Queste istituzioni 130 131

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queste istitùziofil

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DEMOCRAZIA DEL BILANCIO E "GOVERNO MISURABILE", ADDIO TRATIATO COSTITUZIONALE PER L'EUROPA: TRATIATO O COSTITUZIONE' - IDENTITÀ, REGIONI ED EUROPA IL PREZZO DELL'EUROPEIZZZIONtJA$$$I INNOVAZIONE, RISCHIO SOCIALE E RESPONSABILITA POLITICA GEMEW OSSIMORI: TRA CORPORATE E VENTURE PHILANTHROPY IL pR1I1PiO UNA GLOBALIZZAZIONE DEI DIRITTI = D'IMPARZIALlEA DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI VEIRITIO LA DISCIPLINA DELLA DIRIGENZA "PRESA SUL SERIO" D'ORTA GLI INCARICHI DIRIGENZIALI NELLO STATO DOPO LA L. 14512002


Questo nun-sero è pubblicato con il sostegno del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali nel quadro del Programma di studio sulla valutazione dell'attività di ricerca.

queste istituziuni Anno)OO(n. 130-131/2003

Diretto re: SERGIO RISTUCCIA Condirettore: ANTONIO DI MAJO Redattore Capo: SAVERIA ADDOTrA Comitato di redazione: FABIO BISCOTTI, ROSALBA CORI, FRANCESCA DI LASCIO, FRANCESCO DI MAJO, ALESSANDRO HINNA, EMANUELE MARIA LANFRANCHI, EMANUELE LI PUMA, GIORGIO- PAGANO, EusAIurrrA PEaZI, MASSIMO RIBAUDO, CIUSTIANO A. RISTUCCIA, GEMMA SASSO, ANDREA SPADETrA

Collaboratori: ARNALDO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIUSEPPE BERTA, GIANFRANCO BETrIN LATTES, ENIUCO CANIGLIA, OSVALDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVID B0GI, GIROLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, MARCO CIMINI, GIUSEPPE COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBERGO, MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA DI GREGORIO, CARLO D'ORTA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOEIMASO EDOARDO FROSINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLO, SILVIO GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEI'I'E GODANO, ALBERTO LACAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMPAOLO LADU, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, QUIRINO LORELLI, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAIORINO, GIAMI'AOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MIELI, WAI:rER NOCIT0, ELINOR OSTROM, VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZA, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIZZIETTI, IGNAZIO PORTELLI, GI0\'ANNI POSANI, GUIDO MARIO REY, GIANNI RIOrrA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA ROSSI, FABRIZIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANO SEPE, UMBERTO SERAFINI, FRANCESCO SIDOTI, ALESSANDRO SILJ, FEDERICO SPANTIGATI, VINCENZO SI'AZIANTE, PIERO STEFANI, DAVID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMINI, TIZIANO TERZANI, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZAMPINI, ANDREA ZOPPINI

Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHINI Direzione e Redazione: Via Ovidio, 20 - 00192 Roma Tel. 06.68136068-85 - Fax e segreteria telefonica 06.68134167 E-mail: ristucciad@quesire.it Periodico iscritto al registro della stampa del Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972)

Responsabile: GIOVANNI BECHELLONI Editore: QUES.I.RE srI

QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE

ISSN 1121-3353 Stampa: Spedalgraf- Roma

Chiuso in tipografia il 12febbraio 2004 Foto di copertina: elaborazione al computer a cura di Inrealma sr.!.

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Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana


N. 130-131 2003

Indice

III

Democrazia del bilancio e "governo misurabile", addio

Taccuino i

Sette principi per ragionare di televisione e democrazia Marco Mele L'Italia verso la "democrazia paritaria"? Tommaso Edoardo Frosini

13 -

Come investono le fondazioni Marco Onado, Sergio Ristuccia, Mario Comana, Francesco Lorenzetti

Questa Europa 31

Trattato costituzionale per l'Europa: Trattato o Costituzione? Gianluigi Tosato

41

IdentitĂ , Regioni ed Europa Kataryna Wol.czuk

54

Il prezzo dell'europeizzazione. La politica regionale europea Eiko R. Thielemann I


Innovazione e responsabilitĂ sociale 81

Innovazione, rischio sociale e responsabilitĂ politica Piero Bassetti

99

Ossimori: tra Corporate e Venture Philanthropy Giuliana Gemelli

119

Per una globalizzazione dei diritti Saveria Adilotta

Agenda politica e dirigenza amministrativa 145

Il principio d'imparzialitĂ delle pubbliche amministrazioni Sergio Lariccia

151

La disciplina della dirigenza "presa sul serio" Giovanni Vetritto

174

Gli incarichi dirigenziali nello Stato dopo la 1. 145/2002 Carlo D'Orta

Rubriche 186

Il

Segnalazioni


editoriale

tiv

Democrazia del bilancio e "governo misurabile", addio

Il risanamento della finanza pubblica, negli anni Novanta, è stato condotto all'interno del quadro istituzionale delle procedure di bilancio completato con le novelle legislative e regolamentari (Camera e Senato) del 1998- 99; il percorso tracciato - dal Dpef ai poteri interdittivi e di filtro assegnati alle Commissioni bilancio o ai Presidenti delle due Camere - ha offerto la base per un compromesso ragionevole fra i poteri del Governo e del Parlamento. Naturalmente non sono mancate patologie, disfunzioni, inutili "psicodrammi". Le responsabilità non sono solo quelle addebitabili al sistema politico; un peso rilevante è derivato dal persistere di una opacità del bilancio, in termini di raccordo fra dati finanziari e contabilità economica nazionale ed in termini di struttura "allocativa", disegnata dalla riforma Ciampi del 1997 ma non attuata dalla Ragioneria generale dello Stato (che non ha investito energie serie per la classificazione per programmi e funzioni-obiettivo). Ma, nel complesso, il compromesso fra Assemblee elettive e Governo ha tenuto; un contributo positivo è stato offerto da una comunità di addetti ai lavori imperniata sui servizi delle due Camere, sulla Corte dei conti, sulla Ragioneria e sull'IsTAT (quelli che un libro da noi pubblicato chiama i "guardiani del bilancio"). In definitiva, si è ritenuto che il bipartitismo imperfetto della transizione istituzionale italiana dovesse escludere il dominio del Governo sui bilancio (che sarebbe, verosimilmente, giustificato in un sistema proporzionale puro a "pluripartitismo estremo" come quello della prima Repubblica) per evitare il germe della "dittatura della maggioranza". Il compromesso raggiunto andava sottoposto (ed è stato sottoposto) ad una continua manutenzione, anche straordinaria (novelle alla legge organica e ai regolamenti parlamentari) ma non travolto. La quattordicesima legislatura ha interrotto e stravolto questo equilibrio. Il primo scontro, nel 2001, con la drammatizzazione del "buco" derivante dai GoIII


verni passati, ha reso più arduo il difficile lavoro tecnico-istituzionale per attuare la legge Ciampi, in termini di raccordo fra bilancio e conto delle pubbliche amministrazioni (fabbisogno e indebitamento netto). Le misure assunte in materia di patrimonio e di privatizzazioni immobiliari e il crescente ricorso ad operazioni poste al di fuori del bilancio e dei conti della PA hanno reso ancor più opaca la conoscibilità ex ante e la trasparenza del rendere conto, ex post. Alla fine del 2002 il decreto legge "taglia-spese" ha spostato l'asse decisionale dal Parlamento al Governo ed alla Ragioneria, indebolendo la resistenza della decisione parlamentare del bilancio e delle leggi di spesa e di entrata, con l'attribuzione di una discrezionalità al Ministro dell'economia che non ha riscontro nel panorama comparatistico delle democrazie dell'Occidente. Le operazioni di recupero del disavanzo di fine 2002 hanno accentuato la separatezza fra bilancio e operazioni sotto la linea ed hanno trasferito oneri sulle futuregestioni (cartolarizzazioni, entrate una tantum). Nel2003 l'approdo, di per sé positivo, dell'iter parlamentare di grandi leggi di riforma del fisco e del Welfare (lavoro, istruzione e, ancora in itinere, previdenza) si è caratterizzato per formule di copertura nuove e inconsistenti, fondate su quantificazioni "manifesto" degli oneri e sul mero rinvio alle successive decisioni di bilancio (finanziaria e bilancio). Ancora nel 2003, nonostante la creazione di una commissione ministeriale ad hoc, nessun passo in avanti è stato compiuto per una disciplina del federalismo fiscale coerente con il nuovo Titolo V, parte 11 della Costituzione; il rapporto fra finanza statale e finanza regionale e locale è restato tutto sulle spalle della legge finanziaria, con l'inevitabile ricorso a tagli ed aggiustamenti derivanti da concitate trattative. Infine, la sessione di bilancio per il 2004 ha travolto la procedura parlamentare condivisa, seguita dall'inizio degli anni Novanta, affidando la manovra, fuori dalla disciplina della sessione di bilancio, ad un decreto legge; mentre, quanto ai contenuti, si proseguiva sulla strada delle misure temporanee, dell'estensione delle voci escluse dai conti pubblici, della provvista mediante cartolarizzazioni e condoni. Il continuo mettere sotto la linea voci importantissime sta dando luogo al crescere di un settore pubblico dell'economia poco trasparente e non migliora certo la possibile costruzione di quel rapporto di chiarezza che sarebbe auspicabile tra mercato e pubblici poteri. Degradatosi l'ordine che era stato stabilito negli anni Cinquanta per le partecipazioni statali fornito sulla base del disegno istituzionale proposto dalla Commissione Giacchi Saraceno, (disegno che si traIv


sformò nella legge 158911956.che fu approvata per il forte impulso di Ugo La Malfa), ed anzi travolto, questo ordine, nel circolo vizioso della straripante "tangentopoli" della Prima Repubblica, nessun altro ordine è nato. Così, come degli ultimi indirizzi di finanza pubblica, si è fatta una utilizzazione molto ampia di un nuovo settore pubblico dell'economia gestito in piena solitudine - come mai era stato - dal Ministero dell'economia (Dipartimento del Tesoro). Si tratta di un settore che viene esteso attraverso la privatizzazione della conformazione organizzativa dei soggetti gestori di servizi pubblici e degli investimenti infrastrutturali (Poste, Ferrovie, Anas, Cassa Depositi e Prestiti) e che è affidato ad un settore di società in mano pubblica (Tesoro) che ha assunto dimensioni cospicue, senza regole che definiscano i confini fra indirizzi di Governo, poteri dell'azionista unico o di controllo, responsabilità di gestione dei soggetti gestori di impresa. La strada seguita non manca di giustificazioni sorrette dalle difficoltà della cornice macroeconomica, dalla rigidità della Costituzione fiscale europea (Patto di stabilità), dal persistere della inefficienza degli strumenti di amministrazione. Non si vuoi porre in discussione, in questa sede, il merito delle scelte di fiscal policy, questa riflessione è dedicata solo ai profili istituzionali legati ad una governance democratica del processo di biiancio. Il punto d'arrivo di questa regressione è duro da superare; si colloca, in sostanza ai confini della conformità a Costituzione; aggrava la tensione fra maggioranza e opposizione negli schieramenti parlamentari. Eppure si deve reagire. Il consenso sulle regole del bilancio è un fattore costitutivo di una democrazia, sia nella fase delle decisioni, sia nelle fasi dei controlli. Nel 2002 la Commissione Biiancio del Senato ha avviato, sulla base di una importante esposizione dei ministro dell'Economia, un'indagine conoscitiva e, subito dopo, un processo legislativo, correttamente imperniato su due testi di iniziativa parlamentare (Azzollini, Morando). La discussione si è insabbiata; non ha avuto miglior esito il tentativo di provvedere, proprio in vista della sessione di bilancio 2004, ad introdurre novelle nei regolamenti parlamentari. Questo fallimento è una delle cause delle distorsioni della sessione di bilancio 2004. Ora è certamente indispensabile riprendere il cammino interrotto, superando l'incomunicabilità sin qui registrata. La costruzione dei termini di riferimento di una "democrazia del bilancio" può adottare le teste di capitolo, in larga misura poste a base dei lavori avviati al Senato: federalismo; Europa; razionalizzazione delle procedure e della struttura del bilancio; controllo dei risultati.

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L'attuazione dei principi posti dal nuovo Titolo V della Costituzione, a partire dall'art. 119, passa per un lavoro legislativo difficile: disciplina delle funzioni fondamentali delle Regioni e degli Enti locali; principi del sistema fiscale regionale e locale (in connessione con la riforma del fisco statale); strumenti di riequilibrio (legati alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni dello Stato sociale e alla ridefinizione degli strumenti dell'azione meridionalistica). Questa situazione è riconducibile anche alla mancata attuazione dell'art. 11 della legge costituzionale n.3 del 2001 che, nel contesto del nuovo Titolo V, aveva previsto un allargamento alle rappresentanze regionali e locali della Commissione bicamerale per le questioni regionali, inserita dentro il processo della legislazione concorrente. Le potenzialità di questa innovazione (anticipatrice della Camera delle Regioni) non sono state colte, a causa del contrasto fra Consigli regionali e "Governatori"; è mancato, così, il contributo del mondo delle autonomie che avrebbe potuto e dovuto spingere verso il superamento della situazione di "stallo". Il raccordo con l'Europa esige una riflessione sul nesso che lega, al di là delle vicende contingenti, le regole della Costituzione fiscale dell'Unione Europea (disavanzi eccessivi) con l'area propria della decisione nazionale del bilancio, collocata nel contesto del federalismo fiscale. L'esperienza insegna che non è praticabile una strada che affida annualmente alla finanziaria tutto il peso (insostenibile) della disciplina del patto di stabilità interno, al di fuori di una disciplina istituzionale durevole. La razionalizzazione del percorso parlamentare del bilancio si fonda su una valutazione comparatistica del rapporto fra Governo e Assemblee elettive; meccanismi di equilibrio possono suggerire aggiustamenti della strada seguita negli anni Novanta; ma è da escludere, come già osservato, in un sistema politico bipolare, il dominio assoluto del Governo con un Parlamento chiamato a ratificare o a respingere. La struttura del bilancio deve essere rigòrosamente impostata in termini funzionali, per "missioni" e per programmi consentendo al parlamento la decisione strategica e "resistente" sul riparto fondamentale delle risorse. Su entrambi i versanti (procedure e struttura) è di grande importanza il riferimento al disegno ed al processo di attuazione delle riforme adottate negli USA (G1u'A del 1993) e in Francia (Loi organique 69212001). Ancora sul terreno della razionalizzazione/innovazione deve essere ripreso il filo conduttore del parallelismo fra struttura del bilancio e modelli organizzativi e procedimentali dell'attività amministrativa; strada ben impostata dalle leggi del 1997 (legge n. 94 sul bilancio; legge n. 59 sull'amministrazione) ma non attuata. Infine, il sistema dei controlli deve essere ancorato al nesso fra Assemblee elettive (Parlamento, Consigli regionali, Consigli comunali e provinciali) e orVT


gani indipendenti di controllo esterno, a partire dal ruolo della Corte dei conti. I controlli sono orientati verso la misurazione e valutazione dei risultati della gestione, in termini di ausiliarietĂ con le Assemblee elettive e di trasparenza verso i cittadini/utenti. Non giova alla completezza e autorevolezza del sistema istituzionale dei controlli il sostanziale fallimento della stagione dei nuovi Statuti regionali che, pure, nel quadro del nuovo articolo 123 della Costituzione, avrebbero potuto fornire un contributo essenziale. Si tratta di un'opera legislativa posta al centro di una democrazia nella quale, accanto alla garanzia delle posizioni soggettive si pone la misurabilitĂ dei risultati, al servizio dei cittadini; un'opera che richiede cooperazione istituzionale e confronto costruttivo fra le forze politiche rappresentate nelle Assemblee elettive perchĂŠ fondante di un sistema istituzionale condiviso di democrazia del bilancio e dei controlli ("governo misurabile").

VII


taccuino

Sette principi per ragionare. di televisione e democrazia di Marco Mele

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l sistema italiano delle comunicazioni ha bisogno di una legge di sistema e non da oggi. I fenomeni in atto, pur lontani dal quel progresso lineare e continuo che era loro accreditato, sono noti: diffusione delle tecnologie digitali nell'audiovisivo, frammentazione e specializzazione del consum9 e dell'offerta televisiva e radiofonica, globalizzazione delle imprese della comunicazione e articolazione della loro attività a livello locale. Ovviamente, il processo a lungo termine è quello della convergenza tra reti di telecomunicazione e, reti televisive, fisse e mobili in entrambi i casi. Gli obiettivi che il sistema Paese dovrebbe perseguire, per accrescere la competitività del nostro sistema della comunicaziòne nel contesto europeo e globale possono essere riassunti in sétte punti. Uno. Crescita della pluralità dei soggetti privati concorrenti nel settore televisivo (il pluralismo esterno chiesto dalla Corte costituzionale). Per avere, allo stesso tempo, più concorrenza e più pluralismo, nell'ottica del diritto all'informazione di ciascun cittadino. La concentrazione delle risorse, delle frequenze e dei diritti di trasmissione è un muro da abbattere se si vuole andare verso quest'obiettivo. . Due. Avere un serviziò pubblico a suà volta pluralista al proprio interno, sapendo ospitare tendenze, punti di vista, opinioni anche antagonisti tra loro in un contesto di' confronto e di tolleranza reciproca. Tale pluralismo non può essere ridotto ai tempi

L'Autore è giornalista del Sole 24 Ore. i


concessi ai partiti. Per fare questo, il servizio pubblico dev'essere autonomo dal potere politico e da interessi privati. Lo può fare solo se il proprio assetto societario e i criteri di nomina dei vertici garantiscano tale autonomia. Tre. Il sistema, a partire dal servizio pubblico, deve porsi all'avanguardia tecnologicamente: vanno respinte, nell'interesse generale, le ipotesi di dimagrimento o di riduzione dell'impegno della Rai nella sperimentazione delle tecnologie e nel possesso o controllo delle reti e dei canali di distribuzione. Il Centro Ricerche Rai di Torino ha un'importanza strategica per il Paese, per fare un esempio. Quattro. La produzione di contenuti (film, fiction, documentari, cartoni animati, cortometraggi, informazione) è strategica e va incentivata anche a livello fiscale e finanziario dallo Stato. Va altresì promossa e favorita la produzione in Italia d'audiovisivo, nazionale, europeo e americano, come avviene in gran parte dei Paesi europei e non solo. Cinecittà ha, a sua volta, un'importanza strategica per il Paese. Cinque. La classe politica deve avere un ruolo di governo e d'indirizzo per il sistema della comunicazione, senza entrare in logiche, finora prevalenti, di condizionamento degli assetti, del management e dei contenuti, in particolare per la Rai. Sei. Le Autorità di settore devono improntare la propria azione alla totale autonomia dagli interessi particolari degli operatori sotto il loro controllo. Il sistema di nomina lottizzatorio dell'Autorità per le comunicazioni va totalmente modificato, essendo alla base della debolezza dell'Autorità rispetto agli interessi forti del sistema tv. Sette. Le tv locali e la radiofonia sono segmenti non secondari e marginali del sistema, anche in una prospettiva federalista. Rispetto a tali obiettivi va analizzata e giudicata la legge Gasparri La legge e gli eventi che l'hanno seguita, dal rinvio alle Camere del Presiden- Gasparri te della Repubblica al susseguente decreto del Governo Berlusconi. 1)La legge Gasparri non è una legge di sistema. È imperniata sul sistema televisivo, trascura l'editoria e la revisione della relativa legge, non tiene conto della convergenza tra i media. 2) La legge non aiuta a superare le attuali concentrazioni del settore ma rischia di aumentarla, elevando ulteriormente le barriere d'ingresso nel settore. Sono abrogati - nel testo approvato 2


dal Parlamento prima del rinvio di Ciampi - tutti i limiti alle concessionarie di pubblicità, sia quelli della legge Maccanico del 1997 che quelli della Mammì del 1990. E' abrogato il limite del 30% delle risorse del sistema televisivo terrestre e di quello satellitare e a pagamento. Il famigerato Sic (Sistema Integrato delle Comunicazioni), senza paragoni in Europa, più che anticostituzionale è difficilmente calcolabile con precisione e permette ai soggetti più forti ulteriori margini di crescita, riducendo la competizione all'interno dei sottosistemi (se Publitalia entra nella radiofonia o nell'emittenza locale, ad esempio). La Gasparri non ha un limite per gli operatori di rete ma solo per i programmi veicolati dagli stessi operatori. Questo significa un ingresso nel sistema televisivo digitale condizionato e subalterno a Rai, Mediaset e Telecom Italia, agli editori indipendenti e agli editori tout court. Le norme sulla Rai sembrano tese a prolungare nel tempo il controllo del Tesoro nel capitale sociale dell'azienda pubblica - che andrebbe trasferito ad un soggetto neutro, fondazione o altro - e a reinserire la lottizzazione d'antica memoria nelle nomine dei vertici, affidate alla Vigilanza e al Governo. Un presidente di garanzia in minoranza nel proprio Cda non può far altro che l'opposizione interna al direttore generale e alla maggioranza dél consiglio, a scapito della rappresentatività e dell'efficacia dell'intero vertice. In questo scenario, il modello di privatizzazione scelto, più che ad una public company, fa pensare ad una company pubblica, dei partiti. Ilcanone Rai, per non essere delegittimato, va finalizzato a precisi impegni del servizio pubblico: nella ricerca, nella sperimentazione di nuove forme d'alfabetizzazione multimediale, nella produzione nazionale d'audiovisivo (senza quote, possibilmente), nella crescita della cultura della partecipazione a distanza e della democrazia elettronica, nella ricerca di programmi che provino sempre a superare il livello della semplice caccia all'audience (talvolta controproducente, tra l'altro). Per tali impegni, il servizio pubblico non può essere delocalizzato rete per rete e il canone non può finanziare tale delocalizzazione, come si immagina nella Gasparri. Vanno potenziati e resi competitivi, invece, anche a livello di costi, per essere sul mercato, i Centri di Produzione, aprendone uno in Sicilia. 3


La legge Gasparri viene spacciata per futurista nel disegnare chissà quali orizzonti per il sistema tv nel digitale terrestre. Va dato atto allo stesso Gasparri di aver giocato molto bene, tatticamente, la carte dell'innovazione tecnologica che cambia il mondo". Tuttavia, senza entrare in specialismi tecnici, la promessa moltiplicazione degli operatori e dei programmi sarà vanificata dall'attuale occupazione delle frequenze da parte delle tv analogiche, che la legge legittimerà e protrarrà nell'articolo 23, anche alle emittenti senza alcun titolo. I multipiex saranno pochi e l'aumento del pluralismo sarà costituito da dieci-venti canali di nicchia, che non faranno concorrenza a quelli di Rai e Mediaset. Il basso costo dei decodere la mancata chiarezza sul fatto che con quelli digitali terrestri, al momento attuale, non si riceve la pay tv e il calcio in primo luogo, potrebbero favorire un minimo di diffusione. Poi, bisognerà vedere l'uso effettivo di tali decoder. La legge Gasparri ribadisce la liquidazione del Piano delle frequenze analogiche già avviata dal centro-sinistra con la legge 66 del 2001. Le frequenze, un bene pubblico, non sono mai staté assegnate ma occupate e rivendute abusivamente. È così possibile che un concessionario come Europa 7 non trovi indicate le frequenze nel decreto di concessione ad usare quelle frequenze. Quello di Europa 7 è uno scandalo nazionale che l'Unione Europea dovrebbe mettere all'indice: chi ha vinto una gara si trova nell'impossibilità di operare e aumentare concorrénza e pluralismo. Centro-sinistra e centro-destra, nei fatti, hanno teso e tendono nella loro cultura legislativa verso un preciso obiettivo: prima di tutto, salvaguardare l'esistente. I motivi sono facilmente intuibili e non c'è bisogno di sottolinearli. Il conflitto d'interessi ha condizionato tutta l'attività del Governo in questo settore, a partire dalla Gasparri pei arrivare alla modifica della par condicio favorevole ai grandi partiti e al ritorno degli spot elettorali. L'opposizione, tuttavia, è lontana dal contrapporre una proposta di sistema che faccia propri gli interessi alla crescita del sistema nazionale delle comunicazioni, assumendo una filosofia e un comportamento che premino sul serio professionalità, neutralità, tecnologie avanzate, mercato concorrenziale e pluralismo delle voci e delle espressioni. ' 6

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L'italia verso la "democrazia paritaria"? di Tommaso Edoardo Frosini

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stata approvata, alla fine di febbraio 2003, una nuova modifica costituzionale. Si tratta di una integrazione all'art.51, che adesso, nel suo primo comma, recita così: "Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglian-' za, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A talfine la Repubbli-

ca promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini'. È questa una modifica-integrazione della Costituzione, predisposta al fine di dare copertura costituzionale a tutti quei provvedimenti legislativi ed amministrativi, con i quali si volessero garantire forme di paritaria partecipazione tra donne e uomini, in particolare alla designazione di cariche elettive. E questo perché la presenza delle donne, nelle, istituzioni è assai scarsa; specialmente nelle istituzioni politiche rappresentative (Parlamento, cònsigli comunali e regionali), le donne costituiscono una percentuale molto, troppo bassa. Per riferirci al solo Parlamento, nelle elezioni del maggio 2001 sono state elette 64 donne alla Camera e 24 al Senato: 88 donne su 945 parlamentari per una percentuale deI 9,2 per cento. È giusto il fatto che vi siano così poche donne nelk istituzioni rappresentative, tenendo anche conto che le donne costituiscono la maggioranza della popolazione? C'è da dire che non sono mancati in passato tentativi volti a I tentativi consentire una maggiore presenza delle donne nelle assemblee precedenti elettive. Infatti, alcune norme contenute nella legge n.81 del 1993 - relativa all'elezione diretta del sindaco - introducevano un criterio di proporzione tra i due sessi nella composizione delle liste dei candidati alle elezioni dei consigli comunali, stabilen-

UAutore è Straordinario di Diritto Pubblico Comparato nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari.


do che nei Comuni con popolazione fino ed oltre i 15.000 abitanti nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato in misura superiore ai tre quarti (nel primo caso) ed ai due terzi (nel secondo caso) dei consiglieri assegnati. E poi, anche una norma della legge n. 277 del 1993, relativa all'elezione della Camera dei deputati, disponeva che le liste presentate ai fini dell'attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, ove recassero più di un nome, fossero formate da candidati e candidate in ordine alternato. Sulle norme della prima legge ricordata, e poi a cascata anche su quella della seconda, è intervenuta, còn sentenza censoria, la Corte costituzionale. Infatti, con decisione n. 422 del 1995, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale delle norme succitate perché in contrasto con gli articoli 3 e 51 della Costituzione, in quanto ritenuti essere in violazione del principio di eguaglianza formale e sostanziale. Il ragionamento condotto dalla Corte - sulla scia di altre pronunce di Corti costituzionali straniere, come quella francese e quella americana è semplice nella sua essenzialità: favorire il genere femminile nella possibilità di accesso alle cariche elettive, vuoi dire compiere una discriminazione nei confronti del genere maschile e quindi violare il principio di eguaglianza, in particolare nel suo principio fondamentale di cui all'articolo 3 della Costituzione, secondo cui "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso....". Il giudice costituzionale è poi intervenuto più pesantemente - diciamo così - sui problema affermando, che "misure quali quella in esame (cioè gli interventi legislativi a favore delle donne) si pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio supremo della nostra Repubblica". C'è anche da dire però, che la Corte si è mostrata consapevole del fenomeno della scarsa partecipazione femminile nell'accesso alle cariche elettive, tant'è che ha avveztito l'esigenza di richiamare, in un passo della sentenza, una risoluzione del Parlamento europeo n. 169 del 1988, nella quale si invitavano i partiti politici a stabilire quote di riserva per le candidature femminili. La Corte, però, è stata molto attenta a precisare che: "è significativo che l'appello sia stato in6


dirizzato ai partiti politici e non ai governi e ai parlamenti nazionali, riconoscendo così, in questo campo, l'impraticabilità della via di soluzioni legislative". Come a dire: il problema della sottorappresentazione del genere femminile nelle istituzioni esiste di fatto, ma va risolto a livello politico; ovvero va risolto per il tramite di scelte che competono ai partiti politici, i quali debbono valutare e vagliare al loro interno le candidature alle elezioni cercando di privilegiare e valorizzare la componente femminile. Nulla da fare, invece, per un intervento legislativo. Di fronte alla sentenza della Corte costituzionale prima ricordata, infatti, qualsiasi altro intervento legislativo volto a favorire la possibilità di accesso alle cariche elettive per il genere femminile sarebbe risultato vano, perché soggetto a censura di costituzionalità. E poco ci sarebbe da sperare in un ripensamento del giudice costituzionale, nonostante siano trascorsi sette anni dal pronunciamento. A questo punto, allora, può essere interessante raccontare cosa Il caso della è accaduto in Francia, dove si era venuta a creare una situazione Francia analoga alla nostra e che adesso è stata definitivamente superata. In Francia è da tempo che cerca di affermarsi, a livello istituzionale, la démocratie paritarie (la cosiddetta democrazia paritaria"), che risponde alla logica secondo la quale la battaglia per la parità dei sessi è una lotta per la democrazia; perché una democrazia senza l'effettiva partecipazione delle donne alla politica deve ritenersi "incompiuta". A tale proposito, già nel 1982, venne proposto di modificare con legge il Code electorah prevedendo una riforma delle modalità di elezione dei Consiglieri municipali, obbligando a non indicare nelle liste più del 75% di candidati dello stesso sesso. Il Consiglio costituzionale, investito della questione prima della promulgazione della legge stessa (secondo il controllo di costituzionalità vigente in Francia, che è preventivo rispetto all'entrata in vigore di una legge), ne dichiarò l'incostituzionalità perché in violazione del combinato disposto dell'articolo 3 della Costituzione e l'articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 (che è considerata parametro per le pronunce costituzionali): ovvero, da una parte il principio della sovranità popolare, secondo cui '6

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sono elettori tutti i cittadini francesi (maggiorenni) di entrambi i sessi che godano dei diritti civili e politici; dall'altra parte, il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che devono essere ammessi senza forma alcuna di discriminazione a posti e impieghi pubblici in base ad un criteriò esclusivamente meritocratico. Sùccessivamente, il legislatore, nel 1998, ritentò di approvare una legge che introduceva non solo una quota di riserva elettorale a favore delle donne ma anche il principio della perfetta parità tra i sessi. E ancora una volta il Consiglio costituzionale, con sentenza del gennaio 1999, bocciò la legge; adoperando le stesse argomentazioni di oltre quindici anni prima: Allora: l'unico modo per superare l'ostacolo del Consiglio costituzionale era soltanto quello di una riforma di rango costituzionale, che desse copertura all'introduzione di idonee azioni positive nella disciplina elettorale. Pertanto, per risolvere un'anomalia ritenuta non più accettabile - la sottorappresentazione delle donne nelle assemblee politiche elettive - si decise di modificare la Costituzione. E così fu. L'8 luglio 1999 il Parlamento francese ha approvato, a larghissima maggioranza, la legge costituzionale n. 99-569. Si è provveduto così ad introdurre un comma finale all'articolo 3, che recita: "La legge favorisce l'uguale accesso delle donne e degli uomini ai mandati elettorali ed alle funzioni elettive"; mentre all'articolo 4 della Costituzione è stato previsto che: "Essi (i partiti politici) contribuiscono all'attuazione del principiO enunciato all'ultimo comma dell'articolo 3 alle condizioni stabilite dalla legge". Sulla base di questa innovazione costituzionale si è potuto così approvare la legge n.200-493 del 6 giugno 2000 modificativa delle norme concernenti la presentazione delle liste elettorali, che prevede misure differenti a seconda del sistema elettorale di riferimento. Questo è un aspetto molto interessante, che qui non approfondisco ma sul quale richiamo la vostra attenzione. Cioè le formè di sostegno per favorire l'accesso delle donne alle cariche elettive devono passare anche attraverso le tecnicalities elettorali; e quindi la presenza femminile nella competizione elettorale deve essere determinata a seconda del sistema elettorale vigente in quella specifica elezione. Pensate che da noi in Italia, ogni elezione ha il suo sistema elettorale: per Camera e Sena8


to funziona in un modo, per i Consigli comunali e provinciali in un altro modo, per i Consigli regionali in un altro modo ancora; e quest'ultimo è adesso prerogativa di ogni Regione, perciò ci potranno essere tanti sistemi elettorali quante sono le Regioni. C'è peraltro dadire che la vicenda francese, e la soluzione alla ... e quello di quale sono lì giunti, non è affatto isolata nel panorama europeo. altri Paesi Voglio ricordare soltanto la modifica dell'articolo 109 della Costituzione portoghese, avvenuta prima di quella francese• e cioè nel 1997, il quale così recita: La partecipazione diretta e attiva di uomini e donne alla vita politica costituisce condizione e strumento fondamentale e consolidamento del sistema democratico, dovendo la legge promuovere l'uguaglianza nell'esercizio dei diritti civili e politici e la non discriminazione in funzione del sesso nell'accesso alle cariche politiche". E poi va altresì ricordata la legge elettorale belga che stabilisce una quota per le donne, approvata prima di provvedere ad una modifia costituzionale, che appareprossima. Infine: c'è da registrare il favor dell'Unione europea per l'aumento della presenza femminile ne- La carta di gli organi decisionali, e in generale in tutti i. settori della vita so- Nizza ciale, sulla base di quanto previsto anche, e da ultimo, nell'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali, approvata a Nizza alla fine del 2000, dove si stabilisce che: "la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore delsesso sottorappresentato". Si tratta del riconoscimento definitivo di come, anche a livello comunitario, il principio di parità cerchi un nuovo approdo nei diritti politici. . '6

11 nuovo Comunque, la lezione che ci viene dalla vicenda francese è la seguente: se si vuole introdurre un principio di "incentivazione" dettato per la rappresentanza femminile nelle istituzioni, e particolar- cottituzionale mente nelle cariche elettive, bisogna cambiare la Costituzione. Ecco, allora, la necessità di modificare la Costituzione, addivenendo ad una integrazione dell'art.5 i della stessa. Con la previ9


sione della nuova formula costituzionale, che "la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini", si è così data copertura costituzionale a tutte quelle future norme elettorali nelle quali venissero garantite, in modo eguale a entrambi i sessi, condizioni pari di accesso alle cariche elettive, vale a dire un'eguaglianza dei punti di partenza. In tal modo, le future norme non sarebbero assimilabili alle "azioni positive" (cioè norme dirette a favorire le donne attribuendo ad esse vantaggi speciali e diversi), ma piuttosto sarebbero norme con funzione antidiscriminatoria, miranti cioè a regolare in modo eguale la posizione di donne e uomini. Quindi: norme dirette a promuovere l'eguaglianza di chances e non misure rivolte a raggiungere direttamente il risultato (come, per esempio, garantire dei seggi parlamentari alle donne). Questa ci sembra essere la corretta interpretazione del nuovo dettato costituzionale. A dare man forte a questa interpretazione, prima ancora che venisse approvata la novella costituzionale, è stata la Corte costituzionale in una recente sentenza (la n.49 del 2003). Infatti, la Corte ha giudicato costituzionalmente legittima la norma della legge elettorale per il Consiglio regionale della Valle d'Aosta, che prevede l'obbligo di comporre le liste elettorali in maniera paritana per entrambi i sessi. E la costituzionalità di questa norma è garantita dalla legge costituzionale (n.2 del 2001), che ha modificato gli statuti delle Regioni speciali prevedendo, tra l'altro, che la legge regionale "promuove condizioni di parità per l'accesso alle consukazioni elettorali" (in tal senso, sarebbe semmai illegittima quella legge elettorale Regionale che non tenesse conto della disposizione statutaria). Così come per le Regioni ordinarie il nuovo testo dell'art. 117 Cost. assegna alle leggi regionali il compito di "promuovere la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive". Stante la situazione che si è venuta a determinare,, con le inno- I problemi vazioni costituzionali che incidono sia a livello nazionale che re- aperti gionale, parrebbe che non vi possa essere piìt nessun problema per l'accesso di entrambi i sessi alle stesse condizioni di eleggibilità. Però, un dubbio rimane. Ed è quello che emerge dal raf-

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fronto fra la norma riservata alle Regioni speciali (e quindi costituzionalizzata) e quella prevista nel nuovo art. 51 della Costituzione. Come mai si sono usate espressioni differenziate? Laddove per le Regioni si è scritto "parità di accesso" mentre in Costituzione si è indicato "pari opportunità": è proprio la stessa cosa? Ancora: alle Regioni si è chiaramente individuata nell'atto fonte "legge regionale" la regolazione della parità di accesso, in Costituzione, invece, si è indicato più genericamente degli "appositi provvedimenti" (amministrativi? legislativi? oppure entrambi?). Un altro problema poi, che qui possiamo solo accennare. Come rendere paritarie le candidature nelle elezioni per Camera e Senato, considerato che il sistema elettorale prevede due formule, ovvero quella maggioritaria (per il 75% dei seggi) e quella proporzionale (per il restante 25%)? Per la parte proporzionale, basata sulle liste di partito, è facile: si alternano i candidati di entrambi i sessi. Più difficile è per la parte maggioritaria, che è contraddistinta dai collegi uninominali. Una soluzione potrebbe essere quella di prevedere che ogni coalizione esprima candidature, che siano complessivamente per metà maschili e per l'altra metà femminili in tutti i collegi uninominali. Altro problema relativo all'accesso delle cariche elettive con "pari opportunità", potrebbe sorgere con riferimento agli organi monocratici eletti a suffragio universale. Quindi, sindaci e presidenti di Provincia, ma anche presidenti di Regione, qualora lo statuto dovesse prevedere l'elezione diretta. Come bilanciare le pari opportunità nella selezione delle candidature per la guida degli esecutivi locali? Se il criterio delle "pari opportunità", secondo la nuova disposizione costituzionale, vale per le cariche elettive, queste sono da intendersi sia per gli organi collegiali che monocratici, ovvero per tutte le forme di rappresentanza su base elettiva. Cosa diversa sono le nomine: non ritengo applicabile il criterio delle "pari opportunità" per quanto riguarda le nomine dei consigli di amministrazione (p.es. la Rai, come qualcuna ha lamentato) oppure delle Autorità indipendenti. In questi casi, infatti, la scelta avviene sulla base delle valutazioni discrezionali del soggetto nominante, il quale deve tener conto soltanto del requisito di specifiche competenze professionali come richiesto dalla legge. 11


Comunque, e per tornare ai provvedimenti elettorali, la prima Siamo alla riforma legislativa da fare, che possa così fungere anche da "apri- democrazia pista", è quella sulla legge elettorale per il Parlamento europeo. paritarla? Perché prevede un sistema proporzionale puro basato su liste di partito e voto di preferenza, e quindi un contesto entro il quale è facilmente introducibile una distribuzione paritaria fra le candidature maschili e femminili, pena la irricevibilità delle liste oppure una forte sanzione pecuniaria (riducendo sostanziosamente la quota dei rimborsi elettorali). Certo, non è soltanto un problema di tecnicalities. elettorali. Gli "appositi provvedimenti", di cui parla adesso l'art.5 1 Cost., potrebbero altresì essere anche ; degli incentivi di natura finanziaria rivolti a favorire le candidature femminili, oppure deroghe alla parità di trattamento quanto all'accesso ai mezzi di informazione per assicurare alle donne candidate una maggiore visibilità. Si potrebbe, inoltre, pensare all'incentivazione delle elezioni primarie, e quindi alla regolazione giuridica dei partiti politici con l'obbligo statutario degli stessi di prevedere forme di cooptazione delle donne. In Francia - come già ricordato - tutto questo è già avvenuto, a cominciare dalla modificacostituzionale e poi delle leggi elettorali. Tutto ciò ha portato a quella che i francesi chiamano la démocratieparitarie. Anche l'Italia si è veramente avviata su questa strada?

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Come investono le fondazioni di origine bancaria

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di origine bancaria vivono un momento particolare. Hanno sue fo ndzioni a perato la prova della Corte costituzionale avendo ottenuto il pieno riconoscimento della natura di enti privati con piena autonomia statutaria e gestionale che la legge Finanziaria per l'anno 2002 aveva seriamente minato. Una vittoria del genere non è senza conseguenze sul comportamento stesso delle fondazioni e sulla loro responsabilità di primari agenti sociali. Dovrebbe costituire la pietra miliare da cui muovere per una definitiva presa di coscienza del proprio ruolo e, dunque, per una riflessione approfondita di tipo strategico. Naturalmente, ciò non può essere richiesto al complesso delle fondazioni ma a ciascuna di loro. Forse qualcuna è già avanti su questa strada, ma il mondo delle fondazioni nel suo complesso è probabilmente indietro. Intanto, stanno per scadere, in quasi tutte le fondazioni, tutti gli organi costituiti dopo la legislazione del 1998-99 e ciò porterà a ritardare che vengano a maturazione gli effetti della vittoria in Corte costituzionale. D'altra parte, l'abilità del Ministro dell'Economia e del Direttore del Tesoro ha trasformato una sconfitta davanti ai giudici delle leggi in una manna provvidenziale: dovendo trasformare in società per azioni la Cassa Depositi e Prestiti (la trasformazione di questa era da tempo un passaggio maturo) ci si è accorti di avere ('in casa", cioè tra le fondazioni vigilate, quei soggetti privati di cui si aveva bisogno per fare una Spa con veri azionisti privati, come richiesto da regole comunitarie, per far uscire la CDP dalla Pubblica Amministrazione (passaggio obbligato della manovra finanziaria). Le fondazioni, garantite da buone clausole riguardo al loro investimento azionario, hanno nella gran maggioranza accettato di far parte dell'azionariato della Cassa Depositi e Prestiti Spa, sia pure nel singolare contesto di un rapporto con il Tesoro che vede l'organo di vigilanza delle fondazioni e le fondazioni vigilate come azionisti di una medesima Società. L'operazione avrà sviluppi che sono tutti da disegnare. L'obbligata frettolosità dell'operazione fin qui condotta verrà recuperata - come sancisce un decreto ministeriale - nel corso del 2004. La partita della trasformazione della CDP è tutta ancora da giocare e sarà necessario tornarci. In questa situazione rischia, però, di perdersi - almeno parzialmente - la portata della vittoria giurisdizionale. Portata, comunque non bene intesa da alcuni osservatori. Anzi, sulla base di qualche malinteso si è aperto - sulle pagine di "Il Sole-24 Ore" dell'ottobre scorso - un dibattito sul tema "come investono le fondazioni" che qui riportiamo. Beninteso il tema è di quelli centrali. Il rapido dibattito giornalistico ha bisogno di un seguito approfondito. Cercheremo di sollecitarlo. 13


Ma ora gli enti si comportino da investitori di Marco Onado

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el gioco dell'oca delle fondazioni bancarie, la sentenza della Corte Costituzionale riporta indietro le pedine di parecchie caselle. Nel frattempo, emergono quasi ogni giorno dati e informazioni che dimostrano come questi enti, a oltre dieci anni dalla loro nascita, siano ancora ben lungi dall'aver decisò "cosa vogliono fare da grandi" e dall'aver dato indirizzi efficienti e trasparenti alla propria politica di investimento del patrimonio. L'Osservatorio italiano sulla gestione del patrimonio degli investitori istituzionali (Oigepi 2003), pubblicato in questi giorni, mette in evidenza alcuni aspetti che meritano di essere guardati con preoccupazione. In primo luogo, per le 10 fondazioni intervistate (in cui sono rappresentate tutte le classi dimensionali), le partecipazioni nelle banche conferitarie rappresentano ancora il 44% del patrimonio complessivo. Un dato superiore a quello medio del sistema rilevato nel rapporto Acri. È un valore che, oltre che esprimere un attaccamento quasi morboso per le loro origini (possibile che non abbiano letto nulla di Edipo e di Freud?) trascina con sé una serie di ulteriori aspetti problematici. La piìi grave dal punto di vista delle politiche di investimento è che l'altra metà del portafoglio è investita quasi esclusivamente in obbligazioni, con orizzonti temporali relativamente brevi, comunque non diversi dalle altre categorie considerate nella ricerca. Il risultato è che operatori di tale importanza offrono un contributo tutto sommato modesto all'irrobustimento del nostro mercato finanziario. Anche le modalità di gestione presentano numerosi punti critici in termini di trasparenza ed efficienza. Risulta, infatti, che è ancora limitato il ricorso a gestori esterni, i quali poi sono tali fino a un certo punto, perché appartenenti spesso allo stesso gruppo

L'Autore è Docente di Scienze Economiche, Università di Bologna. 14


della banca conferitaria. La maggior parte degli intervistati afferma di misurare la performance dei gestori soprattutto sulla base del rendimento complessivo (il che è bene); di usare raramente indicatori di performance aggiustati per il rischio (il che è male, come sa qualsiasi studente del primo corso di finanza) e di non utilizzare i metodi internazionali di misurazione delle performance e questo è francamente clamoroso perché in campo internazionale l'adozione di standard di questo tipo è la base fondamentale per un rapporto trasparente fra mandanti e gestori e per evitare che qualcuno fra i secondi cada nella tentazione di ricorrere a tecniche di contabilità finanziaria creativa7. Si è sempre detto che le fondazioni sono investitori diversi da tutti gli altri, perché hanno un patrimonio che non è stato affidato da nessuno, se non dal fatto straordinario della legge Amato e perché non hanno ancora un vero sistema di accountability, né su come gestiscono il patrimonio né su come impiegano i proventi del patrimonio stesso. L'indagine riportata dimostra che, da questo secondo punto di vista, esse sono incapaci di raggiungere spontaneamente una condizione efficiente per sé stesse e per le comunità in cui operano. Proprio per questo motivo, appare necessario che le linee di indirizzo del Ministero dell'Economia che la sentenza della Corte ha ritenuto legittime e necessarie siano molto esplicite in materia. Occorre, in primo luogo, vincolare definitivamente la scelta a strumenti finanziari. Ad esempio, le ipotesi spesso circolate di intervento delle fondazioni nel campo delle infrastrutture rischiano di aprire un contenzioso non meno delicato di quello derivante dalle partecipazioni bancarie. Se una fondazione ritiene che una determinata opera pubblica sia essenziale per lo sviluppo dell'economia locale, può benissimo intervenire mediante erogazioni, con contributi a fondo perduto che aumentino la convenienza e la fattibilità dell'intervento dei privati. È questa la logica del project financing che si vuole sviluppare. Ma è totalmente fuori luogo che si trasformino in banche impiegando direttamente in prestiti o altra forma il proprio patrimonio. Sempre all'interno di queste linee di indirizzo è utile vincolare una quota a investimenti in strumenti di private equity (gestiti da terzi) perché è questo lo strumento finanziario fondamentale di '6

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crescita delle piccole e medie imprese e di distretti in cui esse operano. In secondo luogo, il patrimonio non investito in azioni della banca conferitaria deve essere affidato a gestori terzi, con precisi obblighi di verifica e controllo e ricorso obbligatorio a standard internazionali. Il disegno originario del ministro Tremonti conteneva anche questa interessante innovazione (i cui dettagli non sono mai stati definiti) che deve assolutamente essere ripresa perché è garanzia fondamentale di trasparenza. Le fondazioni sono l'unico investitore a lungo termine del nostro Paese, almeno fino a quando non matureranno i fondi pensione (campa cavallo, direbbe qualcuno). Il piccolo particolare è. che non hanno nessuna voglia di ricoprire questo ruolo e pendono pericolosamente verso altri mestieri che diano loro l'illusione di un intervento più diretto (e con peso politico immediato più forte) nella società locale. Questa tentazione può essere evitata solo dai poteri di coordinamento di indirizzo che la sentenza della Corte ha riconosciuto. È tempo di passare dalle polemiche ai fatti.

Il Sole 24 Ore, 10 ottbre 2003

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I nuovi atti dell'Economia devono maturare in un clima "formativo" di Sergio Ristuccia

econdo Marco Onado, economista di valore e persona che chi scrive stima molto personalmente, le sentenze della Corte costituzionale sulle «fondazioni di origine bancaria" riportano indietro le pedine di parecchie caselle. "nel gioco dell'oca delle fondazioni bancarie". Vuol dire che riportano ai principi e all'impianto originario? Non credo che sia questo il significato di un'osservazione palesemente critica nei confronti delle sentenze. Il disappunto di Onado parte dalla lettura, non tanto delle sentenze quanto di un rapporto sulla gestione degli investitori istituzionali dove si riferisce sull'inchiesta condotta su dieci fondazioni, fra le quali sno rappresentate tutte le classi dimensionali. Per un 'momento lascio da parte il merito di questa indagine, sul quale tornerò. Mi basta osservare che, per grave che sia il quadro disegnato dal rapporto, ha ben poco senso, su questa base, esprimere sostanziale disillusione e critica nei confronti delle sentenze. Assumiamo, comunque, che le politiche di investimento delle fondazioni sianò povere. Come riparare? Onado' invoca al riguardo la pronta definizione delle linee di indirizzo da parte del Ministero dell'Economia. Mi potrei associare in pieno. Alcune indicazioni di Onado sno discutibili ma per' la maggioranza possono essere condivise. Credo, tuttavia, che ci sia una certa differenza fra quello che l'amico èconomista intende per linee di indirizzo e quel che io ricavo dalle sentenze della Corte costituzionale. Pare, comunque, chiaro che secondo l'autorè gli atti di indirizzo e di coordinamento, certo confermati dalla Corte, abbiano valore vincolante. Ma è proprio quello che la Corte ha smentito. ' Da una parte, 'per quanto riguarda 'il potere di emanare regolamenti, la Corte afferma che "il potere di modificare, con regola-

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Il Sole 24 Ore, 14 ottobre , 2003 17


mento la legge in qualsiasi direzione, per 'di più senza indicazione di criteri, compatibili con la natura privata delle fondazioni e con la loro autonomia statutaria, idonei a circoscriverne la discrezionalità, viola i parametri costituzionali". Dall'altra parte, per quanto riguarda i poteri di indirizzo che non si traducono in un regolamento, la Corte precisa che gli indirizzi generali fissati non devono essere disposizioni da rispettare perché cogenti, ma parametri del potere di controllo di cui doverosamente tenere conto. Il che significa che occorre emanare linee di indirizzo, anche con qualche dettaglio, ma sapendo che i destinatari - pur avendo l'obbligo di tenerne conto - possono motivatamente discostarsene. Ciò in realtà suggerisce che agli atti di indirizzo si arrivi dopo approfondita, rapida ma paziente consultazione delle fondazioni, con effetti benefici di interazione formativa, per gli enti stessi e per l'Autorità di vigilanza. Ci vogliono in ogni caso alcune idee chiare e condivise: quelle, innanzitutto, affermate dalla Corte costituzionale. Torno, per finire, al quadro delle prassi di investimento patrimoniale tracciato da Onado. Come membro dell'organo di indirizzo della Compagnia di San Paolo non mi ci ritrovo, almeno circa le modalità di gestione. I gestori sono esterni e non sono soltanto del gruppo bancario di origine. Per valutare, ex ante ed ex post in modo indipendente, la gestione conosco l'operare di advisor specializzati. L'organo di indirizzo dedica e pretende attenzione alla politica di investimento sulla base di "report" periodici. Si dirà: una rondine non fa primavera. Ma che dire di considerazioni generali tratte da un'indagine su dieci fondazioni quando l'universo è di 89, tutto sommato ben raggiungibile attraverso un'autorità di vigilanza che abbia voglia di farlo sulla base di un forte spirito di cooperazione? E poi le evidenze raccolte nel rapporto sui comportamenti di investimento riguardano soltanto le fondazioni di origine bancaria o, invece, tutti o gran parte degli investitori istituzionali? Forse la politica di investimento delle fondazioni è troppo conservativa, potrebbe aprirsi all'uso di strumenti finanziari diversi dalle semplici obbligazioni, ma l'obbligo di salvaguardia del patrimonio per le fondazioni prioritario. Contribuire all'irrobustimento del mercato finanziario può anche essere una sfida ma non è un compito primario delle fondazioni di origine bancaria. 18


Le fondazioni sono in grado di gestire di Mario Comana

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a gestione finanziaria delle fondazioni di origine bancaria è stata analizzata, insieme a quella di altri investitori, dal rapporto Oigepi 2003. In un commento a tale rapporto, è stata rilevata l'inadeguatezza delle modalità con cui le fondazioni operano in questo settore e si è suggerito di introdurre l'obbligo di affidarle a gestori esterni. La mia opinione, maturata anche operando sul campo, è diversa. Incominciamo dal fondo, l'obbligatorietà dell'affidamento all'esterno delle gestioni. È sicuramente molto opportuno, direi doveroso, che i patrimoni delle fondazioni siano in mani esperte, dotate dei necessari strumenti di analisi dei mercati e di intervento operativo, ma questo deve derivare dalla consapevolezza degli organi amministrativi e non dal vincolo legislativo. Specialmente dopo la sentenza della Corte costituzionale, oltre a una ritrosia personale verso l'estensione di previsioni normative così invasive, ho anche molti dubbi di legittimità. Al di là della prospettiva di obblighi o indirizzi più o meno coercitivi, occorre entrare nel merito delle scelte di gestione evidenziate da rapporto. Esse riguardano: la quota affidata all'esterno, che sarebbe esigua o comunque insufficiente, 1 'assett aiocation che privilegerebbe l'obbligazionario.a breve termine, le modalità di verifica dell'andamento délle gestioni. Intanto, devo dire che la rappresentazione della gestione finanziaria delle fondazioni, così come risulta dal citato rapporto, è poco convincente. In realtà, l'analisi si riferisce a un gruppo di investitori istituzionali di cui le fondazioni rappresentano un nucleo minoritario e l'analisi è indistinta per la maggior parte delle risposte qualitative. L'estensione dei risultati di quell'indagine all'universo delle fondazioni dovrebbé essere fatta con cautela. Ragioniamo, comunque, come se la diagnosi fosse corretta.

L'Autore è Ordinario di Tecnica Bancaria presso la Luiss Guido Carli, Roma. 19


Sul primo dei punti evidenziati vorrei riportare la mia sensazione, supportata da alcuni riscontri empirici, che negli ultimi anni le fondazioni abbiano addirittura ridotto la quota affidata all'esterno a motivo dell'insoddisfazione registrata nei confronti di questa modalità di impiego. Chi vive vicino a questo mondo sa immaginare almeno due casi, fra i maggiori, in cui ciò si è verificato. Tuttavia, è innegabile che sarebbe a dir poco presuntuoso che una fondazione aspirasse a dotarsi di una struttura affidabile quanto quella di un buon gestore esterno. I costi relativi sarebbero insopportabili o almeno ingiustificati. La missione di una fondazione è offrire al territorio di competenza contributi ed erogazioni resi pòssibili dal frutto del patrimonio. Dunque, è da accogliere l'invito ad avvalersi delle migliori strutture esterne, ma non si può còndividere che sia obbligatorio. In secondo luogo, l'asset allocation delle fondazioni sarebbe eccessivamente prudente, fondata soprattutto sull'obbligazionario a breve termine. Due osservazioni: la composizione complessiva del patrimonio e il timing. Il primo elemento va letto tenendo presente che, in media, l'asset class dell'azionario copre già il 34% del totale con la partecipazione nella conferitaria, come risulta dall'ultimo rapporto dell'Acri. La riduzione della volatilità sulla rimanente parte del patrimonio appare, quindi, del tutto ragionevole. Inoltre, bisogna considerare che le fondazioni hanno proceduto ad allestire la propria struttura finanziaria negli uitimi tre o quattro anni e, quindi, risulta sensata la scelta di timing di posporre l'attivazione degli investimenti azionari in un momento in cui le performance erano fortemente negative. Infine, le strutture organizzative e le modalità di relazione con gli investitori. Sotto .questo profilo è da condividere l'esigenza di un significativo salto di qualità per la maggior parte delle fondazioni, soprattutto quelle piccole e medie, senza perdere di vista la necessaria correlazione fra i costi della struttura, e la dimensione del patrimonio investito. È giusto sollecitare un maggior ricorso alle più moderne tecniche di analisi e di verifica delle scelte di investimento, delle performance, dell'applicazione delle commissioni e di selezione e controllo degli investitori esterni, cosa che può essere fatta anche mediante l'ausilio di consulenti indipendenti, in affianca20


mento o in sostituzione della struttura interna. È il modo per rispondere adeguatamente agli attuali criteri normativi che impongono, correttamente, prudenza, diversificazione e adeguatezza organizzativa nella gestione mobiliare. Credo che quest'ultimo sia il punto centrale. Se le fondazioni conseguono, come alcune hanno già conseguito, un corretto assetto organizzativo, sempre tenendo conto delle dimensioni del capitale disponibile, ne discenderanno canoni di investimento più corretti, gradi di rischio contenuti pur in presenza di rendimenti attesi più alti, forme di collocamento più efficaci ai fini dello sviluppo finanziario del Paese come, per esempio, il private equity ecc. L'auspicio formulato da Marco Onado, nel commento all'indagine, che le- fondazioni si comportino da investitori istituzionali moderni ed efficienti è assolutamente da condividere. Sui modi per raggiungere l'obbiettivo si possono avere visioni diverse; che escludano ulteriori interventi normativi.

MF, 14 ottobre 2003

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Fondazioni, sono troppi gli abbracci in banca di Marco Onado

Nel solito dilemma fra il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, quello che mi divide dal professor Sergio Ristuccia (vedi Il Sole-24 Ore del 14 ottobre scorso) è fondamentalmente una questione di percezione, non di merito e ciò non può che rallegrarmi, perché sarei fortemente imbarazzato a trovarmi in disaccordo con un collega così autorevole e a dover ribattere ad una critica espressa con tanta cortese eleganza. Vediamo perché. Primo: affermando che si tornava indietro di parecchie caselle non volevo esprimere nei confronti della sentenza una critica (che non mi sembra desumibile dal testo se non per l'accenno ad un gioco, quello dell'oca, fanciullescamente innocente). Sostiene Ristuccia che si è fatto finalmente chiarezza sulla natura privata e sull'indipendenza delle fondazioni (bicchiere mezzo pieno). Osservavo che le ultime controversie hanno fatto perdere tempo e, dunque, si è tornati indietro (bicchiere mezzo vuoto). Il punto centrale del mio intervento riguardava contenuti, obiettivi e criteri delle politiche di investimento delle fondazioni, quali risultano - oltre che dal dibattito corrente - da una approfondita ricerca sugli investitori istituzionali italiani, condotta sotto la supervisione scientifica di stimati colleghi dell'Università Cattolica. Un campione di dieci fondazioni non sarà il massimo della vita, ma non si può negare che consenta (essendo in esse rappresentate molti dei grandi soggetti) di trarre qualche generalizzazione utile al dibattito, anche se al prezzo di moltiplicare il gioco dei bicchieri. Sostiene Ristuccia che le fondazioni hanno realizzato politiche di investimento ideali, in cui il controllo delle banche è l'ultima delle preoccupazioni degli amministratori e basate sull'intervento di gestori terzi e indipendenti (bicchiere mezzo pieno, o pieno del tutto). Osservo che molte fondazioni (anche non le piccolissime) continuano ad avere un'attenzione eccessiva al conIl Sole 24 Ore, 21 ottobre 2003 22


trollo delle banche (una mappa degli incroci di partecipazione e di nomine lo può dimostrare facilmente), continuano a manifestare quello che i francesi definirebbero un "penchant pervers" a entrare in attività tipiche delle banche conferitarie (il credito alle infrastrutture è uno di questi), non sempre si affidano (e la ricerca lo dimostra) a gestori professionali. E non mi sento afflitto da pessimismo cosmico nel ritenere che il bicchiere sia mezzo vuoto. Anche perché mi ritrovo in buona compagnia: solo 18 mesi fa, il Governatore Fazio ammoniva che le fondazioni "non debbono intervenire nella gestione delle aziende: i loro esponenti non possono assumere cariche negli enti bancari partecipati; le incompatibilità delle cariche vanno rispettate; non è nello spirito della legge reinvestire nel settore bancario il ricavato delle privatizzazioni". Proprio il gioco dell'oca fa sì che oggi ci troviamo ancora almeno vicini a quella posizione. Ristuccia porta il caso della fondazione di cui egli è consigliere in cui i difetti che vengono imputati alle fondazioni non sono presenti. Ciò è vero: la Compagnia di San Paolo è stata la prima a congelare una parte notevole delle azioni bancarie e la prima ad affidarsi a gestori terzi e indipendenti in concorrenza fra loro. Ma proprio questo è il punto. Esistono delle "best practices" che non sono ancora diventati standard di comportamento nella categoria e che, invece, dovranno prima o poi essere adottati da tutti. Se proprio la fondazione torinese è una "rondine che non fa primavera", come portare il resto della categoria ad adottare criteri di gestione più consoni ad un investitore istituzionale importante come le fondazioni? É chiaro adesso che non è possibile ricorrere a semplici atti di indirizzo, o meglio, che questi devono essere, come dice con garbata fermezza Ristuccia, frutto. di una approfondita, rapida e paziente consultazione". Aggettivi in cui mi riconosco pienamente, ma che sono rivolti ben più in alto del semplice commentatore di questo giornale. Ma ancora una volta, se questo è l'obiettivo che deve essere realizzato in termini di metodo e di contenuti, vuoi dire che a quasi quindici anni dalla legge Amato, la metamorfosi delle fondazioni deve ancora compiersi e che è lecito essere un p0' impazienti ed inclini a vedere ovunque bicchieri mezzo vuoti. ' 6

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La gestione finanziaria delle fondazioni bancarie di Francesco Lorenzetti

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lcune considerazioni sui recenti interventi di Onado e Ristuccia. Reputo ardita la sintesi del rapporto OIGEPI compiuta da Onado: trascura i numerosi caveat metodologici esplicitati dagli autori e, francamente, non mi sembra corrisponda alla lettera del citato rapporto. P. facilmente contestabile l'osservazione relativa al peso. eccessivo degli investimenti obbligazionari delle fondazioni (fra l'altro le meno avverse al rischio, in base alla rapporto citato): la diversificazione impone di bilanciare adeguatamente. investimenti azionari ed obbligazionari (fra gli altri) per evitare rischi eccessivi. Scelte diverse si sarebbero peraltro rivelate .catastrofiche negli ultimi anni, in cui la crisi dei mercati azionari ha falcidiato il patrimonio delle grandi fondazioni anglosassoni (e non di quelle italiane). L'esperienza, fra gli altri, di Fondazione Cariplo, Monte dei Paschi, Compagnia San Paolo e Fondazione Cassa di Risparmio di Roma ed altri dimostra che le principali fondazioni utilizzano. prioritariamente obiettivi di rendimento aggiustato per il rischio e metodi internazionali di misurazione della performance. Ăˆ noto, peraltro, che le fondazioni bancarie (la Fondazione Cariplo nel 1999) hanno introdotto nel mercato italiano ed europeo modelli di outsourcing della gestione finanziaria attraverso gestori finanziari di standing internazionale estremamente innovativi sotto il profilo giuridico, finanziario ed operativo. Ovviamente, queste considerazioni non si applicano a tutte le fondazioni bancarie italiane, ma è verosimile ritenere che il processo intrapreso dalle maggiori possa rapidamente attecchire, dopo una lunga stasi conseguente alla vertenza conclusasi di recente. Quanto al private equity, stupisce, alla luce della recente sentenza della Consulta, l'auspicio di un impiego obbligatorio da parte delle fondazioni. L'Autore è Direttore finanziario della Fondazione Cariplo. 24


È noto, peraltro, che le fondazioni bancarie hanno promosso prime fra i grandi investitori italiani - alcuni modelli fra i più innovativi del mercato (analoghe considerazioni si applicano anche al settore degli investimenti alternativi e degli investimenti socialmente responsabili) e che l'esperienza internazionale suggerisce l'opportunità di incentivare fiscalmente gli investimenti in private equity (in questa direzione, peraltro, sembrano muoversi - in prospettiva - le recenti disposizioni fiscali per le smali cap di cui al Decreto Legge 30 settembre 2003 n. 269). Passando al finanziamento dello sviluppo infrastrutturale, la storia della Caisse Des Depots et Consignations francese e l'esperienza pionieristica delle fondazioni bancarie italiane nel settore del private equity e, più in generale, del partenariato pubblico-privato, sembrano suggerire l'opportunità di un ruolo delle fondazioni più ampio del semplice "intervento a fondo perduto che aumenti la convenienza e fattibilità di un intervento dei privati". Mi risulta invero difficile non auspicare - date le premesse che le fondazioni contribuiscano, in prima persona, all'elaborazione di un modello che consenta di realizzare, anche in Italia, una sorta di incubatore dedicato a quei settori preclusi al mercato per via dei suoi orizzonti eccessivamente ristretti, e che, nell'esperienza internazionale si è dimostrato in grado di generare, nel medio periodo, risultati finanziari assai consistenti. Dato che questi sono i fatti, la pur comprensibile impazienza ed inclinazione a vedere ovunque bicchieri mezzi vuoti sembra avere indotto a giudizi affrettati sulla gestione finanziaria delle fondazioni bancarie. Altri sono, infatti, i temi cui oggi le fondazioni debbono rivolgersi, per recuperare il ritardo citato da Onado, anche in relazione alla gestione finanziaria (almeno due anni del quale non sono, come è noto, ascrivibili alle fondazioni). Tra questi, quello della rendicontazione dell'attività di gestione finanziaria per il quale urge la ripresa di un confronto tra l'Aciu ed il Ministero, in relazione a numerosi aspetti (come il limite minimo di reddito), allo scopo di definire un insieme organico di regole in base alle quali impostare una attività di rendicontazione e sorveglianza solida ed efficiente. -

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dossier

Questa Europa

"Urge moltiplicare gli sforzi per presentare ai cittadini, che voteranno alle prossime elezioni europee del mese di giugno, il Trattato costituzionale in cui essi potranno riconoscere gli assetti del disegno politico che vogliamo realizzare": Queste le parole del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nella lettera inviata all'ex presidente della Commissione Ue Jacques Delors. Parole importanti, che rimarcano l'importanza di un modello costituzionale scritto e di opportuni correttivi alla dinamica dei, rapporti tra le istituzioni europee. Perché con il Trattato istitutivo di un modello di Costituzione Europea è di vero e proprio potere costituente che si parlo, come ha sottolineato Gianluigi Tosato nel suo articolo che qui pubblichiamo. Certo. La storia dell'Europa unita è una storia di volontà' degli Stati membri. Nel bene e nel male su questo, ormai, ci una tacita condivisione. La più alta realizzazione delle politiche intergovernative è rappresentata dal Trattato di Maastricht e dall'accordo sulla Moneta Unica Europea. Ma voler elaborare una Costituzione o, comunque, un modello di Costituzione attraverso comitati ristretti rappresentativi dei soli Governi nazionali, già all'inizio aveva su27


scitato ampie e legittime critiche. Questo, il primo errore. Poi, la decisione, giuridicamente ineccepibile, di inserire nella Costituzione I'armonizz.azione dei Trattati si è rivelata, in termini di comunicazione e immagine, uno scomodo boomerang. Gran parte di commentatori televisivi totalmente sprovvisti di cultura giuridica, nonché di politici avversi al progetto, hanno avuto buon gioco a presentare all'opinione pubblica la mostruosità di una Costituzione di più di trecento pagine. Come gli addetti ai lavori sanno, (e purtroppo lo sanno solo loro), gran parte di quelle pagine altro non erano costituite che dall'unfìcazione e dall'armonizzazione di diversi Trattati, con norme finalmente omologate e non frammentate tra diversi testi (Trattato CEcA, Euratom, Trattato di Nizza). La vera e propria Costituzione non supera le quaranta pagine, con interessanti prese di posizione sulle politiche comuni. Un buon testo, con luci e ombre, ma, vista la difficoltà delle trattative, largamente condivisibile. Dfficile non pensare a voti dffirenziati su determinate politiche, assurdo privare la Spagna di quello che invece gli è stato garantito a Nizza (sotto la presidenza francese, si noti bene). E qui è scoppiato il dissidio che ha portato al completo naufragio delle trattative. Eppure. la Costituzione europea (potremmo dire "materiale') esiste, ed è in continua formazione. Si legga a tale proposito "Talking with the »uvoir constituant' in Times of Constitutional Reform: The European Court of Justice on Private Applicants' Access to Justice" di Dominik Hanf, pubblicato sul MaastrichtJournal (2003, volume 10, n. 3 p. 265). La finzione costituzionale della Corte di Giustizia Europea non è mai stata messa in dubbio e dai tempi della Cassis de Djon continua a razionalizzare e a "creare" diritto europeo. Anche se ben poco profonda" nel senso voluto da Schuman nella Dichiarazione del Maggio 1950, l'Europa allarga, e di molto, i suoi confini. I Paesi dell'ex-Europa dell'Est entreranno afar parte da quest'anno del consesso unitario, promuovendo un mercato superiore, nei fondamentali, a quello degli Stati Uniti. Trapelano però delle criticità maspettate. L'Unione si propone anche quale superamento di quel modello di Stato-nazione che ha condotto verso la guerra globale dal 1915 al 1944. Un modello però, vale dirlo, ancora molto presente nel "comune sentire" sociale e culturale di molti Paesi dell'Europa Centro-orientale. Anzi, non si può tacere che proprio una certa idea di nazione ha condotto tali Paesi verso la riconquista delle libertà civili e politiche. Nel saggio «Identità, Regioni ed Europa' Kataryna Wolczuk - nelle pagine che seguono - afferma che "Nel contesto della travagliata storia dell'Europa centrale ed orientale, la definitiva disintegrazione di tutte e tre le federazioni multinazionali comuniste nel 1 991-93 ha reso lo Stato-nazione la forma onnipn'sénte 'dell'autodeterminazione nazionale' Poi, l'Autrice approfondisce il tema di come gli Stati che entreranno a far parte dell'Unione stanno affiontando il problema (che in Italia generò nel 1990 la "spinta delle autonomie') delle autonomie regionali e delle minoranze territoriali ed etniche. Te28


ma importante, perché senza la condivisione delle agende locali, nessun Stato sovrano può ritenere di poter gestire risorse, popolazioni e politiche per poter essere considerato partner alla pari nell'UE. A tale proposito, si veda il numero monògrafico dello scorso dicembre a cura della ISIG del Trimestrale di Sociologia Internazionale sull"Euroregione: il regionalismo per l'integrazione europea» Come promosso da Riccardo Jily. Presidente della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, creare tra Paesi confinanti esempi di amministrazione condivisa tra la Regione Veneto, il Land della Carinzia, la Contea dell'Istria e la collaborazione del governo sloveno, porterà ad una Euroregione che pur mantenendo le autonomie e le indipendenze dei governi locali, saprà e potrà coordinare le loro azioni sia in campo normativo che amministrativo. Infatti, come messo in luce dall'altro saggio che presentiamo, le politiche di sviluppo regionale dell'Unione Europea necessitano di grande considerazione delle istanze locali e della programmazione condivisa da vari centri di potere autonomo. Passando così da una logica di decisioni governative ad una vera e propria multi-levelgovernance. Molto interessante nel saggio di Thielemann - che ospitiamo in quest'occasione - appare la comprensione del difficile rapporto tra gli obiettivi di sviluppo e quelli di armo nizzazione del mercato e di tutela della concorrenza. L'europeizzazione ha un prezzo alto per tutti. Eiko R. Thielemann analizza compiutamente come tale prezzo è stato pagato dalla Germania per ottenere, da un lato una leadership europea e, dall'altro, l'integrazione dei suoi territori dell' ex DDR. E ci illustra come la Direzione Generale per la Concorrenza sia in fondo l'autorità più seguita all'interno delle politiche regionali europee. Tutto questo in aperto contrasto con gli aiuti all'industria e all'innovazione negli Stati Uniti, sospinte dalle politiche di bilancio della Difesa. Ma, è noto: la tutela della concorrenza e l'eliminazione dei monopoli sono valori dapropugnarefiori daipropri confini e dai propri interessi. (MR.)

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Il nuovo Trattato costituzionale per l'Europa: Trattato o Costituzione? di Gianluigi Tosato

La Dichiarazione di Nizza sul futuro dell'Europa (dicembre 2000), nel dare avvio ad una nuova fase del processo di integrazione europea, non faceva riferimento all'idea di Costituzione. Si limitava a prefigurare una ulteriore Conferenza intergovernativa per la revisione dei Trattati esistenti. Di Costituzione si incomincia ad accennare nella successiva Dichiarazione di Laeken (dicembre 2001). Ma lo si fa ancora in termini eventuali e proiettati nel futuro. "La via verso una Costituzione per i cittadini europei": recita un titoletto del documento. E nel testo si delinea un percorso che prevede prima la semplificazione dei Trattati senza modificarne il contenuto; poi, un possibile riordino dei medesimi; infine, in via ipotetica e "a termine", l'adozione di un testo costituzionale dell'Unione. Passano però soli due mesi e questa ipotesi diviene di immediata attualità. All'apertura dei lavori della Convenzione europea (febbraio 2002), il suo Presidente (Giscard d'Estaing) dichiara che la Convenzione dovrà predisporre una proposta di "Trattato costituzionale per l'Europa". E così è stato; il documento.finale della Convenzione del giugno/luglio 2003 si intitola: "Progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa". Si segnala a titolo di curiosità il frontespizio del documento, dove "Progetto di" è scritto in piccolo e corsivo, "Trattato che istituisce una" in maiuscolo e caratteri più grandi, infine "Costituzione per l'Europa", in maiuscolo, neretto e caratteri ancora più grandi. A parte la circostanza ora citata, che riflette il sentimento dei "convenzionali" circa il rilievo storico della loro missione, quel che preme sottolineare è l'associazione che si delinea fra i due termini di Trattato e Costituzione.. Di Trattato costituzionale e di Costituzione si discorre ormai abitualmente in tutte le sedi, comprese quelle intergovernative. Si vedano in proposito le con-

L'Autore è Professore di Diritto Europeo all'Università di Roma La Sapienza. 31


clusioni del Consiglio europeo di Salonicco del giugno 2003 e, ancor di più, la dichiarazione adottata dalla Conferenza intergovernativa a Roma, nella seduta inaugurate del 4 ottobre 2003. In questa dichiarazione si parla di "testo costituzionale" basato sul progetto di "trattato" della Convenzione, di "negoziato costituzionale" da concludersi in tempo utile per le elezioni europee del giugno 2004, di "trattato costituzionale" la cui adozione costituirà una tappa fondamentale nel processo di integrazione dell'Europa.

L'AFFERMATA INCONCILIABILITÀ DELLE NOZIONI DI TRATTATO E CosTITUZIONE

In presenza degli sviluppi ora ricordati si ripropone il quesito circa la natura dell'atto fondativo dell'Unione, in particolare se sia corretta t'idea di un. Trattato-Costituzione. La Corte di giustizia non dubita che i due termini siano fra di loro compatibili; ritiene, anzi, che il toro uso congiunto serva a descrivere bene la realtà giuridica dell'integrazione europea. Già nel 1963 (sentenza Van Gend en Loos) la Corte aveva rilevato che "la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale". Essa ha poi precisato, in una sentenza del 1986 ("Les Verts'), che la CEE "è una comunità di diritto", portatrice di una "Carta costituzionale di base costituita dal Trattato". Infine, in occasione del parere 1/91 (relativo alla creazione dello Spazio Economico Europeo), la Corte è stata ancora più esplicita: "il Trattato CEE, benché sia stato concluso in forma di accordo internazionale, costituisce la carta costituzionale di una comunità di diritto". E dello stesso avviso sono quegli autori per i quali il nuovo Trattato costituzionale è destinato a modificare e meglio evidenziare una Costituzione di cui l'Unione è già dotata. La tesi più diffusa è peraltro di segno contrario. Se ne è fatto eco il vicepresidente della Convenzione, Giuliano Amato, in un recente intervento (Il Sole 24 Ore del i giugno 2003) dove esprime tutto il suo rammarico per il fatto che il prodotto finale della Convenzione sia un "Trattato" e non una "Costituzione". Non è il caso, per ora, di approfondire le ragioni di questo giudizio. Conviene piuttosto notare che esso implica il convincimento che le due nozioni siano alternative: dove vi è un Trattato, non può esservi una Costituzione; e, viceversa, se c'è una Costituzione, non può esservi (o non

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può esservi più) un Trattato. Il nuovo Trattato costituzionale dovrebbe, dunque, considerarsi alla stregua di Trattato o di Costituzione, ma non le due cose insieme. I PRESUPPOSTI TEORICI DI QUESTA TESI La tesi richiamata da ultimo si riconduce, come sua premessa teorica, alla separatezza fra diritto internazionale e diritto interno: una separatezza che non riguarda soio i rispettivi ordinamenti, ma anche i soggetti destinatari delle norme e le materie regolate. Da un lato si colloca l'ordinamento internazionale, che regola i rapporti fra gli Stati e incide nelle materie interne soio attraverso l'intermediazione di questi ultimi; dall'altro, gli ordinamenti interni, che fanno capo agli Stati e disciplinano in maniera esclusiva i rapporti fra individui e fra questi lo Stato. Il Trattato costituisce l'atto tipico del diritto internazionale; crea diritti ed obblighi per gli Stati su base volontaria e consensuale; è strumento di cooperazione e coesistenza fra enti sovrani nel rispetto del principio di parità e non ingerenza. La Costituzione è l'atto fondamentale del diritto interno statale; disciplina l'organizzazione dei poteri pubblici ed i rapporti fra questi e i soggetti privati; opera come limite ai poteri pubblici ed ha portato alla progressiva affermazione dei diritti fondamentali e dei principi di legalità e pluralismo democratico. La diversità fra le nozioni di Trattato e Costituzione è bene esemplificata dalla distinzione dottrinale fra unioni di Stati di diritto internazionale e unioni di Stati di diritto pubblico interno. Le prime sono le organizzazioni internazionali, istituzioni che derivano le loro competenze dai Trattati fondativi e operano esclusivamente nei confronti degli Stati associati. Questi conservano in pieno la loro sovranità e soggettività internazionale, nonché il governo esclusivo dei rapporti interni. Le confederazioni di Stati rientrano in questa categoria. Le altre unioni di Stati sono costituite dagli Stati federali. Si caratterizzano per il fatto di dar vita ad una vera e propria entità statale, con un proprio popoio e un proprio territorio. I rapporti fra Federazione e Stati membri sono regolati dalla Costituzione federale, nella quale trovano fondamento le competenze sia dello Stato centrale sia degli Stati membri. La Federazione emerge come il nuovo soggetto dotato di sovranità e personalità internazionale, in sostituzione degli Stati membri. Può essere che una entità federale trovi origine in un Trattato fra gli Stati che in essa confluiscono. Ma una volta realizzata, la Federazione si distacca dal Trattato che la ha istituita. Questo rimane la fonte storica, ma non più 33


giuridica della nuova entità, che si fonda su di un proprio ed autonomo ordine costituzionale. Non così invece la Confederazione, che nasce da un Trattato e continua a trovare in esso la fonte della sua legittimazione.

LA REALTÀ NUOVA DELLE ISTITUZIONI EUROPEE

La delimitazione fra le due sfere, internazionale ed interna, si fa tuttavia meno netta con il delinearsi di un nuovo fenomeno nell'ambito della comunità degli Stati: l'istituzione, mediante Trattato (o sulla base di un Trattato), di enti internazionali chiamati ad intervenire direttamente in materie interne. Qualche primo esempio è fornito dalle Commissioni fluviali, a partire dalla Commissione europea del Danubio creata nel 1856. Ad essa forono affidate funzioni regolatorie e di polizia per quel che riguarda la navigazione sul tratto di fiume di sua competenza. Alla medesima tipologia appartengono una serie di organismi costituiti per la gestione di territori sotto controllo internazionale. Si pensi alla condizione giuridica della Saar dopo la prima guerra mondiale, del Territorio Libero di Trieste dopo la seconda e, in tempi recenti, le amministrazioni delle Nu in Kosovo e in Est Timor. È ben chiaro, peraltro, che la punta più avanzata di questo fenomeno è costituita proprio dalle istituzioni dell'integrazione europea, (le tre Comunità prima e l'Unione poi). Per il vero, non sono mancati gli sforzi di ricondurre queste realtà allo schema tradizionale della distinzione fra diritto internazionale e diritto interno. Così, si è sostenuto che gli enti in questione operano come organi interni comuni degli Stati fondatori, per cui sarebbe nell'ambito degli ordinamenti di questi ultimi che essi esercitano le loro funzioni e incidono sui rapporti interindividuali. Ancora, si è detto che gli enti in questione si collocherebbero bensì nel diritto internazionale per i loro aspetti organizzativi, ma gli atti da essi adottati produrrebbero effetti nei confronti dei singoli solo in quanto receiti ed attuati nel diritto interno. agevole però accorgersi che ricostruzioni siffatte sono alquanto artificiose. Per limitarsi alle istituzioni europee, convince assai poco l'idea che organi come la Commissione, il Parlamento, il Consiglio, facciano parte dell'ordinamento costituzionale dei singoli Stati membri. Ugualmente, riesce difficile pensare che gli atti normativi comunitari siano suscettibili di produrre i loro effetti sempre e solo in quanto trasformati in corrispondenti atti normativi interni. Si tratta, nell'uno e nell'altro caso, di evidenti forzature.

E

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La verità è che ci troviamo di fronte ad enti che, pur fondandosi su un Trattato, svolgono attività di natura interna; e ciò avviene nell'ambito di ordinamenti separati rispetto a quelli statali e dei quali sono soggetti sia gli Stati sia gli individui. È precisamente quanto ha affermato la Corte comunitaria nella già citata sentenza Van Gend en Loos. Si delinea un modello istituzionale di nuovo genere, con una commistione di elementi federali e confederali, che supera la rigida distinzione fra Confederazione e Federazione. ANALISI DEI CRITERI PER DISTINGUERE TRA TRATTATO E

CosTITuzIo-

NE: CONTENUTO E FORMA

Non basta, dunque, avere riguardo alle materie (internazionali o interne) o ai soggetti (Stati o individui) cui si indirizzano le attività di un certo ente. Su queste basi la differenza fra Trattato e Costituzione rimane incerta. Ma esiste qualche altro elemento che serva a renderla più precisa e sicura? Non mi pare che un criterio distintivo sia rinvenibile con riguardo al contenuto dell'atto. Può essere indubbiamente che l'ordine complessivo e la struttura istituzionale derivanti da una Costituzione presentino un grado di completezza maggiore rispetto ad un Trattato. Ma non è sempre necessariamente così. Non mancano Costituzioni statali dal contenuto parziale e schematico; e, per converso, si possono dare Trattati anche molto elaborati e completi. Un esempio è fornito proprio dai Trattati europei. Già quelli originari, istitutivi delle tre Comunità, ne delineavano la struttura istituzionale, il sistema degli atti, il controllo di legalità, la tutela giurisdizionale dei singoli. L'ordine complessivo si è poi meglio articolato ed arricchito per effetto della giurisprudenza della Corte. Da essa sono derivati fondamentali principi, quali (in via esemplificativa) il primato e l'efficacia diretta delle norme comunitarie, la distinzione fra competenze esclusive e concorrenti, le regole della sussidiarietà e della proporzionalità, l'obbligo di leale collaborazione, la tutela dei diritti fondamentali. Molti di questi principi sono stati successivamente recepiti nei Trattati di revisione e in quello istitutivo dell'UE. Tanto meno, poi, si giustifica un giudizio di incompletezza nei confronti del nuovo Trattato costituzionale. Anzi, con l'incorporazione nella sua seconda parte della Carta dei diritti di Nizza, l'atto fondativo dell'Unione assume una struttura molto simile a quella delle tradizionali carte costituzionali. Avrà infatti un proprio ed autonomo catalogo di diritti fondamentali, che si aggiunge alle norme sulla organizzazione e l'esercizio dei poteri pubblici dell'U nione. 35


A differenziare un Trattato da una Costituzione non vale dunque riferirsi al contenuto dell'atto, ma neppure soccorrono profili formali. Certo, l'ordine costituzionale europeo non risulta attualmente da un singolo testo, come avviene di regola per le Costituzioni nazionali. Occorre ricostruirlo sulla base di una pluralità di Trattati, Protocolli, atti delle istituzioni, pronunce giurisprudenziali. Ma, come è ben noto, vi sono Costituzioni non esplicitate in un testo scritto, ovvero risultanti da più testi, ovvero Costituzioni integrate da leggi costituzionali. D'altra parte, anche sotto il profilo esteriore, il nuovo Trattato costituzionale europeo segnerà un ravvicinamento con le carte costituzionali più consuete. SEGUE: FONDAMENTO GIURIDICO

In effetti, più che nel contenuto o nella forma dell'atto, la discriminante fra Costituzione e Trattato viene generalmente individuata nella diversa base giuridica che li contraddistingue. In questo ordine di idee, si ha Costituzione quando l'atto fondativo di una istituzione politica origina dalla sua stessa base sociale; è il prodotto di un potere costituente interno all'istituzione costituita; è espressione di auto-determinazione e di indipendenza rispetto a soggetti esterni. Nel caso del Trattato, invece, la decisione originaria di creare l'istituzione, al pari di quelle che successivamente la modificano, provengono da soggetti che operano dall'esterno dell'istituzione e sulla base di un diritto che non è quello proprio di quest'ultima. In altri termini, istituzioni di carattere politico, dotate di poteri di governo nei confronti di gruppi sociali di individui, possono originare sia da una Costituzione sia da un Trattato. Quello che distingue i due atti è che il potere costituente e la fonte di legittimazione dell'istituzione si collocano nell'un caso all'interno (Costituzione), nell'altro all'esterno (Trattato) dell'istituzione medesima. In applicazione del criterio ora indicato, i Trattati europei vengono qualificati come veri e propri Trattati e non come una Costituzione. Si osserva, in proposito, che i Trattati istitutivi delle Comunità e dell'Unione sono stati conclusi nelle forme consuete degli accordi di diritto internazionale; in particolare, la loro entrata in vigore è stata sempre subordinata alla ratifica da parte di tutti gli Stati membri in conformità alle loro rispettive norme costituzionali. E lo stesso dicasi per i Trattati di revisione che si sono succeduti nel tempo. Conclusione non diversa si trae anche nei confronti del previsto nuovo Trattato costituzionale per l'Europa. Le ragioni sono le medesime: sempre e 36


solo di un Trattato si tratta, e non di una Costituzione, perché la sua entrata in vigore è vincolata alle ratifiche di tutti gli Stati membri; e, quel che appare ancor più decisivo, anche le successive revisioni sono assoggettate alla medesima disciplina. Giuliano Amato si era battuto in sede di convenzione per una soluzione diversa, ma non ha avuto successo. Di qui tutto il suo rammarico, di cui già si è fatto cenno. Gli Stati rimangono i "signori" dei Trattati (secondo la nota espressione della Corte costituzionale tedesca); e così l'auspicato passaggio dal Trattato alla Costituzione ancora non si realizza. LE IMPLICAZIONI DI UNA SCELTA ALTERNATIVA

La posizione ora riferita è ineccepibile e coerente rispetto alle premesse da cui parte. Fa dipendere la natura dei Trattati europei dalla ricerca del decisore di ultima istanza. Come tali sono individuati gli Stati, in quanto soggetti non del diritto dell'Unione, ma del diritto internazionale; e così si giunge ad escludere l'idea di Costituzione. Tuttavia, questa conclusione (e gli elementi su cui si basa) non mancano di far sorgere dubbi ed interrogativi. Intanto, è la stessa alternativa fra Trattato e Costituzione a lasciare perplessi, per le implicazioni che essa comporta. Supponiamo che la Conferenza intergovernativa ora in corso modifichi le regole sulla revisione del nuovo Trattato; stabilisca, ad esempio, che per la revisione è sufficiente il consenso di una maggioranza qualificata di Stati e che il consenso possa essere dato in forma diversa rispetto alla tradizionale ratifica dei Trattati. Per la verità è difficile che la Conferenza intergovernativa riesca là dove la Convenzione ha fallito. Ma non lo si può escludere in via di principio. E se ciò si verificasse, quale sarebbe la conseguenza? In base alla tesi ora in discussione si dovrebbe dire che, in tal caso, gli Stati agiscono come soggetti del diritto dell'Unione,, in forza di una procedura regolata da tale diritto; che il decisore di ultima istanza si colloca ormai all'interno dell'Unione e che quest'ultima trova in sé stessa la fonte della sua legittimazione. Su tali premesse, si dovrebbe quindi concludere che l'atto fondativo dell'Unione è una Costituzione e non un Trattato. Ma qui nascono le perplessità. L'alternativa fra Trattato e Costituzione impone una netta scelta di campo. Occorre optare fra la dipendenza dell'Unione dagli Stati come soggetti di diritto internazionale, o la sua indipendenza e la conseguente dipendenza degli Stati dall'ordinamento dell'Unione. La prima opzione riconduce la costruzione europea allo schema delle organizzazioni internazionali, ad un disegno in37


terstatale ed intergovernativo; la seconda al modello dello Stato federale, e quindi del "superstato" che si sovrappone agli Stati nazionali. È facile rendersi conto come, per ragioni uguali ed àpposte, le due soluzioni siano difficilmente accettabili ai contrapposti. schieramenti dei filo-europei e degli euro-scettici. In effetti, l'alternativa fra Trattato e Costituzione sembra poco compatibile con il contesto politico attuale dell'integrazione europea. Non è un caso che la formula "Federazione di Stati nazione" abbia incontrato tanto favore a proposito della nuova struttura dell'Unione. LA DOPPIA LEGITTIMAZIONE NEL PROCESSO COSTITUENTE EUROPEO

Veniamo all'elemento che la tesi in esame ritiene decisivo: l'individuazione della fonte ultima dell'autorità, che nel caso dell'Unione si fa risalire agli Stati. Ma sono sempre e solo gli Stati i "signori" dei Trattati? Il punto merita una verifica a fronte dell'affermazione ormai corrente secondo cui l'Unione si giova di una duplice fonte di legittimazione, costituita dagli Stati e dai popoli (o cittadini) europei. Al riguardo è bene distinguere fra il livello decisionale "costituente" e quello relativo all'esercizio delle funzioni legislativa e di governo. Per quanto riguarda questo secondo livello, il principio della doppia legittimazione è largamente operante. Non è stato così in passato, quando i poteri di decisione erano concentrati nel Consiglio, l'organo rappresentativo dei governi nazionali. Ma il ruolo del Parlamento europeo, l'organo rappresentativo dei popoli, si è via via rafforzato. Il suo potere di co-decisione con il Consiglio costituisce, ormai, la regola in materia legislativa; e anche i suoi poteri di controllo sull'esecutivo si sono estesi, dato che il rapporto fiduciario con la Commissione investe ora anche il momento formativo. La situazione è diversa per quel che concerne il potere costituente. Al Parlamento europeo continua ad essere assegnata una funzione meramente consultiva. Il ruolo centrale spetta agli Stati, che lo svolgono tramite il Consiglio, la Conferenza intergovernativa e la successiva fase delle ratifiche. Ma anche qui è emersa da ultimo una rilevante novità, anche se non riguarda direttamente il Parlamento europeo. Mi riferisco (come è ben chiaro) al nuovo istituto che risponde al nome di Convenzione e si ricollega già nel nome ad illustri precedenti della storia costituzionale. La partecipazione dei popoli europei alla fase costituente deve essere, quindi, valutata in relazione a questo recente sviluppo. È appena il caso di ricordare che la Convenzione è un consesso a composizione mista. Accanto ai rappresentanti dei governi siedono membri dei Parla38


menti nazionali, del Parlamento europeo e della Commissione. Poiché i membri di estrazione parlamentare sono in larga maggioranza rispetto a quelli governativi, la Convenzione si distacca ùettamente dal modello delle conferenze diplomatiche, essendo piuttosto assimilabile ad un'assemblea di tipo parlamentare. Essa appare, dunque, un organo rappresentativo non tanto degli Stati, quanto invece dei popoli europei. Il nuovo consesso ha fatto la sua prima comparsa .sulla scena europea in occasione della redazione della Carta di Nizza dei diritti fondamentali; ed ha dato, fin dal primo collaudo, così buona prova che si è deciso di ricorrere ad esso anche nella nuova fase còstituente. Né è a dire che si tratta di una soluzione occasionale. Il progetto di nuovo Trattato costituzionale rende infatti stabile il passaggio attraverso la Convenzione per il caso di future revisioni; e nòn risulta che questo punto sia posto in discussione da parte dei governi nazionali. Si delinea il tal modo, anche con riguardo al processo costituente, il concorso delle due fonti di legittimazione dell'Unione. La Convenzione, per la sua composizione e il metodo aperto e trasparente dei suoi lavori, dà voce all'opinione pubblica e in ultima analisi ai cittadini dell'Europa. La Conferenza intergovernativa è la classica espressione degli interessi nazionali. Mi rendo conto che i due momenti non si collocano allo stesso livello. Come si legge nella dichiarazione di Laeken, la Convenzione è chiamata a svolgere una funzione preparatoria; il documento conclusivo dei suoi lavori costituisce il punto di partenza della Conferenza intergovernativa, alla quale spettano le decisioni finali. Ma già il recente Consiglio di Salonicco ha riconosciuto che il progetto uscito dalla. Convenzione costituisce una buona base, quindi qualche cosa di piui di un semplice punto di partenza. Si tratta ora di vedere come si svilupperà la Conferenza intergovernativa, in particolare quali modifiche saranno apportate al testo uscito dalla Convenzione. Si avrà così la misura del peso effettivo di quest'ultima nel processo costituente europeo. In attesa di questi sviluppi la cautela è d'obbligo. Ma una cosa si può dire fin d'ora; ed è che in presenza del fattore Convenzione, difficilmente gli Stati possono continuare ad essere considerati come i "signori" esclusivi dei Trattati. CONSIDERAZIONI FINALI

È tempo di trarre qualche conclusione. Il fenomeno dell'integrazione europea, a partire dalle sue prime manifestazioni, ha posto gravi problemi ricostruttivi agli studiosi della materia. Lo hanno sperimentato per primi i cultori 39


del diritto internazionale, per i quali non è facile ammettere che da un Trattato possano derivare ordinamenti di cui sono soggetti ad un tempo Stati ed individui, e ciò al di fuori dello schema dello Stato federale. Ora è il turno dei costituzionalisti, molti dei quali rifiutano l'idea di una Costituzione al di fuori del paradigma dello Stato. Che dire, dunque, a proposito del quesito circa la natura del nuovo Trattato costituzionale per l'Europa: Trattato o Costituzione, o l'una e l'altra cosa insieme? La mia propensione è per quest'ultima tesi e penso che lo si desuma dalle considerazioni che precedono. In ogni caso, indipendentemente dalla soluzione preferita, si riconferma da un lato la peculiarità della costruzione europea e, dall'altro, l'esigenza di analizzarla in base a modelli diversi da quelli tradizionali.

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Identità, Regioni ed Europa di Kataryna Wolczuk

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el contesto della travagliata storia dell'Europa centrale ed orientale, la definitiva disintegrazione di tutte e tre le federazioni multinazionali comuniste nel 1991-93 ha reso lo Stato-nazione la forma onnipresente "dell'autodeterminazione nazionale". Ma la caduta del comunismo presagiva anche numerosi cambiamenti interni nei nuovi'Stati-nazione sovrani; In particolare, la decentralizzazione non fu soltanto richiesta dalle minoranze regionali ed etniche, ma fu anche vista come un modo per liberarsi dell'eredità comunista e "per tornare in Europa". La decentralizzazione veniva considerata come antidoto all'eredità di rigido centralismo dell'era comunista derivante dal disegno istituzionale modellato sul sistema dei soviet dell'Unione sovietica, imposto in tutto il blocco sovietico dopo la seconda guerra mondiale. Questo modello territoriale amministrativo centralizzato non solo eliminava l'autogoverno democratico ma nella realtà fu anche caratterizzato da frammentazione a livello regionale e, di conseguenza, dall'inefficienza. La fine dei regimi comunisti ha suggerito profonde riforme istituzionali sotto la bandiera della "decomunistizzazione", promuovendo la democratizzazione e una maggiore efficienza. Tuttavia, durante i primi anni di trasformazione, questa riforma fu limitata per permettere il ristabilimento di un vero autogoverno a livello locale. La riforma della struttura regionale suscitò notevoli controversie e quindi, nella maggior parte dei casi, fu messa da parte fino alla fine degli anni Novanta. Contemporaneamente, l'Europa Centrale ed Orientale sono state esposte a forti stimoli esterni, un corollario del "ritorno in Europa". In termini concreti, questo "ritorno" era il segnale di un'azione verso l'adesione alle istituzioni europee, specialmente l'Unione Europea. A seguito del riconoscimento di questa aspirazione da parte dell'Unione Europea verso la metà degli anni Novanta, "il ritorno in Europa" ha assunto la forma tecnocratica dell'implemen-

L'Autrice è Editor di «Regional and Federal Studies». 41


tazione dell'acquis communautaire, che contiene, più o meno precisamente, prescrizioni specifiche. Le richieste da parte dell'Unione Europea per la creazione di istituzioni amministrative a livello locale e regionale, all'interno degli Stati candidati sono giunte quando la riforma regionale si era in gran parte arrestata, così il processo di adesione ha aperto i Paesi candidati alle influenze degli attori esterni in aree tradizionalmente appartenute al regno della sovranità nazionale per gli Stati membri dell'UE. ,, La spinta verso la " decomunistizzazione e 1," europeizzazione ,, coincise con una rinascita "dal basso verso l'alto" delle identità regionali e delle minoranze, le quali hanno ispirato le richieste per una maggiore autonomia regionale. La rimozione della camicia di forza politica comunista ha dissipato il mito dell'omogeneità nazionale e territoriale diffuso da molti regimi comunisti. La rinascita delle minoranze e del regionalismo non fu proprio inaspettata, alla luce della diversità etnica e regionale dell'Europa Centrale e Orientale, un'eredità ben conosciuta dovuta al ritardo della formazione dello Stato e ai frequenti cambiamenti dei confini. Fra le problematiche relative alla decomunistizzazione, all'europeizzazione e alla rinascita delle identità etniche e regionali, soltanto le prime due hanno attratto adeguata attenzione da parte degli studiosi. La letteratura sulla decentralizzazione in Europa Centrale ed Orientale rimane debolmente collegata alle più vaste problematiche della trasformazione dello Stato nel post-comunismo ed in particolare, all'interfaccia fra cambiamento istituzionale e politica identitaria. Ciò è piuttosto sorprendente poiché il collasso delle federazioni comuniste ha evidenziato il ruolo che le istituzioni svolgono nel creare e sostenere le identità, che diventano piattaforme per la mobilizzazione politica; ugualmente, le identità sono state considerate in grado di trasformare profondamente le istituzioni statali. C'è stata poca riflessione su come la politica identitaria è continuata da allora in poi, dopo l'avvio di importanti cambiamenti istituzionali nei rapporti centro-periferia e i successivi intensi dibattiti sulla nozione di Nazione, Stato, Sovranità ed "Europeizzazione". Questo saggio è stato ispirato dall'idea che le politiche identitarie, particolarmente nel loro contesto territoriale, meritano più attenzione in Europa centrale ed orientale. Da una parte, la questione è come i processi a livello nazionale vengono influenzati dagli sviluppi locali, e dall'altra come le politiche identitarie locali vengono modellate sia dagli sviluppi del livello nazionale sia dalle dinamiche dell'allargamento dell'UE. Esaminando i discorsi che hanno fatto da corollario alla riforma delle istituzioni al meso-leveL così come la prospettiva delle regioni sulla trasformazione della .

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statualità dopo il comunismo, questo volume ha portato alla luce il nesso dinamico fra le identità delle minoranze e quelle regionali, le politiche dei capii. tali nazionaii ea i ciiversi signincati e ie innuenze cne 1 Europa apporta. .

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DECENTRALIZZAZIONE E RINASCITA DELLE IDENTITÀ REGIONALI E DELLE MINORANZE

Come è stato precisato nell'introduzione, gli Stati post-comunisti, in un certo senso, possono essere considerati còme "nuovi" Stati, poiché tutti, tranne l'Ungheria, avevano ricevuto in eredità diversità regionali ed etniche e così, dopo il crollo del comunismo, dovettero far fronte alla domanda fondamentale su come gli Stati dòvrebbero essere strutturati per rispondere a questa diversità. In tutti gli Stati a cui ora ci riferiamo, la maggior parte delle minoranze etniche sono concentrate regionalmente (con l'importante eccezione delle minoranze Rom; vedi Guy, 2001). La consistenza delle minoranze in relazione alla maggioranza etnica, comunque, varia in maniera significativa: in Polonia le minoranze ammontano approssimativamente al 5-7 per cento della popolazione, mentre in Estonia comprendono circa il 40 per cento della popolazione. Un fenomeno non meno importante, ma spesso trascurato, riguarda la persistenza delle diversità regionali. Come conseguenza dei frequenti cambiamenti dei confini, gli Stati dell'Europa Centrale e dell'Europa dell'Est sono spesso formati da regioni che una volta facevano parte di diversi imperi, conseguenza di divergenti tracce culturali, politiche, economiche e sociali che ancora oggi si fanno sentire, malgrado le politiche omogeneizzanti dei regimi comunisti, all'interno e attraverso gli Stati dell'Europa Centrale e dell'Europa dell'Est sopravvivevano identità regionali distinte. Tutte le regioni storiche esaminate in questo volume - Banat, Slesia del nord e Transcarpazia - furono parti di altri Stati in vari periodi della loro storia. L'apertura dello spazio pubblico dopo il collasso del comunismo stimolò il risorgere delle identità regionali, combinando spesso elementi storici con una più recente scoperta di particolarità etnica. Quindi, ad eccezione dell'Ungheria, tutti gli Stati post comunisti nella nostra selezione di casi hanno dovuto affrontare una pressione dal basso verso l'alto per il riconoscimento di diversità etniche e regionali. Questi sviluppi hanno dato un colpo ai cari ideali di unità nazionale e hanno prodotto un senso di insicurezza proveniente dalla paura che forze centrifughe possano portare alla disintegrazione territoriale. In particolare, gli Stati con regionalismi storici e minoranze etniche concentrate sono sospettosi ver43


so la ricostituzione e il potenziamento delle regioni storiche, poiché esse potrebbero gravitare verso gli "Stati-parenti", anche se poche rivendicazioni di revisionismo territoriale sono state fatte ufficialmente nella regione (a parte l'ovvio caso della Jugoslavia lacerata dalla guerra, la rivendicazione della Romania e dell'Ucraina ne sono un esempio). In particolare, in questi nuovi Stati, la diversità regionale ed etnica è stato un importante fattore contro la regionalizzazione politica: l'Ucraina e l'Estonia hanno evitato la regionalizzazione, e i dibattiti sulla riforma regionale della Slovacchia hanno rivelato la preoccupazione di qualcuno di "diluire" la concentrazione territoriale della minoranza ungherese. Tali paure hanno ispirato una costante fiducia in un modello amministrativo-territoriale centralizzato, in linea con il presupposto ottocentesco dell'Europa Occidentale che la concentrazione del potere in un solo centro permette allo Stato un migliore controllo e una più efficiente amministrazione. L'Estonia e l'Ucraina hanno ereditato grandi minoranze russe e di lingua russa. La percezione della minaccia alla sicurezia proveniente dalle regioni secessioniste e dalle minoranze etniche aveva una certa consistenza nei primi anni di istituzione di un ente statale indipendente e della ridefinizione dei rapporti con la Russia, anche se adésso sono molto meno incombenti. Mentre respingeva gli appelli all'autonomia territoriale da parte della regione del Narva, dove è concentrata la minoranza di lingua russa, l'Estonia cercava un modo per andare incontro all'eterogeneità etnica adottando la legge sull'autonomia culturale (non territoriale) delle minoranze. Tuttavia, il diritto di esercitare tale autonomia appartiene solo ai cittadini dell'Estonia e non si applica alla maggioranza della popolazione di lingua russa, che hanno, o preso la cittadinanza russa o hanno lo status di residenti permanenti "alieni", quindi di stranieri. L'Ucraina si è astenuta dal ricostituire le regioni storiche e ha mantenuto istituzioni elette direttamente al "livello intermedio" definite dagli esistenti oblasti. Tuttavia, essendo una creazione dell'era comunista, gli obkzsti furono privati di autonomia politica significativa. L'auto-governo democratico è così in effetti ristretto al livello locale, che pone pochi problemi alla distribuzione fortemente centralizzata del potere dello Stato. Questo risultato fu principalmente determinato dalla viva consapevolezza della fragilità dell'identità nazionale ucraina e dalle relative paure di movimenti centrifughi regionali; ma allo stesso tempo fece sì che le élite dell'ex nomenclatura conservassero il controllo delle leve del potere nell'Ucraina indipendente. La Slovacchia ha fatto più progressi verso la decentralizzazione politica, anche se l'approvazione di una legge nel mese di luglio del 2001 non ha messo 44


termine alle acute polemiche, che probabilmente continueranno almeno in parte a causa del disappunto della minoranza ungherese, regionalmente concentrata nella versione definitiva di quella legge. Ma, mentre Bituikova discute, il tortuoso processo della riforma regionale riguarda molto le incertezze e le divisioni fra gli Slovacchi stessi quanto alla loro identità e coesione nazionale. Anche in Polonia, che ha intrapreso la decentralizzazione politica, alcune preoccupazioni su supposte minacce all'integrità territoriale sono state espresse durante gli anni Novanta (vedi Kowalczyk, 2000; Bokajlo, 2000: Buczkowski, 1998). Come precisa Kisielowska-Lipman, la decentralizzazione ha evocato tali preoccupazioni anche nelle regioni. Tuttavia, la forza dell'identità nazionale polacca e la trascurabile consistenza delle minoranze ha attenuato tali preoccupazioni fino al punto in cui sono prevalsi gli imperativi della decomunistizzazione e dell'europeizzazione. Nel caso dell'Ungheria, erano in gioco forze diverse. In assenza di richieste regionalistiche, gli argomenti relativi all'efficienza e alla limitazione della corruzione sono citate dallo Stato centrale per giustificare la conservazione di un modello più centralizzato e l'istituzione di regioni puramente amministrative con funzioni limitate. Indubbiamente, come Fowler ha dimostrato, aiutano a spiegare questo risultato la posizione politica radicata delle contee storiche e la mancanza di una chiara spinta verso la decentralizzazione politica da parte dell'UE. Finora, la maggior parte degli Stati sembrano soddisfatti della decentralizzazione al livello locale, effettuata con le riforme immediatamente successive al comunismo. Il modello di Stato unitario, inscritto nelle costituzioni nazionali, ha incontrato il favore nella regione (con l'eccezione della Crimea in Ucraina, che è stata designata componente federale all'interno di uno Stato unitario centralizzato). Soltanto la Polonia e la Slovacchia hanno optato per una decisa devoluzione del potere alle regioni ristrutturate; quanto velocemente e fino a che punto le intenzioni dei favorevoli alla legislazione devoluzionistica saranno realizzate rimane da vedere. Gli Stati più nuovi fra quelli qui considerati - quelli formatisi nel 1991-93 dopo il crollo delle federazioni comuniste - sono apparsi particolarmente cauti rispetto ai pericoli delle forze centrifughe provenienti dalle regioni e, quindi, incoraggiano l'unità e la coesione compresa in un modello centralizzato dello Stato. In generale, in nessun luogo della regione vi sono stati dibattiti su riforme a livello locale espressi esplicitamente in termini di riconoscimento della diversità etnica e regionale. Dove è stata effettuata la devoluzione politica a livello intermedio (in Polonia) o è progettata (in Slovacchia), è a dispetto piuttosto 45


che a causa della rinascita delle identità regionali ed etniche. Democratizzazione, efficienza amministrativa, considerazioni fiscali, requisiti di adesione all'UE, e così via, sono stati citati come i motivi convincenti a favore della regionalizzazione, piuttosto che l'adattamento alla diversità. Tuttavia, nei nuovi Stati quali l'Ucraina, lo spettro delle forze centrifughe è stato usato esplicitamente come uno degli argomenti chiave contro il potenziamento politico delle regioni. REGIONALIZZAZIONE ED EUROPEIZZAZIONE

L'imperativo "del ritorno in Europa", e cioè l'acquisizione del titolo di membro nelle organizzazioni europee, è stato un altro fattore che ha modellato le dinamiche della regionalizzazione in Europa Centrale ed Orientale. Tutti gli Stati esaminati in questo saggio sono membri del Consiglio d'Europa, l'organizzazione che promuove lo sviluppo democratico sia a livello nazionale sia a livello regionale e locale; quest'ultimo è compreso nella Carta costituzionale Europea dell'Auto-Governo Locale. Ma la Carta si applica soltanto al livello locale, mentre la Carta dell'Auto-Governo regionale, interessata al livello intermedio delle istituzioni rappresentative, è ancora in preparazione e ci sono poche speranze di una sua ratifica veloce. Quindi, per quanto riguarda la riforma delle istituzioni a livello regionale, è l'Unione Europea che ha un impatto potenzialmente ben più grande sugli Stati candidati, nella misura in cui il rafforzamento della capacità amministrativa a livello regionale negli Stati candidati venga posto come una delle condizioni all'adesione. Tuttavia, la spinta per "europeizzare" le istituzioni a livello locale non è ugualmente convincente per tutti gli Stati post-comunisti, poiché hanno prospettive notevolmente diverse di entrare a far parte dell'UE. Inoltre, anche per gli Stati candidati, le condizioni poste dall'UE non offrono coerenti e chiare prescrizioni politiche sulla regionalizzazione. Comunque, gli appelli all"Europa" sono una caratteristica costante dei dibattiti sulla regionalizzazione in Europa Centrale ed Orientale, mentre allo stesso tempo, l"Europa" denota cose differenti per popoli differenti. Di conseguenza, l'impatto dell' "europeizzazione" è lungi dall'essere uniforme attraverso l'Europa Centrale ed Orientale. Come si è detto nell'introduzione, il modello centralizzato tradizionale dello Stato-nazione ha perso la posizione egemonica fra gli Stati membri dell'UE nel corso degli ultimi 30 anni, poiché la maggior parte sono diventati più decentralizzati, ma in modi molto differenti. Così, se essere europei significa es46


sere simili a qualsiasi Stato membro dell'UE, i cittadini dell'Europa Centrale ed Orientale possono scegliere tra una vasta gamma di modelli da emulare in nome dell"Europeità": dal tradizionale modello francese di Stato-nazione centralizzato alla devoluziòne asimmetrica spagnola o al federalismo austriaco e tedesco. Questi stessi modelli sono, naturalmente, spesso in una condizione di continuo cambiamento. Il modello tradizionale e centralizzato dello Stato-nazione mantiene un considerevole appeaL particolarmente per i nuovi Stati dell'Europa centrale ed orientale. Quindi, l'Ucraina ha potuto identificare la sua "scelta europea" con la creazione di una Stato-nazione sovrano in grado di unificare e di consolidare regioni storiche disparate attraverso un insieme uniforme di istituzioni locali subordinate al centro. L'interpretazione data dall'Ucraina del percorso europeo tradizionale della costruzione dello Stato era così legittimata come un mezzo per tornare in Europa. Le prospettive di una membership all'interno di un'organizzazione europea sovranazionale per gli Stati europei centrali ed orientali determinano la loro interpretazione di che cosa costituisce l"europeità". In particolare, posizioni diverse di fronte all'UE provocano effetti divergenti in relazione all'integrazione europea della regione. La Polonia, l'Estonia e l'Ungheria, che hanno preso parte ai negoziati di adesione all'UE nel 1998, appartengono alla cosiddetta "prima ondata" e ciò non è disgiunto dai progressi pit veloci nella risoluzione della questione della riforma regionale. Gli sforzi valorosi della Slqvacchia per recuperare il terreno perduto dopo il cambiamento di governo nel 1998, fornisce una spiegazione dell'urgenza con cui la riforma regionale è stata perseguita. La Romania, ora relegata in coda ai nuovi Stati entranti nell'UE, è stata meno radicale nel metodo e meno costante nell'implementazione di nuove strutture regionali. L'Ucraina rimane un outsider, la cui adesione all'UE, a dispetto delle aspirazioni proclamate da Kiev, non è in agenda per il prossimo futuro, se mai lo sarà. Così, mentre per i Paesi che sono in procinto di aderire, il dibattito relativo ai motivi esterni per l'effettuazione di una riforma regionale è centrata sull'interpretazione delle condizioni poste dall'UE, per l'Ucraina si trattava delle prescrizioni del Consiglio d'Europa, ed in particolare dell'enfasi posta sul livello locale, che erano il punto di riferimento per la definizione di "europeità" quando si arrivò alla riforma istituzionale dei poteri locali. Significativamente, malgrado non fosse uno Stato candidato all'UE, l'Ucraina ha ancora cercato di giustificare le relative scelte istituzionali in corso di elaborazione della costituzione facendo riferimento a norme internazionali, quindi

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all'importanza del Consiglio di Europa come corpo di regolamentazione standard. Tuttavia, anche per gli Stati candidati, le condizioni poste dall'UE (custoditi gelosamente nell'acquis communautaire, nelle partnership di adesione e nei "progress report" annuali della Commissione) sono inequivocabili. La legislazione dell'UE non si preoccupa delle istituzioni secondarie e non prevede alcun modello particolare di governo o di gestione regionale. Piuttosto, i candidati vengono esortati a "rafforzare la loro capacità amministrativa". Ciò implica l'istituzione di enti a livello regionale in grado di gestire in maniera efficiente il trasferimento e l'uso dei fondi strutturali seguendo i principi rappresentati dalle principali prescrizioni dell'UE nel campo della politica regionale (sussidiarietà, partnership e addizionalità). Queste entità regionali devono essere istituite secondo la scala "NuTs 11", ancora non definita giuridicamente. Ma queste condizioni possono essere realizzate solo attraverso una regionalizzazione puramente amministrativa, mentre la devoluzione politica dei poteri rimane una questione di scelta per i singoli Stati richiedenti. Queste condizioni relativamente "morbide", in contrasto con molte altre aree dell'acquis, tendono a essere attribuite al desiderio della Commissione di non interferire in un dominio riservato tradizionalmente alla politica costituzionale sovrana. Tuttavia, il caso dell'Ungheria, dove il problema della regionalizzazione è stata portata avanti quasi interamente dalla preoccupazione di soddisfare i requisiti di adesione all'UE, mostra fino a che punto la Commissione dell'UE è interessata soprattutto alla capacità amministrativa e non al conferimento di poteri politici alle regioni. La Commissione preferisce occuparsi dei governi nazionali piuttosto che dei governi regionali a causa dei timori di una maggiore corruzione e della mancanza di capacità amministrativa al livello inferiore. Così, anche se in generale c'è stato un costante progresso nella regionalizzazione e nella decentralizzazione fra gli Stati membri dell'UE, le raccomandazioni della Commissione, anche se informali, non sempre hanno fornito questo risultato in Europa Centrale ed Orientale. ,cc i' Quindi, non è molto sorprendente che 1 europeizzazione abbia preso torme diverse in Europa Centrale ed Orientale. Sia la Polonia che l'Ungheria hanno accettato la riforma regionale come ingrediente essenziale dell'europeizzazione, ma con risultati differenti nei due casi. Guidata dall'imperativo della democratizzazione, la Polonia ha istituito regioni politiche pienamente qualificate (wojewòdztwa) con consigli eletti e vaste competenze, inclusa l'autorità per condurre relazioni dirette con le unità regionali degli Stati vicini. 48


Questa ultima caratteristica riflette, parzialmente, la pressione per creare partner uguali ai Lander tedeschi potenti. Tuttavia, anche se confinante con un Austria ugualmente federale, l'Ungheria finora ha istituito regioni amministrative, e specifiche dal punto di vista funzionale, che non escludono le competenze (similmente limitate) delle contee storiche di cui si compongono. Come afferma Fowler, le contee erano state pensate come entità aventi maggiore legittimità storica, in uno Stato che, unico fra i casi presentati qui, non ha grandi regioni storiche; le contee, inoltre, avevano acquisito peso politico nelle nuove strutture statali post-comuniste prima che la richiesta dell'UE relativa alla regionalizzazione fosse percepita. Ad ogni modo, da parte del terzo "concorrente" esaminato in questo saggio, l'Estonia, è stato scelto un altro percorso. Poiché si tratta di uno Stato relativamente piccolo, per l'UE il Paese può essere trattato come una singola regione, in modo tale che la richiesta per l'istituzione di regioni, per esempio per soddisfare gli abitanti della regione del Narva, possa essere ignorata. Malgrado l'ambiguità delle pressioni esterne per la decentralizzazione, le analisi contenute in questo saggio illustrano ampiamente il modo in cui i frequenti riferimenti all"Europa" sono stati una caratteristica sempre presente nei dibattiti sulla riforma della struttura amministrativa regionale, mentre l'"Europa" denota una gamma di cose diverse. Tale indeterminatezza riguardante l'Europa permette che il concetto venga "addomesticato" nella politica nazionale dei Paesi dell'Europa Centrale ed Orientale e utilizzato come risorsa di legittimazione supplementare nei dibattiti all'interno delle nazioni. LA PROSPETTWA DALLE REGIONI

In generale, le richieste delle minoranze etniche e regionali hanno avuto un impatto limitato sulla strada della decentralizzazione in Europa Centrale ed Orientale (forse con l'eccezione notevole della Crimea, dove le massicce mobilitazioni hanno indotto Kiev a cedere, almeno parzialmente, alle richieste regionali nella costituzione del 1996). Questo saggio esamina i casi di regionalismo basati sia su motivi etnici che storici; cioè i casi dove una minoranza etnica ha richiesto disposizioni speciali per l'auto-governo all'interno di un'unità territoriale particolare, o dove la storia particolare della regione è stata invocata per giustificare tali richieste. C'è una minoranza etnica concentrata nella regione di Narva e un'identità regionale distinta nella Slesia del Nord; mentre il Banat, la Transcarpazia e la Polonia orientale si distinguono per essere regioni multi etniche. Soltanto la Slesia ha avuta una certa tradizione di 49


autonomia nel periodo precedente la seconda guerra mondiale, mentre una promessa di autonomia per la Transcarpazia non si è mai materializzata nella Cecoslovacchia nel periodo tra le due guerre. Finora, tutte le richieste di queste regioni per il riconoscimento delle loro specificità sono state rigettate dagli Stati ospitanti, con l'eccezione parziale della Slesia del Nord, che è stata istituzionalizzata (anche se imperfettamente) in un nuovo wojewòdztwo. Questo fallimento non è solo dovuto alla riluttanza delle élite nazionali a concedere l'autonomia politica perle regioni storiche e/o le minoranze etniche negli insediamenti di un certo rilievo. Soprattutto, riflette una mobilitazione politica relativamente debole a livello locale e la limitata capacità degli "imprenditori" etnici e regionali ad esercitare la necessaria influenza sul processo delle riforme amministrative territoriali. Tuttavia, l'assenza di mobilitazione politica continua non significa che la dimensione locale e regionale può essere ignorata a causa della sua irrilevanza politica. Al contrario, tutte le regioni esaminate in questo saggio stanno articolando le loro particolari risposte agli sviluppi a livello nazionale ed europeo. L'analisi del punto di vista della periferia rivela gli sforzi prolungati degli Stati-nazione in Europa Centrale ed Orientale, mentre si confrontano con le sfide dell'allargamento dell'UE. Le élite nazionali non hanno un monopolio sulla definizione di europeità; in effetti, le versioni di "Europa" provenienti dalle periferie degli Stati differiscono da quelle delle capitali nazionali. In parecchi casi studiati in questo contesto, la caratteristica regionale è delineata per essere più "europea" del resto del Paese, mentre le richieste per il riconoscimento della diversità a livello locale sono giustificate in termini di adozione di modelli e standard europei. Questo collegamento delle regioni con l'idea di Europa chiarisce il modo in cui le dinamiche interne sono interconnesse con la dimensione esterna, cosa che rende la distinzione fra la politica nazionale ed internazionale sempre più vaga. A dispetto degli ordini del giorno nazionalisti, gli attivisti regionali non si riconoscono o non si identificano con l'intero territorio dello Stato nazionale. Invece, diffondono una nozione di collettività limitata ai confini regionali, mentre allo stesso tempo, nei loro discorsi, vanno oltre lo Stato-nazione. Nei casi della Slesia del nord, del Banat e della Transcarpazia, il rifiuto del paradigma nazionalista di nazionalità e di territorio .unificati e omogenei è accompagnato.da richieste di intrinseca europeità. Anche se, in maniera diversa dal. Banat o dalla Slesia del nord, la Transcarpazia non può rivendicare la prosperità economica come una delle sue credenziali "europee"; la coesistenza multi etnica pacifica, la tolleranza reciproca e la mancanza di qualsiasi forma 50


di mobilizzazione militante secondo le linee etniche o politiche vengono citate come caratteristiche peculiari della Transcarpazia che, dal punto di vista degli attivisti Rusyn, pongono la regione in posizione diversa dal resto dell'Ucraina. In particolare, il multi-culturalismo - che viene proclamato norma nelle relazioni inter-etniche in tutte le regioni storiche esaminate in questo saggio - viene indicato come caratteristica peculiare che pone queste regioni in posizione diversa all'interno dei rispettivi Stati-nazione, ma che allo stesso tempo le porta più vicino all"Europa". Quindi, viene messo in risalto l'inerente collegamento di queste regioni con l'Europa, bypassando lo Stato-nazione. Come afferma Smith, nel caso della regione del Narva, popolata da una popolazione di etnia russa e di lingua russa, l'Europa è vista come fattore che si pensa possa ridurre il predominio dello Stato-nazione estone sulla regione. Anche se i richiami all'autonomia da parte della minoranza russa si sono indeboliti (cosa che riflette la mancanza di identità coerente fra gli abitanti della regione e della preoccupazione della minoranza per uno status di cittadinanza e residenziale), i Russi di Narva guardano all'Europa nella speranza di una autonomia territoriale più grande una volta che l'Estonia aderisca all'UE. L"Europa", tuttavia, non evoca soltanto associazioni positive; è anche una fonte di minaccia per le regioni, nella misura in cui tutti, a parte la Slesia del nord, saranno influenzati dai cambiamenti dello status dei loro confini esterni risultanti dall'allargamento dell'UE. Si troveranno nella parte immediatamente interna o immediatamente esterna dell'Unione allargata. Quindi, per queste regioni, assume un rilievo evidente l'incongruità fra i discorsi su un'"Europa libera e indivisa" e le politiche tese ad un inasprimento dei controlli ai confini su istigazione dell'UE. I nostri case studies regionali chiariscono le preoccupazioni profonde che esistono riguardo ai confini di'Schengen e la relativa possibilità di ostacolare i rapporti inter-etnici ed i contatti economici e culturali reciprocamente favorevoli che si sono sviluppati fra le regioni che vi si trovano a cavallo. Mentre per le capitali nazionali degli Stati candidati, l'introduzione di Schengen solleva problemi di politica estera e di sviluppo economico regionale, per le regioni che si trovano ai confini la prospettiva evidenzia il problema della sopravvivenza economica quotidiana e della minaccia dell'emarginazione, in qualsiasi lato del confine si troveranno. Questo è un problema particolarmente spinoso per le regioni "esterne". Come dimostrano i nostri studi, le rivendicazioni di "europeità" di tali regioni vengono fatte senza tener conto della posizione dei rispettivi Stati nel processo di allargamento. Poiché le prospettive di adesione all'UE della Romania, e 51


tanto meno dell'Ucraina, sono molto deboli e persino in ribasso, nel Banat e nella Transcarpazia, l'esclusione dal processo di allargamento dell'UE viene descritto come una vera e propria tragedia imminente. Ciò non soltanto perché l'esclusione minaccia di interrompere scambi economici vitali e intensi attraverso il confine ed insidia lo sviluppo di "Euroregioni". Esso produce anche un senso acuto di frustrazione, di "tradimento" della stessa Europa nei confronti della proclamata vocazione europea di queste regioni. Dopo l'allargamento, le loro pretese identità regionali non coincideranno con i nuovi confini geopolitici ed economici dell'Europa, che per molti aspetti vengono visti, sia all'interno che all'esterno dell'Unione, come sinonimi dei confini dell'UE. Cosicché, le élite di queste regioni di confine tracciano un proprio discorso peculiare dell'Europa. La Transcarpazia e il Banat (così come la Gaizia in Ucraina, non affrontata in questo saggio) affermano di appartenere all"Europa Centrale" (vedi Batt e Wolczuk, 2001); una rivendicazione che per Paesi quali la Polonia o l'Ungheria è ormai in gran parte superata. La nozione relativa ad un'identità dell'Europa Centrale, che è stata fatta rivivere nei discorsi dei dissidenti negli anni Ottanta (vedi Schòpflin e Wood, 1989), era animata dal desiderio di opporsi al dominio sovietico. Verso la metà degli anni Novanta, aveva perso gran parte della sua vitalità, mentre l"Europeità" ha cminciato ad essere misurata secondo i criteri di Copenhaghen. Tuttavia, dando Èisalto alla loro appartenenza all'"Europa Centrale" come soggetti appartenuti in precedenza alla monarchia degli Asburgo, le regioni di confine in Romania e in Ucraina rinforzano i loro legami intrinsechi con un'Europa più grande. Così, anche se ormai nel linguaggio ufficiale l"Europa Centrale" denota poco più di un anticamera per i candidati dell'UE, la nozione di un'identità dell'Europa Centrale è lòntana dall'essere moribonda: si è mossa verso est ed è abbracciata dalle regioni occidentali dei Paesi esclusi dall'integrazione. La prospettiva dell'esclusione genera frustrazione non soltanto nei confronti dell"Europa" ma, forse soprattutto, verso le rispettive capitali nazionali, dato il ritardo nella preparazione per "il ritorno in Europa". Gli appelli all'apparte," ,, nenza all Europa Centrale hanno lo scopo non solo di mostrare iiegami 1 organici con l'Europa allargata ma anche il contrasto con il carattere oppressivo delle capitali nazionali, cioè Bucarest e Kiev, la cui incompetenza e corruzione è attribuita (almeno in parte) alle loro diverse tradizioni culturali "orientali". Ciò rivela la profondità e la forza potenziale delle prolungate tensioni fra il centro e la periferia che esistono in questi Stati, tensioni che sono probabilmente esacerbate dall'esclusione dal processo di allargamento dell'UE. Ciò ha 52


importanti implicazioni politiche per le relazioni esterne dell'UE, in generale, e per la gestione politica dei suoi confini, in particolare. Mentre l'effetto dell'allargamento sui nuovi Stati membri sarà profondo, il suo impatto sulla stabilità degli Stati lasciati fuori dai futuri confini dell'UE può essere più difficile da predire e, comunque, non può essere ignorato dall'UE. (Traduzione di Alfonso Ferraro)

Questo articolo e quello che segue di Thie!emann sono tratti da «Regional and Federa! Studies»; dal n. 1 e da! n. 2 del vo!. 12, 2002. Tutti i diritti appartengono ai rispettivi autori.

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Il prezzo deIl'europeizzazione. La politica regionale europea di Eiko R. Thielemann

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egli ultimi tre decenni la politica regionale europea è diventata una delle principali aree d'attività della UE'. Dalla creazione del Fondo di Sviluppo Regionale Europeo (Fsi) nel 1975, è diventata la seconda area politica per importanza all'interno della Unione, visto che il budget relativo raggiunge il 35% dell'intero budget UE del 2000 (Commissione Europea, 2000). Mentre l'impatto della politica regionale europea sulla riduzione delle disparità regionali è rimasto limitato (Commissione Europea, 2001), il suo impatto sulla governance europea, vale a dire la questione di come la politica regionale dovrebbe essere condotta in Europa, è statò molto più rilevante. Le ragioni di un tale stato di cose possono essere individuate se si riconosce l'importanza di tre dicotomie chiave che hanno modellato l'evoluzione del regime politico regionale europeo: 1) sviluppo contro compensazione; 2) intergovernativo contro multi-kvel governance, e 3) coesione contro concorrenza. Una più approfondita analisi di queste dicotomie può aiutare ad eliminare alcuni miti persistenti all'interno di quest'area politica. Come prima cosa, si può mostrare che la politica regionale europea non fu creata principalmente per costituire un meccanismo con il quale ottenere una riduzione delle disparità regionali in Europa. Piuttosto, una parte importante (alcuni direbbero la parte più importante) della sua ragion d'essere è sempre stata quella di agire come un meccanismo attraverso il quale compensare sbilanci dei contributi netti degli Stati membri al budget europeo. Questo articolo tenta di mostrare che si può trovare la prova evidente di questa "logica di compensazione", anche dopo la recente riforma dei Fondi Strutturali del giugno 1999. Come seconda cosa, si sente il bisogno di negare l'opinione comune che la policy-making europea sia un'area in cui regni sovrana una logica di decisionmaking intergovernativa. Mentre ciò potrebbe essere ancora vero per decisio-

L'Autrice è Docente alla London School of Economics and Politica! Science. 54


ni strettamente legate al budget, la programmazione e l'implementazione della politica regionale della Comunità Europea costituiscono forse l'esempio principale di multi-level governance dell'Unione Europea (Marks, 1992; 1993; Marks et al., 1996), con effetti devoluzionistici sentiti anche in Stati molto decentralizzati come la Germania. Infine, c'è il mito che vuole che la politica regionale europea sia concentrata principalmente sui Fondi Strutturali e sul Fondo di Coesione. Una tale conclusione ignora il ruolo cruciale che è stato svolto da settori meno visibili ma molto influenti dell'autorità della Commissione, in particolare i suoi poteri nel campo dei controlli degli aiuti di Stato. Non si esagera se si afferma che "per gran parte della storia della Comunità, DG IV, la Direzione Generale della Competition Policy della Commissione, ha avuto più impatto sulla politica regionale negli Stati membri, di quanto ne abbia avuto la Direzione della Politica Regionale, DG XV1" (Yuill, Bachtler, e Wishlade, 1997, p. 122). 2 In altre parole, gli obiettivi della concorrenza hanno sempre teso ad avere la meglio sugli obiettivi di coesione nella Comunità Europea. Il carattere particolare della politica regionale europea come si è evoluta nei quattro decenni della sua esistenza, ha lasciato il suo segno non solo sulla governance a livello europeo ma anche sui sistemi regionali interni e perfino sulla politica. Il caso dell'integrazione della Germania Est nel regime di politica regionale della Comunità Europea rafforza l'idea che iniziative di politica regionale europea possono costituire un'arma a doppio taglio per gli Stati membri3 . Mentre gli Stati membri sono stati in grado di raccogliere i benefici finanziari, questi benefici hanno avuto un costo politico, poiché le iniziative di politica regionale europea hanno significativamente ridotto l'indipendenza delle autorità nazionali. Per provare la validità di queste affermazioni l'articolo inizierà delineando l'evoluzione delle iniziative di politica regionale europea sullo sfondo delle tre dicotomie in concorrenza identificate in precedenza. La seconda parte dell'articolo valuta l'impatto di queste logiche in concorrenza nello sviluppo della politica regionale europea, prendendo principalmente spunto dall'esempio dell'integrazione, della Germania Est nel regime di politica regionale europea. Mostrerà come l'importanza dei principi, spesso sottostimati, di "sviluppo", "partnership" e "concorrenza" possa avere straordinari effetti di europeizzazione sulla policy-making regionale negli Stati membri. 55


LOGICHE IN CONCORRENZA NELL'EVOLUZIONE DELLE INIZIATIVE DI POLITICA REGIONALE EUROPEA In questo paragrafo si tratteranno tre questioni che sono state cruciali per l'evoluzione delle iniziative di politica regionale europea. Nella prima ci si chiederà fino a che punto la politica regionale europea è stata dominata da una "logica di sviluppo regionale" o se ha prevalso la preoccupazione di distribuire equamente il peso finanziario dell'integrazione europea tra gli Stati membri. Nella seconda, fino a che punto il regime di politica regionale della Commissione europea si è mosso verso un sistema di multi-level governance. E infine, qual è stato l'impatto delle altre attività della Commissione (in particolare, quella del controllo della Direzione Generale per la Concorrenza degli aiuti di Stato) sulle politiche regionali europee. Ognuna ditali questioni sarà esaminata a turno considerando le fasi fondamentali del processo di integrazione europea in relazione alla politica regionale. Le fasi che saranno esaminate in dettaglio sono il Trattato di Roma del 1957, la creazione del Fondo di Sviluppo Regionale Europeo nel 1975, le riforme dei Fondi Strutturali del 1988 e del 1999.

Sviluppo vs. logica di compensazione Fino al 1975 difficilmente si poteva affermare l'esistenza di una sistematica politica regionale della Comunità Europea (Armstrong, 1975, p. 136). Il primo allargamento della Comunità rappresentò il più importante impulso per la creazione del FsRE e coinvolse Paesi con grandi problemi regionali. Mentre i problemi dell'Irlanda avrebbero potuto essere trattati all'interno di un quadro di assistenza agricola, il Regno Unito aveva numerose regioni che soffrivano un declino industriale, per il quale gli strumenti finanziari a disposizione della Comunità offrivano poco aiuto. Ad ogni modo, fin dagli esordi, lo scopo del Fondo non era soltanto (o almeno non principalmente) quello dello sviluppo regionale. Martin e Mawson affermano che 1 esistenza di disparità regionali all'interno della Comunità non è mai in se stessa una ragione sufficiente per lo sviluppo di una Politica Regionale Comune" (1980, p. 29). Il Regno Unito non fu il solo a vedere nel FsRE un meccanismo per compensare in parte la contribuzione netta al budget della Comunità Europea. Durante i primi anni, il fondamento logico del Fondo fu di permettere a più Stati membri possibile di usufruirne, piuttosto che concentrare le sue risorse sulle aree maggiormente bisognose della Comunità. Di conseguenza, le 56


prime trattazioni accademiche del FsRE risalenti alla fine degli anni Settanta erano molto scettiche sull'efficacia del Fondo come strumento di sviluppo regionale (Wallace, 1977a; 1977b; Armstrong, 1978). La prima conclusione di Van Dorn al tempo della creazione del Fondo fu che "la costituzione di un Fondo di Sviluppo Regionale" non è tanto uno strumento per trattare le disparità regionali, quanto un mezzo per affrontare le disparità nazionali relative ai contributi provenienti dalla Comunità e ai pagamenti per il budget della Comunità" (1975: 400). Tredici anni dopo, le conclusioni di Wise e Croxford erano cambiate di poco. Essi affermavano che fino al 1988 il FsP.E era rimasto "uno strumento politico essenzialmente 'cosmetico" (1988, p. 164). In altre parole, il primo FsRE costituì una politica regionale solo nel nome. Nelle attività di preparazione del Programma del Mercato Unico, si poteva notare una crescente consapevolezza del pericolo che le regioni più deboli della Comunità sarebbero state nettamente svantaggiate da un'ulteriore integrazione del mercato (Commissione Europea, 1987, p. 4). In riconoscimento di questo pericolo, nel 1988 i Regolamenti permisero alla Direzione Generale per le Politiche Regionali una discrezione molto più ampia rispetto allo spiegamento di maggiori risorse, il che permise lo spostamento del bilancio del Fsiu, dalla sua iniziale funzione di compensazione più verso una vera funzione di sviluppo regionale (McAleavey, 1995, pp. 146-93) 4 . Due principi - addizionalità e concentrazione - che formarono una parte importante dei regolamenti dei Fondi Strutturali fin dalle riforme del 1988, hanno lo scopo di indirizzare specificamente la questione della funzione sviluppo-contro-compensazione della politica regionale europea. Ilprincipio di addizionalità richiede che i trasferimenti europei siano addizionali (e non sostitutivi) dell'assistenza nazionale verso le regioni prefissate. Scharpf nota che per tutti i programmi europei e specialmente per quelli del Fsi "la sola questione interessante è se i fondi europei si aggiungeranno alla spesa nazionale o la sostituiranno", affermando che "non esistono dubbi sulla capacità dei cani nazionali di agitare la coda europea" (1988: 251). Dall'allentamento dei controlli sui fondi di addizionalità nel 1993 (Bache, 1998), nessun cambiamento decisivo riguardante l'addizionalità è stato fatto nelle recenti riforme, il che significa che è ancora difficile per la Commissione assicurare che il finanziamento europeo sarà veramente addizionale all'assistenza nazionale. Il principio di concentrazione cerca di assicurare che i finanziamenti del Fondo Strutturale siano concentrati nelle aree maggiormente bisognose di as57


sistenza finanziaria. Il risultato di queste considerazioni fu che la riforma del 1988 introdusse cinque obiettivi prioritari (Commissione Europea, 1989) 5 La definizione di questi obiettivi di politica regionale europea rappresentò uno sviluppo significativo, poiché non tutte le aree designate come idonee a ricevere l'aiuto europeo furono all'epoca autorizzate a ricevere aiuti regionali secondo i programmi di politica regionale dei singoli Stati membri. Inoltre, a causa dei requisiti stabiliti dalla Commissione per l'addizionalità e per il cofinanziamento (finanziamento abbinato), queste nuove misure significavano che gli Stati membri dovevano iniziare a investire nelle regioni stabilite se volevano attrarre i fondi della Comunità. Si può così affermare che, per la prima volta, la politica regionale nazionale era in qualche modo subordinata alla politica regionale della Comunità. Tuttavia, l'autorità che avrebbe preso le decisioni sull'idoneità allo status di Obiettivo i (per il quale sono riservati più di due terzi dei finanziamenti del FsR4 fu assegnata al Consiglio dei Ministri. Il risultato è che il processo di designazione delle regioni idonee all'assistenza, secondo i vari Obiettivi, è rimasto un processo di negoziazione politica piuttosto che un'applicazione automatica di criteri oggettivi. In risposta alle continue critiche che la ripartizione del denaro fosse ancora troppo ampia, la riforma dei Fondi Strutturali del 1999 ha ridotto il numero degli Obiettivi da sei a tre6. Questi tre nuovi Obiettivi, comunque, sono stati ampliati per comprendervi, almeno parzialmente, i tre vecchi Obiettivi addizionali. Inoltre, le regioni che dovranno perdere l'assistenza regionale europea come conseguenza delle nuove ripartizioni, usufruiranno di generosi pagamenti transitori. Nonostante qualche genuino sforzo di concentrazione nell'area delle Iniziative della Comunità, che erano state ridotte da undici a quattro7, i nuovi regolamenti non costituiscono un passaggio decisivo verso la "concentrazione" o il rafforzamento fondamentale di una "logica di sviluppo regionale". Questa considerazione è sostenuta da uno sguardo al nuovo progetto di "performance reserve" introdotto nella riforma del giugno 1999. Questa innovazione istituzionale implica il trattenimento del 4% dell'accantonamento originale per ogni Stato membro. Il denaro trattenuto dovrà essere usato come riserva per far fronte a finanziamenti supplementari dopo la revisione di medio termine in base alla relativa performance: le regioni che riescono a raggiungere con più successo gli obiettivi di politica regionale riceveranno risorse addizionai. Il nuovo progetto, a dispetto della grandi speranze iniziali, non significa neanche un allontanamento dalla logica della compensazione, poiché le regioni competono per il denaro proveniente dalla "performance reserve" solo all'interno di ogni Stato membro e secondo criteri nazio.

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nali. I propositi iniziali della Commissione di introdurre una concorrenza a livello europeo sulla base di criteri europei, con la possibilità di scelta assegnata alla Direzione Generale per le Politiche Regionali piuttosto che alle autorità degli Stati membri, si sono rivelati inaccettabili per gli Stati membri. Chiaramente, continua a esserci una forte logica di compensazione alla base degli atteggiamenti degli Stati membri verso la politica regionale europea. Il persistere di questa logica è dovuto molto alla forza dei governi nazionali nel processo di politica regionale europea. Nel prossimo paragrafo si discuterà di quanto la prassi intergovernativa sia stata indebolita dalle recenti riforme e di come abbia dato spazio a forme di multi-levelgovernance.

Logica intergovernativa vs. logica di multi-levelgovernance La questione su fino a che punto il processo di politica regionale europea sia caratterizzato da una logica intergovernativa o da una logica di multi-level governance è un secondo problema che ha lasciato il segno sui recenti dibattiti circa le principali caratteristiche della politica regionale europea. Durante il periodo iniziale del Fsi, furono chiaramente i governi nazionali che diedero forma al progetto della nuova politica. Preston nota che durante i negoziati che portarono all'istituzione del Fsiu, "le proposte furono coerentemente indirizzate alla gerarchia di autorità ogni qualvolta si sosteneva ci fossero interessi vitali nazionali in gioco" e tutte "le decisioni più importanti riguardanti la creazione di una politica regionale europea furono prese dal Consiglio dei Ministri" (Preston, 1984: 86). In quei primi anni, inoltre, furono i governi nazionali a dominare il processo di implementazione. "Che la Commissione fosse in grado di influenzare l'agenda era importante, ma non decisivo" (Bache, 1998: 46). Il ruolo di un livello subnazionale nel processo del FsRE durante quegli anni rimase a livelli minimi. I governi centrali ebbero successo nel loro ruolo di portieri tra le istituzioni europee e gli attori subnazionali. Alcuni sperarono che le riforme dei Fondi Strutturali del 1988 cambiassero le cose. Mentre le prime proposte della Commissione alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli anni Ottanta avevano incontrato una forte opposizione all'interno del Consiglio, alla fine degli anni Ottanta, durante un periodo di generale ottimismo economico e di sentimenti a favore dell'integrazione in seguito al Single European Act (Atto Unico Europeo), le proposte della Commissione furono accettate dai governi nazionali con pochi cambiamenti. In particolare, c'erano grandi aspettative relative all'istituzionalizzazione del principio di partnership che costituiva una delle innovazioni cruciali della riforma 59


del 1988. I Regolamenti riconobbero ufficialmente non solo il ruolo degli attori sopranazionali, ma anche di quelli subnazionali secondo il principio di partnership. Nei Regolamenti il principio Ri definito come "stretta consultazione.., tra la Commissione, lo Stato membro interessato e le autorità competenti designate da quest'ultimo a livello nazionale, regionale, locale o altro, con ogni parte agente come parte alla ricerca di un comune obiettivo" 8 Benché la nuova enfasi sulla partnership fosse espressa nel linguaggio dell'efficacia politica, è chiaro che i cambiamenti, almeno potenzialmente, potevano avere importanti implicazioni politiche. Essi potevano influenzare la politica territoriale negli Stati centralizzati e in quelli federali, visto che il principio di partnership significava il coinvolgimento formale degli attori subnazionali nel processo di decision-making, dove il loro ruolo era stato in precedenza consultivo, sfidando i rapporti gerarchici esistenti tra il governo centrale e le autorità subnazionali. Inoltre, con la riforma dei Fondi Strutturali del 1993, il raggio d'azione del principio di partnership fu ampliato non solo per indirizzare le relazioni tra i diversi livelli di governo nella policymaking regionale, ma anche per favorire il coinvolgimento di partner economici e sociali (come i sindacati, associazioni commerciali e industriali, gruppi sociali e ambientalisti) nel processo di evoluzione della politica europea. Questi fondi destinati alla partnership allargata furono confermati nella riforma dei Fondi Strutturali del 1999 in cui si diceva che "la partnership dovrebbe essere rafforzata" e che i partner economici e sociali e altri organismi competenti "saranno chiamati a partecipare alla preparazione, al monitoraggio e alla valutazione dell'assistenza" 9. Benché la riforma del 1999 riconfermasse la posizione chiave dei governi centrali o gli attori selezionati dai governi centrali, le riforme non rinazionalizzarono, come qualcuno aveva temuto, i Fondi Strutturali (Sutcliffe, 2000, p. 306). C'è poco disaccordo nella letteratura sul fatto che le riforme, fin dalla fine degli anni Ottanta, hanno rappresentato fondamentali passi in avanti nell'evoluzione di un politica regionale europea. Fino a che punto le riforme hanno costituito un cambiamento nelle strutture di governance esistenti, comunque, è più contestato. In relazione ai cambiamenti nel budget europeo, i resoconti intergovernativi appaiono molto convincenti. (Moravicsik, 1993). Come detto in precedenza, l'aumento sostanziale dei Fondi (decisi come parte delle riforme del 1988 e del 1993) può essere considerato un pagamento ulteriore da parte dei contribuenti netti per assicurarsi il sostegno da parte degli Stati membri più poveri per il completamento del Mercato Unico (Pollack, 1995). Comunque, come Marks (1993, p. 395) giustamente asserisce, "determinare .

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l'ammontare del budget non significa determinare il modo in cui esso viene speso". Mentre le decisioni budgetarie sui Fondi Strutturali sono rimaste un affare soprattutto intergovernativo, il dominio dei governi centrali nelle aree di progettazione ed esecuzione dei Fondi è chiaramente diminuito dalla fine degli anni Ottanta. Marks nota che "al di là e al di sotto della politica più che visibile dello Stato membro che contratta, si trova un processo scarsamente illuminato riguardante la formazione istituzionale, e qui la Commissione ha giocato un ruolo vitale" (1993, p. 392). I proponenti di una multi-level governance affermano che "le riforme hanno creato problematiche di governance e di giurisdizione nuove e inattese; essi hanno prodotto nuove arene in cui le decisioni verranno prese; e hanno moltiplicato il numero e il tipo di gruppi che lottano per avere influenza su risultati sostanziali e, più importante, per il controllo sui processi di decisione" (Marks, 1992, pp. 214-2 15). I nuovi regolamenti introdotti sin dalla metà degli anni Ottanta hanno chiaramente modificato la capacità della Commissione Europea di dare forma alle operazioni dei Fondi in base alle sue priorità. Hanno anche dato alla Commissione la possibilità di discutere con attori nazionali e subnazionali in un rapporto di scambio politico che può essere meglio capito pensando ad un network politico a vari livelli (Rhodes, 1997)10. L'istituzionalizzazione del principio di partnership ha significativamente aumentato gli input di attori a livello nazionale ed europeo, cambiando così, almeno potenzialmente, le strutture di governance del policy-making regionale europeo. L'importanza dei risultati della governance verranno discussi più in dettaglio qui sotto, in un'analisi dell'impattò della partnership nell'ex Germania dell'Est.

Coesione vs. obiettivi di concorrenza Un terzo e spesso trascurato aspetto della politica regionale europea è il controllo degli aiuti per lo sviluppo regionale della Comunità Europea e degli Stati membri, secondo le disposizioni della politica di concorrenza del Trattato (Schina, 1987). E questa rappresenta un'importante omissione. In effetti, si è affermato che la Direzione Generale per la Concorrenza, la Direzione Generale per la Competition Policy della Commissione ha avuto un impatto maggiore sulla politica regionale negli Stati membri rispetto alla Direzione per la Politica Regionale, Direzione Generale per le Politiche Regionali (Yuill, Bachtler, e Wishlade, 1997, p. 122). In caso di conflitto tra gli obiettivi di coesione della Comunità e gli obiettivi di concorrenza le priorità della Direzione Generale per la Concorrenza tendono sempre a prevalere. 61


In tutti gli Stati membri, le imprese decidono liberamente dove investire. Comunque, tali decisioni vengono sempre più influenzate dalle azioni delle autorità pubbliche, le quali attraverso vari incentivi (assistenza indiretta come i Fondi Strutturali, ma anche incentivi finanziari più diretti) cercano di integrare le decisioni dell'impresa del luogo nel contesto dei loro più vasti obiettivi di politica regionale. Tali incentivi regionali diventano consistenti poiché molti Stati membri e regioni sono in concorrenza per gli investimenti mobiliari. Questo sviluppo può portare ad una distorsione nella concorrenza poiché aiuti esagerati negli investimenti possono portare a décisioni sulle localizzazioni non giustificabili su1 piano commerciale. In relazione al controllo degli aiuti di Stato nel campo della concorrenza, il Trattato di Roma era piuttosto specifico, dando poteri sostanziali alla Commissione Europea. L'Articolo 87 (ex Articolo 92) dispone una generale proibizione degli aiuti di Stato quando influenzano il commercio tra gli Stati membrihl. Comunque, l'Articolo 87 (1) definisce anche gli aiuti che possono essere considerati compatibili con il mercato comune. Con riferimento all'impatto sugli aiuti regionali, le disposizioni degli Articoli 87 (3) (a) e 87 (3) (c) sono le più importanti, poiché entrambe prevedono che gli aiuti regionali possano essere esentanti dalla generale proibizione imposta agli aiuti di Stato. Secondo l'Articolo 88 (ex Articolo 93), la Commissione viene incaricata "in cooperazione con gli Stati membri" di tenere "sotto costante revisione tutti i sistemi di aiuto" esistenti negli Stati membri. La logica di questi articoli deve essere vista sullo sfondo della creazione del Mercato Comune. Visto che gli Stati membri non potevano più far uso delle barriere commerciali tradizionali, come quote doganali e dazi, c'era il rischio percepito che essi avrebbero fatto sempre più ricorso agli aiuti di Stato per rilanciare le offerte nel tentativo di attrarre investimenti. Secondo Schina, questo rappresentò "una corsa che le regioni periferiche più povere e peggio equipaggiate erano condannate a perdere" (1987, p. 65). Come risposta, la Commissione rese più rigido il regime degli aiuti di Stato alla fine degli anni Ottanta. Una Comunicazione della Commissione del 1988 agli Stati membri, riguardante il problema della designazione delle aree idonee agli aiuti regionali, costituì un importante sviluppo nell'evoluzione delle regole per gli aiuti di Stat0 12. Il restringimento delle regole per gli aiuti di Stato portò alle proteste dei funzionari degli Stati membri che lamentarono il fatto che la Commissione basava troppo i suoi giudizi su pochissimi indicatori. Alcuni funzionari avevano la sensazione che la DG per la Concorrenza faceva uso "di una giustificazione essenzialmente illegittima per decisioni che erano di gran lunga soggetti62


ve (Yuill, Bachtler, e Wishlade, 1997, p. 140). Come risultato dell'accresciuto ruolo assertivo della Commissione riguardante la designazione delle aree idonee agli aiuti regionali, gli anni Ottanta registrarono un numero maggiore di dispute tra la Commissione e gli Stati membri. Poiché la Direzione Generale per la Concorrenza cominciò ad avere un impatto significativo sulla copertura delle aree assistite negli Stati membri, alcuni tra quest'ultimi lamentarono il fatto che la Commissione era intenta a imporre la sua mappa delle aree assistite tenendo in poco conto le preferenze nazionali. Come conseguenza del nuovo attivismo della Direzione Generale per la Concorrenza, nel corso degli anni Ottanta molti degli Stati più ricchi della UE furono costretti a tagliare lo spazio di copertura delle loro politiche di aiuto regionale (Yuill, Bachtler, e Wishlade, 1997, p. 128). Molti Stati membri hanno avuto difficoltà ad accettare questa cosa, affermando che la loro preoccupazione principale riguarda le disparità nazionali e non quelle europee, contestando che vi sia un legame rilevante tra la copertura dell'area assistita e la distorsione della concorrenza. Le attività della Commissione nel campo del controllo degli aiuti di Stato non comportarono solo dispute tra la Commissione e gli Stati membri. Su insistenza della Direzione Generale per la Concorrenza, i Regolamenti dei Fondi Strutturali del 1988 richiedevano ugualmente che il Community Support Framework (CsF) contenesse una clausola standard che determinasse che solo l'aiuto notificato e approvato in accordo con le disposizioni sugli aiuti di Stato del Trattato poteva essere idoneo all'aiuto europeo. Il risultato fu che la politica degli aiuti di Stato della Comunità Europea e la sua politica regionale, e quindi la Direzione Generale per la Concorrenza e la Direzione Generale per le Politiche Regionali, vennero in conflitto diretto (Yuill, Bachtler, e Wishlade, 1997, p. 141). I Fondi Strutturali possono finanziare in parte i progetti di aiuto nazionale, ma questi devono essere notificati e approvati in accordo con l'Articolo 87 (ex Articolo 92) e 88 (ex Articolo 93) del Trattato. Ciò, effettivamente, dà maggiori poteri ai funzionari della Direzione Generale per la Concorrenza di controllare dove le politiche regionali europee possono essere utilizzate e dove no. Ciò ha comportato delle dispute, non soio tra la Commissione e gli Stati membri, ma anche tra i funzionari per la concorrenza e policy-maker regionali all'interno della Commissione, con la Direzione Generale per le Politiche Regionali che accusa il Competition Directorate di indebolire gli obiettivi di coesione della Comunità (Wishlade, 1993). Iniziative più recenti hanno rafforzato l'impressione di un accresciuto attivismo da parte della Direzione Generale per la Concorrenza nel campo del controllo degli aiuti di Stato. Nel 1998, la Direzione Generale per la Concorrenza 63


pubblicò una revisione delle "Linee Guida per gli Aiuti Regionali Nazionali" 3 Nel complesso, le nuove linee guida rappresentano un ulteriore inasprimento dell'atteggiamento della Direzione Generale per la Concorrenza verso gli aiuti regionali nazionali. Colpisce che le nuove linee guida non facciano cenno di specifiche preoccupazioni relative alla concòrrenza, che dopo tutto sono la principale direttiva della Direzione Generale per la Concorrenza. Nota Wishlade: "È forse facile perdere di vista il fatto che le nuove Linee Guida sugli Aiuti Regionali Nazionali si preoccupano di prevenire le distorsioni sulla concorrenza e sul commercio. Invece, le nuove disposizioni si concentrano molto sulla copertura spaziale della politica regionale nazionale" (Wishlade, 1998a, p. 357). Il principale obiettivo di queste nuove linee guida è di ridurre ulteriormente la copertura totale dell'area assistita dalle politiche regionali degli Stati membri. Secondo Wishlade, "la limitazione della copertura dell'area assistita, unita alle condizioni alle quali i sistemi di designazione dell'area devono conformarsi, metteranno la camicia di forza ai progetti di politica regionale nazionale" (1998a, p. 357). Le nuove linee guida probabilmente provocheranno notevoli controversie all'interno delle nazioni, poiché le autorità subnazionali competeranno tra di loro, provando ognuna ad evitare la prospettiva di essere quella sulle cui spalle ricadrà la riduzione delle dimensioni dell'area assistita. In relazione alla copertura territoriale delle mappe dell'area assistita, la Commissione ha recentemente proposto nella sua Agenda per il 2000 che la percentuale di popolazione dell'Unione coperta dall'Obiettivo i e 2 fosse ridotta dal 51% al 35-40% 1 . Questi suggerimenti erano chiaramente di pugno della Direzione Generale per la Concorrenza. Insieme all'annuncio nell'Agenda 2000 che alcune aree assistite degli attuali Stati membri potevano essere lasciate fuori a causa dell'allargamento, si danno delle letture spiacevoli per molti degli Stati membri esistenti. Si mostrerà più avanti che l'impatto dell'attivismo della Direzione Generale per la Concorrenza sul controllo dei sussidi pubblici e sulle aree assistite designate è stato sentito in maniera particolarmente forte nella Germania post unificazione, dove gli obiettivi di coesione e di concorrenza erano spesso in contrasto, con i primi che spesso dovevano cedere il passo ai secondi. .

IL PREZZO DELL'EUROPEIZZAZIONE: L'INTEGRAZIONE DELLA GERÌvt.NIA EST IN EUROPA

La discussione di cui sopra suggerisce che le iniziative di politica regionale europea sono sempre state molto politiche. Le recenti riforme hanno rafforzato solo leggermente la "logica di sviluppo regionale" della politica regionale 64


europea e hanno avuto soio un impatto limitato sulla riduzione delle disparità in Europa. Comunque, le loro conseguenze sulla governance - non solo a livello europeo ma anche a livello nazionale - non sono state molto più efficaci. La parte empirica di questo articolo analizzerà fino a che punto le alterazioni al regime di politica regionale europea hanno cambiato il modo in cui viene condotta la politica regionale negli Stati membri. Tre esempi, che mettono in evidenza l'esperienza dell'integrazione nella ex Germania Est nel regime di politica regionale europea, dimostreranno l'impatto delle recenti iniziative di politica regionale europea nelle tre aree evidenziate in precedenza. Con questo, l'articolo cerca di contribuire empiricamente al fiorente dibattito sull'europeizzazione (Kill e Lenschow, 1998; Radaelli, 2000; Bomberg e Peterson, 2000; Goetz e Hix, 2000).

Oltre la "logica di compensazione' l'europeizzazione della politica regionale tedesca Che i policy-maker regionali nazionali devono ancora riconoscere pienamente l'obiettivo "sviluppo" della politica regionale europea è sottolineato dal fatto che i policy-maker nazionali continuano a considerare la policy-making regionale primariamente come una prerogativa dello Stato membro. I policymaker tedeschi, per esempio, potrebbero trovarsi d'accordo, in linea di principio, con il solenne obiettivo del Trattato di ridurre le disparità regionali in Europa. Tuttavia, sentono in maniera forte che il 1orocompito è di concentrarsi sulle disparità regionali interne (non europee), cioè sulle disparità che possono avere immediate conseguenze finanziarie e migratorie all'interno della Repubblica Federale (e, quindi, effetti politici interni). Queste priorità dei funzionari tedeschi sono passate di mano in mano, con la convinzione che istituzioni politiche regionali stabilite da lungo tempo sono più adatte a risolvere i problemi regionali interni e che quindi si dovrebbe prevenire, o almeno minimizzare, l'intrusione delle istituzioni europee nei regimi di politica nazionale. Comunque, la prova dell'integrazione della Germania Est nei Fondi Strutturali suggerisce che la Commissione Europea ha volontà e risorse per influenzare concretamente la politica e le politiche interne. Il rapporto tra la Direzione Generale per le Politiche Regionali e le autorità tedesche nel periodo di costituzione dei Fondi Strutturali del 1994-1999 fu segnato da un forte conflitto sui negoziati per l'East German Community Support Framework, cioè il documento che stabilì i dettagli per l'integrazione dei Liinder della Germania Est nei Fondi Strutturali. Il pomo della discor65


dia era se i fondi del FsRE destinati alla Germania Est dovessero passare esclusivamente attraverso il regime di politica regionale interno della Germania, il GRW15 , ed erogati secondo i criteri d'aiuto del GRW, o se i fondi Europei potevano in parte essere scorporati dal GRW, permettendo che una parte di questi soldi venissero utilizzati secondo esistenti criteri europei più flessibili 16. Il Ministro dell'Economia Federale di Bonn insistette affinché la spesa dei Fondi Strutturali in Germania fosse soggetta ai criteri del GRW e non a quelli dell'assistenza della Comunità, nella speranza di creare un singolo processo amministrativo unitario, alla luce dell'appena nata burocrazia dei nuovi Liinder (Anderson, 1996, p. 181). Di contro, i Lander erano in genere più favorevoli ai criteri Europei, poiché permettevano il sostegno ad un più ampio spettro di progetti (per esempio, aree come Ricerca & Sviluppo, infrastrutture per la formazione e non legate al profitto). La commissione appoggiò apertamente i Ldnder nella loro richiesta di "scorporare" i soldi europei dal GRw. Alcuni funzionari senior della Direzione Generale per le Politiche Regionali consideravano problematica l'applicazione della ristretta (Germania Ovest) definizione dei criteri di idoneità nel caso della ex Germania Est17. Il direttore della Direzione Generale per le Politiche Regionali, all'epoca incaricato dei negoziati con il governo della Germania, di conseguenza, si rifiutò inizialmente di approvare il "German Objective 1" CSF (1994-1999), bloccando così il flusso del denaro dei Fondi Strutturali fino al nuovo periodo di finanziamento 18. Alla metà del 1994, il governo della Germania Federale (sotto la montante pressione dei Ldna'er orientali in attesa dei loro finanziamenti), infine, fece delle concessioni su questo punto, permettendo ai Linder di "scorporare" i Fondi Europei, l'utilizzo, cioè, di parte del denaro del Fondo Strutturale al di fuori della struttura del GRW. La Sassonia, il Brandeburgo e il Mecklenburgo-Pomerania Ovest utilizzarono l'opportunità per "scorporare" parte dei finanziamenti europei loro allocati. L'impatto dei principi di politica regionale europea non fu limitato al processo relativo al policy-making europeo (rafforzando il carattere multi-level della governance europea) ma tali iniziative europee influenzarono anche i processi e i risultati di politica interna. La riforma della struttura della politica regionale tedesca (GRw) del 1995, per esempio, può essere pienamente compresa solo facendo riferimento all'impatto interno provocato dalle priorità della politica regionale europea. Durante i primi anni Novanta, il GRW e i ministri dell'economia Federale e dei Ldnder preposti dovettero subire dure critiche sia dall'Europa sia dall'interno. Le principali critiche espresse furono le seguenti: primo, la struttura di supporto del GRW venne considerato trop66


po concentrato sul supporto di investimento; secondo, il GRW fu accusato di scarsa capacità di risposta alle domande di regionalizzazione della politica regionale; terzo, la partecipazione dei partner sociali venne considerata largamente insufficiente; e infine, furono criticate la natura eccessivamente burocratica del sistema e la mancanza di coordinamento tra il GRW e altre aree politiche (vedi per es. DGB 1994). Un'analisi del lungo e protratto processo che, infine, culminò nella riforma del GRW va al di là dello scopo di questo articolo. Sarà sufficiente dire che mentre la riforma lasciò intatte le strutture principali del decision-making e il carattere fondamentale del GRW (come uno strumento specializzato nell'assistenza economica regionale concentrata sulle sovvenzioni per gli investimenti e l'assistenza per le infrastrutture) le prime tre delle suddette critiche vennero accolte e furono fatti importanti cambiamenti in queste aree 19. Primo, i criteri di idoneità per le sovvenzioni agli investimenti furono allargati e adesso sono disponibili per alcuni progetti relativi alla consulenza, la formazione e la Ricerca & Sviluppo. Le opportunità di supporto del GRW per le infrastrutture furono anch'esse ampliate e adesso permettono l'assistenza di infrastrutture che non siano prettamente legate al profitto. Secondo, i soldi del GRW possono ora essere utilizzati per co-finanziare i programmi di sviluppo regionale (integrati) dei Liinder a condizione che i soldi del GRW non escludano i fondi dei Ldnder. Questo cambiamento, almeno in parte, rispose ai richiami che volevano una maggiore "regionalizzazione" all'interno del sistema di politica regionale tedesca. In ultimo, pur non facendo parte dei cambiamenti formali introdotti, c'è una visibile istituzionalizzazione delle riunioni su problemi relativi al GRW tra i ministri dell'economia federali e dei Liina!er, altri ministri, autorità subregionali influenzati dalla policy-making regionale e partner economici e commerciali. Due comitati, ospitati dal Ministero dell'Economia Federale, adesso si incontrano regolarmente due volte l'anno 20 Tutti questi cambiamenti appaiono come il risultato dell'influenza, almeno in parte, dei Fondi Strutturali Europei. In riferimento ai primi due, la percepita severità dei criteri del GRW (se paragonati ai criteri dei Fondi Strutturali) è stato il principale motivo di blocco durante i negoziati sui CSF. L'allentamento dei criteri del GRW fa sì che i Ldnder possano utilizzare i Fondi Strutturali su basi molto più ampie all'interno della struttura del GRW. Come conseguenza, le agenzie federali e dei Ldnder, precedentemente escluse, hanno avuto accesso alle reti di politica regionale europea, rinforzando il carattere sempre più multilaterale delle reti. Inoltre, le condizioni allegate al nuovo fondo che permette di poter spendere i soldi del GRW in base ai programmi .

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di politica regionale dei Lander, segue la logica del principio di "addizionalità" dei Fondi Strutturali (Nagele, 1996, p. 296). Infine, l'istituzionalizzazione degli incontri tra il Ministero dell'Economia Federale e le autorità dei sotto-Lander e i partner sociali si configura, chiaramente, all'interno dello spirito del principio di partnership della CE, anche se potrebbe non essere la sola responsabile di questi cambiamenti. Dato il tipo di cambiamento fatto nel GRW, è difficile non arrivare alla conclusione che certi aspetti della riforma tentavano in maniera specifica di rendere più attraente per i Lander l'ottenimento dei finanziamenti dei Fondi Strutturali e di quelli del GRw, mentre altri aspetti della riforma furono chiaramente influenzati dai principi di politica regionale europea, come il principio di partnership. La prova esposta suggerisce, quindi, che la Commissione Europea era riuscita, almeno in parte, a dare alle problematiche relative allo sviluppo una priorità più alta nell'agenda della politica regionale europea. La riforma del GRW dimostra l"europeizzazione" sia del processo sia del contenuto del policy-making a livello interno.

La devoluzione europea indotta: la «partnershz" nell '4genda 21 della Commissione Si è detto sopra che l'evoluzione del policy-making nei Fondi Strutturali, e in particolare nello sviluppo del principio di partnership, aveva lo scopo di spostare il policy-making regionale europeo da una logica "intergovenativa" a una logica di maggiore "multi-level governance". Dove si possono vedere questi cambiamenti nella governance europea e qual è stato l'impatto sulle politiche interne? Se si tratta il concetto di partnership in termini istituzionali, come suggerito in precedenza, cioè come un insieme di regole e norme specifiche, tale analisi punta verso gli effetti deIl'europeizzazione che ruotano attorno alla domanda su chi dovrebbe partecipare al policy-making regionale a livello nazionale. È stato già detto in precedenza che trascinando ulteriormente i Lànder tedeschi nelle reti della politica regionale europea, il principio di partnership ha aiutato a legittimare i contatti diretti tra i nuovi Lander e la Commissione nel policymaking regionale europeo. La partnership sembra aver rafforzato la fiducia in se stessi della Commissione e dei Lander della Germania Est, al punto da richiedere ai governi nazionali di prendere in considerazione i loro interessi fin dallo stadio di progettazione del processo di programmazione, cosa che tradizionalmente ha rispecchiato, soprattutto, le preferenze dei governi nazionali. A livello di implementazione, la partnership ha influenzato anche il ruolo dei partner economici e sociali. Si potrebbe notare che la logica di partner-

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ship si è già insinuata nei regolamenti della politica regionale della Germania, dove ha rafforzato il coinvolgimento formale delle autorità subregionali e degli attori semi-pubblici nel processo di politica regionale. Nel caso dell'implementazione dei regolamenti dei Fondi Strutturali Europei a livello nazionale, gli effetti dell'europeizzazione del principio di partnership sono stati anche più ovvi. Benché i Regolamenti dei Fondi Strutturali indichino chiaramente che è compito delle autorità degli Stati membri scegliere le strutture di partnership in accordo con le istituzioni nazionali, la Commissione (Direzione Generale per le Politiche Regionali) ha sempre avuto la sua particolare idea su cosa dovesse significare la partnership. Allo stadio di implementazione delle iniziative di politica regionale europea, i Comitati di Monitoraggio del Fondo Strutturale rappresentano l'esempio primario della formale istituzionalizzazione del principio di partnership. "Nell'implementazione dell'assistenza strutturale i Comitati di Monitoraggio sono il meccanismo principale per la conduzione della partnership a livello nazionale, regionale e anche subregionale (Commissione Europea, 1996, p. 229). Secondo i Regolamenti dei Fondi Strutturali, i Comitati di Monitoraggio includono "all'interno della struttura delle regole e delle pratiche correnti nazionali di ogni Stato membro, i partner sociali ed economici, designati dagli Stati Membri a livello nazionale, regionale, locale o altro" 21 . In Germania, la maggior parte delle decisioni operative concernenti il "monitoraggio" dell'implementazione dei Fondi Strutturali viene presa a livello subnazionale (cioè dai Sub-comitati di Monitoraggio creati in ogni Land). Fin dall'inizio, il governo federale lasciò ai Lànder stessi la decisione su come implementare la partnership in questi Sub-comitati di Monitoraggi0 22. L'articolo 6 delle Regole Procedurai dei Comitati di Monitoraggio Tedeschi prevede la creazione di un Subcomitato di Monitoraggio in ciascuno degli Obiettivi i regionali della Germania (i cinque nuovi Under e Berlino Est). I membri permanenti di questi subcomitati sono la Commissione Europea e i ministri federali dell'economia, del lavoro e dell'agricoltura. Questi sub-comitati sono presieduti dai rispettivi ministeri dell'economia dei Under (Articolo 6(2)). La presidenza, insieme al Fund-managing Department del programma particolare, nomina altri ministeri dei Under come membri permanenti del Comitato. 'Altri partecipanti possono essere ammessi dalla presidenza dei sub-comitati" (Articolo 6(1)). Con poche eccezioni, i rappresentanti dei Lander hanno usato la loro posizione di presidenza dei sub-comitati di monitoraggio per evitare che i partner economici e sociali esercitassero qualsiasi diritto di partecipazione 23 . All'inizio del periodo di programmazione fecero capire chiaramente che non volevano che i 69


partner economici e sociali fossero rappresentati nei sub-comitati, poiché secondo loro questo avrebbe solo reso più complicato il sistema di monitoraggio. Affermavano che non c'era bisogno di una rappresentazione diretta, visto che già c'erano contatti informali tra i manager del Fondo e i partner economici e sociali24 . Le "Regole di Procedura" inizialmente adottate da tutti e cinque i Sub-Comitati di Monitoraggio non prevedevano la' partecipazione diretta delle autorità dei sub- Lander né quella dei partner economici e sociali. Questi attori si avvicinarono maggiormente alla diretta partecipazione nel caso della Sassonia-Anhalt, dove si stabilì un "pre-meeting" tra il Ministero dell'Economia dei Under e gli attori e i partner economici e sociali dei subUnder (seguendo l'esempio degli accordi in vigore a livello federale) 25 . Quando sono stati criticati per il loro atteggiamento restrittivo, i funzionari tedeschi dei vari ministeri dell'economia hanno ripetutamente affermato che le procedure stabilite sono pienamente in linea con i regolamenti dei Fondi Strutturali. Comunque, la posizione assunta dai Under non fu considerata soddisfacente dalla Commissione (Direzione Generale per le Politiche Regionali). I Under della Germania Est, a causa dell'entità molto superiore dei loro programmi dei Fondi Strutturali, caddero sotto l'attenzione della Direzione Generale per le Politiche Regionali. Quando si notavano scarsi progressi nel desiderio della Commissione di vedere più pienamente rappresentati i partner economici e sociali nei Comitati di Monitoraggio, interveniva direttamente la Commissaria per la politica regionale, Wulf-Mathies, sia con dichiarazioni ai media che con una lettera personale ai Ministri-Presidenti dei nuovi Lànder tedeschi 26. In essa la Commissaria diceva chiaramente che la partecipazione dei partner economici e sociali nell'implementazione dei Fondi Strutturali in Germania veniva considerata insufficiente. Wulf-Mathies criticava il fatto che i partner economici e sociali non avevano ancora ricevuto un seggio formale nei sotto-comitati di monitoraggio e che essi erano stati di fatto esclusi dalla preparazione delle misure di assistenza dei Fondi Strutturali. I funzionari dei La.nder hanno fatto poco per nascondere la loro rabbia circa questa interferenza da parte della Commissione. Un funzionario senior del Ministero dell'Economia in Turingia ha interpretato la pressione di WulfMathies per un maggior coinvolgimento dei partner economici e sociali come un malcelato tentativo dell'ex capo di uno dei più grandi sindacati tedeschi, "di far avvicinare i sindacati ai forzieri della CE"27 . Nel corso dei dodici mesi successivi all'intervento di Wulf-Mathies, i partner economici e sociali ottennero il loro seggio nei sotto-comitati di monitoraggio in tutti i Lànder della Germania Est. In molti casi, l'accordo sulla lista finale dei partecipanti 70


fu trovato soio dopo lunghi scambi, talvolta aspri, tra i fund manager e i partner economici e sociali 28. Anche la Sassonia-Anhak abbandonò la pratica del "pre-meeting" con i partner economici e sociali prima dell'attuale meeting dei sotto-comitati di monitoraggio e favorì la loro formale inclusione nel Comitato stesso29. Ciò non vuoi dire, comunque, che l'accresciuta partecipazione (formale) di questi gruppi ha sempre aumentato la loro capacità di influenzare le cose in maniera sostanziale. Sono ancora i funzionari del Ministero dell'Economia dei Under a presiedere i sotto-comitati di monitoraggio; questi funzionari dei Linder hanno effettivamente usato il loro potere per limitare il ruolo dei nuovi membri dei Comitati (Thielemann, 2000). La partnership, così come viene vista dalla Commissione (una visione che non differisce quasi per nulla da una lettura rigorosa della sua definizione nei Regolamenti dei Fondi Strutturali) prevede un ruolo non puramente formale per gli attori subregionali e i loro partner economici e sociali ma promuove la partecipazione formale di questi attori negli Stati membri. Si potrebbe vedere così che il principio di partnership ha fortemente influenzato l'integrazione (e in parte anche il funzionamento) delle strutture politiche regionali nei nuovi Under tedeschi, confermando in qualche modo l'opinione che "l'architettura esistente verrà smembrata per formare un percorso nuovo, diverso e dinamico di multi-level governance" (Jeffrey, 2000, p. 20).

Il controllo della CE sugli aiuti di Stato: il «cavallo di Troia" della politica regionale europea30 Si è detto prima che l'autorità della Commissione, su questioni riguardanti la compatibilità degli aiuti di Stato (inclusi gli aiuti regionali) con il regime di concorrenza della CE, può avere un forte impatto sul funzionamento della politica regionale nella UE, con le attività della Direzione Generale per la Concorrenza che spesso mette in risalto la sotterranea tensione tra obiettivi di coesione e di concorrenza della CE. Queste tensioni si fecero sentire in maniera particolarmente forte nella Germania post unificazione 31 . La Germania è sempre stata, ed è ancora, uno degli Stati membri pi1 ricchi dell'Unione Europea, con una diffusa tradizione nell'uso dei sussidi pubblici erogati sia dalle autorità nazionali sia da quelle regionali. Questo ha sempre reso la Germania, a prescindere dai problemi di coesione derivanti prima di tutto dall'unificazione, un bersaglio prediletto per il regime di controllo della Direzione Generale per la Concorrenza. In relazione a specifiche tensioni tra gli obiettivi di coesione e di concorrenza che si possono individuare nel caso te71


desco, risultano particolarmente rilevanti due aree di attività della Direzione Generale per la Concorrenza: 1) il controllo degli aiuti settoriali e 2) la designazione dell'area. Nella fase successiva all'unificazione, le autorità tedesche utilizzarono i sussidi settoriali per influenzare Ja distribuzione regionale di investimento mobile nel tentativo di attrarre investimenti verso la Germania Est. Fin dall'inizio, queste attività, che avevano lo scopo di superare le enormi disparità regionali tra i Lander della Germania Est e quelli della Germania Ovest, attrassero l'attenzione della Direzione Generale per la Concorrenza. Una delle dispute piìi importanti sugli aiuti di Stato risultante dall'indagine fu la disputa sulla Volkswagen (Vw) tra la Commissione e il Land di Sassonia (Thielemann, 1999b). Nella sua decisione del 26 giugno 199632, la Commissione (Direzione Generale per la Concorrenza) ridusse progressivamente un pacchetto di aiuti congegnato dal Land di Sassonia a supporto degli investimenti della Vw nella Mosella e nel Chemnitz. Il governo sassone fece appello alta Corte di Giustizia Europea per ribaltare questa decisione. Comunque, senza aspettare il risultato di questa sfida legale, le autorità della Sassonia decisero di pagare l'intera somma alla VW, contravvenendo alle decisioni della Commissione. Le preoccupazioni della Direzione Generale per la Concorrenza rispetto a questa azione diventano chiare quando si leggono le dichiarazioni del Commissario Van Miert che all'epoca affermò: "sono stato talvolta attaccato da altri Stati membri perché avevano la sensazione che noi (Direzione Generale per la Concorrenza) fossimo troppo generosi con la Germania, in particolare con i nuovi Under tedeschi", un'accusa che il Commissario dissipò abilmente 3. D'altra parte, le autorità della Sassonia erano chiaramente guidate da problemi di coesione, con in primo piano il tentativo di combattere la disoccupazione che in quel periodo era a livelli superiore al 25 per cento in alcune parti della Sassonia. Le autorità della Sassonia sentivano che non potevano aspettare le decisioni della Corte di Giustizia Europea, la quale, essi (giustamente) temevano, avrebbe potuto impiegare diversi anni. Il Primo Ministro Biedenkopf era preoccupato che nell'attesa della decisione la Vw avrebbe optato contro la Sassonia come locazione per il suo investimento, mettendo a repentaglio 20.000 posti di lavoro nella Regione. Questa paura fu espressa dal Ministro dell'Economia della Sassonia, che in quel periodo così si esprimeva: "dobbiamo pagare sussidi a queste imprese - altrimenti vanno da qualche altra parte" 34. Comunque, abile nel prevenire la creazione di un precedente, la Direzione Generale per la Concorrenza non cambiò idea. Nel novembre del 1997, la Vw restituì i 90 milioni di marchi in questione ricevuti dalle autorità della Sassonia 35 . 72


Il secondo aspetto importante dell'attività della Direzione Generale per la Concorrenza negli anni Novanta, che ebbe un impatto immediato sugli obiettivi di politica regionale interna della Germania, fu relativo al campo dell'area di designazione. Come detto sopra, la Direzione Generale per la Concorrenza può decidere quale dimensione delle aree di sviluppo regionali negli Stati membri è compatibile con il Mercato Unico e, quindi, idonea all'assistenza regionale nazionale ed europea. In molte occasioni, questo ha portato a dispute accese tra la Direzione Generale per la Concorrenza e le autorità tedesche ed ha avuto come conseguenza significativi cambiamenti nel modo in cui la politica regionale viene condotta in Germania (Bertenbusch, 1996). Poco prima dell'unificazione, la Direzione Generale per la Concorrenza ha spinto il governo della Germania Federale ad accettare una riduzione dell'area di massima copertura nella Germania Ovest dal 38 al 30 per cento (Nàgele, 1996, p. 283). I perdenti di questa azione furono, in particolare, i Lànder ai confini con l'ex GDR, in particolare la Hesse e la Bavaria. La parte di fondi del GRW destinati alla Hesse fu ridotta del 70 per cento, quella della Bavaria della metà (Deutscher Bundestag, 1991, p. 10). In aggiunta, eliminando i tassi di assistenza preferenziale nelle aree di confine della ex Germania Est, il tasso massimo concesso nei Lander della Germania Ovest fu tagliato dal 23 al 18 per cento (Deutscher Bundestag, 1991, p. 6). Nella fase successiva all'unificazione della Germania, le tensioni tra le autorità tedesche e la Direzione Generale per la Concorrenza raggiunsero livelli senza precedenti 36 . Le preoccupazioni interne della Germania su disparità regionali fin lì sconosciute si scontrarono con la preoccupazione della Direzione Generale per la Concorrenza che sussidi diretti verso la Germania Est su scala massiccia potessero seriamente distorcere la concorrenza in Europa. Quando la Germania orientale divenne un recettore significativo di aiuto regionale, la Direzione Generale per la Concorrenza diresse la sua attenzione sia verso l'assistenza regionale nazionale sia verso quella europea all'interno della Germania. La Direzione Generale per la Concorrenza non era soio interessata alla supervisione dell'aiuto ai nuovi Lànder. Tenne anche sotto stretta sorveglianza i sussidi regionali destinati ai vecchi Lànder e spinse per un'ulteriore riduzione. Durante i negoziati dei CSF della Germania Est del 1993, la Direzione Generale per la Concorrenza fece oggetto della sua approvazione l'assicurazione da parte delle autorità tedesche che tutti i sussidi che avevano origine dalla divisione della Germania dovevano cessare (Kummel, 1993, p. 75). Questa richiesta divenne una priorità importante della Direzione Generale per la Concorrenza, poiché il Commisario Brittan all'epoca aveva perso-

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nalmente promesso agli Stati membri preoccupati che avrebbe fatto sì che le autorità tedesche interrompessero tali aiuti in breve tempo (Spence, 1992, p. 47). A sottolineare la sua decisione, la Commissione iniziò due procedure Articolo 88 (2) - ex Articolo 93 (2) - nel 1992, con lo scopo di evitare che gli strumenti eliminati non venissero rimpiazzati da altri nuovi 37. Dopo lunghi e ardui negoziati, fu raggiunto un compromesso che prevedeva che l'area di massima copertura fosse del 22 per cento della popolazione della Germania Ovest (Benterbusch, 1994, p. 135). Ciò rappresentava un'ulteriore significativa riduzione nella dimensione delle mappe dell'area assistita della Germania Ovest (dal 38 per cento del 1990 al 22 per cento del 1994). Allo stesso tempo, i tassi speciali accordati che erano esistiti per le aree di confine con l'ex GDR furono aboliti (Toepel, 1995, pp. 32-3). Agli occhi di molti funzionari tedeschi, queste azioni della Direzione Generale per la Concorrenza impedivano loro di compiere i propri obblighi costituzionali secondo l'Articolo 72 della Costituzione tedesca che richiede di rendere eguali gli standard di vita in Germania (Anderson, 1996: 171). Inoltre, i funzionari tedeschi sono preoccupati che le attività del Direzione Generale per la Concorrenza stiano per svelare delicati compromessi tra le regioni ricche e quelle povere in Germania, compromessi costruiti nel corso di lunghi anni. Se la Direzione Generale per la Concorrenza insistesse per ulteriori riduzioni di copertura di area assistita nella Germania Ovest, i Lander della Germania Ovest potrebbero decidere che le dimensioni ridotte delle aree assistite e i corrispondenti scarsi benefici non giustificano più i costi amministrativi del sistema del GRW. Con la diminuzione dell'assistenza del GRW nei vecchi Lànder, sta diminuendo il numero di coloro che nei vecchi Lander considerano il GRW uno strumento vitale per la politica regionale 38 . Ciò potrebbe avere gravi conseguenze per la ex Germania Est e, più in generale, per il sistema di federalismo cooperativo della Germania, poiché le decisioni di politica regionale in Germania richiedono un largo consenso di tutti gli attori coinvolti (Articolo 91, Basic Law). L'attivismo della Direzione Generale per la Concorrenza, quindi, ha provocato preoccupazione tra alcuni funzionari tedeschi circa un'autosufficienza di lunga durata del regime di politica regionale della Germania. CONCLUSIONI

L'evoluzione delle iniziative di politica regionale europea è stata segnata da dibattiti accesi sullo scopo (sviluppo o compensazione), sulla logica del decision-making (intergovernativa o multi-level) e sulle priorità (coesione o con74


correnza). Benché l'atteggiamento di molti Stati membri verso il regime di politica regionale della CE continui ad essere dominato dalla preoccupazione relativa alle contribuzioni nette al budget europeo, la Commissione ha raggiunto qualche successo nel rafforzare la logica di sviluppo regionale dei Fondi Strutturali. Inoltre, gli sviluppi a livello europeo possono avere un forte impatto sul modo in cui la politica regionale viene portata avanti negli Stati membri. Il caso tedesco mostra come le iniziative di politica regionale europea hanno avuto un forte influsso sull'europeizzazione. Dalle recenti riforme della struttura della politica regionale interna della Germania si può vedere che i principi di sviluppo regionale europeo possono avere un impatto significativo sulla riforma della politica interna. In particolare, il concetto di partnership della Commissione ha lasciato un segno. Ha promosso l'aumentata partecipazione degli attori subnazionali e semi-pubblici nel processo politico europeo. Nel caso della Germania Est si può vedere come la Commissione ha usato il principio di partnership per esercitare una forte pressione sui "guardiani" interni a livello nazionale e regionale, nel tentativo di decentralizzare ulteriormente e di delegare poteri nel processo di politica regionale europea. Risentendo di tali pressioni, molte autorità tedesche sentono che la Commissione vuole spingere oltre il principio di partnership rispetto a quanto prescritto nei regolamenti dei Fondi Strutturali e che facendo ciò la Commissione viola il principio di sussidiarietà. Preoccupazioni simili sono state espresse nell'area, spesso trascurata, del controllo degli aiuti di Stato della CE. Le esperienze della Germania post-unificazione fanno intendere che, ironicamente, è la Direzione Generale per la Concorrenza che deve essere considerata come il più potente attore politico regionale in Europa, poiché le sue priorità relative alla concorrenza possono indebolire notevolmente le strategie di coesione delle autorità nazionali ed europee. Le iniziative di politica regionale europea possono essere viste come un'arma a doppio taglio dagli Stati membri. Mentre gli Stati membri sono stati in grado di raccogliere i benefici finanziari o, in qualche modo, sono riusciti a diminuire il loro contributo netto al budget europeo, questi benefici hanno avuto un costo politico, poiché le iniziative di politica regionale europea possono limitare significativamente l'indipendenza delle autorità nazionali. (Traduzione di Alfonso Ferraro)

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I! termine Comunità Europea (CE) viene sempre impiegato per denotare--il pilastro economico e sociale dell'Unione Europea (UE). Il termine UE viene impiegato quando ci si riferisce alla collettività degli Stati membri. 2 Nella parte rimanente del testo verranno usati i nuovi nomi delle Direzioni Generali recentemente adottati, cioè Direzione Generale per la Concorrenza e Direzione Generale per le Politiche Regionali. La parte empirica di questo documento deve molto ad una serie di più di 60 interviste a funzionari nazionali e dello staif della Commissione condotto nel quadro di un più ampio progetto di ricerca (Thielemann 1 999a) tra il marzo 1997 e gennaio 1999. ' Parte della riforma (in particolare gli accantonamenti di bilancio e la simultanea creazione dei Fondi di Coesione) costituì un altro pacchetto di accordi. Da una parte essa rifletteva la richiesta di più trasferimenti regionali da parte degli Stati membri. Dall'altra, rifletteva il riconoscimento tra i contribuenti netti del budget europeo che c'era bisogno di "vendere" il Programma del Mercato Unico nelle regioni svantaggiate della Comunità (Hooghe and Keating 1994). Il concordato raddoppio dei Fondi Strutturali fu il prezzo da pagare. Mentre le origini intellettuali della riforma erano teorie di sviluppo endogeno, le riforme furono "vendute" politicamente come parte del progetto del Mercato Unico, che si basava su una logica neo-classica (Behrens and Smyrl 1999). Le contraddizioni conseguenti possono aiutare a capire molti dei fallimenti di implementazione del 1988 e le successive riforme di politica regionale. 5 Questi i cinque Obiettivi: (1) regioni economicamente arretrate, (2) regioni in declino industriale, (3) regioni con un alto tasso di disoccupazione di lungo termine (4) regioni con necessità di integrazione occupazionale per i giovani e (5) lo sviluppo delle aree rurali e agricole. Ne! 1993, questi Obiettivi furono leggermente modificati e fu aggiunto un sesto obietti76

vo con lo scopo di sostenere regioni caratterizzate da aree scarsamente popolate. 6 Counci! Regulation (Ec) No 126011999 de! 21 giugno 1999. I tre nuovi obiettivi hanno come scopo (1) lo sviluppo di regioni il cui sviluppo è in ritardo; (2) la conversione di aree che hanno difficoltà strutturali; e (3) la modernizzazione dei sistemi di istruzione, di formazione e di impiego. 7 I restanti quattro sono concentrati sulla promozione cross-border, la cooperazione interregionale (INTERREG), la riqualificazione delle città e delle aree urbane (URBAN), lo sviluppo urbano (LEADER) e lo sviluppo di pari opportunità (EQUAL). 8 La suddetta definizione di partnership si trova nel preambolo al "Framework Regulation" (Ec 2052188). Sezione 27 del preambolo del Council Regulation (Ec), No 1260/1999 de! 21 giugno 1999IO Per una discussione del rapporto tra il concetto di multi -level governance (Marks 1992) e il concetto di network governance nel lavoro di Rhodes vedi Thielemann (2000). 1 1 riferimenti agli articoli del Trattato sono basati sulla versione consolidata del trattato di Amsterdam. I riferimenti pre-Amsterdam sono virgolettati. 12 Oj Ec No. C 212, 12Agosto 1988. 13 OjC74, 10Marzo 1998. 1' COvi (97) 2000 finale, 15luglio, 1997. IS Gemeinschaftsaufgabe zur Verbesserung der regionalen Wirtschafisstruktur (Impegno comune per il miglioramento delle strutture economiche regionali - il principale strumento di politica regionale interna della Germania.). 16 J Idnder della Germania Ovest avevano scorporato la maggior parte dei loro soldi dei Fondi Strutturali verso la fine degli anni Ottanta, un passo che, a causa delle dimensioni relativamente ridotte di queste ricette da parte di Bruxelles, non causò grandi tensioni in quel periodo.


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Interviste con funzionari senior del Dc Regioni responsabili per l'implementazione dei Fondi Strutturali in Germania del 16 luglio 1997 e dell'8 luglio 1998. 18 Si possono fare dei paralleli con la disputa RECHAR quando la Commissione trattenne dei soldi a cui avevano diritto delle regioni scozzesi, per esercitare pressione sul governo del Regno Unito per l'adesione al principio di "addizionalità" (MeAleavey 1993). 19 Per una trattazione più esaustiva dei cambiamenti introdotti vedi Yuill, Bachtler a Wishlade (1996). 20 Il "Comitato Interministeriale per la Politica Economica Regionale" (Interministerieller Auschussfiuir Regionale Wirtschaftspolitik) e il "Gruppo di Lavoro per la Politica Economica

Regionale" (Arbeitskreisfiir Regionale Wirtschafispolitik). Interviste con I funzionari del Ministero Federale dell'Economia. 21 Articolo 4 del Regolamento (CEE) No. 2052188 come emendato dal Regolamento (CEE) No. 2081193 (sottolineatura dell'Autore). 22 Si possono osservare alcune diversità nel trattamento dei partner economici e sociali tra i subcomitati dei diversi Fondi. Qui, l'attenzione viene posta sui subcomitati del FsRE che sono i maggiori responsabili di gran parte delle ricette per la Germania dei Fondi Strutturali. 23 Questo conferma l'affermazione di Anderson che "i governi degli Stati furono in grado di posizionarsi nella funzione di guardiani tra l'apparato del GRW e gli attori subregionali" (Anderson 1995, p. 30). 24 Interviste con I manager del Fondo FRF. -del 15luglio e del 30 luglio. 25 Vedi Articolo 3(5) delle iniziali Rle di Procedura per il Comitato di Monitoraggio nella Sassonia-Anhalt. 26 Vedi Handelsblatt 27 Ott6bre 1995, "Eu Regionikornmissarin Wulf-Mathies rugt Bundeslinder". 27 "[ I die Gewerkschaften an die Fòrdertdopfe der EG heranzufiihren", Intervista del 30 luglio 1998.

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Interviste con I funzionari della Camera di Industria e Commercio in Sassonia e il funzionario di un sindacato nel Brandenburgo del 16 e del 17 luglio 1998. 29 Alla fine degli anni Novanta un totale di 24 organizzazioni furono considerate idonee ad essere rappresentate direttamente al Comitato in Sassonia-Anhalt. Queste organizzazioni andavano dai sindacati alla Camera di Industria e Commercio, dai rappresentanti dei distretti e delle municipalità a un gran numero di gruppi di interesse sociale e ambientale. 30 La metafora del "Cavallo di Troia" è presa in prestito da Wishlade (1998b). 31 Nel caso tedesco tali tensioni sono state in parte attribuite anche a più nette incompatibilità tra la logica istituzionale del federalismo cooperativo della Germania e le strutture decisionali più centralizzate del Direzione Generale pe la Concorrenza (Thielemann 1999b). 32 Commission Decision 9616236; C-62191. 33 Il Commissario Van Miert in un'intervista con Leqziger Volkszeitung, 2 Settembre 1996. 34 Intervista con Die Zeit, Nr. 29, 12 luglio 1996. 35 Parte del compromesso per salvare la faccia in quel periodo fu un sussidio del Governo Federale Tedesco dello stesso ammontare di un altro investimento4Jla Vw in Germania Ovest. 36 Ciò è non di meno un fatto che la maggior parte dei funzionari tedeschi sentiva che la Commissione aveva un ruolo generalmente costruttio nel primo periodo della transizione economica della Germania Est con la DG IV che dava la possibilità alle autorità tedesche di dare un numero di sussidi che in circostanze normali non sarebbero stati permessi (Nàgele 1996, p. 167). 37 Vedi Oj C 35106, 13febbraio 1992 e Oj C 35107, 13 febbraio 1992. 38 In alcuni vecchi Liinder ( Bavaria, Bremen, Hesse e Nord-Reno-Westphalia) l'assistenza ricevuta dai Fondi Strutturali alla metà degli anni Novanta fu significativamente maggiore dei fondi ricevuti dal GRw (Nàgele 1996: 289). 77


dossier

Innovazione e responsabilità sociale

Mai, come in questi ultimi anni, si è parlato così tanto di innovazione. Si afferma e noi siamo d'accordo - che lungo la linea dell'innovazione tecnologica si trovano le potenzialità di sviluppo delle piccole-medie industrie italiane. Le politiche dell'innovazione sono per lo più declamaterie. Molte iniziative concrete sono, tuttavia, in corso e queste istituzioni se ne occuperà. Su/piano generale, bisogna avere consapevolezza che l'innovazione non èfine a se stessa. Piero Bassetti, nell'articolo che segue, mette in connessione tra loro l'innovazione, il rischio sociale e la responsabilità politica che questa comporta. Chiarendo anzitutto i termini. Ricordando che la vera innovazione è sostanzialmente "un avvenimento mai verificatosiprima che si realizza per effetto di una nuova' combinazione di saperè epotere' Quindi, un cambiamento, per essere innovazione, deve basarsi sulla creatività: innovazione è allora un cambiamento imprevedibile. In quanto imprevedibile può comportare anche dei rischi sociali, e qui lAutore introduce la questione su chi ricade la responsabilità di valutare i rischi nelle scelte di innovazione. Portando degli esempi concreti, Bassetti cerca di dare una risposta alla domanda su come "gestire responsabilmente e democraticamente un'innovazione ad alto rischio sociale' La soluzione viene vista nell'elabo79


razione di nuove procedure democratiche. VAutore ritiene che sia necessario istituire "strutture complesse, autonome, nelle quali il momento tecnico e il momento politico sono opportunamente composti " Al tema dell'innovazione e delle responsabilità relative si collega anche l'articolo di Giuliana Gemelli centrato sull11eanza collaborativa tra imprese e organismi non profit che introduce anche al tema della Responsabilità sociale d'impresa affiontato poi nell'articolo di Saveria Addotta dal punto di vista degli organismi non profit. L'innovazione in gioco nel caso della corporate philanthropy riguarda una "qua4fìcazione dell'etica non tanto come sistema prescrittivo o come sub-sistema di regole di ottimiz2azione gestionale ma come visione processuale che orienta l'azione verso i/potenziamento dell'autonomia degli attori" Le alleanze colla borative tra mercato e sociale comportano un allargamento delle cerchie di riferimento, contribuendo alla crescita di un ambiente in cui le relazioni e le interazioni vanno oltre le transazioni monetarie, riguardando uno scambio di valori morali e lo sviluppo di "benefici intangibili» In tale contesto si situa un'altra innovazione, la venture philanthropy. Questa rappresenta, da un lato un ulteriore sviluppo della corporate philanthropy, dall'altro un "radicale mutamento di orizzonte dell'agi re filantropico" in quanto introduce la variabile dell'investimento. Attualmente, alcune importanti fondazioni americane grant-making non limitano la loro attività semplicemente all'erogazione di fondi ma assicurano un "trasferimento conoscitivo nella direzione del non profit, degli strumenti operativi più innovativi del venture capita! (al riguardo, si v. Jacopo Fontana,Alla ricerca del capita!e di rischio, su «queste istituzioni», n. 12812002). Per l'Italia, afferma l2lutrice, si tratta di una modalità che difficilmente può avere ossibilità di accelerazione" a meno che non si incida su fattori come la formazione di nuove professionalità, un'educazione alla collaborazione intersettoriale tra operatori del non profit, delle istituzioni pubbliche e donatori del setto repri vato. Questa interazione tra più soggetti, ognuno chiamato ad avere un ruolo e quindi una propria responsabilità per lo sviluppo sociale è anche alla base della cosidetta "responsabilità sociale d'Impresa» Una responsabilità che si esplica rispetto a tutti i cosidetti stakeholders dell'impresa: dai suoi fondatori e azionisti, ai lavoratori, alla comunità in cui è situata, ai cittadini che usufruiscono dei suoi servizi e/o prodotti. Fondamentale, sempre, il rispetto dei diritti umani.


Innovazione, rischio sociale e responsabilità p oliti c a* di Piero Bàssetti

ignore e Signori, è certamente per me un grande onore questa possibilità di rivolgermi a un pubblico cosi distinto in una sede cosi prestigiosa cui mi sento particolarmente legato per avervi passato quasi un anno come feliow della Stringher, con il caro Prof. Yamey. Credo anche di sapere il quadro entro il quale è maturato l'invito. È il lavoro di riflessione e ricerca che la Fondazione Giannino Bassetti - che ha per missione statutaria riflettere e fare proposte su "La responsabilità nell'innovazione" (art. i dello Statuto) - ha sviluppato sul tema. Un lavoro che si è svolto tanto sul piano teorico quanto su alcuni casi concreti e con partner significativi come, per esempio, Allianz e la Fondazione C. von Braun sul tema: "changing insurance paradigms and risk management; the implications of september 11"; con la Regione Lombardia sul tema "come conciliare decisioni politicamente difficili come quelle su gli 0CM e metodo democratico; con Moda italiana sul tema "innovazioni di stile e mutamenti sociali". Proprio per questo, confesso di essere stato incerto tra il cominciare dai casi per indugiare solo alla fine su alcune considerazioni teoriche ; o partire da queste per fornire da subito gli strumenti concettuali che sono stati e sono di riferimento per il nostro lavoro. Alla fine ho scelto un compromesso: poche considerazioni teoriche all'inizio; due casi; alcune conclusioni.

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La tesi centrak di fronte all'impatto delle innovazioni che accrescono il rischio sociale i nostri sistemi istituzionali, anziché precisare e concentrare le relative responsabilità politiche, le disperdono o le indeboliscono. Le esperienze fatte in materia in tre casi concreti assai diversi fra loro lo confermerebbero. Prima di continuare vorrei però definire i termini usati nel titolo.

L'autore è Presidente della Fondazione Giannino Bassetti. 81


I TRE TERMINI

Innovazione. Oggi, a livello di opinione pubblica, si parla moltissimo di Innovazione. Il modo in cui 10 si fa non è sempre molto preciso. Si confondono spesso le innovazioni con le scoperte o con le novità; non si riflette troppo sulle differenze concettuali esistenti tra innovazione e cambiamento, non si ha quasi mai un idea chiara su quali siano i rapporti che concretamente esistono tra innovazione, cambiamento, rischio e responsabilità. Solo raramente si pongono in modo consapevole i gravi problemi politici che in una società democratica la gestione, o non gestione, dell'innovazione concretamente pongono a tutti noi. La responsabilità politica dell'innovazione è, ai giorni nostri, un tema quanto mai trascurato. Troppo spesso il problema della autonomia - e perciò della responsabilità - della ricerca viene erroneamente confuso con quello dell'autonomia e della responsabilità dell'innovazione. Mentre, in realtà, si tratta di problemi molto diversi: ricercare e scoprire non sono la stessa cosa che innovare. Una scoperta diventa innovazione solo quando all'accrescimento di "sapere" che è implicito in ogni scoperta si aggiunge e si combina un'aggiunta di tecnologia e di potere attuativo (capitale) che tale scoperta implementa. È soio a questo punto che, come bene argomentano Schumpeter o Nelson, si determina un'aggiunta di potere sociale che è in sé fattore di cambiamento e perciò di rischio sociale. L'innovazione - quella vera - non è infatti né una scoperta né una novità, ma è l'agente di una nuova situazione, storicamente realizzata come risultante di una nuova combinazione di sapere e potere, di conoscenza e capitale. È in sostanza un avvenimento mai verificatosi prima che si realizza per effetto di una "nuova" combinazione di sapere e potere: come tale è sempre cambiamento. Solo che per essere anche "creatività" (è stato detto: rompe l'ovvietà!) è sempre un cambiamento in qualche modo imprevedibile. Proprio per questo noi parliamo di innovazione come "realizzazione dell'improbabile' Come qualcosa che è sempre rischio e opportunità, che cambia sempre il mondo che ci circonda ma lo cambia in direzioni intrinsecamente imprevedibili. Un imprevedibile che può essere tale tanto quando si realizza sul piano politico-sociale (nuove istituzioni, nuovi modalità di relazioni, di produzione, di guerra, nuovi poteri) quanto su quello tecnico-economico (nuovi materiali, nuove energie, nuovi strumenti, nuove categorie di beni) quanto ancora su quello estetico culturale (nuovi stili, mode, gusti, atteggiamenti). Parlare di innovazione non evoca però solo il tema dell'imprevedibilità. Evoca anche il secondo tema del titolo. 82


Il rischio sociale. Dirò subito che lo usiamo nella stessa accezione in cui lo hanno usato e introdotto autori che conoscete bene come U.. Beck o A. Giddens. Da loro voglio riprendere qui solo qualche affermazione che più di altre mi servono. Per esempio "Il concetto di rischio è un concetto moderno" (Beck) che presume il pericolo e che "sostituisce quello di fortuna" (Giddens). Una società dell'innovazione - e perciò del rischio - sarà costretta, quindi, a scelte difficili perché tese "a rendere prevedibili e controllabili le conseguenze imprevedibili delle scelte compiute in nome del progresso" (Beck). E siamo al terzo termine.

Responsabilità politica. Il concetto di responsabilità ha almeno due accezioni: una morale e una oggettiva: noi, volendo rimanere fuori dal dibattito etico oggi pur così di moda - abbiamo deciso di concentrarci prevalentemente sulle responsabilità che riguardano l'innovazione nelle sue implicazioni polùiche. Il che non ci esenta dall'esame delle scelte difficili di cui parla Beck. Anzi. Ci porta in pieno dentro il problema del chi è responsabile di valutare il rischio sociale nelle scelte di innovazione: lo scienziato che scopre, l'intellettuale che inventa, il tecnologo che strumenta, il capitalista che finanzia, l'imprenditore che combina i fattori, il politico che fa le leggi, quello che governa? Se è l'imprenditore, chi lo condiziona al di là del calcolo di mercato? Se è l'istituzione, come svolge questa sua funzione? Dice giustamente Beck: "in Parlamento non si vota sull'impiego e sullo sviluppo della microelettronica, dell'ingegneria genetica ecc. al massimo si vota sul sostegno a tutto ciò". Né il potere politico è sempre in grado di assumersi la responsabilità politica di ciò che fanno l'imprenditore o l'impresa se "proprio l'intima connessione tra le decisioni allo sviluppo tecnologico e quelle sugli investimenti costringe le imprese a forgiare i loro progetti in segreto per ragioni di concorrenza. Di conseguenza le decisioni raggiungono i tavoli dei politici e la sfera pubblica solo dopo essere state prese" (ib. p. 294). In altri termini: sono adatti i metodi decisionali delle istituzioni democratiche attuali, basati sulla raccolta del consenso maggioritario, a valutare ex-ante situazioni come le innovazioni, che per definizione postulano cambiamenti affidati a "saperi" e "poteri" sociali "improbabili"? (Latour). Ma se non lo sono e "la politica si specializza nella legittimazione delle conseguenze che non ha causato, né è stata realmente capace di evitare" chi ne ri-

sponde? In altri termini se, come dice Beck, "il progresso può essere inteso come cambiamento sociale legittimo, senza legittimazione politica (e) la fede nel pro83


gresso sostituisce le votazioni" chi risponde dell'innovazione? Chi si fa carico ex-ante delle sue conseguenze? Dei cambiamenti e dei rischi sociali che ne conseguono? Dove sono collocate le relative responsabilità? Ho voluto chiarire i termini del discorso non per amore della semantica ma soio perché farlo mi sembrava utile per impostare chiaramente là tesi centrale del mio discorso che vorrei qui riprendere: riformulandola così: se l'innovazione è cambiamento, se introduce nuove opportunità ma anche nuovi rischi nella vita sociale, se modifica la storia allora chi la agisce (persona o impresa o assemblea) fa politica e le relative responsabilità non possono• essere sottratte al controllo democratico. In altri termini, se l'innovazione è la causa del rischio sociale deve pur esservi qualcuno che ne risponde politicamente a tutti noi (lasciamo volutamente fuori il problema morale). Mentre spesso così non è. Ma allora dobbiamo proprio rassegnarci? Possiamo ammettere che, in una società che si definisce democratica, l'innovazione sia politicamente irresponsabile? Che essa possa essere distribuita confusamente tra l'imprenditore (cui la dottrina attribuisce tutt'al più una responsabilità implicita, quella appunto legata alla verifica del mercato) e il mercato, nella sua indeterminatezza e acefalia?

UN'ESPERIENZA CONCRETA

Orbene io sono fra quelli che credono che il modo migliore per dare risposte ai grandi quesiti che concretamente la storia ci pone sia quello di cercarle nella concretezza dell'esperienza. Per questo quando la FGB ha avuto la possibilità di partecipare ad alcune esperienze nelle quali il problema si poneva lo abbiamo fatto con impegno. La prima opportunità è stata una diretta conseguenza dell'il Settembre. ," Il soggetto protagonista della riflessione e 1 Allianz Center for Technology La FGB fu chiamata a collaborare insieme a Christoph Friedrich von Braun. Il tema era quello di riflettere sullo straordinario evento dell' 11 Settembre il cui effetto sul sistema assicurativo mondiale è stato devastante e di cui occorreva prepararsi a capire anche le possibili implicazioni future. Basti dire che il totale dei claims maturati per i fatti dell'li Settembre si aggira tra i 40 e i 60 miliardi di dollari (fonte Allianz) e che la somma delle obbligazioni a carico dell'Allianz Group è stimata a 1,5 miliardi di dollari al netto della riassicurazione. '

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Per questo il quesito inizialmente proposto fu: "Can Allianz insure skyscrapers any longer? L'esperienza è stata di grandissimo interesse e noi siamo profondamente grati ad Allianz per averci offerto l'occasione di riflettere assieme a persone di profonda preparazione. Le discussioni che si svolsero a Monaco furono di grande interesse e contribuirono alla pubblicazione da parte dello 'Allianz Center for Technology" dell'interessante pamphlet: "New Challenger & Horizons. The implication of September 11. Changing Insurance Paradigms and Risk Management". Apparve subito chiaro che c'era nel tragico e brutale avvenimento del 11 Settembre: a)una vera e propria "innovazione" (nello stretto senso di cui ne abbiamo parlato all'inizio). Un innovazione tragica ma pur sempre un'innovazione; che l'evento era stato tale da far riconsiderare l'intero quadro del rischio sociale e degli effetti collaterali connessi al nuovo livello di vuinerabilità di edifici come le due torri e, più in generale, dagli edifici suscettibili di essere considerati "simboli" (grattacieli in primis ma non solo grattacieli); che il quadro delle responsabilità di un impresa di assicurazione impegnata su rischi come i grattacieli o, in generale gli edifici simbolo, verso tutti i suoi stakeholders era irreversibilmente cambiato. Questo perché l'episodio aveva rivelato che le passività da considerare in casi simili non sono soltanto quelle connesse alla liquidazione dei diversi tipi di danni intercorsi ma anche quelle che derivano dal contestuale abbassamento dei valori di mercato degli assets accantonati a copertura degli stessi. Come dice Cleemann nel pamphlet "New Challenges & Horizons. The implications of September 11: Changing Insurance Paradigms and Risk Management", pubblicato congiuntamente al termine dei nostri lavori: "in termini finanziari le perdite negli investimenti hanno superato di gran lunga le perdite assicurative". A valle di queste convergenze il dibattito sul come e chi potesse creare le condizioni per la ricostruzione si rivelò però molto articolato. Gli uomini di Allianz erano portati a sottolineare soprattutto l'aspetto quantitativo dell'evento. Per essi (si veda l'intervista di Cleemann, ib.) era la "magnitude" il centro del problema. A constatazioni come "Una perdita di queste proporzioni era inconcepibile prima dell'il Settembre" o a quesiti come "che cosa possiamo cambiare per trattare meglio rischi di queste dimensioni in futuro. Come possiamo continuare a garantirne l'assicurabilità in futuro?" essi tendevano a rispondere con il ricorso a sofisticate strumentazioni tecniche come "early warning systems" così da poter affermare (p. 85


4) "Noi siamo adesso meglio preparati a trattare con correlazioni di rischio come queste... stiamo facendo ogni cosa in nostro potere per far fronte alle nostre responsabilità economiche e sociali a fronte degli accresciuti rischi del terrorismo". Tanto più che nella loro visione "il cambiamento non era avvenuto quella mattina dell'il Settembre 2001 ... da almeno alcune decadi un processo graduale era in corso. Un processo che ha implicato molti passi laterali e molte iterazioni. L'il Settembre era solo un culmine" (p. 7). Noi della FGB eravamo invece propensi a considerare quanto accaduto l'li Settembre come qualcosa di eccezionale, non soltanto nella sua devastante magnitudine quanto, piuttosto, nella sua natura. Mentre per loro si trattava di "trovar soluzioni che potessero permetterci di continuare a fornire una copertura assicurativa efficiente" per noi l'attacco dell'il Settembre era caratterizzato da una netta discontinuità. Era una chiara innovazione che cambiava il quadro delle responsabilità e le spostava da un soggetto di mercato (Allianz) a un soggetto istituzionale (Governo); dall'economia alla politica o a una loro collaborazione. L'attacco sembrava infatti presentare aspetti di assoluta novità: con riguardo all'antica Istituzione-Guerra. Scatenare una guerra "privata", non dichiarata, sul territorio della Potenza leader del mondo, con obbiettivi come la Casa Bianca, il Pentagono, le Torri Gemelle (che insieme formano il vertice della potenza politica, militare, finanziaria degli USA) ha introdotto un mix unico di guerra e terrorismo nel cuore delle tradizionali istituzioni politiche del mondo; per la tecnologia adottata: la trasformazione di aerei civili dell'avversario in missili a gasolio per distruggere edifici di eccezionale grandezza era un modo innovativo di mischiare aviazione, tecnologia missilistica a massacri; per il modo di usare i media: dare a un audience mondiale la possibilità di vedere in diretta un attacco terroristico era un evento mediatico inedito; a per la brutale sostituzione dei normali target del terrorismo tradizionale con obbiettivi simbolici. Per questo era innegabilmente un'innovazione, una perversa "realizzazione di un improbabile" - dal contenuto qualitativo e quantitativo paragonabile forse solo alle bombe nucleari di Hiroshima e Nakasaki - dalla quale doveva necessariamente derivare un radicale mutamento di ruoli nei riguardi del rischio sociale connesso all'esistenza dei grattacieli nelle nostre città e a New York in primo luogo. Se gli agenti responsabili dell'attacco innovativo, e della risposta, erano sog86


getti politici allora la responsabilità per l'eccezionale rischio sociale doveva rimanere politica. Le più gravi conseguenze dell'attacco alle due torri non ci sembravano riconducibili a effetti collaterali ordinari come quelli che "spaziano fra i negozi al dettaglio negli aeroporti americani ai nostri operatori nei Paesi islamici, tutti esposti a cali di entrate". Ci sembravano piuttosto connesse al nuovo e gravissimo rischio sociale di non poter più vivere o lavorare in edifici simbolo come i grattacieli perché divenuti target di offese assolutamente nuove, legate alla drammatica apparizione di un nuovo tipo di guerra. Non più la guerra che poteva essere definita nei classici termini di "un conflitto armato tra Stati o Paesi per l'ottenimento di propri obbiettivi o per la salvaguardia di propri interessi. Un conflitto che comincia con una dichiarazione di guerra e finisce con una resa, un armistizio o un trattato di pace fra gli Stati coinvolti". Bensì un nuovo tipo di aggressione che poteva aver rivoluzionato l'affermazione che "la guerra non è assicurabile" ma che non rendeva meno presente il problema. Tra le tre possibili direzioni indicate nel paper (pag. 9) e cioè: "rifiutare l'assicurazione, aumentare i premi, cercare una terza via" solo quest'ultima appariva percorribile. Non limitandosi però a "stabilire condizioni quadro per l'applicazione delle otto raccomandazioni ami-terrorismo statuite dalla "Financial Action Task Force (FATF) dell'OEcD" ma affrontando in pieno il problema di un contesto politico irreversibilmente innovato, nel quale il tema del rischio grattacieli va posto in modi altrettanto innovativi e distribuendo in modi nuovi le relative responsabilità. In sostanza, il nostro approccio proponeva di affrontare il problema del rischio sociale cui è esposto un grattacielo - o qualsiasi altro edificio con un contenuto simbolico - non più dalla parte del contrasto degli effetti (assicurazione) ma piuttosto dalla parte del controllo delle cause. Per noi la causa era, in questo caso, una macroscopica innovazione, introdotta il 9 Settembre, con una radicale trasformazione delle condizioni di sicurezza o vulnerabilità degli edifici simbolici e con la conseguente necessità di spostare, in tutto o in parte il pro ble ma della responsabilità dall'industria assicurativa all'autorità di governo. Naturalmente, in un dibattito di questo genere, le considerazioni tecniche alle quali il know how assicurativo tendeva a riportarci, non potevano essere trascurate. Per esempio, nel mercato assicurativo l'abitudine alla divisione fra rischi mercantili e rischi politici è vecchia e radicata. E si basa sull'assunzione che i primi sono assicurabili sul mercato a carico dell'assicurato mentre i secondi 87


tipici i danni di guerra - sono a carico del potere politico che li trasferisce al contribuente. Allo stesso modo, la consapevolezza che "non c'è viaggio senza assicurazione, non c'è educazione senza assicurazione, non c'è nuova tecnologia, nuova costruzione o qualsiasi altro business, senza assicurazione" non è certo nuova. Solo che il tema del rapporto tra sicurezza, vuinerabilità, rischio sociale è di solito trattato dagli assicuratori in termini di dialettica tra risk reduction e risk prevention considerati all'interno della tecnica assicurativa. Da cui la tendenza a rispondere a domande come: "appartengono forse le questioni in oggetto al regno della politica e del sociale e non a quelli del rischio, probabilità, premi, risarcimenti? Abbiamo noi un ruolo in questi processi?" (p. 8) con risposte ancora tecniche come un efficiente "Early Warning System" oppure - come si fa a pag. 29 - proponendo di concentrare l'attenzione sui nesso tecnico esistente tra assicurabilità del rischio e sua calcoiabilità? Anche qui, pur riconoscendo che "in assenza di comportamenti coerenti da parte dei responsabili degli sviluppi tecnologici, economici, politici (che) continuamente influenzano i parametri di rischio, (questi) possono causare rapidi cambiamenti (e nuove opportunità), come sperimentato nel caso del WTc," l'interesse di Allianz appariva nettamente centrato piuttosto sulla considerazione che "le mutevoli dinamiche dei parametri di rischio richiedono nuove forme di definizione del rischio" da ricercarsi piuttosto con decisioni interne al settore (come "early recognition systems capaci di servire a 360 0 concentrabili su questioni specifiche... e capaci di anticipare minaccie e opportunità") anziché, come noi suggerivamo, "che una Società come AIlianz... (dovesse) promuovere un dibattito qualificato (se pubblico o privato era questione interna) coi principali attori coinvolti, con speciale riferimento alle autorità di governo". E ciò perché "questo sarebbe stato un grande risultato in quanto avrebbe consentito di trattare insieme risk prevention e risk reduction in nuove forme di collaborazione tra sicurezza e assicurazione con ciò ritornando ad altre epoche". Per quanto riguardava il tema della "Risk reduction", nel cui ambito è noto che le Compagnie di Assicurazione svolgono da sempre il loro ruolo in stretta collaborazione con altri soggetti, era chiaro che il contesto era mutato ancor più radicalmente. Trasformando due edifici commerciali - sia pure indubbiamente eccezionali - in obbiettivi politicamente simbolici, l'attacco dell'il Settembre aveva rotto il tradizionale confine tra rischi immobiliari considerabili di mercato e edifici simbolici che sono non di meno assicurati come beni ,

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commerciali (un esempio assimilabile per Milano sarebbe "la Scala") rendendoli diversamente vulnerabili. Si era cioè creata una situazione che non coinvolgeva soltanto quella che gli assicuratori definiscono "risk reduction" ma anche la cosiddetta "risk prevention", e che apriva problematiche sostanzialmente nuove tanto per i ruoli che per le responsabilità dei diversi attori assicurativi. Infatti, prima dell'il Settembre, in casi come quello dei due grattacieli, il mondo assicurativo era solito suddividere le relative responsabilità tra più aventi causa tra loro legati. C'erano trade-offi accettati tra i rischi sostenuti dai vari attori: dal momento che c'erano differenti tipi di coperture alle quali essi potevano ricorrere. Il proprietario, il costruttore, l'architetto, il gestore e gli altri utenti, consideravano i rischi coperti dalle relative polizze di assicurazione, il cui costo doveva essere accettabile dal mercato. Le Autorità pubbliche - e le autorità regolatrici in generale - consideravano il rischio come accettabile quando vi era rispetto delle regole; i politici quando vi era il consenso tra le parti interessate; i contribuenti quando sembrava esserci equilibrio tra costi e benefici; il pubblico, in generale, quando c'era un sufficiente grado di accettabilità del valore urbano del grattacielo in questione. Per il rischio economico primario il principale facilitatore era cioè il sistema assicurativo. Per i rischi non economici la convergenza dei maggiori interessi - con il sistema assicurativo coinvolto indirettamente - rappresentava una significativa, addizionale, copertura politica e amministrativa. Dopo l'attacco, come già commentava il Washington Post fin dall'Ottobre 2001, "le imprese possono trovare la copertura del terrorismo impossibile da comprare perché la vuinerabilità può essere ridotta da opportune predisposizioni di sicurezza e maneggio del rischio ma non dal suo trasferimento; e ciò fa sì che il rischio residuale sia una "quantità politica". In sostanza, il grado di rischio attribuito ai vari beni assicurati - in questo caso i grattacieli -, è divenuto tale da non poter essere trattato con le vecchie regole e le relative responsabilità. Occorre una approfondita riflessione non solo sulle modificazioni intervenute nel quadro della sicurezza e vuinerabilità di grattacieli simili a quelli abbattuti, ma anche su i soggetti che dovevano assumersene il rischio. Nel corso della storia il rischio sociale è sempre stato diviso tra assicuratori e Stato. Dalla Lega Anseatica alla Repubblica di Genova, fino alla recente decisione del Presidente Bush di farsi carico di una parte del rischio delle Compagnie Aeree, c'è sempre stato un attore pubblico che si è preso la responsabilità di assicurare, a sue spese, livelli accettabili di sicurezza sociale. Il peso del89


lo Stato o dei mercati nell'ambito della sicurezza è sempre stato, storicamente, l'indicatore dell'equilibrio vigente in materia. Quando, però, la sicurezza fornita dall'ordine politico diminuisce e aumenta il "power to arm" è fatale che le politiche di rassicurazione poste in atto dal sistema assicurativo debbano cambiare. L'il Settembre è piombato, in questo quadro, come un vero tifone. Lesigenza che qualcuno si assumesse la responsabilità politica di modificare la precedente distribuzione di ruoli e responsabilità è stata resa improrogabile. Ma come? Con un sostanziale ritorno allo stato di sicurezza quo ante, sull'assunto che il potere statale possa ripristinare condizioni di sicurezza fisica simili a quelle ritenute esistenti prima dell'evento (per esempio, con predisposizioni militari ad hoc)? O invece sviluppando un nuovo approccio sulla linea delle osservazioni che un esperto come W. Stahlen aveva già fatto, subito dopo l'il Settembre, e secci, i . . concio ie quan i ecoiogia sociale - per esempio, ratti .come ia aemocrazia e i diritti umani - e l'ecologia culturale, che include le condizioni quadro entro le quali la società funziona, devono essere meglio comprese" perché, come è stato aggiunto da Michel Huber, "i cambiamenti nella frequenza e severità dei rischi naturali hanno ormai sfidato il settore assicurativo a un livello metodologico"? Nell'interessante dibattito che si sviluppò in quella sede, noi della FGB sottolineavamo la tesi che il rischio connesso all'assicurazione di edifici simbolici, come i grattacieli negli USA, è diventato una variabile che non può essere risolta soltanto in termini economici ma che deve essere contenuta attraverso azioni pubbliche di "risk prevention". E che, non potendo l'attore responsabile di contenere il rischio assicurativo dei grattacieli, continuare ad essere lo stesso decisore che svolgeva questo compito, quando la vulnerabilità era molto minore e le responsabilità relative agli altri soggetti coinvolti poteva essere trasferita entro la copertura assicurativa, una stretta collaborazione tra pubblico e privato fosse indispensabile Di contro, Lutz Cleemann e il "Center for Tecnology" dell'Allianz sembravano piuttosto optare per un linea di risposte più interne allo stesso sistema assicurativo. Per noi questo era il punto centrale: se l'innovazione ha intaccato la razionalità dei comportamenti precedenti con riguardo agli edifici simbolici, nuove regole devono pur essere stabilite. Ma da chi? Toccava agli assicuratori inventarle decidendo, per esempio, di non assicurare più i grattacieli e così rendendone impossibile la costruzione o ricostruzione? O toccava al Governo intervenire per ripristinare condizioni di rischio i

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accettabili? E se toccava al Governo, questi doveva farlo con forme di sovvenzione alle Compagnie (risk reduction) o, invece, con predisposizioni di meccanismi capaci di ridurre la vulnerabilità (risk prevention)? Le vicende successive hanno portato acqua a entrambi i mulini: da un lato, la Storia si è gia incaricata di mostrarci come il Governo americano abbia scelto di tagliare il nodo delle responsabilità nella gestione dei rimedi all'innovazione terroristica apparsa l'il Settembre. Due guerre a due Stati nazionali mostrano chiaramente che la scelta fatta dal Governo americano nei riguardi dell'innovazione introdotta da Bin Laden è quella di rimuovere la possibilità di una sua ripetizione. Nei nostri termini: di opporre all'innovazione di Bin Laden una contro-innovazione - la guerra preventiva - capace di ripristinare, quantomeno negli USA, le condizioni di rischio politico precedenti. Per quanto più direttamente ci riguarda, e cioè la costruibilità dei grattacieli, l'idea sottesa sembra quella che la guerra portata agli Stati base del terrorismo possa azzerare, o quantomeno ridurre il rischio sociale connesso alla vita e al lavoro in edifici simbolo come i grattacieli e ripristinare un livello di rischio assicurativo simile a quello esistente in precedenza, senza mutamenti nelle responsabilità della ricostruzione. Solo che la gente non sembra del tutto convinta che le due guerre preventive abbiano ristabilito i livelli di sicurezza antecedenti. Le condizioni per un ritorno al mercato non sembrano del tutto mature. Che fare allora? Nel nostro caso, la situazione è tutt'altro che chiara malgrado il "Terrorism Risk Insurance Act (TIUA) approvato negli USA nel Novembre 2002. D'altro canto, le nuove regole sempre seguono, mai precedono gli eventi improbabili. E in mancanza di regole chi può deve inventarsele. Labbiamo visto per la guerra preventiva tra ONU e Coalizione, lo vedremo anche per i grattacieli. Se i luoghi della responsabilità non sono chiari qualcuno li occupa. Che la relativa responsabilità sia assunta dal Presidente degli USA o invece dall'ONu è, in questa logica, un dilemma quasi tecnico. Se non fosse purtroppo anche politico! Tanto da far pensare che non si erano sbagliati di molto gli uomini Allianz nel dedicare la loro attenzione alle modalità, apparentemente tecniche, - ma in realtà intrise di contenuto politico - e agli accorgimenti da adottare per mantenere o costruire una rinnovata capacità delle Compagnie Assicuratrici a razionalizzare e reggere, sia pure nell'ambito di nuovi rapporti coi Governi, le sfide che la società del rischio sta da ogni parte portando ai tradizionali assetti del settore. Sfide che non sono certo limitabili a quelle del terrorismo ma ne 91


vedono anche altre, forse altrettanto gravi come quelle legate ai nuovi rischi ecologici, biotecnologici, ecc... A conferma c'è il fatto che le trattativa per la ricostruzione di "Ground Zero", sviluppatesi su un impianto strutturale quanto mai ante factum e secondo procedure tradizionali - anche se per ora non è consentito intuire come il problema della assicurabilità, e quindi della costruibilità e utilizzabilità dei nuovi edifici, sia destinato a risolversi - sembrerebbe in panne proprio su questo tema. Dalle informazioni in mio possesso sembra che dopo l'indizione del ben noto concorso e la sua aggiudicazione, nessun accordo sia per ora stato raggiunto. Da un lato, il Governo federale, consapevole che il tema sollevato dalla ricostruzione di torri al "Ground Zero" potrebbe rivelarsi connesso con altre situazioni in qualche modo simili in altri Stati del Paese, non sembra intenzionato a prendere impegni corrispondenti a procedure nuove. D'altro canto, esso può ben dire che il suo impegno per ridurre la vuinerabilità di edifici simbolo lo sta assolvendo in modo oneroso con le due guerre sostenute per rimuovere i pericoli di terrorismo alla fonte. Dall'altro, le tendenze presenti sul mercato di New York in materia di affitti commerciali non inducono a formulare un quadro prospettico incoraggiante per un investimento immobiliare del tipo di quello postulato dal progetto giudicato vincente nel recente concorso. Tanto meno per una sua rischiosa assicurazione. E ciò anche nell'ipotesi di formule innovative sperimentali del tipo di quella che l'editorialista del Washington Post già proponeva in data non sospetta, e cioè nell'Ottobre 2001, là dove indicava l'opportunità di "set-up a government-backed terrorism pool into which all insurers would pay, thus spreading the risk of future attacks among the industry and among taxpayers". L'accordo tra autorità statali e cittadine su una tale ipotesi non sembra, infatti, a tutt'oggi facile da raggiungere. Stato e City di New York starebbero, infatti, litigando sul chi fa e paga cosa. In altri termini, il problema delle responsabilità politiche, coinvolte e per ora non chiarite, si starebbe già rivelando un macigno sulla via dell'accordo. Sapremo solo in futuro in quale modo le Compagnie assicurative come Allianz saranno state messe in condizione di rispondere alla domanda che stava alla base dell'esperienza che vi ho qui raccontato: se cioè potrà "Allianz insure skyscrapers any longer". E sarà solo allora che sapremo se la ricostruzione di Ground Zero, con le sue promesse di nuove torri, potrà realmente diventare realtà. Saremo così messi in condizione di valutare anche ciò che, ne sono sicuro, 92


interessa molto gli amici del Cities Program che hanno gentilmente concorso a rendere possibile questo nostro incontro: e cioè se nel nostro futuro e in quello delle nostre città gli skylines alla New York, cioè marcati dallo svettare dei grattacieli, continueranno a far parte della cultura ed estetica urbane. Ciò che qui interessava evocare era, per altro, il nesso tra innovazione storica, rischio sociale e suoi effetti collaterali sulle responsabilità politiche coinvolte. Il quadro che emerge sembra confermare che l'innovazione ha, nel caso in esame, portato parecchia confusione nella distribuzione della responsabilità istituzionali e che una risposta politica a sfide come quella di ricostruire grattacieli non è dietro l'angolo. DECISIONI POLITICHE E METODO DEMOCRATICO

Passiamo adesso, con un obbligato sforzo di brevità, al secondo caso, nato nell'ambito di una collaborazione tra FGB e la Regione Lombardia e centrato sul tema "come conciliare decisioni politicamente difficili (0CM) e metodo democratico". Il tema è quello di come si può gestire in modo responsabile una innovazione ad alto rischio sociale ma anche ad alto contenuto tecnico-scientifico. L'innovazione in questione è l'introduzione degli OGM e, in particolare, di una semente di riso geneticamente modificata per ottenere una variante resistente ai principali diserbanti. Il rischio sociale è, nel caso specifico, rappresentato dall'eventualità che la resistenza ai diserbanti si trasmetta anchè ad altre varianti non pregiate - come tali abitualmente eliminate appunto con diserbanti - turbando l'economia di una vasta area agricola. La questione politica è: come si può gestire responsabilmente e democraticamente un'innovazione ad alto rischio sociale ed alto contenuto tecnico e scientifico. L'innovazione questa volta sembra venire dal mercato, anche se origina dall'apparato tecnico scientifico di una grande multinazionale come la Monsanto, con tutto il suo potere lobbistico. La sfida a gestire correttamente la responsabilità politica è rivolta alla Regione Lombardia chiamata ad autorizzare o vietare l'innovazione in questione. Il vincolo politico è, in ogni caso, quello di rispettare le prassi di un ente democratico. Trattandosi di un soggetto che agisce secondo normali procedure democratiche il problema è quello di riuscire a formare una maggioranza as93


sembleare su una decisione tecnicamente e politicamente consapevole, di fronte a un rischio sociale grosso cui si contrappongono opportunità economico-produttive cospicue la cui valutazione prospettica si rivela difficile e incerta. E di farlo all'interno di pressioni rilevanti provenienti dai cospicui interessi coinvolti. La Commissione Europea ha, in materia, emanato un apposita Direttiva: la N. 2001/17/CE, nella quale, sul tema specifico degli OGM, raccomanda alle autorità politiche competenti - nel nostro caso la Regione - di mettere a punto modalità di comportamento politico amministrativo tali da evitare che, per mera incapacità di gestione del processo di formazione del consenso, la scelta adottata possa rivelarsi disinformata, avventata, demagogica oppure lobbistica. Una eventualità, questa, che quando si verifica, viene quasi sempre attribuita all'inadeguatezza critica dell'opinione pubblica resa luddista dalla pressione dei Verdi o alla complicità dei mass-media per la loro semina di disinformazione. Due ricerche che la FGB ha realizzato su questo argomento, con la collaborazione dell'Università di Padova e in collegamento anche con l"Università di Tokio" e della "State University of New Jersey" hanno dimostrato che la disinformazione e l'inadeguatezza ci sono; ma che non possono essere considerate le uniche responsabili di tutto il problema. Non basta comunicare di più e meglio il rischio per renderlo accettabile. Bisogna rendersi conto che il problema della percezione del rischio da innovazione è una questione complessa, che si inserisce in un substrato culturale profondo, si pensi - nel nostro caso - a ciò che il cibo rappresenta in termini simbolici e di tradizione in un Paese come l'Italia. È che il problema di come conciliare le sfide della conoscenza esperta e dell'innovazione con la democrazia e le sue procedure resta fondamentalmente politico. Nel caso in oggetto diventa: come mettere a punto in Lombardia una procedura politica che, rispettando la sostanza del normale metodo democratico, eviti, però, che az un uso sommario dello stesso possa derivare una decisione sbagliata. La questione che subito si pone è: a chi dovrà la Regione Lombardia affidare la responsabilità di decidere? Se la risposta è: al Consiglio regionale, a chi e come toccherà di istruirla in modo da ridurre al massimo ogni carenza di sapere? O non sarà invece meglio, per il Consiglio, delegarla a chi si ritiene più cognito della problematica scientifico-tecnica sottesa - i tecnici - ma ha scarso titolo per interpretarne le conseguenze politico sociali del rischio? o invece a chi, pur non essendo in condizione di valutare i temi tecnici, è molto più in grado di interpretare il volere sociale della comunità politica interessata? 94


Noi stiamo lavorando, partendo dal caso concreto, sulle procedure democratiche da proporre agli organi politici per conciliare innovazione, rischio, incertezza, imprevedibilità, con l'idea di decidere a maggioranza. È, questo, infatti ciò che sembra stare a cuore all'UE: che la democrazia europea, di fronte all'innovazione, possa superare l'impasse tra il rischio di un'arretratezza neo-luddista e quello di un'oligarchia tecnocratica. Non è che a tutt'oggi possiamo dire di aver raggiunto risultati particolarmente soddisfacenti. Una raccolta accurata di informazione ci ha però mostrato: che l'interessante dibattito teorico cui hanno dato un contributo fondamentale studiosi come Beck, Latour, ecc. comincia a generare interessanti innovazioni nella concreta prassi politico-amministrativa. L'idea di delegare solo a scienziati, quasi si trattasse di chierici depositari di un sapere ieratico, decisioni politiche pur tecnicamente difficili, persuade sempre meno; che alcuni Paesi di provata tradizione democratica - come i Paesi Scandinavi, la Gran Bretagna e gli USA - stanno sperimentando innovativi incroci del metodo democratico tradizionale, basato su decisioni prese a maggioranza nelle normali assemblee rappresentative, con procedure e metodi particolari. Stanno, infatti, nascendo procedure nuove come le "Consensus conferences" o altri marchingegni procedurali che hanno piu similarita col processo o con le procedure arbitrali che non con quelle dei tradizionali Parlamenti. In fondo, la Giustizia - e quella democratica in particolare - è da sempre alle prese con decisioni ad alto rischio sociale da prendersi, spesso, in condizioni di scarsa o parziale conoscenza dei fatti ma da conformare, comunque, allo spirito della democrazia! Ma accanto a questo filone, che abbiamo chiamato "giurisdizionale", nel quale il paradigma è quello del "processo" e l'espediente metodologico di base la "proceduralizzazione", la nostra riflessione ci ha portato all'altro, ben noto, riconducibile all'idea di "agenzia"; quando, cioè, l'organo democratico, a competenza generale, tende a trasferire la responsabilità politica sull'innovazione e i rischi sociali connessi, non più a una "procedura" quanto, piuttosto, a una "delega". Una delega che non assomiglia a quella tecnocratica basata sull'affidamento delle decisioni all' expertise di persone sapienti ma è, invece, incardinata su strutture complesse, autonome, nelle quali il momento tecnico e il momento politico sono opportunamente composti nelle relative costituzioni istitutive, la cui definizione riporta all'organo di rappresentanza generale. Acquisite queste informazioni stiamo adesso preparandoci a suggerire alla Regione Lombardia, che come abbiamo detto si trova di fronte a una scelta 95


che resta politica ma che deve sostanziarsi in un metodo, alcune innovative procedure suscettibili di facilitarne il difficile compito politico. Il risultato, significativo dal nostro punto di vista, dovrebbe essere che un'innovazione ad alto rischio sociale - gli OGM - verrebbe decisa sostituendo alla rozza regola delle votazioni prese in aula sotto la pressione diretta di suggestioni contradclitorie, quella, un po' più raffinata, di un procedimento accuratamente proceduralizzato ex ante. Un modo nuovo nel quale, come dice Beck, la fede nel progresso non sostituisca le votazioni; ma neanche queste ostacolino il progresso. Vedremo, in ogni caso, come il tutto avrà funzionato a esperienza conclusa. ALCUNE OSSERVAZIONI FINALI

Avevo anticipato che da questi due casi avrei cercato di trarre qualche breve considerazione relativa alla nostra tesi iniziale. Lo faccio rapidamente.

Prima osservazione abbiamo visto che quando appare un'innovazione il soggetto politico chiamato ad assumersi la responsabilità di introdurla, o di adattare il sistema al suo prevedibile impatto, contenendo il rischio connesso, può avere natura istituzionale diversa. Può essere un soggetto politico personalizzato come il Presidente degli USA, può essere un soggetto privato come Allianz chiamato, per la rilevanza delle sue scelte, ad assolvere una funzione politica sia pure indiretta; può essere un'assemblea elettiva come nel caso del Consiglio Regionale Lombardo, costretta però dalla complessità della materia a procedure vincolanti; può essere, infine, un potere diffuso come quello che sul mercato è distribuito fra la moltitudine dei consumatori. Tutti sono comunque chiamati a esercitare una responsabilità politica. Solo che la natura ditali responsabilità si rivela solo nel primo caso di facile attribuzione. Già nel secondo e nel terzo essa comincia a sfumarsi. Nel quarto - quando cioè l'innovazione è tale da dover essere provata cioè validata dall'impersonalità del mercato - la dispersione dei soggetti renderà l'imputazione di una "responsabilità" praticamente impossibile. In questo caso, l'istituzione mercato funziona come un meccanismo deresponsabilizzante. Seconda osservazione-, è opinione condivisa che quanto più alto è il rischio sociale tanto più forte dovrebbe esserne il controllo democratico. In realtà, noi assistiamo a un processo che va nella direzione opposta. Sempre più rilevanti sono i casi nei quali le innovazioni introdotte direttamente sul mercato hanno rischio sociale altissimo, mentre gli strumenti istituzionali 96


chiamati a contrastano appaiono disarticolati. Il terrorismo è un caso paradigmatico ma la bioingegneria si appresta a fornirne di altrettanto evidenti. Sembra che le nanotecnologie siano destinate a farlo in modo anche maggiore. Mentre crescono la capacità e i fronti dell'attacco innovativo e aumenta il rischio sociale, l'organizzazione dei poteri e delle responsabilità politiche chiamate a farvi fronte in modo democratico sembra indebolirsi o disperdersi. Terz.a osservazione la responsabilità è un concetto etico complesso che varia a seconda che sia di soggetti portatori di potere personalizzabile o, invece, di soggetti portatori di un potere disperso, come appunto avviene per i consumatori sul mercato. Nella tradizione umanistica della nostra cultura europea essa appare chiara soio quando è personale. Nella tradizione democratica essa appare legittimata solo quando è espressione di una maggioranza. Nella concezione del mercato solo quando è profit making. Di fronte alla sfida di responsabilizzare l'innovazione ognuno di questi assunti appare in crisi: quando più un'innovazione emerge da presupposti conoscitivi complessi tanto meno il criterio maggioritario sembra capace di funzionare. Di contro, tanto più rilevante è il rischio sociale - e i suoi effetti collaterali - tanto meno i poteri tecnocratici o imprenditoriali appaiono adatti ad assumere responsabilità che li trascendono. In latino rischio si dice periculum. E pericula sono anche la prova, gli esami. Il mercato è il solo che può provare, ma può farlo solo ex-post avvalendosi della logica del vostro famoso proverbio sul modo di assaggiare il budino. Il soggetto politico democratico dovrebbe invece sapere ex-ante qual è il rischio dell'innovazione. Non semp re può fa rio: perciò è tentato di deresponsabilizzarsi. Non potendo chiedere la risposta alle sole votazioni e non sapendo chiederla ad adatte procedure è ben lieto di assegnarla alla irresponsabilità dei tecnici o del mercato. Un'irresponsabilità che sarebbe un errore considerare negativa: non dimentichiamo che non c'è responsabilità se non c'è consapevolezza e libertà; quante volte la responsabilità di "distruzioni creative" rivelatesi benemente è stata presa dal soio tecnico o dal solo mercato! Basta pensare a tutte le innovazioni a basso contenuto tecnico-scientifico ma ad alto impatto su comportamenti culturali, nelle quali un creativo impegno imprenditoriale ha ottenuto dal solo mercato l'avvallo decisivo per il mutamento di comportamenti a forte impatto sociale. Penso ad esempio - e lo cito perché in Inghilterra e perché richiamato dalla celebrazione che in questi giorni si fa del suo quarantennio - alla minigonna, il trionfo della quale e il mutamento di costume conseguito non sono stati certo decisi da qualche organo politico, né dalla 97


stessa Mary Quant, bensì dai milioni di donne che hanno deciso di portarla, assumendosi però la responsabilità delle loro scelte singole, non certo di quelle generali di costume che così generavano! In casi come questo, il tema dei rapporti tra responsabilità politica nell'innovazione, rischio sociale e ruolo deresponsabilizzante del mercato sembra infatti creare difficoltà concettuali importanti, tanto al pensiero economico quanto a quello politico. D'altro canto, le tendenze in atto nella nostra organizzazione culturale, economica e istituzionale, vanno proprio nella direzione di un forte aumento nel numero e nell'impatto delle innovazioni, e di una forte dispersione dei soggetti chiamati a valutarli. Forse viene proprio di qui, dalla sua oggettiva deresponsabilizzazione, la lamentata crisi della politica!

Gentili e pazienti ascoltatori. Spero, a questo punto, di essere riuscito a spiegare il senso del titolo. Viviamo in un epoca di innovazione, ogni innovazione crea rischio sociale; per realizzarsi deve combinare sapere e potere; l'uso del potere democratico esige sempre assunzione di responsabilità; questa decresce al crescere della dispersione dei decisori. Forse sarebbe meglio che così non fosse. Ma cosi è. Né i rimedi sembrano facili. La FGB lavora per cercarne, in omaggio e ricordo del suo Fondatore. L'ausilio di realtà culturali prestigiose come la vostra è ciò che qui sono venuto a cercare. Grazie!

Questo articolo è una Lecture tenuta dall'Autore presso la London School ofEconomics il 14 Maggio 2003.

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Ossimori: tra Corporate e Venture Philanthropy. Dinamiche del non-profit di Giuliana Gemelli

Negli Stati Uniti, la pratica della corporatephilanthropy ha una tradizione di lungo periodo. Anche nel contesto americano, fino ai primi anni Cinquanta, la corporate philanthropy è restata, tuttavia, sostanzialmente confinata ai settori di competenza di ogni singola impresa e alla logica propria del business: The rationale - scrive John Yankey, in uno dei primi studi dedicati a questa problematica - was that management's primary responsability was to shareholders and to their return on i nvestment"i. Paradossalmente, lo sviluppo di "fondazioni d'impresa", ovvero di fondazioni votate alla crescita della cittadinanza sociale e culturale del territorio e delle comunità di riferimento, si è delineato in forma pionieristica soprattutto in Europa. La Zeiss Stiftung in Germania, rappresentò una originale articolazione tra impresa, governo e università. In Italia, nei primi anni Cinquanta, Adriano Olivetti, riprendendo il modello della Zeiss, progettò una fondazione che di. fatto costituì il suo testamento. 1118 febbraio del 1960, a pochissimi giorni dalla sua repentina scomparsa, avvenuta il 27 febbraio dello stesso anno, Olivetti aveva infatti depositato presso il notaio Carocci 2 lo statuto di una fondazione "per lo sviluppo sociale e scientifico del Canavese"; una fondazione che egli aveva inteso creare in memoria del padre Camillo e che avrebbe avuto il compito di rafforzare il coordinamento tra lo sviluppo del territorio, le dinamiche aziendali, le imprese culturali e le strategie di valorizzazione scientifica delle élites della competenza, quale necessario correlato al potenziamento di una matrice istituzionale integrata con il processo di trasformazione sociale. Sotto questo profilo, la fondazione doveva avere il compito non solo di valorizzare la collaborazione tra enti pubblici e privati, ma anche, in forma davvero anticipatrice ed innovativa, di espandere e sostenere

L'Autrice è Direttrice del Mise (Master in International Studies in Philanthropy) presso l'Università di Bologna. 99


l'impatto della social entrepreneurship nel processo di trasformazione dei più vasti sistemi in cui essa era incorporata, 3 favorendo la crescita culturale in termini di competenze, di progettualità innovativa e di modelli organizzativi della Corporate philanthropy. Per ragioni che sarebbe troppo lungo ripercorrere in questa sede, ma che hanno molto a che vedere con la sorda resistenza delle istituzioni italiane ad accettare la visione strategica come necessario correlato alle dinamiche di modernizzazione, il percorso di integrazione tra istituzioni non profit, impresa e società progettato da Olivetti, ha subfto una lunga interruzione. L'interruzione è durata sino agli anni Novanta del secolo scorso, allorquando tale orientamento è riemerso, come un fossile marino con evidenti pretese tentacolari, in connessione con il proliferante interesse delle imprese per le tematiche della "responsabilità sociale". Sviluppatosi nell'ambito dei progetti inerenti la riforma del welfare, il dibattito sulla Rsi ha favorito la creazione di una fitta rete di nuclei operativi per la definizione degli standard che si sono rapportati alle già esistenti reti europee (si pensi, in particolare, all'European Business Network for Social Cohesion che ha portato alla creazione dei CSR Europeo), con una conseguente fioritura di siti web dedicati a queste tematiche. Questa espansione appare, tuttavia, in tutta la sua criticità se si considera che la problematica della Responsabilità Sociale delle Imprese si è delineata in assenza di un continuum storico consolidato e in un retroterra di cultura imprenditoriale restato a lungo impermeabile alla social enterpreneurshzp, e che, come tale, per orientarsi in questo contesto emergente, tende a servirsi di strumenti di navigazione forniti dall'esterno (gli standard normativi) mentre dovrebbe essere guidato da finalità ed obiettivi nati all'interno delle imprese, sulla base di culture imprenditoriali assimilate e riflessivamente orientate. Per fare chiarezza su questi percorsi e sui loro potenziali effetti sulla riconfigurazione delle strategie dei giving - sia da parte delle imprese, sia da parte delle fondazioni che ambiscono ad agire come imprenditori sociali - è opportuna un'analisi di come questo percorso si sia andato delineando in contesti che, come quello statunitense, ne hanno visto la crescita e io sviluppo sostanzialmente senza soluzione di continuità. In effetti, negli Stati Uniti, tale percorso, a partire dai grandi pionieri del corporate giving degli anni Quaranta (Frank Abrams della Standard Oil, Alfred Sloan della Generai Motors, Arthur Page dell'AT&T) si è sviluppato per tutta la seconda metà del Novecento, entrando, dagli anni Novanta, in una fase di riorganizzazione epocale, che ha modificato finalità, organizzazione e cultura della cosiddetta "filantropia d'impresa". 100


Il primo fattore di cambiamento negli Stati Uniti fu l'emanazione di una serie di provvedimenti legislativi, intorno alla metà degli Anni Cinquanta, a seguito di un caso divenuto famoso nella giurisprudenza americana (A.P. Smith Manufacturing Company v. Barlow). Tali provvedimenti stabilirono che le corporations potessero sostenere le charities, anche se questo tipo di sostegno non aveva a che vedere col tipo di prodotti delle imprese, ribadendo il principio che la salvaguardia delle attività delle "voluntary associations" e lo sviluppo dell'iniziativa privata facevano parte della stessa "visione": "the freedom of individuals to pursue their own ideas" 4 . Gli effetti del reaganismo negli anni Ottanta produssero un lento ma incisivo processo di crescita della consapevolezza delle imprese nei confronti del charitable giving: emerse, così, l'esigenza di introdurre elementi di riflessività e di selettività e prese corpo una maggiore attenzione a selezionare ambiti di intervento ad alto potenziale di incisività sui problemi sociali più cruciali e di impatto sui lungo periodo. L'accentuazione, da parte delle imprese, di tali orientamenti nei confronti del settore non-profit è all'origine del consolidarsi di un insieme di pratiche che, a partire dagli Anni Novanta, sono state identificate in un ossimoro: la corporatephilanthropy. Essa è qualche cosa di diverso sia dalle pratiche di sponsorship, sia dall'insieme delle norme che qualificano la responsabilità sociale delle imprese, stabilita esclusivamente sulla base di standard certificati. LOGICA DEGLI AFFARI ED ETICA DEL DONO

Quale è allora l'elemento che qualifica questo ossimoro, che unisce logica degli affari ed etica del dono? Il punto focale della corporate philanthropy è rappresentato dal principio dell'alleanza collaborativa tra corporate e istituzioni non-profit. Il connotato più rilevante non è tanto o, quantomeno, non è soltanto l'adesione ad un insieme di principi etici, standardizzati in norme, ma è l'effetto di un processo di fertilizzazione incrociata. Esso riguarda il sistema dei valori e la crescita di culture organizzative condivise, attraverso un percorso di interconoscenza processuale degli attori istituzionali, in grado di trasformare le forme di collaborazione da una fase transnazionale ad una reale integrazione delle "mentalità", delle reti relazionali, della condivisione dei benefici dell'azione comune, dell'equivalenza degli investimenti e delle strutture organizzative dedicate allo sviluppo della partnership, sia nell'ambito del management, sia rispetto all'emergere di nuove forme di leadership, che si qualificano come altrettanti vettori di processi di apprendimento continuo e di in101


novazione processuale. Le tabelle che seguono, tratte dallo studio di James Austin5 illustrano gli effetti di modificazione delle forme di collaborazione dall'approccio filantropico al modello integrativo. Tab. 1: Relationship stage

Level of engagement Importance to mission Magnitude of resources Scope of activities Interaction leve! Manageria! complexity Strategic value

Phi!anthropic

Transactional

Integrative

Low Periphera! Sma!! Narrow Infrequent Simp!e Modest

-*-*--*---*--*-*--*-*---*----*-*--*--*--*-*-*----*-------*--* ----*-----*--*----* -*--*--*--*---*---*--*--*-*-*-*--*--

High Strategic Big Broad Intensive Complex Major

Fonte: J. Austin, The Collaborarion Challenge

Riguardo alle tematiche emergenti in Italia attorno al nodo della Responsabilità Sociale delle Imprese, ciò che mi preme rilevare, a partire dal confronto con le esperienze statunitensi degli ultimi venti-venticinque anni, è che in questo contesto, ormai molto avanzato rispetto allo sviluppo della corporate philanthropy, è stato necessario introdurre dei criteri di valutazione qualitativi, analizzando i singoli casi e non basandosi semplicemente sull'applicazione di norme standardizzate. È evidente infatti che, nella pur ricca esperienza statunitense, non tutti i programmi di Responsabilità Sociale delle Imprese hanno dato luogo all'ossimoro collaborativo sopra enunciato; è cioé chiaro che la selettività qualitativa, evidenziata dall'accurata ricostruzione dei singoli casi in una prospettiva di medio-lungo periodo, è d'obbligo per evidenziare questo passaggio, tutt'altro che irrilevante, anche in rapporto alla qualificazione dei principi etici che lo sottendono. Infatti, nel caso della corporatephilanthropy è all'opera una qualificazione dell'etica non tanto come sistema prescrittivo o come sub-sistema di regole di ottimizzazione gestionale, ma come visione processuale che orienta l'azione verso il potenziamento dell'autonomia degli attori, una visione regolata dalla consapevolezza del limite, incluso quello connesso ai vincoli dell'azione collaborativa.

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FORìvIAZIONE E STRATEGIA FONDATE SUI VALORI DELL'EQUAL PARTNERSHIP

I casi presentati da James Austin nel libro The Collaboration Challenge rivelano che la realizzazione di un'alleanza strategica tra business e non-profit è un processo molto complesso, che non solo richiede tempo ma anche l'attivazione, in entrambi i settori, di processi di formazione di personale "dedicato" al rafforzamento della coesione. E questo, sia rispetto ai processi di chiarificazione e consolidamento degli obiettivi, sia rispetto alla congruenza della strategia e del sistema di valori che deve rivelarsi adeguato, non solo a sostenerla ma anche a promuovere nuovi valori condivisi; nuovi valori che agiscano come altrettanti vettori di apprendimento continuo, in una circolarità autopoietica, che, in quanto tale, non necessita di input normativi dall'esterno. Tra i casi presentati da Austin, è particolarmente emblematico quello della partnership tra la Timber1ana famosissimo marchio di scarpe e abbigliamento sportivo, e il City Year, un'associazione non-profit che organizza giovani di diversa provenienza etnica e di diversa estrazione sociale in gruppi di lavoro per una vasta gamma di servizi sociali, soprattutto a livello delle scuole pubbliche e dei centri giovanili. La partnership, iniziata nel 1989 con la donazione di 50 paia di scarpe all'associazione, si è andata consolidando non solo dal punto di vista dell'ammontare del grant, che nell'arco di una decina di anni è arrivato a un milione di dollari, ma dal punto di vista delle strategie organizzative e del processo di internalizzazione e di condivisione dei valori di impresa: in effetti, Timberland ha stimolato le capacità organizzative di City Year, aiutando l'organizzazione ad espandersi su tutto il territorio nazionale; dal canto suo, City Year ha svolto un ruolo centrale nel potenziare le proprie strategie di offerta di servizi per le comunità, con un impegno di circa 20.000 ore lavorative in questo ambito. In alcuni casi, l'alleanza strategica tra business e non-profit è naturalmente inscritta nei percorsi e nelle finalità delle istituzioni che decidono di avviare un processo collaborativo. È il caso, ad esempio, della relazione tra l'American Human Association, che sostiene la causa animalista a livello nazionale, e la Ralsin Purina, che è la pii grande produttrice di cibo per animali su scala mondiale. Esse hanno avviato un programma congiunto, "Pets for People", volto ad incoraggiare le adozioni di animali. In altri casi, le finalità dell'alleanza sono meno evidenti o, comè nel caso della collaborazione tra The Nature Conservacy e Georgia-Pacfìc, le finalità nascono addirittura da una trasformazione collaborativa di un'originaria situazione di contenzioso. 103


"The former - osserva Austin a proposito di questa alleanza - wanted to preserve the land untouched, the latter to use it intensively. However, mounting environmental pressures on the forestry industry and growing dfficu1ties for environmentalists in gaining control ofecosystems through landpurchases led these organizations to reassess their opposing st'rategies '. Il punto di arrivo della collaborazione è stata l'avvio, nel 1994, di una gestione congiunta di un'area forestale in North Carolina. Come illustra la tabella tratta dal libro di Austin (n. 2), il punto focale del passaggio dall'approccio puramente filantropico alla definizione di un approccio strategico, fondato su processi di collaborazione intersettoriale si delinea quando l'impresa ridefinisce i propri assetti gestionali in funzione delle nuove forme di operatività nel non-profit. Esso ha il suo pieno consolidamento quando l'impresa è in grado di trasmettere questa operatività al proprio personale, come parte rilevante della cultura aziendale, identificandone il ruolo tra le componenti di valutazione dell'impatto aziendale. D'altra parte, dal punto di vista del non-profit, il risultato più tangibile è la crescita delle abilità organizzative e degli assetti inerenti la comunicazione interna ed esterna, nella direzione di un orientamento in cui la ricerca della stabilizzazione istituzionale ed organizzativa costituisce la ragione del fund-raising e non viceversa. In sostanza, ci troviamo di fronte alla riproposizione in chiave operativa dell'approccio delineato da Alfred D. Chandler Jr., a proposito del rapporto strategia-struttura, in cui è quest'ultima che si adatta all'orientamento strategico, assumendo una configurazione processuale e non viceversa 7 Questo processo di costruzione strategica delle alleanze collaborative implica anche un effetto di allargamento delle cerchie sociali di riferimento. Di conseguenza, come ha sottolineato Giulio Sapelli 8 riprendendo e reinterpretando la lezione di Simmel, l'effetto è la crescita di un ambiente di relazioni e di interazioni che non si limitano alle transazioni monetarie ma comportano anche una transazione di valori morali e lo sviluppo di benefici intangibilz9. E se questi vengono equamente distribuiti sono in grado di cementare "lo status e quindi l'ethos di comunità", rimettendo in circolo la tradizione, da molti dimenticata, dell'antropologia giuridica di inizio secolo. Tale tradizione valorizzava gli apporti delle consuetudini del comportamento etico comunitario per definire i principi della giustizia distributiva, che agiva cioè in funzione della definizione di modalità di investimento che tenessero conto dei vincoli morali e non solo di quelli contrattuali. Una lezione, questa, che significativamente ritroviamo in molte tradizioni filantropiche a base religiosa, .

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Tab. 2: Collaboration Continuum: Partnership Characteristics Philanthropic

Transactional

Integratve

Collaboration mind-set

Gratefuiness and Charity Syndromes Minimai coliaboration in defining activities Separateness

Partnering mind-set Increased understanding and trust

We mentality in piace of us vezu.s them

Strategic alignment

Minimal fit required beyond a shared interest in a particular issue area

Overlapping mission and va!ues Shared visioning at top of organization

Broad scope of activities of strategic significance Relationships a strategic tool Shared values

Collaboration value

Generic resource transfer Unequai exchange of resources

Projects identified and deveioped at ali Core competency exchange More equal exchange of resources !eveis in the organization with !eadership support. Joint benefit creation Projects of iimited scope and risk that demonstrate success Need for value renewal. Shared-equity investments for mutua! return

Re!ationship management

Corporate contact person usually in community affairs or foundations; non profit contact person usua!iy in development Corporate personnel have minimai personal connection to cause Project progress typicaliy communicated via written status report Minimai performance expectation

Expanded personal re!ationships throughout the organizations Strong personai connection at !eadership leve! Emerging infrastructure, including re!ationship managers and còmmunication channe!s Exp!icite performance expectation. Informai learning

Fonte. J. Austin, The Collaboration Challenge

Expanded opportunities for direct empioyee invo!vement in re!ationship Deep personal re!ationship across organizations Cu!ture of each organization influenced by the other Partner relationship managers Organizationai integration in execution, inciuding shared resources Active !earning process


in particolare, quella ebraica e quella protestante. A tale proposito, si ricordi che, nella tradizione ebraica, il più alto livello di donazione tra gli otto indicati dalla tsedegah (giustizia equilibratrice) è quello che comporta la partecipazione e la collaborazione col povero affinché questi non sia più tale e ciò a vantaggio di tutta la comunità, che sarà a sua volta liberata dal vincolo della povertà del singolo. Ora, la lezione che ci viene da queste riserve di capitale intellettuale e sociale, tradotto in azione come espressione di una giustizia redistributiva, è che la filantropia che sviluppa forme di collaborazione intersettoriale deve favorire e non ridurre la competizione sociale. Essa, infatti, stimola la crescita delle capabilities inerenti lo sviluppo di quella che potremmo definire una "benevolenza interessata", volta cioè all'ottimizzazione dei suoi investimenti, a beneficio di cerchie sociali sempre più ampie e che quindi non ha più nulla a che vedere col concetto tradizionale di charity, intesa come "azione unidirezionaIe"lO priva di reciprocità, al quale alcuni autori sembrano ancora legare il principio dell'agire filantropico. La "benevolenza interessata" è, al contrario, fondata su un principio di reciprocità volto a produrre effetti di equal partnershz. E questo mediante la partecipazione di competenze funzionali, che emergono non come principio di rafforzamento di vincoli burocratici o di logiche di pura assistenza, ma in forma articolata e differenziata, nella direzione di un processo di internalizzazione delle istanze collaborative. Un processo in cui tali competenze ed istanze collaborative possono essere in grado di agire anche da correttivi dei pericoli connessi con l'addensamento delle reti sociali di impresa. Esse, cioè, possono potenziare, attraverso il vincolo etico sopra evocato, basato sul principio dell'autonomia della responsabilità decisionale e strategica, la capacità di ascolto delle imprese verso le istanze pluralistiche degli stakeholders, limitando gli effetti della concentrazione di connivenze che tendono a chiudere le cerchie sociali anziché ad alimentare la crescita delle forme di reciprocità tra settore profit e settore non-profit. In un recente articolo, Michael Porter e Mark Kramer sottolineano il ruolo che la corporate philanthropy può avere nel "massimizzare il valore della filantropia", stimolando le reazioni del contesto imprenditoriale di riferimento attraverso la produzione di valori sociali aggiunti che vanno a beneficio non solo della produzione ma di tutti gli attori in essa coinvolti dal punto di vista dei benefici sociali (condizioni di vita materiali, salute, partecipazione e cittadinanza, creatività imprenditoriale dei singoli). Essi sottolineano, tuttavia, che "the context-focused philanthropy will require a far more rigorous approach than is prevalent today. It will mean tightly integrating the manage106


ment of philanthropy with other company activities. Rather than delegating philanthropy entirely to a public relations department or the staif of a corporate foundation, the CEO must lead the entire management team through a disciplined process to identi& and implement a corporate giving strategy focused on improving context". Ciò implica la crescita delle strategie di collaborazione anche in senso orizzontale, cioè uno sforzo di coordinamento e di collaborazione con le istituzioni filantropiche esistenti. N0N-PR0FIT E CAPITAL MARKET: UNA RIFOCALIZZAZIONE STRATEGICA DELLA FILANTROPIA

È in tale ambito di riferimento concettuale ed operativo che, nell'ultimo decennio del ventesimo secolo, la filantropia ha compiuto un mutamento di orizzonte. Tale mutamento ha trovato il suo fulcro nel concetto di "investimento". Attraverso il trasferimento nell'ambito dei non-profit del modello del Venture capitah il concetto di investimento definisce un piano strategico, da realizzare attraverso il rafforzamento dell'intera struttura organizzativa e ciò con l'intento di attuare programmi ad elevato impatto sociale. Come rileva Jed Emerson, tale concetto ha una sua specifica connotazione e correlazione con il Capital Market e non solo nel settore del business ma anche in quello del non-profit: "Historicaily - scrive Emerson - discussion of firnding in the non profit sector, have touched primariiy on grants, annual fundraising campaign... Only recently have these discussions evolved toward a realization that the resources supporting the work of non profit sector are more than simply a variety of charitable fundraising efforts, but actuaily form a distinct capital market... Dollars used to support community and other non profit activities, whiie 'charitable' are stili capital investments of precious reso urces. As such it is critical that these investments be managed with the same strategic thinking and due diiigence one would apply in the for profit financiai services and investment communities" 12 Autore di numerosi saggi sulla social entrepreneurshi 13, Emerson è tra i pionieri della progettualità inerente la venture phiLanthropy, che rappresenta, ad un tempo, un ulteriore sviluppo della corporate philanthropy e un radicale mutamento di orizzonte dell'agire filantropico, in quanto, introducendo la variabile dell'investimento nella strategia operativa delle fondazioni, nel loro proporsi come promotori della creazione di developmentfunds per il non-pro.

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fit, determina l'emergere di una sequenza di varianti, il cui focus operativo è il principio del capacily building. In un documento redatto dal Morino Institute si sottolinea che "capacity enables an organization to become more than the sum of its programs, by giving it the intelligence and support it needs to modify existing programs, meet unmet needs and drop ineffective products and services 14

Changing Markts Involvement in management

Venture Philanthropy Social benefit: intangible

Nonp ofit C M arket

Traditional philanthropy: charitable

Venture Capital

Traditional capital. business

Commercial benefit tangible

No involvement in management

MISP

Questo tipo di approccio ha effetti di ricontestualizzazione dei comportamenti mentali e delle strategie operative degli attori sociali ed istituzionali. È interessante osservare che, se la riflessione teorica che ha accompagnato e, per certi versi, stimolato l'emergere di varianti rispetto agli orientamenti della filantropia tradizionalé, si è delineata originariamente nèlla costa dell'Est, - ed in particolare nell'ambito dei centri di ricerca che fanno capo all'Università di Harvard, trovando un forte punto di risonanza anche oltre Oceano nel saggio di Christine Letts e collaboratori 15 -, la loro sperimentazione innovativa si è delineata dal punto di vista operativo, soprattutto nella costa dell'Ovest ed in particolare nell'area ad alto potenziale di trasformazione tecnologica della Silicon Valley che, secondo alcuni studiosi dei processi di intensificazione dei processi creativi, rappresenta un'area ad alta densità progettuale anche per 108


quanto riguarda le comunità locali 16. Uno dei primi casi di studio di venture phiLanthropy elaborati sulla costa dell'Ovest, nel quadro della collaborazione di Jed Emerson con la Stanford Graduate School of Business, è stato quello della Roberts Foundation, una fondazione a carattere familiare che opera a san Francisco dal 1986. A partire dagli anni Novanta, essa ha avviato una serie di programmi basati sul principio del d.evelopmentfiind. Il primo esperimento denominato The Homeless Economic Development Funa avviato nel 1990, ha avuto come finalità di sostenere "una varietà di sforzi da parte delle organizzazioni non profit per espandere le opportunità economiche per i senza-tetto". Il successo di questo programma ha spinto la fondazione ad orientarsi sistematicamente verso una strategia centrata su "social purposes enterprises", mentre attuava un'"exit strategy" rispetto al programma per i senzatetto che, in questo percorso, assume retrospettivamente il ruolo di start-up rispetto al processo di ridefinizione delle strategie e dell'assetto organizzativo della stessa Fondazione Roberts. Dalla seconda metà degli anni Novanta, questa ha assunto la denominazione di Roberts Enterp rise Development Fund, valorizzando in forma strategica e con un'ampia gamma di progetti a livello delle comunità locali, gli elementi di innovazione e di potenziale discontinuità rispetto alla filantropia tradizionale, prodotti dal programma HEDF. Il primo aspetto rilevante è il superamento dell'opinione corrente che il non profit non è in grado né di darsi una dimensione organizzativa capace di produrre autosostenibilità nel medio-lungo periodo, né di generare "marked-based enterprises while simultaneusly providing employment... for formerly unemploied individuals". Questo mutamento di orizzonte rispetto alla sfera del mercato ha delle implicazioni anche sul versante delle forme di transazione tra grant-seekers e grant-makers. Dal un lato, infatti, implica un rapporto di inversione tra la concentrazione sugli obiettivi di frndraising, come unica forma di sopravvivenza delle istituzioni non profit e gli obiettivi di autorganizzazione e di valorizzazione della sfera del capital market, come forma di sostenibilità a carattere evolutivo ed imprenditoriale, in una sorta di rivisitazione del vecchio adagio secondo il quale il povero non va sfamato coi pesci ma insegnandogli a pescare. Un rivisitazione che implica, tuttavia, un ulteriore passaggio e cioè la necessità per il grant seeker non solo di saper pescare ma di saperlo fare in modo innovativo e competitivo, a beneficio sia di chi ha investito (tangible benefit) sia della qualità della vita, delle relazioni sociali, e della crescita della cittadinanza sociale e culturale dell'intera comunità (intangible benefit). Sul versante dei grant-makers questa inversione di prospettiva implica il fatto che l'attività delle fondazioni come organismi erogatori di fondi 109


non è più solo di sostegno a progetti ma di investimento su programmi a medio e lungo termine. Si concentra, cioè, meno sul grant making che sui core fiinding. Esso implica la necessità di intervenire nel lungo periodo e in modo strategico gestendo il rischio (anziché cercare di evitarlo, attraverso appropriati standard valutativi) incidendo sulla ottimizzazione del capacity building delle istituzioni non profit e stabilendo un sistema di relazioni interne e a crescente impatto organizzativo tra grant maker e grant seeker. Certo, va detto che non tutti gli esperimenti condotti secondo gli orientamenti sopra enunciati hanno avuto successo. Uno dei casi di mancato successo nel passaggio da un approccio filantropico tradizionale al modello della venture philanthropy, segnalato dal Morino Institute, riguarda lo scollamento nell'ambito dell'attività del Pfizer Community Development Fund tra "the urban development fund" che costituiva il core finding del programma e le finalità dell'impresa centrate su aspetti farmaceutici e sanitari. Il Development Fund, in pratica, è stato investito in aree di cui la fondazione non possedeva un'expertise adeguata, con la conseguente impossibilità di mobilitare capitali e risorse umane conformi allo scopo e una crescente impossibilità di operare un adeguato management del rischio. La percentuale di fallimenti nel passaggio dalla filantropia tradizionale ai nuovi approcci della venture spiega il numero relativamente contenuto di fondazioni che si stanno impegnando principalmente in questa direzione e la presenza piuttosto consistente di casi ibridi, di fondazioni che mantengono cioè i due assetti.

Per una definizione di venture philanthropy Oggi le più importanti fondazioni americane che operano secondo la logica della venture philanthropy sono poco meno di una cinquantina. Di esse, secondo una stima realizzata dall'Intek, il 67% ha realizzato investimenti della durata media di 316 anni. Dal punto di vista dello staif interno, la tendenza generale è verso la crescita del numero delle persone coinvolte nell'assistenza manageriale ai programmi. Per il 2002, sempre secondo le stime dell'Intek, questi programmi hanno mobilizzato un capitale pari a 400 milioni di dollari, con finalità che si sono orientate prevalentemente nel settore dell'educazione e della formazione (programmi di ottimizzazione dell'educazione pubblica), riduzione della povertà, creazione delle potenzialità di impiego per disabili, ex carcerati, senzatetto, emigrati, creazione di incubatori di social ent'repreneurshzp. Particolarmente interessante al proposito è il Rubicon program 110


che ha realizzato, tra le sue numerose iniziative, un sistema integrato di prodotti per panetteria e pasticceria di qualità, attraverso un'organizzazione che impiega e, al tempo stesso, crea servizi per le popolazioni a rischio dell'area di Richmond, in California. Altrettanto dinamica è l'esperienza del Center for collaborative economics di San José che ha potenziato lo sviluppo di esperimenti di venturephi&znthropy nel contesto delle communityfoundations, incrementando la collaborazione e le strategie di active learning dei potenziali donatori di quell'area. Un dato significativo è che la maggior parte delle organizzazioni che hanno fatto propria la logica della venture philanthropy sono state create a cavallo del millennio. Tra il 1999 e il 2001 ne sono state create ben 29. I pionieri della venture philanthropy tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta sono stati, oltre alla già citata Roberts Foundation, il Morino Institute on Venture Philanthropy (che, insieme alla Roberts, rappresenta anche uno dei più attivi centri di documentazione in questo ambito con un'ampia casistica), la Robin Hood Foundation, la Tiger Foundation e la Svi Seattle. Nel maggio del 2000 quest'ultima, in collaborazione col Seattie Social Enterprise Consortium, ha creato il First Seattk Social Investor's Forum il cui scopo non è solo di fornire capacità e strumenti cost-effective per le organizzazioni non profit ma di diffondere le progettualità più innovative in modo simultaneo tra un grande numero di istituzioni filantropiche e di fondazioni limitando, così, il tempo e i costi dei processi di erogazione, i finanziamenti non coordinati ed accelerando, invece, la creazione di network di servizi e il processo di valorizzazione degli asset. Un aspetto significativo della crescita esponenziale della venture philanthropy in un arco di tempo molto breve, è che essa sembra configurarsi come effetto di una transizione generazionale connessa con l'emergere di un nuovo habitus mentale tra i donatori che hanno accumulato ingenti capitali nella rapida accelerazione ed espansione dei mercati finanziari connessi allo sviluppo delle alte tecnologie e dall'informatica 17 . Una generazione di donatori che in molti casi hanno meno di quarant'anni e che non vogliono limitare la loro attività di filantropi a firmare assegni, ma desiderano entrare nel vivo dei programmi e della misurazione del loro impatto, tangibile ed intangibile, mettendo alla prova la loro capacità di selezionarli, evidenziando, al di là dei tradizionali sistemi di "application-and-evaluation", da un lato la densità qualitativa della dedizione allo scopo e la determinazione nel raggiungerlo dei proponenti ed internalizzando, dall'altro, la componente del rischio anziché cercare di limitarne gli effetti. In tal modo, l'attività di gran-making 111


non si limita all'erogazione, ma come si diceva sopra, implica un allargamento di reti, di cerchie sociali in forma strategica e collaborativa. L'obiettivo è di assicurare il trasferimento conoscitivo, nella direzione del non profit, degli strumenti operativi più innovativi del capital venture (pianificazione strategica e finanziaria, analisi del posizionamento, monitoraggio delle performance) attuando, ad un tempo, un processo di ricapitalizzazione delle risorse antropologiche e dell'expertise sociale ed organizzativa creata dal delinearsi di cerchie allargate. Il corollario di questo orientamento strategico è la predisposizione "adattiva" di modalità di uscita dell'investimento che non siano semplicemente connesse all'aspettativa che le istituzioni pubbliche e statali possano farsi carico di progetti pilota, ma che siano strategicamente connesse alla sostenibilità e all'autonomia organizzativa dell'istituzione oggetto del finanziamento, costituendo così una riserva potenziale di ulteriori iniziative imprenditoriali ed aumentando in termini di valore aggiunto per l'intera comunità, gli effetti prodotti dal consolidamento di "equal partneships". Queste osservazioni fanno emergere una serie di problemi che, grosso modo, si riconnettono tutti al seguente nodo. La venturephilantrophy è una nuova pratica che contiene in sé un nuovo principio di competitività basata sulla cultura della solidarietà sociale e che, agendo nella sfera del libero mercato, smantella dall'interno la logica del capitalismo "hands in hands" 8 proteso a difendere i propri interessi e i propri appetiti di conquista delle quote di mercato anche attraverso l'internalizzazione di una corporate philanthropy di tipo strumentale? Oppure si tratta di una semplice tecnica finanziaria che si applica al sociale ma non snatura la logica della "vecchia filantropia" che si è imposta come una matrice del tutto consona rispetto al sistema industriale all'inizio del Ventesimo secolo? Tra le molte voci che si levano per sottolineare la portata innovativa e il carattere dirompente del non-profit capital market ve ne sono tuttavia altre, talora autorevoli, che si manifestano in modo dissonante t questo il caso di Peter Frumkin dell'Hauser Center di Harvardche interpreta il passaggio dalla filantropia tradizionale alla venture philanthropy più come un effetto retorico che come un mutamento di paradigma, in sostanza come una forma di sovrapposizione terminologica a pratiche sostanzialmente immutate (si v. la tabella 3). Il dibattito ha, in modo evidente seppure spesso non dichiarato, una componente. di natura politica, visto che nel suo saggio Inside venture Philanthropy, Frumkin rileva, a più riprese, come il linguaggio della venture philanthropy sia stato largamente utilizzato dai democratici nella messa a punto dei loro programmi durante l'ultima campagna elettorale. ,

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Tab. 3 Venture Phi!anthropy Term Investment Investor Social Return Performance Mesurement Benchmarking Due Diligence Consultative engagement Investment Portfo!io

Transiation Grant Donor Impact Evaluation Standard Setting Grant review process Technica! assistance Grant List

Fonte: P. Frumkin, Inside Vent'ure Philanthropy, Working Papers Hauser Center, Harvard University and Kennedy School for Government

OPPORTUNITÀ E VINCOLI: LA VENTURE PHILANTHROPY OLTRE LOCEANO

Il problema, per quanto riguarda l'Europa ed in particolare l'Italia, è di diversa natura e certamente pi1 complesso, innanzitutto in rapporto alla diversa configurazione del contesto economico, produttivo e socio-istituzionale. Si tratta di capire, innanzitutto, se nel nostro Paese, caratterizzato da una netta prevalenza della media e della piccola impresa è possibile attivare una mobilizzazione di capitali in direzione dello sviluppo del "non-profir caital market", e, in secondo luogo, se le imprese, da un lato e le fondazioni, dall'altro, posseggono la cultura organizzativa e la mentalità adeguata a questo orientamento, considerando il prevalere di orientamenti che fanno da ostacolo all'emergere dei fattori di mutamento sopra èsposti. Se osserviamo il problema dal punto di vista delle fondazioni di origine bancaria, emerge infatti, secondo una valutazione condotta dall'Aciu che la struttura organizzativa dell'ente proponente figura all'ultimo posto tra i criteri individuati nella selezione delle richieste di contributo N. tabella). Nel caso italiano sono certamente da evidenziare tra le opportunità fattori come la rapida crescita della divaricazione tra fonti di finanziamento privato e fonti di finanziamento prevalentemente pubblico, in cui secondo una recente stima dell'ISTAT le prime rappresenterebbero l'87,1% del totale e le seconde solo il 12,9%; il crescente impegno delle aziende italiane ad investire in progetti sociali con importi che nel 65% dei casi superano, secondo una stima dell'Intek, i 50,000 di Euro per anno e soprattutto il fatto che l'82% delle aziende riceve proposte di finanziamento direttamente da enti ed associazioni. Restano seriamente aperti una serie di problemi che riguardano, in113


nanzitutto, la modalità effettiva della erogazione di tali fondi, cioè il fatto che le aziende entrino o meno in un circuito di costruzione della "equa! partnership", sviluppando i fattori strategici da cui tale costruzione dipende e che il principio di internalizzazione della partnership comporta.

La «pratica della feritoia' come supera ria In secondo luogo, va analizzato il modo di operare delle fondazioni, in particolare quelle di origine bancaria che, con limitate eccezioni, adottano un comportamento del tutto consono all'idea di una filantropia non inter-attiva, cioè scarsamente votato al principio della reciprocità, convalidando nella pratica un principio teorico che erroneamente identifica tout court filantropia e assistenzialismo privo di relazionalità. Con una metafora, che richiama i paesaggi dell'Italia medievale, definirei tale atteggiamento, ancora prevalente tra le fondazioni italiane, ma certo - per fortuna - non più esclusivo nell'attività dei grant makers nel nostro Paese, come la "pratica della feritoia". Una minuscola finestra dalla torre erogatrice dei finanziamenti si apre e rovescia sul grant seeker un sacco contenente monete d'oro. Il beneficiato non ha il tempo di volgere lo sguardo verso il donatore che la feritoia si è giù richiusa, per riaprirsi soltanto al momento della richiesta del rendiconto, senza che alcun evento comunicativo tra le due parti sia realmente intervenuto. Si tratta, ovviamente, di una estremizzazione, che, come ho detto, ha fortunatamente numerose e crescenti eccezioni, ma che serve tuttavia ad illustrare il prevalere di una cultura della distanza comunicativa tra le fondazioni e i grant seekers. Tale carenza comunicativa è particolarmente densa di conseguenze quando i grant seekers sono le istituzioni non profit perché limita le possibilità di un intervento mirato al rafforzamento delle abilità organizzative e gestionali di tali istituzioni e tende a rafforzare la logica dell'appiattimento delle richieste sulla base dell'adeguamento alle richieste del donatore, piuttosto che su una progettualità strategica che educando i partner alla collaborazione rafforzi le loro culture organizzative e la capacità degli attori di suscitare "reazioni" nel contesto di riferimento, suscitando l'interesse di altri attori nell'ambito dell'impresa e delle istituzioni pubbliche. Un problema di grande rilievo è, dunque, quello di educare alla cultura comunicativa lo staff e soprattutto gli executives delle fondazioni abituati ad attività di valutazione-erogazione dei finanziamenti, secondo protocolli talora molto standardizzati, ma raramente indotti a porsi problemi di leadership nella gestione dei programmi, di ricerca e definizione di development finds 114


per la loro completa realizzazione, di mutamento organizzativo delle istituzioni coinvolte, di sviluppo di strategie di collaborazione tra partner diversi, di produzione a flusso continuo di dati, di monitoraggio delle performance in forma processuale e non solo di rendiconti finali. Da molte parti si è sostenuto che la crisi della new economy ha comportato una crisi, per alcuni esiziale, dello slancio innovativo della venture philanthropy sul modello inaugurato dagli imprenditori della Sylicon Valley. Figuriamoci, dunque, se questo percorso può avere un futuro in un Paese come l'Italia in cui le fondazioni, anche grazie agli effetti della legislazione recente, preferiscono una politica dell'intervento per settori, piuttosto che un "pro-activism" ispirato alle strategie del rischio innovativo. Eppure, come ci hanno ricordato autori classici come Putnam, l'Italia è storicamente il Paese in cui la società civile si è sviluppata secondo le forme di una cittadinanza partecipativa, animata nei periodi di massimo splendore della nostra storia anche dalle Casse di Risparmio, che alle origini sono state artefici di un pro-activism municipale di grande impatto sociale e non solo economico, attivando reti di collaborazione intersettoriale tra le élite cittadine e la partecipazione delle "forme elementari" di aggregazione sociale e comunitaria (le associazioni professionali e di mestiere, le confraternite, ecc.). È interessante osservare come il rilancio della venture philanthropy nei settori economicamente piìi avanzati della società globale si ispiri proprio al principio della community venture, all'irrobustimento della capacità di azione del non profit non attraverso erogazioni di denaro unidirezionali ma attraverso una strategia di mobilitazione di investitori i cui fondi di investimento vengono direzionati "not in the Next Big Think, but in small business which could create jobs in low income communities, which offer their employees good wages and the skills to develop their own wealth" 9 producendo dunque quello che Bud Calligan ha definito a "double bottom line approach, looking for both financial and social pay", in una direzione non molto dissimile da quella che aveva animato l'impresa olivettiana nel Canavese, negli anni del secondo dopoguerra. L'interrogativo inerente le potenzialità di sviluppo di una nuova filantropia orientata all'irrobustimento e non solo al funzionamento del settore non profit riguarda, dunque, non solo le forme di organizzazione dell'impresa nel nostro Paese ma anche la loro cultura organizzativa e, in primis, la cultura organizzativa di quelle istituzioni ibride (nate cioè da contesti spuri come gli enti statali, le opere pie, gli istituti di credito) che rappresentano, oggi, una parte non esigua del variegato panorama delle fondazioni in Italia. Una cultura che ,

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non possiede i canali storici di comunicazione con le esperienze più significative ed innovative del passato (quella olivettiana) e che è invece "prensile" rispetto alle scorciatoie offerte dal presente, come dimostra il crescente impatto del dibattito sulla certificazione della responsabilità sociale delle imprese. A partire da queste considerazioni, è mia convinzione che il tempo della venturephilanthropy non possa avere in Italia alcuna possibilità di accelerazione se non accettando il rischio, in questo caso davvero enorme, di affidare alle applicazioni di raffinate tecniche di investimento, da una lato, e alla standardizzazione dei codici etici, dall'altro, il mutamento di contesti culturali, istituzionali e di habitus mentale. Come dicevo, si tratta di scorciatoie, ed è improbabile che queste creino corto-circuiti innovativi. Si possono, al contrario, generare sorde resistenze alla crescita dei principi di reciprocità che dovrebbero orientare la "nuova filantropia". È, dunque, assolutamente necessario incidere su altri fattori, come la formazione di una nuova professionalità nel settore della filantropia e del non profit. L'educazione alla collaborazione intersettoriale degli executives delle fondazioni e dei donatori nel settore privato e dell'impresa, - così come la formazione degli operatori del non profit e di coloro che nelle istituzioni pubbliche hanno il compito di interagire con questi attori della filantropia interattiva -' è uno dei vettori del cambiamento che deve accompagnare il processo di adattamento delle tecniche e della logica della venture philanthropy nel nostro Paese. Ciò che appare, tuttavia, più cogente è la necessità di creare squadre di lavoro che mettano all'opera il personale delle fondazioni, gli studiosi dei centri di ricerca, consulenti e manager nella produzione di casi. Questi dovrebbero essere selettivamente orientati a definire non solo quante e quali aziende rispettano gli standard etici, ma ad evidenziare i processi di formazione di una cultura condivisa della "benevolenza organizzata e orientata allo scopo" tra aziende, fondazioni e associazioni non profit. In un siffatta logica anche il concetto di bilancio sociale implica una rifocalizzazione, da una interpretazione che lo individua essenzialmente come rendicontazione etico-sociale, volta ad allargare "la prospettiva delle comunicazioni sociali dalle relazioni tra impresa-azionisti alle relazioni tra l'impresa e i suoi molteplici stakeholder" 20, ad una visione che ne privilegia le componenti strategiche. Perché questo accada occorre che la concezione sopra evocata del bilancio sociale, si orienti verso una dimensione organizzativa, volta meno a potenziare i meccanismi di reputazione esterna ed interna delle istituzioni che a fare emergere il loro ruolo come promotrici di nuove capacità progettuali ed organizzative, internalizzando la dimensione del rischio come fattore strategico. Solo da questo mutamento di traiettoria, che sposta 116


l'attenzione dai criteri di formulazione e di argomentazione del documento di bilancio sociale, alla sua natura di strumento di definizione di valori e di missioni socialmente condivise, dotandole di strumenti organizzativi a rapido circuito di assimilazione ed ottimizzazione 21 , è possibile fare emergere le nuove traiettorie di una "benevolenza orientata strategicamente allo scopo". Una benevolenza che, nutrendosi dei principi del venture capital sia in grado di attuare investimenti di tipo manageriale e finanziario che aiutino non solo i beneficiari adefinire i propri obiettivi ma a anche a gestirli secondo un piano strategico che ne rafforzi nel medio-lungo periodo gli assetti organizzativi, ponendo le condizioni per il raggiungimento del massimo risultato in termini di impatto sociale.

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JOHN A. Yiy, Corporate Support of Non-

profit organizations. Partnerships across the Sectors, DWIGHT F. BURLINGAME e DENNIS R. YOUNG, Corporate Philanthropy at the Cross Road, Bloomington, Indiana University Press 1998, p. 8. 2 Lettera di Alberto Carocci a Roberto Olivetti del 29 aprile 1960 contenente la bozza di statuto della fondazione datata 18 febbraio 1960 Archivio Storico della Società Olivetti, Ivrea, fondo Roberto Olivetti. 3 Atvo, D. BROWN e CH. LETTS, Social Enterpreneurship an Social Transformation: an Explanatory Study, The Hauser Center for Nonprofit Organizations, Harvard University, November 2002, Working paper 15, p. 15 ' J. SHANNON, Corporate Contributions Handbook, San Francisco, Jossey-Baas, 1991, p. 47-48 5J. AUSTIN, The Collaboration Challenge. How nonprofits and Business Succeed Through Strategic Alliance, San Francisco, Jossey-Bass Publishers, 2000 6 Ibid. p. 4 ALFRED D. CHANDLER JR, Strategia e struttura storia della grande impresa americana,Milano, E Angeli, 1980 8 G. SAPELLI, ENRON e oltre, in «Equilibri», n. 2, 2003, pp. 89-123.

Sul concetto di benefici intangibili e sulle sue applicazioni Si V. JOHN R. M. HAND (Editor), e BARUCH LEv (a cura di) Intangible Assets (Oxford, Oxford University Press, 2003. 10 Si v. al proposito V. MELANDRI e S. ZAMAGNI, Il finanziamento del non-profit in Italia fra

intervento pubblico, filantropia e reciprocità, per una via italian al Fund-Risin, in «Economia e management», n. 1, 2001. Il MICHEL E. PORTER and MAPK R. I(RAMERR, The Competitive Advantage of Corporate Philanthropy, in «Harvard Business Review», December 2002, pp. 67-68. 12 J F.MERSON, The Us Non Profit Capital Market: An introductoy Overview ofDevelopmental Stages, Ivestors and Funding Instruments, Robets Enterprise Development Fund Foundation. 13 Si v. in particolare, Strategic Toolsfor Social Entrepreneurs: Eenhancing the Performance of your Enterprising Nonprofit, Wilsey, New York, 2002. 14 Venture Phi/.anthropy. Landscape and expectations, Morino Institute, 2000, p. 6. 15 Virtuous capital: What Foundations can learn from venture Capital, «Harvard Business Review», ApriI 1997. 16 The Creative Community Leveraging Creativity and Cultural Parti c:ation for Silicon Valley 117


Economic and Civic Futum, Center for Collaborative Economics, Working Paper,. February 2001; JOHN SEELY BROWN e P. DUGUID, The socia! Life of information, Harvard Business School Press, 2000. 17 K. PHIUPS, Wealth and Democracy. A Politica! History ofthe American Rich, New York, 2002. 18 Il riferimento è al saggio di R, Rajan L. Zingales, Saving Capitalism from Capitalists, Unleashing the Power ofFinancial Markets to Create Wealth and Spread Opportunities, Crown PubI. 2003. 19 P. DELEVETT, Capitalist venture out with

118

charity, «Mercury News», 23 aprile, 2003, http://www.siliconvalley.com/mld/siliconvalley/business/columnists/peter_delevett/ 20 Progetto Q-Res: la qualità della responsabilità etico-sociak d'impresa. Linee-guida per il management, Liuc paper s. 95, Serie etica, diritto ed economia, ottobre 2001, pp. 15-16. 21 Si v. al proposito A. HtNNA, Il bilancio di missione da strumento di misurazione a leva di governo dell'organizzazione in Marco Crescenzi (a cura di), Manager dr Management Non Profit. La sfida etica, Edizioni Asvi, Roma, 2002.


Per una globalizzazione dei diritti. La nuova sfida per le i m prese* di SaveriaAddotta

N

el luglio 2001, la Commissione europea ha presentato il Libro Verde "Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese". Il documento aveva un duplice obiettivo: lanciare il dibattito sul concetto di responsabilità sociale delle imprese (Rsi) e definire le modalità di costituzione di un partenariato finalizzato a favorire lo sviluppo di una struttura europea per la sua promozione. Il Libro Verde definiva la responsabilità sociale delle imprese come "l'integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con le altre parti". Ildocumento europeo è soltanto uno di una serie di pronunciamenti istituzionali di riferimento per la responsabilità sociale dell'impresa che è divenuta, negli ultimi anni, una tematica molto dibattuta. Per una serie di ragioni diverse, in cui la cosidetta globalizzazione dell'economia occupa sicuramente un posto importante. Le imprese, appunto sempre più globalizzate, sono molto poco regolamentate nelle loro iniziative mondiali dalle legislazioni nazionali. Eppure, problemi sociali molto rilevanti sono spesso collegati alla nuova divisione su base mondiale del lavoro e ai metodi correnti di produzione legati all'esportazione. Tutti gli Stati si sono dotati (in modi diversi) della legislazione necessaria per garantire i diritti dei cittadini lavoratori. In molti, come l'Italia, questa legislazione si è sviluppata particolarmente durante gli ultimi due secoli. Pochissimo esiste, invece, per quanto riguarda la tutela dei lavoratori delle imprese che operano all'estero. La ragione è che per molto tempo gli Stati non hanno sentito la responsabilità di ciò che avveniva fuori dai propri confini. Il processo di globalizzazione sempre crescente ha però reso sempre più stretti i legami tra le diverse zone del mondo fino a raggiungere un livello di integrazione elevatissimo: adesso le decisioni che influenzano la vita di molte persone vengono comunemente prese molto lontano, in Paesi diversi da quelli di appartenenza. Da quando l'impresa madre è in grado di decidere la politica delle sedi locali o comunque trarne vantaggio, la legislazione legata rigida119


mente ai confini statali ha iniziato a mostrare tutta la sua insufficienza. È sorto, quindi, il problema di come sanzionare quelle decisioni dei privati che producono dei danni in altri Paesi, soprattutto, come spesso succede, quando l'azione legale nello Stato che ha subito il danno non è percorribile. PERCHÉ RESPONSABILITÀ SOCIALE DELIhMPRESA?

In pochi casi le imprese vengono chiamate a rispondere dei loro atti negli Stati in cui si verificano violazioni dei diritti umani: spesso in questi Paesi esistono legislazioni molto deboli, l'accesso alla giustizia è difficoltoso e costoso, i controlli inefficaci o assenti, la magistratura e la classe politica deboli o corrotte, e, purtroppo, vengono scelte dalle aziende proprio per questi motivi. Ne offre un esempio il Sud Africa, dove la legge impedisce ai dipendenti di citare in giudizio il loro datore di lavoro. Di fronte a questi problemi, molti Governi e molti organismi internazionali si sono attivati per cercare di dare delle risposte. I risultati non sono sempre in linea con le attese di chi chiede maggiore rispetto per i diritti umani ma lo spazio giuridico per prevenire abusi da parte delle grandi imprese si sta lentaniente allargando. Sta avanzando la richiesta, da parte dei cittadini, singoli e associati, che le aziende assumano un livello di responsabilità superiore, in relazione alle conseguenze che i propri comportamenti hanno sul piano economico, sociale e ambientale lungo tutta la catena di "creazione del valore". Le principali categorie di riferimento, definiti i "12 panieri della Responsabilità sociale" sono: i diritti umani; i diritti dei lavoratori; la protezione e salvaguardia dell'ambiente; la protezione dei consumatori, la correttezza della pubblicità e dell'informazione, la qualità e sicurezza del prodotto; la salute dei cittadini; la lotta alla corruzione; la concorrenza; la fiscalità; la scienza e la tecnologia; la sovranità nazionale e il rispetto delle comunità locali, rapporti di buon vicinato azienda/territorio; l'apparato di .sicurezza e di controllo; le norme disciplinari. Quindi, si tratta di diversi e còmplessi aspetti che riguardano, direttamente e indirettametne, l'operare di un'impresa, a prescindere dalla sua localizzazione, sia questa in un Paese del cosidetto primo mondo o in via di sviluppo.

L'evoluzione della problematica sulla scena internazionale A livello internazionale non esistono leggi vincolanti per le multinazionali; tutti gli attori interessati hanno scelto l'approccio chiamato sofi law, cioè un 120


insieme di regole vincolanti moralmente ma non legalmente, a volte supportate da un sistema di incentivi. Questo è dovuto a varie cause: 1) l'assenza di un sistema legale internazionale che si possa occupare di tali questioni superando i confini della sovranità degli Stati; 2) la diffusa convinzione che tali questioni possano essere risolte all'interno del mercato senza un intervento normativo esterno; 3) le pressioni che le grandi imprese riescono a esercitare sui vari ambiti, primi tra tutti la Commissione Europea e il Governo degli Stati Uniti; 4) la divisione del sindacato a livello mondiale che difficilmente riesce a definire posizioni comuni da avanzare nei vari ambiti. Una svolta significativa in tale scenario si è avuta lo scorso agosto, quando la Sottocommissione della Nazioni Unite sulla Promozione e Protezione dei Diritti Umani ha approvato una Risoluzione su "Human Rights Principles and Responsibilities for Transnational Corporations and Other Business Enterprises" in cui, - riprendendo alcune delle argomentazioni contenute in un precedente documento dal titolo "La globalizzazione ed il suo impatto sul pieno godimento dei diritti umani" del 15 giugno 2000 - per la prima volta, si affronta il tema della responsabilità sociale delle imprese sul piano del diritto internazionale. Quanti si impegnano per il rispetto dei diritti umani hanno accolto con grande soddisfazione questo documento che diviene, pertanto, il riferimento principale per coloro che intendono promuovere una vera ed efficace responsabilità sociale d'impresa. Si può affermare che la Risoluzione Onu superi, per precisione e ampiezza di approccio, qualsiasi altro pronunciamento sul tema di altri organismi sovranazionali ma è necessario guardare ancora a cosa è stato fatto finora. Per quanto riguarda la posizione dell'Unione Europea, le due istituzioni principali, stanno procedendo su strade parallele. Da un lato il Parlamento (con la Risoluzione Howitt del 1999, la Risoluzione A5-0159/2002 del 2002 e una serie di altri pronunciamenti), nel richiedere una assunzione di specifiche responsabilità al mondo economico ed alle aziende in particolare quando si trovano ad operare nei Paesi in via di sviluppo, ha affermato che "questa responsabilità va accompagnata da una serie di misure regolatorie e burocratiche che ne permettano l'implementazione ed il monitoraggio". Dall'altro, la Commissione Europea ha elaborato e presentato, lo dicevamo all'inizio, il suo Libro Verde, in cui lo stesso concetto di Responsabilità Sociale sembra, però, non tenere conto delle evoluzioni del dibattito sul tema, soprattutto sui concetti di "sostenibilità" e di "impatto sulla società". Il documento, fra l'altro, trascura quasi completamente il tema di come attuare la Rsi nella pratica delle imprese che, comunque, definisce come qualcosa a cui 121


le "aziende aderiscono volontariamente" per contribuire ad una società migliore ed a un ambiente più pulito. Poco dopo la Risoluzione del Parlamento Europeo del 2002, la Commissione europea ha pubblicato un Libro Biancò, dal quale emerge l'intenzione della Commissione di non imporre comportamenti responsabili alle imprese europee. La Commissione rifiuta qualunque ipotesi di creare una regolamentazione che vada oltre il puro volontarismo, compresa la possibilità di istituire l'obbligo di relazioni sociali e ambientali periodiche o una certificazione sociale obbligatoria. Al contrario, l'enfasi è sui ruolo della Commissione nell'aiutare ad aumentare la consapevolezza dell'importanza commerciale della Rsi, nel creare metodi per diffondere le pratiche migliori, per formare i manager alla Rsi e nell'introdurre la dimensione etica nelle proprie politiche. Lo strumento scelto è il Multi-Stakeholder Forum on Corporate Social Responsability, che raccoglie 40 rappresentanti della Commissione Europea, del mondo degli affari, dei sindacati, dei gruppi di consumatori e delle ONG. Questo Forum, istituito nell'Ottobre 2002, ha il compito di dirigere gli sforzi dell'Unione Europea per diffondere la consapevolezza dei vantaggi commerciali della Rsi tra tutte le imprese; cercando il modo migliore per raggiungere una convergenza tra i numerosi codici di condotta; rafforzando la ricerca sulla Rsi; cercando di usare il Fondo Sociale Europeo per promuovere la formazione sulla Rsi; approvando principi guida sugli schemi di certificazione etica volontaria. La Commissione controllerà l'operato del Forum nel 2004 e per questa data è previsto un pronunciamento finale sulla materia. I giudizi dei sindacati e delle ONG sul Libro Bianco della Commissione Europea sono stati molto critici in quanto esso costituisce un chiaro passo indietro nella discussione sulle modalità. di miglioramento delle pratiche delle multinazionali: tutto viene affidato al mercato e alla consapevolezza delle imprese che migliorare le pratiche sociali e ambientali porta giovamento al loro business. Il commissario europeo agli Affari Sociali, la greca Anna Diamontopoulos ha comunque lasciato una porta aperta ad iniziative successive: commentando il voto del Parlamento Europeo del Maggio 2002 sulla Responsabilità sociale, ha affermato che "al momento presente questo può avvenire su base volontaria, ma sufficienti iniziative devono essere prese in maniera che possiamo vedere dei risultati simili a quelli che ci aspetteremmo da una legislazione . In ogni caso, l'opinione p.revalente nella società civile. europea è che la Rsi non può essere un semplice fatto di filantropismo o di buone intenzioni e che non si può separare la responsabilità di guidare un'azienda con profitto 122


dalla responsabilità di assicurare la protezione della salute dei lavoratori, della loro sicurezza e di proteggere il contesto sociale e ambientale circostante. Occorre anche tenere presente che Francia, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, hanno previsto degli obblighi di legge per le aziende, grandi e piccole, su vari aspetti della responsabilità sociale: in alcuni Paesi esse godono già di vantaggi (es.: crediti all'esportazione) quando possono dimostrare con i fatti di rispondere a certi requisiti. IL RUOLO DELLA SOCIETÀ CIVILE

"Ogni giorno mi alzo alle 4 e mezza del mattino e, dopo un'ora di cammino, faccio la fila davanti al cancello della piantagione Del Monte, nella speranza di poter fare una giornata di lavoro. Quando mi prendono faccio 9 ore di lavoro, poi l'impiegato mi paga e il mio rapporto con la Del Monte finisce. Il giorno dopo è una nuova fila e se ho fortuna faccio un'altra giornata di lavoro. Altrimenti torno a casa... Ogni giorno taglio migliaia di frutti sotto il sole o la pioggia, frugando, piegato in due, fra le piante di ananas. A fine giornata sono pieno di graffi e con gli occhi lacrimanti perché le piante di ananas sòno taglienti e irrorate con sostanze che mi provocano irritazione. Guadagno 350 lire l'ora. Per comprare un chilo di pane mi ci vogliono 4 ore di lavoro. A fine giornata ho guadagnato quanto basta per comprare tre chili di farina Quèsto è il racconto di uno dei duemila giornalieri avventizi che lavorano nella piantagione Del Monte nella regione di Thika, in Kenia. La sua testimonianza è stata raccolta, insieme a molte altre, dalle organizzazioni sindacali e da organismi non governativi locali che hanno svolto una forte pressione attraverso una campagna di sensibilizzazione che è stata portata avanti da un'associazione italiana, il cui coordinatore è Franco Gesualdi (noto come Francuccio, uno degli ex allievi di Don Milani). Questa associazione, il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, ha dato vita ad una campagna di boicottaggio, "Diciamo no! All'uomo Del Monte" affinché l'azienda accettasse un'ispezione secondo la procedura Social Accountability 8000 (SA 8000). L'ispezione, che era stata accettata dalla Del Monte già all'inizio della campagna 'per rispondere alla richiesta fatta, un anno prima, dalla Coop a tutti i suoi fornitori, di rispettare il proprio codice etico - verificò alcune condizioni: che effettivamente l'azienda non aveva stabilito una politica di "responsabilità sociale", non aveva un "sistema di gestione delle azioni correttive e delle azioni di rimedio", non rispettava in modo sufficiente i punti della procedura relativi 123


al lavoro minorile e lavoro forzato, salute e sicurezza, libertà di associazione, orario di lavoro e remunerazione. La Del Monte, danneggiata nell'immagine, decide di considerare i rilievi emersi dal rapporto dell'ispezione. A distanza di quasi due anni, nel 2000, la situazione per i lavoratori kenioti della Del Monte era migliorata: i salari erano saliti, i lavoratori giornalieri erano diminuiti mentre i permanenti rappresentavano la maggioranza. L'azienda, inoltre, si era impegnata ad offrire migliori condizioni di vita ai suoi lavoratori, ad applicare meglio le norme di sicurezza e a far circolare liberamente nei luoghi di lavoro i sindacalisti, prima ostacolati.

Un impegno di tutti La pressione esercitata dalla cosiddetta società civile su un'impresa è così srvita a migliorare la situazione di migliaia di lavoratori in un Paese, qual è il Kenia, in cui si assiste, purtroppo ancora oggi, a una diffusa violazione dei diritti umani. Molte sono le denunce, raccolte anche da organizzazioni come Amnesty International, riguardo a vari aspetti: impunità di agenti governativi autori di frequenti abusi sui loro concittadini, casi di tortura di detenuti (alcuni morti in seguito ai maltrattamenti), violazioni del diritto alla libertà di espressione, di associazione e di stampa. Un'impresa, anche considerando il suo prioritario obiettivo di fare profitto, non può non avere un ruolo nel contesto socio-politico del Paese in cui si trova ad operare, poiché nel fare il proprio lavoro esercita un ruolo, non soltanto sui piano economico, ma appunto anche su quello sociale e politico. Anzi, proprio considerando il peso rilevante che le imprese hanno nei contesto territoriale in cui agiscono ne consegue una proporzionale responsabilità, accanto a quella delle istituzioni politiche, nazionali .e internazionali. Di questo, come dicevamo, sono coscienti anche le stesse imprese che, soprattutto negli ultimi anni, si stanno ponendo il problema della loro responsabilità sociale per cui cercano di attuare codici di condotta e modelli di comportamento, fra l'altro, come abbiamo visto, in un contesto legislativo ancora insufficiente a salvaguardare i diritti. Il tema, quindi, è sempre più discusso nei consigli di amministrazione delle maggiori aziende e istituzioni finanziarie, oltre che - come accennavamo - nelle istituzioni politiche, sui media e quindi nel contesto dell'opinione pubblica, ormai a livello internazionale. I grandi meeting mondiali - come l'incontro, nel gennaio 2002, di New York - dedicati all'analisi della situazione economica e sulle prospettive di sviluppo danno molto spazio a queste problematiche. Il riferimento normativò rimane ancora quello fondamentale della Dichiarazione Universale dei Diritti 124


Umani (ONU, 1948) e i patti, le convenzioni, i trattati, le linee-guida, le risoluzioni a questa seguiti. Proprio la Dichiarazione Universale dovrebbe essere il parametro di base per le politiche dell'impresa e della loro attuazione concreta. Soprattutto le imprese che operano in Stati dove si verificano gravi abusi dei diritti umani sono quelle che sono maggiormente tenute sotto Osservazione dalla comunità e, come si vede nell'esempio del Kenia, non soltanto quella locale. Vi sono diverse situazioni in cui si corrono rischi di "appoggiare" anche in modo indiretto, violazioni dei diritti e, naturalmente anche subirli. Investire in zone in cui vi sono conflitti armati, ad esempio, può comportare il subire minacce ad immobili, macchinari, impianti e, aspetto più importante, al personale che vi opera. Investire in un Paese in cui vi è un regime democratico debole, che potrebbe essere rovesciato da una dittatura, o semplicemente operare in uno in cui la libertà di espressione, quella di informazione o quella sindacale sono ridotte o addirittura negate, è evidente che può comportare l'esporsi a dei rischi reali di essere "complici" di quel sistema. In particolare, l'esperienza mostra che vi sono alcuni problemi ricorrenti delle aziende riguardo ad alcuni aspetti, quali: la destinazione dei ricavi da parte dei Governi e il problema della corruzione; le attività aziendali in zone di conflitto; l'uso di forze di sicurezza per proteggere impianti e attrezzature; le questioni relative all'ambiente, ai diritti relativi al territorio di popolazioni indigene e i diritti dei lavoratori (libertà di associazione sindacale e di contrattazione, sfruttamento del lavoro minorile, condizioni di lavoro, salari, igiene, orari, straordinari, lavoro forzato e in condizioni di schiavitù). Alcune imprese si sono già date dei parametri di riferimento, dei codici di condotta ma che spesso si sono dimostrati non sufficienti. L'opinione pubblica, - soprattutto quella rappresentata da associazioni di cittadini attenti a queste problematiche, - chiede alle aziende alcuni impegni: delle dichiarazioni pubbliche che esplicitino il coinvolgimento del top management nella Rsi; la presenza al loro interno di risorse e responsabilità di singoli o settori dedicati all'osservazione del rispetto dei diritti umani delle diverse attività; l'impegno ad effettuare una sistematica consultazione di tutti gli stakeholder, ad accettare controlli esterni ed indipendenti sulla reale applicazione dei codici di condotta. I soggetti che fanno pressione sono anche gli stessi investitori e consumatori. Infatti, sono in aumento i risparmiatori che desiderano fare soltanto investimenti "etici" e, quindi, in aziende "socialmente responsabili"; in questo, sono aiutati dalla cosiddetta "rivoluzione mediatica" che, insieme all'uso sempre più diffuso di Internet, consente una maggiore diffusione delle notizie e, di conseguenza, il venir meno del segreto aziendale, la possibilità di nascondere 125


cosa accade anche in Paesi lontani. Le aziende, quindi, si sentono sollecitate a stilare Rapporti ambientali, Bilanci sociali e a introdurre un sistema di controllo esterno tramite l'Audit sociale. Sempre più associazioni di cittadini fanno pressione anche sui rappresentanti politici affinché introducano legislazioni ad hoc e sulle aziende perché rispettino le norme internazionali già esistenti. I MODI PER DECLINARE LA RESPONSABILITÀ SOCIALE La responsabilità sociale di un'impresa riguarda le modalità in cui questa agisce per raggiungere i suoi scopi, con cui si relaziona ai partneÈ e investe nella comunità in cui è inserita. Il suo rispetto, in sostanza, dei diritti umani. È inevitabile, anche per le aziende, fare riferimento, come dicevamo, alla legislazione, che in questo campo, è ancora di natura prevalentemente internazionale. A partire, lo dicevamo, dalla Dichiarazione universale e delle due convenzioni più importanti da essa derivate nel 1966, il Patto internazionale sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici, culturali e sociali, i quali, con gli standard fondamentali dell'OIL (l'Organizzazione Internazionale del Lavoro) rappresentano le norme accettate dal più ampio numero di Paesi. La Dichiarazione universale, - sottoscritta da Paesi con culture molto diverse fra loro come la Svezia, l'Arabia Saudita, la Cina, l'Australia, il Kenia, insomma, la maggior parte dei Paesi del mondo -, richiama "ogni individuo ed ogni organo della società" a dare il proprio contributo nel rispettare i principi in essa contenuti. Quindi, anche le imprese hanno un obbligo morale e sociale in tale senso, poiché in senso strettamente giuridico sono vincolati soltanto gli Stati. Le imprese sono obbligate anche giuridicamente rispetto a quegli aspetti che dalle norme internazionali vengono poi inclusi nelle legislazioni nazionali o, nel nostro caso, a livello europeo. La maggior parte degli elementi dei due Patti internazionali sui diritti è stata inclusa nella Convenzione europea sui diritti umani, che viene applicata dalla Corte europea di diritti umani a Strasburgo. La crescente consapevolezza pubblica fa si che le imprese percepite come implicate in violazioni dei diritti umani (lo abbiamo visto nel caso della Del Monte, ma molti altri potrebbero citarsi) subiscano un danno di immagine che arriva a condizionare anche il valore delle loro azioni, e quindi l'obiettivo primario del profitto. Le imprese che, al contrario, riescono a dimostrare almeno di minimizzare l'impatto negativo della loro azione in relazione ai diritti umani, hanno maggiore sostegno dai mezzi di comunicazione, dalle organizzazioni non governative, dai cittadini, organizzati o individualmente e 126


dagli altri stakeholder più vicini (gli stessi dipendenti, i fornitori, i consulenti, i clienti, ecc.). I vantaggi, anche economici, che ne ricavano le imprese sono molteplici: al rafforzamento dell'immagine corrisponde un aumento della reputazione (strettamente legata alla fiducia pubblica); minori rischi di proteste da parte dei consumatori, di pubblicità negativa, di boicottaggi; maggior fiducia da parte degli azionisti; clima migliore per gli investimenti; maggiore competitività nei confronti di aziende che non abbiano ancora adottato politiche per i diritti umani; diminuzione del rischio di gestione; migliore sicurezza nell'ottenimento delle autorizzazioni, minori rischi e, quindi, minori costi per la sicurezza (meno perdite di materiale, meno esigenze di sorveglianza, premi di assicurazioni inferiori); relazioni più stabili con partner commerciali, fornitori, subfornitori e licenziatari; migliore possibilità di reclutare, mantenere, motivare manodopera di qualità; diminuzione delle tensioni interne e aumento della produttività. A questi vantaggi corrispondono quelli della comunità in cui le imprese operano: maggiore fiducia reciproca (attraverso attività di consultazione e collaborazione); rafforzamento della coesione sociale (tramite un'equa rappresentazione delle opinioni e delle preoccupazioni dei diversi gruppi della società); diminuzione delle tensioni e dei conflitti sociali; rafforzamento del ruolo delle organizzazioni della società civile (attraverso il dialogo); migliori opportunità di occupazione e, in generale, maggiore potenziale di sviluppo socio-economico sostenibile.

Rsi

E DITUTTI UMANI

Una parte sempre più importante del capitale delle aziende dipende, quindi, dalla reputazione del marchio più del patrimonio reale, come sanno bene nomi come Nestlè, Nike e McDonald's sui quali si è concentrata l'attenzione di diverse organizzazioni non governative per alcuni loro comportamenti. L'importanza della reputazione del marchio è sempre più evidente, se anche la Borsa di Londra, per l'inserimento nei listini, esige che le aziende adottino un sistema di evidenziazione dei rischi di gestione che implichi anche l'attenzione a elementi legati, appunto, all'immagine. Negli ultimi anni, proprio il fallimento di alcune politiche adottate da aziende ha messo in luce quanto il rispetto dei diritti umani sia fondamentale per l'attività d'impresa. Diviene inevitabile, così, per ogni azienda, la promozione degli standard internazionali sui diritti umani in tutte le sue sfere d'influenza: a partire dalle attività principali, dai partner commerciali, dai rapporti con la comunità ospitante e con le istituzioni. 127


Per quanto riguarda le attività principali è fondamentale il rispetto dei diritti dei lavoratori. Le convenzioni dell'OIL forniscono delle indicazioni chiare a tal proposito, che raccomandano: condizioni lavorative che garantiscano salute e sicurezza, salari equi, uguaglianza di retribuzione per uguali lavori, divieto di lavoro forzato o in schiavitù, divieto dello sfruttamento del lavoro minorile, divieto di discriminazioni basate su razza, genere, religione, appartenenza etnica, diritto alla libertà di associazione, di assemblea e di contrattazione collettiva. I datori di lavoro devono avere, secondo queste convenzioni, una forte responsabilità nella difesa dei lavoratori e nella richiesta di risarcimenti legali in caso di arresti arbitrari, detenzioni senza processo, torture o esecuzioni extragiudiziali, ciò attraverso interventi diretti presso le autorità di governo, fòrnendo sostegno legale ai lavoratori e parlando pubblicamente dei casi di violazione. I lavoratori devono conoscere i loro diritti che devono essere riportati in tutti i contratti di lavoro e devono essere messi in condizione di avere i loro rappresentanti che ne garantiscano la possibilità di esprimersi senza timore di subire rappresaglie. L'uso delle Forze di sicurezza all'interno delle imprese deve essere in linea con i Principi basilari delle Nazioni Unite sull'uso della forza e delle armi da fuoco da parte delle Forze dell'ordine e con il Codice di condotta delle Nazioni Unite per le Forze dell'ordine. Le imprese devono garantire selezioni rigorose e sottoporre a controlli costanti il personale di sicurezza; stabilire procedure trasparenti in caso di proteste verso questo personale da parte dei lavoratori, inclusa la possibilità di svolgere indagini indipendenti anche da parte dei tribunali, in caso di violazioni. Le imprese dovrebbero stabilire, inoltre, delle procedure per il controllo e la verifica di contestazioni - rispetto agli impegni presi riguardo gli standard internazionali sui diritti umani - da parte di autorità indipendenti: organismi non governativi, revisori sociali accreditati o altri organismi. Per quanto riguarda i partner commerciali, l'impresa dovrebbe comunicare loro la sua politica riguardo il rispetto dei diritti umani e coinvolgerli in essa; dovrebbe assicurarsi che tutti i contratti con altre aziende e con i fornitori contengano l'impegno alla protezione dei diritti e concordare con tutti i partner forme di controllo e di verifica indipendenti. Rispetto alle comunità territorali in cui è situata l'impresa, questa dovrebbe stabilire fin da subito consultazioni sistematiche su questioni riguardanti i diritti, coinvolgendo i gruppi sociali interessati. Insieme alla valutazione di impatto ambientare, è importante fare un'analisi dell'impatto delle attività sul rispetto dei diritti umani, consultando quanti condividono il rischio d'impresa. Sarebbe anche importante investire in programmi educativi e di formazio128


ne professionale che aumentino la consapevolezza della comunità riguardo i diritti umani. Riguardo al rapporto con le istituzioni politiche, l'impresa, in proporzione alla sua dimensione, ha la possibilità di agire sia facendo pressioni affinché i governi applichino gli standard internazionali sui diritti umani, sia facendo sentire la propria voce in caso di violazioni. Un'impresa può intervenire, in particolare, in casi di detenzione arbitraria di attivisti sindacali, di abusi da parte di Forze di sicurezza governative utilizzate nei propri impianti o riguardo a sparizioni di lavoratori. Per valutare i rischi e stabilire il processo gestionale sono necessari all'azienda dei parametri di valutazione, che possono essere forniti in primo luogo dalla stessa Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Questo è il principale organo dell'Onu nel raccogliere denuncie di violazioni, nell'investigare su accuse e fornire le prove su cui possono poi essere emesse risoluzioni di condanna da parte delle Nazioni Unite. La Commissione si avvale di alcuni relatori speciali incaricati di analizzare la situazione dei diritti umani nei Paesi o di analizzare come alcuni diritti vengono rispettati nelle diverse nazioni. Vi sono poi anche i rapporti di organismi indipendenti, come Amnesty International. e Human Rights Watch, che si sono accreditati nel tempo come autorevoli fonti di informazione.

ALCUNE RACCOMANDAZIONI ALLE IMPRESE

È evidente che la globalizzazione, intesa come declino del potere statale, come crescente dipendenza degli Stati da investimenti transnazionali, ha creato, allo stesso tempo, rischi ed opportunità. Fra i primi vi è sicuramente quello, soprattutto per una multinazionale, di operare in Paesi con amministrazioni repressive o peggio, in aree dove si hanno conflitti violenti o guerre civili. Diviene, quindi, inevitabile per un'impresa, in questi casi, confrontarsi con violazioni dei diritti umani. Anzi, in alcuni casi, come quelli delle industrie estrattive o di imprese di servizi, i loro investimenti possono risultarè uno degli elementi che alimentano un conflitto, soprattutto in zone in cui si disputa l'accesso a risorse strategiche (come appunto petrolio o acqua). Seguire delle linee guida può essere utile alle imprese per limitare l'impatto di tali violazioni sul loro operato. Proprio la natura dei conflitti degli ultimi anni (sempre più interni, etnici e in cui si utilizzano armi leggere) impone all'impresa di giocare il suo ruolo di soggetto attivo della cosiddetta diplomazia multilatera129


le, ovvero quella rappresentata da più attori, appunto le istituzioni politicoamministrative, quelle sociali e quelle del mercato. Ad esempio, le compagnie petrolifere potrebbero 'spingere le autorità governative del Paese in cui estraggono a sottoporsi a una verifica sull'uso trasparente dei proventi derivanti dal petrolio, in modo che questi non vadano a coprire acquisti di armi, soprattutto quelle che colpiscono in modo indiscriminato la popolazione. Così come dovrebbero fare le compagnie diamantifere rispetto alla provenienza dei diamanti e all'uso che viene fatto dei loro proventi. Il caso dei diamanti della Sierra Leone è, in tal senso, emblematico.

La guerra dei diamanti La Sierra Leone è uno dei 'Paesi fra i maggiori produttori di diamanti. La gran parte delle miniere da cui questi si estraggono sono nel nord, una parte del Paese sotto il controllo del Revolutionary United Front (RuF), formato da gruppi di guerriglieri che compiono azioni'violente, soprattutto contro la popolazione civile, che hannoprovocato finora migliaia di morti, feriti, abusi e violazioni dei diritti. Il ROF è responsabile di uccisioni indiscriminate, di mutilazioni e dell'utilizzo di bambini soldato che vengono maltrattati fino a subire gravi torture, drogati per costringerli a compiere azioni feroci contro "nemici" che sono, spesso, civili inermi, missionari o volontari impegnati nell'opera di pacificazione nella zona. Una delle principali cause (forse la più importante) del conflitto sta proprio nel controllo e nella vendita dei diamanti, sul cui commercio illegale L'ONu ha posto un embargo che viene sistematicamente violato attraverso una "triangolazione" con la Liberia e altri Paesi vicini da dove poi il prezioso minerale arriva ad Anversa, sede della società De Beers che controlla circa il 70 % del mercato mondiale diamantifero. L'aggravarsi del conflitto armato in Sierra Leone nella primavera del 2000 (come era accaduto anche per L'Angola) attrae l'attenzione dell'opinione pubblica sul ruolo della De Beers, che - sotto la pressione di questa - dichiara la sua volontà di cooperare con le Nazioni Unite e, nel luglio dello stesso anno, chiarira che, da allora in poi, vendera soltanto diamanti puliti . Forse una dichiarazione tardiva se è vero che nel 2001 l'azienda è passata sotto il controllo di altre società sempre appartenenti al gruppo, a causa, come affermerà lo stesso presidente dell'azienda, del "deludente andamento del titolo De Beers". Un altro caso che dimostra l'importanza della reputazione del marchio. 130


Gli apparati di sicurezza Spesso le stesse situazioni di violenza o, comunque, di instabilità che vivono alcuni Paesi, comportano per le imprese la necessità di provvedere alla difesa del proprio personale e delle proprietà. Queste utilizzano proprie guardie armate oppure stipulano accordi con personale di sicurezza privato o statale. Anche questi, come dicevamo, possono rendersi artefici di eventuali violazioni dei diritti e di conseguenti danni alla reputazione dell'azienda. Diviene, quindi, importante seguire alcune linee di condotta, quali: chiedere alle Forze di sicurezza pubblica che operano all'interno dell'azienda di rispettare gli impegni che il Governo stesso ha assunto in ambito di diritti umani; effettuare un'accurata selezione delle persone ingaggiate; dichiarare la non tolleranza di eventuali violazioni che dovessero aécadere, che sarebbero, comunque, adeguatamente verificate e i responsabili sospesi dal servizio; fare pressione per inchieste indipendenti che facciano luce sugli abusi; offrire trasparenza sugli accordi con i Governi (con l'eccezione di dettagli che potrebbero mettere a rischio l'incolumità di singoli), ecc.

Diritti sulle terre e diritti delle popolazioni indigene • Anche nel caso in cui le aziende si trovino ad operare in zone in cui la loro attività si ripercuote negativamente sulle comunità indigene è importante che esse stabiliscano, fin dai primi accordi con i Governi ò con altre autorità di riferimento, che le Forze di sicurezza impegnate al loro • interno rispettino i diritti che le stesse istituzioni politiche si sono impegnate a salvaguardare, accettando le diverse norme internazionali. A prescindere dal contesto geografico, è fondamentale che le imprese comprendano la cultura delle popolazioni indigene e rispettino il loro modello di vita. Le imprese, inoltre, dovrebbero verificare attentamente la situazione dei confini delle terre e l'eventuale rischio di violare dei diritti con le loro installazioni e questo anche indipendentemente dal fatto che la comunità abbia dovuto dare il suo consenso per imposizione di legge. Nei rapporti con le popolazioni indigene, le imprese dovrebbero avere rispetto dei valori e delle ricchezze delle loro conoscenze tradizionali, che potrebbero valorizzare integrandole nella fase di progetto, facendole partecipare, per quanto possibile, ai processi decisionali.

Diritti dei lavoratori Come dicevamo, per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei lavoratori sono punto di riferimento normativo le sette convenzioni dell'OTL. Anche se 131


queste non sono state ratificate da tutti i Paesi, questi sono tenuti a rispettare i principi fondamentali in esse contenute, sulla base della "Dichiarazione sui principi e diritti fondamentali dèl lavoro e suoi seguiti" adottata nel 1998. La Dichiarazione si riferisce alle convenzioni che riguardano, in particolare: la libertà di associazione e il riconoscimento effettivo del diritto di contrattazione collettiva; l'abolizione effettiva del lavoro minorile; l'eliminazione di ogni forma di lavoro forzato o obbligatorio e della discriminazione in materia di impiego e occupazione. Le linee guida per il rispetto di. tali diritti sono, ovviamente, molte. Tra queste, per i diritti di libertà di associazione e di contrattazione collettiva si possono ricordare: il fatto che l'impresa assicuri a tutti i lavoratori la possibilità di conoscere i loro diritti anche organizzando eventuali esposizioni a voce laddove l'analfabetismo possa rappresentare un problema; l'esistenza di canali formali attraverso i quali i lavoratori possano sollevare rimostranze senza timore di ritorsioni; il dare seguito concreto a queste rimostranze; in Paesi dove l'attività sindacale è proibita, l'individuazione di mezzi alternativi per garantire comunque la rappresentanza dei lavoratori, consultando Ong locali e internazionali e, se necessario, avviando forme di collaborazione; utilizzando organismi indipendenti di verifica e di controllo. Per la questione del lavoro minorile, le imprese dovrebbero: fornire un'adeguata formazione al personale affinché sia in grado di affrontare il problema nelle diverse situazioni che possono presentarsi, per esempio, nei rapporti con partner in joint-venture, in subappalto, ecc.; consultare le Ong o altre associazioni presenti sul territorio sugli approcci più opportuni per ridurre e possibilmente eliminare l'utilizzo di bambini anche stabilendo dei piani di assistenza all'infanzia per le madri lavoratrici, programmi di formazione e orientamento professionale a livello di famiglia per aumentare le opportunità di impiego per i membri in età lavo rativa. Per quanto riguarda la violazione dei diritti rappresentata dal lavoro forzato o in condizioni di schiavitù, l'impresa potrebbe applicare alcune raccomandazioni: ottenere dati dai fornitori che indichino come il salario e/o le ore lavorative siano connessi a eventuali rimborsi di prestiti o di anticipi sulla paga (potrebbero essere dei segnali di sfruttamento che andrebbero approfonditi); fare attenzione ad eventuali affermazioni secondo cui tutti i lavoratori utilizzati sono "autonomi"; massimo coinvolgimento di tutti gli stakeholder e possibilità di controlli indipendenti; esprimere le proprie preoccupazioni direttamente al Governo ospite o al livello più opportuno; rendere consapevoli acquirenti e fornitori sui rischi che si corrono e, insieme anche ad altri organismi, cercare soluzioni al problema. 132


PER UNA PRODUZIONE RESPONSABILE

In seguito alle crescenti richieste, da parte degli stessi consumatori, di nòn essere complici inconsapevoli di forme di sfruttamento o altre violazioni di diritti umani si sono formate, come risposte, alcune iniziative. La prima è stata il cosiddetto commercio equo e solidale, ovvero la creazione di una rete alternativa di commercio non basata sull'idea di profitto ma sullo scambio tra produttore e acquirente: da una parte il produttore garantisce la sua merce da un punto di vista sociale e ambientale, dall'altra l'acquirente paga prezzi che tengono in considerazione la qualità del prodotto. Questa rete è ora una realtà consolidata in diversi Paesi del mondo e coinvolge milioni di persone, tra produttori e consumatori. Fondamentale è la rete di distribuzione di tali prodotti, spesso "botteghe" gestite da cooperative sociali o in modo volontario (con il solo costo delle spese). Il limite ditale sistema è che riesce a funzionare in ambito agricolo, soprattutto se piccolo (dove, per esempio, la produzione viene fatta da cooperative di contadini) o nell'artigianato, meno in ambito industriale, dove il sistema è più complesso. Un'idea, insomma, difficilmente applicabile a tutti gli aspetti della produzione e del commercio mondiale. Un'altra risposta alle richieste di garanzia dei consumatori l'hanno data molte aziende adottando codici di condotta, in maggioranza formulati da loro stesse, in alcuni casi concordati con i sindacati o con organizzazioni indipendenti. Ma l'adozione dei codici lascia aperto il problema serio dei controlli, soprattutto nel caso di fornitori e subappaltatori. Un tentativo di risolvere questo problema è stato fatto con il marchio SA 8000, che l'associazione americana Cepaa (ora Sai, Social Accountability. International) ha creato nel 1998. Per avere questa certificazione, le aziende che la richiedono devono rispettare una serie di condizioni (più o meno quelle stabilite dai Principi fondamentali dell'OIL) che vengono controllate da alcune imprese autorizzate, specializzate in controlli e retribuite persvolgerli. Si tratta di un marchio il cui effettivo impatto è ancora difficile da valutare, considerato che è stato costituito da poco tempo ma alcuni dubbi sono già possibili, in riferimento al fatto che il rapporto tra controllato e controllore è privato, che è il primo a pagare il secondo e che tutte le attività certificate rimangono segrete. Da qui, l'esigenza, sempre più crescente di una legge che costringa effettivamente le imprese ad una produzione "responsabile", a livello internazionale e che consenta anche ad uno Stato di preoccuparsi di violazioni subite da cittadini di altri Stati. 133


La finanza etica Diversi organismi di cooperazione e di sostegno allo sviluppo (nazionali e internazionali), movimenti di cittadini preoccupati per l'eccessiva "finanziarizzazione" dell'economia e della crescita del divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri, negli ultimi anni, hanno intrapreso campagne di sensibilizzazione per indicare nuovi percorsi per un vero sviluppo, sostenibile e solidale. La cosidetta "finanza etica" è uno dei prodotti di questi movimenti. Oltre al rendimento, la finanza etica, punta ad elaborare altri indicatori, quali appunto, l'impatto ambientale e quello sociale; indicatori di sviluppo che sono già fatti propri dalle Nazioni Unite e che partono dal presupposto che "non vi può essere crescita economica senza sviluppo umano". La finanza etica ha avuto negli ultimi decenni un forte sviluppo, mettendo al centro della propria attività, appunto, la "responsabilità sociale ed ecologica degli investimenti". In Italia, l'esperienza nasce negli anni Settanta con le Mag (le Mutue di Auto-Gestione) e si consolida, più di recente, con la costituzione della Banca Etica (di queste iniziative abbiamo parlato sul n. 114-115 di «queste istituzioni»). LA

Rsi IN ITAUA

L'esigenza di una legge sulla responsabilità sociale ha dato vita nel nostro Paese, già nel 1997, alla campagna "Acquisti trasparenti per una produzione responsabile", per iniziativa di due associazioni italiane, il Centro Nuovo Modello di Sviluppo (che abbiamo già visto all'opera con la campagna per i lavoratori kenioti della Del Monte) e Mani Tese, a cui si sono aggiunte Amnesty International, Ctm (Cooperazione Terzo Mondo) e Aifo (Associazione Amici di Raoul Follereau). Alla base della campagna c'era l'esperienza della Global March contro il lavoro infantile che, ogni anno, porta in piazza milioni di persone in 60 Paesi del mondo. Lo scopo era fare in modo che le aziende che operano in Italia fossero tenute a rispettare e a far rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori, ciò attraverso la trasparenza delle attività produttive, la costituzione di un'autorità indipendente che vigilasse su questo campo e un marchio di qualità per fornire al consumatore un facile accesso alle informàzioni. L'iter della legge - che aveva, comunque, subito delle modifiche, sia in sede di discussione al Senato che alla Camera -, è stato interrotto con lo scioglimento delle Camere per le ultime elezioni politiche, nel maggio 2001. Le associazioni promotrici hanno coinvolto altri organismi in una nuova campa134


gna. Ne parleremo nel paragrafro successivo, dopo avere presentato brevementecosa succede, in generale, nel nostro Paese sul tema della Rsi.

La Rsi in un Paese del G8 Si sarebbe tentati di sostenere che per un'azienda che opera nel nostro Paese non sia necessario affrontare la tematica della responsabilità sociale. Ma è noto che l'Italia non è esente da diversi problemi, come quello del lavoro minorik (l'IsTAT nel 2002 aveva rilevato che 2000 aziende su 17.000 ispezionate avevano bambini in età irregolare), quello della sicurezza sul lavoro (con incidenti mortali evitabili), quello della integrazione dei lavoratori stranieri(con le conseguenti ricadute sul piano della stabilità e della coesione sociale e la necessità di evitare conflitti e discriminazioni razziali), quello del lavoro irregolare e del lavoro precario. Ancora, il problema dell'ambiente, quello della delocalizzazione dei processi produttivi, e quello della produzione e del commercio delk armi. E di responsabilità sociale dovrebbero iniziare ad occuparsi, come alcune stanno già facendo, anche le piccole e medie imprese (PMI). Come noto, in Italia è estremamente forte il tessuto delle PMI che, per il loro legame con il territorio dovrebbero essere le più portate a dialogare con la società civile. Talvolta le PMI, hanno dimostrato anche la capacità di coinvolgere (formalmente o informalmente) i lavoratori più sensibili ai cambiamenti sociali nella gestione dell'impresa. Secondo un'indagine recente dell'Unione Europea, il 50% delle PMI è già impegnato in attività sociali, che dimostrano il loro legame con il territorio. Un meccanismo giuridico, come dicevamo, è comunque ritenuto indispensabile poiché c'è la fondata preoccupazione che, in mancanza di un'adeguata previsione legislativa in molti Paesi, anche occidentali, i comportamenti irregolari delle aziende non possano essére sanzionati o corretti; e, tuttavia, spesso anche in presenza dileggi, le vittime di abusi e violazioni potrebbero non avere un facile accesso alla tutela dei loro diritti. Come abbiamo visto, ciò è particolarmente ricorrente e drammatico nei Paesi in via di sviluppo. In presenza di un comportamento illegale di un'azienda collegata o figlia di un'altra azienda con sede europea, la vittima dovrebbe essere in grado di citare in giudizio la società madre usando la giurisdizione del Paese in cui la società ha sede legale. Ciò ora non è possibile, poiché le società figlie o collegate possono comportarsi all'estero, specie nei Paesi in via di sviluppo, secondo criteri tollerati dai regimi locali ma che sarebbero perseguiti spesso anche penalmente dalle leggi europee. 135


Il concetto di responsabilità, come dicevamo, deve pervadere tutti i livelli aziendali, tutta la catena di creazione del valore. Deve tenere conto delle elaborazioni e dei contributi di molteplici livelli e da molteplici attori (ONu, OCSE, ILO, sindacati nazionali e internazionali, associazioni, ONG) allo scopo di portare progressivi miglioramenti alle condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone nel mondo coinvolte nella produzione di beni o di servizi per le imprese' europee. Si tratta di un processo di informazione ed elaborazione continua, con scambi e approfondimenti di contributi particolarmente utili. • Da ricerche effettuate, emerge che i con'sumatori sembrano disposti a pagare un prezzo ragionevolmente maggiore per avere un prodotto che non sia il risultato di sfruttamento e schiavitù. Il miglior valore aggiunto apportato dalle aziende diventa oggi non tanto e non solo l'innovaziòne, la creatività o il costo minore dei' prodotti ma la sicurezza di poter dimostrare che questi siano stati fatti per le persone e non contro le persone. Non si tratta di seguirè precetti di etica, considerata spesso una categoria astratta o relativa alle diverse culture o ancora propria di ogni singolo soggetto, ma di rispetto dei diritti umani còsì come sanciti dalla Dichiarazione Universale del '1948. Quindi, principi concreti, che riguardano tutte le culture e gli individui. La responsabilità sociale deve riguardare naturalmente i comportamenti di ogni cittadino ed essere proporzionale al ruolo di potere che si esercita nel contesto sociale. Negli ultimi anni vi sono stati - e continuano ad esserci - diversi casi, anche eclatanti, in cui è evidente il fallimento del mondo economico nel rispettare le leggi o - dove esse non erano chiare - nel corrispondere alle elementari prassi di correttezza e responsabilità.

La campagna Meno beneficenza più diritti Per questo diverse associazioni italiane, - Amnesty International (Sezione Italiana), ARcI, Azione Aiuto, 'Banca Etica, Cittadinanzattiva, Coord. Lombardo nord-sud, CTM/Altromercato,' Legambiente, Libera, Mani Tese, ROBA dell'altro Mondo, Save the Children Italia, TransFair Italia, Unimondo -, hanno promosso la' campagna "Meno beneficenza più diritti", presentata lo scorso 13 novembre presso il Comune di Venezia. L'obiettivo della Campagna è di fare in modo che la produzione estera controllata direttamente o indirettamente dalle aziende europee avvenga nel pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona e delle comunità locali e garantisca il rispetto e la protezione dell'ambiente. 136


La presentazione della campagna, non a caso, si è svolta nel giorno in cui iniziava la Conferenza interministeriale europea nel contesto della quale il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Roberto Maroni, ha illustrato la proposta della Presidenza italiana all'Unione europea sul tema. Ai Governi europei è stato proposto, dal Governo italiano di riconoscere come "etiche", concedendo. loro anche sgravi fiscali, le imprese che autocertificano (senza alcun controllo indipendente) di avere comportamenti corretti e che usano una piccola parte del loro profitto per finaniare operazioni di welfare che • o Stato non riesce a realizzare. Le associazioni che sostengono la Campagna intendono sottolineare 1 inconsistenza" di questo approccio che lega l'etica alla beneficenza anziché al rispetto dei diritti, nonostante sia le risoluzioni del Parlamento Europeo che il recente documento della Sottocommissione delle Nazioni Unite sui diritti umani riconoscano la necessità di 'un quadro giuridico vincolante per i.comportamenti delle imprese in tutto il mondo, di controlli indipendenti e dell'obbligo di rendicontazione sociale. Le 14 associazioni italiane, che rappresentano circa tre milioni' di iscritti, hanno lanciato una petizione al ministro Maroni per chiedere un impegno del governo italiano in sede europea per: a) definire un codice di condotta europeo, b) introdurre una base giuridica vincolante per la disciplina delle attività delle imprese europee all'estero, c) introdurre l'obbligo della presentazione di un bilancio socio-ambientale accanto a quello finanziario, d) attivare incentivi fiscali e finanziamenti per le imprese che possono dimostrare il raggiungimento di adeguati standard, e) introdurre parametri etici e ambientali vincolanti per le imprese che operano per conto degli Stati e dell'Unione Europea. L'obbiettivo di questa campagna è di fare in modo che la produzione estera controllata direttamente o indirettamente dalle aziende italiane o europee e la commercializzazione italiana ed europea di prodotti provenienti da Paesi in via di sviluppo avvengano nel pieno rispetto dei diritti fondamentali delle persone e della comunità di riferimento e garantiscano il rispetto e la protezione dell'ambiente. I promotori della campagna ricordano che il tema è ricorrente negli interventi di ministri, sottosegretari e dirigenti ministeriali ed è stato incluso tra le questioni trattate durante il semestre di presidenza italiana dell'Unione Europea. . Le associazioni promotrici della campagna hanno avanzato richieste articolate, chiedendo al Governo italiano, nel suo ruolo di Presidente di turno dell'Unione Europea che si adoperasse affinché: 137


il Consiglio, accogliendo l'invito del Parlamento Europeo, elabori un codice di condotta europeo per le imprese europee che operano all'estero, che tenga conto di tutti i più importanti trattati internazionali in tema di lavoro, diritti umani e protezione dell'ambiente. Lelaborazione dovrà coinvolgere i Paesi in via di sviluppo in cui il codice di condotta verrà applicato; la Commissione crei il "Marchio. Sociale" e la "Piattaforma Europea di controllo", proposti dal Parlamento Europeo, in stretta collaborazione con parti sociali, ONG e associazioni, sulla base di criteri precisi e di controlli esterni e indipendenti; la Commissione proponga un sistema di incentivi, sia fiscali che finanziari, per le aziende che possano dimostrare inequivocabilmente di rispettare gli standard internazionali; il Consiglio e la Commissione sviluppino una base giuridica per una struttura multilaterale europea per la disciplina delle attività delle imprese europee all'estero; . la Commissione introduca le problematiche relative al rispetto delle norme internazionali in materia di lavoro, ambiente e diritti umani nell'elaborazione del diritto europeo delle società, che preveda l'obbligatorietà del Rapporto Sociale accanto a quello economico e finanziario; la Commissione obblighi le imprese private che operano nei Paesi in via di sviluppo su mandato dell'Unione Europea o usufruendo di finanziamenti europei, ad agire in accordo con le norme internazionali a protezione dèi diritti umani e dell'ambiente, pena l'esclusione da ulteriori finanziamenti europei; metta a disposizione risorse per aiutare i governi dei Paesi in via di sviluppo a trasporre la normativa internazionale in materia di lavoro e ambiente, nelle loro legislazioni nazionali e ad implementare politiche per l'effettivo rispetto della stessa; inoltre, modifichi la disciplina degli acquisti pubblici da parte dei Governi riceventi aiuto, svincolandoli dall'obbligo di acquisto di beni e servizi italiani e imponendo standard operativi di responsabilità sociale alle imprese italiane. fornitrici; inserisca il tema dei diritti umani e della protezione dell'ambiente tra le priorità dell'aiuto italiano allo sviluppo, con particolare accento sul costo dei farmaci e sulla legislazione OGM; garantisca ai cittadini e ai consumatori il diritto di avere informazioni, obbligando le imprese a fornire rapporti pubblici periodici sulla loro struttura produttiva e sulle conseguenze sociali ed ambientali della loro produzione; 10). in attesa che le iniziative legislative a livello europeo siano attuate, si impegni a costruire un codice di condotta-guida ad adesione volontaria per le 138


imprese italiane, costruito sulla base dei principi contenuti nei maggiori trattati e convenzioni internazionali in materia di ambiente, diritti umani e lavoro e formulato coinvolgendo tutti i portatori di interesse. Il codice dovrà essere dotato di un meccanismo di controllo indipendente e sufficiente a garantire l'effettiva attuazione del codice da parte delle imprese; .11) conceda incentivi fiscali e finanziari alle imprese che aderiscono al codice e si sottopongono alle relative verifiche. Gli incentivi concessi alle altre imprese siano progressivamente ridotti; istituisca un Centro per la promozione della responsabilità sociale di azienda che, tramite il coinvolgimento attivo di imprenditori, sindacati, ONG e associazioni, svolga ricerche, campagne di informazione al pubblico, raccolta e divulgazione di dati su questi argomenti collaborando anche con il Punto di Contatto Nazionale previsto dalle linee guida dell'OcsE; in sede di acquisti e appalti, si adoperi perché vengano obbligate le aziende appaltatrici a dotarsi di codici di condotta, a rispettarli, a dimostrare inequivocabilmente di osservare comportamenti di responsabilità sociale nelle proprie operazioni, e a scegliere prodotti socialmente ed ecologicamente responsabili, stabilendo i criteri per la loro individuazione, ad esempio la certificazione SA8000. Promuova, inoltre, analoghe iniziative presso le amministrazioni locali e presso cittadini tramite campagne di informazione e sgravi fiscali; obblighi le aziende a partecipazione statale a richiedere da subito uno dei marchi sociali esistenti, assicurando rispetto scrupoloso del relativo codice di condotta e una puntuale informazione al pubblico; sostenga, con gli altri Paesi europei e nell'ambito del G8, la necessità di una regolamentazione più stringente del commercio di diamanti tramite il Procedimento Kimberley, che va corretto e irrobustito perché si ottengano statistiche veritiere e affidabili, si effettui un monitoraggio stringente cercando di superare l'opposizione di Cina, Russia e Israele, si mettano a punto procedure efficaci che biocchino 'qualunque tipo di aggiramento della procedura, ed esperti qùalificati ed attendibilipossano effettuare dei controlli; si adoperi affinché le aziende europee' individuate dal Rapporto del Panel del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in quanto violatrici delle Linee guida dell'OCsE, siano deferite ai rispettivi Ncp's nazionali per le dovute ricerche a affinché le stesse aziende rispondano sulle violazioni ad esse attribuite dal Panel di esperti dell'ONu. Il Ministero italiano preferisce, da parte sua, parlare di "Social Commitment", - più che di responsabilità sociale d'impresa - diretto "a favorire la 139


partecipazione attiva delle imprese al sostegno del sistema di welfare nazionale e locale secondo una moderna logica di integrazione pubblico-privato". Si tratta di coinvolgere le imprese, che aderiranno su base volontaria in un sistema di finanziamento di una parte delle politiche di welfare. Non è chiaro - dichiarano i promotori della campagna - cosa abbiano in comune politiche di questo tipo con il concetto di Responsabilità Sociale d'Impresa, nemmeno nel significato meno ampio ad esso attribuito dalla Commissione Europea. Si portano come esempio interventi nel campo dei non autosufflcienti, la creazione di fondi integrativi etici, si progettano incentivi fiscali (attraverso la defiscalizzazione delle elargizioni in campo sociale) e finanziari (attraverso la diffusione di fondi pensione etici) alle imprese che si inseriranno in questa logica. Si annuncia poi lacreazione di uno standard, previsto in due livelli: il livello CSR, totalmente volontario e che non prevede controlli esterni, ed il livello Cs, per il quale si elabora una specifica procedura di valutazione. Si tratta di uno standard - studiato dalla Università Bocconi in collaborazione con le associazioni imprenditoriali - e testato su base volontaria da una quindicina tra grandi piccole e medie imprese. Si tratta, in conclusione, di una visione che riporta tutto nell'ambito di una trattativa pubblico/privato, in cui sono assenti le richieste, i contributi, le esperienze, il controllo, la partecipazione - in definitiva - degli stakeholder coinvolti, a partire dai lavoratori, dalle comunità locali, alle associazioni e organizzazioni non governative, ai sindacati, ai consumatori, alle forze culturali e sociali. I risultati dell'impegno del Governo italiano sono emersi nell'incontro del 13-14 novembre scorso, a Venezia. Nella proposta del ministro Maroni, viene considerato come quadro di riferimento il Libro Verde della Commissione Europea, quindi vengono trascurate le numerose prese di posizione del Parlamento Europeo e le recenti Norme delle Nazioni Unite sulla responsabilità delle imprese nei confronti dei diritti umani. La Campagna "Meno beneficenza, più diritti" ribadisce a questo proposito che la responsabilità sociale consiste nell'assunzione, da parte delle imprese, di tutte le conseguenze della propria attività sia sul piano economico che su quello ambientale e sociale, lungo l'intera catena di creazione del valore, tanto nel proprio Paese quanto all'estero. Secondo i promotori della campagna, il progetto italiano, al contrario, limita il concetto di responsabilità sociale delle imprese ai ristretti confini nazionali, escludendo centinaia di milioni di persone e intere grandi comunità che lavorano per imprese italiane ed europee e che spesso subiscono gravi abusi 140


dei loro diritti, in favore di una visione più ristretta in cui la beneficenza viene confusa con la responsabilità e dove la sola convenienza economica sembra essere la spinta che dovrebbe portare le imprese ad assumere comportamenti più corretti. Il documento presentato dal Governo italiano sottolinea come il Progetto elaborato sia frutto di un ampia riflessione avviata all inizio del 2002 e si proponga "di avviare un nuovo confronto esteso a tutti gli stakeholder interessati a livello nazionale ed europeo". La Campagna "Meno beneficenza, più diritti" osserva che la "ampia riflessione" di cui parla il Governo non ha compreso la consultazione di associazioni, enti e anche gruppi di imprese, che avrebbero potuto dare un importante contributo all'elaborazione del Progetto. Dopo aver rifiutato questo confronto, ribadiscono le associazioni, sembra quanto meno paradossale che venga presentato un Progetto definito nei minimi termini e su questo si auspichi un confronto, che è stato negato nella prima e più importante fase. L'autocertificazione effettuata dalle imprese attraverso un "Social statement", viene affidata secondo la proposta governativa, a un "CsR Forum" di cui non è specificata la composizione; contemporaneamente, viene comunicata l'avvenuta sottoscrizione di un "protocòllo d'intesa" con Unioncamere, "per la collaborazione in materia di promozione della CSR (ad esempio per le funzioni di raccolta dei Social statement, per l'attività di supporto e monitoraggio delle imprese)". Di fatto, quindi, funzioni importanti di analisi e verifica vengono affidate a organismi che non possono essere definiti neutrali. Con questo Progetto, le aziende (tramite la cosiddetta "seconda fase") vengono anche invitate a effettuare dei contributi allo Stato, poiché le iniziative di Sc sarebbero di fatto gestite tramite "un Fondo Sc nell'ambito del Bilancio statale" a supporto di "priorità di intervento sociale" contenute nel Piano di Azione Nazionale e individuate dalla Conferenza Unificata - aggiungendo anche " ... e dalle Organizzazioni Non Governative", come commentano le stesse associazioni promotrici della campagna una sorta di riconoscimento a margine del ruolo degli organismi della società civile. Il Progetto fa anche riferimento a una serie di parametri, i "Social Performance Indicators", elaborati dall'Università Bocconi, come dicevamo, su un campione di sole 15 aziende, i quali sembrano costituire un ennesimo sistema di riferimenti che ignora - anche se non contrasta - i sistemi già esistenti, come i parametri del Parlamento Europeo e le Norme delle Nazioni Unite (SA 8000, AA 1000, GRI): giustamente le associazioni affermano che aggiungere ulteriori parametri a quelli già esistenti non farà altro che accrescere la 141


confusione di imprese e consumatori in un panorama già fortemente caratterizzato da interpretazioni volontaristiche di comodò. La Campagna "Meno beneficenza, più diritti" esprime, quindi, ancora forti perpiessità sul ruolo che il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali intende attribuire a non meglio identificati "soggetti autorizzati a gestire i progetti nel sociale", soggetti di cui non si conoscono le attribuzioni è i reali poteri, così come sulla "destinazione del TFR nei Fondi pensione, tra i quali quelli etici". Le associazioni promotrici della campagna, inQitre, valutano positivamente il richiamo all'etichettatura sociale del Commercio equo e solidale, menzionato tra gli indicatori sociali, anche se sottolineano che questo viene associato ai soli criteri di "qualità,. impatto ambientale e sicurezza dei prodotti", escludendo così il forte contenuto solidaristico e di responsabilità sociale che ha caratterizzato il Commercio equo e solidale sin dalla propria nascita. In conclusione, viene espressa la forte insoddisfazione per un'occasione che l'Italia ha perso per dare un contributo allo sviluppo in senso migliorativo della discussione in corso sul tema della responsabilità sociale delle imprese nel nostro Paese, in Europa e nel mondo. L'auspicio è che, su sollecitazione dei cittadini, attrayerso appelli e petizioni, questa visione del concetto di responsabiltà sociale dell'impresa possa essere rivisto e riportato al suo significato proprio di responsabilità,dell'azienda verso tutti i suoi portatori d'interesse: interni ed esterni.

Questo articolo riassume parti delle pubblicazioni Diritti umani. La nuova sfida per le imprese, e Laforza della solidarietà curate dalla Sezione Italiana di Amnesty International, Edizioni ECP, Firenze 2001 e della documentazione relativa alla Campagna "Meno beneficenza, più diritti" disponibile sul sito www.amnesty.it; la Campagna "Meno beneficenza, più diritti" è on line anche su www.piudiritti.it .

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dossier

Agenda politica e dirigenza amministrativa

Imparzialità della Pubblica Amministrazione, buon andamento dei pubblici uffici, indzendenza dai partiti politici sono le linee giuda che la nostra Costituzione indica come condizioni essenziali per il buon funzionamento dell'apparato statale. Linee guida sulle quali mai si è trovato un equilibrio soddisfacente. Innegabile è che da sempre la dirigenza pubblica sia stata ùreda" di un sistema politico che non solo indicava l'indirizzo di alcuni obiettivi (riconosciuto dalla carta costituzionale come giusta presenza del Governo nell'amministrazione), ma si insinuava nell'amministrazione stessa fino a rendere impossibile la valutazione (spesso addirittura l'attuazione) del lavoro svolto dagli uffici pubblici. R/brme Bassanini prima e legge Frattini poi sono state nel nostro Paese le prove generali di un cambiamento nella gestione, soprattutto dell'alta dirigenza dello Stato. Il sistema dello "spoils system" non è solamente un modo di "allineare" l'alta dirigenza alla classe politica che ne dovrebbe essere espressione, ma è un tema fonte di grandi rflessioni sul fine stesso della dirigenza pubblica. I tre interventi di seguito pubblicati - che nascono dal dibattito all'incontro di Cortona del novembre 2002 (si v. Gabriele Zampagni, Lo spoyls system tra politica e amministrazione, queste istituzioni, n. 143


12812002) -, costituiscono un'analisi dei vari aspetti che caratterizzano la situazione attuale della dirigenza: un lucido rimando alla teoria pura di interpretazione del testo costituzionale in materia di amministrazione pubblica di S. Lariccia; la fotografia non priva di aspetti critici - del modus operandi degli uffici pubblici scattata da G. Vetritto e la disczplina nel conferimento e nella definizione degli incarichi dirigenziali dopo la legge 14512002, analizzata da C. D'Orta. Ci si chiede in che misura e se sia giusto che uno Stato possa avere, anche se in parte, un modo di reclutamento della dirigenza di stampo privatistico-contrattuale, quasi che l'obiettivo - posto che ne sia credibile la determinazione e che venga raggiunto - possa prescindere sul modo di gestire l'amministrazione. Di nuovo alcune domande. Quanto conta l'etica in uno Stato? Quanto conta l'esperienza di un funzionario a fronte dell'orientamento politico di un Governo? Qual è il limite oltre il quale la politica deve lasciare spazio alla gestione amministrativa pura? Su queste pagine si è discusso a lungo di questi temi. Da ultimo, si veda l'editoriale (L'amministrazione perduta) del n. 125-126 della Rivista.

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Il principio d'imparzialità delle pubbliche amministrazioni. Origini storiche e fondamento costituzionale di Sergio Lariccia

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1 problema della cosidetta separazione tra politica e amministrazione va posto, più correttamente, in termini di rapporto tra politica e amministrazione, perché la nozione di "separazione" può risultare fliorviante. Se si ricercano le motivazioni che hanno contribuito a enfatizzare il profilo della separazione, occorre considerare che gli ultimi vent'anni del secolo scorso sono stati caratterizzati da un intreccio tra i due livelli - quello delle decisioni degli obiettivi e quello della predisposizione degli strumenti per perseguirli che ha determinato l'impossibilità di risalire alle responsabilità tanto dei politici quanto degli amministratori; in troppi casi questo ha condotto anche a forme degenerative di vera e propria corruzione della vita pubblica che vanno condannate come espressioni patologiche dei moderni sistemi amministrativi. La reazione a questo stato di cose, che quando non consentiva forme diiilegalità determinava ugualmente un sistema inefficiente e inefficace, è stato un richiamo alla soluzione della separazione tra il lavoro dei politici e quello degli amministratori. Secondo questo schema i politici, quale che sia il livello di governo che essi occupano, devono decidere indirizzi e definire obiettivi, astenendosi dall'intervenire in materia di amministrazione attiva; gli amministratori devono adottare le soluzioni gestionali e operative per conseguire gli obiettivi della loro attività, e il loro operato è sindacabile dagli stessi politici attraverso un controllo che non è quello di legittimità sul singolo provvedimento, ma quello che attiene alla qualità dell'intera gestione. UNA DIFFICILE SEPARAZIONE

Alcuni studiosi, tuttavia, evidenziano come una schematizzazione così rigida sul tema della separazione sia, anche su1 piano logico, poco corretta: si sottolinea, infatti, che una neutralizzazione (dalla politica) dell'azione amministratiL'Autore è Ordinario di Diritto Amministrativo, presso l'Università "La Sapienza" di Roma. 145


va sia possibile solo in teoria, mentre l'evidenza empirica dimostra come la scelta degli strumenti, o del complesso di strumenti concretamente utilizzabili, sia tutt'altro che di natura esclusivamente tecnica. La stessa politica non può essere del tutto estranea alle scelte operative, ben capaci di incidere sulla attualità e attuabilità degli obiettivi da essa fissate. La linea di demarcazione tra funzioni di indirizzo e responsabilità gestionali è certamente labile e mutevole. NEL RISPETTO DELLA GIUSTIZIA

'In questa prospettiva va esaminato il rilievo che assume il cosidetto principio di imparzialità delle pubbliche amministrazioni, contemplato nell'art. 97 cost., per il quale la realizzazione dell'interesse pubblico non deve mai essere disgiunta dal rispetto della giustizia. In proposito è necessario tenere presente il collegamento fra l'art. 97, che appunto esige il rispetto dell'imparzialità, e l'art. 3 cost., che vincola il legislatore al rispetto dell'uguaglianza giuridica (richiamava, giustamente, l'attenzione su tale collegamento C. Esposito, Eguaglianza e giustizià nel/'art. 3 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana. Saggi, Cedam, 'Padova 1954; v. anche Id., Riforma dell'amministrazione, cit. nelle note bibliografiche). L'obbligo di imparzialità imposto all'amministrazione non contrasta con la posizione di parte che è inerente all'amministrazione stessa nei suoi rapporti con i soggètti destinatari dell'azione amministrativa: come ha precisato con la consueta, chiarezza Costantino Mortati: "L'imparzialità esige che l'amministrazione, nell'imporre ai singoli gli obblighi concreti necessari a soddisfare le pubbliche esigenze, o nell'accertare l'osservanza di limiti posti alla loro libertà non solo si sottragga ad ogni influenza perturbatrice che provenga da maggipranze parlamentari, o da gruppi di pressione ecc., ma anche effettui nell'esercizio, del potere discrezionale una sufficiente valutazione, di tutti gli elementi di giudizio necessari per giungere ad un'equa decisione, che contemperi, per quanto possibile, le esigenze pubbliche e quelle dei privati evitando ogni sacrifizio a carico di costoro che non risulti necessariamente richiesto" (C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, l, Cedam, Padova 1991, p. 373). UNA BATTAGLIA PER L'AUTONOMIA

Le origini del principio di imparzialità possono rinvenirsi nella battaglia condotta dagli esponenti della destra storica (vanno soprattutto ricordati Sil146


vio Spaventa e Marco Minghetti), allo scopo precipuo di evitare l'ingerenza dei partiti politici nella giustizia e nell'amministrazione. Affermava Marco Minghetti che "l'ufficio dello Stato è di sottoporre l'interesse di ogni cittadino e di ogni classe all'interesse pubblico; il governo di partito inverte la gerarchia e sottopone l'interesse pubblico ai suoi propri interessi sicché in luogo di partiti che governano vi è un governo di partiti" (M. Minghetti 1944, rist., I partiti politici e l'ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione, Roma, 1944; cfr. anche S. Spaventa, Giustizia nell'amministrazione, Torino, 1949, rist.). Si affermò anche che, mentre l'introduzione del governo parlamentare "trovava già fermo e indiscusso il principio di indipendenza degli organi incaricati della funzione giudiziaria", nel campo dell'amministrazione civile, invece, non preesisteva alcuna indipendenza degli organi. Di conseguenza, nei confronti dei ministri gli impiegati amministrativi "non apparivano essere altro che gli esecutori dei loro ordini, i loro commessi" (E. Presutti, Lo Stato parlamentare e i suoi impiegati amministrativi, Napoli, 1899). È per questa ragione che uno dei modi per realizzare l'auspicata imparzialità apparve quello di assicurare all'amministrazione delle garanzie nei confronti del ministro, soprattutto attraverso la protezione degli impiegati. Il principio venne codificato a livello costituzionale nell'art. 98, il quale statuisce che "i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione". Còme ha rilevato in assemblea costituente Costantino Mortati, questo articolo risponde all'esigenza di garantire una certa indipendenza dei funzionari al fine di "avere un'amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un'amministrazione dei partiti" (C. Mortati, Atti assemblea costituente, 11 sottocommissione, sez. 1, 14 gennaio, 1947, p. 12). In una lunga fase, il principio ebbe un'accezione meramente negativa, nel senso che la pubblica amministrazione, nello svolgimento della sua attività, non dovesse subire alcuna ingerenza da parte dei partiti politici determinando, così, un distacco tra politica e amministrazione. L'INDIRIzzo POLITICO

La dottrina pi1 recente, tuttavia, pone in rilievo l'esigenza di non confondere l'influenza eventualmente negativa proveniente dai partiti politici con l'indirizzo politico che, invece, l'amministrazione dello Stato e degli enti pubblici è tenuta a realizzare. Mentre nel diritto costituzionale si esaminano le disposizioni intese a limi147


tare il diritto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia e i rappresentanti diplomatici, nel diritto amministrativo il principio di imparzialità si esprime nell'esigenza di garantire una valutazione comparativa di tutti gli interessi legislativamente tutelati (parzialità= parte, imparzialità= tutto). Se, dunque, il principio di imparzialità rappresenta indubbiamente un'applicazione del principio di eguaglianza giuridica, esso costituisce, al contempo, anche un aspetto particolare di quel principio di legalità che rappresenta il più importante principio costituzionale riguardante l'organizzazione e l'azione delle pubbliche amministrazioni. I PRINCIPI DI TRASPARENZA, TEMPESTIVITÀ, RAGIONEVOLEZZA E PROPORZIONALITÀ

La dottrina più recente afferma che i principi di trasparenza (la legge parla di pubblicità, ma nella prassi è più usato il termine "trasparenza", principio sul quale si fondano gli istituti della pubblicità degli atti amministrativi, del dovere di motivazione e dell'accesso ai documenti), di tempestività (va in proposito ricordata l'importante disposizione dell'art. 2 1. n. 241 del 1990, ai sensi del quale per ogni procedimento deve essere precisato il termine per la sua conclusione), di ragionevolezza, cfr. P. M. Vipiana, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Cedam, Padova 1993; G. Morbidelli, Il procedimento amministrativo, in Aa.Vv., Diritto amministrativo, 11, Monduzzi, Bologna 1998, p. 1222, che assegna valore "assoluto" e centrale al principio di ragionevolezza, ritenendo che esso abbia il suoi riferimenti nei principi costituzionali di uguaglianza, imparzialità e buon andamento) e di proporzionalità (cfr. A. Sandulli, La proporzionalità dell'azione amministrativa, Cedam, Padova 1998, il quale osserva che "la proporzionalità attiene alla misura del potere amministrativo e rinviene la propria giustificazione negli artt. 3, 97 e 113 Cost., e nel principio inespresso di giustizia sostanziale, che presiede e governa lo svolgimento del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, principi considerabili come una proiezione allargata ed aggiornata del principio di imparzialità delle pubbliche amministrazioni (cfr. in tal senso G. Morbidelli, op. ul. cit., p. 1222), attengono ai rapporti tra amministrazione e amministrati, garantendo che l'azione della prima sia svolta nel rispetto dei secondi (cfr. l'approfondità e aggiornata analisi di F. G. Scoca, Attività amministrativa, in «Enc. dir.», Agg., VT, Giuffrè, Milano 2002, pp. 75-112, spec. pp. 95 ss.).

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TENERE DISTINTA LA LOGICA STATALE DA QUELLA IMPRENDITORIALE

A mio avviso sarebbe contraddittorio che - proprio quando la dottrina e la giurisprudenza hanno individuato sempre più raffinati strumenti di tutela degli interessi dei privati nei loro rapporti con le pubbliche amministrazioni, mediante l'adozione di nuove formule e la previsione di istituti di diritto sostanziale e processuale e di specifici principi che vanno rispettati dalle amministrazioni stesse, e tutti ricollegabili al principio di imparzialità contemplato nella carta costituzionale a garanzia dell'operato delle pubbliche amministrazioni -' siano ammissibili una legislazione e una prassi tendenti a privilegiare eccessivamente i poteri della classe politica nei confronti della dirigenza statale e idonei a determinare il risultato di un pregiudizio dell'indipendenza di giudizio dei dirigenti e di un ostacolo all'esercizio imparziale delle funzioni pubbliche ad essi conferite. In proposito meritano di essere condivise le considerazioni critiche di R. Alesse, (Il lento e inarrestabile declino della dirigenza dello Stato, cit. nelle note bibliografiche), il quale osserva che "la ricerca spasmodica di assimilare la pubblica amministrazione all'impresa privata, attraverso l'adozione di moduli organizzativi non più fondati su provvedimenti autoritativi, ma su regole contrattuali (e, quindi, di mercato), evidenzia tutta la sua intrinseca fragilità che affonda le sue radici nella mancata consapevolezza di tener sempre distinta la logica statale da quella imprenditoriale". A proposito si può vedere anche l'interessante nota di richiami del medesimo autore alla recente ordinanza (n. 11, del 30 gennaio 2002), con la quale la Corte costituzionale ha espresso l'avallo della giurisprudenza costituzionale alla privatizzazione del pubblico impiego nel suo impianto generale, e le due note di commento all'ordinanza di N. Lupo e L. Panzeri (cit. in note bibliografiche).

Note bibliografiche

Il lento e inarrestabile declino della dirigenza dello Stato, «Giur. CoSt.», 45, 2000, pp. 1931 ss. U. ALLEGRETTI, L'imparzialità amministrati va, Cedam, Padova 1965. R. ALESSE,

Imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, in «Dig. IV, Disc. Pubbl.», 8, 1993, pp. 131-9. A. ANDREANI, Ilprinczio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, Cedam, Padova 1979. U. ALLEGRETII,

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E. CANNADA BARTOLI, Imparzialità e buon andamento in tema di scrutini di merito comparativo, in «Foro amm.», 40 Il, 1964, pp. 72-5. M. CMwuccI, «Negoziazione politica" e «imparzialità" della Pubblica Amministrazione, in «Giur. cost.» 36, 1991, n. 2, p. 151:6. S. CASSESE, Imparzialit4 amministrativa e sindacato giurisdizionale in «Riv, it. scienze giur.)), 22, 1968, p. 47; ID., Imparzialità amministrativa e sindacato giurisdizionale, Giuffrè, Milano 1973: A. CEIuJ, Imparzialità ed indirizzo politico nella pubblica amministrazione, Cedam, Padova 1973. C. EsposiTo, Rfbrma dell'amministrazione e diritti costituzionali dei cittadini, in C. Esposrro, La Costituzione italiana. Saggi, Cedam, Padova 1954, pp. 245-62. M. S. GIi'NINI, L'ordinamento dei pubblici uffici e la costituzione, in Aa. Vv., Attualità e attuazione della Costituzione, La-

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terza, Bari 1979, pp. 90-105. N. Lupo, L'estensione della contrattua-

lizzazione ai dirigenti generali supera il vaglio della Corte costituzionale, «Giur. costJ), 47, 2002, pp. 83-92. L. PANZERI, Dal regime pubblicistico alla privatizzazione della dirigenza generale, «Giur. cost.», 47, 2002, 92-102. A. PINELLI, Imparzialità, buon andamento e disciplina differenziata del rapporto di lavoro dirigenziale, in «Giur. cost.», 41, 1996, pp. 2584 ss. G. SAt.j, Imparzialità dell'amministrazione e disciplina del procedimento nella recente giurisprudenza amministrativa e costituzionale, in «Dir. proc. Amm.», 2, 1984, pp. 433-43. L. SANDULLI NAPOLEONI, L'imparzialità dell'azione amministrativa; in «Foro amm.», 62, 1989, p. 2404. F. SATTA, Imparzialità della pubblica amministrazione, in «Enc. giur.», 15, 1989, pp. 1-7.


La disciplina della dirigenza "presa sul serio" di Giovanni Vetritto *

D

opo quasi un decennio di riforme amministrative condotte in una atmsfera di pressoché totale concordia e con approccio bipartisan, il dibattito politico-giuridico si è improvvisamente animato, negli ultimi mesi, a causa di un acceso scontro dialettico incentrato sull'inasprimento dei criteri di spoils system nell'attribuzione degli incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni (e segnatamente in quelle ministeriali), operato, rispetto alle "riformè Bassanini", dalla cosiddetta "legge Frattini" (1. 15.7.2002, n. 145)'. Tutto il dibattito corre su due piani. Un primo piano è quello generale, di politica del diritto, nel quale si confrontano posizioni ispirate ad una lettura tradizionalista del principio costituzionale di imparzialità ed altre orientate ad una visione 'efficientista, che privilegia i meccanismi fiduciari nella gestidne del potere. Un secondo piano è poi quello tecnico-giuridico, nel quale si dibattono i singoli aspetti della disciplina della dirigenza, nella convinzione (difficile dire quanto fondata) che la bontà della ricaduta operativa della stessa dipenda in gran parte dalla correttezza dei singoli specifici istituti normativi che la compongono. Scopo di queste note non è quello di prendere posizione sui due piani del dibattito. Chi scrive ha già avuto modo, di esprimersi, in .tempi non recenti, su entrambe le questioni, manifestando la propria convinzione che non siano le singole technicalities normative a condizionare l'effetto complessivo della disciplina della dirigenza sull'attività amministrativa, bensì proprio l'aspetto generale di politica del diritto; precisando altresì, rispetto a tale ultimo aspetto, di ispirarsi ad una specifica Weltanschauung culturale, identificabile in un ben preciso filone di pensiero liberale 2 . Filone che, disegna per la dirigenza un ruolo di limite all'esercizio del potere, garantito dalla disciplina previgente

Dirigente della Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento della Funzione Pubblica 151


all'attuale soio in maniera approssimativa ed insufficiente ma, d'altra parte, radicalmente incompatibile con l'indirizzo fiduciario cha caratterizza le riforme più recenti. Nel tempo, però, a questo tipo di riflessione, di cui sempre più a chi scrive paiono emergere indizi di fondatezza, si è accompagnata la convinzione, confermata dalla quotidiana esperienza dirigenziale, che la disciplina della dirigenza, svincolata da uno specifico dover essere, sia anche, in definitiva, in sé plausibile; e che essa meriterebbe in teoria, fors'anche nella più recente e comunque più problematica riformulazione, l'accettazione e l'appoggio tanto della componente politica tanto di quella burocratica. La disciplina stessa, però, sempre a giudizio di chi scrive, soffre innanzitutto di un deficit di rispondenza alla realtà, soprattutto nel contesto degli apparati centrali dello Stato (Presidenza del Consiglio e ministeri). In altre parole, ha un innegabile valore a livello di "gancio" ideologico e di meccanica, astratta plausibilità; se, però, viene, parafrasando Dworkin, "presa sul serio" 3, ossia se si pretende di vederla operare nel concreto per ciò che essa davvero è ed implica, si rivela astratta e per nulla rispondente ai meccanismi operativi concreti ed alla "configurazione reale"4 del rapporto tra politica e burocrazia nelle amministrazioni dello Stato. Con le brevi considerazioni che seguono si cercherà di dimostrare questo assunto, in particolare rispetto all'universo ministeriale, nell'intento di giungere a porre il problema in termini parzialmente diversi da quelli nei quali è attualmente dibattuto. IL BOZZETTO NORMATIVO (E LA SUA EVOLUZIONE)

Innanzitutto, dunque, il bozzetto normativo. Senza entrare nel dettaglio specifico, il disegno generale della disciplina della dirigenza è stato efficacemente descritto come "una sorta di meccanica 'direzione per obiettivi" 5 , un "modello razional-sinottico", "largamente dominante" in quanto "corretto ed assennato", ma che si risolve, in definitiva, in un illusione Viè una distinzione di ruoli tra politici e burocrati. I primi, valendosi dei propri Uffici di diretta collaborazione, dettano indirizzi operativi, contrattano con i secondi (ed infine approvano) la programmazione delle attività, attribuiscono le relative risorse, provvedono al monitoraggio del rendimento delle strutture ed alla valutazione della dirigenza. I secondi propongono il dettaglio della programmazione delle attività che i politici possono o meno fare proprio, inverano gli indirizzi ricevuti in piani, 152


programmi ed interventi, gestiscono le risorse assegnate secondo le linee guida avute, adottano le decisioni manageriali "con i poteri del privato datore di lavoro", garantiscono la copertura amministrativa agli indirizzi politici. Nel far questo, la dirigenza abbandona la propria tradizione, tutta italiana, di specialismo settoriale ed approda ad una connotazione manageriale; vede tramontare la disciplina unilaterale pubblicistica del proprio rapporto di lavoro, a fronte di nuovi spazi per aspetti negoziali (più ampi in una faseintermedia, ristretti al minimo dopo gli ultimi ritocchi); rinunzia alla sicurezza delle funzioni (ancor più che del "posto") scommettendo sulla temporaneità di incarichi circoscritti nella durata (e, per un certo periodo, anche secondo un principio di rotazione nelle diverse funzioni); abdica alla uniformità del trattamento economico, a beneficio di una diversificazione legata al contenuto concreto delle funzioni ed ai risultati effettivamente ottenuti. Il primo e principale difetto della disciplina è quello di sottostare ad una sorta di prègiudizio monistico ministeriale. Perfino la dottrina giuridica sull'amministrazione (di solito, quella che meno si distingue per senso pratico, a parte le migliori eccezioni) si rassegnava, negli anni Novanta, a sostituire il vecchio monolite "pubblica amministrazione" con l'espressione "amministrazioni pubbliche", per dare conto del carattere plurale e multiorganizzativo del fenomeno burocratico; ma, proprio nel medesimo lasso di tempo, il legislatore dettava una disciplina uniforme della dirigenza pubblica avendo evidentemente presente soltanto l'universo ministeriale 8 (quello che, evidentemente, stava più a cuore ai decisori del momento e rispetto al quale la classe politica riteneva opportuno ridefinire i propri rapporti di potere). Questo errore di prospettiva ha condizionato (peraltro, alla rovescia) la resa del modello, che ha avuto un rendimento "a macchia di leopardo" 9 più alto nelle amministrazioni "di servizio", svincolate da un rapporto di dipendenza diretta ed immediata dalla politica, e negli Enti locali, nei quali il successo elettorale è più direttamente condizionato dalla resa dei servizi pubblici; paradossalmente più insoddisfacente proprio nelle amministrazioni centrali, per le quali era stato pensato. Ed è nell'essenza stessa della disciplina che si ritrovano le ragioni di una resa tanto insoddisfacente in quello specifico contesto. La distinzione di ruoli da cui discendono, come a cascata, le altre implicazioni di modellistica nasce, è bene ricordarlo, da una interpretazione diversa e ben più radicale del rapporto tra politici e burocrati, impostasi nell'infuriare di Tangentopoli; una interpretazione, in seguito criticata e infine superata'°, in termini di "separazione" tra le due élites, mirata ad impedire in toto alla classe politica, al tempo ritenuta responsabile del malfunzionamento delle :

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istituzioni amministrative, di interferire nelle decisioni gestionali delle amministrazioni: concorsi, contratti e spese 11 Non sembra eccessivo sostenere che la suggestione sottesa alla prima formulazione della disciplina della dirigenza, contenuta nel d. lgs. n. 29 del 1993 e nei primi correttivi della "era Cassese", fosse quella di una dirigenza in funzione di contropotere, più affidabile della classe politica, per il cittadino, nell'uso del denaro pubblico e delle potestà pubblicistiche. Questa suggestione è man mano scemata, però, quando la politica ha potuto nuovamente sostenere le proprie ragioni, in un clima sociale che iniziava a mutare. L'impressione (non si sa quanto giusta) che il repulisti fosse stato completato; l'insofferenza di molte componenti sociali per quella sorta di virtuosa "camicia di forza" che i governi tecnici avevano imposto alla dialettica reale degli interessi; il crescente disincanto nei confronti dell'idea che la stessa burocrazia potesse realmente interpretare il ruolo di contraltare alla politica, con l'emergere sempre più chiaro della sua strumentalità e del suo coinvolgimento, specie ai livelli più alti, nei medesimi fenomeni di corruzione e malcostume; tutti questi elementi hanno via via ridato fiato alle istanze della politica ed hanno portato ad una più realistica interpretazione del rapporto tra le due componenti, in termini di distinzione di funzioni piuttosto che di netta separazione operativa 12 Le condizioni di svolgimento di questa dialettica di ruoli, inoltre, venivano sempre più a precisarsi in un contesto segnato da una sorta di corto circuito degli strumenti di soluzione della crisi italiana. Infatti, in una prima fase di quella congiuntura, riforma elettorale e separazione politica/amministrazione erano stati visti come stratagemmi sinergici. Una volta introdotto il nuovo sistema maggioritario, però, si è venuta imponendo una vulgata democratica dagli accenti rousseauviani e giacobini, che ha ridotto alla sola ordalia elettorale la funzione di garanzia che è rimessa, invece, ad un complesso apparato di contrappesi e controlli nelle democrazie mature, ispirate dallo spirito del costituzionalismo liberale. È rimasto, così, confinato nell'irrilevanza anche il ruolo della dirigenza amministrativa (ed in particolare, di quella ministeriale) ai fini del buon andamento complessivo del sistema, nel presupposto (astrattamente plausibile, ma nei fatti del tutto illusorio) che la sanzione del voto popolare avrebbe senz'altro consentito anche il controllo dell'andamento dell'amministrazione, premiando i governi capaci di ben amministrare e penalizzando gli altri. Un simile concetto, però, assume i contorni del paradosso in un Paese in cui, è bene ricordano sempre, si fronteggiano una coalizione di "comunisti" e loro .

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servi scioccni e utili icuoti contro una ai rascisti , razzisti , cierico-reazionari" e "monopolisti sovvertitori della democrazia"; davvero difficile immaginare, in un clima dialettico tanto arroventato, che il voto elettorale venga a sanzionare la classe politica nella sua capacità di assicurare una buona resa degli apparati amministrativi centrali day by day. Questa impostazione giacobina, illiberale proprio in senso tecnico-politologico, ha accomunato, piaccia o no, l'intera classe politica, nella riaffermazione del proprio primato rispetto a centri di potere tecnici, sociali e istituzionali che avevano guidato per qualche anno il Paese; essa ha condizionato i termini reali di impostazione della distinzione (e non più separazione) tra politica ed amministrazione; ben difficilmente può oggi essere attribuita ad una sola componente dell'attuale quadro politico. Nessuna meraviglia, quindi, che il baricentro del sistema si sia man mano aggiustato sempre più attorno al sovrano tornato sul trono; "limitare il potere", parolà d'ordine liberale che aveva inopinatamente segnato una stagione ormai conclusa, è ridivenuta, secondo tradizione, espressione estranea al sentire comune di un Paese che del liberalismo dimostra ogni giorno di non aver metabolizzato nemmeno l'abc. Si è innescata da quella fase, segnatamente sotto i governi dell'Ulivo, una nuova stagione di rimaneggiamenti e correttivi al d. lgs. n. 29 del '93, dopo quelli dei governi tecnici; il provvedimento è stato trasfuso proprio in quegli anni nel nuovo d. lgs. n. 165 del 2001. Alcune soluzioni tecniche discutibili hanno iniziato ad emergere, ed i commentatori più attenti hanno cominciato a lamentare una perdita di qualità della disciplina di dettaglio, iniziando anche a porre la questione generale di politica del diritto 13, di recente vieppiù rinfocolata dalla menzionata "legge Frattini". Quel che però preme sottolineare in questa sede è che nello stesso lasso di tempo ha iniziato ad emergere soprattutto il fatto che la disciplina nel suo complesso, se, come detto "presa sul serio", non plasma (non può plasmare) la realtà del funzionamento delle amministrazioni pubbliche e rappresenta, tutt'al più, una credibile copertura ideologica, abbastanza moderna e rispondenté ai paradigmi organizzativi prevalenti, di una realtà ben diversa 14 .

UN DISEGNO IMPROBABILE

La distanza, sotto molti aspetti grande, tra dettato formale e realtà operativa della disciplina della dirigenza va evidenziata enucleando le questioni di fondo, di carattere organizzativo e sociologico, attorno alle quali si articola il di155


segno normativo. Ben difficilmente si troverà traccia di tali temi nella giurisprudenza, per sua natura; ma, a parere di chi scrive, un'eco sufficiente degli stessi problemi non si trova neanche nella dottrina, troppo spesso appassionatasi ad istituti e questioni di diritto in effetti giuridicamente problematici e di grande interesse intellettuale, ma che hanno il difetto di vivere solò nelle pagine delle Gazzette Ufficiali. È, viceversa, esperienza comune di chi vive l'amministrazione (si ripete, in specie quella ministeriale) che i veri nodi problematici siano quelli di seguito elencati, i quali pregiudicano non la bontà, ma la rispondenza al vero della disciplina della dirigenza "presa sul serio".

La distinzione tra indirizzo e gestione Il primo dei capisaldi della disciplina della dirigenza a dover passare il vaglio della rispondenza al concreto è quello della possibilità di distinguere, come nelle aziende private, indirizzo e gestione, per attribuire il primo alla politica e la seconda alla dirigenza. Tutta la riforma amministrativa dell'ultimo decennio, più ancora della stessa disciplina della dirigenza, è ispirata a questo concetto; d'altra parte, l'intero processo riformista, comune a tutti i Paesi dell'OcsE, è intessuto di similitudini aziendali, come omaggio al nuovo paradigma produttivo e tecnologico (sintetizzato nella espressione "toyotismo") che ha consentito di rilanciare, in molti Paesi avanzati, la produzione e i profitti 15 Che l'amministrazione pubblica possa ricavare un grande vantaggio dalla adozione di strumentazioni gestionali aziendali è cosa ormai fuor di dubbio da ormai mezzo secolo, ed ancor più da quando, con la abituale chiarezza, Massimo Severo Giannini, nel celeberrimo Rapporto del 1979, ha parlato senza mezzi termini di "aziendalistica dello Stato"16. Che però ogni meccanica della gestione aziendale possa adattarsi a qualsiasi sistema politico-amministrativo è petizione di principio ben più difficile da dimostrare. La letteratura più attenta a questo aspetto della questione si è spesso industriata a segnare un discrimine tra ciò che dell'economia aziendale può essere mutuato nel settore pubblico e ciò che a quel settore non si adatta, ragionando però, prevalentemente, in relazione alla natura non profit dell'amministrazione ed ai caratteri, professionali e sociologici, della burocrazia come corpo e come depositaria di funzioni pubblicistiche 17. Al contrario, quasi nessuno sembra essersi posto il problema se i politici possano davvero interpretare il ruolo di indirizzo che le norme disegnano per loro; non i politici in astratto, .

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ma i politici italiani, qui e ora, dati i caratteri del sistema politico e partitico del Paese e la già rammentata estremizzazione della contrapposizione dialettica tra gli schieramenti. Da questo punto di vista, l'impressione di chi scrive, sulla scorta della propria esperienza quotidiana, va decisamente nel senso della impossibilità di tradurre in concreto il disegno normativo. Come è stato ben scritto, la funzione di indirizzo, che ha la sua definizione di legge nel primo comma dell'art. 4 del d. lgs. 16512001, e segnatamente nella lettera b) di tale comma, implica la "transizione da una amministrazione 'per competenze e per atti' ad una amministrazione 'per obiettivi e per programmi', cioè da una visione statica e burocratica delle amministrazioni pubbliche [ ... ] ad una visione dinamica e manageriale"lS. Il verificarsi, in concreto, di questa transizione era però già vista, in quelle pagine, come esposta al pericolo che "gli organi di governo [ ... ] restino inerti"; e ciò, si sosteneva, "per difetto culturale, calcolo politico o assenza di adeguato supporto propositivo" 19 A questa autorevole opinione si vuole qui però aggiungere l'ipotesi che, in particolare nelle amministrazioni statali, i governanti (si ripete, non un'astratta, ottimale classe politica, ma i governanti dell'hic et nunc, a qualsiasi schieramento appartenenti, dati i caratteri del nostro sistema istituzionale) non possano che restare inerti, o al più dare copertura distratta e meramente formale ad un simile ruolo; e ciò proprio per i caratteri della lotta politica in Italia oltre che, in termini più generali, per le esigenze intrinseche al sistema dei partiti ed al loro scopo elettorale (inteso nel senso economicistico evidenziato dalla scuola di public choices20). Se in azienda esiste (non può non esistere) un vertice operativo che detta indirizzi gestionali di carattere generale e formula piani e programmi (pianificazione strategica), è perché l'azienda per sua natura può operare solo in una logica programmatoria, in quanto la standardizzazione del prodotto (sia pure nei termini temperati della limitata diversificazione, spesso mascherata da individualizzazione dell'offerta) è l'unico strumento per guidare la produzione di massa e garantirsi il ciclo dell'esecuzione da parte delle strutture operative sottoposte (programmazione operativa). Questa attività di indirizzo è qualcosa di analogo, proprio nella sostanza, all'attività esecutiva, soltanto ridotta ai suoi termini generali e di impostazione. In un mondo nel quale le trasformazioni sono in vorticoso aumento, la riuscita di questa programmazione viene sempre più condizionata da fattori esterni, costringendo a continue riprogettazioni, che però non possono giungere a far sconfessare in toto la decisione produttiva iniziale, pena la vanificazione dei costi di impianto sostenuti ed il tracollo dell'azienda stessa. .

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Non così nell'amministrazione pubblica, e men che meno in quella ministeriale. Le medesime e sempre più incalzanti trasformazioni e il rincorrersi affannante di imprevisti, che caratterizzano la modernità, possono non essere mera condizione e vincolo dell'attuazione di un programma di governo, ma addirittura ragione di un suo completo stravolgimento. Esemplificando al minimo, un "caso Di Bella" non è solo una condizionante dell'attuazione dei piani sanitari di un Paese, ma può essere la causa di una loro completa ridefinizione; un terremoto non condiziona l'attuazione dei programmi delle strutture di protezione civile e di assistenza sociale, ne implica lo stravolgimento. Uno smottamento partitico o un cambiamento di equilibri in una coalizione può indurre un ministro ad abbandonare un progetto fino ad allora prioritario, o perfino a cedere una funzione lungamente e strenuamente difesa. D'altra parte, non è solo dall'inizio degli anni Novanta del '900, nel contesto di una più complessiva riforma dell'amministrazione in senso aziendale, che il legislatore ha tentato di disegnare per i vertici politici degli apparati centrali un ruolo di direttiva e indirizzo generale, ispirato ad una funzione di programmazione a medio-lungo termine. Già il dPR. n. 748 del 1972 delineava, seppure in termini meno stringenti e aziendalisticamente precisi della normativa attuale, un simile ruolo; e nemmeno allora venne "preso sul serio"21 . Se da trent'anni si cerca di costringere la politica a programmare e gestire gli apparati in base ad una razionalità aziendale, e da trent'anni non ci si riesce, occorre iniziare a porsi seriamente il problema se un simile disegno sia plausibile o se, al contrario, non cozzi con dati di fatto della nostra storia politico-istituzionale che lo rendono irrealizzabile. Nessuna meraviglia dunque, se (e nella misura in cui) quanto qui sostenuto è giusto, della insoddisfazione dei commentatori 22 e degli organismi istituzionali23 per le modalità di assolvimento del proprio ruolo da parte dei ministri. L'inadeguata risposta concreta al disegno normativo può essere letta come l'adesione ancora incerta ad un modello organizzativo radicalmente nuovo, ma forse anche (come suggerito in queste righe) come la dimostrazione della scarsa o nulla plausibilità del modello stesso nel contesto politico-amministrativo. Altri aspetti della disciplina possono valere a puntellare o smentire questa seconda ipotesi.

I]impossibile ciclo della programmazione Quanto fin qui sostenuto, in merito alla differenza ontologica tra ruolo di programmazione di un alto vertice aziendale e ruolo di indirizzo politico nel158


le amministrazioni pubbliche, pare a chi scrive confermato da comportamenti e strategie sociologiche delle altre componenti del sistema amministrativo. Ciò che ne deriva è, in definitiva, un giudizio di impraticabilità, in concreto, del ciclo della programmazione delineato dalle norme; una impraticabilità dimostrata da una attuazione, nella migliore delle ipotesi, formale e un po' ipocrita, ben diversa da quella che la disciplina "presa sul serio" richiederebbe. La burocrazia è stata, non senza ragione, accusata di "assai scarsa iniziativa [...] sia in termini di proposta, ai ministri, di programmi e direttive, sia in termini di adozione di progetti attuativi di eventuali programmi e direttive ministeriali" 24 Questo comportamento può con qualche ragione essere attribuito, a sua volta, ad un ritardo culturale e professionale di una dirigenza che, pure, nel frattempo pare avere compiuto notevoli passi avanti nel rapporto con l'utenza, con le tecnologie, con gli strumenti manageriali. Esso può però forse anche essere spiegato in termini di unica possibile reazione dei burocrati a quanto percepiscono essere di reale interesse dei politici. Scarsa interlocuzione con gli Uffici di diretta collaborazione; disinteresse degli stessi per una ampia e seria "fase ascendente" di adozione delle direttive annuali, a fronte delle molte frammentate piccole emergenze amministrative della quotidianità; ritardo anche ampio nei tempi di emanazione degli atti fondamentali di indirizzo; qualità tuttora largamente insoddisfacente degli stessi, che oscillano ancora tra i due estremi della stanca ripetizione delle competenze di istituto dei diversi uffici e della imposizione artificiale di progetti e attività radicalmente diverse dal core business degli uffici stessi, a volte nella misura di vere e proprie superfetazioni operative; impressione di un totale disinteresse per gli aspetti "di macchina", intesi come andamento degli uffici e rendimento economico (non finanziario) delle strutture; rifiuto della standardizzazione di processi e prodotti amministrativi e continua richiesta di soluzione ad hoc di specifiche questioni; fastidio per ogni aspetto della programmazione anche solo a medio e perfino breve termine; estemporaneo e continuo cambiamento di priorità e programmi; questi gli elementi, di comune esperienza, avvertiti dalla dirigenza, cui va aggiunta (non ultima) una ben precisa percezione delle aspettative dei ministri nei propri confronti. Il punto va posto con grande chiarezza. Molte interviste e sondaggi sono stati somministrati in questi anni ai dirigenti pubblici per "tastarne il polso" rispetto alla disciplina vigente ed al rapporto con la politica; nessuno sembra invece avere interesse ad interrogare i politici in merito alle loro attese nei confronti della burocrazia. Occorrerebbe, invece, (magari con il conforto del.

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la "macchina della verità") chiedere ai politici (e non solo a quelli oggi al governo, a tutti i politici) se desiderino avere a propria disposizione dirigenti ordinati e razionali, capaci di pianificare e perséguire, standardizzando, programmi a medio termine, ovvero se preferiscano dirigenti intuitivi ed estrosi, capaci di improvvisare soluzioni e stravolgere programmi ad horas. Pur non essendovi possibilità di una dimostrazione, chi scrive ha ricavato dalla propria esperienza la convinzione che non vi sia un solo esponente della classe politica che, in tutta sincerità, preferirebbe il primo tipo di dirigente al secondo. Ecco che, in questa lettura, tutti i comportamenti si tengono in un lezioso gioco delle parti, nel quale si finge di impegnarsi su un idealtipo operativo che, in realtà, si sa non interessare davvero nessuno e non essere, in definitiva, "preso sul serio". In queste condizioni, il ciclo della programmazione non è farraginosò, non è ostacolato, non è da migliorare. È impossibile.

Gli Uffici di diretta collaborazione D'altra parte, se interessasse a qualcuno la strategia operativa delineata dalla disciplina della dirigenza, se ne avrebbe una dimostrazione lampante nel funzionamento dei due istituti del tutto nuovi introdotti nel contesto della riforma della disciplina stessa, come strumenti di implementazione della nuova "gestione per obiettivi", al di là del rapporto (buono o cattivo) tra dirigenza e politica e delle rispettive esigenze e caratteristiche sociologiche. Il riferimento è, ovviamente, agli Uffici di diretta collaborazione dei ministri ed ai nuovi meccanismi di controllo e valutazione di taglio aziendalistico. Orbene, nessuno dei due strumenti dà mostra di funzionare nemmeno lontanamente con le modalità che la disciplina giuridico-formale dispone. Una recente ricerca della Scuola superiore della pubblica amministrazione, coordinata da chi scrive, ha dimostrato quanto il passaggio dai vecchi Gabinetti ministeriali ai nuovi Uffici di diretta collaborazione si sia ridotto ad una mera operazione di maquillage, e quanto poco gli uffici "nuovi" operino nel senso che la disciplina imporrebbe l oro 25. La letteratura sui Gabinetti ministeriali, prima e dopo la riforma, aveva più volte rimarcato l'insoddisfacente stato di evoluzione di queste strutture e la loro ormai evidente disfunzionalità rispetto al disegno normativo complessivo, sin dalla età repubblicana e ancora di più nel contesto delle radicali riforme degli anni Novanta26 . I dati della ricerca confermano questo giudizio. Crescita "per accumulo" delle articolazioni interne, senza apparente soluzio160


ne di continuità dopo la riforma; standardizzazione delle stesse, a prescindere dalle funzioni delle amministrazioni cui le stesse pertengono; pressoché totale irrilevanza della modifica normativa delle funzioni; episodicità, estemporaneità e marginalità di strutture di programmazione, valutazione e controllo, guidate da specialisti delle materie, che pure dovrebbero essere la ragion d'essere stessa dei "nuovi" uffici; monopolio dei giuristi (e dei magistrati ordinari, contabili ed amministrativi in particòlare) ai vertici delle strutture e prevalenza di un "professionismo" che fa premio sulla reale fedeltà politica. Queste le principali caratteristiche degli Uffici di diretta collaborazione che emergono dalla ricerca, e che hanno un evidente riflesso, largamente negativo, sulla attuazione della disciplina della dirigenza nel suo complesso, già emerso in dottrina27 In generale, l'opinione diffusa è che i nuovi Uffici siano in tutto e per tutto i vecchi Gabinetti, e che essi operino prevalentemente sul fronte giuridico e legislativo, nonché nella ormai conclamata funzione di coordinamento generale; ma che essi non svolgano affatto quella funzione servente la fase di indirizzo dell'ingenuo MBO (management by objectives) delineato dalla disciplina della dirigenza. Particolare sottolineatura merita il dato, numericamente dimostrato, della netta prevalenza della continuità negli incarichi dei medesimi soggetti (a prescindere dal colore politico della coalizione al governo) sulla contiguità alla maggioranza di governo (intesa, come reale fedeltà ed affidabilità politica) 28 elemento, questo, in sé non criticabile né nei fatti pregiudizievole (anzi, semmai, da valutare come positivo), ma su un piano concettuale dissonante rispetto al disegno normativo, che prevede ormai l'esistenza di questi Uffici, nell'ottica della distinzione politica/amministrazione, solo "per l'esercizio delle funzioni di cui al comma 1" dell'articolo 14 del d. lgs. n. 165 del 2001 (ovvero, quelle strettamente politiche, riservate al ministro dall'art. 4, comma i del medesimo decreto). Ancora una volta, se la composizione di questi uffici non rispetta la ratio normativa della loro istituzione; se quella che dovrebbe essere, secondo il bozzetto legale, la loro principale funzione viene tralasciata; e ciò a dispetto della importanza degli uffici stessi e della guida assicurata da personale ditale e indiscutibile levatura; se tutto ciò accade dovrà pur esserci una ragione, che non sia quella di una inadeguatezza degli uomini, che pare, francamente, di dover davvero escludere. E questa ragione può esser proprio l'inconfessata ma comune convinzione che la disciplina, anche sotto questo aspetto, non possa essere "presa sul serio". .

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Continuità o contiguità? Dunque, il vecchio adagio burocratico "i ministri passano, i direttori generali restano" sembra dover essere sostituito da uno nuovo, che reciterebbe, piìi o meno, "i direttori generali passano, i capi di Gabinetto restano". La cosa può piacere o non piacere su un piano di cultura politica; in altre parole, ci si potrebbe (o meno) aspettare una maggiore attenzione alla fedeltà politica nella scelta dei primi collaboratori da parte dei ministri; ma, in definitiva, non vi è chi possa negare che la esistenza di una classe di professionisti, adusi a guidare gli apparati centrali dello Stato, mediando tra politica e burocrazia, sia un elemento di rendimento e di tenuta del sistema. Semmai, la loro stessa esistenza è la migliore dimostrazione di come la continuità faccia premio, nell'amministrazione pubblica, sulla contiftguità. Ed è davvero paradossale, al di là del giudizio concreto su quale e quanto vero spoi4 system si ritrovi nelle norme della "legge Frattini", che, sussistendo anche per il governo in carica il tipo di situazione descritta nella scelta dei pii stretti collaboratori dei ministri alla guida degli apparati, si sia da tante parti invocata, invece, una piena fiduciarietà degli incarichi di direzione amministrativa, non solo di vertice ma perfino di middie management nei ministeri. La prevalenza della continuità sulla contiguità negli Uffici di diretta collaborazione è il segnale della impossibilità di isolare nettamente una funzionè di governo politico degli apparati che non sia, ad un tempo, competenza tecnica e, in certo qual modo, amministrazione; e mina alla base qùell'argomento dialettico in base al quale la fiduciarietà degli incarichi garantirebbe, per la maggiore coerenza politica, una migliore attuazione del programma di governo. Quando possono scegliere con la maggiore libertà, i ministri di una coalizione non hanno alcun problema a valersi di capi di gabinetto o di capi Ufficio legislativo che hanno guidato le medesime strutture con ministri dell'opposta fazione, in quanto non hanno nessun sospetto che una simile scelta possa intralciare l'azione amministrativa. Non si capisce perché un simile sospetto dovrebbe, invece, sorgere in loro rispetto a professionisti vincitori di regolari concorsi pubblici. Ma soprattutto, il fatto evidenzia che le amministrazioni pubbliche sono segnate, in termini generali, dalla continuità e dalla stabilità, in senso tocquevilliano29 il rendimento degli apparati dipende dalla "identità" e dallo spirito di corpo non meno che dalla cultura tecnica e dalla preparazione tecnologica 30 Burocrazie forti e consce di una prospettiva di responsabilità a lungo termine nelle funzioni selezionano con più coscienza dall'interno i migliori, asso!;

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vono con maggiore scrupolo ai propri compiti, tendono a limitare comportamenti di free riding da parte di incaricati estranei, politici e consulenti, assumono una visibilità cui consegue una responsabilità precisa nei confronti dei cittadini contribuenti. In Italia, ad ogni, eventuale catastrofe, stampa e televisione si accalcano attorno al sindaco o comunque al responsabile politico del luogo colpito; chi ha seguito la dolorosa vicenda dell'alluvione che ha travolto un campeggio in Francia nei mesi scorsi non ha potuto non notare, invece, che l'unico intervistato dalla stampa d'oltralpe è stato il prefetto. È proprio questo il segnale della credibilità di un ceto burocratico. Questo tipo di riflessione è stata criticata, ed in certo modo ridicolizzata, da Bruno Dente, che ha inteso sottolineare come sia improponibile, per ragioni storiche, il paragone tra Italia e Francia sotto questi rispetti. Il ragionamento è sviluppato in maniera convincente; nondimeno l'interrogativo su quale possa essere l'alternativa al rafforzamento dell'identità dei grands co'rps nazionali resta, a sommesso giudizio di chi scrive, senza risposta 31 Certo, in quella certa ottica giacobina che connota, come detto, una vulgata sulla democrazia molto diffusa nella classe politica, questi elementi non valgono a bilanciare le esigenze di cieca affidabilità e a tacitare quella che Sabino Cassese ha di recente indicato, utilizzando una antica definizione di Tocqueville, come "passion des places"32 . In una ottica liberale, di sana diffidenza nei confronti del potere, però, è del tutto evidente cosa gli' stessi cittadini, piuttosto che la burocrazia come ceto, dovrebbero preferire. .

Controlli e valutazione Dunque, sino a qui, problematica riproduzione del meccanismo aziendale di distinzione tra indirizzo e gestione; scadente e svogliato assolvimento della funzione di indirizzo a parte dei politici; inadeguata e, soprattutto, poco convinta interpretazione del ruolo di esecuzione e programmazione da parte della burocrazia; elusione del compito di supporto, in questo senso, da parte degli Uffici di diretta collaborazione. Se, però, si potesse rilevare almeno una soddisfacente diffusione di strumenti di valutazione e controllo nel contesto ministeriale, vi sarebbe un positivo indizio nel senso della praticabilità del modello normativo in quell'ambito; nulla del modello stesso, infatti, può sussistere senza la misurazione e la sanzione dell'attività, con strumenti e tecniche aziendali 33 Orbene, anche da questo punto di vista l'esperienza operativa concreta di chi scrive e il giudizio pressoché unanime della letteratura sono nel senso di .

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un ritardo spaventoso nella effettiva messa a punto di strutture e procedure di misurazione e controllo di attività e risultati nelle amministrazioni statali. Nonostante il tentativo di riordino dei meccanismi stessi, operato con il d. lgs. n. 286 del 1999, una reale implementazione della misurazione dell'attività amministrativa negli apparati centrali è ancora di là da venire. La realtà del controllo è tuttora quella del vaglio di legittimità delle Ragionerie (anche qui si stenta perfino ad usare la nuova terminologia di Uffici centrali di bilancio, tale e tanta è la continuità dei caratteri dell'agire di queste strutture); la Corte dei conti, ritiratasi dall'inutile e penoso riscontro dei medesimi atti, riproduce sulle poche categorie di provvedimenti rimasti di sua competenza il vecchio e stantio controllo giuridico-formale, non senza, in alcuni casi, le vecchie pratiche di cogestione. Stenta, viceversa, ad interpretare il ruolo di analisi a consuntivo della gestione, che è la vera novità delle leggi n. 19 e n. 20 del 1994. Nel frattempo, le quattro tipologie di controlli "aziendali" delineate dal decreto n. 286 del 1999 languono, confinate nella irrilevanza assoluta nell'agire concreto dei dirigenti dello Stato e nel disinteresse pressoché totale dei politici. Le relazioni del già menzionato Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle Amministrazione dello Stato, operante presso la Presidenza del Consiglio, sono, in questo senso, crude ed illuminanti più di qualsiasi giudizio critico. Nel primo rapporto, pubblicato nel maggio 2001, si evidenzia una "sostanziale arretratezza" delle direttive ministeriali e dei controlli strategici 34; si denunzia che il procedimento di valutazione della dirigenza è un "procedimento 'fantasma', di cui non esistono, se non eccezionalmente, sperimentazioni pratiche", in un sistema in cui la valutazione è stata bloccata con alibi diversi (di sistema, di risorse, di responsabilità, sindacale, di scarsa incentivazione) 35 il quadro complessivo offerto "non appare certo soddisfacente" e, seppure non descrivibile come "anno zero", dà atto che il "nuovo paradigma è ben lungi dall'essersi imposto" 36 Il secondo rapporto, del gennaio 2003, offre un quadro a tinte ancora più fosche, nel quale gli elementi positivi per il controllo di gestione si riducono praticamente alla sola "presenza di fermento e voglia di fare", mentre l'implementazione rivela "una grave situazione di arretratezza e ritardo" 37 l'intero procedimento di programmazione dell'attività dagli stessi protagonisti "viene considerato come un mero adempimento formale, destinato a tradursi in un semplice spreco di risorse" 38 ; e, quel che è più grave, emerge chiaramente il disinteresse dei vertici politici, che si limitano ad una "semplice collazione ;

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delle proposte delle strutture amministrative" 39 ; si nota, infine, uno scollamento tra assegnazione degli obiettivi ed attribuzione delle risorse finanziarie, che comporta un "ridotto impatto strategico" degli atti di indirizz0 40 La letteratura specialistica e la comunità professionale interessata al tema, d'altra parte, non formulano un diverso giudizio. Esemplari, in questo senso, le prese di posizione assunte nel tempo dal Cogest in diversi convegni, i cui atti sono pubblicati dalla Rivista trimestrale di scienza dell'amministrazione, nonché il vivace e continuo dibattito che anima da anni le pagine della rivista stessa41 I progetti e le sperimentazioni in atto sul tema, definiti di recente "passi molto importanti per realizzare il vero spirito della riforma" 42 possono essere interpretate come l'ennesima battaglia degli innovatori per tradurre in realtà un disegno, evidentemente, ancora confinato nelle pagine delle raccolte normative; oppure come l'ennesimo segnale di un'ipocrisia riformista pervicacemente orientata a nascondere la realtà dell'agire. amministrativ9. In ogni caso, proprio queste iniziative sono il segnale di un sistema che funziona, ancora oggi, prescindendo totalmente dal suo snodo centrale. Ennesimo indizio, questo, a sostegno dell'ipotesi che guida queste note. .

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Strumenti e remunerazione della managerialità D'altra parte, non è ben chiaro quale tipo di managerialità questi meccanismi di auditing aziendale potrebbero mai verificare; ovvero, quali strumenti manageriali reali siano nelle mani della dirigenza statale, qui ed oggi, per realizzare una guida "aziendale" delle strutture ministeriali. Anche da questo punto di vista il quadro reale è decisamente divergente da quello formale. I "poteri del privato datore di lavoro", seppure posseduti dall'amministrazione nel suo complesso, non sono certo posti nelle mani della dirigenza. Scelta delle risorse umane, decisione sull'utilizzo delle stesse, remunerazione differenziata dei collaboratori, legame stretto tra remunerazione di risultato dei dirigenti e dei propri collaboratori, standardizzazione del "prodotto amministrativo", disponibilità di strumenti di auditing, tutti questi elementi, che sono i principali ingredienti di una gestione manageriale, sono totalmente assenti dalla realtà operativa dei dirigenti pubblici. Un accenno a parte va poi fatto alla disciplina dell'attività nel suo complesso, tuttora estremamente farraginosa, e specialmente alla normativa contabile, vero e proprio relitto amministrativo di un'epoca ormai chiusa, che contrasta in ogni aspetto con la disciplina della dirigenza e ne impedisce del tut165


to, di fatto, la traduzione in concreto, con il suo solo antistorico esistere. Quest'ultimo aspetto meriterebbe una digressione talmente ampia da condurre fuori tema; meglio, dunque, non andare oltre l'accenno. Non si può, peraltro, non ricordare come anche i più recenti interventi legislativi, prodotti in coerenza con questa normativa e ispirati ai medesimi (e del tutto superati) principi, abbiano dato il destro ad un alto dirigente pubblico, noto per essere tra i maggiori esperti della logistica e degli acquisti, e ad un tempo studioso in grado di fare dottrina, per sottolineare, seppure con il consueto garbo, la delicatezza della questione 43 D'altra parte, i dirigenti medesimi (o, almeno, quelli che vogliono ostinatamente "prendere sul serio" la riforma) sanno chiaramente che, a fronte dei propri sforzi per inventarsi (letteralmente) strumenti e strategie manageriali, riceveranno incarichi, remunerazioni e riconoscimenti in base a logiche diStanti anni luce da quelle esplicitate nella riforma. Nessuno mai chiede loro conto dell'andamento complessivo del loro ufficio, mentre abbondano le richieste di chiarimenti su singole questioni. La graduazione delle posizioni dirigenziali, cui è connessa la graduazione della relativa indnnità, è notoriamente effettuata, con decreto ministeriale, ma su iniziativa e proposta dell'alta dirigenza, pressoché ovunque sulla base di criteri di anzianità e di più o meno fondate aspettative di mantenimento di status e di remunerazione acquisita (ma non sempre meritata). E ciò, dunque, non riservando le posizioni economicamente più remunerative (ma, nel contenuto operativo, più complesse) a determinati dirigenti, ma attribuendo le remunerazioni più alte, "a fotografia", alle strutture cui gli stessi sono di fatto preposti. Senza alcuna considerazione per il contenuto operativo delle funzioni. L'indennità di risultato, per tacito accordo di tutte le componenti politiche, sindacali .e burocratiche del sistema, rappresenta una parte infima della remunerazione annuale della dirigenza, e comunque viene ancora attribuita "a pioggia" e raramente a seguito di una reale verifica dell'andamento degli uffici; verifica che, d'altra parte, sarebbe impossibile, dati l'interesse dei politici, il tenore delle direttive e l'inesistenza di adeguati strumenti di monitoraggio. Dei criteri per l'attribuzione dei diversi incarichi, e ancor più della eventualità di ottenere prornozioni sulla scorta di una valutazione comparativa del rendimento recente, non è neanche il caso di parlare seriamente, per chiunque abbia una seppur minima conoscenza della storia degli apparati centrali, da sempre e non meno dall'inizio dello strano "Termidoro senza rivoluzione" italian044 .

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Managers o professionals? Sul punto della managerialità merita di essere sviluppata qualche ulteriore osservazione, seppure nei termini di una apparente digressione, che può tornare utile per completare il quadro della non rispondenza della disciplina della dirigenza alla realtà. In un'altra e meno recente ricerca della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, già pubblicata in volume, sono stati evidenziati i caratteri dell'alta dirigenza ministeriale italiana nella cosiddetta Prima Repubblica 4 L'identikit del direttore generale tipo offerto da quello studio è chiarissimo: maschio, meridionale, laureato in giurisprudenza, proveniente dalla carriera; ma, soprattutto, un iperspecialista, che ha ricoperto, nel 75,58 % dei.casi un solo incarico di alta dirigenza in tutta la carriera, e nel 19,77 % due; insomma, in circa il 95 % dei casi un professionista che non ha mai "cambiato mestiere" nell'amministrazione, o al massimo lo ha fatto una sola volta 46 Quando si è ipotizzato, nell'impostare la riforma della dirigenza, il bozzetto normativo oggi vigente, di questo dato non c'era forse la dimostrazione numerica, ma vi era certo una sensazione precisa. Per questo si è dettato il principio della temporaneità degli incarichi e, per un certo periodo, perfino quello di rotazione negli stessi. Se infatti una certa superficiale pubblicisticà tende ad usare l'espressione "manager" come sinonimo di "dirigente bravo" (nel sottinteso che "burocrate" sia sinonimo di "dirigente incapace"), non vi è dubbio che, nell'accezione aziendale, per manager si intenda tutt'altro: un professionista dal curricolo vario ed articolato, abituato ad assumere decisioni in contesti complessi, senza necessariamente avere a disposizione tutte le informazioni, ma soprattutto dotato di strumenti generali di direzione e coordinamento e per questo portato a presidiare il processo e non il prodotto. Se le cose stanno così, non vi è dubbio che un'organizzazione complessa (e qualsiasi pubblica amministrazione lo è al massimo grado) non possa fare a meno di una categoria di manageri, ma è altrettanto certo che essa abbia bisogno di un certo numero (variabile in relazione al proprio core business) di specialisti, di professionals che si affiancano ai managers in un idoneo mix professionale. Esemplificando, ben difficilmente un'azienda affiderà ad uno dei suoi managers la direzione dell'ufficio legale, preferendo, per la funzione, un laureato in giurisprudenza iscritto all'albo degli avvocati, che raramente riceverà qualsivoglia incarico d'altra natura nell'azienda stessa. Rispetto a questo problema, la disciplina della dirigenza ha dunque rappresentato il tentativo di reazione ad una realtà che si considerava largamente in.5 .

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soddisfacente dal punto di vista della versatilità e della managerialità. Ma, anche in questo caso, essa si è rivelata ingenua, estremizzando la soluzione e imponendo una caratterizzazione generale che non può essere unica in una organizzazione complessa. • A questo dato difficilmente contestabile, e piuttosto evidente nella dinamica, va aggiunto un aspetto ancor più paradossale, ancora una volta impossibile da dimostrare in teoria, ma di comune esperienza per chi conosca la macchina amministrativa: a questo corpo di presunti soli managers "per legge", la politica e l'altissima dirigenza ha continuato a chiedere di dare conto nel merito delle soluzioni come professionaIs, mai accettando la reale riconversiòne culturale che la managerialità impone né, come detto, la connessa ricaduta operativa nel funzionamento degli uffici. Anche sotto questo aspetto, dunque, il bozzetto normativo risulta poco plausibile; e una dirigenza poco incline a rimettersi continuamente in discussione ha avuto buon gioco ad ottenere, dal più recente legislatore, almeno la soppressione dell'inciso relativo alla rotazione negli incarichi., riproponendo, di fatto, una sorta di pregiudizio di stabilità, fermo restando il potere del ministro di non confermare nell'incaricò. Quanto ciò potrà ridare fiato agli animai instincts monoculturali e stanziai della burocrazia italiana è difficile dire; certo, si tratta di un pesante vuinus alla disciplina della dirigenza "presa sul serio", giusta o sbagliata sul punto che fosse; mentre resta fuori dalla scena il vero problema dell'evoluzione della cultura professionale dèlla dirigenza pubblica in un'ottica di sistema. IPOcRIsIA LEGISLATIVA E RIESPANSIONE DEL POTERE: LA POLITICA DA OGGETTO A SOGGETTO DELLA RIFORMA

La conclusione che sembra di poter trarre da quanto sopra osservato è univoca. Se una disciplina funziona parzialmente; se alcune sue parti ricevono attuazione più aderente al dettato normativo, mentre altre soffrono di ritardi e antinomie; se alcuni attori tengono un comportamento coerente con i suoi principi mentre altri assumono strategie devianti; se i nessi principali della disciplina corrispondono alla realtà del funzionamento concreto degli apparati, pur in presenza di scostamenti anche significativi dalla disciplina stessa nel suo complesso; in ognuno di questi casi si è in presenza di una normativa che merita approfondimento, dibattito sui dettagli tecnici, impegno di affinamento. 168


Ma se nessuno degli attori ha, nella realtà concreta, un comportamento minimamente corrispondente a quello che la disciplina disegna; se proprio gli snodi fondamentali del sistema sono le parti più irrealizzate della normativa; se nessuno dei meccanismi centrali opera nella maniera prevista; se tutti gli elementi, anche di contorno, funzionano in un modo che non ha coerenza alcuna con la disciplina, ma che anzi ne mina la possibilità di inveramento; se perfino i fattori costitutivi assumono la forma di uno stanco e vuoto adempimento, senza nessun entusiasmo ma soprattutto senza nessuna corrispondenza al loro dover essere; allora non si è in presenza di una normativa che meriti gli stessi sforzi, bensì di una manifestazione di ipocrisia legislativa, cui nessuno ritiene di poter muovere affronto, per ragioni di astratta credibilità e razionalità, ma che non può essere "presa sul serio". Essere interlocutori responsabili e gestori misurabili è un'aspirazione ormai abbastanza diffusa in una parte della dirigenza, che a "prendere sul serio" la normativa è più che disposta, accettando anche gli spazi che la politica ha più di recente ritenuto di ritagliarsi, sia nel passaggio del 1998 sia in quello del 2001; ma ciò a condizione di vedere operare, a tutti i livelli, quei meccanismi di indirizzo, valutazione e controllo, di prevalenza dell'oggettività dei risultati misurati; che sono scritti nella disciplina e che possono essere il vincolo di razionalità del sistema47 . E ciò a prescindere da inclinazioni personali, di tipo corporativo o ideologico, che possono lasciar preferire, ad alcuni, disegni di tipo diverso, che non corrispondono però alla politica legislativa degli ultimi anni. Nemmeno questa adesione al disegno legislativo attuale, però, appare a chi scrive all'ordine del giorno dell'agenda politica. Garantitasi un tranquillizzante e ragionevole "gancio" ideologico, la politica pare soddisfatta di una realtà operativa del rapporto con la dirigenza di tutt'altro segno, che essa regola e gestisce, salvo, al momento opportuno, ripararsi dietro il comodo paravento dell'ipocrisia legislativa. Passata, sin dallo scorcio finale degli anni Novanta del '900, da oggetto a soggetto della "grande riforma" del sistema Paese, la politica non ha più alcuna intenzione di mettere in gioco il suo ruolo nel rapporto con gli altri attori istituzionali; burocrazia in primo luogo. QUALE DIREGENZA PER IL PAESE

La domanda "quale burocrazia nel rapporto con la politica" ha segnato, come detto, una fase del dibattito pubblico, all'inizio degli anni Novanta, quan169


do attorno a quella questione ci si è interrogati cercando una risposta alla crisi morale e di funzionalità delle istituzioni amministrative. Quella domanda ha già avuto, per la classe politica, sia una risposta adeguata a livello di manifesto, con le diverse leggi di riforma della dirigenza, sia altra risposta, di tutt'altro segno, nel concreto operare quotidiano. "Prendere sul serio" la prima complicherebbe soltanto il concreto funzionamento della seconda. Non può essere un caso, d'altra parte, se le controproposte dell'opposizione alla "legge Frattini" si risolvono in un vago temperamento dei principi e dei meccanismi della stessa, che non scalfisce, nella sostanza, le ragioni di perplessità e làscia inevaso il dilemma della reale idoneità della normativa a influenzare il concreto operare degli apparati 48 ; né può essere un caso se le prese di posizione critiche sui meccanismi di .spoils system, anche nell'attuale maggioranza, non hanno prodotto, ad oggi, un testo alternativo alla normativa attuale49 A giudizio di chi scrive, la riposta non potrebbe, d'altra parte, essere soddisfacente, perché è probabilmente giunto il tempo per cambiare la domanda. Occorre, in altre parole, iniziare a chiedersi finalmente "quale dirigenza per il Paese"; chiedersi, insomma, quale disciplina della dirigenza garantisca meglio gli interessi del contribuente, rispetto all'uso delle risorse raccolte dallè sue tasche, e del cittadino, rispetto alla esplicazione del potere limitato, che è la quintessenza dellademocrazia liberale. Posta su queste nuove basi la domanda, potrebbe anche, in estrema ipotesi, darsi il caso che una disciplina non del tutto difforme dall'attuale nelle linee generali e nelle aspirazioni di fondo sia l'unica risposta possibile; ma, in tale evenienza, essa andrebbe comunque ripensata in toto nella dinamica generale, nei meccanismi di funzionamento e nei singoli istituti, in maniera da costringere (ammesso e non concesso che sia possibile) la politicae gli altri attori del sistema, finalmente e davvero, a "prenderla su serio". .

Dato il tenore dello scritto, si ritiene dittalasciare una puntuale ricognizione della ormai straboccante letteratura sul tema; per tutti, oltre agli scritti di seguito citati, ci si limita a rinviare alla ampia raccolta di saggi contenuta in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2002, n. 6, cui aggiungere almeno S. CASSESE, Il nuovo regi170

me dei dirigenti pubblici italiani: una modfìcazione costituzionale, in ((Giornale di diritto amministrativo», 2002, n. 12, pp. 1341 ss; il Commento alla legge di G. D'AuruA, in ((Giornale di diritto amministrativo», 2002, n. 11, pp. 1155 ss; G. D'ALESsIo, La legge di riordino delle dirigenza: nostalgie, antilogie ed amnesie, in Il lavoro


nelle pubbliche amministrazioni, 2002, n. 2, pp.

NELLI, ImparzialiM, buon andamento e disczplina

213 Ss.

diffèrenziata del rapporto di lavoro dirigenziale, ivi, 1996, pp. 2584 s. 14 Unica voce a levarsi in questo senso quella, già rammentata, di B. DENTE, In un diverso Stato, cit. 15 Sul punto sia consentito rinviare a S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI e G. VETRITrO, Lineamenti di storia dell'amministrazione italiana (1861 -2002), Carocci, Roma 2003, in particola.repp. 189ss. 16 Ministro per la funzione pubblica, Rapporto sui principali problemi dell4mministrazione dello Stato, trasmesso alle camere il 16.11.1979, in »Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1982, n.3,p.744. 17 Le più acute riflessioni sui limiti di applicazione del paradigma aziendale in E. D'ALBERGO e P. VASELLI, Un'amministrazione imprenditoriale? Il cambiamento nel sistema pubblico fra ap prendimento e ipocrisia, S.M, Roma 1997. 18 Così C. D'ORTA, Politica e amministrazione, cit., p. 381. 19 Ivi, p. 382. 20 Per tutti, cfr. A. BP.ET0N, Economia della democrazia rappresentativa, in S. CARRUBA e D. DA EMPOLI (curr.), Scelte pubbliche, Fondazione Einaudi, Le Monnier, Firenze 1984, pp. 99 ss. 21 Sul punto già a suo tempo estremamente chiare le osservazioni di C. D'ORTA, Il pubblico impiego- Ordinamento, legge-quadro, giurisprudenza e linee di rfroma, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991, p. 204 e pp.216 ss. 22 C. D'ORTA, Politica e amministrazione, cit., pp. 404 Ss; G. D'AuRI, I controlli amministrativi, ivi, in particolare pp. 420 ss, ove si dà conto anche delle ripetute censure della Corte dei conti al riguardo. 23 Il riferimento è ai due rapporti prodotti, ad oggi, dall'apposito Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle Amministrazioni dello Stato (c.d. "Comitato Zampini"), insediato con decreto ministeriale presso il Dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio.

2 G. VETRITT0, La pubblica amministrazione nel sistema maggioritario, in «Rivista trimestrale di scienza dell'amministrazione», 1996, n. 4, pp. 89 Ss; Id., Un contropotere assente, in «Critica liberale», 1995, n. 11, pp. 66 ss. 11 riferimento è, ovviamente, al titolo del celeberrimo R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologna 1982. ' La bella espressione è mutuata da S. Aì»ioROSINO, Note su alcune configurazioni reali dei rapporti tra direzione.politica e dirigenza amministrativa nel contesto italiano, in «Foro amministrativo'>, 1995, nn. 4-5, pp. 1151 e ss. Così B. DENTE, In un diverso Stato - Come rifare la pubblica amministrazione italiana, il Mulino, Bologna 1995, p. 45. 6 Ivi,p.24. Così l'art. 5, comma 2, del d. lgs. 165 del 2001. 8 La più netta censura, in tal senso venne formulata da S. CASSESE, 11 sofisma della privatizzazione del pubblico impiego, in «Il Corriere giuridico», 1993, n. 4, pp. 407. C. D'ORTA, Politica e amministrazione, in F. CARINCI e M. D'ANTONA, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, I, Giuffrè, Milano 2000, p. 404. IO Cfr. C. D'ORTA, La rfiirina della dirigenza: dalla sovrapposizione alla. disti nzione fra politica e amministrazione?, in «Rivista trimestrale di dirittopubblico», 1994, n. 1, pp. 171 e ss. Il E stato ricordato dalla migliore dottrina che il d. lgs. n. 29 del 1993 venne preceduto da significative norme di settore relative ad enti previdenziali, Enti locali, comparto sanità (ma anche da norme di procedura su concorsi e contratti); cfr. C. D'ORTA, La rfor,na della dirigenza, cit., pp. 169 s. 12 Così, ancora una volta, C. D'ORTA, La rfrma della dirigenza, cit. 13 Per tutti R. ALESSE, Il lento e inarrestabile declino della dirigenza dello Stato, in «Giurisprudenza costituzionale», 2000, pp. 1931 ss; C. Pi-

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24

C. D'ORTA, Politica e amministrazione, cit., p. 406. 25 La ricerca, intitolata La direzione politica de-

gli apparati centrali dello Stato: gli uffici di staff dei Ministri in età repubblicana, è stata realizzata, sotto la direzione di Stefano Sepe, da chi scrive e da Laura Mazzone, Ignazio Portelli, Luca Soda, Francesca Di Lascio ed Elisabetta Pezzola; i relativi materiali sono in fse di pubblicazione. 26 A. AGOSTA e C. PIccAIwI, I gabinetti ministeriali, in Le relazioni tra amministrazioni epartiti, in Archivio ISAP, n. 5, Milano, Giuffrè, 1988, pp. 73 Ss; G. VETRITFO, Gabinetti e uffici legislativi ministeriali tra storia e dato normativo, in «Rivista trimestrale di scienza dell'amministrazione», 2000, n. 1, pp. 117 ss; G. MANTO, Uffici alle dirette d:iendenze dei ministri, in G. D'AuluA (ccord.), Glossario di parole-chiave per la rifirma dei ministeri, in Rivista della Corte dei Conti, 1998, n. 5, pp. 240 ss. 27 Cfr. per tutti, da ultimo, il forum Gli staif dei ministri tra indirizw politico e gestione amministrativa, con interventi di ANTONINO FRENI, SABINO CASSESE, CARLO D'ORTA, Luici TIvELLI, GAETANO D'AuRIA, ANTONIO CATRICALÀ e ANDREA MANCINELLI, in «Iter legis», 2002, Ago.Nov., pp. 57 ss. 28 G. VETRITrO, Cambiano i ministri, sopravvive lo staffi in <>11 Sole 24 Ore», lunedì 30 luglio 2001,p.4. 29 11 riferimento è, ovviamente, al fondamentale insegnamento implicito nell'intuizione che guida il classico A. DE TOCQUEVILLE, L'antico regime e la rivoluzione [1856], Rizzoli, Milano 1994. 30 Sul punto v. S. SEPE, Ipotesi in tema di identità burocratica tra Otto e Novecento, in L'identità fra tradizione e progetto-Nazioni, luoghi, culture, Atti del convegno 28-30.11.1996, Provincia autonoma di Trento, pp. 23 ss. 31 Cfr. B. DENTE, In un diverso Stato, cit., pp. 39 Ss. 32 S. CASSESE, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici, cit., p. 1343. 33 Sul punto, non a caso, insiste da anni la 172

più convincente dottrina che ha sposato la impostazione della riforma: cfr., per tutti, C. D'ORTA, Controllo digestione e responsabilità dirigenziale nelle recenti rfr,ne della pa., in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1994, n. 4, pp. 1007 e Ss; ed ancor più radicalmente Id.,

Gli incarichi dirigenziali nello Stato dopo la I. 14512002, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2002, n. 6, pp. 929 ss e, in particolare, pp. 941 ss, dove si sostiene che questo aspetto è "il vero nodo della riforma". 34 Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle Amministrazioni dello Stato, I

controlli interni nei ministeri-Primo rapporto, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria, Roma 2002,p. 11. 35 Ivi, p. 17. 36 1vi,p.3. 37 Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle Amministrazioni dello Stato,

Processi di programmazione strategica e controlli interni nei ministeri stato e prospettive-Secondo rapporto, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria, Roma 2003, p. 24. 38 Ivi, p. 30. 39 1vi,p.30. 40 Ivi, pp. 35 e s (il virgolettato è a p. 36). 41 Cfr. le più recenti annate della rivista e, in particolare, da ultimo il n. 2 del 2000, interamente dedicato alla raccolta degli atti di un convegno Cogest dedicato alla misurazione dell'attività amministrativa. 42 Le parole sono di C. D'ORTA, Gli incarichi dirigenziali, cit., p. 942, dove si elencano alcune iniziative governative in materia di auditing poste in essere negli scorsi mesi. 43 L. FIORENTINO, Commento al decreto-legge 6.9.2002, n. 194 (c.d. decreto "taglia spese"), in «Giornale di diritto amministrativo», 2003, n. 3, pp. 223 ss e, in particolare, p. 228, dove si pone il problema di un "rafforzamento delle ragionerie


provinciali e degli uffici centrali di bilancio" che "va in una direzione opposta rispetto ad una moderna concezione del monitoraggio finanziario". 44 L'espressione è stata per un certo periodo, alla fine degli anni Novanta, il sottotitolo della rivista Micromega. 5 S. SEPE (cur.), Geografia dell'alta dirigenzi pubblica italiana nell'etsì della transizione, SsPA, Roma 2002. 46 J dati sono commentati in G. VETRITTO, L'estrazione professionale, in S. SEPE (cur.), Geografia, cit., pp. 84 s. 47 in questo senso E SEPE, La riforma della di-

rigenza statale: una innovazione necessaria con qualche problema di fondo, in «Rivista trimestrale di scienza dell'amministrazione», 2000, n. 3 pp. l3ss. 48 Il riferimento è alla proposta di nuova ri-

forma della disciplina della dirigenza formulata da ASTR1D, l'associazione presieduta da Franco Bassanini e Giuliano Amato, di recente formalmente sottoposta al vaglio del Parlamento sotto forma di disegno di legge;cfr. A. S. n. 1966,

Disegno di legge in materia di dirigenza statale, disponibile su www.parlamento.it . 9 Le prese di posizione più rilevanti sono state quelle di due deputati di Forza Italia ex radicali, nei giorni dell'approvazione della legge, e, più di recente, dell'attuale Ministro per la Funzione pubblica; cfr. G. CALDERISI e M. TDASH, In attesa delle nomine RAI, qualche dubbio sul nuovo spoils system, in «Il Foglio», 9.4.2002; L. MAZZELLA, Relazione di apertura alla I Conferenza nazionale dell'alta dirigenza statale, Roma, 3-5.2.2003, disponibile su www.altadirigenza.net .

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Gli incarichi dirigenziali nello Statodopola I. 14512002 di Carlo D'Orta

L

a disciplina in tema di conferimento e definizione degli incarichi dirigenziali nelle amministrazioni statali, con la riscritturadell'art. 19 del d.lgs. 165/2001 ad opera della legge n. 145/2002, è entrata in una nuova fase, caratterizzata da un sistema binario comune a tutti i livelli dirigenziali. Sia per i dirigenti che svolgono funzioni di livello generale, sia per quelli che svolgono funzioni dirigenziali subordinate, opera la coppia "provvedimento più contratto individuale". Muta anche la ripartizione dei ruoli fra provvedimento e contratto. Il primo è, infatti, atto unilaterale pubblicistico che attribuisce le funzioni. Il secondo è, invece, negozio bilaterale che determina il trattamento economico individuale, sia fisso che accessorio, tenendo conto di quanto stabilito dai contratti collettivi. La estensione del sistema binario provvedimento-contratto a tutti gli incarichi dirigenziali e lo spostamento dal contratto individuale al provvedimento della competenza a definire oggetto, obiettivi e durata dell'incarico dirigenziale sono stati oggetto di forti critiche. Si è vista, in questa scelta, la volontà di un ritorno al tradizionale assetto "pubblicistico" della dirigenza, la frattura del sistema privatistico-contrattuale del lavoro pubblico avviato nel 1993, la negazione del ruolo di datore di lavoro "privatistico" che sempre più dovrebbe contrassegnare le Pubbliche Amministrazioni nei rapporti con il proprio personale e il rischio di un ritorno in forze della giurisdizione amministrativa su una materia ormai attratta nell'orbita del diritto del lavoro. IL CONFERIMENTO

Almeno in questi termini estremi, si tratta di critiche "ideologiche", nel senso di ideologia "panlavorista". Infatti, la scelta del legislatore del 2002 va L'Autore è Capo Dipartimento della Funzione Pubblica. 174


ricostruita in modo diverso, cioè come ripristino della corrispondenza tra assetto normativo generale delle funzioni pubbliche e strumenti per il relativo esercizio, tra architetture teoriche e funzionamento reale delle amministrazioni, tra forma e sostanza nell'attribuzione e definizione delle funzioni dirigenziali. Spieghiamoci meglio: cominciamo dal conferimento dell'incarico dirigenziale, cioè dall'atto con cui il dipendente è preposto ad un ufficio o ad una funzione dirigenziale ispettiva o di studio. È difficile attribuire all'atto di conferimento-preposizione alle funzioni dirigenziali forma e sostanza diverse da quelle del provvedimento amministrativo, come invece il legislatore ha cercato di fare quando nel 1998, sia pure per i soli dirigenti di base, ha fatto confluire tale momento nel contratto individuale tra amministrazione e dirigente. Il conferimento dell'incarico dirigenziale è, infatti, l'atto con cui si crea la connessione òrganica tra un dipendente e l'ufficio cui questi viene preposto; è l'atto con cui si dà al dipendente la potestà di esercitare le funzioni pubbliche proprie dell'ufficio agendo in nome e per conto dell'amministrazione. Quindi, il conferimento dell'incarico presenta gli stessi caratteri del potere di organizzazione, essendo anch'esso partecipe ed espressione della finalità di distribuire e articolare le funzioni pubbliche.

E SUA NATURA PUBBLICISTICA

Di conseguenza, così come il potere di organizzazione ha natura pubblicistica quando attiene alla macro-organizzazione, ossia quando concerne l'articolazione dell'amministrazione in uffici .dirigenziali, così ha natura pubblicistica il potere di conferire gli incarichi dirigenziali. Tale natura deriva dai princìpi costituzionali di legalità/garanzia e di competenzalcertezza che impongono di riservare alla legge e ad atti suscettibili di controllo in punto di legalità/legittimità, sia la identificazione delle funzioni e delle potestà pubbliche idonee ad incidere autoritativamente sulle situazioni dei singoli, sia la distribuzione di queste funzioni e potestà tra le diverse articolazioni dell'organizzazione, ossia tra gli uffici dirigenziali e, quindi, anche tra i relativi titolari. Pertanto, attribuire al contratto individuale anche la funzione di atto con cui si conferisce al dirigente l'incarico e lo si prepone alla funzione significa o sottrarre il conferimento dell'incarico alla controllabilità, alla stregua dei principi pubblicistici di legalità e competenza, oppure fingere che sia negoziabile bilateralmente ciò che negoziabile non può essere. 175


L'OGGETTO DELIt'INCARICO

Va criticata anche la scelta del legislatore del 1998 di rimettere al contratto individuale la definizione dell'oggetto dell'incarico dirigenziale. Definizione che opportunamente la legge 145 ha rimesso al provvedimento di incarico. Cos'è, infatti, l'oggetto dell'incarico dirigenziale se non la elencazione delle competenze, poteri e attività che il dirigente deve esercitare in quanto preposto ad un ufficio o ad una funzione? Ma se questo è vero che senso ha scindere il conferimento dell'incarico dalla definizione del suo oggetto, come la normativa del 1998 faceva per gli incarichi di livello dirigenziale generale, rimettendo il primo ad un provvedimento amministrativo e la seconda al contratto individuale? E ancora, in organizzazioni pubbliche dove le competenze, i poteri e le attività degli uffici sono necessariamente definite da norme, che senso ha porre l'elencazione di tali competenze e attività ad oggetto di un negozio bilaterale qual è il contratto individuale de! dirigente? Sarebbe possibile negoziare l'attribuzione al dirigente non di tutte, ma soltanto di una parte delle funzioni che 1 ordinamento riconduce all ufficio cui si riferisce i incarico dirigenzia!e? E non sarebbe, questo, un negozio viziato da illiceità della causa per contrasto con norme imperative non derogabili? Non ha risposto a queste domande quella dottrina per la quale il contratto individuale del dirigente pubblico, avrebbe avuto ad oggetto l'attribuzione dei poteri "organizzativo-gestionali", mentre i poteri del dirigente afferenti alle funzioni pubbliche dell'ufficio sarebbero rimasti fuori del contratto, essendo derivazione diretta dell'atto di incarico. Questa tesi appariva priva di qualsiasi aggancio per gli incarichi dirigenziali di base ove, secondo le norme del 1998 non solo l'oggètto dell'incarico, ma anche il suo stesso conferimento erano operati col contratto individuale. LA DEFINIZIONE DEGLI OBIETTIVI

Era poco convincente anche la scelta del legislatore del 1998 di rimettere al contratto individuale col dirigente la definizione degli obiettivi dell'incarico dirigenziale. Infatti, tùtto l'insieme delle norme sulla dirigenza e sul rapporto politica-amministrazione ruota intorno alla previsione di atti di indirizzo degli organi politici, volti a definire priorità ed obiettivi per l'attività delle publiche amministrazioni e, quindi, dei dirigenti. Principale fra questi atti di indirizzo è la direttiva generale sull'attività amministrativa e sulla gestione che ciascun ministro deve adottare ogni anno a gennaio. 176


Come può conciliarsi tale annuale definizione - con atto unilaterale, pubblicistico e tipicamente espressione di discrezionalità politico-amminisrativa! degli obiettivi dell'azione amministrativa e gestionale dei dirigenti con la parallela definizione degli obiettivi dell'incarico dirigenziale mediante un contratto che, secondo le norme del 1998, poteva arrivare fino a sette anni di durata? Quid iuris se, di fronte ad un nuovo atto di indirizzo e a nuovi obiettivi stabiliti da Parlamento e/o Governo nei settori di competenza del proprio ufficio, il dirigente avesse obiettato che tali nuovi indirizzi e obiettivi erano incompatibili con gli obiettivi definiti nel contratto individuale già sottoscritto? Forse che la funzione di governo avrebbe dovuto piegarsi ai limiti del contratto individuale del dirigente, oppure adeguarsi agli esiti di una eventuale rinegoziazione del contratto individuale col dirigente?

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E LORO INEVITABILE GENERJCITÀ

Tale premessa ha fatto immaginare a molti che gli obiettivi definiti col contratto individuale fossero soltanto generalissimi, in grado di assorbire le novità derivanti dall'ordinario esercizio dei poteri di indirizzo degli organi politici. Sennonché, non può sfuggire che la definizione degli obiettivi dell'incarico dirigenziale nella sede del contratto individuale si sarebbe tradotta in una pantomima, senza impatto sulle vicende del rapporto di lavoro del dirigente. E infatti, la prassi dei contratti mostra formule del tipo "conseguire gli obiettivi stabiliti dagli atti di indirizzo del ministro"! La questione non è se la definizione degli obiettivi dell'incarico dirigenziale debba essere operata con contratto o con provvedimento unilaterale della PA, ma che la definizione degli obiettivi dell'incarico non può essere irrigidita in atti che durano per un tempo medio-lungo senza pagare un prezzo in termini di genericità degli stessi obiettivi: tanto più gli obiettivi sono dettagliati, tanto più breve sarà la loro vita; se si dettano obiettivi di durata medio-lunga, essi devono essere generali, perché altrimenti saranno in tutto o in parte modificati sotto la pressione degli eventi e per adeguare flessibilmente l'azione della pubblica amministrazione al mutare delle esigenze. Per impegnare il dirigente a conseguire gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo o per consentirgli di partecipare alla definizione di questi medesimi obiettivi, non c'è bisogno di definire gli obiettivi nel contratto di lavoro individuale o nel provvedimento di incarico. L'ordinamento già oggi predispone altri ben più efficaci strumenti. 177


LA SOLUZIONE DELLA PARTECIPAZIONE

Per esempio, la partecipazione dei dirigenti alla formulazione degli obiettivi e degli atti di indirizzo politico-amministrativo è stata raccomandata dalla "direttiva-madre" che il, Presidente del Consiglio.ha adottato, il 15 novembre 2001, per orientare l'emanazione delle direttive dei Ministri sull'attività amministrativa e sulla gestione dei rispettivi ministeri nel 2002. E tale raccomandazione si è in molti casi tradotta nel coinvolgimento dei dirigenti diiivello generale nella elaborazione delle direttive annuali dei ministri e nella definizione degli obiettivi ivi previsti. D'altra parte, l'impegno dei dirigenti a perseguire gli obiettivi stabiliti dagli atti di indirizzo e dalle direttive del ministro, deriva dall'art. 21 del d.lgs. 16512001 e, soprattutto, dalle previsioni dei sistemi di valutazione dei dirigenti; sistemi che cominciano ad essere attivati in alcune amministrazioni statali e legano l'erogazione di parte della retribuzione accessoria al grado di effettivo conseguimento degli obiettivi e dei risultati prestabiliti in sede di direttiva annuale del Ministro o concordati all'inizio del ciclo di valutazione.

LA QUESTIONE DELLA DURATA

In relazione alla durata degli incarichi dirigenziali, la normativa del 1998 aveva previsto incarichi di durata compresa tra due anni e sette anni. E' noto che la riforma del 2002 ha eliminato ogni vincolo di durata minima ed ha ridotto a tre anni (per gli incarichi dirigenziali generali) e a cinque anni (per gli incarichi dirigenziali di base) la durata massima. Da qui è derivata la critica di aver voluto "precarizzare" e, in qualche modo asservire alla politica i dirigenti, soprattutto di livello più elevato. Si tratta di una preoccupazione non fondata. Non va dimenticato, infatti, che la normativa del 1998 e le sue garanzie sulla 'durata degli incarichi dirigenziali si sono insèrite in un contesto in cui erano ancora assenti altre garanzie, come quelle poi assicurate dal contratto collettivo nazionale della' dirigenza dell'area I per il quadriennio 1998-200 1. Questo ha previsto l'obbligo di assicurare al dirigente un nuovo incarico dirigenziale almeno, equivalente se, alla scadenza dell'incarico, non si intenda confermarlo né vi sia una espressa valutazione negativa sulla sua gestione. . Nel 1998 la durata minima biennale degli incarichi dirigenziali valeva ad i 78


evitare l'esposizione dei dirigenti alla discrezionalità e all'eventuale arbitrio della politica. Oggi tale meccanismo di garanzia non è più necessario: altre garanzie, più efficaci, sono state istituite dalla contrattazione collettiva. Ciò è vero anche se la prossima tornata contrattuale dovrà verificare la persistente coerenza o meno delle norme dei contratti collettivi 1998-2001 con il nuovo impianto legislativo e anche se diversi potrebbero essere l'approccio e l'intensità delle garanzie. a seconda che il dirigente titolare di incarico dirigenziale di livello generale in scadenza appartenga alla I ovvero alla Il fascia dirigenziale. Dunque, le recenti novelle sulla durata degli incarichi dirigenziali rispondono a esigenze di flessibilità e mobilità e non a logiche di precarizzazione. Sarebbe difficile argomentare che l'amministrazione-datrice di lavoro non debba godere, fatte salve certe garanzie di livello funzional-economico per i dirigenti, di adeguati margini per gestire al meglio le risorse umane dirigenziali, anche attraverso la mobilità e la rotazione degli incarichi.

DUE NOTAZIONI SULLO SPOILS SYSTEM ALL'ITALIANA

Nella discussione parlamentare sulla legge 14512002 si è spesso parlato di ampliamento della platea degli incarichi soggetti allo spoils'system all'italiana, cioè alla cessazione di taluni incarichi dirigenziali in corrispondenza con la formazione di un nuovo Governo. In realtà così non è. Tanto in base alla normativa introdotta nel 1998 che oggi in base alla nuova legge, sono soggetti a cessazione in corrispondenza con la formazione di un nuovo Governo soltanto gli incarichi apicali di Segretario generale, Capo dipartimento e altre strutture articolate, al proprio interno, in uffici dirigenziali generali. Non ne sono soggetti gli ordinari incarichi di livello dirigenziale generale. Ciò che è oggi mutato è il meccanismo della cessazione. Fino ad oggi, gli incarichi di vertice presso i ministeri potevano essere revocati, entro novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo, con un atto espresso del Ministro. La nuova disciplina prevede, invece, sempre al novantesimo giorno dalla fiducia al Governo, la cessazione automatica- di tutti gli incarichi in questione, salva la possibilità di conferma. Questo meccanismo appare più snello e diretto. D'altra parte, non si tratta di una novità: è stato semplicemente esteso, a tutti i ministeri, il sistema da 15 anni già vigente (in base alla legge n. 400/198.8) presso la Presidenza del Consiglio. 179


CONTRO IL RISCHIO DI NOMINE "DI COMODO"

Tutt'altra norma - che, però, non riguarda i dirigenti statali, ma gli organi di vertice (presidenti) e i componenti dei consigli di amministrazione e di altri organi "politici" degli enti pubblici - è quella dell'art. 6 della legge 14512002. Il legislatore ha previsto che le nomine a tali cariche effettuate dal Governo o dai Ministri nell'ultimo periodo della legislatura (nei sei mesi antecedenti alla scadenza naturale o nel mese antecedente allo scioglimento anticipato) possano essere confermate, revocate, modificate o rinnovate dal nuovo Governo entro i sei mesi successivi al voto di fiducia, decorsi i quali esse si intendono confermate fino alla naturale scadenza. Il fine della norma non è di "precarizzare" i titolari degli organi di vertice degli enti pubblici, giacch& se questa fosse stata l'intenzione, non avrebbe avuto senso limitarsi ai soli soggetti nominati nello scorcio finale della legislatura precedente. Si tratta, invece, di una clausola di garanzia contro il rischio di nomine "di comodo" eventualmente effettuate, in fine legislatura, ad opera di un esecutivo in scadenza. LA NORMA SULL"AZZEPAMENTO"

Un dibattito molto acceso è stato provocato dalla previsione di una normativa sulla cessazione automatica "una tantum" di tutti gli incarichi dirigenziali di livello generale in essere alla data di entrata in vigore della legge. Qui, soprattutto, i critici della riforma hanno visto una prova della volontà del nuovo Governo di "precarizzare" e asservire l'alta burocrazia dello Stato. Effettivamente questa norma ha determinato un qualche senso di insicurezza e di attesa in diversi dirigenti statali di livello generale. Molti dirigenti di livello generale si sono sentiti sotto valutazione ed esposti ad una decisione di conferma o non conferma per la quale erano previsti obblighi di motivazione attenuati rispetto a quelli previsti dai meccanismi ordinari. Dunque, si è trattato di una norma senz'altro delicata e sulla quale è più che legittima e comprensibile una discussione anche intensa. Si dimentica, però, che questa normativa sullo "azzeramento degli incarichi dirigenziali" è assolutamente speculare rispetto a quella adottata con discussioni molto meno accese nel 1999, con l'entrata in vigore del ruolo unico della dirigenza statale. Nel 1999, l'art. 8 del d.PR 150 previde la cessazione di tutti gli incarichi dirigenziali in essere, sia di livello generale che di base. In proposito, così si esprimeva un atto ufficiale del Governo, ossia la prima relazione sull'attuazio180


ne della riforma predisposta dall'Ufficio del ruolo unico presso il Dipartimento della Funzione pubblica: "il legislatore del d.PR n. 150/1999 ha, per così dire, azzerato tutti gli incarichi in essere alla data della nuova disciplina, mantenendo in capo ai dirigenti una mera aspettativa di proposta di incarico da parte dell'autorità politica". La circolare del Ministro della Funzione pubblica n. 7 del 5 agosto 1999 precisava che, dopo l'azzeramento, il conferimento degli incarichi ai dirigenti di seconda fascia avrebbe dovuto essere realizzato "nel rispetto delle risorse e dei criteri predeterminati dall'autorità politica". E IL SUO PRECEDENTE

• Quindi si può rilevare che, tra lo "azzeramento degli incarichi dirigenziali" del 1999 e quello di oggi vi sono tre fondamentali differenze: mentre quello di oggi è stato deciso dal Parlamento nell'esercizio della funzione legislativa e dopo lungo dibattito e discussione nelle aule, quello del 1999 fu deciso dal Governo nell'esercizio di un mero potere regolamentare. Inoltre, mentre oggi l'azzeramento degli incarichi ha riguardato soltanto i circa 440 dirigenti di livello generale dei ministeri, l'azzeramento del 1999 e le eventuali rimozioni senza nuovo incarico che potevano conseguirne riguardavano tutti i circa 4500 dirigenti di livello generale e di base dei ministeri. La terza differenza è che l'azzeramento odierno degli incarichi dirigenziali di livello generale ha un precedente. Forse, il secondo azzeramento di incarichi dirigenziali non ci sarebbe stato senza il primo. E, forse, ci sono ora le condizioni per considerare esaurita una fase di transizione che si è sviluppata in due tempi, parte nel 1999 e parte oggi, e possibile l'avvio di un periodo di maggiore stabilità per le norme. UN P0' DI CIFRE

Venendo alle cifre, si è detto e scritto che la norma sull'azzeramento degli incarichi dirigenziali avrebbe portato all'epurazione di buona parte dei dirigenti statali. Ebbene oggi si può constatare che nessuna epurazione si è verificata e che il numero delle rimozioni è stato appena di 29 fra tutti i ministeri, pari al 7% del totale; Si tratta di una cifra simile a quella delle rimozioni di dirigenti generali effettuate nel 1999 in applicazione del primo azzeramento, quando furono ri181


mossi 40 dirigenti. Allora, 29 dei dirigenti "rimossi" furono poi utilizzati con incarichi di studio, mentre 11 rimasero senza alcun incarico a disposizione del ruolo unico; oggi i29 dirigenti "rimossi" hanno ricevuto un incarico di studio annuale con pieno trattamento economico, che vale a dar loro tempo di trovare un nuovo posto di funzione. Su 387 incarichi dirigenziali di livello generale: - in 273 casi (70% circa del totale) vi è stata conferma in una funzione dirigenziale di pari livello a quella già rivestita; - in 85 casi, si sono avute assegnazioni di nuovi incarichi in corrispondenza di posizioni dirigenziali prima non coperte o rimaste scoperte; - in 29 casi (7% circa del totale) si è avuta la rimozione con assegnazione di un incarico di studio e con corresponsione, per un anno, di un trattamento economico equivalente a quello già percepito. Si tratta di dati omogenei con quelli dell'ultimo periodo della passata legislatura, quando tra il gennaio 2000 e il 31 maggio 2001 furono conferiti 262 incarichi dirigenziali di livello generale (ben 97 nei primi cinque mesi del 2001, cioè alla vigilia delle elezioni!). LALTRA FACCIA DELLA RIFORMA

Il dibattito tende spesso a concentrarsi sull'aspetto delle modalità di, attribuzione delle, funzioni ai dirigenti che è sì importante, ma assai meno di un'altra questione che, invece, rappresenta il vero nodo della riforma. Si tratta del tentativo di dare sistematicità al modo in cui gli organi di governo esercitano il potere di indirizzo politico-amministrativo, al tentativo di guidare per questa via la transizione delle pubbliche amministrazioni verso modalità operative ispirate agli obiettivi e ai risultati, al tentativo di introdurre nelle amministrazioni la cultura della misurazione dei servizi resi e della valutazione. Due anni fa, nel corso di un convegno sul tema "La riforma della dirigenza pubblica: attuazione e problemi applicativi", posi l'accento sui grave ritardo che caratterizzava questa parte della riforma. Sebbene le prime indicazioni normative in materia risalissero al 1993, assai poco era stato fatto per dare seguito al sistema delle direttive annuali dei ministri sull'attività amministrativa e sulla gestione, alla introduzione di metodi di monitoraggio e: alla elaborazione di parametri di misurazione delle attività e dei servizi amministrativi, alla valutazione delle prestazioni dei dirigenti. Ciò significava stravolgere il senso' di una importante intuizione riformatrice: significava privilegiare le

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norme suiio status del personale rispetto a quelle sui funzionamento e. sulla cultura dell'organizzazione. Ebbene, nel biennio 2001-2002, sono stati compiuti alcuni passi importanti per realizzare lo spirito della riforma del rapporto tra politica e amministrazione e della dirigenza pubblica avviate nel 1993 AtCUNI PASSI

Primo passo. Sul finire del 2001, il Presidente del Consiglio ha adottato una importante "direttiva-madre", con criteri e indicazioni di metodo a tutti i ministri per l'adozione, in avvio del 2002, delle direttive annuali sull'attività amministrativa e sulla gestione dei ministeri. Questo atto d'impulso ha, fatto sì che nel 2002, per la prima volta, quasi tutti i ministri abbiano adottato già entro marzo la direttiva annuale sulla gestione del proprio dicastero; per la prima volta, quasi tutte le direttive dei ministri non siano rimaste generiche, ma abbiano individuato obiettivi e priorità e piani di azione da realizzare; per la prima volta, quasi tutte le direttive ministeriali abbiano dettato anche parametri temporali, quantitativi e qualitativi per misurare il grado di realizzazione degli obiettivi stabiliti. Secondo passo. Nel gennaio 2002 il Dipartimento della Funzione pubblica ha lanciato un programma di assistenza tecnica per le amministrazioni non solo statali, ma anche regionali e locali, sulla introduzione e attuazione di sistemi di programmazione, pianificazione, bilancio e controllo. Si tratta delle metodologie necessarie ad accompagnare una progressiva transizione delle amministrazioni dalla cultura della mera regolarità procedurale alla cultura degli obiettivi e dei risultati. Questo programma, denominato "Governance", è stato finanziato con circa 20 milioni di Euro nel biennio 200 1-2002, è in fase di attuazione e sarà ulteriormente focalizzato e, se necessario, rifinanziato per il prossimo biennio. Terzo passo. Nella primavera del 2002 si è cominciato a pensare agli altri progressi da realizzare nei ministeri sulla programmazione degli obiettivi e di valutazione dei risultati: si è avviato un audit sulle direttive emanate dai ministri sull'attività amministrativa e sulla gestione dei rispettivi dicasteri nel 2002. Questo ha evidenziato i miglioramenti intervenuti in materia, ma ha anche messo a fuoco i molti punti deboli ancora esistenti e gli interventi correttivi necessari. Delle sue osservazioni si è fatto tesoro nella elaborazione dello schema di "direttiva-madre" per il 2003, trasmesso al Presidente del Consiglio. 183


Quarto passo. Nel 2001-2002 hanno finalmente cominciato ad operare, in alcune amministrazioni, sistemi pilota per il controllo di gestione, per la valutazione dei dirigenti e per la corresponsione ai dirigenti della retribuzione di risultato: uno dei punti di maggior ritardo nella attuazione della legislazione degli anni passati, come anche la Corte dei conti ha pi1 volte e ancora di recente denunciato. Credo che un esempio di particolare interesse sia quello offerto dalla Presidenza del Consiglio. Qui, portando a termine e perfezionando un lavoro di progettazione meritoriamente avviato nel 1999 dall'allora Segretario generale De Ioanna, è stato implementato, nel 2001, un importante sistema per il monitoraggio costante della gestione e dei flussi di spesa. E da questo anno 2002, è sperimentalmente 'applicato uno dei primi sistemi in ambito ministeriale per la valutazione annuale delle prestazioni e dei comportamenti organizzativi dei dirigenti ai fini della erogazione della quota di retribuzione legata ai risultati. IL CONTROLLO SUI RISULTATI

Se fino ad oggi la "questione dirigenza" è stata discussa soprattutto entro una contrapposizione tra stabilità e precarietà, tra neutralità e politicizzazione, tra garanzie di status e asservimento, ciò è anche dovuto al ritardo nella messa in opera dei sistemi di programmazione degli obiettivi, di misurazione dei risultati e di valutazione tecnica della gestione che la legge ayeva previsto sin dal 1993. Sono questi sistemi la premessa e la condizione indispensabile per scelte in materia di incarichi dirigenziali compiute e vissute come razionali e motivate. Quindi, nel valutare il senso della legge 145, occorre guardare sì al testo della legge, ma anche al contesto delle politiche pubbliche e delle azioni amministrative intraprese da questo Governo per l'attuazione del nuovo modello ispirato alla distinzione tra indirizzo e gestione, alla gestione per obiettivi e alla verifica dei risultati. IL CONFRONTO CON GLI ALTRI

• Nel dibattito sulla riforma della dirigenza dovremmo riferirci anche a ciò che succede oltre i nostri confini. La ricerca di un giusto equilibrio tra garanzie di status e flessibilità nella gestione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni è problema diffuso e proprio per questo il relativo di184


battito dovrebbe essere condotto nel modo più pacato e meno ideologico possibilè. Di recente, in un seminario sulle riforme amministrative in Europa, lo svizzero Frey, autore di un rapporto sulla convergenza delle politiche di gestione delle risorse umane nei Paesi Ocse, ha osservato come dappertutto il new public management ha portato con sé la almeno parziale rottura dei tradizionali sistemi di statuto e di garanzia dei pubblici dipendenti e, in particolare, dei dirigenti. Un po' ovunque, managerialità e orientamento della gestione ai risultati hanno comportato l'attribuzione, agli organi di governo, di maggiore flessibilità nella scelta dei dirigenti. E il caso embiematico non è quello del Regno Unito, bensì quello della Francia: Paese di grandi e solide tradizioni di garanzie statutarie per i dipendenti pubblici che, però, per quanto riguarda gli alti dirigenti, conosce forme di flessibilità ben più intense di quelle che noi stiamo sperimentando. Là dove i cittadini/utenti sono in grado di far valere la responsabilità politica dei propri governanti, là l'efficienza e l'efficacia dell'amministrazione e la bontà dei servizi che essa eroga assurgono al rango di obiettivo politico e, di conseguenza, anche la scelta dei dirigenti da parte degli organi di governo tende ad essere ispirata da valutazioni effettive di merito e di competenza. Invece, quando il sistema istituzionale è carente e il meccanismo della responsabilità politica si inceppa, quando il successo del governo non dipende o non risente del livello dei servizi resi alla collettività tramite l'amministrazione, lì c'è il rischio che la scelta dei dirigenti sia fatta sulla base non dei criteri della competenza e delle capacità, ma in base ad altri criteri, ivi inclusa la mera affinità politica.. Ecco, perciò, che le discussioni sulla riforma amministrativa rischiano di avere una prospettiva limitata se non raccordate con il quadro istituzionale di sfondo. Non esiste un unico, astratto punto di equilibrio fra garanzie statutane e flessibilità della dirigenza pubblica. Esiste, invece, una gamma di equilibri possibili. E la. scelta del modello di dirigenza pubblica da adottare in concreto non può non tener conto del sistema istituzionale e politico concretamente operante nel momento dato: ieri basato su un sistema elettorale proporzionale e su meccanismi fluidi di composizione delle maggioranze parlamentari e degli schieramenti di opposizione; oggi fondato su un sistema elettorale maggioritario, tendente al bipolarismo e con una più forte distinzione tra maggioranza e opposizione.

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Lucio IANNOTFA (a cura di), Economia, diritto e politica nell'amministrazione di risultato, Giappichelli Editore, Torino, 2003 L'analisi dei problemi del mondo delle amministrazioni territoriali, i modi e i mezzi per affrontarli e risolverli offerti da giuristi, economisti, aziendalisti, sociologi, politici e architetti sono raccolti ne! volume "Economia, diritto e politica nell'amministrazione di risultato" a cura di Lucio lannotta nei loro aspetti sia teorici che pratici, volume che fa parte del programma di ricercasul tema «Principi di legalità e aministrazione di risultati'>, frutto del cofinanziamento del Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e di un consorzio di università. L'amministrazione di risultato è un nuovo modello di valutazione dell'attività amministrativa basato sul principio del "buon andamento". In Costituzione si afferma il principio del buon andamento per integrare il tradizionale criterio della funzione amministrativa, come discrezionalità imparziale, con quello della discrezionalità efficiente. In questo modo la legalità resta il parametro dell'azione ma l'efficienza diviene il parametro per valutare il risultato. È, quindi, dal principio del buon andamento che discendono i tre principi di efficacia, efficienza ed economicità. Quindi, come ha 186

rubriche

Segnalazioni rilevato autorevole dottrina, dal principio di buon andamento si irradiano le tre fondamentali esigenze di funzionalità organizzativa, di soddisfacimento delle situazioni costituzionalmente garantite e di buon uso delle risorse finanziarie, intese come traduzioni costituzionali, rispettivamente, di efficienza, efficacia ed economicità. La realizzazione del buon andamento esprime il leitmotiv della riforma amministrativa degli anni Novanta. La migliore dottrina, infatti, ha fatto notare che non la mera applicazione della legge ma, più in generale, l'attività del problem solving, il dare concrete risposte alle istanze, agli input provenienti dal sistema sociale costituiscono le finalità del sistema politico in senso lato e, in particolare, delle amministrazioni pubbliche. In altri termini, i concetti di legittimità, ovvero la conformità alla legge; e di utilità ovvero la soddisfazione degli interessi generali non sono coincidenti. L'amministrazione, dunque deve tendere al raggiungimento dei risultati e il parametro di valutazione dei risultati dell'azione amministrativa è, soprattutto, quello di una buona gestione finanziaria. Partendo da un accurato studio sulle strategie di sviluppo della Pubblica Amministrazione nelle aree depresse, ma non soltanto in queste, il volume si dispiega attraverso la compiuta analisi delle fasi di piani-


ficazione, progettazione e organizzazione viste attraverso i vari settori (dall'edilizio all'ambientale, dall'ambito dei beni culturali al legale, dall'economico all'amministrativo), giungendo poi alla concretizzazione delle strategie per mezzo di partecipazioni sia del pubblico che del privato, ma senza dimenticare gli effetti prodotti al livello giuridico-legale (viene pubblicato in questo volume "Una interpretazione economica della deregolazione della PA. Il caso dei beni culturali" a cura di Amedeo di Maio). Il momento unificante è costituito dal risultato, cioè dalle conseguenze sulla Pubblica Amministrazione nell'attuale contesto sociale ed istituzionale delle decisioni e delle iniziative prese da responsabili di rilievo sociale sia nel pubblico che nel privato. Il volume espone con chiarezza un'ipotesi di modello giuridico di Amministrazione che si evolva in modo tale da poter offrire esaurienti risposte di efficacia, di economicità, di trasparenza e di giustizia.

Il consumatore attivo. "Istruzioni per l'uso dei servizi pubblici e strumenti di tutela dei diritti' Editori Riuniti, Roma 2003

GIUSTINO TRINCIA,

Più volte, su queste istituzioni, abbiamo voluto delineare il ruolo del fruitore dei servizi pubblici, collocandolo come fondamentale vertice di quel rapporto autenticamente triangolare con pubbliche amministrazioni e imprese (pubbliche, "miste", private, non profit). Il cittadino, il consumatore, il "cliente" dei servizi pubblici non si delinea più nei termini classici di "amministrato" ma è, al contempo, fruitore del servizio e soggetto responsabile di una mi-

gliore gestione ed erogazione dello stesso. Come ha descritto efficacemente Bernardo Pizzetti nel numero 124 di queste istituzioni, è la "voce nascente" dei cittadini consumatori a costituire parametro fondamentale per un miglioramento continuo della qualità del servizio reso. Sono, quindi, le associazioni deì consumatori le prime casse di risonanza di tale voce, prima molto "flebile" ed oggi sempre più autorevole nel dibattito sulla produzione di servizi pubblici. Giustino Trincia, vicesegretario generale di Cittadinanzattiva, uno dei principali movimenti a tutela dei diritti dei cittadini e dei consumatori, ha pubblicato per Editori Riuniti "Il consumatore attivo". Il testo si presenta come una guida dettagliata, anche se esposta in modo agile e accattivante, ai diversi servizi pubblici. Una guida che - grazie alla sintesi delle principali normative, ad esempi di carte di servizio, a un glossario di termini utili e ad alcuni moduli da utilizzare all'occorrenza - vuole aiutare il cittadino ad orientarsi nel mondo dei trasporti, delle telecomunicazioni, della pubblica amministrazione, dei servizi postali e bancari, dei servizi idrici, elettrici e del gas. Un libro che fornisce non soltanto le informazioni e gli strumenti utili per rendere più tutelabili i diritti dei cittadini, ma che, soprattutto, vuole indicare nuovi spazi di partecipazione civica per chi utilizza i servizi pubblici. Un'ottica profondamente diversa da quella conflittuale alla quale le cronache giornalistiche ci abituano. Non è un manuale di difesa dell'utente, ma un mezzo per conoscere i meccanismi di fondo e le procedure attraverso le quali vengono prodotti ed erogati i servizi fondamentali. A questo punto, il "consumatore atti187


o vo" è finalmente "corresponsabile" della migliore qualità dei servizi e della tutela dell'interesse generale. Del volume, ci sono apparse particolarmente innovative e interessanti la Terza parte, dedicata ai cittadini come partner delle pubbliche amministrazioni per il monitoraggio della qualità dei servizi, e la Quarta parte, la quale colloca in modo molto interessante il fenomeno dei servizi pubblici in una prospettiva europea, chiarendo con efficacia lo scenario di procedure e diritti certi che le imprese egli enti italiani dovranno mantenere come orientamento della propria missione, al tempo stesso pubblica e imprenditoriale.

Roma contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 520

VITToRIo VIDOTTO,

Il libro di Vittorio Vidotto presenta una storia politica e sociale di Roma - a partire da una descrizione della capitale pontificia alla vigilia del 1870 e concludendo con un bilancio del giubileo del 2000e dei risultati della giunta di Francesco Rutelli alla fine del XX secolo - con un approccio particolare. La ricostruzione viene svolta prendendo in considerazione diverse dimensioni della storia delle città (dalla politica all'urbanistica, all'economia, alla vita sociale e culturale) e utilizzando diverse metodologie di ricerca,mettendo in rilievo ciò che vengono definite le "emergenze": determinati fenomeni, eventi e personaggi che hanno caratterizzato un periodo storico. Da questa chiave di lettura ne consegue una struttura espositiva che mescola la scrittura dell'analisi storica con la scrittura letteraria del racconto, (anche molto in 188

dettaglio) di un avvenimento e di un profilo psicologico; ne emerge una sorta di mosaico dal quale si evince chiaramente il supporto di una notevole documentazione. Vidotto mostra la centralità delle "flinzioni simboliche" nella storia di Roma, evidenziandone gli elementi caratterizzanti e i relativi cambiamenti. L'analisi "dell'appropriazione simbolica dei luoghi e delle memorie" viene svolta contestualizzando la costruzione dei nuovi paesaggi urbani nel quadro dei cambiamenti politici e sociali. Un approccio fondamentale per comprendere alcuni sviluppi della vita urbana, soprattutto come in questo caso quando si parla di una città capitale di stato della capitale. I nodi del dibattito storiografico su Roma sono affrontati in un'ottica nuova: rispetto ad autori quali Antonio Cederna e Italo Insolera, che puntavano il dito, fra l'altro, sulle incapacità della pubblica amministrazione e sulla speculazione edilizia, l'Autore di "Roma contemporanea" legge in modo diverso, per esempio, lo sviluppo economico, che non misura soltanto dal punto di vista dell'industrializzazione; così come la speculazione edilizia viene rivista dal lato delle necessità di una popolazione in crescita. Le considerazioni di Vidotto rivedono, quindi, l'immagine di una capitale "incompiuta", preda di speculazioni imprenditoriali e di politici ambiziosi. Ma, al di là delle letture, più o meno, "ideologiche", il merito del volume va indubbiamente, - oltre che alla scrittura avvincente e alla mole di fatti raccontati -, all'aver utilizzato un'analisi "multidimensionale" per narrare una città che è (e metropoli come quella romana lo fanno dimenticare spesso), fondamentalmente anche una comunità di persone.


Il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali oltre le leggi, per accompagnare le trasformazioni delLa comunità locale. Il CSS è un'assòciazione con personalità giuridica - ONLUS. Fondata nel dicembre 1973, con l'appoggio della Fondazione Adriano Olivetti, ha raccolto l'eredità del Comitato per le Scienze Politiche e Sociali (Co.S.Po.S.), che svolse a suo tempo, o dellaondazione Ford e della stessa• negli anni Sessanta, grazie a un finanziament T Fondazione Olivetti, un ruolo fondamentale nella crescita delle scienze sociali italiane. Le finalità che né ispirano l'azione sono: • contribuire allo sviluppo delle scienze sociali in Italia, ed in particolare promupvere il lavoro interdisciplinare; • incoraggiare ricerche finalizzate allo studio deiprincipali problemi della società contemporanea; • sensibilizzare i centri di decisione pubblici e privati, affinché tengano maggiormente conto delle conoscenze prodotte dalle scienze sociali per rendere le loro scelte consapevoli, razionali e più efficaci. Il CSS rappresenta un forum indipendente di riflessione che, con le sue iniziative, vuole offrire meditati contributi all'analisi e alla soluzione dei grandi problemi della nostra società. A tal fine il CSS associa ai propri progetti anche studiosi ed esperti esterni e può contare su una rete di contatti e di collaborazioni in tutti i principali centri di ricerca e di policy studies europei. Attualmente operano 4 commissioni di studio sui seguenti temi: fondazioni italiane; sviluppo locale in Italia; relazioni intergenerazionali; valutazione dell'attività di ricerca. Da ricordare l'attività di ricerca di Etnobarometro sulle minoranze etniche in Europa. Presidente: SERGIO RISTUCCIA Vice Presidente: ARNALDO BAGNASCO Comitato Direttivo: SERGIO RISTUCCIA (Presidente), PIERO AMERIO, PIERO BAssETTi, GIOvANNI BECHELLONI, Miuo CACIAGLI, ANTONIO DI MAJO, CLOTILDE PONTE-

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