitaria in misura assai inferiore rispetto ad altri settori" 3 . Se, infatti, le tradizioni costituzionali degli Stati membri impongono l'idea per cui "parlamentarizzazione" diventa sinonimo di "democratizzazione", a paragone con gli omologhi nazionali il Parlamento europeo continua ad essere incomparabilmente più debole 4. Prerogative simili a quelle dei Parlamenti nazionali potrebbero essere riconosciute al Parlamento europeo probabilmente soltanto trasformando l'Unione in un sistema federale 5 D'altra parte, "la principale ragione alla quale si attribuisce il deficit democratico risiede nel fatto che gli Stati nazionali hanno trasferito alla Comunità europea competenze o esercizio di competenze che spettavano al Parlamento e che, una volta trasferite, non sono più riservate, in ambito europeo, all'organo di rappresentanza popolare, ma diventano mero appannaggio dei Governi nazionali in seno al Consiglio dell'Unione" 6. Sul Consiglio dei Ministri il Parlamento europeo, come è noto, non esercita alcun controllo politico, a differenza di quanto accade nei riguardi della Commissione europea. Tuttavia, i componenti del Consiglio sono membri degli esecutivi nazionali e, di conseguenza, politicamente responsabili dinanzi ai rispettivi Parlamenti. Occorre, comunque, prendere atto del fatto che le moderne democrazie tendono inevitabilmente a sminuire il ruolo dell'organo legislativo rispetto a quello svolto dagli esecutivi, più capaci di far fronte con tempestività e competenza alle sempre più complesse questioni poste al legislatore; ciò è ancora più evidente negli Stati federali, in cui le seconde Camere, essendo rappresentative degli esecutivi degli Stati membri, introducono nei sistemi .istituzionali della federazione alcuni correttivi a tutto vantaggio dei Governi. Questo generale processo di deparlamentarizzazione delle istituzioni democratiche non può che preoccupare, nell'ottica di una adeguata ripartizione dei poteri e del bilanciamento degli stessi7 .

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TERAPIE, CONTROINDICAZIONI ED EFFETTI COLLATERALI

La terapia suggerita per curare l'insufficiente legittimazione democratica del potere comunitario è comunemente• indicata nella parlamentarizzazione del sistema, poiché in Europa il termine "democrazia" è stato per secoli associato strettamente ad un regime politico parlamentare 8 . Tuttavia, va considerato che "il peso del principio parlamentare nelle diverse forme di 153


Governo negli Stati membri non è lo stesso: ancora oggi nell'ambito dell'Unione la tradizione parlamentare è molto forte, ma, per esempio, con l'allargamento ad est vi sarebbero Paesi che si sono dati prevalentemente una forma di Governo semipresidenziale. Ciò porrebbe seri problemi di raccordo fra la forma di Governo comunitaria e quelle degli Stati membri, proprio per quanto riguarda il tema del peso dei Parlamenti nazionali" 9 Abbiamo, quindi, individuato il vero punto dolente. La difficoltà consiste, infatti, nell'assicurare il rispetto del principio democratico in ambito comunitario garantendo, nel contempo, i principi basati sulla leale cooperazione fra Stati sovrani da cui l'Unione europea, al pari di altre organizzazioni internazionali, non può prescindere. Fra le possibili soluzioni al problema, quella più largamente condivisa nel dibattito dottrinale auspica un rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo attraverso, ad esempio, l'estensione a tutti i settori della procedura di codecisione, la riforma dell'attuale sistema di elezione e l'istituzione di veri e propri partiti politici europei. Eppure, "gli argomenti a favore dell'esclusivo incremento degli strumenti democratici all'interno dell'organizzazione istituzionale comunitaria non sembrano convincenti per numerose ragioni tra le quali, in primo luogo, quella secondo cui il Parlamento europeo appare tuttora lontano, dal punto di vista rappresentativo, dal poter essere considerato un organo alla pari dei suoi omonimi nazionali e, in secondo luogo, quella per cui nessun Parlamento può operare adeguatamente come perno del sistema democratico di un ordinamento qualora isolato dal contesto politico e sociale che a tale ordinamento serve da substrato"lO. Un ,ultenore profilo problematico "deriva dall'ambigua posizione rappresentativa del Parlamento europeo che, secondo l'articolo 190 del Trattato, non è organo di rappresentanza dei cittadini dell'Unione, bensì dei popoli degli Stati. Si tratta di una formula che dà veste ad una ambiguità di fondo della funzione rappresentativa del Parlamento europeo, posta sul crinale tra generalità-universalità della rappresentanza e statal_territorialità"ll. L'altra soluzione "terapeutica" è quella prospettata dalla Corte Costituzionale tedesca - a ribadire l'affermazione per cui la vita istituzionale dell'Unione appare influenzata dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri - nella sentenza del 12 ottobre 1993, secondo cui l'esercizio dei poteri sovrani da parte dell'Unione deve "trovare legittimazione democratica innanzitutto nella volontà dei popoli degli Stati membri per il tramite dei Parlamenti nazionali. Tuttavia, con l'ampliamento dei compiti e delle funzioni della Comunità sorge la necessità di aggiungere alla legittimazione .

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e all'influenza trasmessa dai Parlamenti nazionali una rappresentanza dei popoli organizzata in un Parlamento europeo, capace di fornire all'Unione europea un ulteriore sostegno democratico" 12 È evidente come la prospettiva del Bundesverfassungsgericht sia stata quella di salvaguardare le prerogative del livello nazionale rispetto al livello comunitario, sulla base di una interpretazione del principio di sussidiarietà. In ogni caso, essa ha dato l'avvio alla delineazione di un peculiare modello di parlamentarismo a due livelli che dovrebbe caratterizzare l'architettura istituzionale dell'Unione; infatti, "se all'evoluzione della costruzione comunitaria deve corrispondere un rimodellamento della sua struttura democratica, una futura democratizzazione sovranazionale non potrà però avvenire a spese del livello parlamentare nazionale" 13 . E pur vero che l'applicazione di tale sistema parlamentare "multilivello" 14 rischia di aggravare ulteriormente procedure decisionali già complesse, senza contare che gli interessi dei due livelli di assemblee parlamentari non sono necessariamente coincidenti; tuttavia, la connotazione del peculiare approccio europeo all'integrazione in senso federale non può che comportare l'emergere di una nuova forma di Governo che si avvicina a quella parlamentare, non recependone però integralmente i caratteri 15 Questo orientamento è stato formalmente recepito per la prima volta nella Dichiarazione n. 13 allegata al Trattato di Maastricht. Da allora in poi esso è stato costantemente sviluppato e ampliato fino a raggiungere una compiuta ed articolata formulazione - attraverso varie tappe costituite dai Trattati di Amsterdam e di Nizza, dalla Dichiarazione di Laeken e dai lavori della Convenzione europea - nel Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa. Questo percorso storico ha portato alla definizione di un peculiare ed importante ruolo dei Parlamenti nazionali nel processo decisionale comunitario attribuendo ad essi una duplice funzione: da una parte, la possibilità di intervenire nella fase di formazione degli atti normativi comunitari (la cosiddetta "fase ascendente"); dall'altra, la facoltà di esercitare il controllo sulla corretta applicazione del principio di sussidiarietà, sia pure indirettamente (cioè per il tramite dei Governi nazionali). Effettivamente, considerando che nel Parlamento europeo non sono presenti partiti politici europei, ma soltanto delegazioni dei partiti nazionali, che i Parlamenti nazionali godono di un livello di vitalità e di sostegno popolare ben maggiore a paragone con le istituzioni europee e che l'affluenza alle urne per le elezioni politiche è significativamente più alta a livello nazionale che europeo, sorge spontaneo pensare di poter affidare agli organi .

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assembleari nazionali la funzione di rappresentare, anche all'interno del sistema istituzionale comunitario, la volontà dei cittadini europei, per lo meno fino a quando il Parlamento europeo non avrà raggiunto un livello di legittimazione politica comparabile al 1 0r0 16. La partecipazione dei Parlamenti nazionali negli affari europei nelle forme che ci apprestiamo a descrivere nella loro evoluzione storica e nella loro definizione attuale è considerata da alcuni auspicabile o addirittura necessaria, purché ovviamente non si traduca in un appesantimento dei già complessi procedimenti comunitari di decisione e di esecuzione 17. Infatti, per alcuni sarebbe un grave errore "ritenere che il Parlamento europeo sia il solo depositano della rappresentanza dei cittadini dell'Unione europea e ricavarne la conseguenza che rafforzando i poteri del Parlamento europeo si risolvono tutti i problemi: così non è"18. Addirittura, si pensa che "l'esperienza ha dimostrato, specie nel nostro Paese, che quanto pii è attiva la presenza del Parlamento nazionale nella fase ascendente tanto meno difficoltà si riscontrano nella fase discendente. In particolare, l'attiva collaborazione tra Governo e Parlamento nazionale nella fase di attuazione del diritto comunitario consente di rappresentare in sede europea progetti che corrispondono anche alle esigenze nazionali, di guisa che si realizzano vantaggi pure nella fase discendente" 19 . Per non parlare del fatto che una autorevole corrente di pensiero ritiene che ai Parlamenti nazionali debba essere riconosciuto un co-potere costituente, cioè quello di elaborare e sottoscrivere i Trattati europei, cosa che è finora monopolio dei Governi20 . Per concludere, va rilevato anche che i Parlamenti nazionali potrebbero ristabilire il circuito democratico soprattutto in quelle aree tematiche da cui il Parlamento europeo è sostanzialmente escluso, fra cui la politica estera e di sicurezza comune21 e la politica monetaria 22 . Tuttavia, l'attuazione del modello prospettato non è esente da rischi; primo fra tutti, quello di un rallentamento delle procedure decisionali - e di conseguenza, dell'integrazione europea - dovuto al controllo congiunto di istituzioni europee e nazionali sull'attuazione del principio di sussidiarietà23 . Occorre, infatti, evitare il rischio di "aggrovigliare" ulteriormente il labirinto procedurale, trovando "un equilibrio fra le due grandi opzioni che stanno dietro l'uso degli strumenti procedurali: il procedimento come fattore di riduzione della complessità oppure come strumento di ampliamento delle passività legate alle esigenze di contraddittorio e di partecipazione"24 . Inoltre, se è vero che i singoli Parlamenti sono in grado, in forma più o meno marcata, di influire sull'attività del Consiglio dei Ministri 156


dell'Unione europea, è anche vero che "l'azione di ciascun Parlamento rimarrebbe però assai parziale e condizionata da un'ottica necessariamente nazionale - non andando così ad intaccare la sostanza del deficit rappresentativo presente nell'Unione europea - se non si raccordasse con quella degli altri Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo" 25 . Sorgono, quindi, nuove esigenze di coordinamento fra le diverse Assemblee che richiedono la creazione di istituti appositi o l'implementazione di quelli esistenti (ad esempio, la COSAC). Ancora, occorre evitare che la posizione del Parlamento europeo risulti indebolita • da una presenza eccessivamente ingombrante dei Parlamenti nazionali non bilanciata da un rafforzamento delle prerogative dell'organo rappresentativo europeo 26 . Infine, bisogna fare in modo che il coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nella procedura decisionale comunitaria non costituisca un veicolo per la rivitalizzazione dei particolarismi nazionali: un rischio che oggi, dopo l'allargamento dell'Unione e considerando l'atteggiamento di alcuni Paesi nei confronti della nuova Costituzione europea, appare più che mai concreto. Eventuali contrasti fra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo circa la legittimità della rispettiva rappresentanza e delle rispettive competenze sulle diverse aree potrebbero essere comunque evitati attraverso l'applicazione, anche in questo settore, del principio di sussidiarietà 27 . A livello nazionale, la valorizzazione del ruolo dei Parlamenti nazionali nell ordinamento dell Unione europea provoca alcuni indesiderabili effetti collaterali". In primo luogo, il lavoro degli organismi interni a ciascun Parlamento che si occupano degli affari comunitari risulta enormemente accresciuto, determinando dispendio di tempo e costi aggiuntivi. In secondo luogo, va detto che - come vedremo - la normativa dell'Unione in relazione.alle procedure di informazione a beneficio dei Parlamenti nazionali definisce unicamente uno standard, affidando l'attuazione concreta delle procedure alla normativa nazionale. Di conseguenza, il coinvolgimento dei singoli Parlamenti nazionali risulta in buona parte filtrato attraverso i rispettivi Governi e, comunque, non può essere assicurato in modo uniforme. Ciò determina significativi squilibri, tanto più se si considera la tendenza in atto in tutti i Paesi europei - Italia compresa - al rafforzamento delle funzioni di Governo centrali e locali e al parallelo indebolimento di quelle parlamentari 28 , rispetto alla quale "la parlamentarizzazione necessita ta in funzione della legittimazione dell'ordine giuridico(-politico) europeo appare come un movimento in controtendenza storica, ma di essa non si può fare a meno" 29 . 157


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L'Avvio DELLA COOPERAZIONE INTERPARLAMENTARE: DA MAASTRICHT A NIZZA

Ai fini di una migliore comprensione delle precedenti alTermazioni, è opportuno ripercorrere brevemente il percorso storico che, prendendo le mosse dalla Dichiarazione n. 13 allegata al Trattato di Maastricht, si è svolto nel corso di un decennio determinando un sempre maggiore coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nel sistema istituzionale dell'Unione europea. La Dichiarazione n. 13 esprimeva la necessità di incoraggiare una maggiore partecipazione dei Parlamenti nazionali alle attività dell'Unione europea30 . Ciò doveva avvenire, da un lato, attraverso scambi di informazioni e contatti regolari tra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo e, dall'altro, attraverso la trasmissione ai Parlamenti nazionali delle proposte legislative della Commissione attraverso i rispettivi Governi, in modo che essi avrebbero potuto disporre del tempo necessario per un loro esame. La successiva Dichiarazione n. 14 avanzava la proposta - poi rimasta inattuata della istituzione di una Conferenza o Assise parlamentare, che avrebbe dovuto essere consultata sui grandi orientamenti dell'Unione, fatte salve le competenze dei Parlamenti nazionali, e alla quale il Presidente del Consiglio europeo e il Presidente della Commissione avrebbero riferito periodicamente sullo stato dell'Unione. Non risultava chiaro se la ventilata Assise parlamentare avrebbe dovuto sostituirsi oppure affiancarsi ai due organismi di cooperazione interparlamentare già esistenti, se pure con limitatissima influenza: la Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell'Unione europea che si riuniva occasionalmente dal 1963, e la COSAC (Conferenza degli organismi specializzati negli affari comunitari dei Parlamenti nazionali), istituita a Parigi nel novembre 1989. Nella seconda ipotesi, la ripartizione delle competenze fra i diversi organi non era comunque precisata. Una vera svolta è avvenuta con il Trattato di Amsterdam, attraverso il Protocollo sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell'Unione europea 31 , allegato al Trattato Ue modificato. Attraverso tale atto, viene incoraggiata 32 una maggiore partecipazione dei Parlamenti nazionali alle attività dell'Unione europea, pur "ricordando che il controllo dei singoli Parlamenti nazionali sui rispettivi Governi relativamente alle attività dell'Unione è una questione disciplinata dall'ordinamento costituzionale e dalla prassi costituzionale propri di ciascuno Stato membro". Nella prima parte del Protocollo, si delinea la procedura di comunicazio158


ne di informazioni ai Parlamenti nazionali. In particolare, tutti i documenti di consultazione della Commissione - cioè Libri verdi, Libri bianchi e Comunicazioni - sono trasmessi «tempestivamenté ai Parlamenti nazionali. Il riferimento alla tempestività dell'informazione non stabilisce, comunque, scadenze precise, né è indicato l'organo responsabile della trasmissione della documentazione ai Parlamenti nazionali, mancando ogni riferimento esplicito ad un eventuale obbligo in tal senso incombente direttamente sulla Commissione europea. Per quanto riguarda, invece le proposte legislative della Commissione che dovranno essere discusse e approvate dal Consiglio e dal Parlamento secondo la procedura di codecisione, esse sono messe a disposizione dei Governi degli Stati membri "in tempo utile per permettere loro di accertarsi che i Parlamenti nazionali possano debitamente riceverle". In questo caso, la responsabilità di provvedere ad informare debitamente i Parlamenti nazionali è esplicitamente attribuita agli organi esecutivi, i quali però restano liberi di definire modalità e tempistiche. Il terzo paragrafo della prima parte del Protocollo delinea una particolare procedura da applicare nel caso in cui la proposta della Commissione riguardi una misura da adottare a norma del Titolo 'VT del Trattato Ue. In questo caso, fatte salve le eccezioni dettate da motivi di urgenza, debitamente motivate, deve necessariamente intercorrere un periodo di sei settimane tra la data in cui la proposta della Commissione è trasmessa al Parlamento e al Consiglio e la data in cui questa è iscritta all'ordine del giorno del Consiglio ai fini di una decisione. Il Protocollo non precisa che cosa debba accadere in queste sei settimane; in ogni caso, la ratio sottintesa alla disposizione è quella di permettere sia al Parlamento europeo sia ai Parlamenti nazionali, debitamente informati dai rispettivi Governi, di riflettere più accuratamente sulla proposta. Infatti, il Parlamento europeo potrà poi proporre emendamenti, mentre i Parlamenti nazionali potranno adottare atti di indirizzo che vincoleranno la posizione che il membro dell'esecutivo nazionale assumerà in seno al Consiglio dei Ministri. Non sfugge come le disposizioni fin qui esaminate rechino un limite implicito, oltremodo significativo, nel fatto che non siano menzionate le proposte di atti da adottare ai sensi del secondo pilastro del Trattato (politica estera, sicurezza e difesa) fra quelle da trasmettere ai Parlamenti nazionali per opportuna informazione. Nella seconda parte del Protocollo su1 ruolo dei Parlamenti nazionali nell'Unione europea, caduto ogni riferimento all'Assise parlamentare prospettata a Maastricht si indica la COSAC - cioè la Conferenza che riunisce i rappresentanti degli organismi parlamentari che si occupano di affari co159


munitari, istituita nel 1989 - quale organo abilitato a sottoporre all'attenzione delle istituzioni dell'Unione europea i contributi che ritiene utili, ad esaminare qualsiasi proposta od iniziativa legislativa concernente lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, che potrebbe incidere direttamente sui diritti e sulle libertà dei singoli, infine a trasmettere al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione qualsiasi contributo essa ritenga utile relativamente all'attività legislativa dell'Unione, con particolare riferimento ad alcuni settori quali l'applicazione del principio di sussidiarietà, lo spazio di libertà sicurezza e giustizia, i diritti fondamentali. A ben guardare, tuttavia, la COSAC33 non pare essere in grado di veicolare efficacemente la posizione dei Parlamenti nazionali in ordine all'ordinamento giuridico dell'Unione. In primo luogo, è lo stesso Protocollo appena esaminato che, al punto 7, precisa che "i contributi della COSAC non vincolano in alcun modo i Parlamenti nazionali e non pregiudicano la loro posizione". D'altra parte, i parlamentari membri della COSAC non hanno alcun obbligo di difendere la posizione dell'Assemblea di origine e ciò, in ultima analisi, potrebbe portare addirittura ad un indebolimento dell'influenza dei Parlamenti nazionali a livello comunitario anziché ad un rafforzamento. Inoltre, la funzione essenziale della COSAC consiste nel fatto che un numero ridotto di parlamentari nazionali ricevono una diretta informazione dalle istituzioni comunitarie e mettono a confronto i propri punti di vista due volte l'anno, per un giorno e mezzo: quindi, pur non volendo sottovalutare tale meccanismo di cooperazione, esso deve considerarsi un mezzo limitato, parziale ed incompleto di partecipazione dei Parlamenti nazionali nel circuito decisionale comunitario. Va anche detto che il sistema di partecipazione alla COSAC prevede un massimo di sei membri per ciascuna Assemblea nazionale e, nel caso dei Parlamenti bicamerali, di tre membri per ciascuna : ciò rende impossibile rappresentare tutti i Gruppi politici presenti nei Parlamenti nazionali; senza contare che, data tale forma di partecipazione, le Assemblee unili risultano sovrarappresentate rispetto a quelle bicamerali, e che manca ogni corrispondenza con i modelli di bicameralismo disuguale. I partecipanti alla COSAC sono componenti degli organismi parlamentari specializzati negli affari comunitari ed europei: si tratta di organismi che, nei diversi Paesi, presentano caratteristiche, compiti ed attribuzioni estremamente variegati e non riconducibili ad un modello comune 34 . Infine, va ribadito che ogni delegazione nazionale dispone di due voti: di conseguenza, i singoli parlamentari non hanno libertà di esprimere, attraverso il voto, la propria opinione. 160


Dinanzi a tali debolezze, ben poco ha potuto fare la riforma del regolamento interno della COSAC avvenuta nel corso della XXIX COSAC di Atene del maggio 2003 5 , sostituendo il precedente regolamento risalente alla riunione di Helsinki dell'ottobre 1999. Le riforme sono consistite, essenzialmente, in alcuni adeguamenti istituzionali (creazione di un Segretariato permanente e di una Troika presidenziale composta dalla presidenza precedente, da quella in carica e da quella successiva del Parlamento europeo) e nella previsione della possibilità di adottare decisioni a maggioranza di dei voti espressi, che devono costituire almeno la metà di tutti i voti, nel caso in cui il consensus, sempre auspicabile, non possa essere raggiunto. Interessante è, comunque, il contributo offerto dalla XXVIII COSAC riunita a Copenaghen nel gennaio 2002 in ordine alla fissazione di standardminimi indicativi per i rapporti fra Governi e Parlamenti nazionali nell'attuazione del Protocollo di Amsterdam 36 . Si tratta di un codice di condotta che, pur non avendo natura vincolante e non pretendendo, quindi, di influenzare una materia considerata esclusiva del diritto costituzionale interno, dovrebbe servire ad orientare il rapporto Parlamento-Governo in modo che il Parlamento: riceva dal Governo informazioni relative all'attività dell'Unione europea in tempi realmente molto brevi e in forma chiara ed esauriente; possa realmente utilizzare le informazioni ricevute per esercitare la propria influenza sulla politica europea e, infine, abbia la reale possibilità di verificare le decisioni dell'esecutivo nazionale all'interno del sistema comunitario. Ancora più limitato rispetto alla CosAc appare il ruolo della Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell'Unione europea, che si è svolta per la prima volta nel 1963 e che ha assunto una cadenza biennale dal 1988 ed annuale dal 1999: una sede di scambio di opinioni, informazioni ed esperienze nonché di promozione di studi e azioni comuni tra Presidenti su temi attinenti al ruolo dei Parlamenti e all'organizzazione delle funzioni parlamentari, anche in relazione alle forme e agli strumenti della cooperazione interparlamentare. Va detto, comunque, che la COSAC è stata istituita nel 1989 proprio per decisione della Conferenza dei Presidenti riunita in quell'anno a Madrid. Il banco di prova per il più intenso ruolo dei Parlamenti nazionali nel processo decisionale a livello europeo è stato costituito dalla Convenzione presieduta da Roman Herzog istituita al Consiglio europeo di Tampere del 1999, con il compito di redigere la Carta dei diritti fondamentali dell'U161


nione europea: la composizione della Convenzione, infatti, prevedeva quindici esponenti dei Governi nazionali, un membro della Commissione europea, sedici rappresentanti del Parlamento europeo ed, infine, trenta membri dei Parlamenti nazionali designati da ciascuna Assemblea. Tutto ciò per garantire una maggior trasparenza nei lavori della Convenzione ed un coinvolgimento più attivo dei cittadini europei attraverso il lavoro svolto dai loro rappresentanti parlamentari. D'altro canto, nel Preambolo della Carta vi è un esplicito riferimento al "rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell'identità nazionale degli Stati membri e dell'ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale Lo schema procedurale definito ad Amsterdam è ancora oggi in vigore. Il Trattato di Nizza, infatti, non vi ha apportato modifiche. In ogni caso, la Dichiarazione n. 23 sul futuro dell'Europa, allegata al Trattato, contiene un esplicito breve riferimento alla necessità di proseguire il cammino dell'integrazione europea, in vista dell'allargamento, prendendo in considerazione fra i vari temi prioritari anche quello del "ruolo dei Parlamenti nazionali nell'architettura europea". Tale esigenza è tanto più avvertita - come si evince dalla Dichiarazione stessa - quanto più si avverte la necessità di garantire la legittimità democratica e la trasparenza nelle attività delle istituzioni europee, nell'ottica di un sempre maggiore avvicinamento dell'Unione ai cittadini. Il punto relativo al ruolo dei Parlamenti nazionali era uno dei più "insidiosi" del mandato di Nizza, considerando il rischio che il coinvolgimento di questi ultimi nei meccanismi comunitari potesse tradursi in un indebolimento del Parlamento europeo. La stessa idea, proposta dal Presidente Giscard all'inizio dei lavori della Convenzione, di formare un Congresso dei Parlamenti nazionali ed europeo (Congresso dei popoli) 37 , fortunatamente non accolta dalla Convenzione, comportava un rischio per l'autonomia dell'Assemblea europea 38 .

IL FUTURO DELIi'EUROPA: LE PROPOSTE DELLA CONVENZIONE EUROPEA SUL RUOLO DEI PARLAMENTI NAZIONALI

Il Consiglio europeo riunito a Laeken ha approvato, il 15 dicembre 2001, una Dichiarazione sull'avvenire dell'Europa. Il documento attribuisce ad una apposita Convenzione il compito di esaminare le questioni essenziali che il futuro sviluppo dell'Unione comporta e di ricercare le diverse soluzioni possibili. Convenzione che - ricordiamolo - riproducendo il 162


modello della precedente Convenzione istituita a Tampere, era costituita da trenta rappresentanti dei Parlamenti nazionali (due per Stato membro) e da ventisei rappresentanti dei Parlamenti dei Paesi candidati all'adesione, oltre ovviamente a membri del Parlamento europeo, della Commissione e dei Governi nazionali. Fra i temi fondamentali, la Dichiarazione prende in considerazione anche quello del ruolo dei Parlamenti nazionali, nell'ottica di accrescere la legittimità democratica e la trasparenza delle attuali istituzioni, ponendosi alcuni interrogativi: i Parlamenti nazionali devono essere rappresentati in una nuova istituzione a fianco del Consiglio e del Parlamento europeo? Devono svolgere un ruolo nei settori di intervento europei per i quali il Parlamento europeo non è competente? Devono concentrarsi sulla ripartizione delle competenze fra Unione e Stati membri, ad esempio mediante una verifica preliminare del principio di sussidiarietà? A tali interrogativi hanno cercato di risponderè due Gruppi di lavoro interni alla Convenzione, che hanno lavorato in parte congiuntamente: il Gruppo I sulla sussidiarietà, presieduto da Josè Mendez de Vigo, e il Gruppo IV sul ruolo dei Parlamenti nazionali, presieduto da Gisela Stuart. Il Gruppo di lavoro sulla sussidiarietà, nella relazione finale presentata il 23 settembre 2002, ha espresso la necessità di implementare il Protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità allegato al Trattato di Amsterdam, attualmente in vigore, che al momento non prevede alcun ruolo per i Parlamenti nazionali. In particolare, il Gruppo ha ritenuto, in modo assolutamente innovativo, che al controllo ex ante sull'applicazione dei due princzpi dovessero essere associati i Parlamenti nazionali, prevedendo parallelamente un rafforzamento del controllo esercitato da questi ultimi sui rispettivi Governi in riferimento alla posizione da sostenere sulle questioni comunitarie. In tal senso, il Gruppo ha ritenuto necessario predisporre un meccanismo ad hoc, con la caratteristica di non allungare o bloccare il processo legislativo. Viceversa, il controllo expost dovrebbe essere di natura esclusivamente giurisdizionale ed affidato alla Corte di Giustizia. Il meccanismo per il controllo politico ex ante proposto dal Gruppo (il c. d. early warning system) prevederebbe un obbligo gravante sulla Commissione europea di trasmettere direttamente, al ciascun Parlamento nazionale le proprie proposte di carattere legislativo, nello stesso momento in cui le trasmette al Consiglio e al Parlamento. Dalla data di trasmissione e prima dell'avvio dell'iter legislativo ogni Parlamento avrebbe sei settimane di tem163


po per formulare un parere motivato circa il rispetto del principio di sussidiarietà nella proposta in questione. Qualora, nelle previste sei settimane, il legislatore ricevesse un numero significativo di pareri negativi presentati da almeno un terzo dei Parlamenti nazionali, la Commissione dovrebbe riesaminare la proposta, eventualmente modificandola o addirittura ritirandola. I Parlamenti nazionali potrebbero intervenire nel procedimento decisionale anche in un secondo momento e cioè al momento della convocazione del Comitato di conciliazione nell'ambito della procedura di codecisione 40 Ai Parlamenti nazionali dovrebbero infatti essere trasmessi la posizione comune del Consiglio e gli eventuali emendamenti del Parlamento europeo, in modo che essi possano, sempre in un tempo di sei settimane, presentare un parere motivato sul rispetto della sussidiarietà nonché far conoscere ai rispettivi Governi la loro posizione in merito, approvando atti di indirizzo secondo le procedure previste dal diritto interno. Addirittura, il Gruppo ha prospettato l'ipotesi che i Parlamenti nazionali che abbiano presentato il predetto parere motivato possano, nella fase del controllo ex post, adire la Corte di Giustizia per violazione del principio di sussidiarietà. .

Il Gruppo di lavoro sul ruolo dei Parlamenti nazionali, nella relazione finale presentata il '22 ottobre 2002 41 , ha convenuto che un ampliamento del coinvolgimento di tali Assemblee contribuirebbe a rafforzare la legittimità democratica dell'Unione a condizione che venga evitata ogni forma di deleteria competizione fra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo. Andrebbe di conseguenza implementato il Protocollo sui Parlamenti nazionali allegato al Trattato di Amsterdam. A tale proposito, il Gruppo ha ritenuto che occorrerebbe fare in modo che la Commissione trasmetta direttamente ai Parlamenti nazionali tutte le proposte legislative, senza esclusione, e che lo faccia nello stesso momento in cui esse sono presentate alle altre istituzioni europee. Prima che il Consiglio possa iscrivere la proposta all'ordine del giorno, dovrebbero passare sei settimane, in modo che i Parlamenti nazionali abbiano il tempo necessario per un accurato, esame della proposta. In queste sei settimane, il Consiglio - compresi i Gruppi e il Co.Re.Per. - non dovrebbe nemmeno concludere alcun accordo preliminare, in attesa che i Parlamenti nazionali comunichino ai rispettivi Governi la propria posizione. Inoltre, una riserva, formulata da uno Stato membro in sede di Consiglio, che tragga origine dalla posizione del Parlamento nazionale, dovrebbe impedire a tale Stato di prendere parte all'accordo sulla proposta all'esame del Consiglio; ciò non dovrebbe impedire una decisione del Consiglio qua164


lora la decisione sia presa a maggioranza qualificata, se tale maggioranza viene raggiunta senza il concorso dello Stato membro interessato. Il periodo di sei settimane per la riserva di esame parlamentare potrebbe subire deroghe in caso di urgenza. Inoltre, la Commissione dovrebbe trasmettere anche ai Parlamenti nazionali la sua strategia politica annuale e il suo programma di lavoro annuale; la stessa cosa dovrebbe fare la Corte dei conti con riguardo alla sua relazione annuale. In relazione al controllo ex ante sul rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, il Gruppo ha ribadito che il ruolo peculiare dei Parlamenti nazionali sarebbe quello di consigliare, controllare e impegnare la responsabilità dei propri Ministri in relazione alla loro azione in sede di Consiglio, in particolare valutando se un atto legislativo possa essere adottato più efficacemente a livello nazionale o europeo. I Parlamenti nazionali dovrebbero essere coinvolti il prima possibile in questa forma di controllo e dovrebbero poter intervenire non solo all'inizio, ma anche durante l'intero iter legislativo qualora il testo sia stato sensibilmente modificato rispetto alla proposta originaria. Inoltre, secondo il Gruppo, la possibilità per i Parlamenti nazionali di adire la Corte di Giustizia per violazione del principio di sussidiarietà non dovrebbe essere limitato - come sosteneva invece il Gruppo sulla sussidiarietà - alle sole Assemblee che abbiano presentato il parere motivato. Infine, il Gruppo ha ritenuto che andrebbe significativamente implementata la cooperazione e lo scambio di informazioni e buone prassi fra i diversi Parlamenti, modificando opportunamente la struttura e le attribuzioni della CosAc; addirittura, la COSAC potrebbe costituire la sede per una discussione a livello generale sul controllo della sussidiarietà. I PARLAMENTI NAZIONALI NEL TRATTATO CHE ADOTTA UNA COSTITUZIONE PER L'EUROPA

Non tutte le proposte avanzate dai due Gruppi sono state recepite nel Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa, adottato dalla Convenzione europea e trasmesso alla Presidenza del Consiglio dell'Unione europea il 18 luglio 200342. La Conferenza intergovernativa ha, nelle sue alterne vicende non sempre felici, apportato a quel progetto alcuni significativi cambiamenti, anche nelle disposizioni che riguardano il ruolo dei Parlamenti nazionali. La nuova Costituzione firmata a Roma il 29 ottobre 2003 3 , quindi, ha recepito solo in parte le proposte formulate dalla Convenzione e dai suoi Gruppi di lavoro 44 . 165


Per il tema che qui ci interessa, va detto che il Trattato-Costituzione - se si escludono i due Protocolli allegati di cui parleremo in seguito - non contiene una formulazione specifica che riconosca l'importanza del coinvolgimento attivo dei Parlamenti nazionali nelle attività dell'Unione né norme che sottolineino la necessità che i Parlamenti stessi supervisionino l'azione dei Governi nell'ambito del Consiglio dei Ministr1 45 . L'art. 1-46 del testo finale della Costituzione siglato a Roma, dedicato al principio della democrazia rappresentativa, è una norma meramente descrittiva che sfiora appena il livello organizzativo proprio degli Stati membri: nel secondo comma del par. 2 si ribadisce che gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi capi di Stato o di Governo e nel Consiglio dai rispettivi Governi, a loro volta democraticamente responsabili dinanzi ai Parlamenti nazionali. Tale enunciazione è in linea con quanto già detto relativamente alla particolare natura "multilivello" della democrazia parlamentare nell'Unione europea. L'art. 1-46 del Trattato-Costituzione afferma il principio della legittimazione democratica di tutte le istituzioni europee: diretta nel caso del Parlamento europeo e indiretta, attraverso il controllo esercitato su di essi dai Parlamenti nazionali, nel caso del Consiglio europeo e del Consiglio dei Ministri. Tuttavia, in tal modo "sembrerebbe restringersi l'ambito delle forme di Governo 'compatibili' con l'appartenenza all'Unione a quelle che prevedono espressamente un circuito fiduciario Governo-Parlamento. Può allora sorgere il quesito se, in futuro, potrà essere ammesso all'Unione un Paese che abbia scelto una forma di Governo di tipo presidenziale o che, comunque, preveda circuiti di legittimazione reciprocamente indipendenti tra esecutivo e legislativo" 46 Ancora, i Parlamenti nazionali sono informati, al pari del Parlamento europeo dèlla domanda di adesione all'Unione e trasmessa al Consiglio da uno Stato terzo (art. 1-5 8): tuttavia, mentre l'approvazione del Parlamento europeo della domanda di adesione è esplicitamente qualificata come "necessaria", l'articolo tace sul ruolo che spetterebbe eventualmente in tale ambito ai Parlamenti nazionali. I Parlamenti nazionali conquistano, inoltre, uno specifico ruolo nella procedura di revisione dei Trattati. La procedura definita "ordinaria" (art. IV-443) attribuisce al Consiglio europeo la facoltà di convocare, se lo ritenesse opportuno, una Convezione incaricata di esaminare i progetti di modifica del Trattato e di trasmettere una raccomandazione in proposito alla Conferenza intergovernativa; tale Convenzione sarebbe composta anche da rappresentanti dei Parlamenti nazionali oltre che del Parlamento europeo, .

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dei Governi nazionali e della Commissione europea. La procedura di revisione "semplificata" (art. IV-444), invece, prevede che il Consiglio europeo possa emanare all'unanimità una decisione con la quale autorizzerebbe il Consiglio a deliberare all'unanimità anche nei casi in cui il Trattato prevederebbe la maggioranza qualificata, ovvero a legiferare con procedura legislativa ordinaria nei settori che il Trattato riserverebbe alla procedura legislativa speciale; i Parlamenti nazionali, ai sensi del par. 2 dell'articolo, avrebbero sei mesi di tempo per opporsi alla decisione del Consiglio europeo; l'approvazione anche di un solo Parlamento nazionale impedirebbe al Consiglio europeo di adottare la decisione. La normativa appena esaminata tradisce la tensione esistente fra l'orientamento di coloro che intendono assicurare un agevole progresso nelle attività dell'Unione europea eliminando, o comunque allentando, il vincolo costituito dall'approvazione unanime, e quello di quegli Stati che, intenzionati a salvaguardare il piì possibile la sfera di sovranità nazionale, hanno voluto riservarsi attraverso i Parlamenti nazionali la possibilità di ostacolare iniziative tese a modificare l'assetto decisionale. Anche per quanto riguarda l'applicazione della clausola di flessibilità contenuta nell'art. 1-18 è presente un richiamo ai Parlamenti nazionali. Infatti, qualora il Consiglio decida all'unanimità, su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, di realizzare un obiettivo anche senza che la Costituzione abbia attribuito all'Unione poteri in tal senso, la Commissione dovrà richiamare l'attenzione dei Parlamenti nazionali sulla proposta, in modo che essi possano attivare il meccanismo di controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà. È evidente l'interesse dei Parlamenti nazionali a controllare l'uso di una clausola che appare potenzialmente ancora piìi intrusiva delle loro competenze di quanto non lo sia un atto in materia concorrente, tuttavia, la riconduzione di tale controllo al principio di sussidiarietà suscita talune perpiessità, in quanto qui non si tratta di controllare la corretta attuazione di una competenza già esistente e concorrente, ma di verificare l'effettiva necessità di ampliare i poteri dell'Unione, evitando l'abuso di una facoltà che dovrebbe essere ecceziona1e47 Analogo controllo potrà essere attivato dai Parlamenti nazionali sulle proposte legislative relative all'istituzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, con particolare riferimento alla cooperazione giudiziaria in materia penale e alla cooperazione di polizia (art. 111-259). Essi saranno anche informati, insieme al Parlamento europeo, dei risultati della valutazione .

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"oggettiva ed imparziale" che le autorità degli Stati membri compiranno circa l'attuazione delle politiche dell'Unione nel settore della istituzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (art. 111-260). Nella relazione del Gruppo X della Convenzione 48, era emersa la necessità che, data la delicatezza delle materie in questione in seguito alla loro "comunitarizzazione", i Parlamenti nazionali avrebbero dovuto avere un importante ruolo in questo settore. Non tutte le proposte del Gruppo sono stare recepite nella versione finale del Trattato-Costituzione: lo è stata, comunque, quella di consentire ai Parlamenti nazionali l'attivazione del meccanismo di allarme preventivo o qualche altro strumento simile per accertare la reale dimensione transfrontaliera e l'effettiva gravità di un reato 49 . Tuttavia, il tipo di controllo che i Parlamenti nazionali dovrebbero poter attivare non appare collegato al rispetto del principio di sussidiarietà inteso in senso tecnico, quanto piuttosto ad una interpretazione atecnica del principio, consentendo ai Parlamenti nazionali "non solo il sindacato sull'adozione di singole proposte normative, ma anche un più lato controllo, ove la sussidiarietà in senso proprio non possa operare, ma la 'delicatezza' della materia e la sua 'rilevanza' per lo Stato facciano comunque parere opportuno un loro coinvolgimento" 50 . I PROTOCOLLI ALLEGATI AL TRATTATO-COSTITUZIONE In relazione al principio di sussidiarietà, l'art. I-i i della Costituzione precisa, nel secondo comma del terzo paragrafo, che "le istituzioni dell'Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al Protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. I Parlamenti nazionali vigilano sul rispetto di tale principio secondo la procedura prevista in detto Protocollo". Tale Protocollo presenta alcune significative differenze rispetto al suo omologo allegato al Trattato attualmente in vigore e, in particolare, coinvolge i Parlamenti nazionali nella procedura di controllo del principio in questione. Il nuovo Protocollo5 I precisa che la Commissione deve trasmettere ai Parlamenti nazionali i progetti di atti legislativi europei e i progetti modificati "nello stesso momento in cui li trasmette al legislatore dell'Unione". Devono, inoltre, essere trasmessi ai Parlamenti nazionali, secondo l'art. 4 del nuovo Protocollo, i progetti di atti legislativi e le risoluzioni legislative del Parlamento europeo, le posizioni del Consiglio e persino - per il tramite del Consiglio - i progetti di atti legislativi presentati da un Gruppo di Stati 168


membri, dalla Corte di Giustizia, dalla Banca centrale europea e dalla Banca europea per gli investimenti. La procedura indicata elimina completamente la funzione dei Governi nazionali come tramite fra le istituzioni europee e i rispettivi Parlamenti. Secondo l'art. 6, ciascun Parlamento nazionale o anche ciascuna Camera di un Parlamento nazionale ha sei settimane di tempo decorrenti dalla data di trasmissione del progetto, per inviare ai Presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione «un parere motivato che espone le ragioni per le quali ritiene che il progetto in causa non sia conforme al principio di sussidiarietà. Spetta a ciascun Parlamento nazionale o a ciascuna dei Parlamenti nazionali consultare all'occorrenza i Parlamenti regionali con poteri legislativi". Il Presidente del Consiglio trasmetterà il parere all'organo che ha presentato la proposta legislativa, qualora esso sia diverso dalla Commissione o dal Parlamento europeo (Governi nazionali, Corte di Giustizia, Banca centrale europea, Banca europea per gli investimenti). Va rilevato in proposito che, in una ipotesi estrema, una situazione di crisi politica nazionale potrebbe riverberarsi nel circuito legislativo comunitario nel momento in cui un Parlamento nazionale o una singola dovesse esprimere un parere negativo avverso una proposta legislativa presentata dal proprio Governo 52 Secondo l'art. 7, l'obbligo di riesaminare il progetto legislativo per l'istituzione che l'ha emesso si verifica solo se un terzo dell'insieme dei voti complessivamente a disposizione dei Parlamenti nazionali (ciascun Parlamento ha due voti; se il Parlamento è bicamerale ciascuna Camera dispone di un voto) abbiano espresso parere negativo sul progetto; se il progetto riguarda lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia è sufficiente un quarto di voti negativi per assicurarne il riesame. In seguito al riesame, l'istituzione interessata potrà, con decisione motivata, mantenere il progetto, modificarlo o ritirar10 53 . In relazione all'art. 7, va detto che il sistema di votazione prospettato determina una sovrarappresentazione delle assemblee parlamentari monocamerali rispetto a quelle bicamerali, costrette a suddividere i due voti disponibili fra le due Camere, non necessariamente politicamente omogenee; inoltre, attribuendo due voti indistintamente a ciascun Parlamento, non tiene conto del diverso peso di ciascuno in relazione alla quantità di cittadini rappresentata, sovrarappresentando i. Parlamenti degli Stati più piccoli. La procedura di cui agli artt. 6-7 è sicuramente complessa e non garantisce realmente che le istituzioni comunitarie modifichino l'iter legislativo in .

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relazione ai pareri espressi ai Parlamenti nazionali. "Certo, al di là degli obblighi giuridici, sul piano politico le istituzioni non potranno troppo frequentemente ignorare la protesta dei Parlamenti nazionali. La procedura però è defatigante e potrà essere utilizzata solo a patto che i Parlamenti si dotino di una buona organizzazione interna e di efficaci meccanismi di coordinamento fra loro" 54. L'art. 8 del Protocollo non accoglie pienamente il principio - discutibile, eppure da alcuni ritenuto auspicabile55 - dell'ammissibilità dei Parlamenti nazionali a promuovere ricorsi alla Corte di Giustizia per violazione del principio di sussidiarietà. Infatti, tali ricorsi potranno essere proposti solo da uno Stato membro "in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico interno a nome del suo Parlamento nazionale o di una Camera di detto Parlamento nazionale"5 6 . Poiché l'art. 8 del Protocollo fa riferimento, per quanto riguarda le modalità di presentazione dei ricorsi, all'art. 111-365 del Trattato, si desume che il termine per presentare il ricorso sia di due mesi dalla data della pubblicazione dell'atto. La definizione del peso da conferire alle assemblee parlamentari in questo tipo di ricorsi è stata dunque lasciata agli ordinamenti giuridici nazionali, implicando quindi la possibilità che, nei vari Stati, si compiano scelte diversificate5 7 . Né è stato precisato, come sarebbe stato invece .logico, se lo Stato che presenta il ricorso debba avere preventivamente espresso in Consiglio un parere sfavorevole all'approvazione dell'atto e, in caso affermativo, se tale parere debba essere stato espresso dal Governo nazionale in sede di Consiglio, dal Parlamento nazionale ai sensi dell'art. 7 del Protocollo o da entrambi. Il punto non è di poco conto: se, infatti, si fosse esplicitamente scelto di permettere di adire il giudice comunitario ai soli Parlamenti che avessero in precedenza sollevato riserve sulle proposte legislative della Commissione, questo avrebbe potuto provocare abusi da parte dei Parlamenti nazionali nel ricorrere al meccanismo di allarme preventivo, per lasciarsi aperta la possibilità di adire successivamente la Corte di Giustizia 58 . Il Protocollo, tuttavia, non compie alcuna decisa scelta né in tal senso né in senso contrario (libertà di adire la Corte di Giustizia indipendentemente dalla preventiva attivazione dell'early warning system), contribuendo ad aumentare la confusione istituzionale. Per questo, non manca chi ritiene che il potere di ricorrere alla Corte avrebbe dovuto essere lasciato ai soli Governi che avessero espresso un voto negativo sulla proposta legislativa in sede di Consiglio, al fine di rispettare i principi della responsabilità politica e della separazione dei poteri 59 . Inoltre, il ricorso alla Corte di Giustizia riverserebbe 170


su di essa valutazioni di natura essenzialmente politica e presupporrebbe da parte di tale organo una conoscenza delle realtà nazionali che essa in realtà non ha. Infine, non appare necessario il controllo giurisdizionale del principio di sussidiarietà attivato per impulso dei Parlamenti nazionali, se si considera che già l'attuale sistema consente alle assemblee parlamentari, secondo le procedure costituzionali previste in ciascuno Stato, di far leva sui rispettivi Governi affinché questi impugnino gli atti comunitari dinanzi alla Corte di Giustizia, chiedendone l'annullamento ai sensi dell'art. 230 Tce60 . Il Protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità si conclude con l'art. 9, con cui si precisa che anche i Parlamenti nazionali, al pari del Consiglio europeo, del Consiglio e del Parlamento europeo, ricevono la relazione annuale della Commissione circa l'applicazione dell'art. I- i i della Costituzione.

Il ruolo dei Parlamenti nazionali L'altro Protocollo allegato alla Costituzione è quello sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell'Unione europea, che modifica ed integra il suo omologo allegato al Trattato di Amsterdam 61 . Gli articoli da i a 3 del nuovo Protocollo si riferiscono alle procedure di informazione a beneficio dei Parlamenti nazionali e riproducono sostanzialmente quanto già esaminato in relazione al Protocollo sull'applicazione del principio di sussidiarietà e di proporzionalità. I Parlamenti nazionali ricevono direttamente dalla Commissione i documenti di consultazione (Libri verdi, Libri bianchi e comunicazioni), il programma legislativo annuale e gli altri strumenti di programmazione legislativa e di strategia politica nonché i progetti di atti legislativi europei nello stesso momento in cui tali atti sono trasmessi dalla Commissione anche al Consiglio e al Parlamento europeo. Una tempistica assai più stringente rispetto a quella prospettata dall'analogo Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam, che precisa unicamente che tale trasmissione debba avvenire "tempestivamente". Inoltre, il Parlamenti nazionali ricevono direttamente dal Parlamento europeo i progetti di atti legislativi da esso presentati e per il tramite del Consiglio le iniziative legislative di un Gruppo di Stati membri, della Corte di Giustizia, della BCE e della BEI. Il parere motivato che il Parlamento nazionale potrebbe esprimere in relazione al rispetto del principio di sussidiarietà viene inviato, come già detto, ai Presidenti del Parlamento europeo; della Commissione e del Consiglio e da 171


quest'ultimo trasmesso alle istituzioni artefici della proposta (Governi nazionali, Corte di Giustizia, BEI e BCE). L'art. 4 del nuovo Protocollo sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell'U nione europea, come già l'art. 3 dell'analogo Protocollo approvato ad Amsterdam, stabilisce che fra la data in cui un progetto legislativo è messo a disposizione dei Parlamenti nazionali e quella in cui questo è iscritto all'ordine del giorno del Consiglio devono trascorrere sei settimane, salvo casi urgenti debitamente motivati. Queste sei settimane sarebbero utili ai Parlamenti nazionali per esaminare la proposta e pertanto nel corso di tale periodo non è possibile raggiungere alcun accordo in sede di Consiglio. Inoltre - e questo costituisce un'aggiunta rispetto a quanto sancito dal Protocollo attualmente in vigore - "salvo nei casi urgenti debitamente motivati, tra l'iscrizione di un progetto di atto legislativo europeo all'ordine del giorno provvisorio del Consiglio e l'adozione di una posizione devono trascorrere dieci giorni". I Parlamenti nazionali ricevono anche, contemporaneamente al Parlamento europeo e al Consiglio, la relazione annuale della Corte dei conti, ma solamente "a titolo informativo" (art. 7). Essi ricevono anche direttamente dal Consiglio, contemporaneamente ai Governi degli Stati membri, gli ordini del giorno e i risultati delle sessioni del Consiglio, compresi i processi verbali delle sessioni nelle quali il Consiglio delibera su progetti di atti legislativi europei (art. 5). Qualora il Consiglio decida di ricorrere alla già descritta procedura di revisione semplificata di cui all'art. IV-444, i Parlamenti nazionali devono essere informati dell'iniziativa del Consiglio almeno sei mesi prima dell'adozione della conseguente decisione. Gli articoli 9 e 10 del Protocollo, intitolati alla cooperazione interparlamentare, tradiscono la sfiducia sul ruolo della COSAC come tramite fra istituzioni europee e Parlamenti nazionali. Scompare, infatti, ogni esplicito riferimento alla COSAC, presente invece nel Protocollo di Amsterdam, sostituito da una generica menzione di una Conferenza degli organi parlamentari specializzati per gli affari dell'Unione 62 . Tale Conferenza servirà a promuovere, in seno all'Unione, una cooperazione interparlamentare efficace e regolare fra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali. Essa potrà presentare alle istituzioni europee i contributi che riterrà utili, promuovere lo scambio di informazioni e buone prassi fra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo, organizzare conferenze interparlamentari su temi specifici, fermo restando che i contributi della Conferenza non vincolano i Parlamenti nazionali e non pregiudicano la loro posizione. A differenza di quan172


to disciplinato dal Protocollo attualmente in vigore, qui si precisa che la Conferenza potrà riunirsi "in particolare per discutere su argomenti che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune, compresa la politica di sicurezza e di difesa comune". Siffatta affermazione costituisce un indubbio progresso sulla via della democratizzazione di un settore da cui tra dizionalmente il canale della rappresentanza parlamentare è stato sempre escluso. Tuttavia, nel nuovo Protocollo non compare più - come invece avviene in quello di Amsterdam - alcun esplicito riferimento a competenze della Conferenza nel campo dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e dei diritti e delle libertà fondamentali. UITALIA IN EUROPA: IL COINVOLGIMENTO DEL PARLAMENTO ITALIANO NELLA FASE "ASCENDENTE"

Ancora prima dell'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam (1° maggio 1999), il Parlamento italiano ha ritenuto di dover implementare la procedura prevista dall'ordinamento interno attraverso la quale il Parlamento è informato dal Governo circa l'attività legislativa comunitaria. La legge comunitaria 19959763 ha previsto infatti alcune modifiche alla legge 9 mar zo 1989 n. 86 "La Pergola" 64 , fra cui quella di cui all'art. 14, secondo cui progetti degli atti normativi e di indirizzo di competenza degli organi dell'Unione europea o delle Comunità europee, nonché gli atti preordinati alla formulazione degli stessi, e le loro modificazioni, sono comunicati, contestualmente alla loro ricezione, alle Camere per l'assegnazione alle Commissioni parlamentari competenti, alle Regioni anche a statuto speciale e alle Province autonome, dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Ministro competente per il coordinamento delle politiche comunitarie, indicando la data presunta per la loro discussione o adozione da parte degli organi predetti" (comma 1). Inoltre "le Commissioni parlamentari, prima della data di cui al comma 1, formulano osservazioni e adottano ogni opportuno atto di indirizzo al Governo. Entro il predetto termine le Regioni e le Province autonome possono inviare al Governo osservazioni." (comma 2). È interessante notare come il Governo si Sia quindi impegnato ad una comunicazione dei progetti legislativi europei al Parlamento in modo "contestuale" alla loro ricezione da parte delle istituzioni comunitarie. Successivamente, l'art. 6 della legge comunitaria 2000 65 , con cui si aggiunge alla legge 86/1989 un nuovo art. 1-bis, ha apportato al meccanismo di trasmissione al Parlamento e alle Regioni dei progetti di atti comunitari 173


alcune significative integrazioni. Il comma i riproduce sostanzialmente il testo dell'art. 14 della legge 128/98, ma sostituendo all'espressione "sono comunicati" quella, assai più incisiva, "sono trasmessi". Effettivamente, la semplice comunicazione non presuppone necessariamente la trasmissione del testo integrale del progetto legislativo comunitario. Di grande rilevanza è poi il comma 2 del medesimo articolo, che mostra nei confronti dell'organo parlamentare una apertura ancora maggiore di quella desumibile dalla normativa europea e dalla legislazione di molti altri Stati membri dell'Unione. La norma, infatti, precisa che "tra i progetti di cui al comma i sono ricompresi anche quelli relativi alle misure previste dal Titolo VI del Trattato sull'Unione europea, ratificato ai sensi della legge 3 novembre 1992, n. 454, nonché quelli di cui al Titolo V dello stesso Trattato volti alla definizione della politica estera e di sicurezza comune". Infine, le commissioni parlamentari, nonché le Regioni e le Province autonome, potranno inviare al Governo osservazioni ed atti di indirizzo (comma 3) entro una data indicata dal Governo stesso e, comunque, prima della discussione del progetto. Se ciò non dovesse avvenire, il Governo potrà procedere di propria iniziativa (comma 4). In seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione, il Parlamento italiano ha emanato la legge 5 giugno 2003 n. 131 "La Loggia" 66 , contenente disposizioni per l'adeguamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 367 Essa prevede, fra l'altro, il principio per cui le Regioni e le Province autonome concorrono direttamente, nelle materie di loro competenza legislativa, alla formazione degli atti comunitari. L'attuazione di tale principio ha condotto all'approvazione della legge 4 febbraio 2005, n. 11 68 , che ha interamente abrogato la legge 86/1989 sostituendola con un nuovo testo più rispettoso delle prerogative delle Regioni e delle Province autonome. La nuova legge contiene, all'art. 3, disposizioni relative alla partecipazione del Parlamento al processo di formazione delle decisioni comunitarie e dell'Unione europea. Purtroppo, le soluzioni indicate costituiscono un indubbio regresso rispetto alla normativa precedentemente in vigore, poiché è scomparso del tutto il riferimento, contenuto nella legge 422/2000, alla possibilità che il Parlamento italiano esamini anche i progetti legislativi relative alle materie del Titolo V e del Titolo VT del Tue. Inoltre, secondo il comma 2 della legge, i progetti che il Governo deve trasmettere alle Camere sono relativi ai soli documenti della Commissione europea (compresi i documenti di consultazione, quali Libri verdi, Libri bianchi e comunicazioni) e non anche quelli provenienti da altri organi. 174


D'altra parte, poiché la Costituzione dell'Unione europea non è ancora in vigore, la Commissione europea resta l'unica titolare del diritto di iniziativa legislativa. Di grande interesse è il comma 3, che dispone che la Presidenza del Consiglio dei Ministri "assicura alle Camere un'informazione qualificata e tempestiva sui progetti e sugli atti trasmessi, curandone il costante aggiornamento". Come già nella disciplina precedente, i competenti organi parlamentari possono formulare osservazioni ed adottare atti di indirizzo al Governo. Tuttavia - e questa costituisce una rilevante novità - il comma 7 prevede che, a tal fine, le Camere possano richiedere al Governo "una relazione tecnica che dia conto dello stato dei negoziati, delle eventuali osservazioni espresse da soggetti già consultati nonché dell'impatto sull'ordinamento, sull'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sull'attività dei cittadini e delle imprese". Piuttosto articolata è la parte della disciplina concernente la presentazione dell'attività del Governo in ambito comunitario alle Camere. I competenti organi parlamentari sono tempestivamente informati dal presidente del Consiglio o dal Ministro competente anche "sulle proposte e sulle materie che risultano inserite all'ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dei Ministri dell'Unione europea" (comma 4). Il Governo, prima delle riunioni del Consiglio europeo, riferisce alle Camere della posizione che intende assumere e, su loro richiesta, riferisce ai competenti organi parlamentari anche prima delle riunioni del Consiglio dei Ministri (comma 5). Ogni sei mesi il presidente del Consiglio o il Ministro per le politiche comunitarie riferisce alle Camere sui temi di maggiore interesse in discussione in ambito comunitario; inoltre, entro quindici giorni dalle riunione del Consiglio dei Ministri dell'Ue o del Consiglio europeo informa i competenti organi parlamentari sulle loro risultanze. L'art. 4 della legge 11/2005 concerne la riserva di esame parlamentare. Il Governo può porre in sede di Consiglio dei Ministri dell'Ue una riserva di esame parlamentare su un progetto o su un atto in discussione in casi di particolare importanza economica, politica e sociale. Questo impedisce al Governo di esprimere una posizione a livello europeo prima della conclusione dell'esame dell'atto o del progetto da parte del Parlamento italiano, che non potrà comunque protrarsi oltre venti giorni dalla data in cui alle Camere è stato traSmesso l'atto o il progetto. Qualora i venti giorni dovessero trascorrere inutilmente, il Governo potrà procedere anche in mancanza della pronuncia parlamentare. P. evidente come il termine di venti giorni appaia davvero esiguo, in considerazione della durata media sia dei tempi 175


decisionali delle Camere sia di quella dei lunghi e complessi procedimenti decisionali dell'Unione. In sintesi, si può affermare che, in linea di sostanziale continuità con il passato, la riforma tende a riconoscere all'esecutivo un ruolo centrale nei processi di elaborazione e di attuazione della normativa dell'Unione. Infatti, la tendenza a porre in essere complesse procedure per favorire la partecipazione di altri attori istituzionali, quali il Parlamento e le Regioni, è controbilanciata da una altrettanto marcata e talora eccessiva tendenza a semplificare tali procedure qualora esse arrivino ad intralciare l'azione dell'esecutiv069 . I PROBLEMI MAL POSTI E LE POSSIBILI SOLUZIONI Dall'analisi fin qui condotta emergono alcune perpiessità sul progressivo accrescimento dell'influenza dei Parlamenti nazionali nel quadro istituzionale comunitario. Si ha, infatti, la sensazione che si tenda ad utilizzare il coinvolgimento delle Assemblee rappresentative nazionali come antidoto al deficit democratico che affligge l'Unione: una "patologia istituzionale" che in questo periodo, anche a fronte delle difficoltà economiche e politiche che l'Europa attraversa e al calo di consenso popolare dimostrato dai sondaggi, appare più che mai di significativa gravità. Il problema è comunque mal posto: infatti, anche ammessa una carenza di legittimità democratica dell'Unione per il permanere di un processo normativo atipico rispetto alle procedure parlamentari classiche, questa potrebbe essere risolta con modifiche dell'equilibrio interno che valorizzino il Parlamento europeo - ad esempio attraverso l'ulteriore estensione della procedura di codecisione - senza necessariamente dover aprire l'Unione a soggetti esterni quali i Parlamenti naziona11 70 I rischi che si corrono includendo i Parlamenti nazionali a pieno titolo fra i soggetti che compongono l'architettura istituzionale europea non sono di poco conto. Infatti, Il Parlamento europeo potrebbe risultare ulteriormente indebolito e la sua piena affermazione come organo legislativo europeo, rappresentativo della volontà popolare, potrebbe risultare ritardata. Inoltre, sottolineando l'importanza centrale e prioritaria degli Stati membri, si rischia di ottenere l'effetto negativo di un appesantimento o, addirittura, della paralisi del processo di integrazione, senza una reale contropartita sui piano della legittimità, tanto più che, dati i limiti obiettivi nel coinvolgimento dei Parlamenti nazionali, ne potrebbe conseguire uno scivola.

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mento in favore dell'esecutiv0 71 . Non irrealistica sarebbe quindi l'ipotesi che alcuni Governi siano tentati, da una parte, di rallentare il processo decisionale comunitario facendo leva sui Parlamenti nazionali in sede di controllo sulla sussidiarietà, mascherando così considerazioni legate esclusivamente all'interesse nazionale, e, dall'altra, trasferire all'interno dell'Ue le proprie problematiche interne, utilizzando poi il sistema istituzionale europeo come capro espiatorio per giustificare (ed evitare di affrontare) eventuali deficit di democrazia e di legittimità avvertibili a livello nazionale 72 Tuttavia, la legittimazione politica di cui godono le Assemblee nazionali - ben maggiore rispetto a quella finora propria del Parlamento europeo fanno sì che essi diventino un punto di riferimento obbligato nel momento in cui si sceglie di "democratizzare" l'Unione senza tuttavia accrescere di molto le prerogative del Parlamento europeo. Questo mi sembra il nodo fondamentale da sciogliere: se la via per la legittimazione democratica delle istituzioni dell'Unione non supera l'ostacolo di una ridefinizione del ruolo del Parlamento europeo, ma tende ad aggirarlo, le scelte che possono essere compiute in sede costituente appaiono in larga misura obbligate o comunque vincolate ad un ristretto margine di manovra. Per questo, il mutamento di prospettiva che la nuova Costituzione europea compie, che pure è significativo, risente di questa tensione. Quel che è certo è che la Convenzione europea che ha elaborato il progetto iniziale aveva ben presente il reale fondamento della problematica: ciò traspare con evidenza da tutti i documenti di lavoro che toccano l'argomento dei Parlamenti nazionali e, in particolar modo, nelle relazioni finali dei Gruppi I e IV, dalle quali emerge sostanzialmente un dubbio di fondo sulla natura dei poteri che la nuova Costituzione avrebbe potuto affidare agli organi assembleari nazionali. Quando (e se) il Trattato-Costituzione entrerà in vigore, i Parlamenti nazionali non svolgeranno più soltanto funzioni "esterne" all'Unione, ma risulteranno inseriti nel sistema istituzionale dell'Unione europea. Tuttavia, le soluzioni adottate in tal senso non convincono pienamente larga parte della dottrina, anche se con motivazioni profondamente diverse a seconda dei punti di vista. Vi è chi mette in luce come il Trattato-Costituzione compie un significativo progresso nel momento in cui, all'art. 1-46, afferma il principio della legittimazione democratica di tutte le istituzioni europee: diretta nel caso del Parlamento europeo e indiretta, attraverso il controllo esercitato su di essi dai Parlamenti nazionali, nel caso del Consiglio europeo e del Consi.

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glio dei Ministri73 . Ciò implica un mutamento dell'universo valoriale in cui si muovono le istituzioni europee: "se di Parlamenti nazionali spesso si è parlato e si parla nella storia dell'integrazione europea, non è per discettare su problematiche organizzative o su questioni inerenti al mero buon funzionamento dell'Unione e dei suoi processi decisionali, ma è per la tensione a dar vita ad organismi e procedure decisionali che siano non solo più connessi al titolare della sovranità nel senso più formale della legittimazione democratica, ma che siano 'democratici' anche in senso sostanziale, che siano cioè percepiti dai cittadini europei come rispondenti al loro comune sentire Se si resta sul piano dei principi ideali, tali affermazioni sono sicuramente condivisibili. Lo sono in qualche misura anche le soluzioni concretamente adottate, perché in effetti, pur nella loro portata minimale 75 , hanno il pregio di aver evitato la contrapposizione fra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo 76. Se non altro, esse sono servite ad evitare guai peggiori, come quello della proposta francese, avanzata all'indomani del Trattato di Maastricht, di istituire una seconda Camera nel Parlamento europeo, costituita dai rappresentanti dei Parlamenti nazionali secondo una logica federale. Questo perché "i Francesi non si erano accorti che, con gli accordi di Maastricht, era avvenuto un passaggio di poteri verso il Consiglio ed interpretarono lo svuotamento dei poteri del Governo nazionale come un passaggio di poteri al Parlamento europeo" 77 . Ulteriori elementi positivi possono essere rinvenuti nell'incremento della cooperazione interparlamentare e dello scambio di buone prassi, da cui sicuramente non si potrà prescindere, nonché nell'incentivazione del dibattito politico a livello nazionale sulle questioni europee, favorito anche dalla più accurata e tempestiva informazione sui progetti di atti legislativi europei che i Parlamenti riceveranno. Saggiamente, a mio parere, la complessa procedura non attribuisce ai Parlamenti nazionali un reale potere di respingere definitivamente una proposta legislativa avanzata a livello europeo né quello di ricorrere direttamente alla Corte. Prerogative, queste, che rischierebbero di rafforzare i particolarismi nazionali anziché la sovranazionalità dell'Unione e si presterebbero facilmente a distorsioni politiche ed abusi. Tra l'altro, se è vero che i pareri da essi espressi in ultima analisi non sono vincolanti, è anche vero che appare difficile immaginare che la Commissione europea si ostini a mantenere una proposta legislativa sulla quale un buon numero di Parlamenti nazionali abbiano espresso parere negativo oppure che il Consiglio e il Parlamento europeo la adottino pur nella consapevolezza dello scontro politico 178


che ne deriverebbe e della prospettiva dell'impugnazione dell'atto dinanzi alla Corte di Giustizia. Senza contare che i diritti di informazione di cui godrebbero i Parlamenti nazionali consentirebbero di avviare un dibattito a livello nazionale prima della decisione del Consiglio, in modo che le Assemblee nazionali possano adottare gli opportuni atti di indirizzo ai propri governi78 . Mi pare, quindi, che si possano esprimere valutazioni complessivamente positive del modo con cui i Parlamenti nazionali hanno guadagnato uno spazio nell'architettura istituzionale europea, proprio in ragione della sua sobrietà e della sua portata minimale. Non credo, infatti, come qualcuno 79 , che l'unico ruolo davvero utile e rilevante per i Parlamenti nazionali sia la possibilità di affidare un mandato al rappresentante del proprio Paese in seno al Consiglio, in modo che la posizione assunta dal Governo nazionale nel Consiglio dei Ministri sia soggetta ad un controllo democratico ex ante80 Né credo che la strategia seguita possa essere definita una mera "operaci6n cosmética", priva di reale contenuto, che ha insito il rischio di applicare allo spazio pubblico europeo una «representacIóri difusa in cui naufragherebbero tutti i seri tentativi di democratizzare il sistema 81 . Più che ad un "trattamento cosmetico", qui ci troviamo dinanzi ad una complessa opera di ingegneria istituzionale, che ha cercato di bilanciare al meglio opposte e talvolta contrastanti esigenze. L'edificio può ritenersi ben riuscito, anche se caratterizzato da una certa debolezza strutturale, determinata dal non aver potuto compiere scelte radicali in favore di un potenziamento decisivo del peso politico del Parlamento europeo. C'è da augurarsi, per il futuro, che l'architettura istituzionale europea possa essere consolidata in tal senso. .

La letteratura giuridica è ricca di contributi sulla questione del deficit democratico nell'Unione europea. Limitandosi solo agli Autori considerati per la stesura di questo saggio, hanno trattato del deficit democratico in relazione al ruolo dei Parlamenti nazionali, si veda DELLAVALLE pp. 124-125, D!CKMANN pp. 134-139, FERRARO p. 183, GRosso P. 114, IBÀrEZ pp. 193-202, LIkN NOGUERAS pp. 178-182, NtNATTI 1405 ss., ORRIJ p. 1754, RIDOLA pp. 19

ss., STORINI p. 257. 2 NINAn'l p. 1396. Sul punto anche STORINI

p. 259. 3

Niui p. 1397. Nirri pp. 1401-1402. Nelle pagine successive, l'Autrice sottolinea come ad un incremento dei poteri del Parlamento europeo non sia corrisposto un maggior consenso da parte dei cittadini; quindi, l'assunto "più democrazia uguale a più Europa" non regge (p. 1404); que:

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sto anche perché alla progressiva valorizzazione del Parlamento europeo all'interno dell'equilibrio istituzionale non è corrisposto un incremento del ruolo politico dello stesso (p. 1405). Sroiui'n p. 259. 6 ST0RINI p. 258. VIOLINI p. 275. 8 NINATTI pp. 1401-1402. RIDOLA pp. 20-2 1. IO STORINI p. 258. Il RIDOLA p. 20. 12 La sentenza è leggibile in traduzione italiana a cura di ANZON e LUTHER in Giur. Cost., 1994, p. 690, ed è riportata anche in P.MENGOZZI, Casi e materiali di diritto comunitario, Padova, cedam, 1994, pp. 804 ss. Il passaggio riportato è citato e commentato da NINATFI P. 1411 e STORINI p. 259. 3 NINATTI P. 1412. 14 IBAIIEZ (p. 193) ritiene che oggi il modello europeo possa definirsi "tricamerale imperfetto" (Parlamento europeo, Consiglio, Parlamenti nazionali), con tendenza a diventare "quadricamerale" (Comitato delle Regioni), senza una chiara delimitazione delle competenze. IS NINAI-I] pp. 1413-1414. 16 NORTON p. 213. 17 Così STORINI p. 272. Del medesimo orientamento Ninatti pp. 1410-1415. 18 NAPOLITANO p. 7. 19 FEIuRop. 184. 20 NAPOLITANO p. 8. 21 Gco, p. 12. Anche SILVESTRI (p. 6) a tale proposito precisa: "Non so allora quanto i Parlamenti nazionali possano accettare di avere un potere effettivo a livello nazionale sulla politica di difesa e la politica estera ed un potere meramente consultivo a livello europeo". Per BONVICINI (p. 9), "va affrontata e risolta in modo diverso la questione del Governo della politica estera europea e va soprattutto accresciuto il ruolo del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. La politica estera, infatti, rimarrà una tipica competenza nazionale, per cui la divisione di responsabilità tra Parlamento europeo e 180

Parlamenti nazionali resta un elemento importante". 22 LICCARDO p. 26: "il Parlamento nazionale possa fare ciò che non può essere svolto dal Parlamento europeo, perché i parlamentari nazionali possono richiedere maggiori informazioni non tanto su ciò che riflette la politica monetaria dell'Unione europea (la Banca centrale europea è fuori dal controllo nazionale) ma su ciò che attiene l'intervento della Banca centrale nel sistema delle banche centrali europee". 23 FERRAROp. 191. 24 RJDOLA p. 29. 25 VIOLANTE p. 728. 26 PETRANGELI p. 175. 27 PODESTÀ p. 9. 28 FERiROp. 185. 29 Oiuwp. 1761. 30 Commenta la Dichiarazione DICKMANN P. 172, che esprime soddisfazione per il documento, poiché "tanto più è ampia la cooperazione fra tali istituzioni tanto più è possibile ridurre il deficit democratico esistente a livello di istituzioni europee, perché aumenterebbe la possibilità di rappresentare le istanze popolari a livello nazionale nel processo di formazione delle scelte comunitarie". Si veda anche VIOLINI p. 272 e IBAI1EZ pp. 205-206. 31 Commentano il Protocollo: FERRARO pp. 184-185, NASCIMBENE p. 23 e p. 31, VIOLANTE pp. 727-728. 32 Per VIOLINI (p. 273) l'uso del termine "incoraggiare" rappresenta un limite, dovuto peraltro alla necessità di rispettare l'ordinamento costituzionale nazionale. 33 Sulla COSAC cfr. STORINI pp. 260-262 e DICKMANN pp. 172-173. 34 Le diverse soluzioni elaborate a livello nazionale sono esaminate da LEN,ERTS e VAN NuFFEL pp. 387-391, NORTON pp. 214-218, STORINI pp. 263-270. 35 In GUCE C 27011 del 4 novembre 2004. 36 Si tratta dei cosiddetti Orientamenti parlamentari di Copenaghen, in GUCE C 154/1 del 2 luglio 2003.


Si veda, in merito, la Nota del Praesidium del 14 maggio 2003 (CoNv 738/03) sul ruolo dei Parlamenti nazionali nel progetto di Convenzione. La proposta Giscard, recepita nell'art. 19 del progetto del 28 ottobre 2002 (CoNv 369/02) è stata comunque già criticata nella prima riunione plenaria della Convenzione tenutasi a Bruxelles il 6-7 giugno 2002 (CoNv 97/02, p9) e non è stata poi accolta nella Relazione finale del Gruppo IV sul ruolo dei Parlamenti nazionali (C0Nv 461/02, p15) 38 Rossi p. 161, che ritiene che la Convenzione abbia brillantemente risolto il problema, attribuendo un ruolo ai Parlamenti nazionali senza intaccare i poteri del Parlamento europeo e ricorda che, non a caso, la proposta di coinvolgere i Parlamenti nazionali nel controllo sulla sussidiarietà è stata avanzata dall'on. Mendez De Vigo, rappresentante del Parlamento europeo in seno alla Convenzione. 39 CoNv 286102. Si veda MoRviDucci pp. 573 ss. e VIOLINI pp. 284-288. 40 Su questo punto riportiamo il commento di Imbeni (res. sten,. pp. 11-12): "Il Parlamento europeo potrebbe comunicare alle Commissioni affari europei dei Parlamenti nazionali il testo degli emendamenti approvati in seconda lettura prima che il Consiglio adotti la propria posizione, sulla base della quale si passa o meno al Comitato di conciliazione. In quella fase, un'informazione ai parlamentari nazionali potrebbe essere utile per un rapporto da instaurare, con un ruolo di coordinamento, tra le Commissioni affari europei (nel nostro caso, della Camera e del Senato, in altri Paesi anche con altre Commissioni), per suggerire ai Governi la posizione da assumere (favorevole o meno) sugli emendamenti adottati dal Parlamento europeo. In tal modo, si potrebbe ridurre la tendenza da parte del Consiglio ad agire, anche in sede legislativa, nel chiuso delle sue stanze - si tratta di una cri37

tica che il Parlamento da tempo rivolge - 'obbligandolo' a rivolgersi di più all'esterno". 41 CONV 353/02. Commentano il Protocollo: FERRARO pp. 185-191, GIANNrvFI pp. 172-173, MoRviDucci pp. 565 ss., PETRANGELI pp. 174174, STORINI p. 262, VIoLINI pp. 274-280. 42 CONV 850/03. ' CIG 87/1/04 REv 1, del 13 ottobre 2004, pubblicato in GUCE n. 310 del 16 dicembre 2004. 44 Si sono occupati del ruolo dei Parlamenti nazionali nella Costituzione europea: MoRviDUCCI pp. 1061 ss., ORRIJ pp. 1753-1761, Rossi pp. 160-165, SALMONI pp. 16-19, VIoLINI pp. 280-284. 45 Vioiji'ii p. 281. Non manca chi (RlvosEcCHI p. 302) sottolinea come aver affidato la definizione del ruolo dei Parlamenti nazionali ad un Protocollo allegato al Trattato, piuttosto che al Trattato, stesso costituisce un grave limite. 46 GRosso, pp. 11-116. 7 MORVIDUCCI pp. 1075-1076. L'Autrice sottglinea come nella relazione finale del Gruppo V (CoNv 375102) fosse stato appunto evidenziato come il controllo sull'applicazione della clausola di flessibilità non dovesse essere collegato al controllo sulla sussidiarietà, ma piuttosto affidato ad un meccanismo di controllo giudiziario preventivo Sulla necessarietà dell'azione dell'Unione. L'Autrice osserva infine che, poiché la clausola di flessibilità non deve servire ad ampliare le competenze materiali dell'Unione, ma solo a sopperire a lacune in ordine ai mezzi e alle misure di cui essa dispone per raggiungere i suoi obiettivi, il controllo parlamentare finirebbe per incidere anche sulla tipologia dell'azione e, quindi, sul controllo del principio di proporzionalità. 48 Relazione finale del Gruppo di lavoro X sullo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, adottata il 2 dicembre 2002 (CoNv 426/02).

181


49 MORVIDUCCI

p. 1079.

50 MoRviDucci, p. 181. SI Commenta il Protocollo PETRANGELI, pp.

173-175. L'Autore ritiene che il meccanismo prospettato ha il difetto di affidare allo stesso soggetto, cioè il Parlamento nazionale, l'allarme preventivo e il ricorso giurisdizionale, sovrapponendo così il piano dei rapporti tra organi politici, giustamente ispirato al principio di leale cooperazione, e quello del rapporto tra enti, che trova invece nel conflitto di attribuzioni il suo rimedio naturale; il rischio maggiore è che i Parlamenti possano essere stimolati ad inviare il parere solo per mantenere la legittimazione a ricorrere alla Corte, senza contare la possibilità che l'Unione venga investita di tensioni politiche e istituzionali nazionali (fra Governo e Parlamento o fra i due rami del Parlamento) oppure che si favoriscano comportamenti istituzionali poco corretti (si pensi alla possibilità che il Governo voti in senso favorevole ad un provvedimento in seno al Consiglio ma poi lo "impugni" attraverso il Parlamento nazionale). Quindi, secondo l'Autore, il potere di ricorrere alla Corte dovrebbe essere affidato non al Parlamento nazionale ma al Governo, solo nel caso in cui questi abbia espresso sul provvedimento un voto negativo in sede di Consiglio. 52 FERRARO scrive a p. 189: "Suscita qualche perplessità la proposta di creare un 'meccanismo di allarme preventivo', poiché esso potrebbe complicare il processo decisionale comunitario e mettere in discussione principi ormai consolidati nell'ordinamento comunitario, a vantaggio di una concezione che potremmo definire 'statocentrica'. In particolare, tale concezione potrebbe avere il sopravvento con all'allargamento dell'Unione europea ad altri Paesi europei, rendendo estremamente complesso l'iter di adozione degli atti comunitari e, conseguentemente, bloccare il processo di integrazione e l'azione europea. A. ciò si aggiunga che si potrebbero riproporre in sede europea conflitti interni, laddove esistano diverse maggioranze, come avviene ad esempio nel sistema costituzio182

nale francese, nel quale possono sussistere divergenze tra una del Parlamento ed il Governo 53 MORVIDUCCI (p. 1071) ricorda la proposta, non recepita nella versione finale del Protocollo, per cui i Parlamenti nazionali avrebbero avuto diritto a un nuovo esame nel caso in cui la proposta iniziale sulla quale si fossero espressi fosse stata modificata in modo sostanziale. La soluzione adottata, invece, priva i Parlamenti nazionali del diritto di esprimersi sul testo definitivo. Analogamente, non è stato recepito il principio per cui un certo numero di voti contrari espressi dai Parlamenti nazionali avrebbero obbligato la Commissione europea a ritirare la proposta: il ritiro della proposta è pertanto rimasto una mera facoltà dell'istituzione interessata. Si vedano sul punto i documenti CONV 331102 e CONV 540/03. 54 Rossi p. 164. 55 Ad esempio Rossi, pp. 162-163, ritiene che la Convenzione avrebbe dovuto introdurre una specifica legittimazione attiva dei Parlamenti nazionali nel giudizio di annullamento degli atti comunitari senza il necessario tramite dei rispettivi Governi. Questo perché oggi "il basso numero di giudizi di annullamento per violazione del principio di sussidiarietà promossi davanti alla Corte di Giustizia testimonia come, tanto le istituzioni comunitarie quanto i singoli Governi, una volta adottato l'atto a livello comunitario, nonsiano molto propensi a contestarne l'eccessiva invasività dei poteri nazionali". 56 Inoltre, il secondo comma dell'ari 8 precisa che i ricorsi possono essere proposti anche dal Comitato delle Regioni avverso atti legislativi europei per l'adozione dei quali la Costituzione richiede la sua consultazione. Considerando che il Comitato delle Regioni, secondo dell'art. 1-32 della Costituzione (e anche dell'art. 263 Tce modificato a Nizza, attualmente in vigore), è un organo composto da rappresentanti delle collettività regionali e locali che sono titolari di un mandato elettorale nell'ambito di una collettività regionale o locale o politicamente respon-


sabili dinanzi ad una assemblea eletta, i ricorsi del Comitato delle Regioni rappresenterebbero un ulteriore canale per veicolare la volontà del demos europeo. 57 Cosa succederebbe in caso di mancata adozione di norme statali volte a disciplinare l'obbligo di trasmissione dei ricordi? I Parlamenti nazionali potrebbero, comunque,, adire la Corte? Lipotesi non è inverosimile: si pensi ad un sistema bicamerale nel quale solo uno dei due rami del Parlamento intenda adire la Corte in materia di sussidiarietà, in mancanza di una norma che abiliti al ricorso anche una sola delle due camere. Sul punto, MoRviDucci p. 1073. 58 FERRARO p. 189. ' PETRANGELI p. 174. 60 FERRARO pp. 189-190. 61 MoRviDucci, pp. 1088-1093. l'Autrice ricorda come, nell'ambito dei lavori del Gruppo IV, fosse emerso un orientamento favorevole a introdurre nel Protocollo disposizioni che imponessero ai Parlamenti nazionali di attivare il controllo sui rispettivi Governi. La soluzione è stata tuttavia scartata per evitare di incidere su una questione di competenza degli ordinamenti costituzionali nazionali. Il controllo preventivo dei Parlamenti nazionali sull'operato dei propri Governi resta, pertanto, una semplice facoltà spettante alle Assemblee parlamentari. 62 Per RJVOSECCHI (p. 302) la mancata costituzionalizzazione della COSAC come strumento di collaborazione e coordinamento interparlamentare rappresenta un grave limite. 63 Legge 24 aprile 1998, n. 128, in GuRI n. 104 del 7 maggio 1998. 64

Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, in GuRI n. 86 del 10 marzo 1989. 65 Legge 29 dicembre 2000, n. 422, in GURI n. 16 del 20 gennaio 2001. 66 Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, In GuRI n. 132 del 10 giugno 2003.

67

Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione, in GLIRi n. 248 del 24 ottobre 2001. 68 Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, in Gufu n. 37 del 15 febbraio 2005. 69 CANNIZZARO p. 153. 70 MoRviDuccI p. 559. 71 DELLAVALLE p. 163. 72 IBAtEz pp. 196-197 e 228. 73 GROSSO pp. 114-116. 74 Viow'n p. 270. 75 Naturalmente non manca chi esprime valutazioni negative su tali soluzioni proprio a causa della loro portata minimale. Ad esempio VIOLINI p. 272: "a fronte delle alte aspettative valoriali destate dalle dichiarazioni dei legislatori costituzionali europei, occorre constatare come esse si concretizzino in strumenti ed azioni di portata minimale" (p. 272). 76 Mi sembrano però eccessivamente ottimistiche le affermazioni di RossI (p. 164), secondo cui proprio per la complessità delle procedure con cui i Parlamenti nazionali potranno esercitare il loro ruolo di indirizzo e controllo, questi ultimi, ben lungi da insediare il Parlamento europeo, tenderanno piuttosto a porsi sotto il suo "tutorato". In futuro, quindi, potrebbero persino prefigurarsi alleanze tra Parlamenti nazionali ed europeo contro il binomio Governo/Consiglio. 77 Imbeni (res. sten., p. 18). Nella sua visione, iltema della cooperazione fra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali andrebbe affrontato potenziando il ruolo della CosAc, mentre il problema della seconda potrebbe essere risolto semplicemente attraverso "una netta differenziazione tra ruolo legislativo ed esecutivo del Consiglio e perciò, come si dice, degli Stati al posto del Consiglio. In questo caso si produrrebbe un sistema bicamerale dove le due Camere avrebbero un potere co-legislativo, riproducendo una situazione tedesca o americana". Opinione condivisa anche da Ridola p. 20 e da Orsello p. 14: 183


"se ci si deve muovere in una prospettiva federale dobbiamo guardare con interesse alla vecchia idea del progetto di Trattato-Costituzione di Altiero Spinelli, nel senso di creare un modello federale nel quale accanto al Parlamento europeo vi sia un Senato derivante dalla trasformazione dell'attuale Consiglio dei Ministri". 78 MoRviDucci pp. 1093-1905. 79 LULkN NOGUERAS p. 183. 80 Ciò avviene in alcuni paesi (si veda LENÌERTZ e VAN NUFFEL pp. 390-39 1): in Danimarca e in Finlandia, il Ministro è tenuto a difendere in seno al Consiglio dell'Ue la posizione assunta dalla commissione parlamentare per gli affari europei; in Germania il Bundesrat può, in taluni casi, imporre al Governo federale di seguire l'indirizzo espresso dal Parlamento e il Governo è comunque tenuto a consultare il Bundestag prima di prendere posizione in Consiglio; un simile meccanismo di consultazione preventiva è previsto dalla legislazione inglese;

solo in Austria, però, il rappresentante del Governo nazionale in seno al Consiglio dell'Ue è completamente'vincolato alla posizione comune adottata dai Lander o da una delle Camere del Parlamento federale. 81 L1tÀN NOGUERAS, p. 189: "En segundo lugar, las instituciones parlamentarias (las nacionales y la europea), en tanto que elementos centrales de la democracia representativa, son universos complejos, dificilmente reductibles a meros procedimientos. Cada una de ellas responde, después de largo tiempo en las nacionales y de un razonable periodo de consolidaciòn en la europea, a un complicado proceso de construcci6n de ámbitos polfticos adaptados a las exigencias de su 'sistema'. La mera transferencia sin m.s operaciones es francamente arriesgada. No parece conveniente ni que la Uni6n prefìgure el funcionamiento de las instancias parlamentarias nacionales ni que las naciona!es determinen el fincionamiento de la europea".

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Giovanni Vetri tto La parabola di un'industria di Stato Il Monopolio dei tabacchi 1861-1997

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Il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali Il Css è un'associazione con personalità giuridica - ONLUS. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Politiche e Sociali (Co.S.Po.S.), che svolse a suo tempo, negli anni Sessanta, graziea un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: • contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia, ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; • incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; • sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e pii efficaci.

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