Queste istituzioni 133 134

qilesti' istitilzi011i Anno

XXX n. 133/134 - Inverno-primavera 2004 Direttore: SERG io RISrUcx:IA Condirettore: ARroNIO Di MAJO Vice Direttore: GIOVANNI VE FRITTO Redattore Capo: SAVF:RIA A000TEA Cornitato di redazione: FABIo BlsCorn, ROSALBA CORI, FRANCESCA DI LASCIO, FRANCESCO DI MAJO,

ALESSANDRO HINNA, EMANUElE LI PUMA, GIORGIO PAGANO, ELISABETA PEZZI, MASSIMO RIBAUDO, CRISTIANO A. RISTUCCIA, CLAUDIA SENSI, ANDREA SI'ADEFIA

L'o/laboratori: ARNALDO BAGNASCO, AIXMFO BACFAGIIA, GIOVANNI BECNEU.ONI, GIUSEPPE BERTA, GIANFRANCO BEPTIN LAiris, ENRICO CANIGLIA, OSVAlDO ClO:I, ROMANO BLDNI, DAv1D B0GI, GIROLAMO CAIANIEILo, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, CARLO CHIMENTI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBERGO, MASSIMO Di., FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENIE, ANGELA DI GIEE;ORIc, CARLO D'ORTA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASo EDOARDO FR0SINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GAlLO, SII.vio

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14.847 (12 dicembre 1972)

Responsabile: GIOVANNI BECLIEIioNI Editore: QUES.I.RE Srl QUFSTE ISTFWZIONI RI;EIio:HE ISSN 1121-3353 Stampa: Spedalgraf- Roma Chiuso in tipografia nel dicembre 2004 Foto di copertina: antica stampa

(1840) L'ostantinopolifl'oni Gissim Pacha

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana

N. 133-134 invèrno-primavera 2004

Indice

III .

Quale Turchia per quale Europa? .

Mario Zucconi

Taccuino .1 3 • • . .

Il vaso è traboccato Giovanni Vetritto . Politica dello Spazio: contesto europeo e programmi per la sicurezza Fabio Biscotti

.

•

.

•

12 .... . • •

Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale .....a sessant'anni da Bretton Woods Alessandro Spaventa La Confindustria: quale modello di rappresentanza Pierfranco Pellje#j

22

29 • .

•

. •

.

•

La sfida interdisciplinare Diana Rhoten

Dibattito 37 .

Il buco nel calzino (a proposito di un articolo sulla laicità) Giovanni Vetritto

•

I

Riforma costituzionale o Costituzione a pezzi?

49 69 97 Declino delle Camere e parlamentarismo maggioritario italiano Carlo Chimenti Riforma costituzionale e blocco del federalismo fiscale Vincenzo Russo La concessione della grazia: atto complesso o potere presidenziale esclusivo? Maria Romana Allegri

Energia elettrica: quale mercato nell'Unione?

119 Intervista a Pierre Bauby: una testimonianza sull'evoluzione europea del settore elettrico Matteo Urbani Il processo di liberalizzazione del settore elettrico in Europa: le diverse linee di interpretazione Elina De Simone

129

Quando la Pubblica Amministrazione "esternalizza" 151 I pro e i contro delle esternalizzazioni di funzioni e servizi nell'amministrazione pubblica Giovanni Vetritto Quale esternalizzazione delle funzioni amministrative Francesca Di Lascio

165

Rubriche

189'

Segnalazioni

I'

editoriale

Quale Turchia per quale Europa?

Etnobarometro, un programma promosso dal Consiglio italiano per le Scienze Sociali nel 1997, ha monitorato fin dai suoi esordi l'evolversi della situazione sociale, economica e politica in Turchia, con una relazione sulla minoranza curda e i flussi migratori nel 1998 epiù recentemente, nel 2002, con un analisi della trasformazione del movimento islamico e delle rfrme intraprese dai governi di quel Paese nel contesto del processo di adesione all'Unione europea. La stessa che verrà seguita prossimamente da un nuovo rapporto, . che prenderà in esame, la situazione creatasi con la fissazione, da parte del Consiglio europeo lo scorso dicembre, di una data per l'apertura dei negoziati tra laUE e il Governo turco. Peraltro sono note le riserve espresse da alcuni governi e da molte personalità europee, che. paventano le conseguenze che l'ingresso di un Paese con 70 milioni di abitanti, quasi tutti musulmani, potrebbe avere yugli equilibri istituzionali, politici ed • economici dell'Unione. Al di Là di queste preoccupazioni, è evidente che l'integrazione della Turchia pone questioni di fondamentale importanza sulla nuova identità europea, sui confini e sul ruolo internazionale dell'Unione, che fino ad oggi non sono mai state veramente affiontate, se non in chiave polemica e strumentale, soprattutto dagli oppositori dell'ingresso della Turchia, • • sono questioni che non possono essere più a lungo ignorate e che necessitano di un respiro ben più largo. In questo senso la decisio• ne di avviare i negoziati con quel Paese può rappresentare uno scossone salutare imponendo una riflessione collettiva sullo stato della costruzione europea e le sue fiture prospettive, a distanza di mezzo secolo da quando insigni statisti, tra i quali Akide de Gasperi, molto più illuminati e lungimiranti di quelli che oggi goIII

vernano molti Paesi europei, vollero fortemente. E suile ceneri di un continente devastato dalla guerra, riuscirono a gettare le fondamenta di quella che oggi, retrospettivamente, può ben definirsi la nascita di una comunità civile e politica chiamata Europa, (red.)

Il giudizio decisamente positivo sulle riforme politiche in Turchia e la raccomandazione favorevole all'inizio del negoziato di adesione contenuti nel Rapporto Regolare della Commissione europea (il rapporto stilato annualmente sui singoli Paesi candidati all'ammissione), lo scorso ottobre, segnano una svolta decisa nel quarantennale rapporto dell'Europa comunitaria con questo Paese. La volontà di ammettere la Turchia, implicita in quella raccomandazione, costituisce, inoltre, un passo avanti molto rilevante - se evidentemente controverso - nello sviluppo di politiche di maggior respiro strategico e di un ruolo internazionale diverso, oggi, dell'Unione. L'analisi e la raccomandazione della Commissione sembrano derivare da una percezione di inevitabilità dell'incontro dell'Europa con la Turchia, nell'attuale contesto dinamico della politica mondiale. E tuttavia quella inevitabilità non risulta esplicitata nelle prese di posizione ufficiali, mentre il dibattito pubblico rimane soprattutto condizionato dai fattori culturali (per la cultura islamica del Paese percepita come ancora più problematica dopo l'il settembre 2001 e per l'aumento dei flussi migratori verso l'Europa occidentale) e da quella demografica (la Turchia come fonte di migranti e paese che possa essere il più popoloso dell'Europa unita in un futuro non lontano). Ancor più assente nel dibattito europeo (documenti comunitari inclusi) sul caso turco è un'analisi della rivoluzione avvenuta nella politica interna turca, per ragioni endogene e per la crescente interazione con l'Unione europea, nell'ultimo decennio. Prime di discutere della rilevanza dell'ammissione della Turchia per la politica europea, è utile accennare a quella evoluzione più recente ddla politica turca.

QuE TURCHIA? "Questa è la Turchia vera. È accettabile come membro dell'UE?" Così 1'Economist, all'indomani della elezioni del novembre 2002, qualificava la vittoria del Partito della Giustizia e del Progresso (Axp) e indicava le implicazioni di quella vittoria per l'Unione. La Thrchia vera era quella della vittoria del partito di matrice islamica. E, come nella domanda del settimanale inglese, quella vittoria doveva proporre in modo ancor più netto di prima la problematicità dell'ammissione all'UE di un Paese di cultura islamica. Iv

In un Paese in cui le riforme kemaliste hanno da sempre separato un "centro" evoluto, laico ed economicamente avanzato da una "periferia" anatolica tradizionalista (islamica) ed economicamente arretrata (secondo un'analisi di venti anni fa del sociologo politico Serif Mardin), l'occidentalizzazione della Turchia è sempre stata identificata appunto con le élite laiche del "centro". Fino alla presidenza di Turgut Ozal (deceduto nel 1993), i massimi dirigenti del Paese erano tutti turchi europei. Tanto nel dibattito turco quanto in quello occidentale, controllo politico del "centro" e integrazione con l'Occidente avanzato dall'adesione alla NATO nel 1952, alla decisione di Ozal di contribuire alla risposta occidentale contro Saddam Hussein nel 1991 (decisione impopolare presso l'opinione pubblica turca) - sono sempre stati considerati appunto come due fatti inseparabili. L'emergere dell'Islam politico turco come una forza politica principale, già nel 1994 e 1995 (elezioni amministrative e poi elezioni politiche in cui il partito Refah di Mecmettin Erbakan diviene il primo Partito con il 2 1,5%) risultava quindi incongruo con questa combinazione di kemalismo, controllo politico delle élite laiciste ed occidentalizzazione del Paese. E tale percepita incongruità è implicita nell'analisi fatta e dubbio esposto dall'Economista proposito della vittoria dell'Axp (in larga misura erede del Partito Refah) nel 2002 con 34,4% dei voti e quasi due terzi dei seggi parlamentari. L'avanzamento elettorale dell'Islam politico turco dieci anni fa costituiva l'inizio di quella rivoluzione della politica interna turca di cui si accennava all'inizio. Sfuggiva allora alla gran parte degli osservatori - preoccupati per la militanza politico-islamica di Erbakan, primo ministro per sette mesi fra il 1996 e il 1997 (riavvicinamento con i Paesi di cultura islamica più militanti, arretramento nei rapporti con l'UE, etc.) - che dietro la vittoria del Refah c'era una profonda trasformazione della società con la "periferia" rapidamente urbanizzatasi sia a seguito delle riforme economiche dell'epoca di Ozal e sia per l'espulsione di alcuni milioni di curdi dalle montagne del sud-est anatolico a causa del conflitto armato, nella regione, fra guerriglia curda (Pi.x) e autorità di sicurezza turche. È interessante, per converso, come i potenti alti gradi militari cogliessero appieno questa trasformazione quando uno di essi, nel 1996, di fronte all'impossibilità di reggere insieme coalizioni di soli Partiti laici, notava come "sia ora che [gli islamici] vengano al potere, e se non vengono al potere ora... lo faranno alle prossime elezioni e con un aumento spaventoso di voti". E questo è esattamente quanto sarebbe avvenuto nel 2002, dopo che gli stessi militari avevano costretto Erbakan alle dimissioni, nel 1997, e la Corte costituzionale aveva messo fuori legge prima il Partito Refah e poi il suo successore, il Partito della Virtù. Sfuggiva allora - e sfugge ancora - agli osservatori politici che, a parte gli aspetV

ti islamico-militanti delle posizioni di Erbakan, già l'avanzamento elettorale del 1995 indicava una trasformazione della rappresentanza politica delle masse della "periferia" verso una forma più diretta, individuale (dal voto tribale al voto fondato sull'identità etnica e culturale) - che indicava, quindi, una evoluzione e consolidamento della democrazia nel Paese Come notava allora la sociologa statunitense Jenny White, il Partito Refah "offriva un punto focale nuovo per elettori di atteggiamento islamico prima attivi in altri Partiti e faceva sparire altri elementi del movimento islamico che preferivano lavorare all'esterno e nella direzione di un rovesciamento del sistema [politico turco]". Condizionate dall'assimilazione tra stato laico turco e occidentalizzazione, è mancato alle analisi sull'evoluzione della politica di quel Paese la comprensione della conseguenza di quella spaccatura fra "centro" e "periferia", il fatto, cioè, che il laicismo kemalista si coniugavà con la marginalizzazione e il ribellismo della periferia (dalle rivolte guidate da Shaik Said, negli anni Venti, all'attacco del PKK allo stato turco, un conflitto che ha prodotto 37.000 morti fra il 1984 e il 1999) e che l'emergere (1995) e progredire (2002 ed elezioni amministrative del 2004) delle forze di matrice islamica costituiscono una normalizzazione e unificazione della politica turca - l'affermarsi della "Turchia vera". La seconda fase della rivolùzione della politica turca nasce da questa trasformazione socio-politica evidenziatasi negli anni Novanta. La trasformazione interna di questa seconda fase è inseparabile dalla centralità acquisita dall'Unione europea nella vita politica del paese. Se i motivi interni del suo succèsso nel 2002 sono complessi (hanno contribuito anche il discredito dei partiti laici, il voto di protesta, e atro), il Partito Aia' ha individuato nei principi, valori e pressione esterna dell'UE una forma di legittimità interna nuova è una sponda esterna su cui appoggiarsi. La trasformazione rispetto a Refah, iniziaà già dal successivo Partito islamico della Virtù, è stata portata avanti con radicalità dall'ala progressista di questo ultimo Partito poi separatasi, nel 2001, dai "conservatori" legati ad Erbakan (il cui nuovo Partito doveva rimanere con un 2,5% dèi voti nel 2002). Analogamente alla sinistra latino-americana passata da un vocabolario marxista a quello dei diritti umani, dopo il colpo di stato dei militari cileni nel 1973, co sì una pare dei politici provenienti dall'Islam politico turco ha trovato una nuova identità, una più ampia accettabilità interna e un sostegno esterno, nell'abbracciare il sistema dei valori e dei diritti propugnati dall'Europa unita. Una minore lealtà verso gli elementi nazionalistici dello stato laico kemalista, inoltre, lasciava questa nuova dirigenza più libera di fronte a vecchi tabù politici come quello relativà all'appoggio al governo turco-cipriota, anche in questo facilitandò l'incontrò con l'Europa. Tra gli sviluppi interni importanti, nella fase più recente è emersa anche una dirigenza militare lungimirante e particolarVT

mente eloquente nel suo silenzio di fronte all'incalzare delle riforme degli ultimi due anni. È fondamentale, per l'Europa, capire appieno il significato di questa seconda fase della rivoluzione politica turca. Le componenti nazionaliste dello stato laico tradizionale in Turchia cercavano di combinare il sostegno ad alcune politiche ed impegni tradizionali (vedi, per esempio, Cipro) con il desiderio di accesso all'Europa unita. Il risultato era una dose di opportunismo e di celata resistenza nella piena accettazione del sistema dei valori e dei diritti richiesti dai "Criteri di Copenhagen" come pre-condizione per l'accesso all'Unione. Invece, pur dovendo anche 1' Aiu' pagare dei prezzi, politici ad interessi che rappresenta, in generale, la sua identificazione con quel sistema di valori e diritti è più radicale, rappresentando la garanzia della sua propria sopravvivenza.

QuJE EUROPA? Anche l'Europa che potrebbe avviarsi ad ammettere la Turchia è un'Europa profondamente cambiata - e cambiata soprattutto da processi politici avviati dalla fine della Guerra Fredda. Se il dibattito recente sul caso turco è rimasto molto legato ai temi culturali e al problema di come una vecchia identità europea sarebbe trasformata dall'accesso di quel paese, anche qui è utile, invece, vedere in quale contesto va analizzato oggi il ruolo internazionale dell'Europa e la stessa natura dell'Europa unita. Molto sinteticamente accenno qui soltanto a due punti importanti di questa analisi. Su un primo punto, per esempio, riflettendo una diffusa preoccupazione'di possibile "sovraccarico" istituzionale con l'arrivo di un Paese di 70 milioni di abitanti, l'ex ministro cristiano-democratico tedesco Wolfang Schauble si chiede se "una UE con la Turchia come membro possa continuare a costruire un'unione politica sempre più stretta e parlare con una voce sola?" (Foreign Affairs, November-December 2004). La preoccupazione, presentandosi come "tecnica", appare particolarmente importante. Ma non tiene presente di come proprio il processo di allargamento dell'Europa unita abbia trasformato natura e ruolo internazionale di questa istituzione. Negli anni Ottanta, a sostegno di una posizione soltanto intergovernativa nella formazione di una politica estera europea, gli inglesi offrivano spesso l'esempio di interessi soltanto nazionali come il loro nei riguardi delle Falkland. Ma l'allargamento istituzionale dell'Europa ha portato la politica internazionale dell' UE ben al di là di interessi come la difesa territoriale delle Falkland - e ben al di là, quindi, delle capacità di produrre politiche unitarie con meccanismi istituzionali successivamente elaborati come la Pr.sc. Non è quindi VII

la crescita istituzionale dall'interno, quanto sono le pressioni e le nuove responsabilità proposte dal contesto internazionale del dopo-Guerra fredda che hanno cambiato la natura di questa istituzione (oltre al fatto che, quanto a sovraccarico istituzionale, l'allargamento deciso nel 2002 ha aggiunto alla Commissione dieci nuovi commissari, mentre alla Turchia ne spetterebbe uno). Un secondo punto riguarda la collocazione regionale della Turchia e"i possibili problemi , per usare sempre Schauble, «che potrebbero derivare dall integrazione di un paese che condivide centinaia di kilometri di confine con la Siria e l'Iran". Se questa è una cautela nei riguardi della Turchia piuttosto diffusa, essa va considerata, nel contesto internazionale attuale, quanto meno opportunistica. Se la Turchia è sempre stata, per l'Occidente industriale, un Paese-ponte e nel dopo-Guerra fredda viene classificata come un "paese-cardine" nei rapporti economici e politici internazionali (si pensi solo alla sua funzione di transito del petrolio proveniente dal Golfo o dal Cuacaso, due regioni che possono essere usate come fonti alternative), il suo legame con l'Occidente è oggi molto dipendente dal progredire del legame con l'Europa unita. Tradizionalmente l'ancoraggio di questo paese all'Occidente è sempre stato assicuratò dagli Stati Uniti (succeduti in questo alla Gran Bretagna, nel 1946 e 1947). 'E la capacità degli Stati Uniti di assicurare il livello strategico (sicurezza, rifornimenti di materie prime, etc.) degli interessi dei paesi europei sta riducendosi rapidamente. La stessa Turchia, inoltre, già da più lustri, guarda all'integrazione europea come opzione principale dei suoi rappòrti internazionali. La pochezza del dibattito recente sull'ammissione della Turchia sta nel gùardare a questo caso come si è guardato all'accesso della Lituania - anche se di una Lituania molto più ingombrante, naturalmente. Invece, l'inclusione della Turchia ha una valore strategico equii.ralente, da solo, alla dècisione di ammettere Otto Paesi dell'ex mondo 'comunista (con'altri due dà ammettere nel giro 'di alcuni anni) decisa nel dicembre del 2002. Ed ha il valore strategico delle politiche di vicinato, della Wider Europe, che l'Unione ha cominciato a sviluppare, se lentamente, nell'ultimo anno e mezzo. Con la còrnice più ampia dei rapporti internaziònali sempre meno assicurata ai paesi europei dagli Stati Uniti, la Turchia diviene oggi il caso principale in cui si misura la crescita politica e l'evoluzione del ruolo internazionale dell'Unione europea.' -

Mario Zucconi

L'Autore è docente di Relazioni internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Urbino ed-è Visiting Professor of Public and International Affairs alla Princeton University. VT"

taccuino

Il vaso è traboccato di G.V

uando non ce lo aspettavamo più, il vaso è finalmente traboccato. In uno degli ultimi editoriali della Rivista avevamo censurato il fenomeno, non certo recente, dell'inerzia dei costituzionalisti a fronte di reiterati tentativi di "manomissione costituzionale", piccoli e grandi, che si vanno tentando nel nostro Paese (fortunatamente, spesso senza, successo) da ormai un .ventennio l . La critica, come detto, non si appuntava solo sull'attualità, ma su due derive di lunga durata, il tecnicismo astratto e la "disciplina di partito", che hanno a lungo afflitto l'atteggiamento degli intellettuali esperti della materia. Con ciò si è negato per troppo tempo al Paese una voce unica e "di corpo", influente e competente, a fare argine al malcostume della politica come i singoli studiosi, a titolo personale, non potevano fare. La più recente fase del dibattito sulla riforma costituzionale, a cavallo tra il 2001 ed oggi, ha visto la volontà della classe politica andare oltre ogni segno; per questo è nata la provocazione, che, a quanto pare, non è rimasta senza risposta. I quotidiani di agostò hanno finalmente dàto conto di una Costituiiopresa di posizione proveniente dall'Associazione Italiana dei Co- nalisti stituzionalisti; ovvero, una lettera aperta del Presidente Sergio in difesa Dartoie inairizzata a tutti i soci, voita a soiiecitare un aioattito della Carta critico sul testo di riforma costituzionale già approvato in prima lettura al Senato nello scorso mese di marz0 2 . Una lettera mequivocabile, preoccupata e serrata, tesa ad evidenziare, senza intenti di parte, i pesanti limiti e gli oggettivi errori che puntegi

Q

giano l'articolato; e nella quale, senza mezzi termini, -si sottolinea come non sia più possibile, allo stato del dibattito e a fronte dei "problemi di compatibilità con gli insegnamenti consolidati della dottrina del diritto costituzionale e con i principi propri [del] patrimonio costituzionale europeo", evitare di schierarsi in quanto corpo, come accaduto in passat0 3 . Per quanto pericoloso, dunque, il testo di riforma in discussione ha avuto l'oggettivo merito di fungere da proverbiale goccia a far traboccare il vaso. L'Associazione è stata sollecitata dal suo Presidente ad assumere una posizione unitaria. Per ora, a giudicare da quanto si può leggere nelle pagine del suo sito internet, il dibattito interno non ha ancora preso quota; il segnale, ad ogni modo, è di estrema importanza. L'iniziativa di Sergio Bartole mira a suggerire un atteggiamento che potrebbe, nel tempo, diventare costume: segnare alcuni limiti invalicabili di correttezza (si passi il termine) "lessicale" di ogni proposta costituzionale; porre la scienza giuridica a freno e controllo degli abusi del potere nella materia. Se così sarà, la strada per il compimento di orrori costituzionali si farà ben più ardua. Da cittadini, prima ancora che da partecipi del dibattito pubblico, ne saremmo molto lieti. E sempre da cittadini, intanto, ringraziamo il Presidente ed attendiamo fiduciosi le reazioni dell'Associazione.

La "correttezza lessicale" per difendere la sostanza

G.V., Alla fine dell'etì della Costituzione, in queste istituzioni, n. 132, inverno 2003-2004,p. III ss. 2 Le riforme? Tradiscono la Carta, in La Repubblica, 2.8.2004, p. 18. 3 La lettera del Presidente Bartole si può leggere in www.associazionedeicostituzionalisti.it/dibattiti/revjsjone/bartole_invito.html.

1

2

La politica dello Spazio: contesto europeo e programmi per la sicurezza di Fabio Biscotti

o Spazio e - in termini più istituzionali - la "politica spaziale" offre strumenti che possono essere delle leve molto importanti per agevolare quei processi di sviluppo economico e sociale che sono alla base degli obiettivi programmati dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000, che mira a ". . .fare dell'Unione europea la società basata sulla conoscenza più avanzata del mondo...". La stesa Commissione, inoltre, in una Comunicazione 1 , riferisce che gli investimenti spaziali sono da utilizzare come volano per raggiungere l'obiettivo dell'Unione di arrivare al 3% del PIL nella R&S entro il 2010. La "politica spaziale", in particolare, come detto nel Libro Bianco della Commissione Europa in materia 2 si può ben considerare quale orizzontale agli altri obiettivi strategici di interesse istituzionale, nel senso che questa indirizza e promuove programmi complessi e di ampie dimensioni in cui è sempre alla base una ricerca scientifica e tecnologica di élite, in grado di appotare esternalità positive, in termini di conoscenza e di progresso tecnologico, ai vari ambiti del "civile" 3 . In particolare, le ricadute della ricerca scientifica e tecnologica prodotta in ambito spaziale possono essere tanto più ampie quanto la durata e le dimensioni dei programmi spaziali sono grandi. In questi casi (come il programma Galileo o GMES, più avanti citati), il coinvolgimento delle competenze e delle risorse - pubbliche é priva te - di più paesi è condizione necessaria alla realizzazione del programma. Per tale ragione lo Spazio può dare il suo contributo più importante, in termini di ricadute "non spaziali" in sviluppo e competitività, soprattutto se considerato in una dimensione almeno europea.

L'Autore è consulente della Ristuccia Advisors e project manager di Spazio Venture Capital sri.

L

La.politica spaziale quale politica orizzontale

3

A livello formale, la dimensione europea della politica spaziale ha trovato riconoscimento nella Costituzione europea, firmata dai Capi di Stato e di Governo ed i Ministri degli Affari esteri dei 25 Stati Membri, lo scorso 29 ottobre a Roma. Nella Carta costituzionale la ricerca spaziale è considerata una parte fondamentale della ricerca scientifica europea e, come patrimonio di tutta l'Unione, è considerata elemento propulsivo di sviluppo e competitività. In particolare, la Sezione 9 - Ricerca e Sviluppo Tecnologico e Spazio, all'art. 111-248, paragrafo 1, indica che "L'azione dell'Unione mira a rafforzare le sue basi scientifiche e tecnologiche con la realizzazione di uno spazio europeo della ricerca nel quale i ricercatori, le conoscenze scientifiche e le tecnologie circolino liberamente, a favorire lo sviluppo della sua competitività, inclusa quella della sua industria, e a promuovere le azioni di ricerca ritenute necessarie ai sensi di altri capi della Costituzione." Con riferimento specifico alle azioni da intraprendere in ambito spaziale, l'art. 111-254 della Costituzione stabilisce l'adozione di alcune misure programmatiche, prevedendo l'adozione di una legge quadro o di un programma spaziale europeo. Citando dalla Costituzione: "1. Per favorire il progressò tecnico e scientifico, la competitività industriale e l'attuazione delle sue politiche, l'Unione elabora una politica spaziale europea. A tal fine può promuovere iniziative comuni, sostenere la ricerca e lo sviluppo tecnologico e coordinare gli sforzi necessari per l'esplorazione e l'utilizzo dello spazio. 2. Per contribuire alla realizzazione degli obiettivi del paragrafo i la legge o legge quadro europea stabilisce le misure necessarie, che possono assumere la forma di un programma spaziale europeo. 3. L'Unione instaura tutti i collegamenti utili con l'Agenzia spaziale europea." L'articolo 1-14, dedicato ai Settori di competenza concorrente, paragrafo 3, salvaguarda le priorità degli Stati Membri rispetto alle competenze dell'Unione, indicando che "Nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio, l'Unione ha competenza per condurre azioni, in particolare la definizione e l'attuazione di programmi, senza che l'esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la loro". 4

Il tema dello Spazio nella Carta costituzionale europea

Quanto stabilito va a rafforzare il ruolo che l'Unione europea sarà chiamata a svolgere, nell'ottica di definire una politica spaziale europea strumentale ai diversi obiettivi dell'Unione, mediante un preciso documento programmatico ed in pieno coordinamento con l'Agenzia Spaziale Europea. Da un punto di vista sostanziale, nel corso degli ultimi 40 anni l'Europa ha acquisito una presenza nel settore spaziale di assoluto rilievo. In prospettiva, la politica spaziale europea è destinata ad assumere un ruolo sempre più importante per via dei progressi scientifici ottenuti e degli investimenti programmati per la seconda metà di questo decennio, che invertono un mini trend in diminuzione dei primi tre anni di questo secolo. Per fornire un quadro generale dell'importanza dello Spazio nel bilancio europeo, si riporta qualche dato della Commissione Europea. Riguardo la spesa passata e quella prevista della CE nel settore spaziale per il periodo cha va dal 1995 al 2006, si osservi (tabella 1)un aumento significativo nel corso degli anni (anche se gli importi assoluti restano modesti còmparati agli sforzi nazionali e intergovernativi) 4 . GALILEO è la principale applicazione sviluppata in tale periodo.

Tabella i - Spesa CE nelle attività spaziali 1995-2006 (in milioni di €)

La "dimensione" dello Spazio in Europa

(1995-1998) Programma quadro + CCR Galileo Totale *: Definizione e sviluppo **: Sviluppo -150 -150

(1999-2002) -280 270* -550

(2003-2006) 475 280** 755

Nel 2002 la spesa pubblica europea in materia spaziale era di circa 6 miliardi di € (in leggera diminuzione rispetto al 2001), di cui il 90% dedicato ai programmi civili. Nel 2004, la spesa è stimata a 5.380 milioni di euro. Le fonti principali sono quelle rappresentate qui di seguito (tabella 2)5.

Tabella 2 - Stima della spesa pubblica nel settore spaziale in Europa (in milioni di €) (2004) Agenzia spaziale europea Stati membri 2.700** 1 600 550 300 230 5.380 (attività civili nazionali) (attività militari nazionali attività)

Eumetsat Ce* Totale

*: le cifre corrispondenti includono soltanto e risorse di bilancio assegnate **: spesa ESA negli ultimi anni: 1992 (2.400); 2000 (2.299); 2001 (2.522);2002 (2.812)

Il confronto con gli Stati Uniti non è nemmeno proponibile: per il 2002 la spesa pubblica degli Stati Uniti nel settore spaziale ammonta a 31,8 miliardi di € (in aumento del 5% rispetto al 2001), ripartita sostanzialmente in parti uguali tra spese civili e militari. I possibili scenari per il periodo 2004-2013 - ferma restando la necessità di sviluppare una politica spaziale europea ambiziosa - saranno influenzati dal sostegno alle applicazioni spaziali, così come predisposti nell'Action Plan della Commissione e dell'Agenzia Spaziale Europea. Una prima stima della spesa pubblica europea necessaria per attuare il piano di azione del Libro Bianco è contenuta nella tabella 3; le evoluzioni delle varie opzioni sono indicate nel grafico i (senza inflazione) 6 .

Tabella 3 - Stima della spesa pubblica annuale europea per le attività spaziali (in milionidi €) in corso (2004) Scenari Aumento rispetto al 2004 Spesa pubblica annuale '. A - . 500 nel 2006 nel 2013 (proiezioni) C A B C

B 400

300 2700 1850 1240

5380 5880 5780 5680 8080 7710 6620

Scenari corrispndentidesi tassi di cresciadella spesa annuale:' A) 4,6%; B) 3,4%; C)2,3% , '

La stima dell'aumento della spesa europea pluriennale, con maggiori dettagli, è presentata nella tabella 4.

Tabella 4 - Spesa pubblica annuale supplementare* nel 2013 (in milioni di €) Scenario Al Applicazioni Comunicazione via S ate lli te** GMES** Posizionamento, navigazione, s incron izzazione** Sicurezza Cooperazione internazionale Accesso allo spazio Tecno logia** Esplorazione dello spazio Formazione Scienza spaziale Legislazione, aspetti di regolamentazione, norme Totale Scenario B2

Scenario C

250 340 220 750 200 250 270 220 30 140 30 2700

250 340 220 250 70 250 270 100 20 65 15 1850

250 340 220 0 10 200 200 10 3 5 2 1240

I valori sopra riportati, in conclusione, testimoniano una certa crescita delle attività spaziali sul bilancio europeo. Essendo motivata dagli impegni sempre pii fitti fissati nell'agenda spaziale e stabiliti dal Libro Bianco, essa rimane però insufficiente. Come detto, dalla ricerca spaziale può originare un ampio Lo Spazio e ventaglio di applicazioni "non spaziali". In termini generali, tali la sicurezza tecnologie sono definite anche "duali", ossia utilizzabili sia in , europea ambito civile che militare. È noto, infatti, che non appena si è sviluppata l'osservazione dello Spazio e la sua esplorazione per fini scientifici, è cominciato anche l'utilizzo di tali ricerche e tecnologie per funzioni di intelligence e di policing militare. Solo in un momento successivo gli "usi duali" delle tecnologie spaziali hanno permesso, di fronte alle esigenze di bilancio dei singoli Stati, di valorizzare gli sforzi fatti per applicazioni che, in diversi ambiti del civile, potessero generare benefici economici e sociali. Sulla questione della sicurezza, vi è la tesi 7 che la Commissione Europea può cominciare ad agire come un vero eproprio governo europeo, in quanto nessuno stato membro dell'Unione può sentirsi così sicuro da opporsi al concetto di "sicurezza euroVA

pea". Il termine sicurezza, comunque, si può attribuire a' varie applicazioni, spesso a cavallo tra l'ambito civile e quello militare. Si pensi, ad esempio, al monitoraggio satellitare: i sistemi spaziali possono garantire utilizzi multiipurpose che ben si adattano, allo stesso tempo, alle esigenze di monitoraggio del clima e, quindi, alla sicurezza del territorio e dei cittadini, dei rischi, così come alla sorveglianza delle frontiere e di aree critiche, quindi alla prevenzione di conflitti e all'implementazione di politiche di peace keeping e così via. Il caso europeo, a tal riguardo, è molto diverso da quello americano. L'Europa, infatti, parte da una storia che ha sempre teso a separare la ricerca civile dalla ricerca per la difesa, le iniziative spaziali militari da quelle civili. In America, la distanza tra i due ambiti è senza dubbio minore. Negli Stati Uniti, inoltre, l'uso della tecnologia spaziale è considerato un vero e proprio strumento per creare e mantenere una leadership strategica, politica ed economica, basata sul concetto di space dominance e di information dominance, con ovvia rilevanza per il tema della sicurezza. L'Europa, pur non avendo sposato questa strategia di fondo, sta comunque cominciando a fare passi da gigante verso una posizione il più possibile autonoma dalla prima potenza spaziale ed economica mondiale, sia in termini di innovazione e sviluppo tecnologico, sia - conseguentemente - in termini di sicurezza, ne sono testimonianza alcune iniziative che si orientano in tal senso: il programma GMES (Global Monitoring for Environment andSecurity) il programma Galileo . i lavori dello SPASEC, il panel europeo di esperti nel campo dello Spazio e della sicurezza Il Global Monitoringfor the Environment Security (GME.S) è il Il programma europeo, gestito dalla Commissione Europea e , programma GMES dall'Agenzia Spaziale Europea, volto all'utilizzo dei dati provenienti dallo spazio per l'implementazione di politiche di svilup-. po sostenibile, con particolare riguardo alla protezione ambientale, al monitoraggio dell'atmosfera, degli oceani, alla gestione delle risorse naturali, alla qualità della vita e alla sicurezza dei cittadini.

Si può però dire che la "s" di GMES è da intendere come sicurezza in senso generale e non solo di tipo ambientale. I fenomeni che è possibile monitorare dallo spazio, infatti, non sono soio gli aspetti climatici ma anche tutti quei casi di sicurezza messa a repentaglio da eventi naturali ed emergenze su cui interviene, ad esempio, la protezione civile (terremoti, valanghe, inondazioni, ecc..). Galileo è il programma avviato per la realizzazione di un sistema di navigazione satellitare europeo, indipendente dal Gs americano, che dovrebbe essere operativo dal 2008. La principale differenza tra il sistema europeo e quello americano è che il Gs è nato per usi militari e soio successivamente sfruttato per quelli civili. Galileo sta nascendo, invece, con unamissione molto piui vicina agli usi civili e commerciali, grazie a competenze e finanziamenti in partenariato pubblico-privato. Sarebbe inoltre amministrato e controllato da civili, con un security board separato. Galileo ha degli importanti effetti sull'aspetto della sicurezza o della difesa. La sua importanza per tale applicazione è stata espressa anche in un documento tecnic0 8 del 2002 che mette in luce l'importanza di Galileo per far uscire l'Europa da una situazione di sostanziale dipendenza dall'America per importanti aspetti politici, sociali, ed economici. Tra questi vi è appunto quella che viene dèfinità la security dependance. Nel documento, infatti, si legge che tutti i paesi europei dalla NATO utilizzano il Gs per le applicazioni di tipo militare. Con la modernizzazione del Gs si arriverà all'implementazione di un nuovo codice militare che non sarà essere ricevuto dai ricevitori si segnale costruiti dall'industria europea. Il che equivale a dire che senza Galileo l'Europa è destinata a perdere l'autonomia della propria difesa. La visione dello Spazio quale politica strumentale all'Europa Unita è un concetto abbastanza giovane, da cui discendono delle naturali inefficienze. Lo SPASEC (Panel ofExperts in the Field of Space and Security) è stato istituito per tentare di individuare alcune di queste inefficienze al fine di conciliare, o almeno far dialogare, le esigenze civili con quelle militari. Il Programma Galileo

Problematiche e prospettive

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Tra le varie problematiche che si possono rilevare nell'implementazione della politica spaziale europea, ve ne è una legata all'esistenza di molti programmi satellitari differenti: "Nel settore spaziale militare esistono cinque programmi in Europa per i satelliti di telecomunicazioni e tre per i satelliti di osservazione, ciascuno basato su di una tecnologia propria, cosa che rende delicata un'eventuale interoperabilità. In pratica, questi sistemi sono stati realizzati senza concertazione: in nessuno dei settori militari esiste finora un sistema operativo europeo" 9 . Il risultato dei lavori dello SPASEC è un rapporto presentato dal Presidente della Commissione Prodi il 15 marzo 2004 (Research for a Secure Europe). Il rapporto nota la "wasteful duplication" degli investimenti europei nel campo della difesa ed afferma che l'assenza di coordinamento tra i singoli Stati e di un quadro di riferimento per una politica di sicurezza ostacolano il raggiungimento di soluzioni cost-effective, richiamando alla necessità dell'introduzione di un Programma di ricerca per la sicurezza europea. Non si tratta, in questo caso, di perseguire solo un preciso coordinamento tra le singole decisioni degli 'Stati Membri, ma di giungere ad un sistema di piena interoperabilità fra le infrastrutture di difesa spaziali controllate dalle Forze Armate nazionali. La progressiva europeizzazione della sicurezza, sia per quanto la piena condivisione degli intenti, sia per una maggiore integrazione tecnica, farà convergere processi diversi verso scopi comuni, con evidente miglioramento dell'efficienza degli investimenti complessivi. In questo quadro rimane tuttavia irrisolta, per alcuni importanti aspetti, la questione delle forme di collaborazione fra l'Unione europea e l'Agenzia Spaziale Europea.

C0M(2003) 226 def.: Investire nella ricerca: un piano di azione per l'Europa. Spazio: una nuova frontiera europea per un'Unione in espansione - Piano di azione per attuare una politica spaziale europea (presentato dalla Commissione) SEc(2003)1249, 11 novembre 2003.

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3 In particolare, nel Libro Bianco è detto che lo spazio contribuisce alle iniziative per la crescita comunitarie e nazionali, in quanto lo spiegamento di infrastrutture avanzate consentirà l'affermarsi di nuovi servizi a valore aggiunto. La maggior parte dell'investimento assume la forma di risorse R&S, tratte direttamente dal Quinto e dal Sesto programma quadro di R&S o dalle reti transeuropee - Linea di bilancio "Trasporti". 5 11 contributo CE presentato nella tabella 2 comprende esclusivamente le risorse tratte dai seguenti strumenti finanziari: - reti transeuropee - Trasporti (5 anni): 550 milioni di €/anno - Sesto programma quadro (2002-2006): - priorità "società dell'informazione": "per memoria"; priorità "aeronautica e spazio": 235 milioni di €; - priorità "ambiente sostenibile, trasporto ed energia": 50 milioni di €; - attività spaziali del Centro comune di ricerca: 50 milioni di €; - priorità "nanotecnologie e materiali" o "infrastrutture di ricerca" per un totale stimato di 40 milioni di E. La spesa totale è di circa 475 milioni di E. 6 Lo scenario A è quello prospettato dal Libro Verde sulla politica spaziale del 2003 e rappresenta un tasso di crescita della spesa annuale del 4,6%. Uno scena-, rio aggressivo/ambizioso, che richiederebbe una forte crescita economica per essere garantito da contributori pubblici. Lo scenario B rappresenta un tasso di crescita della spesa annuale del 3,4%, un tasso di crescita più elevato del tasso di crescita globale dell'economi,a UE. Lo scenario C ha un carattere "lineare naturale", ossia un'espansione lineare dell'attuale livello di spesa CE. Corrisponde a un tasso di crescita della spesa annuale del 2,3%. 7 Limes - Rivista italiana di geopolitica, n. 5-2004, articolo di UMBERTO GioviNE, pp. 91-104. 8 The European Dependence on Us-Gps and the GALiI.Eo, 8 febbraio 2002. 9 Libro Verde della Politica Spaziale Europea, 2003, COM (2003) 17, p. 25

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Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale a sessant'anni da Brettoii Woods di Alessandro Spaventa

el luglio del 1944, quando ormai l'esito della Seconda Guerra Mondiale appariva segnato, i Paesi alleati si riuniscono a Bretton Woods nello stato del North Hampshire negli Stati Uniti, per discutere della creazione di un sistema di istituzioni internazionali che promuova la stabilità dei tassi di cambio, la cooperazione monetaria internazionale, la crescita del commercio estero e lo sviluppo economico. Il 23 luglio nascono così il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione o lo Sviluppo, meglio nota come Banca Mondiale. A firmare gli accordi di Bretton Woods sono 44 Paesi, cresciuti poi di numero fino a divenire gli attuali 184. Gli accordi di Bretton Woods sono il frutto diretto dell'esperienza degli anni '30 del secolo scorso. La Grande Dépressione, il progressivo crollo del commercio internazionale, il crescere delle restrizioni e delle barriere al commercio, gli accordi valutari discriminatori avevano contribuito in modo rilevante alle politiche di aggressione che avevano portato allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Non era possibile permettere che ciò accadesse di nuovo. Tra il 1942 e il 1944 le due Drincioali potenze alleate, Stati Uniti e Gran Bretagna, avviano così una lunga serie di negoziazioni miranti a creare un sistema istituzionale internazionale in grado di prevenire gli errori del decennio precedente. A guidare i negoziati sono Harry D. 1 Vhite per gli Stati Uniti e John Maynard Keynes per la Gran Bretagna. I piani delle due delegazioni divergono sotto vari aspetti sia per il diverso approccio economico che per il riflettersi di interessi politici e nazionali. Alla fine a spuntarla sono però gli americani che delineano le linee fondamentali che porteranno alla creazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

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L'Autore è consulente presso la Leonardo Business sri.

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Fino all'inizio degli anni '80 il ruolo del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e quello della Banca Mondiale(BM) sono abbastanza limitati. Il Fondo Monetario mette a disposizione linee di credito ai Paesi membri che hanno difficoltà nella bilancia dei pagamenti attraverso diversi tipi di accordi mentre la Banca Mondiale si occupa soprattutto di finanziare progetti infrastrutturali nei Paesi in Via di Sviluppo (Pvs). Nel 1982, tuttavia, il quadro muta radicalmente. Nell'agosto di quell'anno il Messico dichiara la propria insolvibilità innescando una reazione a catena che investe gran parte dell'America Latina mettendo in forte crisi il sistema finanziario statunitense che con quei Paesi era fortemente esposto. Per impedire una crisi del sistema bancario statunitense il governo americano mette in piedi insieme ai governi europei un piano di salvataggio per salvare il salvabile trasformando prògressivamente i debiti dei Pvs verso soggetti privati (banche e istituti di credito) in debiti verso soggetti istituzionali, nazionali e internazionali. Perché il piano abbia successo, tuttavia, vi è bisogno di qualcuno che si prenda carico di fornire ingenti somme di capitale ai Paesi latinoamericani, primo fra tutti l'Argentina. Il soggetto per fortuna esiste, ha la disponibilità e l'autorevolezza necessaria e, particolare non indifferente, è fortemente condizionabile da Washington: il Fondo Monetario Internazionale. Il Fondo, tuttavia, non ritiene possibile aprire linee di credito così consistenti come quelle necessarie per fronteggiare- la crisi senza avere garanzie che qualcosa cambierà nella politica dei Paesi debitori e che verranno avviate riforme in grado di evitare il ripetersi di quanto accaduto. Prende forza così il concetto di "condizionalità" che lega la còncessione di prestiti all'impegno formale da parte del governo richiedente ad adempiere ad una serie di condizioni. E non si tratta di cose-di poco conto. Sull'onda della rivoluzione imposta dalla scuola di Chicago prima, e dall'avvento della- Thatcher e di Reagan poi, gli economisti del Fondo Monetario Internazionale mettono a punto una ricetta che a loro dire dovrebbe porre rimedio ai danni

Crisi del debito e avvento del Washigton Consensus

Il FMI

Thatcher, Reagan e, dirigismo dei

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causati dalle politiche dirigistiche perseguite allora da gran parte dei Pvs e diffondere finalmente i principi del libero mercato grazie ai quali quegli stessi Paesi si sarebbero potuti rimettere in carreggiata e perseguire un percorso di sviluppo sostenibile nel tempo. Si tratta di una ricetta amara basata su una serie di politiche che investono l'economia a tutti i livelli. Una ricetta per la quale viene coniato il nome di Washington Consensus e che dominerà la politica delle istituzioni di Bretton Woods fino ai nostri giorni, con risultati tuttavia scarsamente incoraggianti. Benché non vi sia un decalogo vero e proprio e pur considerando il fatto che si sia andato evolvendosi nel tempo, le politiche previste dal Washington Consensus sono piui o meno sempre le stesse, ovvero: abbattimento della spesa pubblica, svalutazione del tasso di cambio, riforma fiscale, liberalizzazioni, privatizzazioni, abbattimento delle barriere al commercio estero e agli investimenti diretti dall'estero, liberalizzazione dei mercati dei capitali, drastica diminuzione dei controlli e degli adempimenti amministrativi e burocratici. In pratica, un consistente passo indietro dello Stato e teoricamente un altrettanto consistente espandersi del libero mercato. D'altronde i Paesi in Via di Sviluppo venivano da una storia pit che decennale di politiche poco assennate. Le loro economie erano chiuse, controllate da apparati burocratici centrali che imponevano ogni sorta di controllo amministrativo, con un settore pubblico spesso dilatato oltremisura che favoriva processi accelerati di urbanizzazione, impediva lo sviluppo di un tessuto imprenditoriale, ancorché modestci, e soffocava l'economia informale a vantaggio di velleitari progetti di industrializzazione forzata. Agli effetti "alla luce del sole" già perversi di tale sistema si aggiungeva la corruzione dilagante favoritadal moltiplicarsi del sistema dei controlli. Incoraggiare l'introduzione di meccanismi di mercato e contrastare l'ingombrante presenza delle burocrazie statali quindi non era certo un'eresia. Il problema era ed è nel modo, nella sequenza e nei tempi di introduzione delle riforme. Imporre tutto é subito come spesso ha fatto il Fondo era preparare dei disastri annunciati. 14 Pvs e politiche industriali velleitarie

Ma torniamo ai Paesi in Via di Sviluppo. Negli anni '70 molti La stretta di essi si indebitano massicciamente confidando su elevati tassi monetaria d'inflazione e tassi d'interesse nominali fissi che permettevano di della Federal pagare interessi reali bassissimi. Il gioco però non dura a lungo. Reserve 1979 nel Nel 1979, a seguito della seconda crisi petrolifera, la Federal Reserve, la Banca centrale americana, per contrastare l'inflazione impone una stretta monetaria che spinge al rialzo i tassi d'interesse. A ciò si aggiunge un mutamento delle politiche di credito delle banche che, al momento del rinnovo del credito, impongono ai diversi Pvs il passaggio a tassi d'interesse variabili che tengano conto dell'andamento dell'inflazione. I Paesi che si erano indebitati negli anni '70 si trovano così a pagare tassi d'interesse reali molto più elevati che comportano pagamenti a cui non riescono a fare fronte. La situazione degenera rapidamente fino allo scoppiare della crisi nel 1982. Le politiche promosse, anche se spesso sarebbe meglio dire imposte, dal Fondo vengono abbracciate anche dalla Banca Mondiale che per tutti gli anni '80 e buona parte degli anni '90 rinunci it suo cia a perseguire un approccio autonomo, conaizionano intervento al rispetto dei programmi elaborati dalla sua istituzione gemella. La tesi a sostegno di tale politica è che è inutile intervenire su progetti' specifici o settoriali se prima non si è creato un quadro economico favorevole allo sviluppo, ovvero se non si sono messe in atto le ricette prescritte dal Washington Consensùs attraverso quelli che vengono chiamati Programmi di Aggiustamento Strutturale. Per finanziare tali programmi vengono create alcune linee di credito dedicate, sia da parte del Fondo Monetario che della Banca Mondiale: la Structural Adjustment Facility e, successivamente, la Extendend St'ructuralAdjustment Facility. I programmi di Aggiustamento Strutturale vengono inizia1mente concepiti come programmi di relativamente breve durata, dai 2 ai 5 anni. Ma il compito si rivela ben presto più lungo e più arduo del previsto. I prestiti vengono rinnovati e così anche le condizioni che li accompagnano. A rinnovo segue altro rinnovo, e poi ancora... Ci sono Paesi che ormai "aggiustano" la loro economia da vent'anni e più. Man mano che passa il tempo si estende anche il numero di Paesi coinvolti. E il Fondo acquista I.

I Programmi di Aggiustamento Strutturale e la consacrazidne degli anni '90

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sempre maggiore potere. Sono poche le economie al di fuori del mondo occidentale che possono dichiarare di non aver dovutò. accedere alle linee di credito messe a disposizione dal Fondo Monetario, con tutte le condizioni che ne conseguono. Se gli anni '80 dello scorso secolo vedono l'imporsi delle Istituzioni di Washington sulla scena internazionale, gli anni '90, almeno fino al 1997-98, ne segnano la definitiva consacrazione. La caduta del Muro di Berlino e il progressivo collasso delle economie socialiste, infatti, aprono il problema del passaggio dei Paesi dell'Est ad un'economia di mercato. Processo còmplesso, lungo e anche doloroso che còmporta la realizzazione di riforme radicali e la necessità di un imponente sostegno finanziariò. Riforme e crediti, due parole che poste una accanto all'altra sembrano un insegna luminosa in direzione del palazzo bianco che a Washington ospita il Fondo Monetario Internazionale. E da lì, infatti, partiranno torme di esperti diretti alla volta di Mosca, Varsavia, Praga, Budapest e via dicendo, con il compito di elaborare i programmi di riforme in base ai quali verranno aperte linee di credito agevolato secondo quello che .è un ritornello ormai familiare. In breve tempo il Fondo diviene il maggior creditore dei Paesi ex socialisti. Nonostante i disastri in Africa, la mancanza dei risultati sperati in America Latina e la performance tutt'altro che brillante in Russia, il Fondo acquista sempre maggiore credibilità e forza di persuasione. Il suo modello diviene "il modello". Tutto ciò che se ne discosta è considerato dai suoi economisti con disdegno se non addirittura un'eresia. Gli studi che dimostrano l'inefficacia' e i danni prodotti dai programmi imposti da Fondo Monetario e Banca Mondiale vengono liquidati come grossolani, dettati da pregiudizi e metodologicamente errati. Certo, non sempre tutto va per il meglio, ma la colpa viene attribuita all'incapacità e alla scarsa volontà dei govèrni dei Pvs di seguire le ricette prescritte dalle due istituzioni o all'elevato grado di corruzione de1le pubbliche amministrazioni locali. E se non basta c'è sempre la congiuntura internazionale, l'andamento dei prezzi dei prodotti agricoli o quello delle materie prime o qualcos'altro su cui gettare la croce. 16 La caduta del muro e le nuove economie

FMI e modelli per i Pvs

E intanto si prosegue, anzi si accelera. A cavallo degli anni '90, Apertura dei infatti, a Washington prende sempre maggiore forza l'idea che tra mercati e le riforme da prescrivere ai vari governi vi sia anche l'apertura del nuovi flussi di capitali mercato dei capitali, e in particolare i apertura ai flussi internazionali di capitale. D'altra parte si tratta di investimenti, e gli investimenti non possono certo arrecare danni, anzi portano benefici. O no? Un minimo di-buon senso avrebbe prescritto prudenza. Un conto, infatti, sono gli investimenti destinati a rafforzare la capacità produttiva di un Paese, il suo tessuto imprenditoriale. Un altro sono gli investimenti speculativi. Mentre i primi in linea di massima sortiscono effetti positivi, i secondi sono estremamente pericolosi. Possono investire un'economia con la forza 'di un onda gigante che poi si ritira improvvisamente lasciando dietro di sé solo rovine. Scenari' apocalittici fatti dalle solite Cassandre sviluppiste si dirà. D'altronde siamo negli anni '90. È iltem- ' P0 degli emerging markets, i mercati emergenti, e chiudere la porta agli enormi flussi di investimenti di Wall Street, Londra, Francoforte, Ginevra e Tokioi sarebbe: una follia. Almeno così sembrà fino a quando nell'estate del '1997'il giocattolo si rompe. Accade tutto all'improvviso o almeno così pare. Il 2 luglio 1997, La crisi: Asia dopo vani tentativi di resistenza - agli attacchi"speculativi sulla' sua .sudorientale, moneta, la Thailandia si':trova costretta a svalutare' la 1propria valu- Russia, Brasile ta. La svalutazione dovrebbe placare il fenomeno, ma ormai e tar-, di, la reazione a catena è 'innescata. In poche settimane tutte le ' monete dell'area: cadono u'na dopo l'altra come birilli. Gli' investitori di Wall Street e delle altre piazze finaniarie ,mòndiali, spaven- ' tati dalla possibilità di rimanere intrappolati nella crisi, fuggono in ordine sparso spostando in brevisim'o tempo ingenti quantità , di denaro.' La fuga degli investitori non fa altro che peggiorare la' situazione rendendo inutiiequalsiasi tentativo di resistenza. A raccogliere i cocci e tentare 'di rimetterli insieme viene chia- Gli mato naturalmente il Fondo Monetario Internazionale, 'mentre economisti il tentativo dei Giappone 'di prbmuovere un intervenio 'gestito ' de lFMi al dall'Asian Development Bank, la banca di 'sviluppo regionale, salvataggio viene respinto senza tròppi complimenti. Eppure il Giappone è, , tra i Paesi industrializzati, quello che ha maggiori interessi ad 17

una stabilizzazione dell'area. Ma Washington non vuole e così parte il settimo cavalleggeri. Prima tappa: l'Indonesia. E la situazione da grave che era diviene tragica. Il piano di "salvataggio" elaborato dagli economisti del Fondo viene progettato in modo da limitare al minimo i danni per gli investitori occidentali, soprattutto quelli americani, e ha come effetto il fallimento a catena delle banche locali e di un numero impressionante di piccole e medie imprese indonesiane. Cresce repentinamente il numero dei disoccupati, mentre aumenta il numero di persone sospinte verso la povertà. La protesta dilaga, iniziano i primi tumulti e in breve tempo il dittatore Suharto è costretto alle dimissioni. La responsabilità del Fondo è talmente palese che persino la Banca Mondiale si dissocia dalla strategia della sua istituzione gemella lanciando una serie di programmi contro la povertà per cercare di attenuare almeno in parte gli effetti della crisi. Nell'estate del 1998 tocca alla Russia. Il Governo dichiara inaspettatamente di non voler onorare i titoli denominati in rubli. E sui mercati finanziari si scatena un'altra volta il panico. Nel gennaio 1999 la crisi si espandè al Brasile generando una fuga indiscriminata dei capitali da tutte le economie emergenti. A Wall Street e dintorni sono in molti a rimetterci le penne tra cui anche la stella degli anni '90, l'hedgefindLTcM. La crisi di quest'ultimo determina addirittura l'intervento della Federal Reserve che, fatto quanto mai inusuale, per evitare l'innescarsi di una reazione a catena che potrebbe portare alla paralisi dei mercati si fa carico di coordinare un intervento di salvataggio da parte dei principali istituti creditori dell' hedgefind. La crisi asiatica segna il primo segnale di sganciamento della La crisi di Banca Mondiale dal Fondo che fino ad allora ne aveva condizio- credibilità . del FMI i. . i ..i i 1998-99, e in' nato rortemente strategie ponticne. Le crisi aei particolare quella russa, appannano ulteriormente la credibilità del FMI, credibilità che tocca i minimi storici quando nel dicembre del 2001 ad entrare in crisi è l'Argentina, altro fiore all'occhiello dell'istituzione di Washington. Le richieste di una rifor ma radicale del sistema di Brettòn Woods si fanno così sempre più pressanti e diffuse. Ad invocare un drastico cambiamento sono non più solo le organizzazioni che si occupano dei Pvs; ri-

chieste e proposte in tal senso iniziano a venire anche da numerosi economisti e centri studi internazionali e dallo stesso Congresso degli Stati Uniti. Nel 1998 quest'ultimo istituisce una commissione per esaminare le possibilità di riforma del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. La commissione, presieduta da Allan Meltzer, alla fine dei lavori presenta un rapporto nel quale propone una drastica riforma delle due istituzioni. Secondo il rapporto Meltzer il Fondo Monetario dovrebbe tornare ai suoi compiti originari, concentrandosi solo su prestiti a breve termine, mentre la Banca Mondiale si prenderebbe carico di tutto ciò che riguarda la sviluppo, passando poi gradualmente le sue competenze alle Banche regionali (Asian Development Bank, African Development Bank e Inter-American Development Bank). Non sorprendentemente il rapporto non viene accolto entusiasticamente dalle due organizzazioni di Bretton Woods e tanto meno dal Tesoro USA, rimanendo così lettera morta. Qualcosa tuttavia si smuove. Nel 1999 Fondo Monetario e Banca Mondiale decidono di imperniare i loro interventi su strategie di diminuzione della povertà, ma si tratta più di un cambiamento di facciata che di sostanza, almeno per quanto riguarda il Fondo Monetario Internazionale. In Banca Mondiale, invece, anche grazie all'azione del suo presidente James Wolfhenson e del suo capo economista, poi premio Nobel per l'economia, Joseph Sriglitz, si assiste ad un reale cambiamento di rotta. Tanto che .tra le due istituzioni .i rapporti diventano sempre. meno idilliaci, fino a degenerare occasionalmente in veri e propri scontri; L'attacco più insidioso arriva nel 2002 proprio da Stiglitz che, Il Fii e la dopo aver abbandonato polemicamente la Banca Mondiale; sua riforma pubblica un libro 1 che è un vero e proprio atto d'accusa nei confronti del Fondo Monetario Internazionale tacciandolo nel mi gliore dei casi di incompetenza e di scarsa trasparenza e nel peggiore di essere al servizio del Tesoro degli Stati Uniti. Le critiche ' non sono una novità per gli addettiai lavori. Da anni l'operato delle due istituzioni, e soprattutto quello del Fondo Monetarib veniva criticato per il suo. approccio ideologico e le sue disastrose conseguenze. E che gli Stati Uniti avessero un'influenza parti19

Le principali riforme previste dal Washington Consensus • Disciplina Fiscak Mantenimento di un basso rapporto deficit/PIL. • Spesa Pubblica Priorità dovrebbe essere data a spese in grado di offrire rilevanti ritorni economici e in grado di migliorare la distribuzione del reddito, come sanità pubblica, educazione primaria e infrastrutture. • Rforina fiscak Allargamento della base fiscale e abbattimento delle aliquote marginali. • Liberalizzazionefinanziaria Introduzione graduale di un sistema di tassi di interesse di mercato con un possibile obiettivo intermedio dato dall'abolizione di interessi preferenziali per alcune categorie di debitori e un tasso reale moderatamente positivo. • Tassi di cambio: Il raggiungimento di un tasso di cambio unico e competitivo, tale da promuovere la rapida crescita delle esportazioni non tradizionali (manifatturiero o ad elevato valore aggiunto). Il tasso di cambio dovrebbe essere gestito in modo tale da non subire eccessive fluttuazioni, così da garantire flussi certi di entrate per gli esportatori. • Liberalizzazione del commercicr Riduzione delle barriere a tariffe massime del 10-20% nel corso di un periodo di 3-10 anni, a seconda delle condizioni macroeconomiche. • Investimenti Diretti Esteri (IDE): Abolizione delle barriere che impediscono l'entrata di imprese straniere; le imprese estere dovrebbero poter competere con quelle nazionali senza limitazioni di sorta. • Privatizz.azioni: Privatizzazioni delle imprese statali. • Liberalizzazioni: Abolizione delle restrizioni all'accesso dei mercati. Eventuali limiti dovrebbero poter dipendere solo da criteri quali la sicurezza, la tutela dell'ambiente o la supervisione delle istituzioni finanziarie. • Diritti di proprietè Il sistema legale dovrebbe garantire la tutela dei diritti di proprietà senza costi eccessivi, ed estendere tali diritti al settore informale.

colare non era un mistero per nessuno. D'altronde a dimostrano c'era il trattamento preferenziale per tutti quei Paesi che avevano avuto o hanno una qualche valenza strategica per Washington: lo Zaire dell'allora ditattore Mobuto, la Turchia, la Russia postcomunista, il Pakistan, solo per citarne alcuni. Ma un conto è sentire le accuse pronunciate dalle organizzazioni non governative e un conto è sentirle da chi in quelle istituzioni occupava un 20

ruolo preminente. La reazione del Fondo non si fa attendere dando vita ad una polemica al calor bianco, medita per un'organizzazione che non è abituata a dover rendere conto del proprio operato. Ma nonostante la difesa rabbiosa molti dei punti sollevati da Stiglitz sono inconfutabili e le acque si cominciano a smuovere nuovamente. Pur rifiutando gli addebiti del Premio Nobel, il Fondo avvia qualche prima riforma del suo modus operandi. Se si tratti dell'ennesimo cambiamento di facciata o di un reale processo di riforma è ancora troppo presto per dirlo.

I STIGLITZ J.E., "Globalization and its Discontents", W.W. Norton and Company, New York, USA, 2002, pubblicato in Italia da Einaudi con il titolo "La gbbalizzazione e i suoi oppositori".

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La Confindustria: quale modello di rappresentanza di Pierfranco Pellizzetti

associazionismo di rappresentanza imprenditoriale con particolare evidenza per Confindustria; ossia il soggetto piìt significativo nel panorama della società civile organizzata italiana - a partire dal secondo dopoguerra ha vissuto diverse stagioni che ne hanno largamente influenzato le pratiche e i paradigmi organizzativi. Per questo - negli anni - si sono succedute quelle che potremmo definire "quattro generazioni" organizzative, tra loro nettamente differenziate. Stagioni e generazioni così modellizzabili all'ingrosso: La la fase costituente (1945-1964), in cui il controllo sociale è rappresenlargamente delegato ai partiti, i portatori di interesse, si rivol- tanza... gono direttamente alla classe politica e l'associazionismo svolge compiti prevalenti di coordinamento e lobby; la fase del conflitto o "laborista" (1964 - fine anni 70), in cui un amplissimo scontro sociale spinge le leadership d'impresa all'appartenenza associativa per riceverne identità e tutela; la fase consociativa (anni 80 e inizio 90), in cui l'accordo politico di vertice sterilizza il conflitto attraverso i meccanismi dello scambio (èooptazion& e gestione della spesa pubblica) e l'associazionismo persegue l'attrattiyità sviluppando l'area dei servizi e accompagnando la diffusione dell'impresa sùl territorio determinata dalle strategie di dcentramento produttivo; la fase della rete e della partnership (oggi), in cui i processi competitivi •sfuggono al controllo nazionale e acquisiano nuova centralità i territori, le pratich di governance e le strategie coalizionali tra imprese. Questo modello evideniia un dato di estremo interesse: nell'ultimo cinquantennio le dinamiche associazionistich'e si sono rivelate una sorta di' pendolo che oscillava tra due estremi,

J1Autore è consulente in Comunicazione strategica.

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due luoghi fisici del territorio nazionale rappresentati dal Centro e dalle Periferie. .e l'associaDunque, il punto archimedico del "fare associazionismo" si spostava spazialmente - di volta in volta - a seconda delle prio- zionismo rità del periodo: lobbismo e concertazione determinavano la priorità dei luoghi centrali, delle Istituzioni dello Stato; negoziazione e servizi alle imprese imponevano una presenza territorialmente diffusa e capillare. Un pendolo che ora sembra andato in frantumi. Ennesimo effetto del declino che caratterizza lo Stato-nazione quale supremo regolatore dei processi significativi. I sociologi e gli storici dell'economia parlano - al riguardo - di "crisi del fordismo". Dunque, crisi della "Confindustria fordista" e dei suoi dirimpettai. A onor del vero va detto che, alla fine degli anni 90, la Confe- Fordismo e derazione di Viale dell'Astronomia avviò un dibattito - seppure Postfordismo a livello puramente teorico - sul tema de "l'associazionismo p0stfordista". Riflessione spazzata via dall'arrivo degli hyksos damatiani e dall'oscurantismo che ne conseguì. Quando all'altezzosa benevolenza da stanchi ottimati, che caratterizzava lo stile e la cultura organizzativa confindustriale, si sostituì la vanitosa tracotanza dei parvenu, senza memoria e pudori. Sicché, se i soggetti associativi di rappresentanza trovano la propria ragione d'essere nella capacità di interpretare i bisogni degli associati e di rispondervi efficacemente, l'associazionismo di Quarta Generazione oggi si confronta con una domanda associativa profondamente mutata rispetto al passato. Una domanda che nasce dalle sfide tipiche di questa stagione del "Moderno": l'innovazione tecnologica e organizzativa; la finanziarizzazione, ossia il passaggio della riproduzione del capitale dalla sfera materiale a quella simbolico-virtuale; la saturazione di mercati (ovviamente ci riferiamo a quelli maturi dell'Occidente avanzato) che determina la crescente "centralità del cliente"; la riscoperta dei territori, nella fuoriuscita dal controllo diretto delle imprese dei fattori primari per competere (infrastrutture hard e sofi, risorse umane qualificate, fisco e Pubblica Am23

ministrazione locali, interlocutori finanziari...); la terziarizzazione che trasforma il servizio nel vero valore aggiunto percepito; il governo della catena del valore, nell'imprevedibilità delle traiettorie in primo luogo tecnologiche, che impone strategie coalizionali mirate alla partnership e alla coopetition... Nel quadro in radicale mutazione - di conseguenza - il paradigma associativo subisce profonde modificazioni. Se ieri le associazioni rappresentative svolgevano prevalentemente funzioni di lobby, supporto tecnico nella vertenzialità e assistenza nei problemi specifici degli associati ("i servizi" intesi come consulenza in materia fiscale e di ambiente, tenuta dei libri paga, internazionalizzazione etc.), oggi sono chiamate a compiti assai più complicati e - sovente - impalpabili: orientare nell'incertezza attraverso le interdipendenze e la sussidiarietà, accompagnare nello sviluppo facendo tessuto e favorendo la formazione di masse critiche tra imprese, influenzare il contesto esterno attraverso strategie relazionali inchiave di governance. Va poi aggiunto il fatto che - in questi ultimi anni - il mercato nazionale della rappresentanza ha visto crescere il tasso di competitività interna tra ivari soggetti e l'apparire sulla scena di nuovi foliowers estremamente aggressivi (cui la debolezza politica e la scarsa capacità d'iniziativa confindustriali hanno regalato loro intere praterie in cui muoversi). Valgano due casi. Il primo è quello di Confcomtmercio che, con la presidenza di Sergio Billé,: fuoriesce da uno stato di sudditanza psicologica e, grazie a un messaggio. altamente identitario quanto motivante (l'appello alla fierezza dell'essere commerciante), si dota di una strategia di grande aggressività ed insieme efficacemente combinatoria. I. cui effetti sonO' visualizzati dall'attuale composizione della stragrande maggioranza' dei vertici elettivi della Camere di Commercio italiane, guidate da coalizioni promosse dai commercianti a scapito degli industriali. Non meno significativo è l'altro caso, quello della Compagnia delle Opere che, grazie a' uno stretto rapporto di affinità e scambio con alcune amministrazioni locali guidate da esponenti del Centro-destra, ha saputo far crescere a dismisura la propria base as24 Lobbing e Governance

CommerciantiVs Industriali

sociativa e ora si presenta come un interlocutore imprescindibile nella decisione pubblica in numerose realtà territoriali. In particolare misura lombarde. Questi processi suonano campane a martello per la tradizionale egemonia di Confindustria nel sociale organizzato. Occorre dire che la Confederazione, già tendenzialmente sor- D'Amato e da ai segnali di cambiamento perché chiusa in una sorta di "or- la flessione goglioso insularismo", con la presidenza di Antonio D'Amato partecipativa ha compiuto veri e propri passi indietro. Registrati da un fatto per il passato impensabile: dal 2002 si è fermata la crescita quantitativa della base associata e sono comparsi i primi saldi negativi. A fronte,di queste minacce gravissime, il Presidente D'Amato tenta tre scommesse ad alto tasso di rischio: battere la strada del collateralismo legando ostentatamente le sorti della propria organizzazione a quelle del governo presieduto da Silvio Berlusconi, accantonare sprezzantemente le strategie concertative che avevano caratterizzato la linea politica dei suoi predecessori, in particolare Luigi Abete, perseguire un modello di governo personalistico dell'organizzazione, ispirato a una sorta di "familismo amorale" trapiantato nell'associazionismo e in cui vigono i principi della clientela e della parentela. Risultato: un disastro. Il collateralismo spinto e sfacciato ha Soluzioni e sostanzialmente azzerato la capacità contrattuale di Confindu- risultati stria e di D'Amato in particolare (che non ha portato a casa nessun beneficio da un Governo "tanto amico"); la scriteriata campagna contro l'art. 18 ha messo l'organizzazione industriale in rotta di collisione con l'intero mondo produttivo sicché, quando il Governo ha dovuto fare marcia indietro nell'imprudente disegno thatcheriano di umiliare CGIL, Confindustria è diventata il naturale capro espiatorio di quel fallimento; lo stile gestionale da cacicco imposto in Viale dell'Astronomia ha prodotto effetti devastanti sulla moralità stessa della cultura del Palazzo. 25

In altre parole, l'espulsione dei migliori che rifiutavano di sot- I segnali di una crisi tomettersi all'omaggio vassallatico e la contestuale valorizzazione di una serie di "Tigellini" capaci soio di assecondare i capricci del monarca. La destabilizzazione di istituzioni forti come il quotidiano confindustriale (Il Sole 240re) e la stessa Luiss. Ma mentre si svolgevano queste vicende, la crisi del sistema produttivo italiano procedeva a marce forzate. Ne hanno parlato e scritto ormai così in tanti che non vale la pena di ritornare su un'analisi riconosciuta quasi unanimemente come oggettiva. Un solo dato, ma lampante: L'Italia, paese che a partire dal Andamento Miracolo Economico ha legato la sua crescita alla capacità espor- del made in tativa, vede scendere la propria quota nel commercio mondiale dal 5% del 1991 al 3,6% di dieci anni dopo. Come scrive Roberto Petrini, giornalista de La Repubblica, nel suo saggio laterziano Il declino dell'Italia: "siamo stati superati nel 1999 dal Canada, nel 2000 dalla solita Cina e oggi abbiamo il fiato sul collo dell'Olanda". La Confindustria di Antonio D'Amato, davanti a una situa- . . .e crescita zione che aggrediva drammaticamente la propria base associati- del commercio va, ha reagito in due modi: da una parte negando 1 evidenza (aninternazionale cora nella sua ultima uscita pubblica - il convegno di Milano te- in estremo nutosi il 2 e 3 aprile scorsi - D'Amato ribadiva la tesi che "il ca- oriente pitalismo italiano sta attraversando una fase di passaggio, certamente difficile, ma dalla quale può uscire più forte e vitale, capace di dare un contributo ancor più significativo all'ulteriore crescita del benessere economico e del progresso civile"); dall'altra, cercando di delineare scenari cospirativi esotici, situati in prevalenza nell'Estremo Oriente. A questo punto il rigetto era inevitabile, e così e stato. Nel mese di maggio di quest'anno gli industriali italiani hanno eletto come loro nuovo Presidente Luca Cordero di Montezemoio. Leggere il senso complessivo del nuovo corso nei suoi primi passi ufficiali sarebbe indubbiamente pretestuoso. Certamente nella categoria è percepibile l'attesa di una nuova strategia di im26.

Montezemolo

e la strategia di immagine e comunicazi one

magine, corroborata dalla ben nota vicinanza personale e biografica del neo-Presidente con l'artefice della più celebre svolta comunicativa storicamente mai còmpiuta dall'organizzazione: l'avvocato Giovanni Agnelli, Presidente di Confindustria nel biennio 1974-76. Certo, ancora una volta c'è bisogno di appeal e nuovi sistemi di relazioni. Il fatto è che tutto questo è solo un aspetto di contorno. Perché i problemi sono drammaticamente strutturali e investono la stessa sopravvivenza dell'Italia come paese industriale. Poi c'è il problema del mantenimento della leadership di Confindustria nel sociale organizzato (visto che la competizione per le risorse di rappresentatività e influenza tra i vari soggetti associativi annulla le rendite del passato, aquilotto compreso). La "Nuova Confindustria" montezemoliana farà tutto questo? Cipolletta e Per ora abbiamo capito che il grande ispiratore del nuovo corso la centralità va individuato in Innocenzo Cipolletta, antico professore di Lu- della education ca Cordero di Montezemolo e gia Direttore generale di Confindustria nelle stagioni che precedettero l'avvento di Antonio D'Amato e dei suoi. Echi del Cipolletta-pensiero erano già percepibili nel discorso della corona del nuovo Presidente: il richiamo alla responsabilità sociale degli imprenditori, l'individuazione del primo motore di sviluppo nell'innovazione, la centralità data all'education. Se ne intuivano anche le ben note antipatie: verso un federalismo cialtronesco che moltiplica le strutture burocratiche pèr puri appetiti d'accaparramento, dunque costoso e - al tempo stesso - devastante; verso un localismo che produce imprese rachitiche; verso un sistema finanziario che ragiona da rentier e non è disponibile a farsi carico anche in minima parte del rischio d'impresa. Quest'ultimo tema è largamente presente nell'entrée del nuovo Quale futuro Presidente, ma con toni prudentissimi e senza alcun accenno ai dopo Cirio e recenti sfrcelli nel sistema nazionale delle imprese (da Cirio a Parmalat? Parnialat) di cui le banche hanno una responsabilità non certo secondaria: "è indispensabile un rapporto nuovo, più collaborativo e trasparente tra banche e imprese per promuovere insieme I

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Io sviluppo, anche internazionale delle aziende che lo meritano. Serve una banca che sia realmente impresa essa stessa..." Freio a mano tirato nella prima uscita istituzionale, cui faranno seguito ben altre e più coraggiose posizioni, o abile gattopardismo da establishment? Staremo a vedere. Certo - invece - è il richiamo all'istituto della concertazione, che ha ferito alcune sensibilità governative. Anche qui: vera svolta o messaggio di pura valenza simbolica? In effetti certi temi possono essere concertati e altri no. La politica dei redditi lo era, la riforma del welfare non lo è. Una strategia nazionale per il riposizionamento tecnologico sembrerebbe fuoriuscire da schemi concertati. Resta poi il costante richiamo all'autonomia. Ancora, svolta o dichiarazione di maniera? Lasciamo pure da parte il fatto che Montezemolo è anche Presidente di una Fixr in lotta per la pura e semplice sopravvivenza. Si può realisticamente vincere questa battaglia finale restando del tutto autonomi rispetto alle scelte del Potere Politico? Comincia ad apparire chiaro che no, non è possibile fino in fondo.

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La sfida interdisciplinare di Diana Rhoten

O. Wilson ha affermato che la consilience - parola re cuperata dal 600 per esprimere l'idea che piìi discipli• ne possano "fare un salto di conoscenza insieme" "per creare un comune lavoro esplicativo di base" - è il più promettente percorso verso l'avanzamento delle scienze, l'avventura intellettuale e l'umana consapevolezza. Wilson e altri sostenitori dell'indisciplinarietà contestano che rompere i confini delle scienze condurrà ad altre rotture così critiche come si trattasse della rottura del codice DNA. Oggi, alcuni analisti affermano che la scienza accademica ha già imbracciato l'idea di consilience e che una trasformazione è già in corso dal modo tradizionale di fare ricerca - omogeneo, disciplinare, gerarchico - a un nuovo approccio che è eterogeneo, interdisciplinare, orizzontale e fluido. Altri, tuttavia, suggeriscono, che la metamorfosi dell'università verso l'interdisciplinarietà va soltanto in parallelo a quegli sviluppi che si mantengono nel campo delle singole discipline. Di fatto, alcuni argomentano anche che non c'è alcuna evidenza empirica di cambiamenti fondamentali che riguardino l'intero sistema della scienza universitaria. Uno studio, finanziato dalla National Science Foundation, re- Dov'è la vera centemente condotto sui centri e programmi di ricerca interdi- interdisciplisciplinare suggerisce che c'è ragione di essere scettici. Attraverso narietà lo spettro delle istituzioni di alta educazione, molte iniziative ritenute interdisciplinari sono, nei fatti, semplici riconfigurazioni di vecchi modi tradizionali di lavoro impacchettati insieme sotto una nuova etichetta. Non certamente una accurata riconcettualizzazione e riorganizzazione di nuova ricerca.

E

I1Autore è Direttore del "Program on Knowledge Institution and Innovation" del

Social Science Research Council. 29

È facile udire, per esempio, l'ingegnere meccanico, il fisico dell'atmosfera, o l'analista di politiche pubbliche che descrivono se stessi come "ricercatori sulla base di un progetto interdisciplinare", per poi osservarli nel condurre i loro rispettivi Paesi di ricerca in stretto isolamento l'uno dall'altro. Di converso, è raro incontrare, per fare un esempio, l'economista, l'ecologista, e il decision manager che "collaborarono direttamente l'uno con l'altro sul campo" mentre formulano un nuovo modello d'integrazione pluriobiettivo. Le spiegazioni convenzionali dei fallimenti della ricerca interdisciplinare nel conseguire forza di trascinamento nell'Accademia ricordano tipicamente i seguenti fattori: la mancanza di finanziamenti per tali iniziative; l'indifferenza o l'ostilità degli scienziati a lavorare superando le frontiere stabilite; l'incompatibilità degli incentivi universitari e delle strutture premiai con le pratiche interdisciplinari. Di per sé queste spiegazioni non sono sbagliate, la nostra ricerca suggerisce tuttavia che le prime due affermazioni sono spesso eccessive (overstated) mentre la terza di fatto sottostima il più ampio contesto e la più profonda fonte del cattivo allineamento organizzativo. In definitiva, si può dimostrare che il passaggio all'interdisciplinarietà non soffre per una mancanza di attenzione estrinseca al "t " o di intrinseca motivazione al "bottom" del mondo accademico ma, piuttosto, per una mancanza di implementazione sistemica al centro Il fatto è che le Università hanno avuto la tendenza ad approcciare l'interdisciplinarietà come una tendenza naturale piuttosto che come un passaggio reale da realizzare in modo netto. Così i loro sforzi interdisciplinari sono risultati frammentari, incoerente e mai realizzati come riforme compiute dalle radici ai rami. Di conseguenza gli ampi fondi destinati alla causa dell'interdisciplinarietà e le grandi energie degli scienziati dirette a questo scopo hanno avuto ben minori risultati di quanti avrebbero potuto o dovuto avere. C'è sostanziale evidenza di notevole attenzione alla ricerca interdisciplinare in molti discorsi e in concrete allocazioni di risorse da parte di ageiizie governative, policy makers, associazioni di studiosi e amministratori di Universita. Per esempio, i rappresentanti 30 L'attenzione dei policy scientifica'

dei principali organismi federali che sostengono la ricerca (National Institutes ofHealth e National Science Foundation) sostengono che "i silos disciplinari devono essere rotti" e che "le connessioni interdisciplinari sono assolutamente fondamentali come le interfacce della scienza dove sarà più intensa l'eccitazione creativa". D'altra parte, le Accademie Nazionali come molte associazioni disciplinari (in campo geofisico, chimico, biologico per non parlare della scienza politica) sponsorizzano analisi interdisciplinari ed enfatizzano le attività interdisciplinari ai confini delle scienze o discipline rappresentate. Né mancano Istituzioni accademiche da Harvard a Howerford che proclamano la necessità di cambiamento e di innovazione in termini interdisciplinari per stimolare e rendere possibile la collaborazione per far avanzare la comprensione di problemi complessivi. Ci sono anche crescenti fondi pubblici e privati dedicati alla ricerca interdisciplinare. Degli oltre 4 milioni di dollari richiesti al Congresso per il 2004 oltre il 16% è stato destinato a quattro aree designate come interdisciplinari: biocomplessità dell'ambiente, ricerche di information technology, scienze e ingegneria monoscala, dinamiche umane e sociali. Così la WM Foundation ha sottoscritto un grant di 15 anni per 40 milioni di dollari per un programma (National Accademies Keck Futures Initiative) creato al fine di "stimolare nuovi ruoli di ricerca e per rompere le barriere concettuali e istituzionali che si oppongono alla ricerca interdisciplinare". Molte altre le iniziative orientate all'interdisciplinarietà. Fra ueste è da ricordare il Janelia Farm Research Campus lanciato nel 2002 dall'Howard Hughes Medical Institute con lo scopo di favorire una "ricerca collaborativa che solleciti lo sviluppo e l'applicazione interdisciplinare di strumenti tecnologici che taglino confini, sollecitino originalità e creatività e comportino alto grado di rischio". Secondo Peter 'Weingart l'interdisciplinarietà, la "transdiscipli- Diffuse ie rnotivaziorn narietà", e ciò che appartiene al loro mondo inclusivò, sono state •a i proclamate, richieste, acclamate e più volte scritte nei programmi ricercatori di finanziamento per oltre trent anni. Eppure nello stesso mo31

mento, la specializzazione è andata crescendo a tassi esponenziali fra i ricercatori. Mentre ciò può essere vero, c'è da notare più tensione che contraddizione fra la pressione istituzionale sul singolo ricercatore a specializzarsi e la sua intrinseca motivazione alla cross-fertilization, a fondare la ricerca attraverso i confini disciplinazi. In contrasto con il ritratto spesso stereotipo degli scienziati contrari al rischio, cocciutamente resistenti ad avventurarsi fuori dalle loro sicure case disciplinari, si possono incontrare molti ricercatori - soprattutto quelli più giovani - condotti ai confini dei loro campi da uno spostamento nei loro valori epistemologici e interessi intellettuali. Non è inconsueto udire affermazioni come queste: "io sono stato testimone dell'orribile inefficienza dell'impresa scientifica nel volgere la conoscenza verso prodotti utili così io sono venuto a questo centro interdisciplinare per tirarmi fuori da quanto stavo facendo, per fare qualcosa di grande e migliore, più intellettualmente interessante e più importante sui piano pratico". Oppure l'ingegnere chimico che riferisce "quando ho cominciato ero realmente spaventato. L'ultima volta che ho seguito un corso di biologia ero ancora a scuola. Ma la questione a cui volevo dare una riposta richiedeva l'apporto della biologia. Avevo bisogno di trovare una via per lavorare all'interfaccia fra ingegneria chimica e microbiologia oppure avevo bisogno di trovare una diversa questione. Ora, io sono in un certo modo sul confine della scienza, ma sto trattando con problemi centrali della società. Così, sono dove voglio essere". Viene rilevato come spesso avvenga una migrazione verso la ricerca interdisciplinare con ricercatori che riferiscono di essere motivati dalla prospettiva di un "arricchimento intellettuale" e dal senso di "intrinseca ricompensa". Nei centri visitati i ricercatori hanno spesso riferito di dedicare in media il 50% del tempo totale di lavoro alle attività interdisciplinari legate ai centri stessi. Questa è una sostanziosa destinazione di tempo se si tiene conto che la ricerca interdisciplinare non è sempre riconosciuta così favorevolmente o ben ricompensata come la ricerca disciplinare. In fatto, circa il 30% dei ricercatori intervistati ha riferito di rendersi conto che la loro affiliazione interdisciplinare non li aveva aiutati e anzi in alcuni casi li aveva danneggiati nella carriera. Uno ha detto che la sua posizione era "non tradizionale, altamente ricca di benefici intellet32

tuali ma completamente a rischio", mentre un altro ha confidato: "parte di me pensa che ho fatto un po' di suicidio di carriera venendo qui al centro interdisciplinare". In aggiunta agli impegni di ricerca interdisciplinare, i ricercatori riferiscono anche di fare importanti connessioni fra discipline (cross-disciplinary) sia condividendo informazioni attraverso interazioni "collegiali" sia creando insieme conoscenza attraverso strette interazioni. Secondo i risultati dell'indagine ogni ricercatore coinvolto in centri interdisciplinari ha rapporti di stretta interazione con altri 10-15 ricercatori di cui almeno fra 6-10 di altre discipline. C'è da notare un altro dato importante: mentre molte delle connessioni fra ricercatori hanno per obbiettivo delle pubblicazioni, oltre l'80% degli intervistati hanno affermato che i rapporti con altri membri dei centri interdisciplinari hanno influenzato positivamente" lo sviluppo delle loro agende di ricerca. Non è sorprendente che, nel breve termine, la diversità serva a produrre più creatività che produttività, ma è significativo come si comincia a misurare il valore dell'interdisciplinarietà a fronte della scienza per sole discipline. Dunque, attenzione e motivazione non mancano nel persegui- Nessuna implemenre l'interdisciplinarietà. Quali forze, allora, impediscono che la tazione i , ,,' promozione aeiia stessa passiaaii asseconare ci una tenaenza ai sistemica realizzare un piu netto passaggio? Riteniamo che malgrado "il discorrere sul discorso" (taiking the taik) della collaborazione oltre i confini disciplinari, molte Università falliscono nel "marciare lungo il percorso" (waiking the waik). Invece di dare applicazione agli approcci interdisciplinari da una prospettiva di riforma che vada in profondità, molte. università adottano semplicemente le etichette interdisciplinari senza adottare realmente i loro artefatti disciplinari. Il risultato è stato problematico a due livelli. Non soltanto la persistenza di vecchie strutture ha creato veri disincentivi, se non penalizzazioni, per il perseguimento del lavoro interdisciplinare. Ma, ancor più criticamente, la mancanza di implementazione sistemica per ridisegnare e non soltanto per rinominare queste strutture, e in tal modo dare attivo sostegno alla ricerca interdisciplinare, ha creato in realtà iniziative che sono intrinsecamente incapaci di 33

raggiungere gli scopi che ci si era prefissati e addirittura risultano inadatti a sostenere quanti si contava di agevolare. I centri interdisciplinari esaminati sono organizzati intorno a temi ampi prendi-tutto come il "cambio del clima globale", "impatti ambientali" o "risorse sostenibili". Ancora, essi spesso mancano di definizioni di progetto intorno alle quali le capacità e le idee dei ricercatori possono coalizzarsi. Mentre grandi temi aperti a molti propositi consentono un certo consistente ammontare di ipotesi interdisciplinari, l'assenza di obbiettivi di lavoro espliciti altrimenti noti come "oggetti di confine" (boundary objects) - finisce per essere un elemento di complicazione invece di costituire un fattore che catalizzi comunicazione e collaborazione fra le discipline. Come risultato gran parte dei centri di ricerca interdisciplinare hanno la tendenza a divenire un complesso di individui scarsamente collegati che cercano percorsi di intersezione e che sono ben lontani da essere gruppi coesi che affrontano problemi ben definiti. Questo esito è piut affine alla struttura tradizionale di Dipartimento (che è appena un terreno a disposizione comune) che un esempio di modo nuovo di produrre conoscenza. Analogamente, molti centri cominciano a creare nella fase delNon servono la proposta una sorta di "lista del bucato" degli affiliati e delle le "liste del bucato" discipline invece di selezionare sulla base dei problemi di ricerca e di identificare i contributi possibili dei ricercatori. Combinando questo atteggiamento con la tendenza a finanziare iniziative interdisciplinari di lungo termine, si ottiene che i ricercatori si ritrovano bloccati in un'affihiazione a cèntri dai quali, alla fine, non ritraggono benefici professionali e neppure, talvolta, intellettuali malgrado la motivazioni e gli interessi iniziali. Alla fine, il rischio è la frustrazione e un certo grado di ambiguità. Ancora due notazioni sono importanti. I centri di ricerca aperti all'interdisciplinarietà sembrano avere un gran numero di affiliati. Mentre ciò può avere senso come conseguenza dell'aumento delle discipline di per sé non comporta un significativo incremento di attività interdisciplinare. Le connessioni che creano conoscenza interdisciphinare rimangono poco efficaci soprattutto nei grandi centri. Solo nei piccoli centri - magari legati a network importanti - si producono connessioni efficaci. 34

Inoltre, poiché molti grandi centri sono inter-istituzionali e La internazionali, essi devono contare su infrastrutture cibernetiche comurncaper supportare la scienza interdisciplinare. Mentre tali tecnolo- zione faccia a faccia gie rendono plausibili le collaborazioni a lunga distanza, i dati indicano che la comunicazione mediata dalla tecnologia può essere un buon complemento alla comunicazione diretta faccia a faccia e non un buon sostituto di questa. Particolarmente quando si lavori attraversando differenti discipline. Oltre il 70% dei ricercatori, anche quando faccia grande uso di comunicazione mediata dalla tecnologia considera il rapporto face-to-face come meccanismo primario per mettere a comune informazioni e per creare conoscenza. Ancora, per la stragrande maggioranza, il face to fa ce dev'essere quanto piiii possibile informale. Malgrado sia necessario riconoscere l'entità ancora modesta Per dei dati e a dispetto delle numerose questioni che questi dati organizzare 1interdiscisollevano, alcune conclusioni chiare possono essere enunciate. plinarietà I centri interdisciplinari hanno, innanzitutto, bisogno non soltanto di buoni finanziamenti ma anche di una propria e indipendente collocazione fuori dei Dipartimenti accademici tradizionali. Essi devono avere principi organizzativi chiari e ben articolati intorno ai quali i ricercatori possono esser scelti in base ai loro specifici apporti teorici, metodologici e tematici verso i quali i ricercatori siano profondamente legati. Mentre un centro dovrebbe essere costituito come un organismo di lunga durata con continuità di management e di leadership, i ricercatori invece devono essere nominati per permanenze di breve periodo, flessibili, intermittenti ma intense. Contano le esigenze scientifiche non quelle amministrative. Tali nomine a rotazione consentono ai ricercatori di soddisfare le loro curiosità intellettuali senza rendere confuse le loro responsabilità professionali. Così, serviranno meglio le priorità epistemologiche della ricerca interdisciplinare. Quanto piii i ricercatori dividono il loro tempo fra centri interdisciplinari e tradizionali Dipartimenti .disciplinari, occorre far funzionare quelle che vengono chiamate.le reti della pratica (network ofpractice). Tali reti costituiscono il vasto sistema sociale attraverso il quale i ricercatori condividono informazioni 35

anche quando non producono nuova conoscenza nell'immediato o nelle forme tradizionali. Nell'attuale struttura accademica, il valore di ricerche e ricercatori è assolutamente misurato sulla base della produzione di nuova conoscenza in forma di pubblicazioni sui giornali accademici. Tuttavia, le reti di condivisione delle informazioni producono spesso risultati più difficili da far valere e prendere in considerazione ma ugualmente importanti, come le testimonianze al Congresso, le iniziative in termini di politiche pubbliche, le presenze nei media popolari, le pubblicazioni su altra stampa o altri sviluppi a lungo termine. Mentre queste sono le opportunità che spesso spingono gli individui al lavoro interdisciplinare, queste sono anche le attività più sottoapprezzate e non ricompensate nell'Accademia. Affinché, infine, i centri di ricerca interdisciplinare conseguano i loro scopi affermati di affrontare i nuovi problemi attraverso percorsi sostanzialmente nuovi, dovranno fare in modo da essere popolati di persone che sappiano operare come "stars", ovvero siano abili ad essere "persone di connessione" (connectors). E non sempre potrà trattarsi delle stesse persone. Occorrerà riconsiderare, quindi, le priorità e le prassi della formazione per preparare persone di questo tipo. I programmi non devono tendere soltanto a preparare i futuri scienziati nei metodi e nelle tecniche delle singole discipline ma nelle capacità più ampie di risolvere problemi attraverso i confini delle discipline: imparando, disimparando e re-imparando. Come supportare al 'meglio e incoraggiare queste strade nuove di apprendimento: è questa la sfida centrale con la quale l'Accademia si trova a confrontarsi. Intorno a noi tutte le scienze stanno per collidere o già collidono in misura crescente intorno ad un insieme di problemi complessi. Negli anni avvenire tutto ciò potrà portare a molte scoperte interdisciplinari. Soltanto le università che si riformeranno con successo per affrontare le sfide della ricerca interdisciplinare si troveranno al centro di quel che alcuni osservatori paragonano ad una seconda rivoluzione scientifica. Quelle che falliranno si troveranno a guardare dai bordi del campo. :StarS" e connectors

L'articolo è stato pubblicato su Items, estate 2004. 36

dibattito

Il buco nel calzino (a proposito di un articolo sulla laicità) di Giovanni Vetritto

apita a volte di leggere interventi colti, informati ed intelligenti, illuminati dal buon senso e dalla moderazione, che fanno appello alla ragione e paiono dirimere in maniera convincente una questione; ma di rimanere, ad una riflessione più approfondita,, poco convinti, di non riuscire ad aderire davvero all'impostazione proposta, per quanto saggia, per una insoddisfazione, per così dire, di stomaco, che si fa via via più ragionata. È quanto è accaduto a chi scrive leggendo il bell'articolo di Paolo Sassi sul penultimo numero di questa Rivista'. Lo scritto offre una rassegna di grande interesse del dibattito suscitato in Francia dal "Rapporto Stasi" e dalle susseguenti norme di legge, collegandolo alle polèmiche nostrane sull'ordinanza del Tribunale de L'Aquila relativa al caso del crocifisso di Ofena; e conclude lasciando intendere, senza esplicitarlo, un giudizio negativo sulla posizione francese. Un giudizio negativo che fa appello al buon senso, ma soprattutto ad una certa idea dei principi di democrazia, tolleranza e libertà; per concludere, addirittura, che i molti esponenti di confessioni religiose che hanno criticato il "Rapporto" e le nuove disposizioni sarebbero più consapevoli "dei principi del secolo dei lumi" rispetto ai laicisti ispirati da quella sorta di "religione repubblicana" da sempre forte in Francia.

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Intendiamoci. C'è molto di convincente nelle osservazioni di La laicità Sassi; e non vi èdubbioche, di primo acchitto, la posizione del dello Stato... "Rapporto", nel suo essere laicista, possa apparire tout court illiberale. 37

Eppure, come dicevo, bocciare la soluzione francese in nome . . . e la libertà di un principio liberale e ricondurre le enormi questioni sociali individuale che stanno alla base della riflessione in corso ad una elementare contrapposizione tra pretese laiciste delle istituzioni e libertà degli individui e dei gruppi organizzati (viste come un tutt'uno) ha lasciato in chi scrive una insoddisfazione ed una perplessità che vale forse la pena di provare ad argomentare. Non per giungere ad avvalorare conclusioni del tutto opposte; ma per suggerire, almeno, un giudizio più equanime sulla "filosofia francese" della laicità e insinuare un dubbio tra tante certezze sul rapporto tra liberalismo e laicismo. Innanzitutto, ciò che lascia perplessi in tanta parte della pubblicistica critica sul "Rapporto" (e, di sfuggita, anche nell'articolo di Sassi, laddove l'Autore sembra sposare le posizioni espresse, proprio in questo senso, da molti esponenti di organizzazioni religiose transalpine) è la riduzione della contesa in atto a scontro tra individui e istituzioni; tra libertà di coscienza e pretese di omologazione da parte dello Stato. In realtà, questa appare a chi scrive una impostazione ingenua Stato, e forse un po' semplicistica del problema della libertà individua- individuo e le; una impostazione che il liberalismo sembra aver superato al- Corpi intermedi meno dalla meta dell Ottocento, ovvero da quando 1 affinamento della riflessione a questo proposito ha condotto uno dei padri di quella cultura, John Stuart Mill, ad evidenziare come ogni problema di libertà veda di solito in campo non due, ma tre protagonisti: l'individuo e lo Stato, certamente; come nella riflessione liberale primigenia, ma anche quelli che siamo abituati a chiamare "corpi intermedi": famiglie, associazioni, corporazioni, ecclesìe e appartenenze di varia natura, che possono spesso conculcare le libertà individuali, pur senza disporre del monopolio dell'uso legittimo della forza riservato allo Stat0 2 Le parole di Mill suonano convincenti ed attuali: "la società può eseguire, ed esegue, i suoi propri ordini; e se li emetteerrati anziché giusti, òppure in cose in cui non dovrebbe affatto interferire, essa esercita una tirannia sociale più minacciosa di molti altri tipi di oppressione politica, giacché, sebbene di solito non sia fatta rispettare da pene molto severe, lascia minori vie di .

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scampo in quanto penetra molto più profondamente nei dettagli della vita ed assoggetta la stessa anima" 3 . Pensiamoci un istante; siamo davvero convinti che le periferie francesi siano piene di ragazze ansiose di recarsi a scuola velate, ma represse dalle pretese irreligiose e laiciste dello Stato? O possiamo problematicamente supporre che in molti casi esistano ragazze moderne e fors'anche laiche se non irreligiose (è forse questa eventualità diventata una colpa, a fronte di quella "rivincita di Dio" evocata anche da uno degli autori del "Rapporto"?) cui qualche genitore o avo, o forse perfino qualche ayathollah di quartiere, impone una vera e propria vessazione? Possiamo con tanta bella sicurezza escludere che la creazione di uno spazio neutrale sottratto alla rivendicazione di verità fideistiche possa fungere da scudo contro certe violenze di gruppo, piuttosto che porsi come elemento di tensione tra libertà di coscienza ed obbedienza civile? Questa prima osservazione ci conduce direttamente ad un secondo aspetto della questione, che può essere posto, ancora una volta, in forma sommessamente dubitativa: la storia del liberalismo è davvero configurabile come una progressiva eliminazione di ogni barriera e funzione statuale che abbia la pretesa, se non di plasmare, almeno di orientare la società e di offrire spazi di confronto neutrali? Oppure questa è solo una vulgata semplicistica e protoliberale, che già alla metà del diciannovesimo secolo non corrispondeva più all'evoluzione di tanti filoni di quella cultura politica4 È solo un caso che una simile idea del liberalismo venga riproposta, negli ultimi anni, soprattutto da un preciso filone di pensiero conservatore, nelle sue varianti ultraliberiste o anarcocapitaliste, nonostante non si ritrovi nella gran parte dei classici del pensiero liberale otto-novecentesco? In nome di questa idea riduttiva del liberalismo un certo conservatorismo sul finire del '900 ha issato bandiere che ha voluto battezzare liberali, per opporsi alle istituzioni del welfare, istituzioni, però, create invece, non a caso, proprio dai partiti liberali, nella Gran Bretagna di Beveridge come negli Stati Uniti di Roosevelt, in armonia con una riflessione schiettamente liberale che, nel frattempo, superava antiche illusioni dogmaticamente astensioniste5. La stessa lettura yiene oggi offerta da fonti reli?

Liberalismo ottocentesco...

conservatori smo di fine Novecento

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giose, che paiono volersi candidare come, interpreti della cultura liberale, riproponendo la stessa interpretazione dogmatica e riduttiva di un filone di pensiero che è invece articolato e plurisecolare, e che non può essere ridotto a quel rigido schematismo duale. Ed è preoccupante che negli Stati Uniti egoismo economico e tradizionalismo religioso si siano sposati, negli ultimi anni, convergendo proprio su questa idea dello Stato, che però nega ogni funzione liberatrice e promozionale delle istituzioni contro (vale la pena di ripeterlo) almeno un secolo e mezzo di letteratura liberale schietta. Ilpunto è stato icasticamente posto da RaIf Dahrendorf quasi vent'anni fa: "A prima vista le due tendenze liberali degli ultimi due secoli sono fra loro contrastanti. Alla liberazione della società dallo Stato è seguita la consegna della società allo Stato, e alla scoperta del mercato la sua limitazione. In seconda battuta la contraddizione non appare affatto così grossolana7 6 La storia dell'Europa occidentale conferma quella lettura. Impostesi con i mezzi giacobini di una legge Le Chapelier, le istituzioni liberaldemocratiche si sono evolute nella direzione di una emancipazione sempre maggiore della società, ma liberandone, al contempo, le potenzialità illiberali, secondo la lettura di Mil! ram mentata dianzi; per poi problematicamente ridare spazi alle istituzioni, alle loro istanze livellatrici e a volte "laiciste". .

Economia individualirziona-

lismo religioso

Ciò, inizialmente, per ragioni di maggiore eguaglianza in La tutela dei campo economico, almeno a partire dagli anni '20 del '900; "nU0v poi sempre più, al crepuscolo del secolo scorso, con funzioni diritti, diversificate, per garantire i cosidetti "nuovi diritti" 7 o diritti, di libertà di quarta generazione (dopo quelli civili, politici ed economici). Questa sorta di "mutazione genetica" della teoria liberale delle istituzioni pubbliche si ritrova, cristallina, negli scritti di John Dewey: "Questi filosofi del liberalismo additarono nelle restrizioni economiche e politiche le cause che impediscono a molti, e probabilmente alla maggioranza, un'azione volontaria .e intelligente per la quale essi possano divenire ciò che sono capaci di 40

divenire. L'insegnamento di una tale scuola liberale influenzò il pensiero e le azioni della massa, che non si preoccupò di comprendere la teoria filosofica che la sorreggeva; specialmente essa valse a spazzar via l'idea che la libertà è qualcosa di già compiuto che gli individui posseggono e ad inculcare il concetto che essa, al contrario, deve essere conquistata: e si mostrò che le possibilità di questa conquista erano condizionate al medium istituzionale in cui l'individuo vive. Questi nuovi liberali coltivarono di conseguenza l'idea che lo Stato ha la responsabilità di creare quelle istituzioni sotto le quali gli individui possono effettivamente realizzare le potenzialità che sono in loro stessi" 8 E non è casuale (al contrario, è di grande importanza), in questa difficile transizione storica segnata dalla necessità di una nuova educazione civile alla convivenza, che 1 affermazione venga uno dei maggiori pedagogisti del '900, ad un tempo grande liberale. Ancora una volta, dunque, come essere certi di escludere che una funzione attiva delle istituzioni (non ateistica né persuasiva, ma neutrale e laica) possa valere a riequilibrare il rapporto tra individui e gruppi organizzati proprio in ottica liberale, nella drammatica prospettiva dei conflitti religiosi che segnano questo inizio di nuovo millennio? Davvero il discrimine tra libertà e oppressione corre solo tra istituzioni e società, o non anche all'interno di quest'ultima? Ancora, nelle pressanti richieste di adeguare in particolare l'arena formativa essenziale dell'individuo, rappresentata dalla scuola dell'obbligo, alle forme esteriori ed al proselitismo delle ortodossie religiose (che tali restano anche se spontaneamente accettate), alle ostentazioni di crocefissi, chador, kzppah, burqa, barbe induiste e via elencando, sembra di poter leggere anche una sorta di revanchismo delle confessioni nei confronti dello spirito critico e della formazione laica, che solo vehti anni fa sembravano avere definitivamente trionfato. In altre parole, le chiese, che sul finire del secolo scorso erano scese a patti con la modernità, accettando i dettami fondamentali del libero confronto intellettuale e mutuandone forme estrinseche di matrice laica, paiono voler riproporre modi di essere ben più aggressivi nella società. .

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A costo di correre il rischio di cadere nel medesimo errore dei Don Milani leaders religiosi che si fanno interpreti del liberalismo,come non e il suo

ricordare, da laici, che un sacerdote come Don Milani, nella seconda meta del 900, estrometteva il crocefisso dalle aule di insegnamento della sua Scuola di Barbiana 9 ? E come non rammentare che il "caso Ofena" non è nato da una volontà di aggressione da parte di un fondamentalista islamico, ma da una azione, per così dire, riconvenzionale di questi, che reagiva al fatto che una sua immagine sacra, inizialmente accettata di buon grado in classe in una scuola pubblica dalla maestra, era stata poi estromessa d'autorità del preside della scuola stessa, in favore del solo crocefisso? Di nuovo in forma dubitativa, possiamo davvero essere certi che il "Rapporto", la sua filosofia, il pensiero di chi problematicamente aderisce a certe istanze laiciste, siano forme di aggressione agli spazi del sacro, manifestazione di pretese giurisdizionaliste? O non possono essere interpretati come stratagemmi di difesa degli spazi di laicità contro le rimontanti pretese di egemonizzazione della società da parte delle chiese? Come affermare il valore intrinseco del "muro bianco" nelle nostre scuole, dimostrazione dell'essere esse casa di tutti? Come difendere altrimenti, ad un tempo, tanti individui, che della laicità e del libero pensiero fanno la loro "religione privata", dal disagio del vedersi immersi di nuovo in guerre di religione che l'Occidente sembrava aver dimenticato da secoli? Infine, nemmeno le argomentazioni di matrice multiculturalista che traspaiono dall'editoriale di Sassi convincono del tutto, pur essendo quelle più rilevanti e da considerare con maggiore attenzione. Certamente, la tolleranza e la legittimazione delle forme del vivere, a noi estranee, delle diverse culture che ormai coabitano nel nostro Paese, possono essere potenti strumenti di integrazione; un modo per «scommettere sulla forza tranquilla dell accettazione come via maestra alla reciproca comprensione"! 0 Ma ciò a condizione che tutti conservino il rispetto per un minimo comun denominatore di convivenza tra diversi (un giurista parlerebbe di "principi di ordine pubblico"); a condizione di avere .

lalcismo religioso

Tolleranza, ordine pubblico e convivenza pacifi ca

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spazi realmente aperti al libero confronto civile, legittimazione reciproca, in una parola pluralismo e non pluralità di monismi (magari escludenti, aggressivi e minacciosi). L'impostazione che pare sottintesa anche da Sassi regge a condizione che sia chiaro che nei luoghi delle istituzioni ci sono spazi sottratti al monopolio della verità da parte delle religioni; che le istituzioni sono casa comune e garanzia di arbitrato tra componenti della società (fra di loro o nei confronti dei liberi individui); che i principi di laicità sono irrinunziabile ed indisponibile patrimonio delle istituzioni liberaldemocratiche nella loro evoluzione plurisecolare; che l'accettazione, da parte delle chiese, del metodo del libero confronto tra tradizioni che devono rinunziare, nell'arena pubblica, ad ogni pretesa di esclusività, sia chiara ed inequivocabile. Banalizzando al massimo, si può ben dire che chi ospita uno straniero non può pretendere di obbligarlo ai suoi costumi, che il dovere di ospitalità comporta l'accettazione dei costumi dell'altro; ma altrettanto vero è che, sempre banalmente, a casa d'altri si va rispettosi delle cose e dei costumi altrui. Il "riconoscimento", come relazione giuridica fondamentalel , è reciproco o non è. Concludendo, pare di poter affermare che un equilibrio reale tra individui, formazioni sociali, chiese e istituzioni postula la conservazione di spazi di laicità, di luoghi istituzionali in cui valga una forma esteriore che parli ad ogni individuo con il linguaggio (neutrale, e perciò inclusivo) della cosa pubblica; pena la rinunzia alla ragion d'essere stessa delle istituzioni statuali create in tanti secoli dalla democrazia liberale. Difficile dire se le soluzioni francesi vadano in questo senso o se eccedano in entusiasmi repub1icaine, difficile negare alcune ingenuità ed alcune ipocrisie evidenti nel documento; altrettanto difficile, però, è bocciarne in toto le ragioni in nome di un acritico astensionismo statuale. Ormai molti anni fa, un sussidiario scolastico di scuola ele- Rapporto mentare narrava nelle pagine di educazione civica un aneddoto Stati-Chiese ispirato ai principi di convivenza. Un viaggiatore occidentale si trova ad una cena in Giappone, dove, come è noto, è usanza to43

gliersi le scarpe per desinare. In omaggio ai costumi del luogo, il viaggiatore si toglie le scarpe e si accorge di avere un calzino bucato. Pur imbarazzato, il viaggiatore resta senza scarpe, per non offendere i costumi del luogo. Dopo pochissimi minuti, si accorge che ciascun commensale, per. sollevano dall'imbarazzo, ha forato uno dei suoi calzini. Ecco: questa a chi scrive pare una condizione essenziale di equilibrio tra istituzioni laiche e appartenenze religiose. Le istituzioni laiche si buchino pure il calzino; ma a condizione che le chiese si tolgano le scarpe.

P. SASSI, Cugini d'oltralpe, in queste istituzioni, n. 132, inverno 2003-2004, pp. l4ss. 2 La riflessione di Mi!l può essere letta in quel vero e proprio "testo sacro" del liberalismo che è On liberiy cfr. J. S. MilI, Sulla libertà [1859], Armando, Roma 1996, sin dal primo capitolo. 3 Ivi,p.48. 4 In questo senso già un classico del liberalismo italiano come G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo 119251, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 367 ss, ed in particolare p. 370, dove si affianca alla "libertà dallo Stato" la libertà "per mezzo dello Stato". 5 Sul punto, M.S. GIANNINI, Il pubblico potere, il Mulino, Bologna 1986, in particolare pp. 35 ss. 6 R. DAHRENDORF, Per un nuovo liberalismo, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 219. 7 F. MODUGNO, La tutela dei "nuovi diritti' in AA. VY., Nuovi diritti dell'età tecnologica, Atti del Convegno LuIsS, 5 e 6 maggio 1989, Giuffrè, Milano 1991, pp. 89 ss. 8 J DEWEY, Liberalismo e azione sociale [1935], La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 29. La concezione di Don Milani a proposito della religione nelle scuole può essere desunte tra l'altro da Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1976, p. 121. IO Così, in uno scritto breve ma molto problematico, P. Pellizzetti, Vietato vietare, in Critica liberale, n. 102, aprile 2004, p. 81. L'espressione rimanda al titolo di un'opera di filosofia del diritto di B. RoiIANO, Il riconoscimento come relazione giuridica fondamentale, Bulzoni, Roma 1983.

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dossier

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Riforma costituzionale o Costituzione a pézzi?

Non è questa la sede per rendere conto del dibattito dottrinario quotidiano su cosa sia una Costituzione. Si deve invece 4'ermare cosa sicuramente non è una Costitùzione. Non è documento che possa essere modificato nelle sue parti nevralgiche e nelle sue impostazioni di princzio ogni cinque anni. È perfettamente ammissibile che maggioranze di diversi orientamenti possano, sempre nel rispetto dei princzpi della Costituzione nazionale e di quella europea, cambiare la disciplina di un settore approvata dalla compagine contraria nella precedente legislatura. Sull'ambiente, sulfisco, sull'edilizia,, sulla sicurezza pubblica vi saranno diverse politiche di settore, a volte fortemente alternative, a seconda della maggioranza di governo. Tutto ciò è perfettamente compatibile con il modello parlmentare maggioritario "in qualche modo" realizzato nel nostro Paese dal 1994. Ma tutto questo presuppone un quadro di rzfrri mento di regole costituzionali chiaro e stabile. Certo, non immutabile e sclerotizzato, ma comunque condiviso da tutti gli attori istituzionali ed in caso marginalmente corretto per un periodo di tempo che copra almeno una serie di legislature. Nei regimi politici basati su un bipolarismo maggioritario, soprattutto nella fase di verifica degli equilibri (e il sistema maggioritario italiano è molto giovane da questo -

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punto di vista) è fisiologico che l'etichetta istituzionale non sia così raffinata e condivisa da tutti da impedire gli appetiti del "winner takes it all' È quindi naturale, (anche se certamente disdicevole agli occhi dell'analista), che la parte vincitrice possa avere la tentazione di rendere sempre più concreta quella "dittatura della maggioranza" che è l'espressione più compiuta di unffettivo ed efficace - almeno in teoria modello maggioritario. A questa volontà del "monarca democratico" rappresentato dal Governo e dal suo vertice si contrappone (nel modello liberai-democratico) un sistema di limitazione del potere dell'organo di decisione eletto dalla maggioranza del popolo. Le costituzioni liberai-democratiche, (non tutte le costituzioni), rappresentano quindi la formalizzazione dei due diversi fini dell'agire pubblico. Da un lato contribuiscono a definire un sistema efficace di governo che rappresenti la maggioranza della popolazione, dall'altra organizzano un sistema di check and balances (modello Montesquieu attraverso la "separazione" dei poteri, modello Westminster attraverso la "limitazione" degli stessi) per far sì che vengono realmente protetti i diritti individuali della persona dall'agire del governo stesso. E che i diversi governi al potere rispettino le fondamentali regole organizzative e procedimentali per assicurare la possibilità di mutamento del consenso politico. Per assicurare quellaolitica al plurale" che è conquista recente e non più rinunciabile. Le procedure che presiedono alla riforma della nostra Costituzione, anche se in astratto permetterebbero qualche deviazione in senso autoritario, sono tali da garantire un notevole controllo delle istituzioni sulla volontà della maggioranza. Il referendum confermativo che previene da stravolgimenti costituzionali voluti dalla maggioranza di governo senza una logica bi-partisan ne è un esempio. Ed è per questo che è bene informare, con rigore scientifico e parziale distacco dal dibattito quotidiano, sul quadro reale delle rijbrme costituzionali e dell'assetto dei poteri nel nostro Paese. Ilpresente dossier tocca alcuni nodi della rifirma istituzionale in corso. In primo luogo Vincenzo Russo analizza la dinamica della trasformazione in senso federalista dello Stato. E lancia più di un grido dall'allarme. Effettivamente il partito trasversale che vuole un indebolimento del processo regionalista è sempre più numeroso. IvIa, si ritiene, da certi punti fermi non ci si potrà discostare: la sussidiarietà è sancita a chiare lettere, come la competenza amministrativa generale in capo alle amministrazioni comunali. Siamo daccordo, molti non se ne sono ancora accorti. Ma è questo il senso della funzione della Corte Costituzionale in uno Stato che vuole orientare il proprio modello istituzionale verso i principi del federalismo. moderno. Che, si badi bene, non sono scolpiti una volta per tutte nelle costituzioni degli stati federali. Ogni prassi federalista, come dimostrò acutamente Cari Friedrich con la sua teoria 46

del "federalizing process", è diversa dall'altra. Contiene alcune caratteristiche comuni, ma per altre è completamente originale. E alla situazione attuale sembra che ilfederalismo italiano si sia spinto veramente oltre rispetto ad altre forme di decentramento europeo. Questo se verranno realizzati nella prassi i meccanismi difinanza degli enti territoriali ancora fermi ai blocchi di partenza. Il documento di Russo espone con chiarezza alcune insidie del disegno di legge costituzionale appena approvato al Senato. Come si è detto all'inizio, apporti delle scienze sociali al dibattito in corso non potranno che essere particolarmente utili nella fase referendaria che necessariamente seguirà la "doppia" approvazione del testo di rijbrma costituzionale. In tale dibattito si dimostreranno utili le osservazioni di Carlo Chimenti sul ruolo delle Camere in un parlamentarismo, quale quello italiano, che ne sta riducendo finzioni e visi bilità. Laflinzione di "mediazione parlamentare' ben descritta dall 4 utore, è fiwr di dubbio uno dei meccanismi princzali per il corretto fi4nzionamento di quei check and balances di cui si parlava all'inizio. L'analisi di Maria Romana Allegri potrebbe apparire orientata a quel dibattito quotidiano dal quale, come detto, bisognerebbe allontanarsi. Effettivamente lo scontro fra Guardasigilli e Presidenza della Repubblica sul caso Sofri è fatto di cronaca. L'Autrice prende certamente le mosse da questo spunto per poi offlire comunque un quadro esaustivo delle opinioni in materia di potere di concessione della grazia e una serie di scenari possibili proprio in relazione ai poteri presidenziali tout court. Un'analisi, anche in questo caso, quanto mai utile per ragionare di ruolo della Presi denza della Repubblica nel quadro della riforma. Non c'è, per fortuna, una ricetta perfetta per le costituzioni. Ci sono costituzioni che valorizzano le garanzie dei diversi centri decisionali, e quelle che conferiscono maggiori poteri al Governo centrale per unijbrmare e coordinare le politiche regionali. L'importante è che vengano mantenuti tempi congrui per permettere al modello istituzionale del Paese di adeguarsi alle novità. Altrimenti si rischia quella paralisi decisionale (anche e soprattutto a livello decentrato) che si voleva scongiurare attraverso il modello maggioritario. Corte costituzionale da un lato ed elettorato in sede referendaria dall'altro, costituiscono le nostre princiipali sedi di controllo del cambiamento della Costituzione. E rammentiamo il fondamentale ruolo del secondo. Come ricordava un grande maestro come Guglielmo Negri è al popolo in sede referendaria che dobbiamo la realizzazione in Italia di quelle autentiche novità legislative che caratterizzano uno stato laico e moderno: la legge sul divorzio e quella sull'interruzione volontaria della gravidanza. 47

Anche la prospettiva comparata ci ricorda come in due modelli. di processo federalista classico, quale quello statunitense e quello confederale svizzero, il ruolo del referendum, soprattutto a livello locale, sia notevolissimo. Ci auguriamo comunque che, a parte il corretto utilizzo dei controlli istituzionali sull'operato della maggioranza, sia la stessa a saper. mantenere un galateo costituzionale, che è poi garanzia dei. suoi diritti quando dovesse ritrovarsi legittima opposizione (mr). . .

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Declino delle Camere nel parlamentarismo maggioritario italiano di Carlo Chimenti

ome è noto, il regime parlamentare si distingue dalle altre due forme di governo tradizionalmente considerate, in base al principio di separazione dei poteri, come principali nelle democrazie liberali (quella presidenziale e quella direttoriale) per il possesso di alcune caratteristiche peculiari. Anzitutto, il ràpporto di fiducia e di responsabilità politica che lega il Governo al Parlamento, e che conduce ad un'applicazione "elastica" della separazione dei poteri, tale da consentire al Parlamento di fare e disfare a suo piacimento il Governo, per cui quest'ultimo appare in via di massima subordinato alle Camere; in secondo luogo, la presenza di un Capo dello Stato, titolare di funzioni di garanzia ma estraneo all'indirizzo politico di maggioranza, e irresponsabile politicamente quale che sia la fonte (elettorale o no) della sua legittimazione; inoltre, la diretta derivazione popolare del solo Parlamento fra i vari altri organi centrali dell'ordinamento costituzionale (Governo,Capo dello Stato, Corti giudiziarie); infine, la durata in carica senza scadenze predeterminate del Governo, alla quale fa riscontro per il Parlamento la previsione di una durata massima - la legislatura - insieme con la possibilità del suo scioglimento anticipato ad opera del Capo dello Stato.

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IL PARLAMENTARJSMO MAGGIORITARIO FRA LE VARIANTI DELREGIME PARLAMENTARE

È noto altresì che, nella plurisecolare esperienza del regime parlamentare, numerose varianti allo schema organizzativo testè accennato sono state escogitate nei diversi paesi - tenendo conto soprattutto del sistema elettorale

L'Autore è professore di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Stùdi Roma Tre. 49

adottato da ciascuno di essi e del rispettivo sistema partitico, che agli effetti del funzionamento pratico di qualsiasi forma di governo si rivela essenziale allo scopo di garantire, nel modo più adeguato alle singole situazioni, quella governabilita fatta di stabilita e di efficienza dell esecutivo che 1 evoluzione spontanea dello schema stesso, la sua deriva naturale, cioè il parlamentarismo "consensuale" o "assembleare", finisce per trascurare. Si tratta infatti di un'evoluzione in cui il primato del Parlamento su tutti gli altri organi - riconosciutogli in quanto diretta espressione della sovranità popolare, e suffragato in genere da leggi elettorali proporzionalistiche - non soltanto tende a fare del rapporto di fiducia lo strumento che pone il Governo alla mercè di occasionali maggioranze assembleari, così da renderlo incapace di perseguire linee politiche coerenti; ma tende anche, di fatto, a consentire al Capo dello Stato l'esercizio del potere di scioglimento anticipato dalle Camere - quale estremo rimedio dinnanzi al rischio di ingovernabilità - unicamente in caso di accordo con la maggioranza parlamentare: cosicché, in ultima analisi, la sovranità popolare finisce per convertirsi in sovranità del Parlamento. La più celebrata di tali 'varianti è, come si sa, il c.d. "modello Westminster", cioè l'attuale parlamentarismo britannico, comunemente definito "maggioritario" in quanto imperniato sull'elezione maggioritaria, in collegi uninominali a turno unico, della Camera dei Comuni, dove sogliono registrarsi maggioranze numericamente cospicue e politicamente coese. Modello nel quale, peraltro, gli elementi caratteristici del regime parlamentare come sopra riassunti - a cominciare dal rapporto di fiducia, dove si colloca l'epicentro della deriva assembleare - appaiono largamente modificati, giacchè il Governo intrattiene bensì un rapporto di fiducia e di responsabilità con la Camera dei Comuni, che perciò formalmènte conserva il potere di votarlo e di abbatterlo. E tuttavia, nella realtà delle cose la situazione è diversa perché detto rapporto è affiancato, anche se non sostituito, dal voto dei cittadini che, nel momento in cui eleggono i parlamentari, decidono anche a chi affidare il Governo; e fanno così valere la responsabilità dei governanti uscenti (qualora promuovano la vecchia opposizione), ovvero li premiamo (qualora confermino la vecchia maggioranza), realizzando con ciò la c.d. "alternanza" fra avversari politici parimenti legittimati a sedere nel Governo. Il quale, dal canto suo, viene per di più a profilarsi come "comitato direttivo" della maggioranza parlamentare (dominus, fra l'altro, dell'ordine del giorno delle Camere) grazie alla convenzione, consolidata e unanimemente accettata, secondo cui a guidare il Governo postelettorale, cioè Premier di esso, sarà il leader del partito che vince le elezioni, il quale 02

ne deciderà anche la composizione. In queste condizioni, mentre la caduta dell'esecutivo per effetto di un voto parlamentare di sfiducia diventa di fatto un'ipotesi remota, perché difficilmente la maggioranza parlamentare vorrà abbattere il proprio "comitato direttivo", il potere di sciogliere anticipatamente la Camera dei Comuni in caso di crisi governativa passa convenzionalmente, assieme a numerose altre prerogative regie, dalla Corona al Premier (o meglio: alla maggioranza parlamentare, nella misura in cui il Premier, quale leader del partito che la costituisce, ne impersona gli orientamenti fondamentali). Cosicché la possibilità che la Camera dei Comuni sia chiamata a votare la fiducia ad un Governo successivo a quello postelettorale si limita all'ipotesi, a sua volta altamente improbabile, di crisi governative che non portino ad elezioni anticipate; vale a dire di crisi in qualche modo assecondate dal Premier il quale, pur "tradito" dalla sua maggioranza, preferisca abbandonare pacificamente il potere senza ricorrere allo scioglimento della Camera che lo ha sfiduciato, e senza sottoporre così al giudizio degli elettori le cause della crisi. Altra variante, anch'essa assai celebrata, è quella del semipresidenzialismo, che in effetti è una forma di governo mista di elementi presidenzialistici (elezione popolare di un Capo dello Stato compartecipe del potere esecutivo) e parlamentaristici (rapporto di fiducia e di responsabilità politica del Governo verso il Parlamento), di cui è francese il maggiore esempio, la quale - aldilà della denominazione - può senza arbitrio essere considerata come variante del parlamentarismo, in cui la deriva assembleare su ricordata è contrastata, per un verso, da un rapporto di fiducia e di responsabilità fra il Governo ed il Capo dello Stato, al quale spetta la nomina dei Ministri, che bilancia quello fra Governo e Parlamento; e per un altro verso dalla sottrazione del Capo dello Stato a qualsiasi condizionamento parlamentare, in conseguenza della sua elezione diretta da parte dei cittadini. Sempre come varianti del parlamentarismo, analogamente finalizzate a frenarne 1 assemblearismo potenziale, vanno ricordati i vari tentativi di razionalizzazione" deP rapporto di fiducia, fra cui il "Cancellierato" tedesco, che comprende fra l'altro l'istituto della c.d. "sfiducia costruttiva" - ossia l'impossibilità per il Parlamento di votare la sfiducia al Governo senza indicare contestualmente un nuovo Cancelliere - e la soluzione spagnola, largamente mutuata dal modello tedesco; nonchè la soluzione svedese, in cui a fronte del potere parlamentare di votare il Governo si pone quello del Governo di sciogliere anticipatamente, a sua discrezione, la Camera elettiva, indicendo elezioni straordinarie entro tre mesi dallo scioglimento: potere che il 51

Governo mantiene anche a fronte di un voto parlamentare di sfiducia (purchè questo non abbia aperto la strada alla formazione di un nuovo Governo), unitamente alla facoltà di decidere nel giro di una settimana se dimettersi oppure indire nuove elezioni. Infine, è da segnalare la variante "neoparlamentare" (in cui può vedersi per qualche aspetto una radicalizzazione del maggioritario inglese). che nella sua prima sperimentazione pratica, avvenuta in Israele, prevedeva - in virtù di una disciplina costituzionale approvata nel 1992, ma abrogata nel 2001 dopo una breve e non felice esperienza - l'elezione popolare non già del Presidente della Repubblica, come in Francia, ma del Premier, unitamente ad un rapporto di fiducia fra quest'ultimo e la Camera elettiva caratterizzato dalla clausola "simul stabunt simul cadent": cioè dalla regola in base alla quale il voto parlamentare di sfiducia comporta, assieme alle dimissioni del Premier, lo scioglimento della Camera; e quindi la contestuale rinnovazione elettorale di entrambi, fatte salve alcune ipotesi di "elezione speciale" del solo Premier.

L'APPRODO MAGGIORITARIO DEL NOSTRO PARLAMENTAPJSMO E LE SUE CONSEGUENZE

Sulla base di queste premesse, si può notare che da noi la forma di governo parlamentare - sancita sia dall'art. 94 Cost., dove si afferma che il Governo nazionale deve avere la fiducia delle Camere, sia, con formule analoghe, dagli Statuti regionali e dalla normativa sugli Enti locali - ha fatto registrare, col passare degli anni, una notevole evoluzione. Infatti, dopo essersi a lungo tradotta in un parlamentarismo "consensuale" - costruito (al centro come in periferia) su un sistema partitico altamente frammentato, anche a causa dileggi elettorali proporzionalistiche, e caratterizzato (ma solo a livello centrale) dalla presenza di partiti non legittimati a governare perché reputati "antisistema"— la nostra forma di governo ha cominciato a virare ovunque in senso maggioritario a seguito di modifiche della normativa elettorale introdotte nei primi anni 90 sotto la spinta della diffusa insoddisfazione prodotta da una crescente ingovernabilità, oltrechè (relativamente alle Assemblee nazionali) di due tornate referendarie antiproporzionalistiche. Cosicché, mentre a livello regionale e locale è stata configurata una soluzione di tipo "neoparlamentare", a livello nazionale si sta delineando un parlamentarismo di tipo Westminster, in entrambi i casi con la possibilità che tutti i partiti si alternino al Governo, dovuta alla scomparsa di quelli antisistema.

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A livello regionale e locale, pertanto, si rileva anzitutto l'elezione popolare del Capo dell'esecutivo (Sindaco o Presidente della Giunta regionale o provinciale) assieme a quella dei Consiglieri regionali e locali. Dopodiché, nel rapporto di fiducia fra la Giunta ed il Consiglio non risulta più compreso il "conferimento" della fiducia stessa - che è assorbito dall'elezione popolare del Sindaco o del Presidente, al quale spetta la nomina della rispettiva Giunta -, ed il rapporto si esaurisce nella possibilità per il Consiglio di "revocare" la fiducia mediante un voto di sfiducia; il quale però, come vuole lo schema neoparlamentare, nel momento stesso in cui ottiene le dimissioni della Giunta e del suo Capo, comporta anche lo scioglimento del Consiglio in applicazione del principio che vede Consiglio e Giunta indissolubilmente legati: "simul stabunt simul cadent". Principio del quale peraltro la conseguenza è, assieme ad una drastica rarefazione delle crisi, il fatto che i nostri elettori non vengono chiamati soltanto a scegliere il Capo dell'esecutivo, ma anche a dirimere qualsiasi contrasto politico che costui non riesca a superare nel corso della legislatura, e che lo induca a dimettersi, perché - a differenza del neoparlamentarismo israeliano, che prevede qualche eccezione all'automatico scioglimento del Parlamento in caso di dimissioni del Governo, e cioè "elezioni speciali" per quest'ultimo solamente - nel nostro neoparlamentarismo regionale e locale nulla di simile è stabilito, e il "bagno elettorale" è inevitabile. A livello nazionale, invece, siamo approdati ad un parlamentarismo maggioritario che, a partire dalle elezioni del 2001, si sforza di imitare sempre più il modello Westminster. Infatti, su un sistema elettorale che non ha del tutto abbandonato la proporzionale, ma è divenuto prevalentemente maggioritario (poichè i tre quarti dei parlamentari sono eletti in collegi uninominali ed in unico turno, come in Gran Bretagna), si è ufficialmente inserita, con le elezioni del 2001, la designazione popolare del Presidente del Consiglio, grazie alla predisposizione di schede elettorali nelle quali sono stampati i nomi dei candidati alla guida del Governo, collegati a ciascuno dei partiti (o delle coalizioni) in competizione. L'imitazione del modello Westminster è però tuttora approssimativa, anche perché la designazione popolare del Presidente del Consiglio, conseguita in Gran Bretagna per effetto della convenzione che vuole come Premier il leader del partito vincitore alle elezioni, permette un'elasticità di comportamenti nello sviluppo delle vicende politiche che l'indicazione dei candidati nella scheda potrebbe non permettere (ad esempio, la sostituzione del Premier con un altro leader del partito di maggioranza, all'infuori di nuove elezioni, come nel 53

caso Thatcher/Major nel '90). Senza contare poi la differenza che passa tra il sostanziale bipartitismo inglese e il nostro esasperato multipartitismo, con tutte le implicazioni che ciò comporta, a cominciare dalla formazione di Governi di coalizione, a fronte della tradizione inglese di Governi monopartitici. E tuttavia non c'è dubbio che, sul piano dei risultati, le soluzioni offerte dal parlamentarismo italiano degli ultimi anni presentano, sia a livello centrale che ai livelli periferici, notevoli affinità col modello inglese. Anche a non considerare la (talvolta) netta prevalenza numerica della maggioranza sull'opposizione - alla quale si è peraltro aggiunta (a livello nazionale dal 2001, anche da prima a livello periferico) una coesione della maggioranza davvero inusuale per il nostro costume, che ha consentito, fino a più della metà della legislatura in corso (la 14a), di far passare in Parlamento senza eccessive difficoltà la massima parte dei progetti governativi, compresi quelli più osteggiati dall'opposizione - bisogna infatti ammettere la sostanziale analogia venutasi a creare sotto il profilo della legittimazione del Governo ed in ordine al ruolo delle Assemblee. Perché effettivamente tutte quelle soluzioni comportano, a somiglianza del modello inglese, la "legittimazione diretta" del Governo - come scrive Frosini ("Forme di governo e partecipazione popolare", 2002) per differenziare queste fattispecie da quelle a "legittimazione indiretta", dove gli elettori non scelgono i governanti, ma solo i parlamentari; che a loro volta sceglieranno i governanti - ed un forte depotenziamento delle Assemblee. Attenzione, però: non è tanto la scelta popolare del Governo a depotenziare le Assemblee, quanto il permanere della relazione fiduciaria fra Parlamento e Governo (assieme, naturalmente, alle caratteristiche del sistema partitico sottostante). Lo dimostra il presidenzialismo statunitense, dove a fronte di un Presidente eletto dal popolo - e dunque di un Governo a legittimazione diretta - si registra, in assenza di relazione fiduciaria fra Presidente e Congresso (e di una solida disciplina di partito simile a quella britannica), il Parlamento più forte del mondo (come conferma G. Caravale "Il Governo legislatore", 2004). Ecco perché a me pare che oggi per le nostre Camere si palesi - come anche per i Consigli regionali e locali - una netta perdita di peso politico rispetto a quanto si registrava durante il lungo periodo in cui abbiamo avuto un parlamentarismo consensuale; una perdita che mi sembra appropriato qualificare come vero e proprio declino, in sintonia con la terminologia adottata in Gran Bretagna dove si parla di "eclisse" del Parlamento. Declino causato essenzialmente dal trasferimento dai rappresentanti ai rappre54

sentati, cioè dai parlamentari ai cittadini elettori, del potere di scegliere i governanti, e dal conseguente potenziamento di questi ultimi a scapito dei parlamentari. A chi obietta che, in realtà, non c'è stato né declino né trasferimento, perché durante il parlamentarismo consensuale erano i partiti e non i parlamentari a prendere le decisioni, si può rispondere in due modi: anzitutto rilevando che, allora come ora, i partiti erano presenti in Parlamento con i propri massimi esponenti, sicché è azzardato affermare che le scelte di costoro venivano compiute in veste di militanti di partito anziché di parlamentari. E poi osservando che, in quanto il consensualismo lasciava all'opposizione qualche margine di condizionamento del Governo, questo condizionamento finiva per risolversi in potere del Parlamento nei confronti dell'esecutivo; in specie nel senso che, all'epoca, le scelte politiche approvate dalle Camere erano bensì predisposte come ora dai Governi, ma da Governi che derivavano la propria legittimazione esclusivamente dalla fiducia, cioè dal consenso delle Camere, per cui l'approvazione parlamentare veniva ad assumere il carattere di decisione effettiva - o meglio: di "codecisione" col Governo - come confermano le numerose e spesso rilevanti modifiche che le proposte governative subivano durante l'iter parlamentare. Adesso invece la situazione è mutata: poiché infatti il Governo può vantare un'autonoma legittimazione derivante dalla designazione popolare del Presidente del Consiglio, le scelte da lui compiute - forti di questa legittimazione - tendono ad essere sottoposte alle Camere non già per una vera e propria approvazione, ma piuttosto per una ratifica, che di fatto consente tutt'al più modifiche marginali di esse. Certo, affinché questo accada davvero occorre che la maggioranza parlamentare resti compatta intorno al "suo" Governo, condividendone le iniziative; ma fra gli scopi della composizione prevalentemente maggioritaria delle Camere e della indicazione nelle schede elettorali dei candidati alla guida del Governo c'è proprio quello di assicurare simile compattezza. Dalla quale perciò discende naturaliter che, circa le proposte governative, il Parlamento è chiamato ordinariamente ad aderire, più che a decidere, stante che esse interpretano la volontà della maggioranza. Da questo punto di vista si potrebbe anzi sostenere che, dunque, il declino accennato poco fa non investe tanto il Parlamento, quanto l'opposizione, riconoscendo però nello stesso tempo che nel parlamentarismo maggioritario il Governo diventa il "luogo istituzionale" della maggioranza, mentre il Parlamento diventa - con tutto ciò che ne consegue in ordine alla determinazione e alla concretizzazione delle scelte politiche - il "luogo istituzionale" dell'opposizione. 55

IL DECLINO DELLE CAIvIERE: INDICI ED OBIEZIONI

Purtroppo manca, nel panorama delle statistiche parlamentari, quella che consentirebbe di misurare le differenze quantitative nell'esercizio del potere di emendamento fra legislature - diciamo così - maggioritarie (successive alla riforma elettorale) e legislature consensuali (anteriori alla riforma). Ma si tratta in verità di una statistica che, quand'anche fosse disponibile, non sarebbe di per sé decisiva, perché non basterebbe il dato quantitativo a confermare o smentire il mutamento sopraccennato, all'uopo occorrendo tenere in conto anche la rilevanza specifica degli emendamenti approvati o respinti: la quale però mal si presta a valutazioni oggettive, cioè indipendenti dal variare dei contesti politico-legislativi e dei soggetti chiamati a valutare. Più significativa riguardo al mutamento stesso appare invece la comparazione fra legislature consensuali e maggioritarie a proposito del ricorso al voto di fiducia cui il Governo è costretto per richiamare all'ordine la maggioranza quando vede in pericolo le proprie proposte, insidiate dagli emendamenti dell'opposizione o della stessa maggioranza. È evidente infatti che tale ricorso denota, quanto più è frequente, una maggiore forza nel Parlàmento rispetto a quella che esso esprime quando al Governo non occorre servirsi della questione di fiducia, o può servirsene più raramente. E allora, se prendiamo due legislature di eguale durata effettiva (5 anni), la ba e la 13, possiamo vedere che nella 10' (dall'87 al '92, dunque una legislatura consensuale) il Governo ha chiesto il voto di fiducia 40 volte, mentre nella 13 (dal '96 al 2001, e dunque una legislatura maggioritaria, anche se molto approssimativamente), quattro in meno, cioè 36. Dopodiché la 14a (che inizia nel maggio 2001 e segna un'attuazione meno approssimativa del parlamentarismo maggioritario) il trend riduttivo prosegue: ad oltre metà della legislatura - cioè i 3/5 - il Governo si è servito della fiducia solo 18 volte. Resta quindi confermata la maggior forza politica con cui i Governi legittimati direttamente dal popoio presentano le loro proposte al Parlamento, e le sostengono di fronte alla stessa maggioranza oltreché all'opposizione, assieme al peso politico inferiore del Parlamento rispetto al Governo, che inerisce al parlamentarismo maggioritario. Vero è che ultimamente il Presidente del Consiglio Berlusconi, lamentando che il Regolamento della Camera non garantisce - a differenza di quello del Senato una ratifica sufficientemente veloce e tranquilla delle iniziative governative, ha prospettato l'esigenza di qualche modifica mirata di esso; ma sta di fatto che a tali lamentele il Presidente della Camera Casini ha potuto obiettare 56

che esse avevano un bersaglio sbagliato, visto che quando la maggioranza è compatta i Regolamenti "non fanno né caldo né freddo" (v. La Repubblica 25/03/04), cioè non ostacolano affatto l'approvazione parlamentare dei progetti goernativi, esattamente come accade alla Camera dei Comuni. E se viceversa l'approvazione diventa laboriosa, allora il problema non sta nei Regolamenti, ma semmai nel Governo, incapace di dirigere senza forzature la sua maggioranza, come dovrebbe in un quadro maggioritario: ipotesi del resto suffragata dalla minaccia, clamorosamente proferita dal Presidente del Consiglio il 29 maggio 2004, di portare a termine la legislatura "governando a colpi di fiducia" (anche se ciò, qualora accadesse realmente, denuncerebbe pii che altro una crisi radicale di applicabilità nel nostro contesto del modello Westminster, che non tollera l'endemica infedeltà della maggioranza verso il Governo). C'è in verità chi sostiene che il declino delle Assemblee circa la determinazione e la concretizzazione delle scelte politiche verrebbe ad essere compensata da un incremento della funzione di controllo, in base alla formula "la maggioranza governa e l'opposizione controlla, in attesa di andare a sua volta a governare", nella quale si riassume la seducente filosofia dell'alternanza della forze politiche al potere. Senonchè, a pensarci bene, non è facile convincersi che il controllo parlamentare possa davvero crescere, anziché deperire assieme alla funzione di indirizzo politico ed a quella legislativa, in Assemblee come quelle maggioritarie, dove l'opposizione è numericamente indebolita. Ed in realtà, il declino delle Camere si percepisce anche sul piano del controllo dal momento che, mentre in passato la minore compattezza della maggioranza governativa lasciava qualche possibilità alla formulazione di censure nei confronti del Governo da parte di maggioranze "trasversali" disposte a recepire qualche critica dell'opposizione, attualmente invece la maggioranza non solo fa quadrato intorno al Governo, avallandone i comportamenti o quanto meno giustificandoli (come è naturale, se davvero essa lo riconosce quale proprio. "comitato direttivo"); ma si spinge ad utilizzare il controllo parlamentare, ed in particolare il potere d'inchiesta, come arma da rivolgere contro l'opposizione andando ad indagare, ad esempio, sulla azione di governo svolta da quest'ultima nella legislatura precedente, quando al potere c'era lei, assumendo così una posizione di subalterno fiancheggiamento del Governo in tutti i casi in cui ad esso potrebbe risultare imbarazzante giustificare il compimento di indagini. Alle Caffiere, dunque, resta praticamente soltanto il rùolo di palcoscenico della contesa politica fra Governo e opposizione; ruolo che d'altronde non solo è 57

insidiato dalla concorrenza dei talk-show televisivi, ma che più in generale riesce ad essere esercitato efficacemente soltanto se e in quanto i mass media diano conto ai cittadini (i quali in genere non leggono i resoconti parlamentari) di ciò che accade nei recinti delle Camere. Devo ammettere che la tesi del declino del Parlamento (e delle Assemblee politiche in generale, perché - ripeto - altrettanto si può dire a proposito dei Consigli regionali e locali, visto che il trasferimento dalle Assemblee ai cittadini del potere di scegliere i governanti è anche più ingente a questi livelli), non e una tesi generalmente condivisa. Barbera ( I parlamenti 1999) sostiene, ad esempio, quel che ho già accennato, ossia che il declino è soltanto apparente perché durante il parlamentarismo consensuale le nostre Camere non erano affatto decisionali (o centrali come allora si diceva) dal momento che le vere decisioni le prendevano i partiti che facevano parte della coalizione governativa: a cominciare da quelle circa le crisi di Governo, che si aprivano e si chiudevano nelle sedi dei partiti anziché nelle Aule parlamentari, anche se qui ricevevano poi il timbro dell'ufficialità. Manzella dal canto suo ("Il Parlamento", 2003) non nega che il ruolo del Parlamento si sia modificato, negli ultimi anni, ma anzichè riconoscere in questa modificazione un declino preferisce vedervi gli estremi di una "nuova centralità" che non attiene più al merito delle decisioni, ma al metodo della loro adozione, e parla quindi di "centralità processuale" che le Camere conservano nelle istituzioni. Lo stesso Manzella peraltro ammette (v. La Repubblica 24/3/04) che nel nostro parlamentarismo maggioritario la funzione di "contrappeso" istituzionale al Governo, che dovrebbe spettare all'opposizione parlamentare secondo lo schema britannico, non riesce ad essere efficacemente esercitata a causa della mancanza nel contesto nazionale di un adeguato sostegno popolare e mediatico; il che, nel segnalare l'insufficienza delle Camere a fronteggiare da sole, senza aiuti esterni, il Governo, sottolinea implicitamente un dato saliente del loro declino: in passato infatti non era così, o perlomeno non lo era in misura tanto vistosa. Ilfatto è che rapidità e coerenza dell'azione di Governo, ossia l'efficienza, e consenso parlamentare all'azione stessa sono aspirazioni tanto giustificate quanto difficili da conciliare. Per cui ogni soluzione di compromesso. fra loro non solo è opinabile, ma è anche destinata fatalmente a scontentare; o meglio a soddisfare soltanto in parte, entrambe le aspirazioni. E quindi ad avviare il Parlamento lungo un percorso che apparirà, a seconda del prevalere dell'attenzione per l'efficienza governativa o per il consenso ad essa, dretto verso il declino del Parlamento ovvero verso il suorafforzamento. Per58

ché in realtà, all'infuori di una rigida separazione dei poteri, di stampo presidenzialistico nordamericano, l'accoppiata "Governo forte - Parlamento forte" è unossimoro: quando Parlamento e Governo condividono, sostanzialmente, il medesimo ambito di competenze, e dunque lo esercitano in condominio", è inevitabile che al potenziamento dell'uno - cioè dell'aumento delle sue "quote condominiali" - corrisponda l'indebolimento dell'altro, e viceversa. È solo se sono chiamati a compiti diversi, e non confusi dal congegno della fiducia, che Parlamento e Governo possono essere forti insieme. Ed è in questo senso che riassumere il modello Westminster, come pure il neoparlamentarismo, in termini di "presidenzializzazione" della forma di governo, tenendo conto soltanto della legittimazione popolare dell'esecutivo, sarebbe fuorviante perché invece - per paradossale che possa sembrare - è solo separando la propria sorte e le proprie competenze da quelle dell'esecutivo, e dunque recidendo qualsiasi legame fiduciario, che il legislativo può scansare quel "viale del tramonto" verso il quale altrimenti lo spinge la diffusa aspirazione a passare - come scriveva M. Duverger - dalla democrazia dell'impotenza (consensualistica) a quella della decisione (maggioritaria), grazie al potenziamento di un esecutivo destinato a diventare il centro delle istituzioni, in quanto organo più ristretto, omogeneo ed efficiente.

LA MEDIAZIONE PARLAMENTARE COME GARANZIA DI LIBERTÀ E DEMOCRAZIA

Comechessia, quella del declino del Parlamento può perlomeno essere considerata un'ipotesi di lavoro che, in quanto tale, merita di diventare oggetto di riflessione. E allora, se diamo per ammesso che il parlamentarismo maggioritario, quale si sta profilando da noi, implichi il declino delle Assemblee, la prima domanda da porsi è: che fare dinanzi a questo declino? Come fronteggiarlo, salvaguardando la sopravvivenza di livelli accettabili di libertà e di democrazia, se è vero che tale sopravvivenza è legata strettamente - come insegna la storia - alle vicende del Parlamento? La domanda si pone, naturalmente, non già perché in astratto il parlamentarismo maggior ritario sia destinato a mettere in crisi libertà e democrazia: sappiamo benissimo che così non è, la Gran Bretagna lo insegna. La domanda si pone in relazione al nostro specifico contesto. Riguardo al nostro paese, infatti, mi pare che il sistema politico che si è andato consolidando (quanto meno a livello nazionale) dopo l'introduzio59

ne negli anni '90 dileggi elettorali prevalentemente maggioritarie, sia riassumibile con la formula di G. Sabatucci, che parla (nel suo "Il trasformismo come sistema", 2003) di "bipolarismo polarizzato". Formula nella quale riecheggia "multipartitismo polarizzato" di G. Sartori con cui era stato a lungo descritto il sistema precedente alla riforma elettorale, e dove l'aggettivo "polarizzato" stava a significare l'abissale distanza ideologica - al limite dell'incomunicabilità - fra alcuni dei partiti del sistema. Ed è una formula, quella di Sabatucci, che vuole per l'appunto sottolineare quanto i due poii emersi dalla ricordata riforma elettorale siano difficilmente conciliabili, se non addirittura incompatibili fra loro. Una situazione nella quale, evidentemente, il principio dell'alternanza delle forze politiche al governo - sebbene fosse fra i principali traguardi a cui mirava l'introduzione dileggi elettorali maggioritarie - diventa di applicazione molto problematica a causa (per esprimersi eufemisticamente) della "grande distanza" che separa gli operatori politici e che li porta a "diffidare" l'uno dell'altro. Non mi lascio impressionare, così ragionando, dalla violenza verbale che caratterizza il nostro più recente dibattito politico e che si traduce nell'impiego a man salva di espressioni ingiuriose e di vocaboli come "odio", 91vore , demonizzazione , regime e cosi via, perche si sa che in tutti i sistemi bipolari si gioca pesante con le accuse agli avversari (specialmente in occasione di elezioni); addirittura con tentativi di linciaggio personale dei candidati che, almeno nei termini con cui sono praticati negli Usa, da noi non sono ancora consueti. Ma il fatto è che da noi la frattura fra le forze politiche non rimane circoscritta agli aspetti - diciamo così - gestionali della politica nazionale, alle scelte contingenti, alle valutazioni di opportunità, ma investe le radici, le fondamenta, i valori dello Stato repubblicano: l'antifascismo, la Resistenza, la Costituzione (in qualche suo aspetto essenziale, come l'uguaglianza sostanziale fra i cittadini o la libertà d'impresa o la separazione dei poteri, od altro ancora). Sono significative, al riguardo, le irriducibili contrapposizioni segnalate da A. Manzella relativamente ad alcune fondamentali normative in fase di elaborazione nelle due Camere nel marzo del 2004: dall'ambito dei compiti legislativi del Senato federale alla fiomina di alcuni giudici della Corte costituzionale, dalla par condicio nella comunicazione politica radiotelevisiva al voto palese nelle Camere in materia di diritti dell'uomo. Dunque, quella frattura da noi è più grave che altrove perché, alla fine dei conti, la somma di ciò che divide non è (o perlomeno non sembra) nettamente minore della somma di ciò che unisce: come succede invece nelle maggiori democrazie, e come in ogni caso deve 60

accadere perché si possa pacificamente convivere in un istituzione politica unitaria. Non a caso da noi c'è persino chi, come M. Salvati, alla vigilia delle elezioni europee osserva che non sono lo stesso paese le due Italie che i nostri "poli" intendono rappresentare a Strasburgo (v. Corriere della Sera 11/06/2004). Semmai può essere interessante notare come tale frattura appaia più profonda a livello nazionale che a livello regionale o locale. Il che tuttavia non ne riduce la gravità, ma forse ne contiene il peso sulla società. Sabatucci ricorda che, storicamente, dall'Unità in poi gli italiani sono sempre stati governati dal centro, cioè da una maggioranza politica centrista che emarginava le estreme dal gioco del potere perché queste erano considerate pericolose per la sopravvivenza dello Stato, o della sua unità, o delle libertà dei cittadini, o di tutte e tre, salva restando soltanto la possibilità di cooptare al Governo le frange di tali estreme che via via annacquavano i propri connotati "eversivi" o semplicemente oppositori; frange le quali andavano così a compensare la perdita di consensi provocata nell'aggregazione centrista dalla c.d. "usura del potere" (la tesi opposta, secondo cui "il potere logora chi non ce l'ha" è stata enunciata solo in tempi recenti dall'ex Presidente del Consiglio Andreotti). In effetti; questa maggioranza centrista non ha mai raggiunto, in Italia, dimensioni tali da consentire la sua suddivisione nelle due classiche formazioni politiche - riformisti e moderati, o progressisti e conservatori - che, alternandosi al Governo senza bisogno di aiuto dalle estreme, costituiscono il fulcro del modello inglese di parlamentarismo maggioritario. Perciò da noi tale modello non ha mai potuto trovare applicazione, fino alle elezioni del 2001: allorché la designazione popolare del Presidènte del Consiglio è andata a completare il sistema elettorale prevalentemente maggioritario introdotto nel '93, e si è aggiunta all'abbattimento delle preclusioni ideologiche - da cui erano stati caratterizzati i decenni passati - nei confronti delle forze "antisistema" collocate agli estremi dello scacchiere politico; fattori la cui somma ha portato al Governo un centrodestra che, nelle urne del 2001, ha largamente sopravanzato il contrapposto centrosinistra al quale era appartenuto il Governo nella legislatura precedente. Dimodochè anche nel nostro paese è parso che si producesse, come nelle migliori esperienze maggioritarie, una pacifica alternanza delle forze politiche al Governo per diretta decisione degli elettori. E tuttavia si è trattato di un'alternanza che, purtroppo, quasi tutti gli sconfitti hanno vissuto e vivono drammaticamente ("siamo alle soglie di un regime autoritario" - dicono "le libertà sono a rischio, la Costituzione viene calpestata" ecc.), mentre dal canto suo il Capo dei vincitori non fa che accrescere le tensioni quando 61

drammatizza in termini analoghi le conseguenze di una propria eventuale sconfitta nel prossimo futuro, parlando di "fine della democrazia" (per cui rifiuta addirittura il contraddittorio con gli avversari che combattono le sue scelte, dai quali dice di sentirsi "insultato"). Non è pertanto un'ipotesi arbitraria pensare che le difficoltà nelle quali il nostro sistema politico e di governo attualmente si dibatte, e che possono ingenerare il timore di sbocchi autoritari, siano in primo luogo conseguenza della nostra mancanza di allenamento al parlamentarismo maggioritario ed al regime di alternanza, con tutte le loro implicazioni. E mi pare abbastanza plausibile ipotizzare altresì che la situazione sarebbe migliore se all'alternanza fra centrodestra e centrosinistra si fosse pervenuti non già ex abrupto, a seguito del mutamento della normativa elettorale, ma - come anni addietro era felicemente accaduto in Germania - dopo una fase più o meno lunga di vera "consociazione", vale a dire di "grande coalizione" o di "coabitazione" governativa fra le principali forze politiche, nel corso della quale fossero state erose e superate quelle diffidenze reciproche dalle quali era stata giustificata ed alimentata la aggregazione centrista, verificatasi a lungo in precedenza. Se peraltro tale ipotesi è plausibile, essa può aiutare a rispondere alla domanda che a questo punto diventa pressante: e ora che si fa? Ovviamente io non pretendo di avere in tasca risposte esaurienti; ma qui, parlando del ruolo delle Assemblee politiche, mi sembra appropriato sottolineare, come avvio di risposta, che, nella situazione di "bipolarismo polarizzato" in cui ci troviamo, il declino del Parlamento si rivela particolarmente allarmante. Anche in Gran Bretagna, per la verità, c'è da tempo chi si preoccupa dell'eclissi delle Camere, e in specie della Camera dei Comuni, ridotta a poco più di una cassa di risonanza del dibattito politico nazionale. E d'altronde, episodi come quello registratosi ultimamente - quando nella polemica fra il Governo Blair e la BBC a proposito delle armi di sterminio irachene (il cui asserito possesso da parte di Saddam Hussein aveva fornito al Governo Blair il pretesto per invadere l'Iraq) è stato chiamato ad intervenire in veste di arbitro non già un organismo di inchiesta parlamentare (come sarebbe stato naturale), ma un magistrato "imparziale" scelto dal Governo - sono episodi che non contribuiscono certamente ad attenuare quella eclissi. Restano però il prestigio che una secolare tradizione ha conferito al Parlamento inglese, e in particolare alla Camera dei Comuni, assieme alla sperimentata capacità dell'elettorato britannico di fornire direttamente al Governo, attraverso le urne e,sotto la guida dei partiti, orientamenti politici maggioritari ai quali la minoranza non ha timore di assog62

gettarsi, e che poi il Governo tradurrà in provvedimenti che in Parlamento saranno in genere ratificati senza difficoltà; tutto questo fa sì che il declino della Camera dei Comuni non sia percepito come un pericolo per la sopravvivenza delle istituzioni democratiche britanniche. Da noi invece il corso delle vicende politico-istituzionali, quale si è sviluppato dagli albori della Repubblica ai giorni nostri, ha fatto a lungo del Parlamento il "centro" delle istituzioni democratiche: se non altro nel senso che la mediazione fra i confliggenti orientamenti politici dell'elettorato necessaria ad assicurare un minimo di governabilità del paese, ma difficile da praticare in seno all'elettorato stesso, come mostrò a suo tempo la riluttanza della base del Pci e della Dc ad accettare il "compromesso storico" ipotizzato da Moro e Berlinguer - era un'attività che largamente avveniva nelle Camere. Cioè, quegli accordi fra maggioranza e opposizione (non di rado indispensabili in funzione della pace sociale) che non potevano risolversi in partecipazione al Governo del principale partito "antisistema", trovavano in Parlamento la sede giusta per essere negoziati, approvati ed eventualmente aggiustati. E allora la domanda è: siamo sicuri di poterci permettere il lusso di fare a meno della mediazione parlamentare? Di poterci affidare, di legislatura in legislatura, con le mani e i piedi legati, alle scelte compiute dagli elettori circa i governanti e i loro programmi? Se è vero che Io scopo di ogni rappresentanza politica consiste - prima ancora che nel semplificare la manifestazione e la conta delle volontà - nell'ottenere la decantazione dei contrasti fra i rappresentati e nella riduzione dei contrasti stessi, ad opera dei rappresentanti, cioè nelle Camere, in termini di inoffensiva dialettica delle idee, è ragionevole chiedersi - dinanzi alla virulenza e alla radicalità delle contrapposizioni odierne - cosa potrebbe accadere senza una sede istituzionale di decantazione e di mediazione; se cioè la disomogeneità del corpo sociale, di cui le contrapposizioni fra i rappresentanti sono solo una spia edulcorata, non rischierebbe, col depotenziamento di simili ammortizzatori, di inasprirsi fino a giungere, magari dopo una serie di inutili elezioni, al caos politico o addirittura alla guerra civile, cioè fino al punto di far apparire come male minore l'approdo ad un regime autoritario. Prospettive che sono rese plausibili dalla "divisività" - consistente nella "traduzione/sviluppo in forma patologica e permanente dei punti critici dello scontro politico sociale" -. da cui è storicamente caratterizzata la società italiana, e che si radica in buona parte nell'incapacità delle istituzioni, e in particolare del Parlamento, di Èiequilibrare l'ideologia quale elemento principale della vita pubblica (così Di Nuccio e Galli della Loggia "Due Nazioni", 63

2003). Si può inoltre ipotizzare che il senso di moderazione dei contrasti politici, economici e sociali, depositato nel DNA dei popoli che più a lungo hanno sperimentato la tragedia di sanguinose guerre civili (Gran Bretagna, Francia, USA), è forse meno accentuato da noi, che una simile tragedia l'abbiamo vissuta.in dimensioni relativamente modeste. D'altra parte, non si può dimenticare che negli ultimi anni della c.d. prima Repubblica, di fronte alle aberrazioni della "partitocrazia" allora imperversante, e che, parevano inarrestabili, è stata convinzione corrente (o almeno speranza diffusa) quella secondo cui il nostro elettorato, ossia la generalità dei rappresentati, fosse migliore dei suoi rappresentanti; convinzione o speranza che hanno fornito un supporto non trascurabile alle spinte verso l'adozione del parlamentarismo maggioritario - che avrebbe anche dovuto abbattere la "partitocrazia" - in luogo di quello tendenzialmente consensuale caratteristico giust'appunto della prima Repubblica. Senonchè, alla prova dei fatti non direi che quel giudizio di valore abbia trovato conferma. Direi, anzi, che il giudizio opposto - e cioè che in Italia i rappresentanti sono tutto sommato migliori dei rappresentati, nel senso che sono capaci di compiere scelte più avvedute - trova un aggancio significativo nel fatto che dalle urne popolari, dopo la riforma maggioritaria, è uscito per ben due volte, come guida del Governo nazionale, un personaggio di cui sul piano politico si può pensare tutto il bene o tutto il male possibile, ma che comunque risulta personalmente coinvolto (a torto o a ragione) in procedimenti giudiziari di carattere penale ed è palesemente portatore di conflitti d'interesse giganteschi, per cui poco meno della metà dei cittadini - pur senza contestare la legittimità della sua carica - non è disposta a fidarsene né tantomeno a riconoscersi in lui; mentre dalle urne parlamentari è uscito, come vertice della Repubblica, un personaggio che certamente può essere più o meno apprezzato, ma che comunque non presta il fianco ad alcun rilievo di carattere personale, e del quale tutte le, indagini demoscopiche continuano ad attestare che la quasi totalità dei cittadini, compresi coloro che lo apprezzano di meno, è disposta à riconoscersi in lui ed a fidarsi del suo magistero.

PER SALVARE LA MEDIAZIONE PARLAMENTARE

Detto questo, qualora si giunga alla conclusione che per noi è il caso di mantenere qualche spazio alla mediazione parlamentare, rimane da chiedersi quali possono essere gli accorgimenti tecnici con cui assicurare la con64

servazione di tali spazi. Parlo di accorgimenti tecnici perché intendo riferirmi a soluzioni di carattere procedurale interne al funzionamento delle Camere, senza ipotizzare interventi di maggiore impegno (volti ad assicurare, ad es., il corretto funzionamento dei media, ecc.), ed escludendo in particolare un ritorno al vecchio proporzionalismo elettorale che incide, anzitutto, sulla composizione di esse. Ritorno che ragioni di opportunità sconsigliano (anche se, probabilmente, non meriterebbe di essere condannato come mera regressione, soprattutto se integrato da correttivi atti a ridurre la frammentazione politica) perché, una volta riconosciuto nella migliore efficienza del rapporto Parlamento/Governo un traguardo degno di essere perseguito, non conviene disperdere l'allenamento al parlamentarismo maggioritario - che a quella migliore efficienza conduce - compiuto, bene o male, negli ultimi anni. E tuttavia, volendo conservare la composizione maggioritaria delle Assemblee, occorre avere ben presente che mantenere altresì un po' dello spazio che in precedenza era attribuito alla mediazione parlamentare implica, in buona sostanza, lasciare all'opposizione qualche margine di condizionamento delle scelte maggioritarie. In questa ottica, alcuni accorgimenti - che sogliono essere riassunti sotto l'etichetta di "statuto dell'opposizione" - sono ben noti e presenti anche negli attuali Regolamenti delle Camere. Si tratta della riserva di tempi da accordare, nella programmazione dei lavori parlamentari, alle iniziative dell'opposizione; nonché dell'analoga riserva da accordare, nel corso della discussione, gli interventi dell'opposizione ed alle sue proposte. Ma non c'è chi non veda come queste siano garanzie ben poco condizionanti, in quanto rientrano in quello che suole definirsi come "diritto di tribuna", in virtù del quale all'opposizione viene assicurata soltanto una certa "visibilità" verso l'esterno, ossia la possibilità che gli elettori conoscano - semprechè i mass media facciano bene il loro mestiere - oltre alle ragioni del rifiuto delle scelte maggioritarie, le scelte diverse che l'opposizione adotterebbe, se avesse i numeri; il tutto in funzione della prossima tornata elettorale, e non di risultati immediati nel dibattito in corso. Lo stesso ricorso all'ostruzionismo, anche se qualche settore dell'opposizione lo vorrebbe più frequente e accanito, in realtà non è utile che a fini di visibilità in proiezione futura, poiché nel parlamentarismo maggioritario la (presumibile) compattezza della maggioranza non dovrebbe consentire agli oppositori né di sperare in modifiche significative delle proposte portate in discussione dalla maggioranza e dal Governo, né tantomeno di rovesciare quest'ultimo. Di non maggiore rilevanza pratica sono anche ulteriori accorgimenti, co65

me la presidenza di talune "Commissioni di garanzia" (tipo quella di vigilanza sul servizio pubblico radiotelevisivo o quella per i servizi segreti) affidata ad esponenti dell'opposizione, dal momento che la composizione di questi organismi resterebbe pur sempre regolata dal principio costituzionale della proporzione fra i Gruppi; cosicché nel loro funzionamento, per forza di cose, sarebbero gli orientamenti della maggioranza a prevalere. Né si può ipotizzare un discorso diverso a proposito della spesso decantata norma costituzionale tedesca che permette la istituzione di Commissioni d'inchiesta ad iniziativa di minoranze qualificate: è chiaro infatti che se, in questo modo, viene data all'opposizione la possibilità di portare all'attenzione del Parlamento e dell'opinione pubblica argomenti "scomodi" per la maggioranza, rimane ferma la capacità di quest'ultima - se vuole - di "insabbiare" all'atto pratico l'inchiesta, o quanto meno di farla procedere su binari che non provochino danni alla maggioranza stessa, grazie alla forza dei numeri con cui verrà determinato l'andamento dei lavori. La verità è che nel parlamentarismo maggioritario, se si vuole riservare all'opposizione qualche margine di condizionamento nei confronti della maggioranza governativa, non ci sono che due strade. La prima è di prevedere che all'elezione dei vertici parlamentari, a cominciare dai Presidenti delle Assemblee, risulti necessario - per effetto della entità del quorum - il concorso dell'opposizione, dal quale implicitamente discenderebbe la possibilità che questa ritiri l'appoggio iniziale dinanzi ad inaccettabili comportamenti concreti dei Presidenti; così da non lasciare sul piano puramente nominalistico la loro programmatica imparzialità (esigenza del resto da soddisfare, con appropriati accorgimenti, riguardo ad ogni organo di garanzia). La seconda strada è di individuare, almeno nell'ambito della funzione legislativa, qualche materia che, per la sua particolare delicatezza, merita di essere sottratta alla procedura ordinaria di approvazione e di diventare oggetto di appropriati aggravamenti. Conviene rilevare, relativamente a questa seconda strada, che la sua logica di fondo è, in ultima analisi, la stessa che nel vigente testo costituzionale, ha suggerito per la revisione della Costituzione la doppia lettura, la maggioranza qualificata nelle votazioni finali e la possibilità di ricorrere al referendum confermativo. Senza ricalcare tale percorso procedurale, si possono tuttavia immaginare almeno due distinte soluzioni "aggravanti" da riservare magari a materie diverse, e comunque con carattere eccezionale. La prima è quella che trova applicazione in Francia (art. 61 Cost.) e che consi66

ste nella facoltà, accordata a minoranze qualificate, di chiedere al giudice costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità di un testo legislativo nella formulazione che sta per essere definitivamente deliberata dal Parlamento; con la conseguente impossibilità per quest'ultimo di passare all'approvazione finale di quanto il suddetto giudice consideri incostituzionale. Soluzione alla quale occorre, per la parte riguardante'l'attività delle Camere, una delibera regolamentare, mentre per quanto riguarda l'estensione delle competenze della Corte costituzionale si rende necessaria una legge ordinaria, sostenuta da una modifica della Costituzione. La seconda soluzione consiste invece nel prevedere che, per l'approvazione di determinate iniziative, legislative oppure no, occorrano maggioranze qualificate, e comunque superiori alla metà più uno dei componenti (che coincide da noi col numero legale e quindi rappresenta, all'interno di una quadro maggioritario, un freno a malapena percepibile per la maggioranza governativa). Ed anche questa è una soluzione di livello regolamentare, la quale però, dovendo rispettare l'art. 64 Cost., andrebbe accompagnata da una modifica di quest'ultimo nella parte in cui esige una disposizione costituzionale per derogare alla regola generale della maggioranza semplice nelle deliberazioni parlamentari. In pratica, verrebbe così ad essere disciplinata per via normativa, tipizzando le fattispecie applicative, l'aspirazione frequentemente manifestata da studiosi ed operatori che in determinati frangenti di particolare rilievo e/o delicatezza le decisioni politiche abbiano carattere "bipartisan". Per entrambe le soluzioni potrebbe inoltre essere introdotta la garanzia ulteriore del voto segreto, che già oggi i Regolamenti parlamentari stabiliscono nelle materie espressamente indicate. Peraltro, mentre le difficoltà cui andrebbe incontro l'approvazione della seconda soluzione riguardano soltanto l'opportunità di estendere l'area dalle decisioni nelle quali la maggioranza deve negoziare con l'opposizione per averne il consenso, tornando quindi - sia pure in misura congruamente ridotta - alla vecchia "centralità" del Parlamento; viceversa ben più gravi sono le difficoltà cui andrebbe incontro la prima soluzione. Nella quale infatti il ricorso ad un "arbitro" come la Corte costituzionale, che - esterno al Parlamento e per di più sprovvisto di legittimazione democratica diretta può paralizzare l'.esplicarsi della volontà delle Camere, presta il fianco a resistenze analoghe a quelle che ostacolarono, a suo tempo, prima l'inserimento in Costituzione e poi l'attuazione concreta della Corte stessa, quale giudice delle leggi avente il potere di annullarle in nome del rispetto 'della Costituzione. Presta cioè il fianco all'accusa, micidiale in un sistema fonda67

to sulla sovranitĂ popolare, di aprire la strada alla violazione di tale sovranitĂ ; anche se non andrebbe mai dimenticato che l'art. i Cost., nel riconoscere le sovranitĂ del popoio, afferma che questo deve esercitarla non solo nelle forme, ma anche nei limiti indicatidalla Costituzione stessa.

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Riforma costituzionale e blocco del federalismo fiscale di Vincenzo Russo

"Non è difficile dimostrare che la migliore forma di governo è idealmente quella in cui la sovranità, vale a dire il supremo potere di controllo in ultima istanza, risiede nella comunità nel suo insieme, in cui ogni cittadino non solo ha una voce nell'esercizio della sovranità, ma è chiamato, almeno occasionalmente, a svolgere una parte attiva nel governo, grazie all'esercizio di qualche finzione pubblica, locale o generale": J.S. MILL, Considerations on Representative Government,

Collected Works, voi. XVIII, p. 404.

a alcuni mesi, senza soluzione di continuità, si è ricostituito un ambiguo partito trasversale contrario all'attuazione della riforma federale confondendo il federalismo fiscale con quello istituzionale. Confondendo soprattutto gli aspetti federalisti della riforma con l'introduzione del governo del premier che non ha necessariamente a che fare con la prima. Argomentando sui costi (maggiore spesa pubblica aggiuntiva) del federalismo e sugli stress che la sua introduzione comporta sulle istituzioni. Si sono iscritti a tale partito: il neo Presidente della Confindustria che improvvisamente scopre che l'attuazione del federalismo potrebbe comportare un aumento della spesa pubblica. I Presidenti del Senato e della Camera. LOn. Follini, segretario di uno dei partiti della maggioranza, il quale dice che in fondo il vecchio stato regionale andava bene e bisogna riflettere attentamente sul progettato assetto federale. Intervenendo a Telese alla Festa UDEUR, il segretario dell'UDC riprende il discorso sui costi del federalismo quantificati

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L'Autore è professore ordinario di Scienàa delle finanze presso la Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma La Sapienza.

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in 61 miliardi di € citando male lo studio dell'IsAE del febbraio 2004. Nello stesso luogo, l'On. Rutelli condivide le medesime considerazioni, converge con lui sul buon regionalismo di un tempo e sul rischio di un neo-centralismo regionale e cita le sentenze della Corte costituzionale come prova dei difetti della riforma del 2001. Il Presidente della Camera Casini, a sua volta, rilancia la trita e ritrita tiritera sul rischio del neocentralismo regionale come se si potesse fare seriamente il federalismo (fiscale e non) con 8103 comuni. Il Presidente emerito della Repubblica Cossiga che trova il tempo di ricordare come Alcide De Gasperi, quale Presidente del Consiglio, non incoraggiò mai il federalismo. Esponenti della migliore cultura giuridica italiana che rialzano la testa contro un assetto istituzionale inviso che li costringerebbe a ragionare su schemi nuovi. Tutti in coro chiedono un rinvio, una fase di riflessione se non di vero e proprio ripensamento. Tutti fanno finta di non ricordare che le riforme amministrative del 1997-99 (le c.d. Bassanini) - confermate dalla riforma costituzionale del 2001 - hanno trasferito la generalità delle funzioni amministrative in testa ai Comuni. Negli ultimi tre anni i trasferimenti alle Regioni e ai Comuni sono stati significativamente ridotti. Nessuno dice che l'attuazione del federalismo fiscale è bloccata da tre anni. Nessuno parla dei costi che l'inattività del governo centrale ha già provocato e di quelli che una lunga ed interminabile fase di transizione provocherebbe ancora.

LA QUESTIONE DEL CONTENZIOSO COSTITUZIONALE.

Nella conferenza annuale di consuntivo sull'attività svolta dalla Corte costituzionale, tenuta il 2.04.04, il Presidente Zagrebelsky ha lamentato l'accrescersi dei conflitti di attribuzione tra gli organi dello Stato. Se il problema è il contenzioso, intanto bisogna dire che se il riferimento è al 2003 e si fa il confronto con il 2002 è calato il numero globale delle ordinanze da 401 a 248 e quello delle sentenze è stabile (134 rispetto alle 135 del 2002). Questi sono numeri globali. Ma se per avere un quadro più preciso con riguardo alla materia che ci interessa guardiamo ai ricorsi pervenuti e riguardanti i conflitti di attribuzione tra Stato, Regioni e Province autonome allora il quadro è ben diverso. Nelle tabelle della stessa Corté si legge che i ricorsi pervenuti sono 28 nel 2002 e 15 nel 2003 che si confrontano con una media di 25 ricorsi all'anno. Anche i casi pendenti al 31.12.2003 in questa materia (49) non sembrano in numero particolarmente elevato.

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Secondo il Presidente Zagrebelsky "l'attività della Corte del 2003 è stata dedicata, per larga parte, al contenzioso Stato-Regioni (cui si riferisce quasi il 50% delle sentenze, se si sommano i dati del giudizio principale e del conflitto tra enti). Tra le due grandi funzioni che caratterizzano gli organi della giustizia costituzionale (e che ne hanno connotato, storicamente, l'origine), ovvero quella di arbitraggio della ripartizione delle competenze e quella di difesa costituzionale delle libertà, prevale, forse per la prima volta nella storia della Corte costituzionale italiana, la funzione arbitrale. Il merito delle decisioni rispecchia pienamente il grande rilievo, anche qualitativo, assunto dal giudizio sui rapporti tra Stato e Regioni... le pronunce relative ai "diritti e doveri dei cittadini", che sono prevalentemente, anche se non esclusivamente, conseguenza del giudizio incidentale, tendono a collocarsi nella linea di sviluppo di giurisprudenza sperimentata e consolidata. È il campo dei rapporti Stato-Regioni quello in cui si possono rintracciare le maggiori novità. La riforma del Titolo V, realizzata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, ha messo la Corte di fronte a norme costituzionali «nuove di zecca", chiamandola a una complessa opera di interpretazione, nell'ambito della quale un ausilio limitato ha fornito la precedente giurisprudenza. Nel corso del 2002, la maggior parte delle decisioni in questo settore aveva riguardato ricorsi promossi nella vigenza del vecchio Titolo V, o problemi di diritto intertemporale, collegati al sopravvenire del nuovo parametro costituzionale, in assenza, tra l'altro, di disposizioni transitorie. E invece nel 2003 che si affronta decisamente il merito delle questioni. Definendo il riparto delle competenze, peraltro, la Corte è in molti casi chiamata ad affrontare problematiche relative a diritti fondamentali: basti pensare al tema della tutela della salute, alla disciplina delle comunicazioni, alla tutela dell'ambiente, alla determinazione dei livelli essenziali dei diritti civili e sociali. D'altra parte, non è questo un fenomeno sorprendente, in quanto le più antiche esperienze di giustizia costituzionale (a partire da quella degli Stati Uniti) testimoniano che dietro controversie che si configurano formalmente come conflitti di competenza, spesso si celano questioni relative alla garanzia dei diritti. Il Presidente Zagrebelsky ha fornito molte tabelle statistiche alquanto difficili da penetrare e che non. sembrano avallare l'allarme di cui hanno parlato i giornali. Sono molti o sono pochi i ricorsi? Come valutarli? A me sembra che un certo aumento del numero dei ricorsi sia fisiologico in una fase di transizione in cui tra l'approvazione affrettata di un testo e la sua conferma con referendum interviene un cambio di governo, che ha forti dubbi sull'attuazione 71

della riforma per cui, intanto rinvia e poi rimane a lungo indeciso circa le modifiche da apportare. In un contesto in cui la dottrina si divide tra quelli che ritenevano (e ritengono) che le Regioni potessero legiferare subito e quelli che ritenevano opportuno aspettare le norme di coordinamento, era normale che alcune Regioni volessero verificare la prima tesi. Non era normale, invece, che il governo con piglio centralista nelle prime tre leggi finanziarie imponesse alle Regioni e agli EELL il blocco della manovra di alcune addizionali ed in altri importanti atti legislativi disponesse in materie anche di competenza regionale come se la riforma del 2001 non ci fosse stata (Russo, 2003a). L'attuazione del federalismo fiscale poteva e doveva seguire un percorso autonomo perché l'art. 117 della Costituzione ha trasferito molte delle competenze dal livello centrale a quelli sub-centrali ma senza le risorse necessarie per svolgerle. Senza adeguati mezzi di finanziamento il trasferimento resta virtuale e ciò provoca un vulnus alla Costituzione. Il governo ha preferito, per motivi suoi, rinviare e condizionare il tutto all'approvazione di una più ampia, ambiziosa e controversa riforma costituzionale. La maggioranza ha preferito rinviare il tutto alla nuova legislatura. Si è determinato un paradosso. La maggioranza attuale che criticava quella precedente per lo scarso impegno federalista, in fatto, ha rinviato l'attuazione del federalismo fiscale che pure c'è nella riforma del 2001. Il meglio nemico del bene? Anche il Presidente Zagrebelsky, inevitabilmente, ha dovuto denunciare il ritardo del governo nell'attuazione della riforma del 2001. Ha detto chiaramente che "occorre varare rapidamente le norme di attuazione del nuovo titolo V della Costituzione sia per ridurre il contenzioso sia per evitare che la Corte svolga un non gradito ruolo di supplenza". Per circa 18 mesi, infatti, la maggioranza ha sostenuto che l'art. 117 non era applicabile per via della previsione delle competenze concorrenti di cui al comma 3. Il ddl di riforma di tutta la seconda parte della Costituzione non modifica nella sostanza l'impianto dell'art. 117 anche se aggiunge la c.d. devoluzione, ossia, la previsione al comma 4 di competenze "esclusive" in materia di assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione (salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche); definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; e polizia locale. Non tocca nemmeno l'art. 119 che secondo me, invece, dovrebbe essere modificato e sull'interpretazione del quale sono insorti molti ricorsi. Recentemente è uscita (vedi Il Sole 24 Ore del 22.11.04), un'analisi (aggiornata a questo autunno) sui dati del contenzioso costituzionale. Ebbene 72

a partire dal 2002 sono stati sollevate 262 questioni di legittimità costituzionale 135 da parte del governo centrale e 127 da parte dei governi regionali. Sulla base delle sentenze fin qui emesse, le leggi regionali sono stati censurate 36 volte mentre quelle promosse dal governo centrale ben 49 volte. Chi ha mostrato maggiore sensibilità costituzionale?

L'ANALISI DEL DDLC N. 2544-B

Iltesto molto complesso, ancora non definito in parti molto sensibili, sembra a molti commentatori contraddittorio, ispirato a modelli incerti e confusi. Da un lato, la c.d. devoluzione toccherebbe punte di federalismo esasperato, dall'altro accentua tutti i poteri sostitutivi potenzialmente con recupero di centralismo. La Costituzione ne esce spezzettata e lottizzata per soddisfare le 3-4 anime della maggioranza che vogliono prendere dai diversi sistemi quello che piace di più ma senza un disegno coerente e chiaro. La maggioranza non ha un preciso modello di riferimento. Quando dico modello intendo dire modello teorico perché le esperienze storiche sono quelle che sono: certi modelli funzionano in un Paese e non funzionano in un altro. Nel Regno Unito il c.d. modello Westminster senza separazione dei poteri storicamente ha funzionato bene e non ha creato alcun problema per la democrazia britannica. In altri Paesi che non voglio menzionare l'importazione e/o esportazione del modello Washington ha fatto nascere diverse dittature. In altri l'importazione del modello Westminster potrebbe portare ad una drastica riduzione delle garanzie per i cittadin1 2 Per quanto mi riguarda il modelloteorico dovrebbe essere quello della repubblica parlamentare vincolata, come stilizzata da Ackerman (2000). Oggi, il modello di riferimento concreto dovrebbe essere quello della Costituzione europea 3 ovviamente con gli opportuni aggiustamenti: il modello della democrazia partecipativa 4 . Anche in relazione alla forma di Stato e di governo, complessa ed articolata, che viene delineandosi a livello Unione europea, è difficile che a livello nazionale possano radicarsi forme di Stato e di governo di tipo presidenziale secondo il modello Washington o quello delle attuali regioni. In termini metaforici, il modello dovrebbe essere quello della bilancia e non quello dell'orologio a cui tutti - esponenti sia della maggioranza che dell'opposizione - si ispirano in ragione di un comune approccio culturale, metodologico, oserei dire, filosofico: .

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Ciò posto in termini generali, introduco alcuni commenti sui punti più discussi e controversi della riforma ora approvata in Il lettura.

IL SENATO FEDERALE

Nel valutare le modifiche alla collocazione istituzionale, al ruolo ed alla composizione del Senato federale, bisogna innanzitutto ricordare due considerazioni preliminari. La prima è che non pochi costituzionalisti condividevano l'esigenza o comunque l'opportunità di superare il bicameralismo perfetto perché, a loro dire, rallentava eccessivamente il processo legislativo, a volte, arrivando a 3-4 letture dello stesso provvedimento. Per contro, l'attuale modello italiano con la sua quasi perfetta simmetria, grosso modo, anche nei sistemi elettorali che, quasi sempre, hanno dato maggioranze parallele nelle due camere e con il rapporto fiduciario tra governo e senato viene valutato positivamente da Ackerman (2000). La seconda è che dopo la riforma del 2001, si era determinato un ampio consenso trasversale sulla inadeguatezza della soluzione della Commissione parlamentare per le questioni regionali di cui all'an. 11 della legge costituzionale n. 3/2001 recante disposizioni transitorie. Il problema era quello di meglio garantire la rappresentanza più diretta degli interessi territoriali nelle materie economico finanziarie. Occorreva quindi introdurre una Camera delle Regioni, alias, un Senato federale. Il superamento del bicameralismo perfetto porta alla specializzazione delle funzioni del Senato. Si assegna al Senato federale il compito di deliberare per primo in materia di competenze concorrenti. Alla Camera dei Deputati, invece, compete ex art. 70 novellato la legislazione esclusiva di cui al comma 2 dell'art. 117 Costituzione compresi i disegni di legge attinenti ai bilanci ed al rendiconto. A entrambi i corpi legislativi nazionali compete la legislazione in materia di perequazione e federalismo fiscale (art. 119 Costituzione) ed una lunga teoria di altre materie anche connesse ai diritti di cui alla prima parte della Costituzione. La specializzazione consiste anche nelle differenze di tempi e procedure da adottare per arrivare all'approvazione delle diverse leggi. Quelle che disciplinano le materie di competenza statale devono essere approvate in primo luogo dalla Camera. Si è molto ironizzato sulla lunghezza e complicazione della nuova versidne della norma uscita dalla Camera dei Deputati rispetto alla vecchia. Ma una volta che si è deciso di abbandonare il bicameralismo perfetto e di introdurre 74

la specializzazione funzionale delle due Camere legislative, una notevole complicazione procedurale risulta inevitabile. Se così, sono risibili le diatribe sulle complicazioni che si sono introdotte nel procedimento legislativo, su chi approva cosa, su chi ha l'ultima parola, su chi tenta la conciliazione 5 , ecc. Rapporto con il territorio. L'argomento è per il senato federale, secondo me, molto sopravvalutato come se non fosse altrettanto serio per la Camera dei De1utati. Anche su questo punto dopo tante analisi ed evocazioni del modello tedesco, alla fine, si opta per una soluzione che elude il problema posto. Per il Senato federale viene proposta ed adottata l'elezione diretta dei suoi componenti. Viene proposto anche l'accorpamento generalizzato di tutte le elezioni. Per una settimana al Senato in I lettura, si discute di contestualità, cioè, della possibilità di eleggere insieme Senato federale e Consigli regionali. Dopo una settimana si raggiunge un compromesso all'interno della maggioranza: è adottata la "contestualità affievolita", ossia, la contestualità in entrata ma non in uscita. Così si ritiene risolto il problema di lasciare in carica i Senatori per 5 anni, come richiesto dall'UDC ma ne lascia aperti altri ben più gravi. A fronte dei diversi modelli di Senato federale che prevedono un più forte collegamento diretto o indiretto con le entità federate anche attraverso la previsione di requisiti e/o qualifiche particolari dei suoi componenti, la scelta fatta dal nostro legislatore lascia alquanto perplessi perché opta per una soluzione singolare. Infatti ex art. 58: "Sono eleggibili a senatori di una Regione gli elettori che hanno compiuto i quaranta anni di età e hanno ricoperto o ricoprono cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all'interno della Regione, o sono stati eletti senatori o deputati nella Regione o risiedono nella Regione alla data di indizione delle elezioni". Da ultimo la maggioranza ha concordato di elevare il numero a 252. Secondo il Sen. Mancino (25.02.04) la contestualità è un errore. Essa non risolve alcun problema anzi rischia di crearne di più complessi. Quello di fondo non è garantire comunque 5 anni di legislatura ai membri del Senato federale ma quello di non mortificare il ruolo delle Regioni. Attraverso il Senato federale si rischia di creare una sorta di "notabilato". Era chiaro che la soluzione formale adottata non crea un vero rapporto con il territorio e tutt'al più si è trattato di assicurare un futuro politico agli attuali senatori. Il problema vero è quello di agenzia, ossia, di accountability dell'agente rispetto al principale, alias, elettore a qualsiasi livello. Esso può trovare una più seria soluzione per i Senatori come per i Deputati , come del resto per'gli eletti nelle assemblee regionali e nei consigli comunali nei limiti in cui le candidature non sono scelte dalle oligarchie centralizzate di quelle entità che, in 75

alcuni casi, rifuggono dal qualificarsi come partiti, ma emergano più democraticamente nel territorio, nella società civile, dalla base piuttosto che selezionata dal vertice. C'è un problema di formaziòne e selezione della classe politica ancora più grave a livello regionale e locale e questa non crescerà mai come dovrebbe se criteri di scelta e decisioni saranno sempre competenza del centro. C'è anche una questione di democrazia sostanziale e deliberativa anche all'interno dei partiti e non solo nelle assemblee legislative 6 . Un trentennio di polemiche non sempre fondate sulla, partitocrazia non è passato inutilmente ma le decisioni veramente importanti sono sempre prese al centro dalle oligarchie partitiche.

IL SENATO FEDERALE E LA DIVISIONE DEI POTERI

Secondo il Sen. Bassanini (La Repubblica, 10.04.04) il Senato federale è . . I unico contropotere che la riforma italiana prevede ,, . Il Senato federale e l'unico organo nei confronti del quale il premier incontra limiti ai suoi poteri. Il Senato federale non può essere sciolto dal premier. Nel Senato il premier non può ricorrere al voto di fiducia. Probabilmente dovrà discuterci e cercare un accordo. Se così - dico io - non è un vero e proprio contropotere ma un countervailing power, un potere bilanciante di quello del premier almeno in parte secondo il modello americano. Infatti il Senato federale italiano avrebbe almeno due importanti parametri in comune con quello americano: l'elezione diretta e l'assenza di un rapporto fiduciario anche con il premier (Presidente). Ritengo che questa posizione del Senato federale vada bene e probabilmente bisognerebbe rafforzarla di più. Quelli che invece accolgono la tesi dell'attuale Presidente del Senato secondo cui "il testo approvato trasforma il Senato federale in un Minotauro: una testa americana innestata in un corpo italiano.....rischiando di trovarci un Governo che non può governare se non negoziando ogni volta con il Senato", in effetti, sembrano condividere l'assorbimento totale da parte dell'esecutivo dei poteri legislativi. Sembrano condividere la c.d. cultura dell'orologio piuttosto che quella della bilancia. Secondo la prima, poteri e corpi legislativi dello Stato eseguono puntualmente e scrupolosamente i compiti'previsti: discutono, approvano, emanano le leggi e i regolamenti secondo una procedura, come dire, automatica dove c'è sovranità (discrezionalità) ma limitata. Dove non si esclude il conflitto ma, se capita, ex ante, si sa chi lo risolve e probabilmente come. Comunque è meglio tagliare alla radice i motivi che possono ingenerare conflitti. Si tratta di una visione burocratica e non politica. cc,

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Non bisogna vedere il Senato federale come un contropotere del premier. Il primo ed il secondo rappresentano la sovranità popolare ed il primo ancora meglio nei limiti in cui riesce a rappresentare più da vicino le istanze territoriali. Chi conosce il sistema americano sa bene che il Presidente degli Stati Uniti "negozia" continuamente con i leader del Congresso e del Senato le leggi che vuole vedere approvate. Negoziare significa cooperare. Senza cooperazione non nasce una comunità e non si può pensare che essa possa ben funzionare in una situazione di lotta fratricida. Rispetto a quanti vedono con favore la concentrazione del potere legislativo in testa al premier e al suo Governo, lasciando al parlamento il ruolo di ratifidelle leggi proposte e formulate dal Governo, la configuraca zione del Senato federale che, malgré eux, è emersa, a mio giudizio, dimostra che quando, in maniera surrettizia, si vuole fuoriuscire dalla Repubblica parlamentare ma, allo stesso tempo, introdurre il federalismo, inevitabilmente si incappa in qualche grossa contraddizione. Non è casuale che l'analisi comparata dei sistemi costituzionali riscontri negli assetti genuinamente federali una presenza dominante di una seconda camera legislativa con forti poteri di veto (Tsebelis, 2004). Infatti, non si può agevolmente superare la doppia suddivisione (verticale ed orizzontale) dei poteri se si vuole veramente il federalismo e/o la democrazia federale. Non si può pensare ad un assetto federale e poi teorizzare un rapporto fiduciario tradizionale tra senato federale e l'apice del governo come in un assetto centralizzato. Se, correttamente, ragioniamo nella logica del bilanciamento dei poteri, dei pesi e contrappesi, degli equilibri instabili (Brosio, 1994), diun assetto costituzionale dove non solo la classica tripartizione dei poteri lavora a garanzia dei cittadini ma anche i diversi livelli di governo competono per meglio soddisfare le loro esigenze, allora risulta chiaro come nell'ordinamento possano esserci discontinuità, asimmetrie. Possono non esserci - anzi nella impostazione dei padri federalisti americani non ci debbono essere - delimitazioni precise di competenze ed eventuali conflitti di competenze sono risolti attraverso il negoziato. Possono essere utili regole flessibili. Nel testo uscito dalla Camera si è fatto saltare il rapporto fiduciario. Evidentemente chi lo ha fatto aveva in mente, quantomeno per questo aspetto, il modello Washington come lo chiama Ackerman. Da questo punto di vista c'è coerenza nel disegno della maggioranza. Ad un premier eletto direttamente dal popolo e con i poteri che gli si vogliono dare - ossia con poteri superiori a quelli del Presidente degli Stati Uniti d'America 77

- pare naturale e responsabile contrapporre un Senato federale forte e sciolto da ogni rapporto fiduciario che in teoria, può esercitare un potere di veto. Come noto, questo assetto viene fortemente criticato da molti e, paradossalmente, anche dall'attuale Presidente del Senato Pera. Ma se noi non stiamo copiando o non vogliamo copiare il modello Washington, allora, si possono fare due cose diverse: o si reintroduce il rapporto fiduciario o lo si toglie e ci si muove verso quel modello di parlamentarismo c.d. una camera e mezza "one-and-a-half-house-solution" riscontrata da Ackerman (2000) come la soluzione prevalente negli assetti federali. Ma a questo qualcuno obietterà che i Senatori in carica probabilmente si opporranno ad una drastica riduzione di poteri e di status rispetto ai Deputati. IL Govi'o DEL PREMIER L'opzione per il rafforzamento dei poteri del premier trova spiegazioni abbondanti nei lavori della Bicamerale 1997-98 e nella scelta di un modello che da un lato ha elementi di presidenzialismo, secondo i desiderata di Alleanza nazionale, e il modello Westminster che ha sempre raccolto consensi in un'ampia area trasversale ai due schieramenti. Il modello adottato prevede varianti peggiorative perché in quei modelli non è dato al Presidente e al premier il potere di sciogliere le Camere perché indebolisce la posizione della stessa Camera dei Deputati. Trova precedenti legislativi importanti nelle leggi per l'elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle Regioni volute fortemente dallo schieramento di centro sinistra. Io ribadisco che lo spostamento di tale potere di scioglimento in testa al premier non trova motivi convincenti neanche di medio lungo termine. Al di là di quanto previsto da altre Costituzioni, se lo scopo è quello della stabilità del governo, tale obiettivo può essere conseguito in modi diversi, ad es. con il rinnovo dei corpi legislativi a data fissa, con la sfiducia costruttiva, ecc.. A difesa della proposta votata viene portato l'argomento c.d. del Sindaco d'Italia. Si tratta di un argomento non convincente e, secondo me, brillantemente negato dal Sen. Bassanini (La Repubblica del 10.04.04). L'analogia tra i poteri del Sindaco e quelli del premier non regge per tre motivi. Il primo è che il Sindaco ha una maggioranza garantita e può sciogliere il consiglio comunale nel caso che questo gli neghi la fiducia. Secondo Bassanini si negano due fondamentali differenze. Là prima è che i poteri del Sindaco sono regolati dalla Costituzione e dalle leggi. Il Sindaco non può cambiare né la Costituzione né le leggi. La seconda caratteristica è che, a differenza dei

Consigli comunali, il Parlamento invece ha il potere di cambiare la Costituzione e le leggi. Con la proposta approvata dal Senato in prima lettura "il premier avrebbe tutti i poteri per applicare le leggi, ma anche per rifarle e per ridefinire i suoi poteri"... diventerebbe nei fatti un sovrano onnipotente, dotato di poteri assoluti". Il secondo motivo è che: più il premier è forte e più ampia, aperta e libera dovrebbe essere la concorrenza che porta alla sua elezione. Perché il premier potrebbe approfittare dei suoi poteri per farsi rieleggere. Pertanto più rafforzate dovrebbero essere le leggi sul pluralismo nell'informazione, nell'accesso ai mezzi di comunicazione di massa prima e dopo le elezioni. Più rigorose dovrebbero essere le leggi contro i conflitti di interesse, l'ineleggibilità, le incompatibilità. Il Sindaco non ha nessuna voce in capitolo con riguardo a queste leggi che vengono approvate dal Parlamento nazionale ma il premier si. Il terzo motivo è che, guardando alle più avanzate costituzioni vigenti che teniamo in considerazione, vediamo che al premier eletto direttamente non viene dato il potere di scioglimento del Parlament0 7 . Non viene dato il potere di imporre il voto di fiducia. Non può ricevere deleghe legislative. Il Presidente degli Stati Uniti può porre il veto sulle leggi approvate dal Congresso e dal Senato e, viceversa, gli organi parlamentari possono non approvare le leggi di iniziativa presidenziale. Il premier inglese può proporre lo scioglimento ma non lo dispone. Resta in carica finché ha la fiducia della maggioranza e del suo partito. La configurazione dei poteri del premier che viene definita in seconda lettura alla Camera dei Deputati è, a dir poco, tendenzialmente autocratica. Un premier, scelto sia pure indirettamente dal popolo, sganciato da un rapporto fiduciario con la Camera dei Deputati, dotato del potere di scioglimento delle Camere, è in effetti una formula esplosiva. Se penso che Ackerman (2000), commentando il modello Washington, definisce il Presidente eletto direttamente dal popolo come il pericolo pubblico n. i della democrazia 8 potrei qualificare il prospettato modello italiano di premier come il pericolo pubblico n. 1-bis o 2. Si è detto che rispetto a come era entrata con il ddl n. 4682 la figura del premier dalla Camera esce al margine ridimensionata anche se non abbastanza. La novità più grossa - per così dire - sta nella teorica attenuazione dei suoi poteri con la introduzione della c.d. sfiducia costruttiva che, però, deve essere approvata dalla stessa maggioranza del premier. Se questi riesce a mantenere un gruppo di fedelissimi sufficientemente ampio da impedire alla sua coalizione di raggiungere la maggioranza, egli man,

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terrebbe un potere di veto come descrive Tsebelis. Si potrebbe determinare 'una situazione di stallo per cui il premier, pur essendo in minoranza all'interno della sua coalizione di maggioranza, resterebbe al potere rendendo inefficace lo strumento della sfiducia costruttiva attenuata. Resterebbe poi da dimostrare come un premier, senza la fiducia della sua stessa maggioranza, potrebbe governare il processo legislativo. Si tratta di qualcosa di anomalo, contraddittorio. Non è il modello Westminster. Non è il modello Washington. Secondo l'On. Bruno, Presidente della Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, si tratterebbe di un modello nuovo c.d. del 'governo di legislatura. Le misure c.d. anti-ribaltone vengono ora assunte a tutela della stabilità della maggioranza mentre prima erano intese ad evitare il cambio del premier. Ma se il premier non eletto direttamente dal popolo può non rispettare il principio maggioritario all'interno della sua maggioranza èalto il rischio di passare dalla c.d. dittatura della maggioranza alla dittatura tout court. Nella democrazia di massa, inevitabilmente vige la delega. Se questa viene data ad una persona sola è alto il rischio che l'eletto ne abusi e, comunque, sembra più razionale e più garantista che la stessa sia mantenuta ai corpi legislativi senza vincoli particolarmente stringenti. Altrimenti la sovranità legislativa non è più tale e si rischia di perdere i vantaggi della tripartizione orizzontale e verticale dei poteri. Il ruolo delle Assemblee legislative è più o meno ridotto a, quello del notaio che, a volte, si limita a trascrivere gli atti preparati dagli avvocati delle parti. Nello schema classico della democrazia rappresentativa, tutti i delegati sono rappresentanti della sovranità popolare e, salvo ipotesi del tutto patologiche, sono condannati a governare insieme per la durata dei rispettivi mandati che peraltro non sono contestuali, non coincidono nei tempi e quindi è normale che si verifichi che il Presidente non abbia una sua maggioranza o al Senato o alla Camera o in entrambe le sedi. Secondo me, il premierato forte è un subdolo tentativo da un lato di abrogare la Repubblica parlamentare e dall'altro di "forzare" un "bipartitismo improprio" in un contesto in cui esso non ha attecchito e non vuole attecchire per ragioni storiche, sociologiche, culturali, ecc.. Il premier forte non può funzionare dove egli sia designato da una coalizione che rifletta una forte pluralità e diversità di forze politiche al limite della frammentazione. Stento a vedere in Italia un ulteriore rafforzamento dei poteri del premier che arrivi fino al punto di "licenziare" un ministro di un partito della coalizione. A mio giudizio, non serve un premier forte perché il governo è già forte da

quando - negli anni '80 - si sono ristrette le ipotesi di ricorso al voto segreto e da quando - sia pure in linea di prassi - si è rafforzata la posizione del governo con il ricorso sistematico a leggi deleghe dai principi troppo laschi che, in buona sostanza, espropriano il Parlamento dei suoi poteri legislativi. Servono coalizioni più compatte ed una legge elettorale a carattere rigorosamente maggioritario solo in parte può spingere le coalizioni.a diventare più compatte. Perché se, come ho detto, esse sono attraversate da serie differenze nei valori e negli obiettivi, superato il momento elettorale, le differenze restano,e sarà comunque difficile conciliarle in decisioni e provvedimenti che abbiano una loro coerenza interna.

STABILITÀ DEL

GovÈruo

E GOVERNABILITÀ DEL PÀESE

Si dice che lo scopo del rafforzamento dei poteri del premier sia quello di assicurare la stabilità del Governo. Il discorso sulla stabilità del governo nòn va confuso con la stabilità delle politiche definita da Tsebelis (2004: 25) come "impossibilità di discostarsi dallo status quo". Se questo equivale a immòbilismo quando è necessario provvedere, diventa ovvia la connotazione negativa. E tuttavia bisogna usare una certa cautela. Se una politica è efficiente, efficace ed equa non vedo perché cambiarla. La stabilità del governo deve servire alla migliore governabilità del Paese. Non è bene in se. Nelle società complesse portare avanti certe riforme richiede tempi lunghi che non sono consentiti a governi di breve durata. 'Una prima osservazione che viene subito in mente è che negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali la legislatura dura quattro anni e che, io: sappia, non si propone di allungarnela durata. Per affrontare in' modo più circostanziato questo problema, intanto, bisogna distinguere le situazioni in cuici sono due partiti principali e pochi altri partiti ed il caso in cui - come quello italiano - c'è molta frammentazione e contrapposizione di forze politiche e di opzioni programmatiche e quindi è necessario ragionare in termini di coalizioni ccintrapposte. 'Secondo me,: è molto importante tenere presente questo punto perché, al di là di isolate proposte di aggregazione (e fusione) delle forze politiche presenti nei due schieramenti, un forte pluralismo politico sembra destinato a'perdurare per lungo tempo ed avere a che fare con delle. coalizioni eterogenee è cosa ben diversa che ragionare con due grossi partiti omogenei come ci sono in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti d'America. In un contesto 'come quello italiano, assegnare il potere di scioglimento al 81

premier può rivelarsi uno strumento non sufficiente ad assicurare la stabilità del governo per due motivi. Uno di carattere teorico ed un altro pratico. In teoria il rinvio al corpo elettorale perché questo ricomponga il conflitto tra il premier e la sua maggioranza può non funzionare perché non è affatto detto che il corpo elettorale sia sempre più saggio delle forze politiche che esso esprime. C'è un problema di aggregazione delle preferenze, di conciliazione delle diverse esigenze che possono essere divaricate o divaricarsi sia tra le forze politiche che tra gli elettori. C'è un teorema dell'impossibilità della maggioranza che Arrow ha dimostrato e gli studenti di economia pubblica ben conoscono. Il teorema è costruito su ipotesi restrittive ma che evidenzia come non ci sia niente, nella società civile, che garantisca che le preferenze siano necessariamente congrue o maggioritarie. In simili casi, per conciliare preferenze divergenti, per costruire una maggioranza occorre l'abilità (l'arte) dei politici e risolverlo a colpi di elezioni anticipate potrebbe logorare le istituzioni democratiche. Nel caso in cui venga meno l'intesa tra le componenti di una coalizione, non si vede come l'accordo possa essere rigenerato dando al premier, di norma espressione di una componente della coalizione, un forte potere di veto. Nel breve termine questo magari può funzionare ma, nel medio termine, può determinare motivi di acredine o quanto meno di forte competizione. Comiinque introduce elementi di dittatorialità contrari alla democrazia più genuina e allo spirito cooperativo che dovrebbe caratterizzare i comportamenti di tutte le forze politiche. Se i motivi di crisi della coalizione sono serie differenze su punti programmatici (sugli obiettivi e sugli strumenti) allora delle due l'una: o i partiti hanno legami molto allentati con i loro elettori - non funziona bene il rapporto di agenzia - e allora la lotta per il potere è limitata a gruppi di potere a carattere oligopolistico. Oppure i partiti hanno legami forti con i loro elettori rappresentano genuinamente le preferenze dei loro elettori - e allora tornare agli elettori o rimettersi a loro per la soluzione del conflitto può risultare ingenuo o illusorio. Nella competizione elettorale che ne seguirebbe le posizioni potrebbero divaricarsi ulteriormente e non favorire affatto l'avvicinamento delle diverse posizioni. La divaricazione sarà tanto più forte quanto più elevata la concorrenza tra le forze politiche che pure dovranno differenziare le loro posizioni. Da un lato, c'è una spinta verso la diversificazione quanto più forte tanto più pluralista e diversificata è la società civile, dall'altro ci può essere e c'è una tendenza alla convergenza dei programmi verso posizioni di centro.' 82

Quest'ultima conclusione è avvalorata dal modello dell'elettore mediano, secondo cui, per cercare di ottenere la maggioranza, i partiti formulano programmi molto simili e convergenti al centro, alias, tendono a convergere su obiettivi generici per convincere l'elettore mediano a votare per loro. Si badi che le due tendenze non sono alternative o contraddittorie. Possono essere presenti anche in contesti dove la coesione sociale è bassa ed i valori comuni non sono molto diffusi. L'elettore mediano non vota per motivi ideologici o perché ha una sua precisa visione della giustizia. Vota soprattutto per massimizzare il proprio interesse. Le due tendenze possono o dovrebbero essere abilmente bilanciate dai politici. In un sistema politico molto variegato - pluralista o, se si vuole, eccessivamente frammentato - tuttavia non basta introdurre un sistema elettorale di tipo maggioritario perché tutto funzioni bene ed il governo stabile assicuri il buon governo. Le elezioni possono anche produrre una maggioranza ampia ma questa può non essere sufficiente per la governabilità del sistema. Lo si vede storicamente anche negli Stati Uniti d'America dove non poche leggi vengono approvate con il consenso biartisan tra l'ala moderata dei Repubblicani e quella progressista dei Democratici. In Italia, il maggioritario coniugato con il potere del premier di scioglimento delle Camere costituirebbe una vera e propria camicia di forza per tutti i partiti. Se questi non sanno stare in squadra, se non adottano un approccio genuinamente cooperativo, prima o poi, proverebbero a romperla perché essa non si addice alla politica in contesto pluralista. Si addice alla politica un approccio negoziale, cooperativo che prevarrà sui momenti di conflitto tanto più facilmente quanto più diffusi sono i valori comuni. In ogni caso, occorre tenere presente la differenza sostanziale tra il momento elettorale e quello dell'attuazione dei programmi. Infatti, quando si passa dall'enunciazione di programmi generici alle scelte concrete di attuazione degli obiettivi programmatici insorgono differenze più rilevanti quanto meno sugli strumenti con i quali conseguire gli obiettivi. Perché a quel punto bisogna individuare esattamente chi sono i destinatari dei benefici e chi sono coloro che debbono sopportarne i costi. Emergono i conflitti di interesse. Se questo è il modo di funzionare della democrazia moderna, se il problema è comunque ben più complesso in una società a basso livello di coesione sociale, la stabilità del governo assicurata da uno strumento così forte come il potere di scioglimento aumenta pericolosamente ilgrado di dittatorialità del sistema. E questo sarà tanto maggiore quanto più piccola è la maggioranza di cui gode il premier dotato di un simile potere.

1 .

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In ogni caso, si pone una esigenza di bilanciamento tra stabilità del governo e governabilità del sistema politico. Di. per se la prima non garantisce la seconda. La soluzione corretta è un'altra: promuovere l'allargamento dei valori comuni e la coesione sociale che risolverebbero non solo i problemi interni alle coalizioni eterogenee ma anche il delicato problema dei rapporti maggioranza minoranza. Al riguardosostiene Tabellini (il Sole 24 Ore del 13.09.03) che "in una democrazia che funziona bene la competizione avviene tra chi governa e chi sta all'opposizione". Ciò stimola chi governa a decidere in modo efficiente o, quanto meno, nell'interesse di una maggioranza di cittadini. In Italia non è mai stato così". Tale schema semplificato, infatti, ha scarsa probabilità che funzioni in contesti pluralistici o frammentati. In ogni caso si tratta di una visione ottimistica della concorrenza politica conia quale concordo solo in parte. Intanto in sistemi che funzionino bene, non è detto che la concorrenza assicuri sempre l'alternanza. Nella seconda metà del secolo scorso, abbiamo visto che nei Paesi scandinavi certi governi, pure sottoposti alla concorrenza della minoranza, hanno potuto mantenere il potere ininterrottamente per diversi decenni. In secondo luogo, in un sistema che funzioni bene ma che è caratterizzato da una varietà accentuata di valori e di gruppi e che deve fare ricorso a coalizioni, la concorrenza non c'è soltanto al momento delle elezioni ma continua anche dopo non solo tra maggioranza e minoranza ma anche all'interno di esse. E dopo le elezioni, delle due l'una: o miracolosamente si ricompongono le differenze nei valori e allora si po.trà avere governabilità oppure ciò non avviene ed allora debbono valere le regole costituzionali. Se su questo c'è consenso ampio allora la. minoranza può limitarsi a controllare che le decisioni del governo e della maggioranza siano assunte nel rispetto dei principi e delle regole costituzionali. Se invece prevale l'idea che chi vince piglia tutto e che la Costituzione può essere modificata ad libitum da chi ha vinto le elezioni, che il patto di lungo termine non vale nel breve e nel medio termine, allora la democra.zia corre seri rischi.

LE MODIFICHE ALL'ART. 117 E LA DEVOLUZIONE.

Sono state spostate, più o meno opportunamente, cinque-sei materie dal comma 3 delle competenze concorrenti al comma 2 delle competenze esclusive dello Stato9. J1operazione trovamotivazioni tecniche per io più condivisibili.

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Intanto personalmente prendo atto con soddisfazione che sull'argomento la maggioranza ha cambiato approccio. Si è ravveduta perché bastava dare uno sguardo ad altre costituzioni federali ed allo stesso Trattato costituzionale della UE per rendersi conto che la presenza di competenze condivise era includibile. È una conseguenza dello spostamento di alcune materie alla competenza esclusiva dello Stato l'allungamento delle competenze di quest'ultimo mentre, come sapete, la logica del principio di sussidiarietà vorrebbe una lista di materie aperta per gli enti di base ed una lista breve e chiusa per quelli via via più in alto. Applicando questo criterio alla suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni, è facile osservare che la lista delle competenze esclusive dello Stato e quella delle competenze concorrenti sono molto lunghe. Per contro quella delle competenze esclusive delle Regioni, anche dopo le ultime modifiche, individua una classe residuale quasi vuota. L'altro aspetto discutibile è che le scelte di spostare da un comma all'altro, come aveva detto a suo tempo il prof. D'Atena, sono fatte più con la facility "taglia e incolla" che in ossequio ad una qualche teoria dei beni pubblici. Su questo terreno, il testo dell'art. 117 non ne esce complessivamente migliorato. Infatti l'individuazione delle competenze avviene con etichette su scatole dai contenuti incerti che si spostano da un livello di governo ad un altro. La loro assegnazione non ha ancoraggi fondatamente motivati. Restano tutti i presupposti per alimentare momenti di conflitto. Si potrà sostenere tutto ed il contrario di tutto. Su questo punto, di nuovo, il modello a cui guardare è quella del Trattato costituzionale della UE. Anche questo è stato criticato e vituperato per la sua lunghezza ma ben venga questa se aiuta a chiarire certi aspetti delicati. Su produzione e distribuzione di energia sulle grandi reti di trasporto e telecomunicazioni ci sono a volte 10-20 righe dedicate proprio al chiarimento delle competenze della Unione da un lato e degli Stati nazionali dall'altro'°. Supposto pure che il riparto tecnico sia fatto bene, questo non risolve.tutti i problemi perché rimane il delicato problema degli accordi di cost-sharing. Questi ultimi dipendono dai riparti precedenti ma non sempre e non del tutto perché niente impone che ad una certa ripartizione tecnica delle competenze segua una parallela suddivisione dei costi. Niente. impedisce che ad un certo riparto delle competenze si accompagni un diverso accordo sulla ripartizione dei relativicosti o che essi magari rimangano in alcuni casi a totale carico dello Stato o delle regioni se ci spostiamo a livello dei rapporti tra Regioni ed EELL. 1.111

Gli aspetti fondamentali sono il riparto tecnico delle funzioni ed i conseguenti accordi di cost-sha ring. Non senza contraddizione, sono stati esplicitamente introdotte nel comma 4 delle competenze esclusive delle Regioni le materie che identificano la c.d. devoluzione di Bossi (sanità, istruzione e polizia locale). Secondo me, l'assegnazione alle Regioni della sanità fu una scelta discutibile dei padri costituenti del '47-48, che non avevano presente una teoria economica dei beni pubblici né gli sviluppi successivi del Welfare State. Mantenerla come funzione condivisa è una soluzione di compromesso ragionevole perché, da un lato, tiene conto della difficoltà di togliere una funzione così rilevante alle Regioni e, dall'altro, lasciando al governo centrale compiti preminenti di programmazione, coordinamento e finanziamento di un bene pubblico nazionale, gli assegna la responsabilità principale di garantire un diritto di cittadinanza così importante. Su questo economisti di varia tendenza, sono in buona sostanza d'accordo !!. I giuristi hanno un'altra impostazione sui beni pubblici. Normalmente riservano la tutela alla competenza esclusiva dello Stato ed operano un conseguente riparto verticale delle funzioni. Ricordo che per l'istruzione le norme generali sono già di competenza dello Stato e che di questo strumento il governo centrale si è sempre servito per erodere i poteri legislativi delle Regioni. Sulla polizia amministrativa regionale e locale bisogna ricordare che, sia pure in regime autorizzatorio (di delega), non c'è niente di nuovo o di lacerante rispetto al trasferimento delle funzioni amministrative già operato con il D. Lgs. 31.03.1998 n. 112 emesso sulla base della legge n. 59/97 c.d. Bassanini-1 12 Ciò posto, concludo che nella sostanza l'operazione sulla c.d. devoluiione ha forte pregnanza politica per la Lega Nord ma, a mio giudizio, scarsa rilevanza operativa. Ma il dibattito anche a livelli qualifiati si incentra sui presiinti effetti devastanti della devoluzione di Bossi. .

IL BLOCCO DEL FEDERALISMO FISCALE

• Dobbiamo fare qualche passo indietro per capire meglio quello che sta succedendo. . Con la legge delega n. 133/99 il Governo di Centro-sinistra sviluppava la linea strategica della Il parte degli anni '90 di anticipare provvedimenti di federalismofiscale in vista della riforma costituzionale.,,

Quella linea aveva alcuni elementi di ambiguità discendenti da obiettivi ed esigenze contraddittori. Una era quella di voler ridurre i trasferimenti espliciti per trasformarli in compartecipazioni, alias, trasferimenti impliciti, in modo da poter dire che aveva ridotto l'incidenza della finanza derivata. L'altra era quella di rispondere a certe domande della Lega Nord secondo cui bisognava ridurre di una certa misura i trasferimenti dal governo centrale alle Regioni meridionali. Il sistema dei trasferimenti doveva comunque essere gestito in modo globale, più trasparente e, possibilmente, in modo orizzonta1 e 13, ossia, con la diretta partecipazione delle Regioni. Solo la prima delle due esigenze è stata raccolta in parte nel D. Lgs. n. 56/2000 in quanto si è legiferata l'abrogazione di alcuni fondi speciali e si è prevista una tabella da dove emerge quanto contribuiscono le Regioni più ricche e quanto ricevono le Regioni meno ricche per lo più del Mezzogiorno. Le linee guida sottostanti la delega e il decreto legislativo apparentemente sono state utilizzate per riscrivere l'art. 119 della Costituzione. In realtà, non mancano autori che hanno messo in evidenza elementi di contraddizione del D. Lgs. n. 56/2000 rispetto alla L. Delega n. 133/99 ed ora del medesimo D. Lgs. rispetto all'art. 119 novellato che, fino a prova contraria, è in vigore (per tutti Pica ottobre 2004) 14 . Se la fretta è stata cattiva consigliera nella scrittura dell'art. 117 Costituzione portando ad una versione problematica, nel caso dell'art. 119 siamo davanti ad un vero pasticcio perché coniuga o giustappone principi contraddittori, confusi e persino ingenu1 15 . Eppure la maggiore attenzione in questi anni è andata all'art. 117 invece che al 119 Costituzione. L'art. 119 (secondo me, non senza leggerezza) prevede che tutti gli enti subcentrali (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni) - a prescindere che siano entità federate o meno - "stabiliscono ed applicano tributi propri". Vuole perequare innanzitutto le capacità fiscali 16. Afferma che in ogni caso gli enti suddetti dispongono di risorse sufficienti per "finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite" 7 . Afferma che le risorse derivate debbono pervenire a Regioni ed EL attraverso un unico fondo non condizionale. Poi, inevitabilmente, prevede "risorse aggiuntive ed interventi speciali per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni", ponendo tutti i presupposti per inevitabili contestazioni, dissensi e contenzioso formale anche di tipo costituzionale 18 . A patte l'innovazione lessicale, si danno visioni diverse per distinguere tra le attività ordinarie da quelle straordinarie. Non si tratta di distinguere le atti87

vità di manutenzione dell'edificio condominiale. Promuovere lo sviluppo delle aree arretrate, spingere il Paese su un tasso di crescita più sostenuto richiede interventi ordinari o straordinari? L'art. 119 coniugato con la lett. m) comma 2 dell'art. 117 è il cuore o vero motore del federalismo fiscale. Mi piace citare Graham (82) un economista canadese il quale afferma che i meccanismi perequativi sono un "elemento intrinseco (costitutivo) del tessuto connettivo della nazione". Se così come giustificare la disattenzione ad essi riservata? A questo punto torniamo al terreno pratico.. Mentre l'iter di riforma costituzionale va avanti secondo il calendario prestabilito, Governo centrale, Regioni ed EELL devono governare i conti pubblici, devono corrispondere alle domande degli italiani, devono rispettare i Patti di stabilità europeo ed interno. Per tre anni di seguito il governo ha bloccato la manovra sulle addizionai. Nella bozza di LF 2005 varata a fine settembre il blocco non c'era. Conformemente a quanto aveva anticipato il Sottosegretario Vegas il 28.10.04 all'Is, il 2 u.s. la Commissione bilancio della CD ha approvato un emendamento della maggioranza che reintroduce il blocco sino al 2006. Per i comuni il blocco si estenderebbe addirittura al 2007. E sostenibile una sospensione della Costituzione così protratta nel .tempo? Prima di rispondere a questa domanda esaminiamo insieme alcune situazioni.

LA SINDROME DEL RINVIO

Ufficialmente tutta la problematica è rimessa all'Alta Commissione di studio sul federalismo. L'ennesimo esempio dell'alta propensione al rinvio della classe dirigente italiana.per lo meno di quella nazionale. Quando si è di fronte ad un problema la cui soluzione implica scelte difficili non di rado,' che co sa si fa? Si rinvia. In alcuni casi, il rinvio fa si che il problema si risolve da solo o che non lo si percepisce più come un problema. In altri, come in quello della mancata cura di un male serio, la conseguenza è l'incancrenirsi della malattia. La LF per il 2003 istituisce l'Alta Commissione con il compito di finire i suoi lavori entro pochi mesi. Ma poi sappiamo che cosa succede nell'estate 2003 a Lorenzago. . . La LF 2004 proroga il termine al settembre dello stesso anno. È quasi certo che nella LF 2005 ci sarà qualche norma che rinvierà ulteriormente il termine per la consegna dei lavori.. Il compito della Alta Commissione è molto com-

plesso ed il tempo non basta mai. E d'altra parte perché mettere fretta all'Alta Commissione se il federalismo fiscale non deve attuarsi in questa legislatura? Fuor dall'ironia, non è colpa dell'incapacità dell'Alta Commissione e dei suoi 'componenti peraltro scelti in modo opportunamente trasversale. Il problema è da un lato in quanto è avvenuto nell'estate del 2003 con il cambio di strategia da parte del governo che prima non attuava il 117 per via delle competenze concorrenti e poi decide di collegare le modifiche al 117 alla più generale complessa riforma di tutta la seconda parte della Costituzione. Dall'altro lato bisogna tener conto che l'allora Ministro dell'economia e delle finanze Tremonti e questo governo intendevano riformare tutta là finanza regionale e locale con l'abrogazione dell'Irap, l'istituzione di una non meglio definita imposta su tutti i servizi e la revisione di tutta la tassazione immobiliare, ecc. (vedi legge delega di riforma del sistema fiscale n. 80 del 7.04.2003). Nell'estate 2004 il Ministro Tremonti è stato sostituito dal Ministro'Siniscalco. Non sappiamo se il nuovo titolare del MEF vorrà attuare tutta la delega per la riforma fiscale secondo le intenzioni non del tutto rivelate dal suo predecessore ma, di certo, il 15 ottobre scorso, c'è stata l'approvazione in seconda lettura della riforma costituzionale con importanti novità anche nel settore che ci interessa più da vicino. Inopinatamente, E stato inserito l'art. 57 (Federalismo fiscale e Finanza statale) che darebbe 'al governo altri tre anni (ne aveva previsto inizialmente cinque) della nuova legislatura per attuare l'art. 119. Come se il Governo non fosse già in mora nell'attuazione del medesimo articolo! Il potere delle Regioni di legiferare in materia fiscale, rafforzatò e allargato dalla riforma del Titolo V del 2001, come noto, in modo convergente, è sta to sospeso non solo dal governo centrale ma anche da alcune sentenze della Corte costituzionale da' cui mi permetto di dissentirel 9 . Nella conferenza stampa del 2 aprile scorso,, il Presidente uscente Zagrebelsky ha detto chiaramente che la Corte non gradiva là supplenza del legislatore e invitava il governo ad attivarsi con sollecitudine per fare la ricognizione dei principi fondamentali nelle diverse materie di competenza condivisa in modo che le Regioni possano legiferare coerentemente con detti principi 20 . Molti danno come avvenuto un forte aumento del contenzioso costituzionale che invece fino al 2003 non c'è stato. La Corte costituzionale parla di un forte rischio che è in re ipsa e non è affatto da sottovalutare ma non deve neanche spaventare 21 . Negli USA c'è una tradizione di' c.d. Federalismo giudiziario. Pochi ricordano l'invito pressante rivolto al Governo. 89

Come ho detto, il governo ha scelto un'altra strategia. Tutti della maggioranza e dall'opposizione dovremmo riflettere sulle conseguenze di questo blocco dell'attuazione del Titolo V che in realtà può essere visto come una sospensione parziale della Costituzione. Quelli che negli ultimi mesi - anche essi folgorati sulla strada di Damasco - hanno sollecitato la massima attenzione ai rischi che l'attuazione del federalismo, meglio, il trasferimento di alcune competenze dallo Stato alle Regioni comporti un aumento della spesa pubblica. In verità non sono mancati i commentatori sui grandi giornali che hanno presentato direttamente le stime sulle risorse da trasferire dal bilancio dello Stato a quello delle Regioni come maggiore spesa aggiuntiva. Nonostante le ripetute smentite deli'Isi ho sentito diversi parlamentari della maggioranza e qualcuno anche dell'opposizione che, invece di informarsi alla fonte, citavano direttamente le opinioni di alcuni opinionisti che scrivono sui più diffusi quotidiani. Pochi, però, hanno ricordato i costi del mancato o ritardato trasferimento delle competenze. Costi non solo finanziari che una lunga ed interminabile transizione determinerebbe in termini di inefficienza. È alto il rischio che si verifichi quello che si è verificato con la prima attuazione delle Rso negli anni '70. Il passaggio dei poteri è avvenuto lentamente. Alle Regioni sono stati lesinati soprattutto le risorse finanziarie e negli anni '80 le stesse sono state accusate di aver fallito la loro missione. Senza che nessuno ricordi che la missione di programmazione e coordinamento loro affidata era diventata improbabile anche per il fallimento della programmazione nazionale che era intervenuto nei primi anni '70. Alle Regioni non era stato affidato alcun compito di amministrazione e la stessa riforma 2001 del titolo V lo prevede solo in via sussidiaria mentre come noto i Laender tedeschi sono il pivot di tutta l'Amministrazione pubblica. Per contro la generalità delle funzioni amministrative sono affidate ai Còmuni e dire che si applicherà la sussidiarietà significa di nuovo rinviare sine die i problemi. Il mantenere la stessa missione alle Regioni ed il trasferimento della generalità delle funzioni amministrative ai Comuni che, per lo più (in 7.000 circa), sono molto piccoli e non hanno strutture amministrative adeguate al compito, rischiano di fare fallire tutto il progetto.

CHE FARE?

Siamo alla Il lettura. Devono esserci altre due letture. Personalmente non vedo seriamente motivate le proposte, da alcuni inopinatamente resu90

scitate, di un Assemblea costituente e/o di una nuova Commissione bicamerale. C'è tempo per tentare un accordo e raccogliere l'invito ripetuto del Presidente Ciampi. Un accordo con la maggioranza sempre che questa mostri qualche segno di ravvedimento. Non vedo bene neanche una modifica dell'art. 138 per eliminare il voto a maggioranza assoluta per lasciare soio quello di 2/3. Un quorum così alto probabilmente giustificato in situazioni eccezionali rischia di irrigidire eccessivamente il processo di riforma e, al limite, di impedire la modifica della Costituzione come modificata dall'attuale maggioranza. Il che sarebbe una vera iattura. C'è un processo di riforma costituzionale in corso da circa 15 anni. Secondo i costituzionalisti i processi di riforma costituzionale sono inarrestabili salvo il ricorso a metodi traumatici. Proprio per le modalità, la complessità, la scarsa cooperazione dei due schieramenti, e delicatezza del processo di riforma in corso verrà fuori da questa legislatura un testo che avrà bisogno di procedure flessibili che consentano di apportare i necessari aggiustamenti. C'è e ci sarà bisogno di grande responsabilità da parte di tutti perché la posta in gioco è veramente grossa. Non ultimo, prima di minacciare o chiedere il ricorso al referendum, bisognerebbe tenere a mente che di norma l'esito dipénde da chi controlla l'agenda non solo in termini di formulazione del quesito - nel caso semplice - ma anche di scelta della data in cui tenerlo. Credo che prima di minacciare e chiedere il referendum, responsabilmente, sia doveroso (oltre che necessario) tentare con tutti i mezzi di convincere la maggioranza ad abbandonare il suo atteggiamento non cooperativo, muscolare. Secondo me bisognerebbe tentare di raggiungere un accordo per adottare il quorum dei 2/3 subito - o almeno in tempo per la III e IV lettura - sulle questioni vitali o ritenute tali dall'opposizioné. Fin qui la reazione ufficiale della maggioranza ai pressanti inviti al dialogo da parte del Presidente della Repubblica è stata: "blindiamo il testo che esce da questa seconda travagliata lettura". Resta la sindrome del rinvio. In realtà essa è una fuga dalle responsabilità. Prima di chiudere vorrei fare qualche osservazione sulle modalità con cui viene operato il rinvio. • Viene addotta nel caso di specie un'altra motivazione più intelligente ma n'on meno pericolosa che contribuisce o porta acqua al partito del rinvio 'o 91

della pausa di riflessione. La motivazione è quella della necessità della gradualità nel processo di attuazione. Una malattia tipicamente italiana che ha procurato danni considerevoli. Si dice: non si possono attuare in fretta e furia riforme come la trasformazione in senso federalista delle istituzioni. Occorre un periodo di adeguamento anche per l'attuazione del federalismo fiscale. Si dice: non si possono buttare Regioni ed EELL nell'agone competitivo senza avere rafforzato preventivamente la loro autonomia tributaria. "La competizione è genuina e fair se avviene alla pari: non sarebbe tale se alcuni corressero con un auto di grossa cilindrata, altri in bicicletta e ai primi, per di più, fosse concesso di partire qualche chilometro avanti...". Secondo me, l'argomentare è sbagliato. Se prima di far competere i concorrenti dovessimo metterli tutti nella stessa posizione di partenza, tenuto conto dei bassi tassi di crescita dell'economia italiana e dell'arresto del recupero del Mezzogiorno, potremmo aspettare qualche secolo e forse più. Si compete con i 'mezzi che si hanno ma le regole del gioco devono prevedere come per i raily automobilistici, le regate veliche ed altri giochi, gli handicap per i concorrenti con i mezzi meno potenti? Nel nostro caso, gli handicap sono i trasferimenti compensativi come ci insegna Breton (1998) teorico dei governi competitivi. Non sono i trasferimenti dati in nome della solidarietà. Lungi da me l'idea di svalutare il concetto di solidarietà e/o fraternità. Ma questa deve operare su altri versanti (assistenza ai bisognosi, ai portatori di handicap, ecc.). Se l'obiettivo è la competizione-cooperazione orizzontale e verticale tra le giurisdizioni dello stesso livello e tra i diversi livelli di governo, trovo più appropriato il riferimento ai trasferimenti compensativi, ossia, a quelli che io chiamo aiuti allo sviluppo. La solidarietà chiesta alle Regioni ricche o alla Lega Nord in nome dei poveri mi fa pensare all'elemosina. Le Regioni meno ricche sono troppo orgogliose per chiederla. Inoltre il gradualismo non funziona se si traduce, inevitabilmente, in interventi assunti con un approccio c.d. puntuale. C'è un punto di crisi, si interviene oggi solo sull'uno e, domani, sull'altro perché la macchina continua a non funzionare. Così passano gli anni e si arriva lentamente alla conclusione che la riforma non funziona. Nell'era informatica, dove tempo e spazio sono ridimensionati, occorre per contro un approccio globale per cui si interviene su tutte le parti della macchina che non funziònano o la si costruisce ex novo.

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Il caso di scuola è quello che avviene nei GP di Fi. Per vincere ci vuole il pilota migliore e la macchina più veloce e più aflìdabile. Per le riforme istituzionali il problema è meno evidente ma c'è lo stess0 22 Il federalismo fiscale va accompagnato dal federalismo politico. Si è preso atto che non poteva esserci federalismo politico senza un Senato federale e si è passati alla riforma di tutta la Il parte della Costituzione. Secondo me, si è andati oltre il necessario perché non c'è connessione necessaria tra federalismo e governo del premier. Sostenere che ci sia è una mistificazione se, come detto, federalismo è governo suddiviso mentre la versione italiana del governo del premier prevede un uomo soio al comando. Piuttosto c'è un problema di coerenza tra forma di Stato e forma di Governo. Non ultimo le pressioni per il rinvio da parte del partito trasversale contrario al federalismo hanno portato ad una calendarizzazione (20062008 23 2009-2011-2016..) dell'attuazione del federalismo che sposa in pieno la linea del gra4ualismo. È alto il rischio che tale esasperata gradualità inceppi il processo di attuazione non solo del federalismo fiscale ma anche delle altre riforme istituzionali connesse o meno che siano col primo. .

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TSEBELIS GORGE,

In ogni caso, i modelli evocati nel dibattito sulla rifdrma sono il modello Westminster, quello presidenziale USA, quello semipresidenziale alla francese, il parlamentarismo puro, quello israeliano, e qualche altro. 2 Non c'è dubbio secondo me che essa diventerà un punto di riferimento ineludibile per tutti i Paesi che l'hanno firmato e che per essi si apre un lungo processo di riforma costituzionale. Ci saranno inevitabili aggiustamenti nelle costituzioni dei Paesi che la ratificheranno e a sua volta in quella eutopea. È un peccato che i costituenti italiani non colgano già le implicazioni. 3 Vedi l'art. 1-46 del Trattato costituzionale. A me sembra inappropriato il ruolo che nella materia si vorrebbe dare al Presidente della Repubblica. 5 La partecipazione dei cittadini non può limitarsi al momento del voto dei candidati alle assemblee rappresentative o al momento congressuale della scelta dei dirigenti dei partiti. 6 Formalmente il Presidente USA non è eletto direttamente dal popolo ma da un collegio ad hoc di delegati raggruppati per Stati ed è solo il Capo dell'esecutivo. Su questo punto vedi M. VOLPI (2004) che cita Sartori secondo cui nel caso inglese non c'è né elezione popolare di diritto né di fatto dal premier ma solo uan indicazione che è "soltanto una notificazione anticipata di chi sarà il Capo del Governo che si basa sul principio della leadership di partito" 8 Tornano alla competenza esclusiva dello

Stato: l'energia nazionale; la tutela della salute; la sicurezza e qualità alimentare; le grandi reti di trasporto e navigazione nazionale; l'ordinamento di Roma; la promozione internazionale del Made in Italy. 9 Vedi ad es. l'art. 111-246 sulle reti transeuropee; l'art. 111-248 su ricerca, sviluppo tecnologico e spazio; l'art. 111-256 su energia. 10 A conforto di questa mia impostazione cito che nel Trattato costituzionale della UE è prevista ora una competenza a livello UE. L'art. III278 è il primo della Sez I che si occupa di Sanità pubblica all'interno del Capo V delle materie e/o settori nei quali l'Unione può decidere di svolgere un'azione di sostegno, di coordinamento o di complemento. " Vedi Titolo V del D. Lgs. N. 112198 artt. 158-164. 12 Di "sistemi perequativi interregionali" parla esplicitamente l'art. 10 della L. n. 133199. 13 Lultimo DPCM 14 maggio 2004 di ripartizione dei trasferimenti del fondo perequativo è stato impugnato dalle Regioni Campania e Puglia presso il TAR e si accingono a impugnare il D. Lgs. N. 5612000 presso la Corte costituzionale. 14 Sull'argomento c'è una letteratura ormai ampia ed anche io ho scritto, ripetutamente sull'argomento. Rinvio al mio scritto de! 2002 e alla letteratura ivi citata. IS l2ancorare il meccanismo di perequazione solo o prevalentemente alle capacità fiscali (intese còme rapportà tra gettito fiscale e Pn. prodotti nelle diverse Regioni o giurisdizioni locali) si95

gnifica trascurare altri parametri (soprattutto: di bisogno, di povertà, disoccupazione, deficit infrastrutturale, ecc.)che appunto caratterizzano le condizioni delle giurisdizioni più povere. Ma se così diventa difficile garantire che in dette giurisdizioni possano attuarsi seriamente i LEA o LEP. E questo a maggior ragione se la capacità fiscale di cui tener conto è quella potenziale. 16 Questo implica un calcolo del fabbisogno e, secondo alcuni, questo si opererebbe attraverso i livelli essenziali delle prestazioni applicandoli a tutti i servizi. Personalmente non condivido questa linea di pensiero che va bene per i beni pubblici che identificano o attuano diritti di cittadinanza ma non per le altre due categorie di beni come da me identificate (vedi GIovN1N1Russo, 1998). Per i beni pubblici locali infatti è ammissibile una certa differenziazione nei livelli delle prestazioni per tenere conto delle diversità nelle preferenze e nei livelli di reddito. Per gli aiuti allo sviluppo la differenziazione sarebbe giustificata in relazione ai diversi fabbisogni che non sono misurati in termini di sei-vizi già resi. 17 È possibile che la garanzia possa giungere attraverso fondi provenienti dal meccanismo di cui al comma 5 ma qui si parla di risorse aggiuntive e di fondi speciali una tantum. Nelle giurisdizioni più povere assicurare i LEA o i LEP purtroppo è attività ordinaria.

Il riferimento è alle sentenze nn. 296 e 297 del 2003 e alla n. 37 del 2004. 19 Sottolineo come nella fattispecie il problema non si limita all'attuazione dell'art. 117. c'è un delicatissimo problema anche con l'attuazione dell'art. 119 e con la riforma del D. Lgs. n. 56/2000 La Corte costituzionale non ha bocciato solo leggi regionali approvate senza preventiva individuazione dei principi fondamentali da parte dello Stato. Ha bocciato anche norme delle leggi finanziarie di questo governo che dopo aver bloccato le manovre sulle addizionali prevedevano trasferimenti ad hoc, condizionali, non conformi alle previsioni dell'art. 119. Si è determinata così una situazione paradossale per cui, da un lato, le Regioni e gli EELL lamentano il taglio dei trasferimenti operato negli ultimi tre anni, dall'altro, rifiutano alcuni trasferimenti condizionali con finalità specifiche, per la verità, di ammontare esiguo. 20 Se il Governo centrale rinvia o addirittura prevarica, se le Regioni superano i confini delle loro competenze, è doveroso che la Corte costituzionale svolga il suo ruolo di arbitro. 21 Tutte le recenti riforme costituzionali sono motivate dall'esigenza di rendere efficiente e spedito il processo delle scelte collettive. 22 Anno in cui si sbloccherebbe la manovra sulle addizionali per i Comuni.

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La concessione della grazia: atto complesso o potere presidenziale esclusivo? di Maria Romana Allegri

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i dibattito politico e dottrinale circa l'opportunità della concessione della grazia ad Adriano Sofri ha portato nuovamente alla ribalta, dopo il polverone suscitato un decennio fa dal caso Curcio, l'annoso problema sulla natura dell'atto di clemenza e sulla titolarità del relativo potere. Il 30 marzo 2004 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha richiesto al Ministro della giustizia Roberto Castelli, la trasmissione dei fascicoli relativi all'istruttoria sull'istanza di grazia presentata da Ovidio Bompressi, al fine di procedere ad una valutazione del caso. Il Presidente Ciampi, inoltre, considerando la stretta connessione fra la posizione processuale di Bompressi e quella di Sofri, pur non avendo quest'ultimo presentato domanda di grazia, ha chiesto informazioni circa l'eventuale avvio di attività istruttorie riguardanti anche Adriano Sofri, facendo comunque presente al Ministro l'opportunità di aprire un'istruttoria sulla concessione a questi della grazia ai sensi dell'art. 681 del Codice di procedura penale. L'episodio non ha mancato di suscitare reazioni contrastanti fra le forze politiche, data la replica del Ministro della giustizia, secondo cui dall'avvio della procedura per la concessione della grazia all'ex leader di Lotta Continua in ottemperanza alle richieste del Capo dello Stato non va desunto necessariamente il consenso del Ministro sui punto.

FATTI DI CRONACA E SPUNTI DI RIFLESSIONE

La questione si è trascinata alcuni mesi e, alla fine, il fascicolo contenente l'istruttoria svolta dal Ministro della giustizia - contenente anche i pareri negativi, non vincolanti, emessi dalla Procura generale di Milano e dal giudice di sorveglianza di Pisa, come pure la relazione ricognitiva del Ministero - è

L'Autore è docente di Istituzioni di Diritto pubblico presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università degli Studi di Roma La Sapienza. 97

stato trasmesso al Quirinale l'il novembre 2004, accompagnato comunque da un parere negativo del Guardasigillil. L'iniziativa del Presidente Ciampi, non casualmente, è stata di poco successiva all'approvazione da parte del Senato, il 25 marzo 2004, del disegno di legge di riforma costituzionale (A. S. 2544), che incide profondamente sulle attribuzioni del Presidente della Repubblica e, in particolare, modifica l'art. 89 Cost. escludendo la necessità della proposta e della controfirma ministeriale per una serie di atti presidenziali comprendenti la concessione della grazia. L'iter del progetto di riforma, per questo particolare aspetto, si presume controverso, considerando anche che parallelamente, il 3 marzo 2004, la Camera dei Deputati ha reagito negativamente proposta di legge Boato per l'attuazione dell'art. 87 Cost. (A. C. 4237): l'approvazione dell'emendamento di Alleanza Nazionale - avvenuta con il sostegno quasi integrale della maggioranza, nonostante il precedente parere favorevole alla concessione della grazia espresso dal Presidente del Consiglio e dal capogruppo di Forza Italia Bondi - eliminando la possibilità per il Capo di Stato di concedere la grazia indipendentemente dalla proposta del Ministro della giustizia, ha sostanzialmente stravolto il significato del testo e ha determinato l'affossamento della proposta. L'intera vicenda e l'accesa querelle che ne è derivata sono stati seguiti con grande interesse dai mezzi di comunicazione, ma forse con interesse minore, salvo qualche voce, da parte dei giuristi. Eppure, indipendentemente dalla situazione contingente di Adriano Sofri e dalle diverse opinioni circa l'opportunità politica della grazia, il processo di revisione costituzionale attualmente in corso richiederebbe una riflessione più attenta sul ruolo del Capo dello Stato e sui suoi rapporti con gli altri organi costituzionali. In tale ottica, il dibattito sulla titolarità del potere di grazia assume una valenza sintomatica dell'inadeguatezza della disciplina costituzionale sul Presidente della Repubblica e suggerisce la necessità di alcune incisive modifiche nell'equilibrio fra i poteri dello Stato e nei connessi meccanismi di garanzia e controllo.

UNA BREVE RICOSTRUZIONE STORICA

Dal punto di vista storic0 2 , come è noto, l'istituto della grazia si ricollega al potere di sospensione dell'efficacia degli atti normativi e di dispensa dalla loro osservanza propri dei sovrani all'epoca delle monarchie assolute. Con l'instaurazione dei regimi parlamentari, il sovrano perse la titolarità dei poteri normativi e i suoi poteri di sospensione e di dispensa vennero rivendicati dal-

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le assemblee legislative 3 . Tale processo, che portò all'affermazione del principio di legalità, vide tuttavia il delinearsi di una categoria di atti "di prerogativa regia", fra i quali appunto la grazia, per i quali si riconosceva al sovrano la titolarità piena ed esclusiva. Con il passare del tempo e con l'affermazione delle monarchie costituzionali, però, tale categoria di atti si è progressivamente assottigliata4 . Esemplare a tale proposito è la vicenda dello Statuto Albertino, che all'art. 8 sanciva il potere regio di "far grazia e commutare le pene". Per quanto, in una prima fase, nessuno dubitasse che la concessione della grazia costituisse un potere personale del re da esercitare al di fuori di ogni ingerenza governativa o parlamentare, successivamente, nel corso dell'evoluzione della forma di Governo verso un modello parlamentare, l'irresponsabilità regia e la conseguente responsabilità ministeriale che l'art. 67 dello Statuto rife riva alle leggi e agli atti di Governo venne estesa dagli interpreti a tutti gli atti del sovrano. Anche per la concessione della grazia, quindi, diveniva necessario l'incontro delle due volontà, quella regia e quella ministeriale. Al momento della redazione della nostra Carta costituzionale, V. E. Orlando osservava quindi in Assemblea Costituente come la teoria per cui il potere di grazia fosse un'attribuzione personale del Re fosse stata da tempo respinta da lui e da tutti i costituzionalisti della nuova scuola e come già con lo Statuto Albertino i poteri del sovrano, compresa la concessione della grazia, fossero esercitati tutti sotto la responsabilità ministeriale 5 . Tale convinzione non era tuttavia universalmente condivisa fra i membri dell'Assemblea Costituente, nel cui seno emersero distinti orientamenti sul significato che la controfirma ministeriale assumeva a seconda della natura del potere presidenziale esercitato. Mcuccio Ruini, ad esempio, ammetteva la possibilità che, nonostante l'irresponsabilità del Presidente della Repubblica, vi potessero essere casi in cui il suo potere discrezionale potesse essere liberamente esercitato, essendo la controfirma ministeriale un atto dovuto 6 .

IL QUADRO NORMATIVO ATTUALE

Le contrastanti visioni dei padri costituenti circa la figura e le attribuzioni del Presidente della Repubblica si riflettono nella nostra Costituzione, la quale, riconoscendo la natura politica dell'amnistia e dell'indulto - sconosciuti allo Statuto Albertino - e riservandoli alla volontà parlamentare 7 , continua a mantenere in capo al Presidente della Repubblica il potere di grazia (art. 87 comma 11 Cost.) Essendo il Presidente irresponsabile per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, la validità degli atti presidenziali è condizio99

nata dalla controfirma del Ministro competente e - ma sul punto la dottrina non è concorde - anche dalla sua proposta, considerando che l'art. 89 Cost. si riferisce al Ministro che controfirma l'atto come "p roponente "8. Per quanto riguarda in particolare il potere di concedere la grazia e di commutare le pene, il dettato costituzionale va integrato con le disposizioni dell'art. 681 del Codice di procedura penale (corrispondente all'art. 595 Cpp 1931): la domanda di grazia è presentata al Ministro della giustizia ovvero al procuratore generale, che la trasmetterà al Ministro, oppure ancora, se il condannato è detenuto o internato, al magistrato di sorveglianza, che pure la trasmetterà al Ministro dopo avere acquisito le osservazioni del procuratore generale (commi i e 2); la proposta di grazia è sottoscritta dal Presidente del Consiglio di disciplina ed è presentata al magistrato di sorveglianza (comma 3); la grazia può essere concessa, a differenza di quanto previsto nel vecchio art. 595 del Codice Rocco, anche in assenza di domanda o di proposta (comma 4); il quinto comma si riferisce alla grazia sottoposta a condizioni. Dal punto di vista interpretativo, il quarto comma dell'art. 681 pone alcuni problemi: non è infatti chiaro se la "assenza di domanda o di proposta" sia da riferirsi alla proposta del Ministro ovvero alla domanda del condannato (o degli altri soggetti legittimati ai sensi del comma 2) e alla proposta del Consiglio di disciplina. La prima delle due possibili interpretazioni - peraltro sostenuta da una parte minoritaria della dottrina - legittimerebbe l'iniziativa individuale e pienamente discrezionale del Presidente della Repubblica, riservando al Ministro il solo potere di controfirma, che potrebbe quindi essere considerato a ragione un atto dovuto. Secondo un'interpretazione ancora più radicale, in assenza di proposta del Ministro per l'atto di clemenza verrebbe meno anche la necessità della sua controfirma, considerando che l'art. 89 Cost. attribuisce il potere di controfirma ai Ministri "proponenti". La prassi si oppone, comunque, ad entrambe le ricostruzioni.

LA QUERELLE DOTTRINALE

Nel caso specifico della grazia, quindi, la disputa dottrinale circa la natura di tale potere e la spettanza al Presidente della Repubblica o al Ministro inizia assai presto. In una prima fase, la tendenza prevalente sembra essere quella dell'accentuazione delle prerogative ministeriali a scapito della discrezionalità presidenziale. Già Paolo Barile sosteneva nel 1958 la progressiva atrofia dei poteri presidenziali in materia di grazia e la corrispondente espansione di quelli governativi9 . Tesi, questa, decisamente respinta da Giorgio Camerinilo, 100

secondo cui "poiché l'atto di grazia viene ad incidere sulla efficacia dei provvedimenti giurisdizionali posti in essere dagli organi del potere giudiziario nell'esercizio di funzioni svolte nel nome del popolo italiano e poiché l'atto stesso tende a conseguire superiori fini di equità, di equilibrio e di pace sociale che devono trascendere ogni distinzione di parte, specie per i provvedimenti attinenti a delitti politici, non pare dubbio che l'atto di grazia debba essere ricompresso tra quelli di indirizzo presidenziale piuttosto che tra quelli governativi in cui prevale l'indirizzo politico"hl. Conseguentemente, "il provvedimento di grazia deve essere considerato un atto di indirizzo presidenziale della cui opportunità e del cui contenuto il Presidente della Repubblica è arbitro, potendo domani essere chiamato a rispondere del suo operato in relazione all'atto stesso a norma dell'art. 90 Cost." 2 . La proposta ministeriale andrebbe ricollegata, secondo Camerini, ad esigenze di carattere unicamente strumentale poiché "dato l'enorme numero di domande annualmente avanzate, appare necessario provvedere preliminarmente ad una loro cernita, presentando all'esame del Presidente della Repubblica solo quelle che presentino concreti requisiti per il loro accoglimento" 3 Di grande significato il contributo al tema di Gustavo Zagrebelsky 14, che sottolinea la triplice natura dell'atto di clemenza: legislativa - nel senso che la grazia costituirebbe una singolare eccezione o sospensione dell'efficacia delle norme di legge relative all'esecuzione delle sentenze penali di condanna - amministrativa - in quanto si tratta di un provvedimento individuale e concreto che agisce solo sull'esecuzione della pena - e politica. La tesi della grazia come atto politico sembra essere quella magiormente sostenuta dall'autore, che sottolinea come già l'art. unico del r. d. 1934 n. 1332 esentasse il decreto relativo dal visto e dalla registrazione della Corte dei Conti. Tuttavia, l'uso troppo frequente ditale istituto riscontrabile nella prassi, tale da incidere profondamente nell'amministrazione della giustizia penale, fino a divenire una sorta di quarto grado del processo condotto da autorità politicamente irresponsabili, porterebbe ad una burocratizzazione del procedimento e ad una conseguente perdita dei connotati propri dell'atto politico 15 . Per quanto riguarda il problema della spettanza del potere di grazia, Zagrebelsky aderisce alla tesi secondo cui "la grazia è atto del Presidente della Repubblica emesso con la collaborazione del Ministro, senza che ci si possa domandare a quale volontà sia da attribuirsi il peso prevalente." 16 Zagrebelsky accoglie quindi sostanzialmente l'opinione già espressa da Carlo Esposito 17 pur rinvenendone il limite nel mancato riconoscimento al Presidente della Repubblica di un autonomo potere di incidenza. Conseguentemente, in relazione alla controversa . ,

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possibilità che il Presidente della Repubblica possa concedere la grazia di propria iniziativa, Zagrebelsky ritiene comunque necessaria la proposta ministeriale, salvo nel caso eccezionale in cui il Presidente della Repubblica venisse a conoscenza di situazioni particolari per vie non ufficiali; in tal caso la procedura corretta sarebbe quella di trasmettere la notizia al Ministro, affinché egli, esaminato il caso e ritenuta opportuna la concessione della grazia, possa presentare al Presidente della Repubblica la relativa proposta. Di diverso avviso è Livio Paladin, secondo il quale la proposta ministeriale per la concessione della grazia può esservi, ma non è da ritenersi né vincolante né indispensabile. La collaborazione del Presidente con il Ministro è auspicabile, "ma resta fermo che il Presidente può sia discostarsi dall'eventuale proposta del Ministro stesso, sia surrogarla con la propria iniziativa; mentre il Ministro è tenuto, dal canto suo, a non far mancare al Presidente le informazioni occorrenti allo scopo" 18• Eugenio Selvaggil 9 propende per la tesi della concessione della grazia come atto politico e per quella della natura complessa di tale atto, frutto dell'apporto congiunto della volontà del Presidente della Repubblica e del Ministro. Una volta pervenuta la proposta di grazia da parte del Ministro - proposta che il Presidente della Repubblica ha ben il diritto di sollecitare 20 - il Presidente esercita il relativo potere in modo ampiamente discrezionale, non essendo vincolato dalla proposta ministeriale. In ogni caso, in mancanza di regole fisse desumibili dal diritto positivo, deve essere dato deciso rilevo alla prassi, che attesta come il Presidente della Repubblica non abbia mai emesso un provvedimento di grazia senza la previa proposta del Ministro competente. "Tale essendo la prassi, pare inesatto configurare la grazia come atto preminentemente presidenziale, ché anzi la prassi sembra indicare una partecipazione assorbente del Ministro. Le osservazioni da ultimo avanzate trovano poi conforto nel rilievo che il potere di grazia può essere orientato a fini politici e che nel nostro sistema il Governo è il solo soggetto politico, tra quelli che detengono il potere sovrano dello Stato, responsabile politicamente in via istituzionale" 21 . Analogamente Massimo Siclari afferma chiaramente che la grazia non può essere considerata un atto strettamente presidenziale 22 e che "la dualità dell'atto è intimamente connessa con la trasformazione cui lo sviluppo dei sistemi parlamentari ha assoggettato i poteri clemenziali" 23 . Risalta comunque l'ambiguità e l'incertezza nella quale la nostra Costituzione lascia importanti profili della figura presidenziale, rinviandone la definizione a consuetudini, a regole costituzionali o di mera correttezza 24. Ricordando il dibattito in Assemblea Costituente circa il riconoscimento della di102

screzionalità del Presidente della Repubblica in relazione agli atti a lui i mpu: tati o almeno a parte di essi, Mario Midiri precisa che alla conclusione dei lavori dell'Assemblea Costituente, l'opinione pii diffusa in tema di rapporti fra i due poteri è che gli stessi, non essendo determinabili quantitativamente, appartengono ad un ambito pregiuridico, nel convincimento, non sempre esplicitato, che il loro assestamento derivi dalla forza politica dei titolari di ciascuno dei due organi" 25 . Esaminando le diverse ipotesi di controfirma ministeriale di atti propri del Presidente della Repubblica, Midiri ne coglie prevalentemente l'aspetto "permissivo" (la sottoscrizione del Ministro consente la valida conclusione del procedimento) e quello di controllo sulla regolarità dello svolgimento della funzione presidenziale, piuttosto che quello del concorso della volontà ministeriale alla formazione dell'atto. Sempre in relazione al significato della controfirma ministeriale, un recente intervento di Michele Ainis risale alle origini dell'istituto "quando essa non implicava ancora un'assunzione di responsabilità politica del Governo per l'atto nei confronti del Parlamento, ma soltanto per l'esecuzione dell'atto nei confronti del sovrano" 26 ' svolgendo la duplice funzione di attestare la provenienza dell'atto da parte del monarca (alla stregua di un'autenticazione della firma) e di impegnare il controfirmante a dare esecuzione all'atto stesso. La controfirma ministeriale del decreto di concessione della grazia ne attesterebbe quindi la provenienza e la regolarità formale, impegnando parimenti il Ministro a dare esecuzione alla decisione presidenziale. In caso di diniego della controfirma, si aprirebbe la via, indubbiamente lacerante, del conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato da sottoporre al giudizio della Corte costituzionale.

LA CONCESSIONE DELLA GRAZIA NELLA PRASSI

Le opinioni espresse in dottrina trovano linfa vitale nei fatti di cronaca, alcuni dei quali hanno suscitato non poche perplessità nell'ambiente politico e accademico. Fra questi, la concessione della grazia, nel 1985, da parte del Presidente Pertini a Flora Pirri Ardizzone, condannata per reati di terrorismo. Il provvedimento ha scatenato vivaci discussioni circa la titolarità del potere di grazia, sia in relazione alla gravità dei reati commessi dalla Pirri Ardizzone sia per il fatto che esso sia intervenuto in concomitanza dell'esame parlamentare del disegno di legge del Governo sulla dissociazione degli ex terroristi. Secondo Giovanni Guglia27 gli artt. 595 e 596 del Cpp, che regolano la procedura relativa alla fase istruttoria che si svolge presso il Ministero competen,

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te, come pure l'alto numero di grazie concesse, confermerebbero le considerazioni di Zagrebelsky circa la burocratizzazione dell'atto, che tenderebbe a costituire la conclusione di un circuito decisionale di routine all'interno del quale la discrezionalità del Presidente della Repubblica risulterebbe irrilevante. Ciò sarebbe confermato dalla tendenza del Presidente della Repubblica, ripetuta nel caso concreto della Pirri Ardizzone, a concedere il provvedimento di clemenza sulla base di una relazione elaborata dal Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, che valuta l'opportunità dell'atto dopo avere esaminato la documentazione relativa alla fase istruttoria trasmessagli dall'Ufficio grazia del Ministero. L'iniziativa del Presidente Cossiga circa la concessione della grazia a Renato Curcio riapre lil dibattit0 28 nell'estate 1991. La vicenda 29, conclusasi con il parere negativo del magistrato di sorveglianza al termine dell'istruttoria e il diniego del Ministro Martelli della controfirma dello schema di decreto presentatogli in quattro diverse versioni dal Presidente Cossiga, è di grande interesse per via del conflitto tra poteri sollevato dal Ministro Guardasigilli nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Presidente della Repubblica, poi dichiarato estinto 30 . Paolo Veronesi3 ' ritiene inammissibile che il conflitto di attribuzioni venga sollevato da un solo Ministro, senza la previa delibera consiliare, considerano che la legge n. 400 del 1988 sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio attribuisce al Consiglio dei Ministri il potere di dirimere i conflitti di attribuzioni fra Ministri (art. 2) e al Presidente del Consiglio quello di sospendere l'adozione di atti da parte dei Ministri competenti in ordine a questioni politiche e amministrative, sottoponendoli al Consiglio dei Ministri (art. 5 punto 2 c) nonché quello di sottoporre al Consiglio dei Ministri ogni provvedimento per il quale egli ritenga opportuna la deliberazione consiliare (art. 2 punto 2 q). L'autore sottolinea come la sospensione di ogni decisione ministeriale da parte del Presidente del Consiglio non intendesse privare il Ministro del suo potere proposta e di controfirma dell'atto presidenziale, ma fosse semplicemente volta ad esercitare su di esso una forma estrema di pressione, legittimata dall'incidenza del provvedimento sull'indirizzo politico seguito dal Governo in ordine al terrorismo. Sempre in relazione al caso Curcio, Eugenio Selvagg1 32 mette in luce come, nonostante l'atto presidenziale non possa prescindere dalla proposta ministeriale, il Presidente della Repubblica non sia ad essa vincolato, potendo non solo respingere o modificare il contenuto della proposta, ma anche sollecitarla. In anni più recenti Roberto Quintavalle 33 torna sull'argomento e ribadisce che, nonostante l'art. 681 Cpp individui nel Ministro il soggetto destinatario 104

della domanda di grazia, corredata dai pareri e dalle osservazioni del giudice di sorveglianza e del procuratore generale, il Presidente della Repubblica ha sempre avuto la possibilità di intervenire nelle procedure di grazia per chiedere un'informativa verbale o scritta sulle risultanze delle istruttorie e sulle determinazioni adottate, oppure per sollecitare la conclusione dell'istruttoria o per segnalare al Ministro l'opportunità della concessione del provvedimento, oppure ancora per rifiutare la firma di un provvedimento ritenuto inopportuno. Dal caso Curcio al caso Sofri: nonostante, a differenza di Curcio, Sofri non abbia presentato istanza per la concessione della grazia 34, le due vicende condividono l'esercizio, da parte dei Presidenti Cossiga e Ciampi, dei poteri di concessione della grazia nel senso dell'iniziativa e della sollecitazione della proposta ministeriale, incontrando un sostanziale rifiuto da parte del Ministro. In entrambi i casi, inoltre, i Presidenti hanno sottolineato la natura complessa dell'atto e la necessità non solo della controfirma, ma anche della proposta ministeriale. Infine, nei due casi si è registrata la mancata coincidenza fra la posizione assunta dal Ministro competente e quella del Presidente del Consiglio. Ancora Selvaggi, in un recente contribut0 35 , mette a confronto le due situazioni: a suo giudizio, l'epilogo del caso Curcio costituisce il riconoscimento della competenza spettante in materia al Ministro della giustizia; tuttavia la disposizione dell'art. 681 Cpp non indica esplicitamente la proposta del Ministro come momento conclusivo della procedura, ferma restando l'incontestabile necessità della controfirma, che potrebbe però essere interpretata nel senso di un atto dovuto, come avviene per altre attribuzioni presidenziali quali, ad esempio, la nomina dei senatori a vita o dei giudici costituzionali. L'attribuzione al Presidente della Repubblica del potere sostanziale della concessione della grazia potrebbe delinearsi in via normativa (la proposta Boato) ovvero potrebbe trovare una soluzione politica attraverso l'esercizio da parte del Presidente del Consiglio della sospensione delle decisioni ministeriali aventi implicazioni politiche e della remissione della questione al Consiglio dei Ministri, secondo quanto disposto dalla 1. 4001198836.

IL DIBATTITO PARLAMENTARE SULLA MODIFICA DELL'ART. 681 C.P.P.

Il caso Sofri e i diversi punti di vista in merito alla concessione della grazia espressi al Capo di Stato e dal Ministro della giustizia fin dall'estate del' 2003, di cui la stampa si è largamente occupata, hanno coinvolto, oltre all'opinione 105

pubblica, anche il Parlamento. 1117 luglio 2003 il deputato Marco Boato ha presentato una proposta di legge, sottoscritta da deputati appartenenti a quasi tutte le forze politiche, di attuazione dell'art. 87 Cost (A. C. 4237). La proposta, in soli due articoli, prevedeva l'abrogazione dell'art. 681 Cost. e la sua sostituzione con nuove disposizioni secondo cui il Presidente della Repubblica avrebbe potuto concedere la grazia e commutare le pene, anche in assenza di domanda o di proposta, con proprio decreto controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri; al Ministro della giustizia veniva riservato un mefo potere istruttorio. La proposta si basava sui riconoscimento in capo al Presidente della Repubblica di poteri sostanzialmente presidenziali, esercitabili in piena autonomia, e sulla convinzione che l'art. 681 Cpp, attribuendo un ruolo essenziale al Ministro competente nella proceduta di concessione della grazia, fosse sostanzialmente contrastante con lo spirito dell'art. 87 Cost. Di qui l'idea di attribuire al Guardasigilli competenze marginali e di conferire al Presidente del Consiglio il potere di controfirma, sottintendendo la possibilità per il Capo di Stato di sollevare conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale in caso di suo diniego. La proposta Boato ha suscitato significative perplessità, su1 piano sia politico sia dottrinale, in ordine alla sua compatibilità con il dettato costituzionale e, in particolare, con l'art. 89 Cost., che sancisce la necessità della controfirma per "tutti" gli atti presidenziali, attribuendo "anche" (e non "solo") al Presidente del Consiglio la facoltà di controfirmare gli atti legislativi e gli altri indicati dalla legge. La proposta contrasta inoltre con le consuetudini costituzionali che, in oltre quarantaseimila casi, hanno previsto la controfirma ministeriale dell'atto di clemenza presidenziale: tale consuetudine potrebbe essere modificata solo con una legge di rango costituzionale e non con una legge ordinaria 37 . Di diverso avviso Michele Ainis che, nella sua relazione al convegno promosso dal Partito Radicale sulla questione del potere di grazia del Presidente della Repubblica38 , sottolinea come la prassi conosca già atti presidenziali per i quali, in assenza di Ministro proponente, la controfirma è affidata al Presidente del Consiglio: la concessione della grazia rientrerebbe fra questi. "D'altra parte, vorrà pur dire qualcosa se, dopo la riforma del 1999, Castelli è ormai soltanto Ministro della giustizia e non più anche della grazia. Significa che il diritto positivo ha creato i presupposti per una inversione della prassi" 39 . A tale proposito tuttavia - nota M. Siclar1 4 ° - la Costituzione agli artt. 107 e 110 fa riferimento al "Ministro della giustizia" e non al "Ministro di grazia e giustizia", come si esprimeva la legislazione precedente, e in ogni caso il regolamento del Ministero della giustizia4 ' prevede una Direzione generale per 106

la giustizia penale cui è affidata, fra l'altro, la competenza della procedura istruttoria per le domande di grazia. Inoltre - prosegue Siclari - il trasferimento della titolarità della controfirma effettuato con legge ordinaria, alterando la competenza prevista in Costituzione in capo al Ministro proponente, altera la gerarchia delle fonti normative ed inoltre cristallizza la plurivocità di indirizzi politici presenti nel Consiglio dei Ministri a scapito dell'unità di indirizzo politico che il Presidente del Consiglio dovrebbe invece garantire 42 Rispetto all'originale proposta Boato, la Commissione Affari Costituzionali della Camera ha raggiunto un compromesso, accogliendo gli emendamenti proposti dal forzista Carlo Taormina (A. C. 4237-A): con un unico articolo suddiviso in 7 commi si intendeva sostituire il vigente testo dell'art. 681 Cpp, ripristinando il potere di controfirma del decreto presidenziale ad opera del Ministro della giustizia, parallelamente alla possibilità per il Presidente della Repubblica di attivare autonomamente la procedura indipendentemente dalla richiesta del condannato e dalla proposta ministeriale, senza che il Ministro possa intervenire per ostacolare il provvedimento; d'altra parte, la domanda di grazia verrebbe ihdirizzata direttamente al Presidente della Repubblica e da questi trasmessa al magistrato di sorveglianza, oppure presentata al magistrato di sorveglianza che provvederebbe alla trasmissione al Capo di Stato; il magistrato di sorveglianza, inoltre, raccolti tutti gli elementi di giudizio, trasmetterebbe gli atti al Ministro della giustizia unitamente ad un proprio parere; il Ministro, poi, esperite le indagini e acquisite le informazioni utili, trasmetterebbe gli atti al Presidente della Repubblica unitamente ad una propria proposta. In altre parole, a parte il gioco di "trasmissioni incrociate", ciò che conta è che, secondo questa riformulazione dell'art. 681 Cpp, la controfirma del Ministro della giustizia avrebbe il valore di un atto dovuto nel caso in cui concessione della grazia prendesse le mosse da una iniziativa individuale del Presidente. Liter nel complesso non verrebbe snellito e manterrebbe un carattere burocratico: "un circuito decisionale di routine, habitat ideale per arbitrii consumati in penombra, a un tempo causa ed effetto del numero davvero elevato di grazie concesse" 43 . Inoltre, la proposta così modificata - peraltro respinta dalla Camera il 3 marzo 2004 - non rispettava lo spirito originario della proposta Boato, cioè quello di conferire al Presidente della Repubblica la piena e indiscussa titolarità del potere di grazia: la debolezza non risiedeva soltanto nell'attribuzione del potere di controfirma al Ministro Guardasigilii, ma anche e soprattutto nella sua facoltà di "proposta" non un semplice parere - prevista dal comma 4, non qualificata espressamente come "non vincolante" 44 . .

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Tutto sommato, se l'iter della proposta si fosse concluso positivamente, il controverso problema della spettanza della titolarità del potere di grazia, come pure quello della compatibilità o meno dell'art. 681 Cpp rispetto alle norme costituzionali sarebbe risultato ancora più intricato. In ogni caso, la vicenda legislativa è lungi dall'essere conclusa. Nel mese di aprile 2004 sono stati infatti assegnati alla Commissione Affari costituzionali del Senato due disegni di legge, il cui esame non è comunque ancora iniziato. Il primo (A. S. 2863), sottoscritto da Guido Calvi e da altri 38 Senatori del centrosinistra, propone di modificare l'art. 681 Cpp specificando che il Ministro della giustizia "al termine dell'istruttoria, di propria competenza, la trasmette entro e non oltre sessanta giorni dal suo ricevimento, insieme, se lo ritiene, con il proprio parere non vincolante, al Presidente della Repubblica". Qualificando espressamente come non vincolante né necessario il parere del Ministro, la proposta intende sottolineare la natura di atto dovuto della controfirma ministeriale senza tuttavia pronunciarsi espressamente sui punto, sottolineando parimenti la piena autonomia di iniziativa del Capo di Stato in materia di grazia. Tuttavia essa non fa chiarezza sul punto maggiormente controverso: potrebbe il Ministro negare la controfirma di un atto di clemenza avviato dal Presidente della Repubblica indipendentemente dalla proposta ministeriale o senza tenere conto del parere del Ministro? La seconda proposta (A. S. 2897), presentata dal Sen. Francesco Cossiga, intende inserire nell'art. 681 Cpp un nuovo comma che introdurrebbe nel nostro ordinamento il c.d. blanketpardon, cioè la concessione della grazia anche per reati per i quali non sia stata ancora emessa sentenza definitiva o non sia stata ancora emessa alcuna sentenza, come pure per fatti che costituiscano o possano costituire reato, ancorché non sia stata ancora promossa l'azione penale. Il tema esula comunque dalla presente trattazione e non verrà pertanto ulteriormente approfondito in questa sede.

LA GRAZIA NEL PROGETTO DI REVISIONE COSTITUZIONALE

L'irrisolto problema della concessione della grazia non ha mancato di investire anche il processo di revisione costituzionale in corso. Il 25 marzo 2004 il Senato ha approvato il disegno di legge di revisione costituzionale (A. S. 2544) che, incidendo profondamente nei rapporti fra gli organi costituzionali, modifica in parte le attribuzioni del Presidente della Repubblica. Secondo l'ultima versione dell'art. 89 Cost., alcuni atti del Presidente non verrebbero né proposti né controfirmati dal Primo Ministro o dai Ministri: fra questi, 108

appunto, la concessione della grazia. Qualora l'iter di revisione costituzionale non incontri futuri ostacoli, il problema della titolarità del potere di grazia verrebbe risolto una volta per tutte nel senso della sua definitiva attribuzione al Presidente della Repubblica a titolo di competenza piena ed esclusiva, con buona pace di coloro i quali sostengono da tempo, contrariamente alla dottrina maggioritaria, la tesi dei poteri propri del Presidente. Fra questi Michele Ainis, che ribadisce che "solo il Capo dello Stato (per le modalità della sua elezione, per la funzione arbitrale che riveste nell'ordinamento costituzionale, per il suo ruolo di rappresentante dell'unità nazionale) offre la garanzia di un esercizio imparziale del potere di grazia, che non sia al servizio d'usi partigiani, di interessi politici di parte. Sicché nella fattispecie il Ministro (e il ministero) della giustizia svolge un ruolo servente rispetto al Quirinale" 45 . Analogamente Andrea Pugiotto, pronunciandosi contro l'uso politico della grazia, scrive: "la stretta correlazione tra clemenza individuale e finalità di risocializzazione della pena - testimoniata dal coinvolgimento della magistratura di sorveglianza nell'istruttoria del provvedimento di grazia - è incompatibile con una valutazione politica da parte di un organo, il Governo, chiamato semmai a garantire l'applicazione delle leggi e l'esecuzione delle condanne. L'eventuale concessione della grazia per ragioni di natura politica [ ... ] si configurerebbe come un'interferenza nella giurisdizione capace di ridurre a mera apparenza l'autonomia dei giudici e la forza del giudicato. Un'invasione di campo resa ancora più insidiosa dall'assenza, non rimediabile, di pubblicità e di motivazione "46 L'autore spiega poi come la decisione sulla concessione della grazia non sia riconducibile al potere di indirizzo politico ex art. 95 Cost. e come, di conseguenza, un atto cui il Governo è estraneo e per il quale non può ritenersi responsabile non possa assumere valore di proposta vincolante. Nell'ipotesi di una revisione costituzionale nel senso suindicato, le attuali disposizioni dell'art. 681 Cpp, nelle quali non compare alcun riferimento alla proposta o alla controfirma ministeriale, risulterebbero pienamente compatibili con il nuovo dettato costituzionale e verrebbe meno la necessità di una loro modifica sulla falsariga del disegno di legge Calvi. Eventuali problemi interpretativi scaturirebbero invece direttamente dalla Costituzione stessa. Come nota correttamente Beniamino Caravita 47 infatti, la riforma costituzionale non tocca per il momento l'art. 90 Cost., che esclude la responsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne il caso di alto tradimento o di attentato alla Costituzione. Venendo meno la controfirma ministeriale su una serie di atti qualificabili come ,

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sostanzialmente presidenziali e la conseguente assunzione di responsabilità da parte dei Ministri competenti, il nuovo art. 89 Cost. introdurrebbe nel nostro ordinamento alcuni atti per i quali nessuno sarebbe responsabile sotto il profilo civile, penale, amministrativo e contabile. A tale osservazione va aggiunto anche che la competenza esclusivamente presidenziale della concessione della grazia ridurrebbe la possibilità di adire la Corte costituzionale per conflitto di attribuzioni all'unico caso in cui il Ministro della Giustizia si rifiutasse di avviare l'istruttoria ovvero si rifiutasse di trasmettere al Presidente della Repubblica il relativo incartamento. Estremamente improbabile sarebbe, infine, la possibilità che l'esercizio delle attribuzioni di competenze esclusivamente presidenziali - e nella fattispecie la concessione della grazia - possa determinare la messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica per altro tradimento o per attentato alla Costituzione. Come si vede, i nodi al pettine sono molti e intricati. L'esigenza di un rafforzamento del ruolo del Presidente della Repubblica, affinché egli possa svolgere effettivamente e incisivamente il suo ruolo di garante dell'equilibrio istituzionale, si scontra, da una parte, con l'istituto ormai acquisito e consolidato della irresponsabilità presidenziale e, dall'altra, con i problemi posti dalla contaminazione del vigente assetto costituzionale con alcuni elementi propri di forme di governo tendenzialmente dualiste. Per quanto riguarda specificamente la grazia, poi, il frequentissimo ricorso a tale provvedimento ha di fatto sostituito nella perceziòne comune la sua originaria valenza di atto di clemenza extra ordinem, proprio del Capo di Stato, con quella di atto di indirizzo politico, rientrante nella competenzadel Governo, o di mezzo di amministrazione della giustizia. Nessuna delle soluzioni prospettate in dottrina appare pienamente convincente, anche perché ancora troppo incerta appare la definizione del ruolo del Capo dello Stato nell'attuale quadro istituzionale. Solo una previa soluzione di questo problema - anche attraverso modifiche costituzionali, se necessario - potrà sciogliere ogni dubbio circa la corretta attribuzione della titolarità del potere di grazia. Dal mio punto di vista, una corretta interpretazione della Costituzione attualmente vigente non consente di prescindere dalla proposta ministeriale dell'atto di concessione della grazia e dalla controfirma del decreto ad opera del Ministro della giustizia. Tale procedimento - che è peraltro frutto di una prassi consolidata - mi pare rispettoso dello spirito con il quale i Costituenti hanno voluto delineare il complesso di attribuzioni del Presidente della Repubblica mettendone in risalto la neutralità rispetto alla determinazione 110

dell'indirizzo politico e la posizione di sostanziale irresponsabilità. Tuttavia, non mi pare si possa in alcun modo escludere che, allo stato attuale, il Presidente della Repubblica abbia piena facoltà, se lo ritiene opportuno, di sollecitare l'iniziativa ministeriale in relazione a provvedimenti di concessione della grazia. La scelta compiuta nel progetto di revisione costituzionale, che attribuisce al solo Presidente della Repubblica la titolarità dell'atto di concessione della grazia, se confermata nel prosieguo dell'iter legislativo, cambierebbe, come è ovvio, l'impostazione del problema. Tuttavia, se può apparire ragionevole la scelta di conferire al Presidente della Repubblica alcuni poteri da esercitare in via esclusiva, in modo che egli possa porsi, per taluni aspetti, come necessario contraltare al potere di indirizzo politico esercitato dal Prernier, non altrettanto appare quella di non aver chiarito la natura e i limiti della responsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti di sua esclusiva competenza.

Articolo di E Rizzi su "La Repubblica", 12 novembre 2004, p. 18. 2 Tralasciando, in questa sede, di approfondire l'esame della genesi storica del potere di grazia, si rimanda alla letteratura sull'argomento, segnalando a titolo esemplificativo: G. CiEiuNI, La grazia, la liberazione condizionale e la revoca antictpata delle misure di sicurezza, Padova,

Cedam, 1967; G. ZAGREBELSKY, Grazia (Diritto Costituzionale), Enciclopedia del Diritto, vo!. XIX, Milano, Giuffr& 1970, pp. 757-770; G. ZAGREBELSKY, Amnistia, indulto e grazia: profili costituzionali, Milano, Giuffré, 1974; più recentemente, M. AINIs, Sulla titolarità del potere di grazia, in "Quaderni Costituzionali", n. 1, 2004, pp. 97-109 (partic. par. 2), M. SIcLARI, Concessione della grazia e controfirma ministeriale, in www.associazionedeicostituzionalisti.it , 11 novembre 2004, partic. par. i (di prossima pubblicazione nella raccolta di scritti in onore del prof. Giovanni Ferrara). 3 Nel BilI ofRight del 1989 si trova affermato il principio per cui il re non possa sospendere l'efficacia della legge né dispensare dalla sua os-

servanza o esecuzione se non con il consenso del Parlamento. A titolo esemplificativo può essere citato l'art. 78 della Costituzione belga del 1831, secondo cui "il Re non ha altri poteri che quelli attribuitigli formalmente dalla Costituzione e dalle leggi particolari fondate su di essa". 5 Atti Ass. Cost., 22 ottobre 1947, p. 1459. 6 Atti Ass. Cost., 12 marzo 1947, p. 20 segg. e 23 ottobre 1947, p. 1494. 7 La versione originaria dell'art. 79 Cost. attribuiva il potere di concedere l'amnistia e l'indulto al Capo di Stato, su legge di delegazione delle Camere. Con la riforma avvenuta con legge costituzionale 6 marzo 1992 n. i la potestà di concedere l'amnistia e l'indulto è stata riservata integralmente alle Camere, con legge approvata a maggioranza dei due terzi. 8 Il testo dell'at, 89 elaborato dalla Il sottocommissione prevedeva la controfirma da parte del Ministro "competente" per tutti gli atti presidenziali. In sede di Assemblea, i deputati Benvenuto e Dominedò proposero un emendamento secondo il quale la controfirma ministeriale 111

non era necessaria per gli atti presidenziali "in via di prerogativa", ma Perassi chiese di modificare il testo proposto dai due deputati ripristinando l'irresponsabilità presidenziale per tutti gli atti. Lemendamento Perassi sostituiva tuttavia l'espressione "Ministri proponenti" alla precedente "Ministri competenti", senza che la modifica suscitasse alcuna particolare osservazione. Per questo molti ritengono che l'approvazione di tale modificazione sia sostanzialmente frutto di una svista. (Atti Ass. Cost., 23 ottobre 1947).

P. BARILE, I poteri del Presidente della Repubblica, in "Rivista trimestrale di diritto pubbliCO", 1958, pp. 295 ss. IO G. CAMERIN!, La grazia, la liberazione condizionale e la revoca anticipata delle misure di sicurezza, Padova, Cedam, 1967. Ibid. pp. 18-19. 12 Ibid. p. 20. 13 Ibid. p. 20. 14 G. ZAGREBELSKY, op. cit. alla n. 2. 15 G. ZAGREBELSKY, Amnistia, indulto e grazia, cit., pp. 218-223. 16 ZAGREBELSKY, Grazia (Diritto Costituzionale), cit., p. 764. 17 C. EsPosiTo, Capo dello Stato. Controjìrma ministeriale, Milano, Giuffré, 1962. Secondo tale autore (p. 83), la controfirma ministeriale costituisce una certificazione dell'avvenuta collaborazione tra capo dello Stato e Ministro, con la conseguenza che l'indagare quale partecipazione sia stata prevalente nella formazione della volontà di cui l'atto è espressione non ha alcuna concreta utilità. 18 L. PALADIN, Presidente della Repubblica, in "Enciclopedia del Diritto", vo1. XXXV, Milano, Giuffré, 1986, p. 235 s. 19 E. SELVAGGI, Grazia (Diritto Costituzionale), Enciclopedia Giuridica, Roma, Treccani, 1989. 20 A proposito del potere del Presidente della Repubblica di sollecitare il Ministro alla concessione della grazia, GIUSEPPE UGO RESCIGNO (Il Presidente della Repubblica, art. 83-87, in "Commentario della Costituzione" a cura di G.

BRANCA, Bologna, Zanichelli, 1978) ritiene la questione assai delicata, "perché da un lato la risposta affermativa rischia di violare la eguaglianza tra quei condannati la cui domanda segue l'iter normale e quegli altri che beneficiano dell'interessamento del Presidente della Repubblica; dall'altro lato la risposta negativa irrigidisce contraddittoriamente l'istituto che è nato come extrema ratio a fini di clemenza [ ... ] Le due contrastanti esigenze possono comporsi se il Presidente della Repubblica farà un uso estremamente cauto, eccezionale e riservato del suo potere di iniziativa, in quei casi in cui veramente il suo intervento acquista il significato di ultimo rimedio contro un'ingiustizia palese o per rispondere a superiori esigenze di umanità". 21 SELVAGGI, cit., p. 4. 22 M. Sici.iu, cit. alla n. 2, p. 8. 23 Id. p. 9. 24 Così MARIO MIDIRI, Controfìrma ministeriale, Enciclopedia Giuridica, Roma, Treccani, 1988. 25 Ibid.p.4. 26 M. AINI5, Sulla titolarità del potere di grazia, cit., pp. 106-107. 27 G. GUGLIA, Spunti e intrrogativi sull'esercizio del potere di grazia, in "Quaderni Costituzionali", n. 3, 1985, pp. 575-582". 28 FAUSTO CUOCOLO (Istituzioni di diritto pubblico, XI edizione, Milano Giuffré, 2000, P. 326) scrive in proposito: "Ma il problema era mal posto, non solo per la rivendicazione alla competenza del Capo dello Stato di una decisine che richiedeva una valutazione del Ministro della giustizia, ma anche per il significato 'politico', in riferimento alla troppa disinvolta archiviazione degli 'anni di piombo', che tale grazia avrebbe potuto, o voluto, significare, e che dunque a maggior ragione richiedeva una valutazione del Governo e forse anche del Parlamento. Non senza dimenticare le radicate e diffuse riserve della pubblica opinione e la mancata acquisizione del parere delle vittime del terrorismo o dei loro congiunti, rapidamente dimenticati in modo sicuramente censurabile".

112

29

Per una ricostruzione dei fatti si veda

EUGE-

Una storia infinita: la grazia a Curcio, in "Cassazione Penale", n. 10, 1991, p. 785794. Nelle pagine seguenti la medesima rivista pubblica lo scambio di lettere fra Martelli e Cossiga. L'episodio è accuratamente descritto anche da DAVIDE Di FELICE, La grazia oggi in Italia, in "Rivista Penale", n. 10, 1994, pp. 965-970. 30 Ordinanza Corte cost. 9 ottobre 1991 n. 379. La rinuncia al ricorso da parte del Ministro Martelli è avvenuta ancora prima che la Corte (pres.e rei. Corasaniti) si pronunciasse sull'ammissibilità dello stesso. 31 P. VERONESI, "Tanto rumore per nulla" in un conflitto tra poteri sollevato dal Guardasigilli contro il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Capo di Stato, in "Giurisprudenza Costituzionale", n. 6, 1991, pp. 4158-4167. 32 E. SELVAGGI, Una storia infinita, cit. 33 R. QUINTAVALLE, 11 potere di grazia secondo prassi e consuetudini costituzionali, in "Cassazione Penale", n. 11, 2001, pp. 324 1-3245. 3' Tuttavia, la dottrina prevalente ritiene non necessaria la domanda del condannato, poiché, se egli dovesse necessariamente chiedere la grazia per poterla ottenere, ciò comporterebbe una implicita ammissione di colpevolezza, cosa che violerebbe il suo diritto di difendere la legittimità o la sostanziale giustizia del suo operato. Il punto è pacifico: in tal senso di pronunciava già il regolamento penitenziario adottato con r. d. 18 giugno 1931 n. 787. Si veda in proposito il commento di G.U. RESCIGNO all'art. 83 Cost. in Commentario alla Costituzione a cura di Giuseppe Branca, Bologna, Zanichelli, 1978. Si veda inoltre E. SELVAGGI, Grazia, EncI. Giur., cit., par 10 del medesimo autore anche Una storia infinita, cit., P. 788. InfÌne, R. QUINTAVALLE, cit., P. 1544. 35 E. SELVAGGI, La grazia: da Curcio a Sofri. Un potere in discussione, in "Cassazione Penale", n. 9, 2003, pp. 2538-2543. L'articolo è da segnalare anche per la ricostruzione del dibattito attraverso una breve cronistoria della rassegna stampa. 36 TOMMASO F. GIUPPONI (Ilpotere presidenziaNIO SELVAGGI,

le di grazia e il caso Sofri: a chi spetta l'ultima pa22 agosto 2003, in http://web.unife.it/pr rola?, o getti/forumcostituzionale/contributi/casosofri.ht m) precisa, in relazione ai poteri che la I. 40011988 attribuisce al Presidente del Consiglio, che essi non arrivano a comprendere la sostituzione della controfirma dei Ministro competente con quella del Presidente del Consiglio, nonostante l'art. 5 comma d della citata legge attribuisca al Presidente del Consiglio il potere di controfirmare "ogni atto per il quale sia intervenuta una deliberazione del Consiglio dei Ministri". Ciò rappresenterebbe non solo una violazione della Costituzione, ma anche un gesto di tacita sfiducia da parte dell'intero Governo nei confronti del Ministro. 37 Così TOMMASO EDOARDO FR0sINI, Il potere di grazia e la consuetudine costituzionale, 20 gennaio 2004, in http://web.unife.it/progetti/forumcostituzionale/contributi/casosofri.htm . Nel medesimo sito internet è presente anche un contributo di SALVATORE PRISCO (Amicus Sofri, sed magis amica Constitutio, 21 gennaio 2004), che suggerisce una modifica costituzionale nel senso di indicare per quali atti presidenziali la controfirma del Ministro competente sia necessaria e per quali altri essa possa essere costituita da quella del Presidente del Consiglio, qualora il Ministro non voglia assumersi la responsabilità dell'atto. 38 Il file audio della relazione è disponibile su www.radioradicale.it/primopiano . L'espressione citata è riportata anche in M. Ainis, Sulla titolarità del potere di grazia, cit., p. 108. 39 Si tratta della nomina dei cinque senatori a vita, di cinque giudici costituzionali, di Otto esperti del CNEL, il rinvio al Parlamento di una legge, i messaggi. 40 M. Sici.pj, cit. alla n. 2, p. 11. ' D.P.R. 6 marzo 2001 n. 55. 42 M. SICLARI, cit., pp. 13-14. 43 Così ANDREA PUGIOTTO, Il potere è del Quirinale, la controfirma è un atto dovuto, in www.abusi.it , pubblicato anche sulla rivista telematica "Diritto e giustizia" del 3 aprile 2004.

113

44

Ibid.

45 M. AINIS,

Sulla titolarità del potere di gra-

zia, cit., p. 103.

46 A.

PuGlorro, Il potere è del Quirinale .., cit.

47 B. CARAVITA DI TORITTO, Ammissibili atti presidenziali senza imputazione di responsabilità?, in "Quaderni Costituzionali", n. 1, 2004, pp. 117-118.

dossier

Energia elettrica: quale mercato nell'Unione?

Sull'energia elettrica la letteratura economica, italiana e straniera, è ricca di accesi dibattiti sulla convenienza o meno di aver intrapreso la via della liberalizzazione. Si può prescindere dalla teoria, ormai assata di moda' del bene pubblico come rispondente a requisiti di distribuzione capillare, tariffi' accessibili e, ove sia necessario, istituzione di un monopolio pubblico? L'energia elettrica appare come un settore complesso, nel quale la diffirenziazione delle varie fasi di produzione potrebbe essere virtuosamente inserita nel meccanismo del mercato. Produzione in senso stretto, trasporto e distribuzione sono momenti della creazione di energia che, a vedere degli esperti, possono essere le diverse mani di un unico sistema integrato di produzione. Nell'intervista a Pierre Bauby, a cura di Matteo Urbani, il direttore dell'Osservatorio Elettricità e Società della EDF francese risponde a quelle domande che nascono perché l'evidenza empirica pone un velo di dubbio sulla effettiva capacità del mercato di rispondere alle esigenze della società. I casi di Italia, California e Svezia, paesi dove il prezzo dell'elettricità è cresciuto in maniera inaspettata, hanno creato un senso di disorientamento anche nei fautori della liberalizzazione. La risposta, condivisi bile nella teo1:15

ria ma disattesa nella pratica, è incentrata sull'analisi dei costi e degli investimenti. Questi ultimi sono sicuramente ingenti e difficilmente sostenibili da un operatore privato, nonché privi di risultati nel breve-medio periodo; la struttura pubblica di un'impresa mal si può sovrapporre a quella privata, sia nella struttura dei costi sia in quella, a volte completamene sconosciuta, degli investimentifinanziari. Regolamentazione e controllo delle tariff' sono i corretti vi che l'Unione deve utilizzare di fronte ai malfunzionamenti che il mercato dell'energia potrebbe comportare sul livello atteso di qualità e prezzo del servizio. Su questi temi di chiara rilevanza internazionale, il Bauby offie una chiave di lettura esauriente e attenta alle tante sfumature del problema lasciando intendere, in conclusione, che il capitale pubblico, nella nuova veste di azionista di riferimento, deve essere un interlocutore Jbrte in ogni politica di privatizzazione dei servizi a rete, non solo per prevenire la creazione di pericolosi cartelli oligopolistici, ma anche e soprattutto per non prescindere dalle esigenze di tutela degli utenti del servizio pubblico. Un approccio più teorico-economico sulla liberalizzazione del mercato dell'energia elettrica è quello dell'artièolo di Elina De Simone: un excursus delle teorie economiche sui beni pubblici, dall'approccio volontarista a quello politico-sociologico di inizio Novecento, fino ad arrivare alle teorie sugli accordi commerciali e la presenza non ostativa delle norme. Appare chiaro come gli studiosi dell'economia pubblica siano scettici di fronte alla liberalizzazione dei servizi a rete come l'elettricità, essendo questi, senza minima confutabilità dell'esperienza, settori che, data la presenza di costi fissi molto elevati e livelli di investimenti altrettanto gravosi, richiedono l'indispensabile intervento dello Stato quantomeno nella fase di realizzazione delle infrastrutture e mantenimentodelle itesse. Non meno "ostativo" all'intrapresa privata in questi settori è la nècessaria presenza di limiti normativi nell'esercizio, alfine di mantenere gli standard di sicurezza, approvvigionamento, prezzo, qualità e, non ultima, la salvaguardia dalle esternalità negative dovute all'inquinamento; regolamentàzione, quindi, non solo per l'aspetto tariffario, ma anche nel monitorare i danni ambientali che alcuni tzi di produzione possono produrre a scapito della qualità della vita. Di rilievo è l'attenta analisi della direttiva 96192 e quella successiva 200315410E, che pongono come obiettivo quello di realizzare un mèrcato concorrenziale dell'energia elettrica negliStati membri, facendo rfèrimento anche alla governance delle imprese e alla sostenibilità ambientale della produzione, auspicando altresì la liberalizzazione del mercato per gliutenti privati a partire dal 2007 Nel panorama interpretativo e propositivo dei. rapporti fra erogatore di servizi e cittadino/utente è utile un richiamo al libro «Il triangolo dei servizi pubblici' di Daniele 4rchibugi et al. , Marsilio, 1999, nel quale è analizzata la necessità di raggiungere, ove 116

il pubblico sia inteso come erogatore di servizi, elevati standard di efficienza, qualitĂ , attenzione alla tutela dell'ambiente, tutto all'interno di un'auspicabile razionalizzazione della struttura dei costi; in buona sostanza la sfida bilaterale che l'Europa egli Stati membri si lanciano per ilflauro dei servizi pubblici e della stessa Pubblica Amministrazione. (fdm)

117

I,

Una testimonianza sull'evoluzione europea del settore elettrico

Intervista a Pierre B au b y * a cura di Matteo Urbani

to dell'importanza di un mercato concorrenziale dell'energia elettrica, come strumento per aumentare l'efficienza della generazione, della trasmissione e della distribuzione di elettricità, rafforzando allo stesso tempo la sicurezza dell'approvvigionamento e la competitività dell'economia europea, rispettando in ogni modo la protezione dell'ambiente? Non crede invece che si tratti solo di buonipropositi? Prima di tutto, ciò che bisogna capire è che la costruzione europea ha condotto alla realizzazione di importanti riforme nazionali nel settore elettrico e nel settore pubblico in generale. La storia di ogni Paese è stata segnata dalla costruzione di un proprio sistema, a volte nazionale, altre volte regionale o locale, in alcuni casi pubblico in altri casi privato. Il dato di fondo è che ognuno ha scelto il modello più consono a seconda delle caratteristiche geografiche e seguendo differenti indirizzi politici. Tra gli Stati europei gli scambi di energia.elettrica sono sempre esistiti, ma la frequenza di questi non è mai stata particolarmente intensa. Ora, la nascita del mercato unico europeo ha prodotto consegùenze determinanti, due tra tutte: prima cosa ci si è trovati di fronte all'obbligo di mettere in discussione le forme nazionali d'organizzazione; conseguenza di ciò, lo smantellamento progressivo dei monopoli nazionali, regionali o locali, che non sempre si sono dimostrati efficienti, non essendo stimolati, per assenza di logiche concorrenziali, alla modernizzazione nel campo della ricerca per un aumento dell'efficienza energetica. Si possono individuare così, nell'abbattimento delle frontiere nazionali e nell'incremento dell'efficienza, i due punti di partenza della liberalizzazione del settore elettrico. * Direttore dell'Osservatorio Elettricità e Società, EDF e professore ordinario di Services publics eu-

S

i trova d'accordo con quanto affermato nella direttiva 9619210E a proposi

ropéens presso l'Istitut d'etudes politiques, Sciences Po, Paris. L'Autore è dottorando in Formazione dei processi socio-economici e politici presso la Facoltà di Scienze Politiche all'Università degli Studi di Roma La Sapienza. 119

Tale settore è caratterizzato dalla presenza di un sistema integrato (Produzione, Trasporto, Distribuzione di energia elettrica), dove il ruolo più determinante e gravoso dal punto di vista dei costi è senza dubbio da attribuire alla Produzione.

L'apertura al mercato di questo segmento della 7ìliera" diventa indispensabile per la modernizzazione, per l'efficienza, per il miglioramento della produttività e per un abbassamento dei prezzi? Tutti concordano sul fatto che la rete di trasporto rappresenti un monopolio naturale (in altre parole impossibilità di duplicare la rete per garantire la concorrenza), quindi diventa di fondamentale importanza garantire l'accesso dei diversi produttori alla rete di trasporto unica, per cominciare un discorso di apertura al mercato volto ad interessare anche la commercializzazione dei servizi pubblici. La direttiva del 1996 ha avuto un periodo di elaborazione così lungo, proprio perché Paesi come Francia e Germania, pur avendo strutture organizzative differenti per quello che riguarda la gestione delle imprese incaricate (pubblica in Francia, EDF; privata in Germania), non premevano per alcun cambiamento radicale. La direttiva risulta dunque, una sorta di compromesso: apertura,progressiva per i clienti industriali prima, per quelli professionali in seguito, ed .è possibile in futuro per i clienti domestici. Allo stesso tempo, art. 3 della direttiva, sono chiaramente espressi gli obiettivi di servizio pubblico da salvaguardare, come la sicurezza dell'approvvigionamento, la pianificazione a lungo termine, l'uguaglianza d'accesso per i consumatori, etc. Ma, mentre i primi anni di attuazione della direttiva hanno fatto' registrare un abbassamento dei prezzi e un miglioramento dell'efficienza, oggi quale realtà ci troviamo difronte? Negli anni '90 ci si è trovati in una' situazione di sovrapproduzione rispetto al livello della domanda di' elettricità, ovvero una quantità maggiore di mezzi di produzione rispetto alle richieste. Dunque eravamo di fronte ad un terreno favorevole per l'inserimento della concorrenza. Oggi invece si assiste ad 'un processo di avvicinamento del livello di domanda e offerta, e si registrano maggiori tensioni sui prezzi, basta citare la calura dell'estate 2003 in Francia, che ha prodotto degli innalzamenti dei prezzi rilevanti. Per tornare alla sua prima domanda, non credo si tratti esclusivamente di "belle parole", ma ritengo che la direttiva del '96 costituisca una riflessione molto approfondita sui vantaggi dell'introduzione della concorrenza per la produzione e per la commercializzazione. ' 120

Gli interrogativi che mi pongo riguardano l'opportunità o meno di separare i sistemi integrati, e al tempo stesso se convenga o meno aprire il mercato elettrico anche ai clienti domestici.

Sappiamo che le esperienze negli altri Paesi non sono sempre state coronate da successo, (ad esempio in Italia, in California o in Svezia dove si è registrato un aumento del 250% del prezzo dell'elettricità durante l'inverno 2002-2003). Secondo lei si tratta di casi isolati o al contrario è bene seguire con attenzione ciò che è successo? Prima di tutto, la principale caratteristica dell'energia elettrica risiede nel fatto che essa non è stoccabile, in altre parole la produzione deve essere allo stesso livello del consumo. Secondo punto, l'energia elettrica al contrario delle telecomunicazioni deve essere prodotta. Ora, rispetto ad altri servizi a rete, per quanto riguarda il settore elettrico, la produzione richiede investimenti ingenti e un lasso di tempo pii o meno lungo, a seconda della tecnologia utilizzata, tra il momento dell'investimento e quello dell'effettivo inizio delle attività produttive. Il vantaggio che arreca il mercato attraverso la segnalazione dell'oscillazione dei prezzi, diventa, allora, decisivo per individuare il momento più opportuno per effettuare gli i n vestim en ti? Il problema a questo punto riguarda proprio le possibili variazioni di prezzo. Infatti, dopo che le decisioni riguardo agli investimenti sono state prese e gli stessi effettuati, sono generalmente necessari 3 anni (10 anni circa nel caso di energia nucleare) per ottenere risultati a livello di produzione. Questa serie di processi può produrre come conseguenza dei forti squilibri, dovuti proprio alla durata del' tempo che intercorre tra investimento e produzione. Ritengo dunque i fenomeni da lei presentati delle ecceziòni significative, da prendere sicuramente in considerazione, ma circoscrivibili come casi isolati. Il Trattato CE e la direttiva sùl mercato comunedell'nergia elettrica lanciano sicuramente un messaggio chiaro, che è quello della liberalizzazione dei settori a rete. Secondo lei qual è il reale interesse economico per gli utenti e per i produttori, considerando che, soprattutto in Francia, il sistema ha sempre finzionato piuttosto bene? In altre parole, ritiene che la liberalizzazione del settore dell'energia elettrica produrrà un abbassamento dei prezzi per gli utenti? A priori, una delle giustificazioni della liberalizzazione del mercato dell'energia elettrica è quella di migliorare l'efficienza del sistema per i consu121

matori; questa è la filosofia che sta alla base dell'intero disegno comunitario. Partendo da questo assunto, bisogna però rilevare alcune peculiarità e sfumature non irrilevanti. Per quanto riguarda la Francia, innanzi tutto, si può affermare che il sistema abbia fino ad oggi funzionato piuttosto bene, se ci riferiamo al fatto che il settore dell'energia elettrica come quello ferroviario o quello delle telecomunicazioni, tutti servizi pubblici controllati dallo Stato, hanno saputo modernizzarsi e raggiungere un relativo livello di efficienza, pur trattandosi di imprese pubbliche.

Thttavia i grandi monopoli pubblici come EDF (Energie de France), SNCF (Service National Chemin de Fer), etc., non sono mai stati realmente controllati e regolati in maniera diretta dallo Stato, tanto è vero che la stessaEDF è stata più volte definita come «uno Stato nello Stato'.. In altre parole vuoi dire, che il potere contrattuale delle imprese pubbliche monopolistiche nei confronti delle istituzioni, è sempre stato paritario, non ravvisandosi quasi mai un rapporto gerarchico di gestione dall'alto. Questa è una delle ragioni del difficile percorso che si trova a dover intraprendere la liberalizzazione dei servizi a rete in Francia. Allo stesso tempo però, lo Stato francese esige dalle imprese privatizzate, come France Telecom, una parte delle somme ricavate da ciascuna fattura emessa, questo a testimonianza di come la situazione si mantenga su di un equilibrio delicato, dove la presenza dello Stato si fa tradizionalmente sentire. Ma, proprio per questi motivi l'intervento comunitario non dovrebbe fissare delle regole precise e universali, che non riguardino unicamente l'organizzazione dei mercati, ma che prendano in considerazione anche gli utenti determinando, finalmente a livello europeo, gli obblighi di servizio pubblico? A tale proposito, la legge n. 108 del 10 febbraio 2000 relativa alla "modernizzazione del servizio pubblico dell'elettricità", segna un passo importante per la storia del settore in Francia, giacché definisce per la prima volta la nozione di servizio pubblico dell'elettricità. È chiaro che non si può dire servizio pubblico senza definirlo. Ora, il contesto all'interno del quale la liberalizzazione ha mosso i suoi primi passi, era sicuramente un contesto favorevole, dovuto .soprattutto alla quantità dei flussi d'investimenti. .

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Nella situazione attuale, mi sembra che le condizioni siano cambiate e che ci troviamo in un momento di squilibrio, la crisi dei mercati finanziari ha ridotto tali flussi e diminuito la capacità economica, cosa pensa in merito? Proprio per tale ragione ci si è resi conto della necessità di accompagnare il processo di liberalizzazione con politiche energetiche che mantengano un equilibrio di lungo termine, ma politiche energetiche a livello europeo. Altro passo importante sarebbe quello di arrivare ad una concezione comunitaria del servizio universale, offrendo in questo modo dei parametri ben definiti per evitare differenze troppo elevate tra i prezzi per gli utenti. In che modo garantire la perequazione tariffiiria a livello europeo? Oggi in Europa, con l'ingresso dei 10 nuovi Stati membri, non siamo ancora di fronte ad un mercato unico vero e proprio. In altre parole, non ci sono ancora le condizioni comuni per garantire la produzione, il consumo, la stabilità dei prezzi e un buon livello di sicurezza dell'approvvigionamento. Ciò che si constata è che ci troviamo di fronte a nuovi possibili mercati, sicuramente oggetto di studi approfonditi e di previsioni teoriche di enorme rilievo, che però mancano ancora di una realizzazione oggettiva come unico mercato comunitario. Ma il fatto che, da una parte, troviamo Paesi come la Finlandia e la Svezia che costituiscono due mercati molto importanti e soprattutto autonomi (arrivando a coprire l'intera Europa del Nord); e dall'altra, Paesi isolati come la Grecia, consente di qualificare quello europeo come un unico mercato dell'energia elettrica? Un vero mercato unico richiede la convergenza dei prezzi e regole comuni universalmente rispettate, nonché un'ossatura normativa di base che costituisca lo scheletro di un unico soggetto integrato. Per queste ragioni si può parlare di perequazione tariffaria esclusivamente a livello nazionale. Nel caso della Francia si tratta di. una sorta di solidarietà verticale per tutti gli utenti, diversamente per quanto riguarda la Germania dove si è di fronte ad accordi orizzontali tra i diversi comuni di maggior rilievo. Se si progetta una perequazione a livello europeo, tutti gli scenari sono possibili. Si assisterà inevitabilmente ad una crescente disparità dei prezzi e sarà necessario prendere degli accordi, come nel caso del settore ferroviario o, per fare un altro esempio, il settore postale che ha attualmente equiparato i prezzi stabilendo una tariffazione unica.

123

Ma a questo punto soluzioni del genere non potrebbero essere prese anche per il mercato dell'energia elettrica? Il problema è che se l'apertura dei mercati non produrrà un equilibrio automatico, sarà inevitabile un intervento politico in materia. Ritiene che la soluzione ai molteplici problemi inerenti alla liberalizzazione del mercato dell'elettricità risieda nella creazione di unAutorità di Regolazione a livello europeo? Le regole sono europee, la regolamentazione è nazionale e i consumatori, alla luce degli sviluppi più recenti, possono essere considerati a tutti gli effetti europei. Ora, a lungo andare, quest'articolazione non potrà continuare a sussistere. In altre parole, si potrà verificare una disparità crescente tra regolamentazioni nazionali e unicità giuridico-economica del mercato. In un certo senso, la Commissione per, un verso, attraverso direttive ed altre disposizioni regolamentari, e la Corte di Giustizia per l'altro, attraverso una ricca giurisprudenza, svolgono già un ruolo di regolamentazione a livello comunitario. Non dimenticando la funzione svolta dalle disposizioni dei Trattati europei che dedicano un'ampia trattazione al problema della concorrenza. Ora, è su tali basi che si deve cercare di trovare una regolamentazione unica per il mercato dell'energia elettrica a livello comunitario, nazionale e regionale. Il progetto di un2lutorità di regolazione soprannazionale rappresenta un passo ulteriore rispetto ad un mero coordinamento tra organi nazionali? È un'idea da prendere in considerazione e sicuramente realizzabile in futuro. La questione deve però essere affrontata con gradualità e non sottovalutando la complessità delle contingenze, tenendo conto soprattutto delle conseguenze che l'Unione europea si troverà ad affrontare ora che gli Stati membri non sono più 15, bensì 25. Il problema dell'allargamento non è d'ordine meramente numerico, ma riguarda il grado di sviluppo interno dei nuovi soggetti entranti. Quindi, per cercare di intravedere un possibile scenario futuro, bisognerebbe innanzi tutto livellare ed appianare i gaps strutturali che esistono tra i diversi Stati membri, cercando di non creare un'Europa a due velocità. Per quanto riguarda la gestione delle reti, ritiene che anche in questo caso sia prospettabile uno scenario di gestione unica a livello europeo, nonostante laErso (Associazione dei Gestori di Rete Europei) abbia già contribuito a creare una stretta cooperazione tra i differenti gestori nazionali? Per quanto riguarda la gestione unica delle rete europea, abbiamo già l'esempio delle interconnessioni nel settore ferroviario, ma ritengo comunque 124

che l'intera proprietà delle rete debba passare sotto il controllo dell'Unione, giacché si tratta di un monopolio naturale a tutti gli effetti. Probabilmente tale obiettivo potrà essere raggiunto attraverso l'istituzione di una società pubblica europea, che garantisca lo svolgimento equo della concorrenza comunitaria. D'altronde, la liberalizzazione di qualsiasi settore a rete trova un ostacolo insormontabile davanti ai limiti strutturali derivanti dall'esistenza di un monopolio naturale. La proprietà pubblica della rete di trasmissione dell'energia elettrica, già presente a livello nazionale, ha dimostrato di essere assolutamente indispensabile proprio per garantire quella concorrenza promossa con così decisa fermezza dalle disposizione del Trattato CE.

Il problema delle interconnessioni tra i diffirenti Paesi, rappresenta secondo lei un ostacolo all'unificazione e alla reale liberalizzazione del mercato?

L'energia elettrica é trasmessa attraverso un sistema a corrente alternata strutturato in tre fasi, questo permette un flusso di potenza più uniforme rispetto ad un sistema monofase. È indispensabile che sia rispettata l'unicità e la stabilità della frequenza, (in Europa di 50 Hertz), per garantire il buon funzionamento del sistema elettrico. In generale, l'interconnessione permette di migliorare il funzionamento del sistema elettrico, contribuendo alla qualità e alla sicurezza del sistema stesso, alla messa a disposizione e all'ottimizzazione delle riserve e dei mezzi di produzione e, più in generale, agli scambi internazionali d'energia tra produttori e consumatori. L'Europa si articola in quattro zone di frequenza: 1'Ucm 1 (che raggruppa il Belgio, la Germania, la Spagna, la Francia, la Grecia, l'Italia, la Slovenia, la Croazia, la Repubblica Federale di Jugoslavia, l'antica Repubblica jugoslava di Macedonia, il Lussemburgo, l'Olanda ) l'Austria, il Portogallo e la Svizzera), la NORDEL 2 (che comprende Svezia, Finlandia, l'Est della Danimarca e la Norvegia), il British Grid System e l'Irish Grid System. Tali zone di riferimento sono tra loro legate attraverso connessioni di corrente continua. Ogni zona di frequenza comprende ambiti di controllo che generalmente coincidono con le aree di responsabilità dei differenti gestori delle reti nazionali. Nel caso francese, spagnolo e italiano, il territorio nazionale é esso stesso una zona di controllo; per quanto riguarda la Germania invece, le zone di controllo sono otto. In caso di disequilibrio nell'aggiustamento delle frequenze, l'insieme dei GRT di una stessa zona di controllo fanno appello, in termini di tempo molto 125

brevi, a riserve di produzione dette primarie, che permettono di tornare rapidamente al livello di frequenza auspicato. In un secondo tempo, saranno gli stessi GRT, ognuno per la propria competenza, a far riferimento a riserve dette secondarie, per riequilibrare la situazione settorialmente.

Ma allora gli operatori dominanti sui propri mercati di rifirimento nazionali intrattengono relazioni più cooperative che concorrenziali? Lo sviluppo delle interconnessioni tra i differenti paesi europei é stato portato avanti per garantire un reciproco soccorso e una migliore gestione- della produzione europea, più che per perseguire esclusivamente una logica concorrenziale. Le interconnessioni, realizzate per assicurare tale reciproco soccorso tra gli operatori storici, si sono rivelate in questi ultimi tempi insufficienti a garantire la fluidità degli scambi. Le congestioni 3 sono particolarmente rilevanti sui collegamenti FranciaSpagna, Francia-Italia, Francia-Regno Unito. Inoltre, i meccanismi d'attribuzione delle capacità sono spesso discriminatori ("primo arrivato", "primo servito") e la segmentazione del mercato elettrico europeo rende la concorrenza difficilmente realizzabile.

A queste limitazioni oggettive non si aggiunge l'eterogeneità dei principi di tariffiizione delle interconnessioni?

Si, malgrado l'accordo raggiunto nel novembre 2001 in seno al gruppo dei trasportatori europei (ETso). Le tasse nazionali sull'importazione e sull'esportazione in effetti persistono, creando in questo modo un costo supplementare. Sono le frizioni tra i mercati nazionali che frenano la costruzione di un mercato interno dell'energia elettrica. Un'armonizzazione parziale sembra inevitabile per fissare una tariffazione degli scambi transfrontalieri e migliorare la gestione delle congestioni, mettendo in risalto come tale processo dovrebbe essere realizzato a livello europeo e non solo bilateralmente 4.

Sappiamo bene che le imprese private hanno delle logiche di profitto a breve termine e che questa particolarità non favorisce gli investimenti infrastrutturali a lungo termine. In base a tale assunto ritiene che l'allargamento dell'Unione europea da 15 a 25, Stati membri produrrà effetti positivi a livello di, investimenti infrastrutturali, oppure ci sono reali possibilità che nel breve periodo si assisterà ad, un vertiginoso rallentamento dello sviluppo economico, -non dimen126

ticando che già oggi si fanno i conti con enormi ritardi in rapporto alle previsioni europee? Il terzo rapporto di coesione presentato dalla Commissione nel mese di febbraio, sull'integrazione regionale e locale dell'Europa dopo l'allargamento a 25 Stati membri, pone da una parte, il problema dell'utilizzo delle infrastrutture europee, dall'altra la questione del costo degli investimenti e del peso che questo potrà avere sul budget dell'Unione. I Governi francese e tedesco hanno già dichiarato di non voler aumentare il budget dell'Unione, in altre parole, ciò che è stato fatto per Spagna, Portogallo e Grecia non potrà essere realizzato negli stessi termini né con le stesse proporzioni per i nuovi Stati membri, nonostante si sia constatato e si constati ancora oggi, come tale politica di solidarietà promossa dai 12, poi 15 Stati originari abbia prodotto incredibili effetti positivi. Il problema sarà dunque esclusivamente di carattere finanziario, andando a colpire le disponibilità economiche dell'Unione e si verificheranno, almeno in un primo periodo, perdite notevoli. Dunque, tutto sta nel vedere come tali investimenti possono reagire nel lungo periodo, sperando che a posteriori le conseguenze a livello di bilancio non si facciano troppo sentire. Per tutta questa serie di ragioni, diventa necessario stabilire un piano d'investimenti ben determinato, valutando dettagliatamente costi e possibili benefici. Secondo lei la liberalizzazione del mercato dell'energia elettrica implica necessariamente la privatizzazione delle imprese pubbliche? Se l'obiettivo è quello di rendere più trasparente la gestione dell'impresa, l'azionariato privato in che modo potrebbe permetterlo, avendo davanti agli occhi i casi più recenti della Parmalat, della Enron, etc? La liberalizzazione e la privatizzazione sono due ambiti separati, riguardo a ciò il disposto dell'articolo 295 del Trattato CE è chiaro nel fare riferimento al principio di neutralità. Il problema però si annida altrove, infatti, quando un'impresa pubblica diventa un'impresa di stampo comunitario, ad esempio EDF, si pone il problema della legittimità dello Stato francese a definire la strategia di un'impresa pubblica, per ciò che riguarda le operazioni di mercato effettuate in un altro Paese, sfruttando le logiche concorrenziali del mercato unico. Sulla privatizzazione in sé, le posizioni sono molteplici, certo è che imprese da sempre incaricate della realizzaziòne di missioni di servizio pubblico e volte dunque a garantire il benessere della collettività, con l'apertura del capitale ai privati, risentono di esigenze di ordine più prettamente economico-aziendale.

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Proprio a tal proposito vorrei chiederle come sarà possi bile far progredire il sistema in senso favo revole a/servizio pubblico, ovvero all'interesse generale. Prendendo in considerazione l'articolo 86 del Trattato e quindi le missioni d'interesse generale di cui i servizi a rete sono incaricati, si può parlare di privatizzazione e liberalizzazione allo stesso tempo, non sottovalutando però le peculiarità dei settori in questione. Per questo motivo una possibile soluzione è quella delle imprese ad economia mista, dove la gestione maggioritaria dello Stato esige comunque il rispetto, da parte del potere pubblico, delle regole predefinite con gli azionisti di minoranza facenti riferimento agli investitori privati. L'apertura del capitale pubblico è quindi giudicata favorevolmente? Si, ma deve essere ben regolata e soprattutto deve osservare i principi fondamentali inerenti al rispetto degli obblighi di servizio pubblico. Per questo si deve assolutamente garantire un equilibrio tra profitti economici e bisogni sociali, in altre parole assicurarsi che l'apertura del capitale originario sia rispettosa del benessere comune garantito dall'azione pubblica. In questo scenario è dunque importante capire cosa voglia dire servicepublic? In altri termini, si tratta della salvaguardia dell'interesse generale della collettività, oppure tale nozione in realtà nasconde un atteggiamento protettivo verso EDF, così dapermettergli di agire con maggiore potere contrattuale sui mercati esteri? Se, come dovrebbe essere, service public vuoi dire la difesa dell'interesse generale degli utenti dei servizi a rete, in tutta l'Unione europea, allora credo che il passaggio da una pluralità di concezioni nazionali ad una nozione universale di servizio pubblico non sia un percorso ostico da intraprendere. Mi riferisco, a tal proposito, a quei valori comuni "europei" di cui si trova traccia indelebile in tutte le "Carte dei diritti fondamentali" di ogni Stato membro.

I 2 3

Unione per il coordinamento del trasporto di elettricità.

N0RDIC ELECTRIC SYSTEM.

Le congestioni designano gli intasamenti sulla rete elettrica causa una capacità inferiore rispetto alla domanda. La Commissione europea ne ha rintracciate 45 sui 48 punti di passaggio frontalieri interni all'Unione europea. Il primo novembre 2002 sono entrate in vigore le nuove tariffe per l'utilizzo delle reti pubbliche di trasporto e distribuzione di elettricità, definite dal decreto 2002-1014 de! 19luglio 2002. 128

Il processo europeo di liberalizzazione del settore elettrico: le diverse linee d'interpretazione di E/ma De Simone

i processo di liberalizzazione-privatizzazione che sta interessando il settore dell'energia elettrica in Italia è il risultato di lungo lavoro di policy che si è sviluppato in seno all'Unione europea. Il nostro scopo è quello di indagare sulle origini di tale scelta di governance, da parte della Commissione, di un settore fino a pochi anni fa ritenuto di pertinenza esclusiva delle politiche nazionali, con l'obiettivo di comprendere il fine sia economico sia politico verso cui tende l'applicazione della nuova disciplina. Tale esigenza nasce dall'osservazione delle caratteristiche che il settore elettrico è andato assumendo all'interno di vari Paesi: il repentino passaggio da imprese monopoliste nazionalizzate e percepite come "campioni nazionali" da difendere ad una progressiva apertura verso forme di concorrenza sempre più evolute. Questo passaggio, a cui si accompagna il conseguente ridimensionamento del ruolo economico dello Stato, merita un'analisi approfondita che tenga conto degli interessi in gioco e che non si riduca ad una mera elencazione dei cambiamenti messi in atto; il contesto europeo del fenomeno appena indicato. Far parte di questo contesto non può tradursi in passiva accettazione, da parte dei singoli Stati, delle direttive emanate: in tal senso, la letteratura, specialmente quella di carattere economico, attestandosi sull'analisi dell'efficienza, non ha fornito elementi sufficienti per comprendere compiutamente la ratio di un processo in itinere destinato ad avere una forte incidenza sull'organizzazione industriale interna dei vari paesi. Ciò testimonia della parzialità delle letture monodisciplinari relative a quei macro-processi i cui effetti si dipanano su più dimensioni, interessando una quantità innumereyole di soggetti ed istituzioni. A tal scopo occorre tentare un quadro analitico della liberalizzazione mediante l'ausilio di due paradigmi: quello proveniente dalla scuola cosiddetta di socialpolicy e quello appartenen-

J

L'Autore afferisce al Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". 129

te a quel ramo della scienza economica denominato public economics 1 . L'analisi, che si incentrerà sull'evento specifico che ha avviato il processo di costituzione del mercato unico dell'energia e cioè la direttiva 96/92 CE, Si pone l'obiettivo di rintracciare un fu rouge tra quelli che ritiene essere due aspetti inscindibili di un processo che è contemporaneamente e politico e economico.

LA DISCIPLINA COMUNITARIA

La materia dell'energia è stata originariamente oggetto di una peculiare attenzione da parte delle istituzioni comunitarie 2 . In proposito è sufficiente accennare al ruolo svolto dalla Comunità europea del carbone e dell'acciaio CECA (1951) e dalla Comunità europea dell'energia atomica EURATOM (1957) sorte per regolare lo sfruttamento delle fonti carbosiderurgiche e nucleari e per sviluppare un mercato comune delle materie prime e delle infrastrutture A tali obiettivi si aggiungono, a partire dagli anni Sessanta,.l'esigenza di sviluppare politiche volte a garantire la sicurezza dell'approvvigionamento e la regolarità delle forniture petrolifere in situazioni di crisi e, a partire dagli anni '90, la necessità di realizzazione del mercato unico. La sicurezza dell'approvvigionamento energetico ad un prezzo abbordabile per tutti i consumatori nel rispetto della tutela dell'ambiente e della promozione della concorrenza 3 hanno assunto una grande importanza negli ultimi anni4 , così come riveste un ruolo fondamentale, in termini di diversificazione, sostenibilità e lotta contro il cambiamento climatico, l'utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili (REs) 5 Come sopra accennato, la politica di costruzione del mercato interno dell'energia trova spazio in seno all'Unione a partire dagli anni '90, con l'obiettivo di realizzare un progressivo ridimensionamento dei monopoli pubblici6 Il processo di liberalizzazione riceve tuttavia un impulso determinante solo con la direttiva 96/92/CE del 19 dicembre 1996 e la direttiva 98/30/CE del 22 giugno 1998 che definiscono regole comuni per il funzionamento del mercato interno dell'elettricità e del gas. Le direttive sono orientate a realizzare un mercato dell'energia concorrenziale, contraddistinto dall'eliminazione di ogni diritto esclusivo in materia di produzione, importazione, esportazione e vendita. Inoltre, con lo scopo di facilitare l'apertura del mercato alla concorrenza, le due direttive riconoscono, ad una determinata categoria di consumatori, (i c.d. "clienti idonei"), destinati a crescere, la possibilità di scegliere . .

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liberamente il fornitore del servizio. All'interno del sistema elettrico si individuano, infatti, due mercati: quello vincolato, formato da tutti i clienti che presentano consumi inferiori a determinate soglie e che non possono stipulare contratti di fornitura direttamente con i produttori nazionali ed esteri; e quello libero, dove i "clienti idonei" hanno la facoltà di stipulare direttamente contratti di fornitura non soggetti a tariffa 7 . La tendenza alla liberalizzazione è, tuttavia, bilanciata dal riconoscimento dell'esigenza di garantire, attraverso l'imposizione di obblighi alle imprese da parte degli Stati, standards di servizio pubblico in tema di sicurezza, regolarità dell'approvvigionamento, qualità, prezzo, tutela dell'ambiente. Le direttive, in applicazione del principio di sussidiarietà, non definiscono una disciplina rigida e riconoscono ampi margini di discrezionalità a ciascuno Stato membro che può scegliere il regime più rispondente alla sua particolare situazione. Per quanto specificamente riguarda il settore elettrico, gli ulteriori principi fondamentali desumibili dalla direttiva 96/92/CE sono I. seguenti: libero ingresso di nuovi operatori nel settore della generazione da realizzarsi o attraverso un regime di autorizzazione a singoli produttori in possesso di determinati requisiti e/o attraverso una procedura di gara d'appalto; separazione della gestione della rete di trasmissione dalle attività di generazione e di distribuzione in base a criteri trasparenti e non discriminatori; separazione contabile tra le attività di generazione, trasmissione e distribuzione per le imprese che operano in tutte e tre le fasi; accesso alla rete, da garantire a tutti I. clienti idonei, che gli Stati Membri possono realizzare mediante tre procedure possibili (accesso negoziato, accesso regolamentato o attraverso il sistema dell'Acquirente unico, persona giuridica designata dallo Stato con il compito di acquistare energia dai produttori e di collocarla sui mercato). Nel corso del Consiglio europeo tenutosi a Lisbona nel marzo del 2000 si è deciso di proseguire con rinnovato vigore lungo il percorso della liberalizzazione: la Commissione ha, pertanto, predisposto una proposta di revisione (C0M/2001/125) che è stata discussa nel vertice europeo di Stoccolma (marzo 2001) e quindi nel vertice europeo di Barcellona (marzo 2002) 8 accompagnata da un documento intitolato completing the internal market - SECI200 1/438 con lo scopo di Walutare i progressi realizzati e presentare le azioni necessarie per accelerare il completamento del mercato interno dell'energia". Si è giunti, infine, alla direttiva 2003/54/CE, approvata dall'Europarlamento a giugno 2003, che abroga la 96/92 e pone come obiettivo agli Stati membri quello di "realizzare un mercato dell'energia elettrica concorrenziale, sicuro e dal punto di vista ambientale sostenibile" (art. 3 comma 1). Essa, inoltre, 131

prevede, oltre alla designazione dei gestori del sistema di trasmissione e del sistema di distribuzione di cui vengono tracciati i compiti e l'obbligo di separazione giuridica dalle altre attività, anche l'obbligo di accesso alla rete mediante tariffe prefissate e l'apertura piena dei mercati dell'elettricità e del gas per le imprese entro il 2004 e per le utenze private dal 2007. È facile comprendere come tale direttiva abbia accelerato i tempi di creazione di un mercato competitivo dell'energia aumentando anche le forme di controllo e di garanzia a tutela della sicurezza del sistema. Essa pone un grosso ostacolo al mantenimento dei monopoli soprattutto nel settore della distribuzione dal momento che, in Italia, ad esempio, molte imprese, pur avendo goduto dell'estensione della concessione di distribuzione fino al 2030, formalmente dovranno "aprirsi" alla concorrenza e dunque rinunciare ai privilegi accordati dalla normativa nazionale.

IL PROCESSO DI "POLICY TRANSFER"

La necessità di ricorrere agli strumenti analitici di politica sociale (o social policy analysis, secondo l'espressione anglosassone) per spiegare il fenomeno di liberalizzazione del settore elettrico può sembrare alquanto inopportuno, vista soprattutto la natura tecnica delle problematiche legate al settore (necessità di bilanciamento costante di domanda e offerta, rigidità della domanda, suddivisione del settore in quattro parti con caratteristiche proprie - produzione, dispacciamento, trasmissione, distribuzione, vendita - vincoli posti dalla rete di trasmissione, rischiosità ed elevato costo degli investimenti). Il peso preponderante dei costi fissi, nonché l'andamento delle funzioni dei costi, fanno rientrare il settore elettrico tra i casi di monopolio naturale (Baumol etal. 1982; Sharkey 1982; Waterson 1988), che figura, a sua volta, tra le cause di fallimento del mercato sotto il profilo dei problemi legati al benessere: lo smantellamento delle imprese nazionali e la progressiva apertura dei mercati è stata pertanto giustificata in termini di recupero di efficienza. Tuttavia, dal momento che riteniamo che le scelte economiche siano anche una conseguenza dell'azione delle istituzioni politiche, abbiamo ritenuto opportuno rintracciare il tassello mancante, ovvero la spiegazione del perché si sia attivato il processo di liberalizzazione, argomento su cui la letteratura economica glissa o si sofferma solo brevemente, nelle questioni di policy. In particolare si è osservato che, negli ultimi anni,• il processo di adozione di scelte politiche maturate al di fuori dei confini nazionali si è tradotto in una progressiva omogeneizzazione delle manovre statali. Tale processo, detto di lesson drawing 132

o poliy transfer, offre una possibile chiave di lettura del perché gli Stati molto spesso convergano verso una comune azione di politica: esso, cioè, tenta di fornire un modello analogico in grado di cogliere le similitudini tra le scelte politiche nazionali 9 In base alla definizione di Dolowitz e Marsh (1996, p. 344), intendiamo per policy transfer "a process in which knowledge about policies, administrative arrangements, institutions etc. in one time andior piace is used in the development ofpolicies, administrative arrangements and istitutions in another time andlor piace": esso rintraccia, pertanto, manovre similari perpetrate all'interno dei sistemi politici contemporanei e cerca di analizzarne le peculiarità indagando sulla loro ragion d'essere. Il fatto che i governi delle varie nazioni sempre più spesso si ritrovino a condividere i medesimi strumenti ed obiettivi induce a pensare che la politica contemporanea faccia largo uso di tale processo. Infatti, come Evans e Davies (1999, p.367) sottolineano, gli studiosi di scienza politica hanno elaborato il concetto di policy transfer con l'obiettivo di analizzare il comportamento degli Stati in condizioni di incertezza e complessità: esso è, pertanto, un "modello di cambiamento politico". Il verificarsi di tale fenomeno è innanzitutto legato ai processi di globalizzazione ed alla volontà, da parte dei singoli Paesi, di non essere esclusi dalle nuove dinamiche economiche. In particolare, all'origine del cambiamento di policy, ritroviamo l'insorgere dell'interazione di forze economiche globali, l'intensificarsi delle comunicazioni che ha facilitato lo scambio di idee e conoscenze ed inoltre il ruolo delle istituzioni internazionali (Unione europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) che cercano di implementare politiche simili in Paesi diversi. La capacità, che i policy-makers possiedono, di delineare i propri programmi risulta fortemente ridimensionata a causa dell'accresciuto potere esercitato da compagnie e istituzioni sovranazionali, rese più forti dall'intensificarsi dei nuovi sistemi di produzione e di trasporto che stanno modificando l'economia mondiale. Analizzando il legame tra globalizzazione, internazionalizzazione, transnazionalizzazione e policy transfer, Evans e Davies sostengono che tali realtà si collegano in due modi differenti: I. questi fenomeni possono facilitare il trasferimento incrementandone le strutture che ne determinano l'opportunità (comunicazioni globali); 2. a sua volta il policy transfer facilita il processo di globalizzazione (l'integrazione politica e la convergenza nelle formazioni di governance) attraverso la creazione di ulteriori strutture-opportunità come i programmi di sviluppo economico della Comunità europea. .

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Nell'elaborazione delle idee politiche hanno un ruolo cruciale le élites tecniche (c.d. epistemic communities) che, mediante le proprie risorse di conoscenza, canalizzano le scelte politiche a favore di determinate problematiche ed opzioni. La presenza di queste strutture esterne allo Stato ha determinato, come dice Cerny (1992, p. 241), la nascita dello Stato competitivo "with the state increasingly using new forms of economic intervention intended to marketize the state itselfas well as to promote the competitive advantage of national industriai andfinancial activities within a relatively open world economy' la globalizzazione politica ha, pertanto, sancito il passaggio da uno Stato nazione ad uno Stato di competizione. In termini economici, Evans e Davies sottolineano che ciò si traduce in un allontanamento dal weifare state industriale mediante l'introduzione di un progetto economico ben distinto che risponde alle pressioni provenienti dai mercati internazionali mediante l'accomodamento di politiche economiche interne ed estere'°. Lo Stato di competizione persegue l'obiettivo di incrementare la competitività della attività economiche nazionali adottando una logica di libero mercato che si traduce in una riduzione della spesa pubblica, nel controllo dell'inflazione e nella deregolamentazione delle attività economiche: in altre parole lo stile dell'intervento statale ha adottato come obiettivo principale non più la massimizzazione del benessere della collettività bensì la promozione dell'impresa, dell'innovazione e della gestione profittevole sia nel settore pubblico che in quello privato (Evans, Davies, 1999, p. 373)11. E molto probabile che tale cambiamento di rotta sia determinato dalla volontà nonché dalla necessità di tarare le politiche fiscali e monetarie sui vincoli imposti da Maastricht che hanno ridimensionato notevolmente la politica di bilancio dei vari Stati membri. Analizzando il processo di liberalizzazione in un'ottica di respiro internazionale, David Levi-Faur (2003, p. 705) nota che "learning is the drivingforce behind the 'great transformation" io a more liberai world' dal momento che la politica ed il processo di acquisizione dei modelli interagiscono nella diffusione della liberalizzazione delle public utiiities in Europa. La privatizzazione è intimamente connessa al retrocedere dello Stato a cui si contrappone l'utilizzo delle autorità di regolamentazione quale strumento di rafforzamento del controllo governativo sull'economia. Il settore elettrico, così come quello delle telecomunicazioni, è, difatti, associato ad un ruolo forte dello Stato. • Come abbiamo già accennato, il nostro tentativo è quello di fornire ulteriori spiegazioni relative al processo di liberalizzazione che esulino da quelle classiche, di carattere economico, relative al fallimento del mercato, alla perdita 134

di efficienza ed ai problemi di asimmetria informativa. Sottolinea ancora Levi-Faur (2003, p. 711) che esistono 5 ragioni a sostegno della tesi che lega il processo di liberalizzazione al policy learning La dimensione del cambiamento è tale che non è possibile attribuirla ad un unico soggetto; la vicinanza temporale delle riforme tra Paesi e settori; la diffusione della liberalizzazione è caratterizzata da un conflitto internazionale minimo; esistono innovazioni tecnologiche che possono ridurre i costi di transazione legati al cambiamento del regime di proprietà di queste industrie; la presenza di riforme di regolamentazione e privatizzazione nel processo di liberalizzazione riflettono un approccio legato alla nozione del controllo politico sugli affari. Entrando nello specifico dei settori, la liberalizzazione del settore elettrico è meno conveniente e pii rischiosa di quella delle telecomunicazioni. La maggiore rischiosità è dovuta alla monoliticità del settore che non ha consentito una gradualità del processo sotto forma di una necessaria sperimentazione. Inoltre, nel settore elettrico, le imprese, sia presenti sui mercato sia nuove entranti, sono costrette ad affrontare elevati costi di gestione, soprattutto a causa dell'innovazione tecnologica, e!ementb che rende la lobby industriale del settore elettrico maggiormente frammentata rispetto a quella delle telecomunicazioni (Levi-Faur, 1999). Inoltre, vi è una maggiore domanda sociale relativamente a queste ultime dal momento che esse sono associate alla qualità dell'informazione e non alle problematiche ambientali come accade, invece, per l'elettricità. Infine, è opportuno ricordare che l'energia rappresenta un settore chiave dell'economia nazionale non solo in termini di sicurezza di approvvigionamento, ma anche in termini di affidabilità, dal momento che l'eventuale non funzionamento del sistema determina perdite non solo economiche ma anche sociali. Solo considerando contemporaneamente i rischi coinvolti, il grado di legittimazione sociale ed i problemi legati al coordinamento, è possibile, secondo Levi-Faur, comprendere le differenze di governo e regolamentazione di elettricità e telecomunicazioni. Il processo di adattamento nazionale all'Unione europea, secondo Dag Harald Claes (2002), è un processo che coinvolge vincoli istituzionali e interazioni tra attori attraverso i vari livelli di decision-making. Tale processo non si traduce in mero adattamento, bensì è il risultato di una contrattazione tra politiche ed istituzioni europee e nazionali.

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Risse et al. (2001, p.7) sostengono che il differente grado di adattamento dipende dal livello di verosimiglianza tra le scelte di policy europee e quelle nazionali: "The degree ofadaptationaipressure... depends on the )'t" or "misfit" between European institutions and domestic structures. The lower the compatibility (fit) between European institutions, on the one hand, and national institutions, on the other, the higher the adaptationalpressures". Tuttavia Harald Claes (2002, p.301) ritiene che sia possibile che misfitting institutions possano produrre fittingpolicies. Il grado di adattamento, pertanto, varia in funzione delle differenti realtà politiche ed amministrative, nonché del grado di disponibilità politica a conformarsi dal momento che i governi nazionali hanno un elevato margine di manovra nell'implementazione delle politiche comunitarie. Young, a tal proposito, parla di un processo di institutional bargaining (Young, 1994), in cui i singoli Stati cercano di soddisfare i propri interessi percependo le istituzioni europee ed il comportamento degli altri Stati come dei vincoli. Utilizzando questo paradigma, possiamo definire la convergenza, da parte degli Stati membri, verso una comune scelta di governance del settore elettrico, formalmente, come un adeguamento alla direttiva 92/96 ma, in termini sostanziali, come il risultato di un processo di omogeinizzazione delle varie politiche nazionali originato dall'adozione di comuni modelli economici, rispetto ai quali, di fatto, attualmente, si misura l'indice di sviluppo di una nazione. La direttiva, pertanto, non ha fatto altro che dare voce ad un paradigma di organizzazione del settore elettrico che più di. ogni altro si prestasse ad una definizione univoca di "progresso", sulla base dei suggerimenti delle varie epistemic communities, e che quindi potesse essere facilmente trasferibile all'interno di ogni realtà nazionale. In sintesi, gli studiosi di socialpolicy suggeriscono che il modello di policy transfer può risultare utile nel tentativo di identificare e classificare determinati fenomeni di natura politica di cui non esiste una spiegazione esaustiva, quale, ad esempio, quello di progressiva diffusione delle politiche di liberalizzazione delle public utilities. Ovviamente, trattandosi di un processo che interessa una molteplicità di agenti e strutture, resta da chiarire quali effettivamente siano l'oggetto, il grado ed i prerequisiti del trasferimento, elementi che di fatto condizionano i tempi ed i modi di tale cambiamento politico.

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LE RISPOSTE DEGLI ECONOMISTI

Gli economisti nel commentare il processo di liberalizzazione innescato dalla direttiva 92196 hanno posto maggiormente l'accento sugli aspetti legati alla promozione dell'efficienza ed al conseguente aumento di benessere. Come osservano Berggren e Kurrild-Klitgaard. (2001), la scienza economica, ponendo l'attenzione sul comportamento dell'individuo all'interno di un contesto esogenamente dato, ha preferito non indagare sul ruolo delle regole e quindi delle istituzioni sulle scelte della società, dimenticando l'importanza che queste ultime rivestono nel processo che conduce allo sviluppo economico di una nazione. Un tentativo di analisi delle direttive europee su energia e gas, che comprende al suo interno anche alcuni spunti di riflessione sul ruolo degli agenti comunitari, è presente in Newbery (2002), uno dei massimi esponenti della teoria delle industrie a rete, il quale sottolinea che è possibile leggere le direttive su due livelli: il primo legato alla volontà di estendere alle public utilities la logica del mercato unico intesa come libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali ed il secondo, più profondo e maggiormente significativo, che si rintraccia nel tentativo di trasferire la politica energetica di respiro europeo sotto l'egida della Commissione (2002, p.2). Alla base delle sfide legate al processo di liberalizzazione, Newbery non può non riconoscere un elemento a forte connotazione politica quale la tensione tra la sovranità nazionale sul settore strategico dell'energia e le "aspirazione federaliste", a cui si associa "a technocratic desire to de-politicise apparently straightforward economic issues" (2002, p. 2). E apprezzabile il tentativo di New bery di fornire una spiegazione del processo che tenga conto anche del fattore politico che, tuttavia, è soltanto accennato dal momento che l'autore preferisce incentrare l'analisi sul problema della sicurezza di fornitura. Newbery, infatti, esprime una forte preoccupazione circa la possibilità che in futuro gli Stati membri, ridimensionati nel loro potere sovrano, possano garantire adeguate riserve di capacità e non si spiega come sia stato possibile che essi abbiano accettato una tale modifica del sistema di responsabilità 12 . A tale proposito cita il caso dell'Inghilterra, contraddistinto, appunto, da una costante tensione tra politica energetica nazionale e spinta verso la liberalizzazione. In realtà si ritiene, come tentano di spiegare gli studiosi di socialpolicy, che sia più opportuno parlare di modifica o meglio evoluzione del ruolo dello Stato nel governo del settore elettrico piuttosto che di arretramento dello stesso. Il pericolo di black-out, che ha di recente interessato anche il nostro 137

Paese, non dovrebbe determinare un progressivo e massiccio ritorno della vecchia tipologia di Stato (come molti economisti preoccupati denunciano), bensì dovrebbe indurre a riflettere sulle forme più opportune di una presenza che, date le caratteristiche del settore e gli interessi in gioco, resta, di fatto, ineliminabile. Il problema maggiore legato al processo di liberalizzazione che Newbery individua è rappresentato dalla possibile (di fatto esistente) nascita di oligopoli con elevato potere di mercato soprattutto a causa degli elevati rischi connessi agli investimenti di lungo periodo ed alla sicurezza di fornitura che figurano tra i possibili risvolti negativi di un processo teso, in primo luogo, a creare mercati all'ingrosso e al dettaglio dell'energia che siano efficienti, compètitivi e deregolati. Shuttleworth (2002), sottolineando le difficoltà di implementazione della direttiva elettrica in seno ai paesi dell'Unione, sia a causa di disuguaglianze interne sia in termini di mancato raggiungimento dei miglioramenti di benessere auspicati, ricorda che l'obiettivo da perseguire, mediante l'introduzione di forme più stringenti di competizione, è quello di ottenere una reale riduzione nei costi (da non confondere con i meri trasferimenti) o miglioramenti nella qualità del servizio che si traducono in recuperi di efficienza (p.l29). Tuttavia, date le caratteristiche di monopolio naturale del settore, l'economista sottolinea la necessità ineliminabile di interventi di regolamentazione sia a sostegno di un mercato adeguatamente competitivo che a governo di un contesto caratterizzato dalla presenza di economie di scala. L'obiettivo delle scelte di policy deve essere quello di garantire il recupero dei costi a sostegno degli investimenti, secondo il principio dell'essentialfacility doctrine (p.l57). In Italia il dibattito si è incentrato principalmente sugli strumenti in grado di consentire il passaggio verso nuove forme di concorrenza. Laura Solimene (2002, p.l 5) sostiene che la trasformazione che ha interessato i servizi di pubblica utilità può essere sintetizzata in 3 dimensioni: - un cambiamento dello stato giuridico per la maggioranza degli operatori dominanti - una diversa struttura di mercato - un cambiamento dei meccanismi di regolazione dei mercati. Nel processo di liberalizzazione il ruolo svolto dalle istituzioni comunitarie è stato fondamentale. Le politiche di liberalizzazione, però, non hanno trovato sempre facile applicazione a causa degli ostacoli alla concorrenza presenti in quei settori in cui esiste, tuttora, l'esigenza di garantire un insieme unifor138

me di prestazioni, a condizioni ragionevoli, a chiunque ne faccia domanda (obblighi di servizio pubblico). Nel settore elettrico, il problema di conciliare il sistema concorrenziale con gli obblighi di servizio pubblico si è tradotto in una lunga fase di gestazione della Direttiva del 1996: gli incentivi all'innovazione ed il miglioramento della qualità dei servizi non dovevano pregiudicare obiettivi quali la fornitura del servizio universale 13 e la protezione globale dell'utente, nonché la tutela ambientale e la sicurezza di fornitura. La liberalizzazione non ha implicato la completa abolizione del controllo pubblico, ma una sua trasformazione in termini di finalità da raggiungere, di soggetti coinvolti e di strumenti utilizzati. Si legge in Antonioli e Bognetti (2004, p. 58-59): "l'apertura dei mercati dei servizi pubblici era ed è tuttora giustificata dalla volontà di aumentare il grado di concorrenzialità del settore nella convinzione che, in tal modo, sia possibile rendere più efficiente il sistema economico nel suo complesso, favorendo al contempo una maggiore e crescente integrazione tra le economie della comunità ed evitando che un intervento pubblico pervasivo distorca la concorrenza tra i diversi sistemi economici nazionali Anche Alberto Clò (1999) invita a leggere la direttiva elettrica in una prospettiva di policy, dal momento che, come egli stesso ammette, "il significato della direttiva è squisitamente politico e va, prima di tutto, valutato all'interno del processo di costruzione dell'Unione europea" (p.16), visto che la modifica dell'assetto elettrico ha interessato, sulle prime, ben 15 Paesi con caratteristiche strutturali ed organizzative completamente differenti. Tal peculiarità sono il risultato di tradizioni istituzionali, specificità dei singoli mercati, squilibri sociali ed economici territoriali, della disponibilità di risorse energetiche interne e dei conseguenti problemi di vulnerabilità esterna, dei rapporti sociali interni, delle culture economiche e politiche (statalismo o liberismo) ed infine delle finalità di interesse generale e dei relativi obblighi che ogni Stato ha ritenuto e ritiene debbano essere connessi all'erogazione del servizio pubblico elettrico. All'interno ditale processo di trasformazione De Paoli (2000, p.29) osserva che: "Per una serie di circostanze favorevoli - non ultima un'evoluzione tecnologicà che abbassava i costi di transazione legati a un'organizzazione più concorrenziale dei sistemi tradizionalmente monopolistici - gli economisti hanno cercato di proporre al potere politico nuove soluzioni istituzionali basate su un nuovo mix di liberalizzazione e di regolamentazione considerato meglio in grado di difendere gli interessi dei cittadini". L'economista parla di un "processo virtuoso" di riordino del settore energetico da realizzare median139

te liberalizzazione, regolamentazione, ristrutturazione del settore industriale e privatizzazione. Polo e Scarpa (2003), trattando del processo di liberalizzazione in Europa, incentrano il loro discorso sulle tre principali aree di riforma (accesso alla rete, separazione contabile delle attività svolte in regime di monopolio da quelle competitive ed apertura dal lato della domanda) e, tralasciando di descrivere gli elementi determinanti la progressiva apertura del mercato, accennano solo velocemente al lungo processo di gestazione delle direttive comunitarie 14 . I due autori, infatti, ritengono opportuno descrivere accuratamente le principali problematiche economiche legate al settore elettrico, individuando in esse un ruolo chiave nella fase di implementazione di un processo così complesso come quello della liberalizzazionel 5 Gli economisti, pertanto, hanno indubbiamente avuto un ruolo cruciale nel proporre una nuova visione del ruolo dei servizi pubblici focalizzando l'attenzione sulle nozioni di efficienza ed efficacia: sono stati loro a sottolineare per primi la scarsità di certe risorse laddove, finora, se ne era sempre predicata l'abbondanza. Tuttavia, come sottolinea Jean-Paul Fitoussi (2003), la tendenza della nuova politica economica a voler legare le mani ai governi equivale ad asserire l'impossibilità che gli obiettivi di cui si fa portatrice possano fallire, se non in via transitoria. In altre parole, gli economisti contemporanei mostrano di possedere, a priori, troppa fiducia nella teoria economica fondata sui principi di liberalizzazione degli scambi, privatizzazione e deregulation16 : essi sembrano aver dimenticato la lezione proveniente dalla teoria keynesiana che, invece, suggerisce la necessità di procedere a scelte ponderate tra i diversi obiettivi. Pertanto, riteniamo che, per comprendere' a fondo la riforma del settore dell'elettricità (e non solo, dato che quest'ultimo può fungere da paradigma di un processo che ha interessato i servizi pubblici nella loro totalità), sia opportuno combinare elementi appartenenti ad entrambe le letterature, dal momento che le giustificazioni economiche rientrano tra le determinanti di un cambiamento che, tuttavia, finisce col porsi obiettivi squisitamente politici. .

UNA SINTESI

Prendendo a prestito la tripartizione di Antonioli e Bognetti (2004) relativa ai protagonisti del processo di riforma (Commissione europea, Stati membri e imprese) si può ipotizzare un modello di lettura del processo di emanazione della direttiva 96/92 CE. Innanzitutto, i ruoli dei tre soggétti: 140

• La Commissione ha fornito un quadro generale, lasciando ampia discrezione ai singoli Stati, con l'obiettivo di creare un mercato concorrenziale-contendibile, promuovere l'efficienza e consentire l'integrazione tra le politiche della Comunità. • Gli Stati membri hanno subito un ridimensionamento delle proprie competenze ad opera delle direttive europee anche se le risposte a queste ultime variano in funzione dei vari contesti socio-economici, politico-ideologici ed organizzativi. • Le imprese cercano di orientarsi nel nuovo corpus di regole e, nel contempo, di adeguarsi ai nuovi scenari tecnologici: la ricerca di nuovi mercati, resa possibile dalla progressiva apertura di questi ultimi, spesso conduce, in settori fortemente liberalizzati, ad un processo di concentrazione. Cerchiamo di comprendere come sia possibile articolare i rapporti tra questi tre tipi di soggetti, sviluppando una serie di ipotesi sulla base delle due letterature di riferimento. Gli Stati membri, influenzati dalle epistemic communities, sono continuamente alla ricerca di nuove scelte di policy in grado di accrescere la competitività dei prodotti nazionali con lo scopo ultimo di migliorare, il benessere dei propri cittadini, e guardano ai programmi implementati in altri paesi come ad un possibile strumento per la risoluzione dei propri problemi di insoddisfazione interna. La scelta di "imparare" dagli altri determina un ridimensionamento del ruolo dello Stato ("hoiowing out") che si traduce nell'adozione di un modello economico volto a sviluppare la concorrenza mediante l'applicazione della direttiva (92/96), la quale determina il nuovo assetto organizzativo delle imprese del settore. Diversamente, potrebbe essere stata la Commissione ad intraprendere un percorso di cambiamento con lo scopo di uniformare le politiche energetiche dei vari Stati membri e di avviare un processo in grado di determinare molteplici effetti di benessere sotto forma di miglioramenti di produttività e qualità del servizio, miglioramenti di efficienza nel parco di generazione (sia in termini di nuovi impianti come quelli a ciclo combinato, che di sostituzione dei vecchi), riduzione dei prezzi dell'elettricità all'ingrosso e al dettaglio (Joskow, 2003). Gli Stati membri, quindi, applicano il contenuto della direttiva 92196 (pur se, talvolta, a valle di un processo di adesione travagliato) dal momento che ne riconoscono, sulla base della letteratura economica, il valore aggiunto e fanno in modo che essa generi i propri effetti, si spera positivi, su consumatori e imprese.

141

Potremmo così riassumere le ipotesi interpretative mediante l'utilizzo delle relazioni triangolari 17 .

COMMISSIONE

F IMPRESE

STATI MEMBRI

Soprattutto se pensiamo ai grandi gruppi energetici, possiamo certamente asserire che le imprese hanno influenza sulla politica energetica interna ed internazionale degli Stati membri e dunque l'iter di emanazione della direttiva 96/92 di cui, contemporaneamente, hanno anche subito gli effetti. Infatti, come risposta al cambiamento di scenario del settore, si stanno originando oligopoli integrati a livello sovranazionale. In ogni caso, la Commissione ha determinato, mediante la 92/96 e le successive modifiche, il nuovo assetto del mercato energetico, provocando un effetto diretto sulle imprese e ridimensionando la sovranità dei singoli Stati su tale settore. Tuttavia il modello di liberalizzazione prescelto si è originato in seno agli Stati membri, soprattutto sulla base dell'esperienza inglesel 9 e tenuto conto delle pressioni esercitate da altri paesi quali, ad esempio, Francia e Germania. A questo punto, però, resta da chiedersi se i tre soggetti abbiano avuto lo stesso peso nel condizionare il processo di liberalizzazione: è chiaro che, sicuramente, occorre fare delle distinzioni in base al potere politico posseduto da ciascun gruppo di attori. Ancora una volta è il paradigma di riferimento che ci consente di stabilire chi sono stati gli operatori maggiormente influenti: gli economisti, ad esempio, sostengono la superiorità del modello di organizzazione industriale concorrenziale che, appoggiato dalle imprese, si è automaticamente imposto sulle scelte della Commissione e quindi all'interno degli Stati membri. Diversamente, in base al modello politico, risulta essere la mimesi tra gli Stati il "primuni movens" del processo innescato dalla direttiva. Ovviamente non sono soltanto i soggetti coinvolti a condizionare l'evolversi del processo di apertura del mercato: il differente grado di attuazione della direttiva 92/96 all'interno degli Stati membri dipende anche dalla forza di 142

penetrazione di quest'ultima, che, a sua volta, è funzione del rapporto tra sovranità nazionale ed europea 18 Esistono, tuttavia, alcune teorie politiche sulla liberalizzazione che propongono spiegazioni differenti del fenomeno. Eising e Jabko (2001) spiegano il processo di liberalizzazione del settore elettrico non come effetto delle pressioni esercitate dai gruppi di interesse o dell'evoluzione delle forme di regolamentazione di tipo geopolitico, bensì sulla base dell'influsso delle dinamiche di negoziazione avvenute a livello europeo, insistendo, pertanto, sul ruolo della Commissione e degli altri attori comunitari 19 In un suo recentissimo lavoro, Levi-Faur (2004) sostiene addirittura che il processo di liberalizzazione avrebbe attecchito all'interno degli Stati membri anche in assenza delle strutture di governance di livello europeo (che egli chiama agents ofEuropeanization (p.24)) 20 . Egli termina il suo articolo sostenendo che le conclusioni a cui perviene sono maggiormente applicabili ad alcuni paesi piuttosto che ad altri dal momento che "the effect ofEuropeanization on liberalization, although not critically important, is stronger in the southern countries andperhaps in France than in northern Europe"(p. 26). Prendendo spunto da tale affermazione, occorrerebbe sviluppare un'analisi sul grado di penetrazione della direttiva all'interno dei vari paesi e valutare i differenti impatti economici e politici, soprattutto con riguardo a Francia, Spagna e Italia, sulla popolazione e sul territorio, nel rispetto delle peculiarità che li caratterizzano e li distinguono gli uni dagli altri. . .

CONCLUSIONI

Ormai sono passati 8 anni dall'adozione della prima direttiva sull'energia, sono intervenute anche successive modifiche e dunque adesso è subentrata la fase della riflessione, come testimoniano i numerosi articoli legati agli effetti della liberalizzazioné sul benessere dei cittadini. Questa nuova sensibilità emersa di recente è il naturale risultato di operazioni di politica caratterizzate da un forte tecnicismo e da una forte spinta all'innovazione, i cui effetti vanno valutati non soio in termini di efficienza ma anche di redistribuzione della ricchezza. Analisi approfondite del processo di liberalizzazione testimoniano che, nei paesi first comers, nei quali tale percorso di rinnovamento ha ormai attecchito da lungo tempo, la tendenza è quella "finalizzata alla reintegrazione verticale e alla concentrazione del settore, sia attraverso operazioni di fusioni e acquisizioni (in presenza di una normativa non, ostativa) sia mediante accordi commercjali" (Antonioli, 2004, p. 65). 143

Si legge in Joskow (2003) che le iniziative tese a ristrutturare e a rendere maggiormente competitiva la struttura del settore elettrico non sono esenti da rischi e difficoltà di realizzazione: in primo luogo, l'esercizio del potere di mercato all'interno del mercato all'ingrosso e di quello di riserva, la problematica aella sostenibilità degli investimenti per garantire l'affidabilità del sistema, lo squilibrio nella determinazione dei benefici a favore dei clienti industriali e non di quelli domestici, il mancato raggiungimento di un mercato sufficientemente competitivo in grado di assicurare prezzi non distorsivi, il rischio blackout il ruolo spesso ancora debole delle agenzie di regolamentazione. E chiaro che il dibattito futuro verterà su questi temi ed in particolare sugli effettivi vantaggi collezionati dal passaggio da una situazione ex ante di fornitura pubblica dell'energia a quella ex post di libero mercato elettrico di cui, sinora, possediamo solo i vantaggi economici potenziali elencati dalla letteratura tra cui, in primo luogo, figura un miglioramento del benessere per gli utenti in termini di maggiori possibilità di scelta, qualità del servizio e riduzione dei prezzi. Non è che tali promesse non si siano realizzate (in alcuni casi, potrebbe essere ancora prematuro giudicare il cambiamento avvenuto )21. Il problema sta negli eventuali costi del cambiamento, spesso trascurati ma che inevitabilmente potrebbero mostrare il loro peso, rallentando il funzionamento del mercato ed alimentando il malcontento di chi non ha potuto godere, nel breve periodo, dei vantaggi della liberalizzazione. Si potrebbe pensare che il processo di liberalizzazione sia, in realtà, uno specchietto per le allodole montato ad arte con lo scopo di rallentare, o, peggio ancora, nascondere, la scarsa propulsione dei sistemi economici contemporanei. Si legge in Bischoff (2003, p. 201) che "the number of interest groups in a country increases with the duration ofits political stability... The more developed a country is, the more interest groups willpopulate it and hence the lower are its economicgrowth rates". La presenza di forti gruppi di interesse legati alle public utilities che hanno sedimentato negli anni il loro potere godendo anche di un clima politico favorevole incentrato su una spesa pubblica forte, potrebbe aver spinto, in risposta al problema del debito pubblico, divenuto cruciale all'interno delle varie politiché nazionali, per la soluzione della liberalizzazione-privatizzazione, contando sul vantaggio competitivo accumulato nel corso degli anni di fornitura pubblica. In questi termini potrebbe così spiegarsi la nascita degli oligopoli a livello europeo, al cui interno spesso figurano le vecchie aziende di Stato. Un tema, certamente cruciale, da approfondire. 144

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L'importanza conferita alla "scienza della politica" nell'interpretazione delle scelte economiche collettive si rintraccia già ad inizio '900 con l'affermarsi, nell'ambito della Scienza delle finanze italiana, di due teorie distinte: la teoria "Volontarista" e la teoria detta "politico-sociologica" (CosclAN!, 1977, capp. Il e III). 2 Fonte: www.europa.eu .int. 3 Come presentato nel Libro verde sulla sicurezza dell'approvvigionamento energetico nel novembre 2000. ' In particolare, la volontà di tutela dell'ambiente nonchè la necessità di promuovere una politica energetica in grado di garantire la diversificazione delle fonti e la sicurezza dell'approvvigionamento, in linea con uno sviluppo sostenibile, hanno determinato la firma del Protocollo di Kyoto nel 1997 sul cambiamento climatico, che vincola l'Europa entro il 2008-20 12 alla riduzione dell'8 per cento delle emissioni di gas serra rispetto al 1990 e del Protocollo di Giiteborg del 1999. 5 11 Libro bianco del 1997 è uno degli strumenti tesi a promuovere l'utilizzo delle energie

idonei quelli con un consumo annuo superiore a 100 GWh e le imprese di distribuzione. Il progressivo aumento della quota del mercato nazionale viene affidato ai singoli Stati a cui spetta il compito di indicare i clienti che rappresentano le quote di apertura stabilite in base ai consumi. 8 Nel primo caso la trattazione è stata rinviata per l'opposizione della Francia, sostenuta dalla Germania, nel secondo è stato raggiunto un accordo che ridimensiona l'ipotesi di partenza della Commissione. 9 In un sistema nazionale con scelte politiche indipendenti è possibile assumere che l'ipotesi della convergenza, benché riferita ad un diverso campo di indagine, può provenire dal teorema dell'elettore mediano di Bowen: si dimostra che il metodo maggioritario produce una soluzione efficiente dal momento che la quantità prodotta di bene pubblico risulta essere quella richiesta dall'elettore mediano.

rinnovabili. Cfr. Energia per ilfituro: le fonti energetiche rinnovabili, per una strategia e un piano di azione della Comunità; C0M/97/0 599. 6 Tra le prime misure adottate ricordiamo la direttiva 90/377/CEE del 29 giugno 1990 sulla trasparenza dei prezzi al consumatore finale di gas e di energia elettrica, nonché la direttiva 901547/CEE del 29 ottobre 1990 e la direttiva 91/296/CEE del 31 maggio 1991 relative al transito sulle grandi reti dell'elettricità e del gas naturale. A completamento di una prima fase della politica comunitaria, con la direttiva 94122/CE del 30 maggio 1994 sono state liberalizzate le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di petrolio e gas naturale. ' Dall'analisi delle direttive emerge come la liberalizzazione del mercato europeo sia in gran parte affidata al progressivo incremento della quota di clienti liberi di rivolgersi al produttore di loro preferenza (i clienti idonei): la direttiva 96192 dispone che siano dichiarati subito clienti

"a move awayfrom the industrial-welfare state through the introduction of a distinctive economic project which embraces the pressures of international markets through the adjustment of domestic as well as foreign economic policies" (EVANS, DAVIES, 1999, pp. 371-373). Risulta evidente il contatto con le teorie dei Libertarians che, sostenendo l'importanza di valori quali la libertà, la difesa della proprietà privata e dei mercati privati, attribuiscono solo un ruolo minimale al welfare (cfr La teoria dello "Stato minimo" di NozIcK). 12 "From an energy policy perspective it is somewhat surprising that member countries appear to have largely accepted this rather dramatic shfl in responsibility for system security" (NEWBERY, 2002, p.3). 13 "un insieme minimo di servizi di determinata qualità disponibile a tutti gli utenti a prescindere dalla loro ubicazione geografica e, tenuto conto delle condizioni specifiche nazionali, ad un prezzo abbordabile (Dir. 97/33/CE, art. 2, commal, lett. g). 14 "These documents represents represent the

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nai stage of a long and complex politicai process and summarize a compromise among dft'rent situations and approaches" (POLO, SCARPA, 2003, p.l8). 15 Vengono individuati 5 elementi fondamentali caratterizzanti il processo di liberalizzazione: il problema della struttura verticale ed orizzontale del settore, la privatizzazione dell'operatore dominante, la separazione tra comparti competitivi e non, il ruolo della regolamentazione nel garantire un accesso non discriminatorio alle reti e lo sviluppo di un ambiente favorevole alla competizione (ibidem, p. 2). 16 Fitoussi parla di ritorno ai postulati dottrinali pre-keynesiani. .Questo riferimento deve essere inteso in termini generici, quindi comprendente anche le lobbies. 17 11 riferimento è il libro "Il triangolo dei servizi pubblici", di D. ARCHIBUGI e altri, Marsilio, 1999. I soggetti sono l'operatore pubblico, i soggetti erogatori del servizio ed i cittadini/utenti. IS La letteratura sull'argomento è vastissima. Una rassegna sull'argomento è presente sul volume monografico della rivista "Economia pubblica" n. 212003 intitolato appunto Privatizzazioni e ben essere.Ii caso britannico. 19 Si ritiene che la resistenza al cambiamento sia, pertanto, funzione del peso dei singoli paesi all'interno della Comunità. Sicuramente i neo

entranti, avendo come obiettivo principale quello della completa integrazione, cercheranno di adottare il modello proposto dalla 96/92 nel modo più fedele possibile, nonostante le difficoltà che ancora persistono nell'organizzazione delle loro risorse interne. Sarà interessante seguire l'evolversi del processo.

"Nationai perceptions and positions evolved in response to the liberalization process at the EU level. Despite the considerabie inertia of nationai electrichy sectors, the member state's invoivement in EU negotiations opened the way for a reassessment oftheir electriciiy supply models andfor a redefinition of their preferences. Ultimateiy, the formai and informai institutionai dynqmics ofEU negotiations inducedpreference changes andpoiiticai realignments at the domestic leve!' (EIsING e JABKO, 2001, p. 743). 21 "....aithough Europeanization has to some liberalization, there are good reasons to believe that the later would have diffi1sed to most if not ali member states even in the absence ofdistinct structures ofgovernance at the European ievel. This is not to suggest that Europeanization does not matter but that it matters in iess obvious andperhaps iess critical ways than is frequently assumed as to the advance ofliberalization" (LEVI-FAUR, 2004, p.4). 22 Si pensi, ad esempio, al nostro paese, dove la Borsa è di recentissima istituzione.

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dossier

Quando la Pubblica Amministrazione esternalizza lo

Oggi, tutte quelle atti vitĂ fondamentali per ilfinzionamento dell'azienda e quei processi tradizionalmente interni alla stessa ma che non ne rappresentano il "core business", possono essere "affidate" alla gestione di organizzazioni esterne specializzate, permettendo, cosĂŹ, all'azienda di valorizzare le proprie competenze distintive, concent'randosi sulle attivitĂ a maggior valore aggiunto, di contenere i costi e di avere i servizi e i prodotti necessari aiproprio sviluppo. Gli articoli pubblicati in questo dossier si rifi'riscono a tale fenomeno denominato outsourcing, fenomeno in evidente crescita negli ultimi trenta anni anche all'interno delle Pubbliche Amministrazioni. Attualmente outsourcing, terziazzione, esternalizzazione, sono tutti sinonimi che servono ad indicare l'esigenza delle Pubbliche Amministrazioni di affidare all'esterno alcune delle frnzioni finora gestite in proprio. Sotto questo punto di vista, il processo dellbutsourcing rappresenta la risposta giuridica all'esigenza delle aziende (pubbliche o private) alla ricerca di soluzioni innovative per ottimizzare la produzione e razionalizzare le risorse umane. La carenza di normativa, nel settore pubblico come nelprivato, ha ostacolato l'evol149

versi corretto di questa nuova forma di contratto. Si è fino ad ora proceduto con analisi rivolte al singolo caso adducendo come motivo fondamentale - se non unico - dell'esternalizzazione il risparmio di risorse finanziarie (l'unica condizione, posta dal Ministero dell'economia e delle finanze nel maggio 2002, è che i costi dei servizi risultino inferiori a quelli sostenuti in prima persona dalla Pubblica Amministrazione). La sua vera natura dovrebbe basarsi sulla capacità di riconoscere e "separare" determinate competenze, per concentrarsi sui proprio "core business", delegando a terzi tutti i processi considerati accessori. In questo modo diventerebbe fondamentale lo scambio di know how tra l'azienda pubblica e imprese private, in modo che, nel lungo periodo, la Pubblica Amministrazione acquisisca le conoscenze tali da permetterle di svolgere in proprio la finzione prima esternalizzata. Affinché la Pubblica Amministrazione tragga beneficio dall'esternalizzazione ci deve essere una finzione di indirizzo e di controllo costante da parte della stessa; una sorta di apprendimento di competenze «private" e un confronto con diverse culture manageriali. Esternalizzare non dovrebbe significare una dismissione di finzioni e servizi, perché, se così fosse, non solo sarebbe un inutile sperpero di risorse finanziarie, ma anche una diminuzione di competenza interna all'Amministrazione stessa e una mancata ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse umane. Detto ciò diventa essenziale porre delle linee guida come risposta alle domande "Come, quando e perché esternalizzare' per ricorre alla terziazzione solo in casi di particolare interesse dove l'apporto esterno divenga necessario e aggiunga valore alknow how gi2z esistente all'interno della Pubblica Amministrazione. (cs)

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I pro e i contro delle esternalizzazioni di funzioni e servizi nell'amministrazione pubblica di Giovanni Vetritto

e brevi note che seguono, relative alla problematica dell'esternalizzazione di funzioni e servizi nella pubblica amministrazione, sono state redatte con l'approccio concettuale del cultore di studi sull'amministrazione pubblica, ma anche e soprattutto con quello pratico del dirigente pubblico. Esse rappresentano un tentativo di concettualizzazione organizzato in tre parti: nella prima parte si cercherà di chiarire il concetto di esternalizzazione utilizzato in questo scritto, precisando, fra le tante accezioni di questo termine, qual è quella che si ritiene più utile; nella seconda verranno elencati i pro e i contro delle esternalizzazioni, separatamente nel caso dei servizi e nel caso delle funzioni; infine, nella terza parte, in maniera perfino apodittica, si tenterà di dare un elenco di condizioni che si ritengono necessarie affinché una esternalizzazione sia buona, ovvero positiva nel risultato per l'amministrazione e per i cittadini contribuenti. Innanzitutto, dunque, cos'è l'esternalizzazione di una funzione o di un servizio. Il termine è nato in ambito privato, ad indicare una ben precisa strategia operativa, molto praticata nel contesto del nuovo paradigma produttivo che caratterizza la rivoluzione manageriale degli anni più recenti. Si tratta della strategia adottata dalle imprese profit, volta a rimettere a soggetti esterni rispetto alla propria organizzazione determinate attività indispensabili del proprio ciclo produttivo; attività di norma strumentali e di autoamministrazione, ma a volte anche finali e perfino strategiche. Lo scopo è, nel primo caso, quello di ridurre i costi, semplificare l'organizzazione e concentrare risorse ed energie sulle attività di core businesi-, nel se-

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UAutore è dirigente della Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento della funzione pubblica. 151

condo, quello di aggiungere valore alle proprie attività e di arricchire il proprio processo produttivo. Importato nell'ambito pubblico, il concetto non perde, in generale, i suoi caratteri e le sue motivazioni'. Al contrario, nella sua essenza finisce per essere la più estrema e conseguente manifestazione, tra altre apparentabili, di un fenomeno più ampio e più generale, che ha caratterizzato la riforma amministrativa di tutti i Paesi più progrediti almeno nell'ultimo decennio. Si tratta della tendenza riconducibile sotto l'etichetta generale dell'arretramento dello Stato, verificata in tutte le democrazie occidentali, seppure in misura e con caratteristiche 'diverse, dalla metà degli anni '80 del '9002. Sin da quegli anni, infatti, si sono verificati in tutti gli Stati avanzati fenomeni distinti ma convergenti, che sono andati tutti nel senso dell'alleggerimento del carico operativo delle amministrazioni pubbliche: la deregulation (lo Stato abbandona del tutto interi territori fino ad allora presidiati, non gestisce più e neanche regola); le privatizzazioni (l'amministrazione fa uscire dal suo corpo interi plessi organizzativi, di norma quelli che gestiscono imprese industriali o di servizi, per limitarsi alle funzioni di regolazione); le liberalizzazioni (ossia, lo Stato, dopo essere uscito da quei settori in quanto gestore, pone in essere una regolazione delle attività rimesse a privati - o a società per azioni in mano pubblica - diversa da quella del passato, che prediligeva rapporti di tipo concessorio; quindi, liberalizzando, cerca di indurre una dinamica di mercato più vivace). Nel ricordare questi fenomeni, si può immaginare un'area di intervento pubblico sempre più ristretta, dall'abbandono di funzioni, alla rinunzia alla gestione diretta dei servizi, all'abdicazione a regolazioni tassative ed intrusive; nell'ambito di questa tendenza, si può menzionare anche un ulteriore fenomeno, che è la semp1flcazione procedurale e organizzativa, a sua volta finalizzata ad avere uno Stato più snello, meno coercitivo e più concentrato su funzioni essenziali, assolte in maniera più pratica ed efficiente. A valle di tutto questo processo di arretramento, lo Stato cerca di offrire quel che resta delle proprie funzioni e dei propri servizi in una maniera il più possibile efficiente, e comunque in una logica molto vicina a quella dell'impresa privata3 . Proprio al termine di questo stesso processo, quel che resta (in termini di servizi e funzioni) è quello che può essere rimesso ai privati (e quindi esternalizzato), per le già descritte ragioni di efficienza finanziaria e produttiva o di innalzamento della qualità.

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Volendo tentare una definizione di sintesi, si potrebbe sostenere che l'esternalizzazione di servizi o funzioni nelle pubbliche amministrazioni è la strategia operativa, normativamente imposta o discrezionalmente adottata, in base alla quale viene rimesso ai privati lo svolgimento di intere attività o di singoli segmenti procedurali di attività, non come mere operazioni, ma con il rispettivo contenuto programmatorio e (o) decisionale, allo scopo di conseguire un risparmio di risorse ed una razionalizzazione organizzativa, ovvero (o nonché) di ottenere un arricchimento della fase istruttoria ed un innalzamento dei livelli di qualità della funzione. o del servizio resi (o acquisiti, nel caso di servizi strumentali). Se la definizione proposta è corretta, occorre dunque distinguere la esternalizzazione di servizi dal tradizionale appalto, nel quale l'amministrazione procedente mantiene saldamente ogni funzione programmatoria e decisionale, limitandosi ad affidare all'esterno le mere operazioni. D'altro canto, occorre differenziare la esternalizzazione di funzioni nella pii ampia famiglia dei casi di esercizio privato di pubbliche funzioni, in quanto non sempre questi ultimi nascono con le medesime finalità e implicano, di conseguenza, il rispetto dei mèdesimi principi e delle medesime cautele operative. Sorgono a questo punto, risolto il problema meramente descrittivo e definitorio, le questioni di fondo: cosa esternalizzare, perché e, soprattutto, come. L'opinione espressa in queste note verte sul perché e sul come esternalizzare, piuttosto che sui cosa esternalizzare; ciò perché, in linea di principio, non vi è quasi funzione o servizio che non possa essere esternalizzato; se però si esternalizza senza rispettare alcuni parametri operativi e gestionali, che verranno indicati, il risultato sarà ben difficilmente positivo, indipendentemente dal cosa si esternalizza. La prima questione che si pone è quella della normativa da applicare alle esternalizzazioni, perché le procedure e i vincoli giuridici sono diversi nel caso dei servizi o delle funzioni; ciò che ne consegue non è indifferente ai fini di un giudizio sulle probabilità di una felice riuscita della singola operazione di outsourcing. . Nel caso dei servizi, infatti, fermo restando quanto dianzi sostenuto. in ordine alla diversità ontologica tra esternalizzazione e tradizionale affidamento a privati di servizi strumentali, soccorre pur sempre, come normativa d'elezione, . quella comunitaria sugli appalti 4; non sorgono, pertanto, particolari questioni e, in termini di scelte gestionali; si apre un orizzonte 153

di opzioni manageriali sui se esternalizzare e di mercati contendibili sul come esternalizzare. Nel caso di esternalizzazione di funzioni, invece, nell'amministrazione centrale, nella stragrande maggioranza dei casi, ci troviamo ancora di fronte a quei tipi di discipline singolari che una certa dottrina individuava, alcuni anni fa, definendole "di settore" 5 in quanto sistemi di norme speciali, spesso molto dettagliate, che conferiscono a privati, spesso ben individuati, l'esercizio di specifiche attività pubbliche o perlomeno di pubblico interesse 6 . Si pensi a esperienze comuni, come quella della funzione di revisione periodica degli autoveicoli, oggi affidata alle autofficine private, laddove un tempo vi era l'estenuante procedura presso la Motorizzazione civile7 ; ovvero a quella, ben più rilevante, specialistica ma delicatissima, della valutazione del rendimento degli investimenti della programmazione negoziata, affidata al sistema bancario 8 Più variegato il panorama dell'esternalizzazione di funzioni negli enti locali, sintomo della maggiore vitalità di quell'universo; si va dall'affidamento di funzioni in materia fiscale alla materia dei lavori pubblici alla gestione del patrimonio immobiliare dell'ente. Anche in questo settore, però, l'esternalizzazione di funzioni trova base, di norma, in una espressa previsione normativa, che funge, se non da disciplina di dettaglio, quantomeno da norma abilitante generale, cui fa seguito uno specifico atto negoziale con il soggetto esterno, spesso specificamente creato allo scopo, in forma privatistica 9 In questo genere di casi la scelta di porre determinate funzioni fuori dal perimetro dell'attività direttamente gestita dall'amministrazione è presa, in sostanza, dal legislatore piuttosto che dalla dirigenza; inoltre, il panorama stesso dei possibili affidatari è spesso ristretto quando non addirittura legislativamente determinato. Quanto da ultimo evidenziato inizia a porre un primo dilemma: managerialità versus obbligatorietà, ossia da una parte i casi in cui si esternalizza per una decisione manageriale, dall'altra quelli in cui c'è una norma di legge, di solito molto precisa, che individua tempi, modi e spesso destinatari della funzione. Sulle conseguenze di questo diverso panorama di vincoli normativi alla decisione si tornerà in conclusione di questo scritto, quando verranno elencate le condizioni che si ritiene condizionino la buona riuscita delle esternalizzazioni. Da questo punto di vista, è molto significativo un articolo apparso su Il Sole 24 ore del 30.12.2002, nel quale si dava conto di una posizione della , . .

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Federazione Italiana delle Imprese del Terziario Avanzato (FITA), la quale reclama "una decisa azione legislativa e di indirizzo che indichi chiaramente cosa e come fare per favorire le esternalizzazioni"lO; dunque, sembra di poter leggere nella posizione delle imprese un interesse a che l'amministrazione esternalizzi per norma e non per scelta manageriale; posizione, questa, estremamente discutibile nell'ottica del buon andamento dell'amministrazione. I PRO E I CONTRO DELLE ESTERNALIZZAZIONI Venendo ai pro ed ai contro delle esternalizzazioni, occorre preliminarmente evidenziare che i pro sono leggermente diversi nel caso dei servizi e nel caso delle funzioni; ma anche che i pro sono spesso condizionati, mentre i contro, quando esistono, sono obiettivamente più incidenti. I pro dalla esternalizzazione possono essere utilmente elencati partendo dal caso di affidamento di servizi. Il primo, il più banale, dei vantaggi dell'outsourcing è quello che, con una terminologia consulenziale, si chiama downsizing, ovvero il ridurre le dimensioni dell'organizzazione, con tutto ciò che questo implica in termini di possibilità di ottimizzare l'utilizzo delle risorse umane e strumentali. Sotto entrambi questi profili, non vi è chi possa sostenere che la pubblica amministrazione non abbia bisogno di downsizing. Occorre, però, tenere ben presente che questo processo riesce solo se, nel momento in cui si esternalizza il servizio, si ha la flessibilità organizzativa, normativa e gestionale per ridurre il numero degli addetti, ovvero per collocarli diversamente, eventualmente riqualificandoli. Altrimenti, si ha un peggioramento della situazione in termini di costi complessivi, magari impliciti. Quindi, anche il secondo grande vantaggio che emerge dall'esternalizzazione dei servizi, che è l'ottimizzazione nell'utilizzo delle risorse umane, dipende dalla flessibilità organizzativa; perché se questa c'è, si può realmente ricavare un vantaggio; menire se non c'è, può accadere ciò che è successo in qualche Ministero,' in cui ci sono stati casi interessanti di esternalizzazione di servizi generali, ma nel frattempo gli uffici che si occupano di attività strumentali, invece di diminuire, sono cresciuti tanto nel numero che nella quantità degli addetti' 1 Altro ovvio vantaggio dell'esternalizzazione, è il risparmio di risorse finanziarie. La questione è, ancora una volta, fortemente condizionata, nel senso che si possono certamente risparmiare risorse finanziarie, ma non è .

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detto che il risultato finale sia sempre positivo, sul piano del valuefor money. Inoltre, vi è senza' dubbio un diverso vantaggio rispetto a quelli che gli economisti chiamano breve, medio e lungo periodo; è infatti più 'facile che il risparmio si verifichi nel breve, mentre nel lungo periodo, se l'amministrazione non si attrezza con le giuste professionalità, il risparmio può sparire e addirittura lasciare il posto ad un aggravio di costi. La condizione di vantaggio, dunque, è di non poco momento ma è condizionata da come si esternalizza e dal tipo di professionalità che si mantiene all'interno. Ci può essere un vantaggio in termini di risparmio di risorse finanziarie, ma è un vantaggio condizionato: in alcuni casi l'amministrazione può riuscire ad ottenerlo, in altri casi possono completamente saltare i conti o in termine di costi o in termine di valore. A questo riguardo, due esempi che fanno riferimento entrambi alla disciplina di razionalizzazione degli acquisti incentrata sulla Consip 12 la convenzione sulla telefonia mobile dei Ministeri è stata aggiudicata ad una azienda che ha garantito un ribasso dell'80% sulla base d'asta, ma non c'è Ministro degli ultimi due Governi cui non sia stato garantito il servizio di un'altra società, perché l'assegnataria non sembra garantire la copertura e i servizi necessari ad un livello di utilizzo top. Altro caso, che non è tanto interessante in termini di costi, quanto in termini di valore, è quello della convenzione sulla cancelleria, rispetto alla quale i prezzi non sono nemmeno troppo vantaggiosi e in più il livello qualitativo delle forniture è del tutto insoddisfacente. Altri due elementi positivi nel caso di esternalizzazione di servizi sono la sburocratizzazione, legata al downsizing, ossia la dismissione di alcune rendite di posizione interne all'amministrazione; il caso dei consegnatari è esemplare, ma se ne potrebbero fare molti altri. E càrrelativamente, l'altro vantaggio è che si possono alimentare maggiormente le iniziative dei privati (la dichiarazione della FITA ricordata dianzi è estremamente significativa di una attesa ben precisa in questo senso), rendendo più vivace il mercato. Un ulteriore beneficio è costituito, per il personale pubblico, dal confronto con diverse culture manageriali. A questo proposito, però, bisogna avere ben presente il fatto che questa contaminazione culturale il privato non può garantirla per una missione etica; deve essere l'amministrazione a sfruttare con intelligenza l'occasione per "rubare mestiere", introitando logiche e meccanismi operativi nuovi. Non è plausibile chiedere al privato, cui si affida la funzione o il servizio, di insegnare nuove tecniche nel :

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mentre gestisce, rré niente altro di più di quello che si acquista. È il dirigente pubblico a dover fare uno sforzo per acquisire competenze dal manager privato, utilizzando la circostanza della commessa per un confronto professionale. L'ultimo, ma anche il più importante, di tutti i pro, il vantaggio dei vantaggi nel caso di esternalizzazione di servizi, è la concentrazione sul core business, ovvero la possibilità di dedicare energie, risorse e attenzione alle funzioni che caratterizzano la singola amministrazione, una volta cedute all'esterno le attività strumentali; si tratta, per di più, del vantaggio meno sottoposto a condizioni. Passando ad esaminare il caso di esternalizzazione di funzioni, la gran parte dei pro già indicati sopra (e delle relative condizioni) sono altrettanto validi: è il caso del downsizing, dell'ottimale utilizzo delle risorse umane e di quelle finanziarie, dell'alimentazione delle iniziative private e del confronto con altre culture manageriali. Non tutti i vantaggi, però, si producono allo stesso modo nel secondo caso. Cedendo all'esterno vere e proprie funzioni, infatti, non è affatto detto che si vada nel senso della concentrazione su1 core busines.r, questo pro un p0' si perde, perché può ben darsi che sia proprio la funzione di core business ad essere esternalizzata. L'esempio più chiaro è quello del ruolo, già menzionato poc'anzi, dato agli istituti finanziari nella valutazione del rendimento degli investimenti della programmazione negoziata; ruolo che avrebbe ben potuto essere assolto dal Ministero del Tesoro (oggi dell'Economia) e che rappresenta comunque, in definitiva, la ragione stessa di quella procedura amministrativa, il cuore della funzione di investimento pubblico. Anche il pro rappresentato dalla sburocratizzazione regge fino ad un certo punto nel caso di esternalizzazioni di funzioni; ciò perché l'amministrazione deve, in un certo senso, "cambiare mestiere", controllare e dirigere invece di gestire e regolare direttamente, ma non può comunque del tutto sburocratizzare. Se non gestisce la funzione deve almeno, in qualche modo, garantirne il presidio. Si aggiungono, invece, due pro che non sono rilevanti nel caso di servi.zi, ma lo diventano nel caso di esternalizzazione di funzioni. Il primo è l'inserimento nel processo amministrativo di culture spesso non presenti nell'amministrazione, perché molto costose o troppo specialistiche. Ed è un pro nemmeno sottoposto a particolari condizioni. E infine, 1' outsourcing rende possibile la copertura di alcuni segmenti 157

critici del processo amministrativo, per la particolare novità della funzione. Un esempio in tal senso, dopo la legge 150 del 2000, sulla funzione di comunicazione delle pubbliche amministrazioni, è quello dell'allestimento di un sito internet che abbia le caratteristiche che la web community richiede; non è una operazione che un Ministero possa ad oggi condurre senza avvalersi di professionalità esterne. In questo caso la condizione di efficacia dell'operazione è però data dalla capacità dell'amministrazione, nel mentre si avvale di professionalità esterne, di introitare cultura e di aggiornare i propri profili professionali, per non dipendere in eterno dall'esterno, con quel che si è già detto in termini di aumento progressivo dei costi. In conclusione, molti dei pro evidenziati sono condizionati: l'ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse umane, il risparmio di risorse finanziare, l'alimentazione stessa delle iniziative private, il confronto con le culture manageriali, la copertura di segmenti procedurali critici; il panorama è stimolate ma non privo di ombre.

OCCORRE ORA ELENCARE I CONTRO

Innanzitutto, quella che gli economisti chiamano la " cattura"13, concetto utilizzato soprattutto nei confronti del regolatore, ma che non si configura di meno nei confronti del gestore che esternalizza del tutto e dismette professionalità e capacità di governo di propri segmenti operativi. Alla fine del processo il fornitore, in regime di monopolio non legale ma di fatto che si perpetua, è l'unico in grado di conoscere davvero ciò che serve all'amministrazione, e questo può essere l'inizio di molti mali. Nel medio-lungo periodo è ben difficile che l'amministrazione, se non si attrezza professionalmente, sia in grado di essere un buon compratore di servizi di cui non conosce più perfettamente la natura e le implicazioni. Da questo punto di yista, incidentalmente, non si può non soggiungere, più in generale, che nei contratti della pubblica amministrazione, nell'ultimo mezzo secolo, si è persa la capacità di stendere capitolati accurati, specifici, segnalando con precisione i caratteri dei servizi richiesti; diventa quindi sempre più raro che la gara si svolga sul prezzo, come le norme di contabilità tuttora presuppongono come fisiologia. E questo, in termini di dispendio delle risorse finanziarie dello Stato, qualcosaha senz'altro significato; per tacere dei dubbi che si aprono ogni volta che l'aggiudicazione avviene in base a parametri meno obiettivi del miglior prezzo.

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Tornando al tema, può capitare che sia la perdita di professionalità a creare una cattura, o anche, fatto diverso ma non certo meno importante né meno frequente, che si crei una cattura "politica" dell'amministrazione, quando il privato bypassa il management e crea un rapporto preferenziale con il vertice politico; ne può derivare un indirizzo dall'alto che non lascia spazio a scelte manageriali libere. Questa evenienza determina un ciclo perverso, che rende a sua volta, a lungo termine, l'esternalizzazione ben difficilmente foriera di effetti positivi. Quindi, primo contro è il rischio della cattura, ovvero della difficoltà di "tenere" la posizione e regolare effettivamente il fornitore. Da questo primo contro, quasi a scaletta, ne discende uno ulteriore, che è quello dell'aumento progressivo dei costi. Tornando quindi a quanto accennato all'inizio, il risparmio di risorse finanziarie (già di per sé solo eventuale) rischia di essere effimero; la vicenda del mai rimpianto Provveditorato generale dello Stato è esemplare in questo senso. La minore responsabilità della dirigenza e il minore controllo del servizio sono altri due tipi di contro, tra loro interconnessi, che però sono pii forti nel caso di esternalizzazione di servizi che di funzioni. È evidente, infatti, che, per un dirigente, è ben diverso rendere conto del malfunzionamento di un servizio strumentale quando non ricade su di lui la responsabilità per la scelta del fornitore, a causa, per esempio, della norma che impone di aderire alla convenzione CONSIP. Quest'ultimo contro svapora invece molto, fino quasi a non esistere, nel caso di esternalizzazione delle funzioni, perché in tale caso l'amministrazione deve conservare un maggiore controllo e non può certo nascondersi dietro le carenze del fornitòre privato, perché la responsabilità dell'esercizio del potere resta pubblica. Però la cattura, la difficoltà di regolare, la perdita di professionalità e forse anche l'aumento dei costi in prospettiva, probabilmente restano come contro; e se ne possono aggiungere altri. L'amministrazione, proprio per quello che abbiamo disegnato come un pro, può continuare a non acquisire mai conoscenze critiche; ad esempio, nel caso già segnalato dell'impianto di siti web, sarebbe opportuno che ? almeno nel lungo periodo, ci si dotasse delle specifiche necessarie professionalità; ma se si continua a rivolgersi all'esterno, si rischia di essere invogliati a non farlo. Vi è poi anche il rischio del mancato aggiornamento culturale, cioè della tendenza dell'amministrazione a eludere il problema della capacità di presidiare i temi realmente inndvativi. Quello che abbiamo detto per il 159

presidio del servizio è molto più grave per il presidio della funzione, perché se si verificano tutte quelle condizioni di segno contro, sinora elencate, i danni di una cattiva esternalizzazione di funzioni sono anche maggiori che nel caso dei servizi; ciò perché il presidio della funzione è per ovvie ragioni ben più strategico. E infine, c'è un ultimo aspetto negativo specifico dell'outsourcing di funzioni, ed è un aspetto molto rilevante ove non si creda al preconcetto ottocentesco di un'amministrazione meramente esecutiva del dettato di legge. Se a questo preconcetto non si crede, occorre prendere atto che con l'esternalizzazione di una funzione si perde quella che i sociologici chiamano la funzione di deriva, nell utilizzo, della norma 1 , cioe la possibilita per. l'amministrazione di assicurare una applicazione più stretta o più lasca del dettato normativo, al, mutare dei rapporti 'sociali e delle 'interazioni della collettività e dei gruppi organizzati. È, in definitiva, anche quel fenomeno che, in negativo, si risolve nel potere di "interpretare la norma per gli amici e applicarla per i nemici". Non .è però sempre un fenomeno così perverso: questa capacità di dare alla norma una, maggiore o minore strettezza di applicazione è spesso un'arma positiva a disposizione del funzionario intelligente e capace, nella giungla normativa e regolamentare, per adattare l'azione concreta alle mille condizioni della vita, imprevedibili da parte del legislatore, impedendo l'iniquità dell'azione pubblica in concreto. Ebbene, questa "funzione di deriva" si perde molto nell'esternalizzazione di funzioni, perché il soggetto che ric eve la commessa è portato inevitabilmente, nel rapporto con l'aministrazione, m a essere più giacobino, a pretendere a monte una griglia di casi e di ipotesi di più meccanica applicazione e, soprattutto,, si trova ad avere maggiore difficoltà a interpretare caso per caso il singolo episodio di vita, magari stravagante.

LE ESTERNALIZZAZIONI BUONE: UN DECALOGO

Se quanto sin qui esposto, pur nell'inevitabile accavallarsi dei concetti, è fondato,.ne discende che lo strumento in sé non è né buono né cattivo, ma ha potenzialità e rischi che possono avverarsi differentemente a seconda del come si esternalizza. Si può allora tentare, in conclusione, di formulare un elenco di condizioni, al ricorrere delle quali un'esternalizzazione diventa buona o cattiva. Un'avvertenza: si suggerisce una sorta di decalogo, necessariamente un 160

p0' apodittico, piuttosto nutrito e perfino sovrabbondante. Non si inten-

de, però, suggerire l'idea che le molte condizioni elencate di seguito debbano essere tutte e sempre presenti; né, men che meno, che debbano essere presenti in grado massimo. Pare però evidente, sul piano della ragionevolezza, che un mix minimo ed accettabile delle condizioni che seguono è assolutamente indispensabile per una esternalizzazione buona.

Un'amministrazione autorevole. Un'amministrazione di cui si sa che non sa, o che non sa fare, è un'amministrazione che ben difficilmente riu scirà a ottenere un rapporto di esternalizzazione con il privato soddisfacente per se stessa. Nèl mercato ci sono imprese che danno tutto quello che sono tenute a dare per il prezzo che si paga loro, a condizione che il compratore sappia badare ai suoi affari; ma le stesse imprese, se eventualmente vengono a incontrare un compratore distratto, che in un qualche modo si fa turlupinare e non se ne accorge, introitano un utile maggiore o riducono i propri costi, ma in nessun caso sono tenute a fare gli interessi della controparte, nemmeno pubblica. L'esternalizzazione come scelta manageriale e non come obbligo giuridico. Il fatto stesso che la cessione di segmenti di attività a privati sia una scelta manageriale obbliga il dirigente a fare un'analisi costi/benefici, a dimostrare il vantaggio rispetto alla gestione interna; viceversa, non ricorrono stimoli all'efficienza nel caso delle esternalizzazioni obbligate. Un mercato concorrenziale, in cui le imprese innovano e c'è vera competizione sul prezzo. Questo aspetto non merita nemmeno una specifica notazione; è però necessaria una riflessione sulle condizioni di troppi segmenti di mercato in Italia, e su un atteggiamento delle imprese che la suaccennata presa di posizione della FITA simboleggia a perfezione. Il singolo oggetto esternalizzato (servizio o finzione) contendibile. Non ci devono essere vincoli di una qualche natura (giuridici, amministrativi o di fatto) che comportino, quando si decide di esternalizzare, la scelta di un fornitore determinato. Un rapporto corretto fra politica e affari. Anche in questo caso, non si deve immaginare una qualche Città del Sole, nella quale i politici siano francescani del tutto distaccati dalle cose del mondo; ma, naturalmente, ci deve essere una condizione minima, nel rapporto fra classe politica e mondo degli affari, che consenta una operatività generale corretta, nella quale nell'ordinario il dirigente sia sovrano nella scelta manageriale, nell'analisi del mercato e infine nell'esplicazione della gara.

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Un utilizzo flessibile delle risorse umane. Può infatti accadere che venga esternalizzato un segmento operativo soio in base alla circostanza di non avere le risorse umane giuste. Si deve, invece, poter esternalizzare il segmento di attività che realmente consente un riposizionamento strategico degli uffici interni; le risorse umane fino ad allora impegnate nel segmento operativo esternalizzato devono poter essere riutilizzate in maniera pii flessibile. Un grosso investimento in termini di formazione e riqualificazione. Un'amministrazione che forma e riqualifica in maniera intelligente il proprio personale può davvero permettersi di esternalizzare. Nel caso contrario, non vi sono le condizioni minime per un buon rendimento complessivo, perché si paga in termini di costi impliciti quello che eventualmente si guadagna in termini di minori oneri finanziari. Il mantenimento del presidio del servizio o della flnzione. Anche questo concetto è troppo intuitivo per meritare un approfondimento; resta uno spunto di riflessione in merito a quanto spesso le amministrazioni operano scelte di esternalizzazione "per abbandono", come stratagemma di sopravvivenza al sovraccarico funzionale ed alla irrazionalità organizzativa, senza garantire il presidio. La capacità di alimentare le culture al proprio interno. Èfondamentale la capacità di non perdere per strada pezzi importanti del processo di innovazione, in termini di conoscenze e di professionalità, di "aziendalistica dello Stato", per dirla ancora una volta con Giannini' 5 Una esternalizzazione per frnzioni coese e piccoli lotti. Questa strategia è infinitamente superiore a quella basata sui grandi aggregati e sulle committenze complesse. Basti pensare ai disegni di facility management e global service- in tali casi l'unico fornitore possibile è un intermediario e, come tale, un soggetto che può garantire solo il coordinamento, ma non la qualità dei singoli aspetti del servizio, né il miglior prezzo, posto che il suo, utile si aggiunge a quello dei subfornitori che assicurano i diversi segmenti del servizio o della funzione. .

In conclusione di queste brevi considerazioni, è forse utile evidenziare un piccolo paradosso storico. C'è stata una stagione, fra l'inizio e gli anni 20 del '900, nella quale il risparmio delle risorse finanziarie e il valore aggiunto per il cittadino cliente sono state sostenute come le ragioni di fondo dell'internalizzazione di nuovi servizi e nuove funzioni, rispetto all'amministrazione dello Stato monoclasse che stava morendo 16 .

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La relazione al disegno di legge giolittiano sull'assunzione di nuovi servizi da parte dei comuni, destinato a diventare lo storico testo sulle municipalizzazioni del 1903, preconizzava che la nuova disciplina avrebbe consentito agli enti locali di disporre di una "desiderata fonte di equi profitti a sollievo dei contribuenti" 7 . Quando sono state decise le privatizzazioni delle aziende municipalizzate, a partire dalla legge 142 del 1990, nessuno avrebbe mai sostenuto che una municipalizzata potesse dare al comune risorse finanziarie, consentendo di ridurre la tassazione locale. Ciò dimostra, in altre parole, la contingenza che condiziona la resa di ogni strumento amministrativo, e dunque la necessità di non ragionare mai per idee eterne e immutabili, ma di calare nel concreto ogni giudizio sulle diverse strategie gestionali.

I Una stringata ma esauriente ricapitolazione del fenomeno in ambito pubblico, con particolare riguardo alla legislazione italiana, in A. MALTON!, Brevi consideraziòni in tema di esterna-

lizzazione di attività strumentali e di funzioni amministrative, in Rivista delle Corte dei conti, 2004, n. 1, pp. 276 Ss. 2 Su questi fenomeni e sul loro riflesso nelle riforme amministrative in Italia v. da ultimo S. SEE, L. MAZZONE, I. PORTELLI e G. VETRITrO, Lineamenti di storia dell'amministrazione italiana (186112002), Carocci, Roma 2003, in particolare pp. 189 ss. 3 Non è questa la sede per entrare nel merito del dibattito sulla riforma aziendale dell'amministrazione pubblica, che può risolversi, in qualche misura, in una finzione; per tutti, basti rinviare, per una valutazione complessivamente positiva, a B. DENTE, In un diverso stato. Come rifare la pubblica amministrazione italiana, il Mulino, Bologna 1995; più critico, sul filo di una ragionamento ben articolato, E. DALBERGO, P VASELLI, Un'amministrazione imprenditoriale? Il cambiamento nel sistema pubblico fra apprendimento e ipocrisia, SEAM, Roma 1997.

' D. lgs. 17.3.1995, n. 157, modificato dal successivo d. lgs. 25.2.2000, n. 65. Così GIANNINI, in quadrando le fattispecie nel più ampio fenomeno della "disciplina pubblica dell'iniziativa privata"; cfr. M. S. GIANNINI, Diritto pubblico dell'eonomia, il Mulino, Bologna 1977, pp. 179 ss e, più in particolare, pp. 243 ss. 6 Un panorama dei casi di esternalizzazione di funzioni nell'amministrazione centrale nel cdrom prodotto dal Dipartimento della funzione pubblica nell'ambito di uno dei suoi Progetti finalizzati; cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento della funzione pubblica, Progetto finalizzato "Esternalizzazione delle funzioni amministrative", Roma 2000. Nel cd vengono censiti, oltre ai casi di seguito indicati nel testo, quelli delle funzioni di valutazione degli investimenti di cui alla legge 488/1992, da parte del Ministero dell'Industria, nonché della CoNsIP, cui si farà cenno più avanti nel presente scritto. 7 A partire dal d. lgs. 30.4.1992, n. 285, art. 80, cc. 8 ss. 8 L. 23.12.1996, n. 662, e successive modificazioni e integrazioni, e del. CIPE 21.3.1997, art. 2, cc. 203 ss. 163

Cfr.. PRESIDENZA DEL CoNsIGLIo DEI MINISTRI- DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA,

Progetto finalizzato "Esternalizzazione, cit. Esemplare, in questo senso, il comma 59 dell'art. 17 della legge 15.5.1997, n. 127, sulla costituziòne di società per azioni per la realizzazione di interventi in materia urbanistica, con scelta dei relativi azionisti mediante procedure di evidenza pubblica; o anche la disciplina di costituzione di società miste per l'esercizio di servizi pubblici locali, di cui all'art. 12 della legge 23.12.1992, n. 498, ed al successivo art. 4 deld.l. 31.1.1995, n. 26, convertito in legge 29.3.1995, n. 95. 10 M. SESTO, Nell'outsourcing c'è il rischio di un boomerang, in llSole4 Ore, 30.12.2002. Il Chi scrive ha già avuto modo di commentare un caso del genere; cfr. G. VETRITFO, IlMi-

nistero del tesoro, bilancio e programmazione economica dopo la riorganizzazione del 199711999, in Giornale di diritto amministrativo, 2000, n. 9, pp. 860 ss. 12A partire dalla 1. 23.12.1999, n. 488, art. 26. 13 Sul fenomeno v. S. CASSESE, La nuova costituzione economica, Laterza, Roma- Bari 1995, P. 123; sul rapporto complesso e diversificato tra amministrazioni pubbliche ed interessi privati,

CASSESE, Amministrazione pubblica e interessi in Italia, in Diritto e società, 1992, n. 2, pp. 223 e ss. 14 La categoria sociologica è analizzata con particolare acume da A.W. GOULDNER, Modelli di burocrazia aziendale e lo sciopero a gatto selvaggio, Etas Kompass, Milano 1970, pp. 139 s. 15 La dizione è contenuta nel celeberrirno "Rapporto" del 1979; v. Ministro per la Funzione pubblica, Rapporto sui principali problemi dell'Amministrazione dello Stato, trasmesso alle Camere il 16.11.1979, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1982, n. 3, pp. 722 ss (la locuzione è a p. 744). 16 L'espressione Stato monoclasse, con la sua carica descrittiva, è di M.S. GIANNINI, Ilpubblico potere. Stati ed amministrazioni pubbliche, il Mulino, Bologna 1986; sulla legge di municipalizzazione v. G. Bozzi, Municipalizzazioni, in Enciclopedia del diritto, voi. X)(VII, Giuffrè, Milano 1977, p. 365. Cfr. pure il già citato recente S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI e G. VETRIrFO, Lineamenti, cit., pp. 98 Ss. 17 Così la relazione al disegno di legge giolittiano; cfr. AP, CdD, Leg. )OU, sess. 2A, Relazione al d.d.l. n. 1, Assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni, p. 2.

ancora fondamentale S.

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Quale esternalizzazione delle funzioni amministrative di Francesca Di Lascio

i processo di riforma della nostra Pubblica Amministrazione, ormai in atto da un quindicennio, ha gradualmente condotto al "travolgimento" o alla modificazione delle tradizionali metodologie di gestione, favorendo l'introduzione di nuovi strumenti, spesso mutuati da ambiti disciplinari esterni a quello del diritto amministrativo. La trasposizione ha riguardato, soprattutto, i settori del diritto privato e dell'organizzazione aziendale. Queste "interferenze" tra diritto amministrativo e "altri saperi", laddove hanno inciso su modelli e strumenti organizzativi preesistenti all'avvio del percorso riformatore, hanno portato a due ordini di conseguenze: talvolta, hanno alterato gli attributi propri degli istituti, dando luogo ad una sorta di novazione della fattispecie; in altre occasioni hanno influito solamente sui caratteri non qualificanti o accessori degli istituti medesimi, in via generale arricchendoli per "contaminazione" con i nuovi principi introdotti dai provvedimenti di riforma'. In tale contesto, le brevi considerazioni di questo scritto si pongono come una prima sommaria analisi dei principali mutamenti provocati dalla crescente compenetrazione tra i principi del diritto comune e dell'organizzazione aziendale su uno strumento tradizionale del diritto amministrativo: l'esercizio privato delle funzioni pubbliche. Questo istituto, infatti, presenta uno stretto rapporto di funzionalità con la modalità gestionale definita come esternalizzazione o outsourcing, che potrebbe, in effetti rappresentare l'evoluzione della figura tradizionale, come risultante a seguito dei profondo processo di riforma del nostro sistema amministrativo. Il tema indicato presenta un'evidente complessità, poiché investe trasversalmente molti istituti generali del diritto amministrativo, tutti in diverso modo

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L'Autore è dottore di ricerca in Diritto regionale e degli enti locali e Consigliere giuridico del Com missario straordinario del Governo per il federalismo amministrativo. 165

e misura coinvolti e/o richiamati dalle problematiche applicative insite nell'utilizzo dello strumento in questione.. In questa sede, tuttavia, si restringerà il campo di analisi ad una specifica accezione di outsoi€rcing, che verrà inteso come strumento gestionale volto al trasferimento a soggetti esterni alla struttura pubblica istituzionalmente competente, di funzioni amministrative a carattere specialistico, di attività amministrative strumentali allo svolgimento di funzioni discrezionali e di attività di tipo meramente materiale (c.d. servizi amministrativi). Si sceglie, quindi, di non discutere dell'esternalizzazione dei servizi pubblici, né di altre forme di "alleggerimento del carico operativo" utilizzate dalle amministrazioni pubbliche 2 . In particolare, rispetto al complessivo processo di programmazione e gestione di un'attività di esternalizzazione, ci si soffermerà sulla fase iniziale di individuazione della funzione amministrativa (o del tratto di funzione) da trasferire all'esterno, al fine di evidenziare, da un lato, i possibili limiti all'outsourcing di alcune attività e, dall'altro, le implicazioni che questi limiti producono sulla "costruzione" del rapporto con il partner esterno3 .

L'INDIVIDUAZIONE DELLE ATTIVITÀ DA ESTERNALIZZARE: DISTINGUERE LE FUNZIONI DAT SERVIZI

Per poter avviare un processo di outsourcing un'Amministrazione deve, innanzitutto, individuare con chiarezza "cosa" intende trasferire all'esterno della propria struttura organizzativa. Questo primo step, che può superficialmente apparire privo di difficoltà e suscettibile di immediata esecuzione, richiama in realtà alcuni dei nodi maggiormente problematici nell'utilizzo dello strumento gestionale in esame. Ci si riferisce, in primo luogo, alla necessità di oprare una corretta distinzione tra funzioni amministrative e servizi pubblici. Questo aspetto, infatti, assume una notevole rilevanza in relazione alle posizioni giuridiche sia dei soggetti che sono parte nel rapporto contrattuale, sia degli utenti finali su cui si "riflette" l'esercizio della funzione 4. Si pensi, ad esempio, alla necessità di operare la corretta qualificazione dei soggetti che adottano gli atti amministrativi finalizzati all'effettivo spostamento delle competenze al di fuori dell'Amministrazione 5 , oppure alla fase successiva di imputazione degli effetti connessi agli atti pòsti in essere dai privati nell'esercizio della funzione trasferita 6 .

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Nel predisporre la propria "mappatura" delle attività per cui può essere conveniente operare un'esternalizzazione, le Amministrazioni devono, quindi, preliminarmente differenziare tra quelle che sono qualificabili come servizi all'utenza e quelle che sono qualificabili come funzioni in senso proprio. Questa operazione, che si presenta agevole per attività "tradizionali" nell'uno o nell'altro senso (le sanzioni comminate in caso di abusivismo edilizio sono evidentemente espressione della funzione amministrativa di governo del territorio, così come l'assegnazione del reddito di inserimento ad un certo individuo rappresenta l'erogazione di un servizio di assistenza sociale), può non esserlo in altri casi. Ad esempio, secondo un discusso orientamento giurisprudenziale, il servizio per la gestione del calore degli edifici di competenza comunale non può annoverarsi tra i servizi pubblici. Le attività materiali legate all'esecuzione di detto servizio, infatti, non sono svolte dall'amministrazione in favore della collettività nel suo complesso ma, al contrario, sono attuate in favore della stessa amministrazione, mancando dunque la connotazione "sociale" tipica del servizio pubblic07 Diventa, quindi, molto importante individuare uno o più criteri alla luce dei quali operare una qualificazione certa delle attività che si vuole dare in outsourcing, soprattutto nel caso in cui le stesse presentino carattere strumentale allo svolgimento di funzioni amministrative proprie oppure siano attività di tipo materiale. A tal proposito, può essere utile richiamare l'indirizzo espresso dall'Amministrazione del Governo federale statunitense in tema di esternalizzazione di compiti e di attività della Pubblica Amministrazione, secondo cui le "frnzioni prettamente pubbliche" possono essere definite come "intimamente connesse con il pubblico interesse al punto da richiedere che siano assolte dai pubblici dipendenti". In particolare, rientrano tra le funzioni indicate "le attività che richiedono l'esercizio della discrezionalità nell'applicazione dell'autorità pubblica, o nei giudizi di valore delle decisioni della Pubblica Amministrazione", potendosi, in generale, fare riferimento a due grandi categorie, ovvero "l'atto di governare, vale a dire l'esercizio discrezionale dell'Autorità pubblica" e "le transazioni e i diritti di natura monetaria"8 . Muovendo da questo assunto, si individuano poi gli arnbiti di funzioni comunque non trasferibili all'esterno, ovvero i sistemi della Giustizia penale, delle Forze armate e dei poteri di polizia. Lo stesso orientamento riconosce, tuttavia, che l'affidamento all'esterno potrebbe non essere realizzabile in alcune circostanze peculiari, come ad esem.

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pio nel caso di accertamento dell'indisponibilità o dell'inaffidabilità dei potenziali erogatori. In questo senso, non sono, dunque, considerate esternalizzabili attività connesse a funzioni strategiche per il corretto funzionamento dell'Amministrazione o per la Sicurezza dei cittadini. Nel caso di specie, infatti, un'improvvisa "interruzione" del contratto (dovuta, ad esempio, al fallimento dell'aggiudicatario) non permetterebbe al responsabile della funzione di esercitarla opportunamente9 . Nella dottrina italiana, invece, si puÒ richiamare l'interpretazione che affronta la questione sotto il profilo c.d. penalistico, ovvero muovendo dalle nozioni di "pubblico finzionario" e "incaricato di pubblico servizio" di cui agli artt. 357 e 358 del Codice penale (come novellati dalla I. n. 86/90 e dalla I. n. 181/92) 10 . È ben noto che le richiamate definizioni hanno, nel tempo, subìto vari adattamenti e, in un certo senso, i mutamenti intercorsi dalla prima versione degli artt. 357 e 358 a quella attualmente vigente sono fortemente rappresentativi dei cambiamenti intervenuti nella stessa nozione di amministrazione Pubblica quale soggetto erogatore di servizi alla collettività. La versione originaria degli articoli in discussione si limitava, infatti, ad individuare un collegamento tra i soggetti e le attività esercitate, ma non forniva alcuna indicazione circa i contenuti distintivi delle nozioni di pubblica funzione e pubblico servizio. Nell'interpretazione delle norme riportate, quindi, la dottrina oscillava tra la ben nota concezione "soggettiva", secondo cui erano la pubblicità dell'ente, e la natura della funzione attribuita ad ur{ certo soggetto in forza del rapporto d'impiego, a fornirgli una qualificazione pubblicistica (ipotizzando, quindi, una corrispondenza tra la qualifica di pubblico impiegato e quella di pubblico ufficiale), e la concezione "oggettiva", in base alla quale si accordava rilievo alla stessa circostanza dell'esercizio di una funzione legislativa, amministrativa o giurisdizionale e non, invece, alla sussistenza di un rapporto d'impiego 1 i. Le novelle introdotte con le 11. n. 86/90 e n. 18 1/92 sono poi intervenute a dirimere la confusione interpretativa derivante dalla formulazione adottata con i vecchi articoli 357 e 358, orientandosi nel senso della visione "oggettiva", da tempo sostenuta anche dalla prevalente dottrinal 2 . Stando alla normativa vigente può, quindi, essere considerata "pubblica la frnzione amministrativa disczplinata da norme di Diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla .manìfistazione della volontà della Pubblica Amministrazione e dal suo svolgersi per mezzo di poteri autorita168

tivi e certificativf (art. 357, co.2, C.p., come novellato dall'art. 17 1. n.86190 e dall'art. 4 1. n. 181/92). È, invece, servizio pubblico "un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale" (art. 358, co. 2, C.p., come novellato dall'art. 18 1. n. 86I90) 1 Occorre a questo punto chiedersi in che misura gli "indicatori" individuati possano rivelarsi utili ai fini della correttaqualificazione delle attività che si intende esternalizzare. Una prima considerazione a riguardo attiene alla necessità che i suddetti elementi siano usati in modo flessibile, al fine di permettere la valutazione anche di quelle attività pubbliche che non si sostanziano in un provvedimento amministrativo, inteso qui nel senso tradizionale di atto autoritativo. Il crescente utilizzo di moduli organizzativi e di strumenti comportamentali privatistici ha, infatti, accresciuto notevolmente, nel corso del tempo, la tipologia di atti posti in essere dalle amministrazioni per il perseguimento dei fini cui le stesse sono preposte 14 I predetti fini, infatti, devono essere considerati "pubblici" anche se raggiunti con atti formalmente diversi da quelli "tipici" di Diritto pubblico. In tale ottica, è evidente che la distinzione tra funzioni e servizi sembra assottigliarsi, perdare invece rilievo ad un'unica nozione di attività amministrativa fondata sulla funzionalizzazione della stessa agli interessi collettivi 15 Se si accoglie questo orientamento, il nucleo centrale intorno al quale si dovrà operare la distinzione tra funzioni e servizi sembra dover essere identificato non tanto nell'esercizio di poteri autoritativi, quanto nel rapporto rintracciabile, caso per caso, tra atti emessi dà un dato soggetto, comportamenti da questo tenuti nell'ésercizio dei propri compiti e norme attributive della capacità diagire nell'interesse generale. A questi elementi può essere aggiunto quello della sussistenza di poteri di controllo, indirizzo e/o vigilanza in capo all'Autorità pubblica soggettivamente intesa, cui compete in origine l'esercizio dell'attività esternalizzata. Si deve considerare, inoltre, che, nel caso in cui l'oggetto dell'outsourcing sia una funzione tipica ovvero molto vicina al core business dell'amministrazione, i predetti poteri devono di certo divenire molto più stringenti sull'attività del partner nel caso di specie, lo richiede lo stesso "peso specifico" assunto dall'interesse pubblico insito nella funzione esternalizzata. . . .

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I LIMITI DI AMMISSIBILITÀ GIURIDICA DELL ' ESTERNALIZZA1IONE DELLE FUNZIONI VICINE AL CORE BUSINESS

Una volta operata la distinzione tra funzioni e servizi, l'Amministrazione che intende avviare un processo di esternalizzazione deve scegliere quali funzioni amministrative trasferire in capo a soggetti esterni. In questa fase è, quindi, necessario operare una classificazione delle funzioni che tenga conto della natura assunta dalle stesse in rapporto al complesso delle attribuzioni proprie dell'Amministrazione. È evidente che il risultato dell'operazione descritta porterà all'individuazione di funzioni di "peso" differente, alcune delle quali saranno di tipo autoritativo oppure connotate da un ampio margine di discrezionalità: saranno caratterizzate, cioè, dal forte rilievo assegnato al potere di scelta (e di giudizio) dell'Amministrazione nella ponderazione dei diversi interessi in gioc0 16 Nel complesso delle attività così descritte, è poi possibile identificarne alcune che, più di altre, possono essere considerate come funzioni "tipiche" di una data Amministrazione o, per utilizzare l'efficace espressione di stampo aziendalistico, appartenenti al core business dell'organizzazione istituzionale 17 Proprio la natura delle funzioni indicate pone una delle più rilevanti (e necessarie) differenze tra l'utilizzo dell'outsourcing nel settore pubblico ed in quello privato. Per un'impresa, infatti, la scelta relativa alle competenze da esternalizzare si basa solamente su una ponderazione di tipo strategico, in cui all'individuazione delle funzioni rientranti nel core business ( come tali necessariamente gestibili in via diretta dall'organizzazione), viene fatta seguire l'analisi dei compiti che, proprio perché ritenuti di non particolare criticità nei processi competitivi o perché necessitano di competenze specifiche che le imprese non posseggono oppure hanno difficoltà ad acquisire, possono essere trasferiti e affidati alla gestione di soggetti esterni. Diversamente, per un'Amministrazione pubblica il processo descritto, che pure deve collocarsi alla base della decisione di avvalersi dello strumento outsourcing, assume una connotazione estremamente peculiare, dovuta appunto alla modalità di definizione del "paniere" di funzioni appartenenti al core business. Queste, infatti, non possono essere individuate in via totalmente discrezionale dai soggetti responsabili delle strutture, poiché sono generalmente enumerate con legge o con altro atto normativo e, per il tramite detti provvedimenti, sono assegnate alla competenza di una certa amministrazione che non può, dunque, arbitrariamente "spogliarsi " delle funzioni assegnate 18 . . .

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Ciò vuoi dire che, mentre nel settore privato l'oggetto dell'outsourcing non subisce limitazioni se non quelle derivanti da una scelta di opportunità dei vertici aziendali, nel settore pubblico vi saranno funzioni a priori non esternalizzabili. La puntuale individuazione di dette funzioni non deve, tuttavia, necessariamente avvenire sulla base di espresse previsioni normative, ma le singole amministrazioni procedono in tal senso avvalendosi dei criteri generali posti a base dell'attività amministrativa che, nel caso in questione, rappresentano, al contempo, limite e misura per i'esternalizzazione 19 Ci si riferisce, in particolare, al principio di competenza, in base al quale, mentre si ammette che un'amministrazione possa avvalersi, in via generale, dei poteri di diritto comune che le spettano come persona giuridica, si reputa altresì che la stessa possa legittimamente esercitare i soli poteri amministrativi espressamente assegnati dalla legge istitutiva o da altre leggi che ne disciplinano l'attività. Si tratta, in altre parole, dei soli poteri ricompresi nelle attribuzioni istituzionali, intendendo con tale accezione un "fascio di poteri amministrativi" conferiti ad un soggetto pubblico per permettere allo stesso il raggiungimento dei propri obiettivi e/o la tutela degli interessi generali cui è prepost0 20 La problematica richiamata trova il suo fondamento nel principio di legalità contenuto nell'art. 97 della Costituzione, la cui interpretazione tradizionale, volta alla garanzia delle pòsizioni giuridiche soggettive di privati posti in rapporto con l'Amministrazione, afferma la legittimità dei soli apparati amministrativi previsti dalle norme e, quindi, l'impossibilità che vi sia un potere o provvedimento amministrativo al di fuori di un'espressa previsione di legge 21 Se si accetta questa interpretazione, allora appare naturale il corollario secondo il quale, nel caso in cui un'attività sia espressione di un potere amministrativo esplicitamente conferito dalla legge ad un dato soggetto pubblico, che viene quindi a trovarsi in posizione di supremazia rispetto ai privati cui la medesima attività si rivolge, la facoltà di esternalizzare detta funzione deve necessariamente essere prevista da una disposizione normativa. A riguardo, si potrebbe obiettare che, in tal modo, si impone un'eccessiva limitazione all'utilizzo dell'esternalizzazione quale tecnica gestionale, peraltro al di fuori di un'espressa previsione di legge generale. La limitazione di cui si discute non deriva, infatti, da alcuna disposizione normativa e, quindi, non può dirsi cogente in termini formali 22 Tuttavia, per la fattispecie in esame si ritiene che assuma un rilievo decisivo il criterio della ragionevolezza, che impone la necessità di avere almeno una . . . .

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"regolamentazione" di rango legislativo nei casi in cui il trasferimento di un'attività pubblica nella competenza di soggetti privati riguardi una funzione suscettibile di intaccare le prerogative tipiche ed istituzionali di una data amministrazione. A ciò deve aggiungersi che, nel caso di specie, il "peso specifico" assunto dalla finalità di garanzia sottesa al vincolo descritto è tale da giustificarne la prevalenza rispetto alle esigenze di tipo organizzativo insite nel• trasferimento all'esterno di funzioni tipicamente pubbliche 23 . Inoltre, nella realtà operativa, gli esempi di previsioni normative che autorizzano, con disposizioni "di settore", l'esternalizzazione di funzioni autoritative, e/o vicine al core business dell'Amministrazione, sono numerosissimi e differenti, sia per tipologia di attività, sia per ampiezza del conferimento. Appare, quindi, con evidenza una ratio legis di "controllo" ma non di "divieto" nella regolazione dell'esternalizzazione delle funzioni di cui si discute. A titolo esemplificativo, si riporta quanto previsto dal d.lgs. n. 141/99 che, trasformando l'Ente autonomo acquedotto pugliese in società per azioni a norma dell'art. 11, co. 1, lett. b, della I. n. 59/97, ha espressamente conferito a detto soggetto i poteri inerenti la dichiarazione di pubblica utilità e l'espropriazione delle opere necessarie al perseguimento delle sue finalità istituzionali di gestione del ciclo integrato dell'acqua (art. 2, co. 3). Allo stesso modo, ma con portata più generale, l'art. 6, co. 8, del d.P.R. n. 327/0 1, ha stabilito che, "se l'opera. . . va realizzata da un concessionario o da un contraente generale, l'amministrazione titolare del potere espropriativi può delegare, in tutto o in parte, l'esercizio dei propri poteri espropriativi, determinando chiaramente l'ambito della delega nella concessione o nell'atto di affidamento, i cui estremi vanno specificati in ogni atto deiprocedimento espropriativo" 24 Un altro caso è dato dalla gestione "innovativa" del patrimonio immobiliare pubblico a mezzo di società di capitali appositamente costituite. A partire dal 1996, infatti, si sono susseguiti diversi provvedimenti di legge, volti a promuovere la dismissione del patrimonio pubblico a mezzo di apposite società di capitali, il cui oggetto esclusivo consiste nella realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del predetto patrimoni0 2 5. Nell'ipotesi da ultimo richiamata, l'esternalizzazione della funzione di gestione del patrimonio immobiliare sembra essere una diretta conseguenza della mutata concezione del diritto di proprietà sui beni e sugli immobili da parte delle Amministrazioni pubbliche. I processi di dismissione in atto pongono, infatti, per la prima volta alle .

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amministrazioni il problema di interpretare il proprio ruolo di "proprietarie" anche in senso attivo, ovvero non piu solamente sotto il profilo passivo di mero possesso di un immobile, ma anche con rilevanza per l'aspetto "attivo" di vendita dello stesso. Naturalmente, questo ha richiesto l'intervento di competenze specialistiche fino a quel momento non necessarie, come ad esempio quelle legate ai profili di marketing connessi al processo di dismissione: è certamente anche in questo che si può ricercare la giustificazione ad una gestione esternalizzata del processo descritto 26 .

UNA POSSIBILE "SISTEMATIZZAZIONE" DELLE FUNZIONI ESTERNALIZZABILI

Alla luce di quanto esposto, si può ora tentare di fornire un contributo alla [...] "mappatura" delle potenziali funzioni che un'Amministrazione può decidere di dare in outsourcing. Si ritiene [..J che sia possibile individuare le predette funzioni sulla base del rapporto discrezionalitàlvincolatività, interpretato alla luce del già citato assunto secondo cui le funzioni autoritative o ampiamente discrezionali non possono essere esternalizzate e non sulla base di una espressa previsione di legge. Si muove, inoltre, dalla considerazione che non esistano funzioni amministrative totalmente discrezionali o, al contrario, totalmente vincolate 27 In tale ottica, un'Amministrazione può essere obbligata ad esternalizzare una funzione autoritativa, o ad ampio margine di discrezionalità, perché così stabilito da una disposizione di legge avente carattere cogente, oppure può essere facoltizzata ad esternalizzare la medesima funzione perché previsto da una norma di carattere promozionale. In queste due ipotesi, la scelta di utilizzare 1' outsourcing come modalità gestionale non è, quindi, rimessa alla completa autonomia dell'Amministrazione. È anche vero, però, che il legislatore influenza il soio avvio del processo di esternalizzazione, rendendo obbligatoria la scelta relativa all'oggetto del processo in esame oppure promuovendolo, ma non ne vincola le restanti fasi, che rimangono nella piena disponibilità dell'Amministrazione: si può dire, pertanto, che la previsione di legge (cogente o non cogente che sia) assume un mero valore di "impulso". La necessità di un'indicazione normativa a monte si pone, inoltre, solamente [ ... ] riguardo alla tipologia di funzioni indicate. Le Amministrazioni pubbliche sono, pertanto, completamente libere di trasferire all'esterno tutte le attività che fanno capo a funzioni amministrative di .

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tipo specialistico oppure a funzioni caratterizzate da quella che viene definita come Miscrezionalità tecnica Un esempio in merito è dato dall'outsourcing dell'attività di formazione dei dipendenti pubblici. In questo caso, la volontà dell'Amministrazione di trasferire all'esterno della propria organizzazione la predetta attività "prende le mosse" da una previsione legislativa che non impone direttamente l'esternalizzazione, né la promuove, ma modifica invece l'ordinario assetto delle competenze istituzionali. L'art. 7 bis del d.lgs. n. 165/01, introdotto dall'art. 4 della I. n. 3/03 (c.d. collegato ordinamentale per la Pubblica Amministrazione) ha, infatti, imposto alle Amministrazioni di predisporre annualmente un piano di formazione del personale "tenendo conto dei fabbisogni rilevati, delle competenze necessarie in relazione agli obiettivi nonché della programmazione delle assunzioni e delle innovazioni normative e tecnologiche" 28 Le stesse Amministrazioni si sono, quindi, trovate a dover erogare corsi di aggiornamento professionale ai propri dipendenti con cadenza costante, senza però disporre di adeguate professionalità interne da utilizzare non solo nella fase di progettazione dei piani e dei programmi formativi annuali, ma anche in quella di concreta erogazione dei corsi e di docenza in aula. In tal senso si può, quindi, affermare che il ricorso all'outsourcing della funzione di formazione dei dipendenti sia stato necessario, pur non essendo stato imposto in via diretta dal legislatore con un'apposita previsione normativa 29 . Un'ulteriore tipologia di attività che le Amministrazioni possono liberamente esternalizzare è quella dei c.d. servizi amministrativi. La categoria in esame, che comprende tutte le attività meramente materiali necessarie al funzionamento nel loro complesso degli apparati àmministrativi può, infatti, essere considerata come un terti us genus rispetto alle funzioni amministrative ed ai servizi pubblici propriamente intesi. Torna qui utile il richiamo al già citato orientamento secondo cui l'attività di gestioie del calore negli edifici pubblici deve essere esclusa dal novero dei servizi pubblici in quanto non svolta in favore della collettività, bensì della stessa Amministrazione30 . Assume rilievo, in particolare, la considerazione secondo cui, poiché il conferimento della pbtestà di esercizio dell'attività in questione non si configura come affidamento di un servizio pubblico, ma come appalto di natura mista di fornitura e di lavori, è legittimo che, qualora ne ricorrano le condizioni, lo stesso avvenga senza procedura ad evidenza pubblica. In proposito, l'esempio forse pi1 significativo è quello del global service. .

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Si tratta di un contratto basato sui risultati, avente ad oggetto una pluralità di servizi sostitutivi delle normali attività (solitamente, di manutenzione), che viene costruito in modo da implicare la piena responsabilità sui risultati da parte dell'assuntore 31 La definizione indicata lascia intendere perché, tra i settori dei servizi ausiliari o di supporto maggiormente attratti nell'orbita dei processi di esternalizzazione con il metodo del global service, vi sia quello della gestione e manutenzione del patrimonio immobiliare. Detto ambito, infatti, richiede il coordinamento e l'interazione tra molteplici attività, come ad esempio gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, la pulizia degli spazi comuni e del verde di pertinenza, la manutenzione degli impianti nonché la gestione delle pratiche burocratiche e degli interventi di adeguamento delle strutture a disposizioni tecniche sopravvenute (come può essere il caso dell'eliminazione delle barriere architettoniche) oppure della messa a norma a fini di sicurezza. È per questo che, potenzialmente, i servizi di gestione tecnica integrata, erogabili in riferimento agli immobili, possono coprire l'intero ciclo di vita e di utilizzo dei medesimi edifici 32 Un'ultima notazione in merito alle funzioni che un'Amministrazione può reputare opportuno e conveniente esternalizzare, riguarda i casi in cui l'outsourcing ha ad oggetto solamente tratti o fasi del predetto procedimento, riguardando, in particolare, le attività strumentali allo svolgimento delle funzioni in senso proprio. Finora si è, infatti, discusso solamente delle ipotesi in cui l'esternalizzazione riguarda l'intero procedimento amministrativo sottostante all'esercizio della funzione. Nella prassi, invece, sono molto frequenti i trasferimenti all'esterno di compiti propedeutici alla conclusione di procedimenti complessi, riguardanti, quindi, non l'intero processo decisionale di un'Amministrazione ma solamente tratti di funzioni in sé più ampie. Si fa riferimento, principalmente, all' outsourcing di attività afferenti alla fase istruttoria del procedimento che, essendo funzionalmente volta all'accertamento dei fatti e dei presupposti del provvedimento nonché all'acquisizione e valutazione degli interessi implicati dall'esercizio del potere, consta di elementi indispensabili per la "costruzione" del giudizio da porre a fondamento della decisione discrezionale. In particolare, la prassi dimostra che le Amministrazioni tendono spesso ad avvalersi dell'outsourcing per funzioni relative all'istruttoria di procedimenti piuttosto articolati e che necessitano di competenze specifiche, come è il caso . .

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delle attività specialistiche relative agli interventi di sostegno pubblico alle imprese ed alla concessione di contributi pubblici attraverso il sistema dei patti territoriali e dei contratti d'area. In tutte queste ipotesi, una delle motivazioni principali dell'esternalizzazione può essere rintracciata nell'impossibilità per l'Amministrazione, titolare della funzione, di svolgere le attività a questa connesse in modo capillare su tutto il territorio: vale anche qui il caso della presentazione delle domande relative all'acquisizione di agevolazioni fiscali per le imprese, che prima potevano essere presentate solo presso la sede centrale dell'attuale Ministero delle Attività produttive, mentre ora hanno un riferimento capillare nei singoli istituti di credito autorizzati in ogni Regione. In altri casi, invece, si ravvisa la tendenza a trasferire all'esterno le attività c.d. di routine, ovvero quelle che non presentano nel corso del tempo rilevanti mutamenti nelle loro modalità esecutive 33 . In quest'ultimo caso, trattandosi dell'outsourcingdi compiti di organizzazione interna, l'Amministrazione titolare mantiene solamente la competenza relativa alla determinazione conclusiva sui. soggetti destinatari .o beneficiari della funzione, cui spesso si accompagnano controlli a campione sulle attività eseguite all'esterno dai soggetti privat1 34. Una motivazione parzialmente differente può essere rintracciata nell'affidamento in outsourcing della fase di preselezione nei concorsi pubblici, che, a differenza delle attività di giudizio insite nella correzione delle tradizionali prove scritte, può legittimamente essere rimessa a società specializzate. I soggetti privati si limitano, infatti, ad eseguire un mero accertamento tecnico, mediante l'ausilio di sistemi informatici, dei quesiti sottoposti ai candidati: si tratta,, perciò, di una funzione che non presenta profili di disciezionalità. Al contrario, l'attività richiamata risponde pienamente ai principi di cui all'art. 35, co.3, lett. a, del d.lgs. n. 165/01, secondo cui le procedure di reclutamento nelle pubbliche Amministrazioni devono garantire un'"adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantiscano l'imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all'ausilio di sistemi automatizzatf'.

ALCUNI ELEMENTI DI SISTEMA EMERGENTI DAL]i'ANALISI DEI CASI

Si è detto più volte che il tema dell'esternalizzazione delle funzioni amministrative si inserisce in quella che, negli ultimi anni, è stata definita come "privatizzazione del diritto amministrativo"35: un fenomeno ampio e complesso 176

che non riguarda soltanto l'evoluzione del diritto positivo, ma investe anche il modo di interpretare ed applicare il diritto da parte della dottrina, della giurisprudenza e, non ultimi, degli operatori. All'interno di questa tendenza, la convivenza tra discipline pubblicistiche e regole privatistiche si realizza attraverso una dialettica che permette di individuare "un vasto spazio nel quale si può ricorrere a entrambi i regimi e combinarli tra loro, secondo tendenze variabili nel tempo" 36. Non si deve pensare, quindi, che dalla suddetta privatizzazione derivi la mera integrazione di regole pubblicistico-amministrative ad opera di criteri mutuati da regimi privatistici: l'incontro tra le due "anime" produce, invece, sovrapposizioni e intrecci che si inscrivono nel più complessivo mutamento del quadro normativo di riferimento. Questo aspetto emerge in maniera particolare con riferimento agli strumenti mediante cui le Amministrazioni cercano di "alleggerire" i compiti di propria spettanza, spostando all'esterno della struttura organizzativa funzioni e servizi inizialmente gestiti in house. Tra le diverse possibilità ammesse in tal senso, l'esternalizzazione delle funzioni amministrative rappresenta senza dubbio uno strumento fondamentale nel perseguimento dell'obiettivo di una consistente riduzione dei costi interni, nonché della crescita di efficienza dell'azione amministrativa in senso complessivo. . Si tratta, però,. di una modalità gestionale che può presentare diverse difficoltà nella fase di esatta individuazione dell'oggetto da esternalizzare, nel caso in cui il processo esplichi i propri effetti con rapporto a funzioni amministrative e non a servizi pubblici. . . . . È evidente, quindi,, l'importanza assunta dalla determinazione di.criteri che permettano di distinguere con certezza se si è in presenza dell'una o dell'altra tipologia di attività. In quest'ottica, uno degli elementi fondamentali di discrimineè dato, senza dubbio, dalla sussistenza di poteri :autoritativi e/o certificativi volti alla formazione ed alla successiva manifestazione della volontà dell'amministrazione. . . . La sovrapposizione e l'intreccio di regole pubblico-amministrative conaltre di tipo privatistico assume, pertanto, una particolare rilevanza con riferimento all'outsourcing delle funzioni. L'utilizzo di questo strumento, infatti, in assenza di una disciplina disettore organica ed esaustiva nonché di significativi interventi giurisprudenziali, si è sinora basato in larga misura solamente su criteri desumibili dai principi generali posti a base dell'organizzazione amministrativa, i quali devono di volta 177

in volta essere "modellati" sulle esigenze emergenti dal concreto atteggiarsi delle esperienze pratiche. A questo deve aggiungersi, naturalmente, la necessità di verificare l'esistenza o meno di vincoli e limiti costituzionali all'utilizzo dell'esternalizzazione, p0sto che la vigenza dei principi di imparzialità e buon andamento non si ritiene sia messa in discussione dal mutamento delle modalità gestionali con cui l'Amministrazione esercita le proprie competenze istituzionali: questi principi, infatti, continuano a trovare applicazione anche all'attività amministrativa che viene svolta mediante strumenti di natura privatistica 37 . Non si può tralasciare, tuttavia, di valutare le modalità con cui opera l'applicabilità dei principi costituzionali quando viene rapportata ai caratteri propri dello strumento in questione. In particolare, ponendo l'attenzione su alcune norme generali di organizzazione della Pubblica Amministrazione, applicabili cioè ad ogni attività amministrativa in quanto tale, è possibile trarre alcune conclusioni più specifiche. Si premette, innanzitutto, che, anche laddove vi siano norme generali di carattere prescrittivo, non si può comunque ammettere l'esistenza di una riserva costituzionale in favore del regime amministrativo rispetto a quello privatistico. Infatti, anche nel caso di funzioni rivolte alla diretta realizzazione di fini pubblici, comportanti l'esercizio di poteri autoritativi o dichiarativi della volontà dell'Amministrazione, non può essere pregiudicata la modalità con cui si garantisce il suddetto scopo, che è rimessa alla discrezionalità della stessa amministrazione. Se si accetta questa impostazione di fondo, si comprende agevolmente come, in sede di svolgimento dei controlli sull'attività, il rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento debba essere verificato secondo meccanismi diversi da quelli fondati sul giudizio di mera legittimità. Per fare questo occorre, tuttavia, operare unaialutazione che si riferisca non ai singoli atti o comportamenti che compongono una data funzione, bensì all'attività complessiva posta in essere da una certa amministrazione. In altre parole, occorre fondare il controllo della gestione sui risuliati intermedi e finali raggiunti dalla medesima attività 38 . Proprio quest'ultimo aspetto rende necessario evidenziare come, nella realtà operativa, le Amministrazioni non costruiscano il rapporto di outsourcing mediante 'uno spécifico tipo contrattuale, ma utilizzino, invece, modalità negoziali già esistenti a secònda dell'attività esternalizzata. A riguardo, è nuoraniente di ausilio la prassi, che ha sinora dimostrato l'esi178

stenza di un preciso legame tra modalità di costruzione del rapporto con il partner e funzione data in outsourcing. Un primo elemento di sistema emerso dall'analisi dei casi riguarda, infatti, il profilo secondo cui quanto più la funzione da esternalizzare è prossima al core business e caratterizzata dall'esercizio di poteri autoritativi (o richiede un ampio margine di discrezionalità), tanto più le Amministrazioni sembrano ricorrere a forme di in houseproviding. Diversamente, se si tratta di funzioni di tipo specialistico, di servizi amministrativi o di tratti di funzioni strumentali all'esercizio di funzioni autoritative o discrezionali, le Amministrazioni tendono a scegliere il proprio contraente per mezzo di procedure ad evidenza pubblica, al termine delle quali viene sottoscritto un contratto di servizio o un contratto c.d. misto di servizi e forniture. La considerazione esposta ha, naturalmente, anche un riflesso sui meccanismi di controllo e di monitoraggio relativi a tutta la procedura di outsourcing. Poiché, se è vero che tutta l'azione amministrativa deve necessariamente ispirarsi al rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento, intesi qui come diretti corollari del principio di legalità, è anche vero che un eventuale controllo di gestione sulla funzione esternalizzata può avvenire operando una valutazione complessiva dell'attività svolta in rapporto ai risultati, intermedi e finali, da questa raggiunti. In tal senso, non vi sono dubbi che i criteri guida cui ispirarsi nello svolgimento di detta valutazione debbano essere quelli di economicità ed efficacia di cui all'art. 1, co. 1, della I. n.24 1/90, cui deve aggiungersi quello dell'efficienza 39 Posta questa premessa, si ritiene opportuno richiamare all'attenzione il carattere di più rilevante discrimine tra l'esternalizzazione delle funzioni ed altre modalità gestionali a questa solo apparentemente simili. Nell'out-sourcing, infatti, le funzioni sono e rimangono pubbliche. Ciò che viene trasferito all'esterno verso soggetti privati è, infatti, la sola facoltà di esercizio, ma non la titolarità della funzione amministrativa, che rimane propria de1l'Amministrazioneoriginariamente competente per legge. Ciò vuol dire che l'attività svolta dai privati nell'esercizio delle funzioni pubbliche, ad essi rimesse a seguito di un processo di esternalizzazione, è a tutti gli effetti attività amministrativa e, come tale, deve essere soggetta ai suddetti meccanismi di monitoraggio e controllo. Un secondo elemento di sistema emerso dall'analisi dei casi attiene, dunque, alla sussistenza di un rapporto diretto tra il trasferimento di compiti e funzioni in capo a soggetti privati attraverso 1' outsourcing ed il rafforzamento dei poteri di controllo da parte dell'Amministrazione sull'attività esternalizzata. .

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Una diretta conseguenza di questo fattore è l'obbligo per l'Amministrazione, che pure conserva la titolarità della funzione data in outsourcing, di verificare che l'azione del privato esercente sia comunque orientata al corretto perseguimento dei fini pubblici, alla cui soddisfazione la medesima funzione è sempre rivolta. Quanto detto sinora consente di ribadire che, in caso di esternalizzazione di funzioni pubbliche, il sistema dei controlli deve essere costruito con particolare attenzione. Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, un primo livello dato da una fase di analisi preventiva costi-benefici, volta a comparare, prima di procedere all'avvio della procedura di outsourcing, i costi associati alla gestione in house rispetto ai costi totali dell'affidamento all'esterno. Questa proiezione andrebbe, naturalmente, effettuata nelle due ipotesi di mantenimento o miglioramento della qualità dell'attività svolta. Nello step descritto è di fondamentale importanza avere una piena comprensione delle voci di costo, considerando, ad esempio, gli eventuali utili o le perdite derivanti dal fatto che, a seguito dell'esternalizzazione, alcuni beni strumentali non sono più necessari. Si deve ragionare in tal modo anche con riferimento all'impatto dell'outsourcing sull'organizzazione delle strutture interne e sui rapporti di lavoro, che rappresentano comunque' dei costi, anche se non sempre misurabili in termini monetari. In proposito si deve, infatti, considerare che, spesso, l'esternalizzazione impone il contestuale avvio di procedure di riqualificazione del personale addetto alle funzioni date in outsourcing, nonché la rilevazione dei carichi di lavoro come risultanti a seguito dell'avvenuto trasferimento di attività. A riguardo, si potrebbe, quindi, valutare l'applicabilità all'esternalizzazione delle funzioni della disposizione contenuta nell'art. 31 del d.lgs. n. 165/01, che è stata introdotta con riferimento alla gestione dei servizi pubblici, per disciplinare il passaggio di dipendenti in caso di trasferimento o conferimento di attività prima svolte dalle Amministrazioni ad altri soggetti, pubblici o privati. La descritta fase di analisi preventiva deve, inoltre, essere accompagnata da costanti azioni di monitoraggio e di controllo, sia in corso d'esercizio che alla scadenza del contratto di outsourcing. ' Nel primo caso, si potrebbe ipotizzare, ad esempio, di collegare appositi "premi di gestiòne" alle positive risultanze delle verifiche effettuate sull'atti180

vità svolta dai privati, così da stimolare la costante crescita di qualità nella gestione della funzione amministrativa esternalizzata. Il controllo expost ha, invece, la funzione di mostrare all'Amministrazione se l'affidamento all'esterno abbia complessivamente portato un miglioramento in termini di efficacia, efficienza ed economicità nello svolgimento dell'attività oppure se sia più conveniente ritornare ad una gestione in house. Naturalmente, la predisposizione di siffatti meccanismi di controllo è un compito complesso e non facilmente realizzabile in assenza di adeguate professionalità all'interno dell'Amministrazione. D'altro canto, però, la capacità di comprendere con precisione i costi di una determinata attività istituzionale dovrebbe rappresentare uno dei compiti fondamentali dei soggetti preposti alla gestione della "macchina amministrativa" nel suo complesso. Diversamente, come si può anche solo ipotizzare che un'Amministrazione si avvalga dell'outsourcing se non è in grado di conoscere quali compiti può effettivamente essere conveniente trasferire all'esterno e quali, invece, è più opportuno che continui a svolgere direttamente? Forse in tal senso un principio utile che, fuor di metafora, sarebbe comunque utile riportare all'attenzione dei decisori pubblici, è quello secondo cui "l'affidamento all'esterno deve essere attuato con la precisione di un bisturi da chirurgo e non con la forza bruta di un macellaio"40 . In altre parole, un utilizzo proficuo dell'esternalizzazione in rapporto alle funzioni amministrative impone, da parte di tutte le Amministrazioni interessate, l'avvio di un'attenta e minuziosa "messa a sistema" dello strumento, nel rispetto dei dettati costituzionali e normativi, ma senza tralasciare il proficuo apporto dato dalle ricorrenti indicazioni emergenti dalla prassi. Solo in questo modo, sarà possibile giungere nel tempo a risultati gestionali efficaci (non solo in termini di riduzione dei costi), anche nell'esercizio «indiretto» delle funzioni amministrative attraverso un uso "ordinario» e non piu contingente dell'outsourcing.

A riguardo S. CASSESE, Le basi costituzionali, in Trattato di diritto amministrativo, S.Cassese (a cura di), Giuffrè, 2003, 210, ha parlato di attenuamento sul piano istituzionale del "bipolarismo pubblico-privato". In senso dinamico, altra dottrina ha richiamato la "grande dicoto-

mia" tra pubblico e privato di N. B0BBI0, Stato, governo, società, in Frammenti di un dizionario politico, Einaudi, 1985, evidenziando l'integrità e l'attualità delle relative virti euristiche e proponendo al contempo l'individuazione di tre diverse declinazioni del concetto, fondate, rispet181

tivamente, sui confini e gli ambiti di applicazione, sui valoridi volta in volta attribuiti all'intervento statale ed al diritto speciale di cui questo si serve, nonché sull'originaria lettura in chiave di diritto privato speciale del diritto amministrativo: vedi G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Giuffrè, 2003, pag. i e ss. 2 G. VETRVVTO, Ipro e i contro delle esternalizzazioni difinzioni e servizi nell'amministrazione pubblica, pubblicato su questo numero. Il "ciclo di vita" di un processo di outsourcing è esemplifìcato nella Guida all'esternalizzazione di servizi e attività strumentali nella Pubblica Amministrazione, del Dipartimento della Funzione pubblica, 2004, in www.funzionepubblica.it, che rappresenta uno degli output finali del lavoro condotto dal tavolo di lavoro "Outsourcing ed esternalizzazione". ' Questa distinzione non rileva in rapporto alle modalità con cui un'Amministrazione rende effettiva la propria volontà di esternalizzare. In questo senso, infatti, l'outsourcing può essere considerato uno strumento "trasversale", come tale non dipendente direttamente dall"oggetto" del trasferimento, intendendo con ciò la possibilità di utilizzare per le funzioni le medesime procedure amministrative e gestionali usate per la gestione esternalizzata.dei servizi. In particolare, il trasferimento "a soggetti esterni alla struttura amministrativa istituzionalmente competente"può avvenire: - mediante procedura ad evidenza pubblica, intendendo con tale definizione l'ipotesi di svolgimento di una gara di tipo aperto (licitazione privata e appalto-concorso) o ristretto (trattativa privata) cui faccia seguito la stipulazione di un contratto di servizio; - mediante affidamento diretto a soggetti appositamente costituiti, con significative differenze in rapporto alla natura giuridica degli stessi, che possono qualificarsi come profit (società per azioni a capitale misto pubblico-privato o totalmente pubblico) o come no profit (fondazioni, in prevalenza); 182

- mediante affidamento diretto a soggetti già esistenti, il rapporto coi quali è solitamente regolato in via convenzionale (anche in quest'ultimo caso, naturalmente, le concrete modalità di svolgimento del rapporto tra Amministrazione e soggetto esterno possono presentare significative differenze in rapporto alla natura giuridica del partner prescelto). Vi possono, inoltre, essere ipotesi di esternalizzazione in cui le parti del rapporto non siano due persone giuridiche (amministrazione e partner esterno), ma una persona giuridica e una persona fisica. È ciò che avviene, ad esempio, nel caso dei notai, qualificabili come munera legali ai sensi degli artt. 2699 e 2703 del Codice civile, che riconoscono a detti soggetti la possibilità di adempiere pubbliche funzioni, permettendo agli stessi l'esercizio di attività costitutive di certezza pubblica. Uno degli studi più rilevanti sul tema è quello di M. NIGR0, Il notaio nel diritto pubblico, in Scritti giuridici, Giuffré, 1996, pag. 1375 e Ss.; vedi anche S. CASSESE, L'esercizio notarile di funzioni statali, in Notariato tra istituzioni e società civile, Giuffré, 1996, pag. 109e ss. 5 La qualificazione dei soggetti che adottano gli atti amministrativi di realizzazione della procedura di outsourcingdi funzioni amministrative non incide direttamente sulla tipologia di attività che si intende esternalizzare, essendo legittima sia un'esternalizzazione con effetti di lungo periodo, come è la predisposizione di una proposta di piano regolatore, sia una che riguarda eventi "routinari", come la predisposizione dei cedolini relativi ai pagamenti mensili dello stipendio. L'incidenza attiene, invece, all'efficacia giuridica dell'atto decisionale, che per sussistere deve essere imputato ad un pubblico ufficiale e non ad un incaricato di pubblico servizio. 6 A riguardo, si possono richiamare le problematiche, ripetutamente discusse dalla giurisprudenza, attinenti all'esercizio del potere sanzionatono da parte degli ausiliari del traffico. Vedi, tra le altre, la recente sentenza del Giudice di Pace di Roma, sez. III, 15 gennaio 2004, n. 3046, in www.altalex.com .

Vedi CoNsIGuo DI STATO, sez. V, sentenza n. 1289 del 10 marzo 2003, in GDA, 2003, 9, con

7

commento di M. DUGATO, Il servizio pubblico locale: realtà e virtualità nei criteri di classificazione, pag. 929 e ss. In senso contrario, vedi CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA SICILIA-

sentenza n. 410 del 23luglio 2001, in GDA, 2002, 1, pag. 21, con commento di M. DUGANA,

Incertezze qualificatorie e tipicità delle forme digestione. 8 J PRAGER - S. DESAI, Privatizing local government operations - Lessons from federal contracnting out methodology, in Public productivisy and management review, 1996, 2, voi. 20. 9 Vedi PRAGER - S. DESAI, op.cit. J. 10 È di questo avviso G. GUARINO, Pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio, in Scritti di diritto pubblico dell'economia, Giuffré, 1970, pag. 234 e ss, secondo cui "la nozione di servizio pubblico come quella di pubblica flnzione è presupposta dall'art. 358 c.p. come unitaria". Richiama le disposizioni penalistiche anche S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, Garzanti, 2000, pag. 123. L'ampio dibattito sorto intorno alle due nozioni, con relativa contrapposizione tra penalisti e amministrativisti, è riportato in R. VILLATA, Pubblici servizi: discussioni e problemi, Giuffré, 2003. Si segnale che l'indirizzo prescelto rappresenta solo uno dei molteplici orientamenti espressi nel corso del tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza in relazione al complesso (e non completamente risolto) dibattito sulla natura dei servizi pubblici. Tuttavia, come esposto trattando dell'ambito di indagine e del metodo di lavoro, si ritiene opportuno discutere dei temi generali solo nella misura e per gli specifici profili di interesse della specifica trattazione. Si è, quindi, ritenuto funzionale fare riferimento ai soli profili penalistici, nella ricerca di un criterio di distinzione tra funzioni e servizi pubblici, in considerazione della necessità di accordare particolare rilevanza al carattere dell'autoritatività. Questo profilo, infatti, nell'orientamento considerato emerge con distinta chiarezza. Per un altro verso, si osTO,

serva che le nozioni richiamate, se pur rilevano "agli effetti della legge penale" e, dunque, limitatamente all'individuazione dei soggetti destinatari di norme incriminatici per reati contro la Pubblica Amministrazione, peraltro presentano un carattere generale, in base al quale si può prescindere dall'ambito specifico di applicazione in cui le stesse sono inserite, ampliandone in tal modo la valenza. Il Vedi S. Di BENEDETTO, Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio, in Digesto delle Discipline penalistiche, UTET, pag. 513 e ss., e ID.,

Pubblica Amministrazione (delitti contro la),

in Enciclopedia Giuridica, Giuffré, 1991, pag. 1 e ss. 12 Se per quanto riguarda la teoria soggettiva del servizio pubblico il riferimento principale è senza dubbio rappresentato dall'opera di A. DE VALLES, I pubblici servizi, in Primo trattato completo del diritto amministrativo italiano, V.E. ORLANDO (a cura di), Società editrice libraria, 1924, per quanto concerne la teoria in senso oggettivo, è fondamentale la ricostruzione proposta da U. POTOTSCHNIG, I servizi pubblici, Cedam, 1964, cui si deve anche la più motivata esposizione del collegamento tra art. 41 ed art. 43 della Costituzione. Richiamano approfonditamente entrambe le posizioni, S. CATTANEO, Servizi pubblici, in Enciclopedia del diritto, Giuffré, 1990, pag. 355 e ss., e, più recentemente, N. RANGONE, I servizi pubblici, Il Muli-

no, 1999, e L.R. PERFETTI, Contributo ad una teoria dei pubblici servizi, Cedam, 2001. 13 In altre parole, stando alla disciplina penalistica, i criteri di distinzione tra funzione pubblica e servizio pubblico devono essere ricercati nella titolarità di poteri autoritativi, di poteri certificativi e di poteri di formazione e manifestazione della volontà dell'Amministrazione. 4 Si pensi, ad esempio, all'utilizzo- degli accordi di cui all'art. 11 della 1. 241/90 oppure dei moduli contrattuali alternativi allo strumento concessorio, come è appunto il contratto stipulato per l'outsourcing di una funzione. Per una panoramica delle trasformazioni in atto, 183

con attenzione per la ridefinizione dei rapporti pubblico-privato, vedi G. Rossi, Introduzione al diritto amministrativo, Giappichelli, 2000, pag.

48 e ss., e Id., Pubblico e privato nell'economia di fine secolo, in Le trasformazioni del diritto amministrativo, S. AMOROSINO (a cura di), Giuffré, 1995, pag. 221 ess. 1511 riferimento è a M.S. G1ANNINI, Diritto amministrativo, Giuffré, 1993, pag. 8, secondo cui "tutte le attività svolte, nell'interesse genérale o nell'interesse altrui, di principio sono fisnzionalizzate". 16 Quelle che si sono richiamate sono, evidentemente, tutte funzioni che potremmo definire "finali" o a rilevanza esterna, che comportano, quindi, un impegno diretto della volontà dell'amministrazione nei confronti dei soggetti cui l'esercizio delle medesime funzioni si rivolge. In proposito, si richiama, per tutte, la classificazione operata da M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, III ed., Giuffré, 1993, pag. 7 e ss., secondo cui si deve distinguere tra attività a rilevanza giuridica dotate di potestà autoritative (le funzioni) e attività prive di tale rilevanza, anche se "tutte le attività svolte nell'interesse generale o nell'interesse altrui sono, di principio, finzionalizzate" e, quindi, "l'attività dei pubblici poteri ... è in linea di principio, .finzione".. 17 Per avere un'idea dei possibili confini di questa ncizione in rapporto all'organizzazione Stato contrapposta al sistema regionale, è sufficiente richiamare l'elenco di cui al secondo comma del novellato art. 117 della Costituzione, che indica le. materie di competenza legislativa esclusiva statale. 18 Si consideri, in proposito, che nel settore privato; mentre in origine l'esternalizzazione ha riguardato in prevalenza attività ritenute non essenziali ovvero non inserite nel core business dell'azienda, negli ultimi anni si sta assistendo all'utilizzo dell"outsourcing stràtegico", inteso questo come modalità fondamentale di creazione di nuovo valore nonché di leva per le risorse dell'impresa. Ciò vuoi dire che, sempre più spesso, vengono trasferite all'esterno anche atti184

vità rientranti nel core business, gestite poi attraverso complesse e personalizzate forme di partnership con soggetti altamente specializzati. È ciò che avviene, ad esempio, quando si verifica una modifica della struttura della domanda tale da rendere periferiche le competenze distintive dell'impresa, oppure in caso di inserimento in mercati emergenti verso i quali l'azienda non possiede né competenze tecnologiche, né specifiche conoscenze di mercato o, infine, quando l'impresa è in ritardo rispetto ai principali concorrenti e si trova per questo costretta ad acquisire rapidamente nuove competenze per ridurre la distanza competitiva. Sul concetto di outsoucing strategico, vedi M. ALEXANDER - D. YOUNG, Strategic outsourcing, in Long Range Planning, 1996, voi. 29, n. 1 19 Laffermazione deve essere intesa nel senso che la normativa attualmente vigente in materia di esternalizzazione, con particolare riferimento agli artt, 24 e 29 della I. n. 448101, hanno carattere promozione e non cogente per le Amministrazioni cui si riferiscono, oltre e non individuare specifiche funzioni che possono essere oggetto del processo di trasferimento in capo a soggetti privati; Per un'attenta rassegna delle disposizioni contenute nelle leggi finanziarie degli ultimi anni riferibili all'o utsourcing, si veda A.

Brevi considerazioni in tema di esternalizzazione di attività strumentali e finzioni amministrative, Riv Corte Conti, 1, 2004, pag. 276ess. 20 Vedi G. CORSO, Manuale di diritto amministrativo,'II ediz,, Giappicheili, 2004, pag. 9. 21 Questa interpretazione è largamente sostenuta dalla dottrina. In proposito, vedi G. ZANOBIN1, L'attività amministrativa e la legge, in Scritti vari di diritto pubblico, Giuffré, 1955, pagg. 207-212, secondo cui "l'attività amministrativa, anche quando maggiore è la sua apparente libertà, si svolge sempre in obbedienza alle normedi legge" e, quindi, anche se non è esecuzione diretta della legge è comunque sua attuazione. Parla, invece, di "inderogabilità dell'ordine legale delle competenze" in rapporto all'illegittiMALTONI,

mità della modifica delle proprie attribuzioni da parte di un organo per volontà propria, V. CERULLI IRELLI,

Corso di diritto amministrativo,

2002, pag. 106. 22 Anzi, si ricorda che gli artt. 24 e 29 della legge n. 448101, che sono le uniche disposizioni normative generali in tema di esternalizzazione, hanno un carattere promozionale e non obbligatorio, essendo state introdotte dal legislatore per ribadire la possibilità per le Amministrazioni di scegliere tra diverse modalità di gestione delle proprie attività istituzionali, secondo forme organizzative in varia misura già presenti nell'ordinamento, ma mai accomunate espressamente in qualità di strumenti di management finalizzati all'outsourcingdi attività pubbliche. Vedi in merito anche il commento di G. NAPOLITANO,

Pubblico e privato nel diritto amministrati-

vo, cit., pag. 89. 23 L'affermazione del concetto di "amministrazione di risultato" ha, tuttavia, gradualmente condotto alla prevalenza del principio di buon andamento su quello di legalità, imponendo all'azione amministrativa il perseguimento di risultati misurabili in termini di efficienza, efficacia ed economicità e non soltanto di legittimità. Non può, pertanto, sussistere una rigida contrapposizione tra i due principi richiamati: le fattispecie concrete si dimostrano, infatti, estremamente variegate e differenti tra di loro, tanto da rendere inefficace qualunque generalizzazione a priori dei principi applicabili. , quindi, nelle modalità con cui viene effettuato il "bilanciamento degli interessi" da parte dell'amministrazione che si devono ricercare gli elementi utili alla verifica della correttezza della scelta di rimettere a soggetti privati l'esercizio di funzioni amministrative. D'altro canto, è anche vero che la limitazione di cui si discute emerge solamente con riguardo alle funzioni amministrative di tipo autoritativo e /o ad ampio margine di discrezionalità e non condiziona, invece, la possibilità di esternalizzare altre tipologie di attività, anche laddove ciò avvenga al di fuori di un'apposita previsione normativa. Si tratta, insomma, di un

vincolo di principio necessario che, tuttavia, non sembra ridurre in misura eccessiva l'autonomia delle Amministrazioni che intendono avvalersi dell'outsourcing per accrescere la propria efficienza organizzativa. 24 11 decreto contiene il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. 25 Ci si riferisce alle disposizioni contenute, prima, nella legge n. 410/01, di conversione del dl. n. 351101, che ha ammesso la possibilità di un trasferimento a titolo oneroso alle società cartolarizzazione immobili pubblici (c.d. S.c.i.p.), aventi ad oggetto esclusivo la realizzazione di una o pii operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione del predetto patrimonio e, poi, nella I. n. 112102, di conversione del dl. n. 63102, che ha istituito la Patrimonio dello Stato s.p.a. attribuendole il compito

di" valorizzazione, gestione e alienazione del patrimonio dello Stato e nel rispetto dei requisiti e delle finalità propri dei beni pubblici' (art. 7, co. 1), e la Infrastrutture s.p.a. quale società di finanziamento delle infrastrutture cui possono essere trasferiti a titolo oneroso ed esclusivo i beni della Patrimonio s.p.a. (art. 8). Sul tema vedi A. BRANCASI, La Cartolarizzazione dei beni pubblici di fronte all'ordinamento comunitario, in Aedon, 2003, 1, su www.aedon.mulino.it . In merito si segnala anche il caso del Comune di Roma, che ha in un certo senso anticipato le disposizioni ora richiamate, istituendo, secondo il disposto dell'allora vigente art. 22 della I. n. 142190 (ora art. 113 del d.lgs. n. 267/00), la Risorse per Roma s.p.a., società di capitali con il compito di valorizzare e riqualificare il territorio comunale e gli immobili ivi presenti. 26 Quali altre fattispecie di "autorizzazione" all'outsourcing per funzioni autoritative o molto vicine al core business si possono citare, ancora, la possibilità di affidare a terzi, anche disgiuntamente, le funzioni di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi e di tutte le altre entrate da parte degli enti locali di cui al l'art. 53, co. 5, del d.lgs. n. 446197; la fornitura di servizi 185

specialistici relativi agli interventi di sostegno pubblico alle imprese rimesse agli istituti di credito in attuazione del disposto di cui alla legge n. 488192; le funzioni affidate alle società organismi di attestazione in materia di certificazione delle imprese concorrenti per appalti pubblici dall'art. 8 della legge n. 109194; le funzioni sanzionatorie affidate agli ausiliari del traffico dall'art. 17, co. 132 e 133, della legge n. 127197. Per un'analisi delle fattispecie indicate, sia consentito il rinvio a F. Di LASCIO, Dall'eser-

cizio privato delle firnzioni pubbliche all'esternalizzazione, in corso di pubblicazione su Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche, 2004. 27 In tal senso, vedi l'opinione di E. CASETTA, Rflessioni in tema di discrezionalità amministrativa, attività vincolata e interpretazione, in DE, 1998, 3, pag. 509, secondo cui la discrezionalità è "tradizionalmente concepita come possibilità di operare scelte e di disporre per il caso concreto nel modo più adeguato alle esigenze delle finalità pubbliche affidate alla cura della pubblica amministrazione" e, quindi, è impossibile ipotizzare che la legge predetermini tutti gli aspetti dell'attività amministrativa che, nella realtà, non è mai "automatica traduzione di prescrizioni generali in prescrizioni concrete". 28 Il provvedimento fa seguito agli indirizzi già espressi nella Direttiva sulla formazione e la valorizzazione del personale delle pubbliche amministrazioni, adottata dal Ministro della Funzione pubblica in data 13 dicembre 2001. 29 Tra le Amministrazioni che hanno utilizzato l'esternalizzazione per i fabbisogni indicati si segnalano, ad esempio, la Provincia di Roma e il Ministero delle Politiche agricole e forestali. 30 CONsIGLIO Di STATO, sez.V, sentenza n.1289 del 10 marzo 2003, cit. 31 Vedi E. PINTUS, Il management dei processi d'acquisto. Le scelte di innovazione sui servizi integrati, I Quaderni dell'innovazione, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001, pag. 39 e ss. La definizione è riportata in misura non molto dissimile dalla norma UNI 10685/1998.

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32 Tra le esperienze sinora realizzate in cui le amministrazioni hanno operato il ricorso all'ipotesi del contratto in esame per la gestione del patrimonio immobiliare, la più significativa per ampiezza e complessità riguarda senza dubbio il "Palazzo delle Finanze", sede dell'attuale Ministero dell'Economia e di proprietà della stessa Amministrazione. Il contratto di global service che riguarda la richiamata struttura è stato sottoscritto nel 1999. 33 L'esempio, forse, più significativo è quello delle attività propedeutiche alla predisposizione dei cedolini per il pagamento degli stipendi mensili, ivi compresi tutti i compiti inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sotto il profilo strettamente contabile e fiscale. 34 Si osserva in proposito che, nel settore privato, I'outsourcing delle attività relative alla gestione delle risorse umane è uno degli ambiti di maggior sviluppo. Spesso, tuttavia, si assiste all'esternalizzazione dell'intero complesso dei servizi amministrativi, ivi comprendendo, oltre alle suddette attività, anche quelle inerenti la formazione del personale, i servizi finanziari, i servizi di facility management, l'organizzazione delle procedure di e-procurement e la progettazione e gestione dei cali center. Uno dei case studies più significativi in tal senso è quello del Gruppo Fiat, analizzato in AA.Vv., Outsourcing e creazione del valore, L. CANTONE (a cura di), 2003, Il Sole 24 Ore, pag. 261 e ss.. 35 L'espressione è utilizzata da G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, cit., pag. 75. 36 G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, cit., pag. 75. 37 V. CERULLI IRELLI, relazione introduttiva al

convegno "Innovazioni del diritto amministrativo e riforma dell'amministrazione", Roma, 22 marzo 2002, ora in Annuario 2002- Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Giuffré, 2003, pag. 3 e ss. 38 G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, cit., pag. 114, osserva come, in realtà, il testo costituzionale non permette di

desumere alcuna direttiva generale in merito alla "tecnica" da adottare per verificare se una certa attività sia o meno rispettosa dei principi di imparzialità e buon andamento: la scelta in tal senso è, dunque, rimessa al legislatore. Se, invece, fosse stato approvato il progetto di revisione costituzionale predisposto nella tredicesima legislatura, nel quale si prevedeva che "le pubbliche

amministrazioni, salvo i casi previsti dalla legge per ragioni di interesse pubblico, agiscono in base alle norme del diritto privato" (p.d.l. n.6844, approvato alla Camera dei Deputati in data 25 ottobre 2000), le indicazioni sarebbero state ben più orientate verso una valutazione dell'attività complessiva e non del singolo atto amministrativo prodotto nel corso del procedimento. In tal senso si vedano anche i commenti relativi al

d.d.l. di iniziativa governativa A.S. n. 1281, recante modifiche alla I. n. 241190 con l'introduzione di una norma facoltizzante in merito all'utilizzo paritario degli strumenti del diritto pubblico e privato nella realizzazione dei fìni istituzionali, in Annuario 2002, Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Giuffré, 2003. 39 I tre principi ricordati sono, infatti, espressamente richiamati dal d.lgs. n. 286199, che rappresenta a' tutt'oggi ancora l'atto normativo fondamentale in tema di meccanismi e di strumenti di monitoraggio dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell'attività amministrativa.

40 J• PRAGER - S. DESAI, La privatizzazione delle attività delle amministrazioni locali, in PAP, 1998, 1, pag. 63 e ss.

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rubriche ìì

Segnalazioni L'ArrIvITÀ DEL CONSIGLIO ITALIANO PER LE SCIENZE SOCIALI rapporto con l'Accademia dei Lincei (il Presidente Conso ha rivolto un ampio saluto al Css ad apertura della sessione pubblica dell'Assemblea augurandosi di ospitare ancora il Consiglio per altre iniziative) e complice anche lo spostamento della sede legale da Roma a Moncalieri - sta stringendo relazioni sempre più intense con i centri di ricerca ad esso affini e complementari ospitati nel Collegio Carlo Alberto. A ciò si deve aggiungere che Etnobarometro, filiazione del Css ormai dotata di un certa autonomia, è sempre più coinvolto in temi cruciali di attualità. Il Css ha, dunque, raggiunto una solida consistenza istituzionale. Se ne darà atto nel libro, in corso di stesura, sul trentennio appena concluso. Il libro si propone di essere molto più di un semplice resoconto.di quanto si è riusciti a fare anche in anni difficili. Sarà una riflessione sui compiti stessi del Consiglio. La Commissione di studio sulle Fondazioni (composta da Sergio Ristuccia, coordinatore insieme ad Andrea Zoppini, Piero Bassetti, Giovanni Bechelloni, Antonio Di Majo, Clotilde Pontecorvo e Luisa Torchia) a seguito della redazione e poi diffusione del Libro bianco sulle Fondazioni, ha organizzato un importante seminario, aperto al pubblico, tenutosi il 9 marzo 2004, presso 189

Nel più ampio progetto di collaborazione di Queste Istituzioni con il Consiglio italiano per le Scienze Sociali, pubblichiamo di seguito un estratto del documento sulle attività 2004, che riassume efficacemente l'operato delle Commissioni di studio del Consiglio.

Volendo considerare come indice principale dello stato di salute di un organismo associativo il grado di coinvolgimento di tutti coloro che ne fanno parte, certamente lo stato attuale del Css deve essere definito in termini molto positivi. L'associazione, infatti, ha vissuto una forte crescita e un sicuro consolidamento nel corso degli ultimi anni, in particolare nel 2004. Ciò si è tradotto in una partecipazione sempre più attiva da parte dei suoi soci allo svolgimento delle varie attività, come testimonia l'ampia partecipazione all'Assemblea del 24 giugno scorso e, in particolare, il lavoro che le Commissioni di studio stanno realizzando. Commissioni che, d'altra parte, hanno coinvolto e continueranno a coinvolgere anche molti studiosi esterni, convinti del lavoro e del ruolo del Consiglio. D'altra parte, come l'ultima Assemblea ha dimostrato, il Css ha stretto un buon

il Collegio Carlo Alberto: "Tempo di fondazioni? Nuove prospettive per il terzo settore". In tale occasione è stato presentato il libro di Antonio Saenz de Miera, L'azzurro

del puzzle: fondazioni e terzo settore in Spaga, tradotto e pubblicato in Italia a cura del Css. A quasi due anni dalla pubblicazione del Libro bianco (che ha avuto anche una buona circolazione in libreria), occorre registrare molte novità. La Commissione ne prenderà atto nel corso della nuova fase di lavoro che si sta avviando. Il metodo che verrà preferito è quello delle audizioni con i più significativi protagonisti e testimoni dei fatti nuovi.

La Commissione di studio sulle tendenze e politiche dello sviluppo locale in Italia (composta da Arnaldo Bagnasco e Carlo Trigilia, coordinatori, Fabrizio Barca, Marco Cammelli, Giuseppe Dematteis, Luigi Mazza, Guido Rey, Enzo Rullani, Maria Teresa Salvemini, Gianfranco Viesti) sta lavorando su una questione cruciale: come attivare efficacemente le risorse locali nel nuovo contesto di apertura globale delle economie. Più specificamente, si sta orientando a un documento (un Libro bianco) in grado di promuovere un'ampia ma mirata discussione politica. Il paradigma dello sviluppo locale, emerso in molti paesi, ha messo in luce l'efficacia dell'attivazione di risorse locali. Pertanto, pur nel contesto della "globalizzazione", si registrano netti processi di regionalizzazione, a scale diverse. In Italia, ci si misura con una condizione originaria di forti differenze originarie regionali, in via di evoluzione, e di rilevanti cambiamenti negli assetti istituziQnali, ancora in corso. Il principale problema che si è presentato 190

alla Commissione, e che ne ha in qualche modo condizionato i lavori, è appunto l'incertezza attuale del quadro normativo. La Commissione ha tenuto vari incontri residenziali. Sta ora per licenziare il testo finale del Libro bianco, articolato secondo i seguenti 4 punti: 1) analisi dell'importanza delle forme di economia territoriale nello sviluppo economico italiano dal secondo dopo-guerra ed evoluzione delle politiche attuate; 2) considerazioni circa la spesa pubblica e gli esperimenti fatti, valutandone i relativi punti di forza e di debolezza; 3) analisi dei cambiamenti dei rapporti istituzionali ed interistituzionali (dopo la modifica del Titolo V della Costituzione ed, ancor prima, dopo le Bassanini), considerazioni circa il rafforzamento di solide politiche di sviluppo locale; 4) agenda sulle politiche da attuare: considerando che porsi la questione dell'economia italiana significa innanzitutto porsi la questione dello sviluppo locale. La Commissione di studio sulla valutazione dell'attività di ricerca (composta da Alberto Zuliani, che ne è il coordinatore, Andrea Bonaccorsi, Sergio Bruno, Massimiano Bucchi, Mario Calderini, Mario Lanzerini, Giulio Perani, Giorgio Sirilli, Gianni Toniolo, Ugo Trivellato) sta studiando la valutazione dell'attività di ricerca e sviluppo sotto vari aspetti: - come attività preparatoria alle decisioni politiche e agli interventi e relativa ai loro effetti; - a sostegno dell'operatività dei soggetti pubblici e tipicamente delle università e degli enti pubblici di ricerca; - riferita alle unità elementari di produzione. Nel nostro Paese la ricerca ha ricevuto tradizionalmente scarsa attenzione (negli

anni più recenti, il rapporto fra spesa per ricerca e sviluppo e prodotto interno lordo è addirittura diminuito), anche e soprattutto in termini di gestione delle risorse dedicate. La valutazione della ricerca è l'insieme delle teorie, delle tecniche, delle metodiche e degli strumenti utilizzati per valutare la qualità e/o l'importanza e/o la quantità della ricerca, proposta o realizzata. La valutazione si riferisce alle risorse in gioco, agli individui coinvolti, ai contenuti del lavoro di ricerca e comprende la distinzione tra "importanza" (rispetto all'oggetto e alle ricadute attese) e "merito scientifico" (rispetto alla intrinseca qualità professionale del contenuto di ricerca). Sebbene fortemente connessa con la formulazione di giudizi e decisioni, la valutazione non si sovrappone mai completamente ad essi in quanto il supporto informativo che essa fornisce, anche se strutturato su base formalizzata e quantitativa, si presta comunque ad interpretazioni ed approfondimenti. La valutazione delle politiche della ricerca e della tecnologia comprende una varietà di funzioni, tecniche e strumenti e si è sviluppata come disciplina autonoma negli ultimi trent'anni. Il suo obiettivo è fornire informazioni ai decisori istituzionali, ai manager e all'opinione pubblica sulla sostenibilità di iniziative intraprese o da intraprendere e sulle condizioni richieste per raggiungere gli obiettivi auspicati. Allo stesso tempo, l'analisi ex-post delle azioni consente di acquisire elementi e risultati per riorientare le politiche esistenti e progettare più efficacemente le nuove. La Commissione ha tenuto quattro incontri e sta ultimando la stesura di un Libro bianco.

La Commissione di studio sulla crisi del/a grande impresa e nuove forme di imprenditorialità. Il caso dell'Italia del nordovest a confronto con la tendenza europea (composta da Giuseppe Berta e Angelo Pichierri, coordinatori, Cristiano Arnonelli, Carlo Callieri, Luciano Ciravegna, Sergio Conti, Aldo Enrietti, Renato Lanzetti, Maurizio Magnabosco, Angelo Michelsons, Giampaolo Vitali e Mauro Zangola) ha constatato che i processi di globalizzazione e di integrazione europea hanno provocato la crisi dei distretti e il collasso della grande impresa italiana, ma anche la crescita di un nuovo core di imprese competitive e dinamiche - le medie imprese che vanno necessariamente studiate, soprattutto nei loro legami con il territorio, con le esistenti reti di produzione locale, con il sistema creditizio, anch'esso in fase di trasformazione, e con le catene di valore globali. La Commissione si sta, dunque, concentrando sull'analisi delle medie imprese e sul loro ruolo nella trasformazione industriale in atto in Italia, con particolari riferimenti al nordovest. La Commissione sta operando anche attraverso alcune audizioni. È stato invitato Fulvio Coltorti, autore degli studi di MedioBanca sulle medie imprese, per poter mettere a punto le problematiche di ricerca in relazione a questa tipologia analitica. Durante l'audizione sono emersi due dati: la natura positiva della performance economica delle medie imprese, e la loro forte concentrazione territoriale nel nordovest, in particolare in Lombardia. La Commissione ha mantenuto uno stretto contatto con la Commissione sullo sviluppo locale. La conclusione della prima fase dei lavori con la stesura di un rapporto o Libro bianco è prevista per la seconda metà del 2005. 191

La Commissione di studio su comunicazione e cosmopolitismo (composta da Giovanni Bechelloni, coordinatore, Marcellino Bonuomo, Luciano Bozzo, Milly Buonanno, Massimiano Bucchi, Benedetta Cappellini, Antonio Cavicchia Scalamonti, Mauro Magatti, Gianfranco Pecchinenda, Silvia Pezzoli, Beppe Richeri, Edoardo Tabasso, Piero Trupia) si sta concentrando sull'analisi di un apparente paradosso: nella società della comunicazione è diventato enormemente difficile comunicare; mai, prima d'ora nella storia dell'umanità, si era resa visibile una contraddizione tanto plateale. La disarticolazione della memoria collettiva e il processo di semplificazione delle esperienze da essa prodotto generano una comunicazione che non solo è appiattita sul presente e sul negativo (i disastri che a grande velocità alimentano i media giornalistici) ma è anche ridotta in formule e circoscritta ai suoi supporti tecnici e specialistici (la memoria breve indotta dalle scuole e dalle università di mezzo mondo). Si produce in tal modo un nuova ignoranza, inconsapevole e arrogante: sia in alto (tra le nuove elite intellettuali), sia in basso (tra le nuove masse, alfabetizzate e scolarizzate). I nuovi ignoranti "prodotti" dai media generalisti (giornalistici, scolastici e universitari), che si costituiscono come le nuove fonti del senso comune, costruiscono e alimentano opinioni pubbliche, volatili e irresponsabili, che influenzano i processi politici. Rendendo difficile l'affermarsi di leadership democratiche, responsabili e autorevoli, capaci di prendere le decisioni necessarie per fronteggiare i pericoli che attualmente corrono i regimi liberai-democratici. E per pensare, progettare e mettere in campo le nuove istituzioni internazionali necessarie 192

per educare alla pace, per costruire relazioni interculturali capaci di generare quella apertura all'ascolto dell'altro che è la precondizione al dialogo, alla costruzione del circuito ermeneutico. La Commissione ha tenuto quattro incontri. La Commissione di studio sulle relazioni intergenerazionali (composta da Gabriele Calvi, coordinatore, Milly Buonanno, Alessandro Cavalli, Christian Giordano, Giuseppe Micheli, Peppino Ortoleva, Sergio Scamuzzi) ha ritenuto che il tema dei rapporti fra generazioni debba essere affrontato attraverso un ventaglio di contributi dedicati a molteplici aspetti che il problema pone. Di qui il progetto di un libro collettaneo preparato attraverso il dibattito in Commissione. Previsti per ora i seguenti contributi: "Rapporti tra genitori e figli nella realtà e nelle rappresentazioni finzionali" (Buonanno); "I rapporti tra le generazioni nelle istituzioni educative" (Cavalli); "Le percezioni esistenziali: una dimensione della distanza tra generazioni" (Calvi); "Ricordare e dimenticare nei rapporti intergenerazionali: alcune osservazioni sulle memorie congruenti e su quelle contrastanti" (Giordano); "Discontinuità, solidarietà, eco: mutamenti demografici in un'ottica per generazioni" (Micheli); "Il cambiamento tecnologico e il mutare delle modalità d'uso dei media nei rapporti intergenerazionali" (Ortoleva); "Patto tra generazioni, retorica e realtà" (Scamuzzi). Nel 2003-2004 la Commissione ha tenuto tre incontri residenziali. Accanto al lavoro delle Commissioni, hanno operato altri gruppi di lavoro per ag-

giornare temi e problemi che il Css ha sempre considerato di proprio interesse, ovvero per preparare nuove iniziative. Due i gruppi che hanno operato nel 2004: Un gruppo di lavoro, diretto da Clotilde Pontecorvo, sta realizzando una indagine conoscitiva, riguardante l'esperienza plu-

riennale dell'insegnamento delle scienze sociali nelle scuole secondarie italiane, con particolare riferimento a: a) il ruolo dei docenti, b) il rapporto tra scuole e Ministero, c) il rapporto tra scuole e università, d) curricolum complessivo e specifico e modalità di progettazione, e) la progettazione integrata, f) la realizzazione di stages, g) raccordi con altri istitùti. Un gruppo di lavoro, coordinato da Arnaldo Bagnasco e Nicola Negri, composto da sociologi e politologi dell'Università di Torino (Rocco Sciarrone, Antonella Meo, Nicoletta Bosco, Alfio Mastropaolo, Giovanni Semi, Michael Eve) sta mettendo a punto quello che potrebbe configurarsi come un programma di ricerche sui ceti medi, che il Css potrebbe incoraggiare anche senza farsene attore diretto. Un quadro di fondo di quella che viene definita "La questione del ceto medio" è stato presentato come leciure di Bagnasco all'assemblea annuale del Css, presso l'Accademia dei Lincei il 24 giugno. Una versione rielaborata sarà pubblicata su Politica in Italia 2004, Istituto Gattaneo/Il Mulino. È stata anche ultimata la rassegna internazionale di letteratura sul ceto medio affidata a Giovanni Semi. I lavori svolti saranno verificati, il 9 dicembre, con un gruppo di ricercatori su temi analoghi presso 1' Institut d'étudespolitiques di Parigi.

Nel maggio 2004, presso il Garante della privacy, è stato siglato il codice deontologi-

co per il trattamento dei dati personali per scopi statistici e scientifici, fortemente voluto dal Css, che a tal fine ha collaborato attivamente con il Garante. Già dal 1998, il Css sulla base delle riflessioni di un gruppo di lavoro presieduto da Ugo Trivellato nonché da proposte elaborate da altre società scientifiche, quali la Società Italiana di Statistica ed un insieme di società dell'area medica ed epidemiologica, aveva promosso una discussione che portasse alla definizione delle principali disposizioni correttive alla legge n. 675196 sulla tutela della riservatezza dei dati personali. Questa infatti necessitava di alcune importanti modifiche che le permettessero di tutelare, a sua volta, il diritto (espressamente riconosciuto dalla Costituzione) alla libertà d'informazione. Il gruppo di lavoro, che in questi anni ha lavorato a stretto contatto con l'Autorità Garante aveva approvato una serie di raccomandazioni, sottoscritte da oltre 15 società scientifiche e da oltre 60 eminenti studiosi e trasmesse al Garante. Nel luglio del 1999 esse sono state recepite in larga parte nella nuova norhiativa. A valle del decreto del 1999, il Css ha perseguito la propria attività, elaborando la proposta di codice deontologico presentata fattivamente nel marzo 2000. La proposta, discussa in varie occasioni con l'ufficio del Garante tra il 2000 ed il 2002, ha subito diverse revisioni fino a giungere alla proposta di codice così com'è stata siglata nel 2004, dai rappresentanti delle istituzioni, dal Css e dalle società scientifiche.

Etnobarometro In settembre, è diventato operativo il progetto "I musulmani europei dopo l'il settem193

bre: il problema della sicurezza e i nodi dell'integrazione' Questa indagine è volta ad analizzare e valutare l'impatto degli attentati dell'il settembre e di Madrid, nonché di eventi esterni, in particolare dei conflitti in Iraq e del Medio Oriente, sui rapporti tra le comunità musulmane residenti in Europa e negli Stati Uniti e le società ed autorità dei paesi nei quali esse vivono e ai loro potenziali sviluppi a medio e lungo termine. Findagine che inizialmente comprendeva cinque paesi europei (Italia, Francia, Gran Bretagna, Belgio. e Germania) e gli Stati Uniti, si estenderà ora anche al Portogallo e, probabilmente, all'Olanda, se sarà possibile reperire un finanziamento in quel paese. La ricerca negli Stati Uniti è organizzata dal Social Science Research Council americano, con la partecipazione di Etnobarometro. L'analisi comparativa USA/Europa verrà condotta da una équipe mista Etnobarometro/SsRc. L'obiettivo è di cercare di comprendere come musulmani e non musulmani percepiscono e affrontano il problema della loro convivenza. La metodologia, innovativa, consiste nell'organizzazione, in ogni paese, di più gruppi di discussione ai quali partecipino musulmani e non musulmani di op-

poste opinioni (liberali e razzisti, moderati e fondamentalisti) e di diversa provenienza (imam, esponenti delle comunità musulmane e delle altre religioni, funzionari delle forze di sicurezza e delle altre istituzioni interessate, insegnanti, e ordinari cittadini), lasciando a ciascun partecipante la possibilità di esprimersi liberamente sulle diverse tematiche (la cultura e le tradizioni dell'Islam, il fondamentalismo, il rispetto dei diritti umani e delle leggi fondamentali dello Stato secondo i dettami delle costituzioni e della prassi occidentali, la partecipazione alla società civile, le discriminazioni, ecc.). La discussione sarà guidata da un moderatore (un sociologo, o altro esperto qualificato), il quale oltre ad intervenire nella discussione dopo ogni riunione scriverà una relazione che verrà sottoposta al giudizio critico dei partecipanti in una riunione successiva. Il principio che sottintende questo metodo è la consapevolezza che il conflitto e le differenze esistono e che raggiungere un consenso non è necessariamente l'obiettivo principale, mentre è essenziale la comprensione delle rispettive posizioni, in assenza della quale ogni politica non potrà che essere precaria e, al limite, potenzialmente controproducente.

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Il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali Il CSS è un'associazione con personalità giuridica - ONLUs. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Politiche e Sociali (Co.S.Po.S.), che svolse a suo tempo, negli anni Sessanta, grazie a un finanziamento della Fondazione Ford e della stessa Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che ne ispirano l'azione sono: • contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia, ed in particolare promuovere il lavoro interdisciplinare; • incoraggiare ricerche finalizzate allo studio dei principali problemi della società contemporanea; • sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e più efficaci. Il CSS rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il CSS associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 4 commissioni di studio sui seguenti temi: fondazioni italiane; sviluppo locale in Italia; relazioni intergenerazionali; valutazione dell'attività di ricerca. Da ricordare l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche in Europa. Presidente: SERGIO RI5TuCCIA Vice Presidente: ARNALDO BAGNASCO Comitato Direttivo: SERGIO RisTucclA (Presidente), CACIAGLI, ANTONIO

ELENA AGA Rossi, PIERO

AMERIO, PIERO BASSETTI, ARNALDO BAGNASCO, ANDREA BoNAccoRsi, MARIO

Di MAJ0, RlccAJwO PATERNÒ, BARTOLOMEO PIETROMARCHI, BRUNO GIMPEL

CARLA Rossi, CHIARA SARACENO, FELICE SCALVINI, GIANFRANCO VIE5TI.

Collegio dei Revisori:

(Presidente),

MARCO COLANTONIO, ALESSAN-

DIo HINNA, ALESSANDRO FREZZA, ALBERTO MAZZEI.

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