Queste istituzioni 124

Anno XXVIII - n. 124 - trimestrale - ottobre/dicembre 2001 in abb, poa1 - 4 °Ït. arr. 2 ccmma 20/R

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Pensieri inquieti di inizio secolo Oltre l'Euro Valutazione delle politiche pubbliche

queste istituzioNi )O(VIlt n. 12412001 Direttore: SERGIO RISTUCCIA c'ondirttore: ANTONIO DI MAJO Redattore capo. SA\'ERIA ADDOTTA Comitato di redazione: FABIO Blscorrl, ROSALISA CORI, FRANCESCA DI LASCIO, ALESSANDRO HINNA,

Anno

EMANUELE LI PUMA, GIORGIO PAGANO, ELISABETTA PEZZI, MASSIMO RIBAUDO, CRISTIANO A. RISTUCCIA, GEMMA SASSO, ANDREA SPADETI-A

collaboratori: ARNALDO BAGNASCO, ADoLFo BATTAGLIA, GIOVANNI BECHELLONI, GIuSEPI'E BERTA, GIANFRANCO BETTIN LATTES, OSVALDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVID B0GI, GIROLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABBA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, MARCO CIMINI, GIu5EPI'E COGLIANDRO, MASSIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALBERGO, MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BIwNO DENTE, ANGELA DI GIEGORIO, CARLO D'ORTA, SERGIO FABISRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO EDOARDO FROSINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLO, SILVI0 GAMBINO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERTO LACAVA, SINIONA LA ROCCA, GIAMPAOLO LADU, SERGIO LARICCIA, GIANNI LIMA, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAI0RIN0, GIANIPAOLO MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MIELI, ELINOR OsTION1, VINCENT OSTIAO1, ALESSANDRO PALANZA, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIzzETTI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI P0SANI, GUIDO MARIO REY, GIANNI RIOrrA, MARCELLO RO1EI, FRANCESCA RoSSI, FABIUzIO SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI, STEFANO SEPE, UMBERTO SERAFINI, FRANCESCO SID0TI, ALESSANL3RO SILJ, FEDERICO SPANTIGATI, VINCENZO SPAZIANTE, PIERO STEFANI, DAVID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE TERESI, VALERIA TERMINI, TIZIANO TERZANI, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZAMPINI, ANDREA Z0PI'INI

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Responsabile: GIOVANNI BECH ELLONI Editore: QUES.I.RE srI QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE

ISSN 1121-3353 Stampa: K-Print - Roma Chiuso in tpografia il 15febbraio 2002 In copertina: elaborazione a cura di Jnrealma

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Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana

14.847 (12

dicembre

1972)

N. 124 2001

Indice

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III

Pensieri inquieti di inizio secolo Taccuino

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La Corte Penale Internazionale Gianiuca Polverari

9

Per una Cultura di Europa. Il ruolo delle Fondazioni Rùdiger Stephan

19

Contrordine: si torna agli enti pubblici Sergio Ristuccia

30

Cittadini europei e politica dei trasporti Francesca Di Lascio

40

L'E-government come problema editoriale Massimo Ribaudo

48

•

Flessibili e tartassati •• Giuseppe Berta

Oltre l'Euro

55

La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea Luca Albino I

74

La Banca d'Inghilterra tra sovranitĂ nazionale e moneta unica europea Hadrian Simonetti

Valutazione delle politiche pubbliche 115

La valutazione democratica delle decisioni pubbliche Beatrice Floc'hlay e Eric Plottu

133

Urban Centers e pdlitiche delle cittĂ Valeria Giannella

Rubriche 151

Notizie da...

156

Segnalazioni

I'

editoriale

Pensieri inquieti di inizio secolo

Dopo gli eventi del 2001 sul piano internazionale e nazionale c'è il bisogno di mettere in ordine impressioni, giudizi, preoccupazioni. Ma non è possibile dar fondo a questi pensieri in un editoriale. Fermiamoci, brevemente, su due punti rilevanti per i campi di maggior interesse per la rivista.

Fare leggi Sarà certo necessario fare approfondite riflessioni su come prosegue la vicenda politica italiana alla ricerca di una qualche normalità dell'alternanza. Ma forse occorre prendere un po' di tempo. Queste riflessioni possono essere rinviate cercando di considerare lo sviluppo delle cose a quando sarà compiuto almeno un anno dalle elezioni del 13 maggio che hanno dato origine ad un'ampia maggioranza in Parlamento.

Una notazione, tuttavia, è subito necessaria qui, richiamando una forte convinzione spesso espressa su queste pagine: che si sta confermando un'ossessione radicata del sistema politico, quella di ritenere che realizzare le piattaforme elettorali o pii genericamente quel tanto di linea politica che si propone al Paese significhi, innanzitutto, fare leggi nuove. Non invece governare le leggi esistenti, intenderne la portata reale e le potenzialità non evidenti, sottoporle à diversa lettura, ripristinare le responsabilità di un governare e amministrare non dipendente dal fare e rifare leggi. Così sta avvenendo che al fiume legislativo di questi ultimi anni, si è aggiunta e si sta aggiungendo senza verificata necessità (chi veramente studia effetti, portata reale e potenziale delle leggi prima di cambiare quelle esistenti?) un'ondata di altra legislazione anche in campi, come quelli per esempio delle opere pubbliche dove, dopo tante edizioni della cosiddetta "legge Merloni", il vero problema era quello di una sperimentazione fondata sulla lettura intelligente ed aperta dei nuovi istituti normativi. I risultati di tutto ciò saranno ben diversi da quelli attesi dai promotori, talvolta con qualche spirito diIII

lettantesco. Promotori ignari, fra l'altro, di quanto sia importante - come suggerisce un saggio pubblicato in questo numero - la messa a punto ex ante di una politica pubblica che non voglia ritrovarsi dissensi ostativi in fase di attuazione. Il saggio di Floc'hlay e Plottu è da raccomandare a decisori vecchi e nuovi di politiche pubbliche.

Di tutto ciò e di altri inquietanti pensieri riguardanti il fare leggi (quelli, per esempio, sulle leggi di interesse stretto dei governanti) dovremo dunque riparlare.

Lotta al terrorismo e Corte Penale Internazionale Ma veniamo alle questioni inquietanti sollevate dagli eventi del 2001. L'incredibile assalto e distruzione delle Twin Towers di New York, l'il settembre, è stato lo shock colossale che è stato. L'opaca sensibilità del mondo del benessere ha dovuto prendere coscienza della sua sostanziale esposizione all'imprevisto peggiore, cioè della sua grande fragilità. Le minacce del terrorismo internazionale sono risultate sottovalutate, consegnate com'erano all'immaginario cinematografico di Hollywood.

Ma anche e soprattutto si è dovuta chiedere, la coscienza pubblica americana (e più in generale occidentale): perché ci odiano tanto? NationalJournal, il settimanale del mondo politico washingtoniano, ha dedicato gran parte del numero del 29 settembre alla domanda Why They Nate Us? Lo ha fatto con grande freddezza.

Ne viene un quadro abbastanza complesso e rigoroso di dati, rilievi storici, esigenze politiche trascurate, prospettive difficili. Risulta che molta attenzione è stata dedicata da alcuni centri di ricerca alle opinioni ed atteggiamenti delle popolazioni islamiche nel mondo verso gli Americani. Che non sono sempre necessariamente anti-americani, convivendo spesso con una forte ammirazione per il popolo e la società americana. Ma che questa consapevolezza non abbia ispirato alcuna politica risulta con grande evidenza se negli ultimi Otto anni gli Stati Uniti hanno speso "only $300 million in democracy-building" nell'area, per esempio, del Medioriente, di rilievo così drammaticamente strategico. Così, si può pensare che l'americanizzazione come effetto della globalizzazione economica sia stata lasciata andare come un fenomeno puramente naturale indotto, senza adeguata assunzione di responsabilità verso le popolazioni del mondo e la grande frattura NordSud creata anche dall'asimmetria della crescita demografica (sempre più ipocritamente sotto silenzio). Il grande boom dell'economia americana nell'epoca di Clinton è stato accompagnato da una sostanziale falsa coscienza degli effetti indotti nel mondo. A parte alcuni volenterosi tentativi di Clinton nel Medioriente.

Quando alla "Presidenza Imperiale" (quest'espressione è stata già usata tanti anIv

ni fa, come titolo di un suo libro, dallo storico Arthur Schlesinger jr., che fu assistente di John F. Kennedy) è assurto un cultore attivo della forza militare degli Stati Uniti il terrorismo trova la possibilità di colpire i due aspetti della potenza egemonica, quello economico e quello militare. Nei suoi simboli più vistosi: le Torri e il Pentagono. È un nesso che è difficile dimostrare ma che suscita inquietanti domande.

Nella loro impresa catastrofica i terroristi riescono "a fare della loro stessa morte un'arma assoluta contro un sistema che vive dell'esclusione della morte, che ha eretto a ideale l'azzeramento della morte" (è un'osservazione efficace di Jean Baudrillard in un saggio sullo "spirito del terrorismo" che, in complesso, non colpisce né convince - Raffaello Cortina Editore, 2002). Cioè, colgono il lato debole del mondo occidentale gettandolo nell'angoscia. Con l'effetto però di suscitare - nella necessità di difendersi e reagire - il bisogno di rimedi estremi e immediati.

Un'avvertenza importante era emersa fra gli interventi pubblicati nel numero citato di NationalJournal: sarebbe un grande errore pensare soltanto in termini di breve termine le risposte al terrorismo, piuttosto che in termini di politiche di lungo periodo, ben intendendo cause e fenomeni (Richard Rubenstein), tanto più che gli attacchi terroristici di Settembre sono, guardando alla sostanza, "difensivi" nel senso almeno che fanno parte del tentativo di difendere un modo di vivere nonché dei territori sacri che si dicono violati dagli americani (Jayne Docherty). La risposta della guerra, per giusta che essa possa essere e per efficace che possa risultare, si iscrive in una logica di breve termine e rischia di essere soltanto il "prolungamento dell'assenza di politica con altri mezzi" (come dice Baudrillard usando all'incontrano la famosa frase di Von Clausevitz sulla guerra come prolungamento della politica con altri mezzi).

Segno di questa logica di breve periodo sono i provvedimenti adottati dall'Amministrazione Bush sul piano giudiziario.

Innanzitutto, la detenzione a tempo indeterminato di stranieri sospetti di essere impegnati in attività che danneggino la sicurezza nazionale degli stati Uniti e altre misure connesse che sono una vera sospensione dell'habeas corpus, cioè il diritto fondamentale di andare davanti al giudice naturale. Commentava il NationalJournal: "se qualche elemento del provvedimento anti-terrorismo deve essere attuato rapidamente, così sia. Ma poi facciamolo subito tramontare".

In secondo luogo, viene l"Ordine del Presidente" di far giudicare da tribunali militari i prigionieri catturati in Afganistan e gli altri stranieri arrestati perché accusati di terrorismo. Anyeh Neier, presidente dell'Open Society Institute, nota V

su The New York Review ofBooks (14 febbraio) che il dibattito è stato intenso e che, seppure in contesto di grande favore popolare per il Presidente, è stato possibile spingere lui e la sua amministrazione a ridimensionare le misure adottate.

Anche in ragione del fatto - come diceva Clemenceau - che "la giustizia militare sta alla giustizia come la musica militare sta alla musica".

Ma non è dei dettagli di questo "Ordine" presidenziale che ci possiamo qui occupare, né di come è stato smussato. Interessano molto gli aspetti che influiscono sulla cooperazione fra nazioni e sulla necessità di un'ampia condivisione internazionale dei valori in gioco da far valere nella lotta al terrorismo. Ha ragione Neier nel dire che, almeno per tre ragioni, non è una buona idea quella dei tribunali militari.

La prima: difficilmente i Paesi legati alla Convenzione Europea sui Diritti Umani (sono quarantatre quelli aderenti) possono concedere l'estradizione di detenuti per essere giudicati da tribunali militari. Con la conseguenza che molti dei detenuti, malgrado siano colpevoli, non possono essere riconosciuti tali data la frammentazione delle inchieste che vengono private della catena delle evidenze relative a crimini commessi negli USA. La seconda: i verdetti devono essere, per quanto possibili, credibili e convincenti per tutta l'opinione pubblica anche quella del mondo islamico. Affinché il terrorismo sia unanimemente condannato. Difficilmente sarà possibile ottenere questo risultato attraverso verdetti di tribunali militari.

La terza: non bisogna erodere l'efficacia della difesa dei diritti umani che spesso gli Stati Uniti si sono assunti sul piano internazionale. Certo, si può anche comprendere, nel momento presente, quel che afferma il Presidente Bush: "noi non dobbiamo consentire che i nostri nemici usino i fori della libertà per distruggere la libertà stessa". Ma è bene ricordare che il giusto processo serve, innanzitutto, ad accertare quali sono i colpevoli per punirli come è necessario. In modo ineccepibile e rigoroso.

Di fronte a questi problemi, e dopo gli eventi del Settembre 2001 e all'angoscia collettiva dello scatenarsi improvviso di nuovo terrorismo, s'intende che la lotta e il lavoro da svolgere sono duri e di lunga lena.

Escludere, però, dagli strumenti di questa lotta un sistema di giustizia internazionale come fino ad ora hanno fatto - in ciò in piena continuità - le presidenze imperiali di Clinton e Bush arrivando con quest'ultimo ai tribunali militari significa - a parte le giustificazioni dell'emergenza - una rinuncia alle ragioni morali più alte della civiltà occidentale.

Sarà ben difficile stabilire e rendere efficace quel sistema di giustizia internazionale, ma questo dev'essere un grande obiettivo di riferimento per tutti.

taccuino

La Corte Penale Internazionale.

Una scommessa da vincere di Gianiuca Po/verari

J

1 sistema di tutela ed attuazione dei diritti umani fondamentali si basa su di una complessa rete di strumenti normativi a carattere internazionale, alcuni operanti nel solco istituzionale delle Nazioni Unite, come i Patti internazionali sui diritti civili e politici e su quelli economico-sociali, altri aventi carattere regionale, come la Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti umani fondamentali, il Patto di San José di Costa Rica o la Carta Africana dei diritti dell'uomo e dei popoli. In dottrina si è andato affermando il carattere cogente, ossia inderogabile dei diritti umani universalmente affermati, ma nel diritto internazionale ogni elemento considerato giuridicamente vincolante trova un limite invalicabile nella sovranità dei singoli Stati, ovvero nella necessità della piena approvazione da parte della legislazioni nazionali. Questa difficoltà oggettiva del diritto internazionale ad esercitare "imperio" sulla moltitudine degli esseri umani, che ne rivela poi l'intrinseca debolezza, vale ancora di più con riferimento ai diritti umani, laddove la salvaguardia della dignità di ogni individuo, oltre che essere in gran parte condizionata e relativizzata dalle tradizioni e dalle culture giuridiche di ogni Paese, ha nei disposti delle legislazioni nazionali un limite pressoché assolufo: solo il recepimento da parte di un ordinamento nazionale del contenuto e dei principi dei trattati e delle convenzioni internazionali garantisce la piena applicabilità dei diritti in essi affermati e la loro salvaguardia.

* L'Autore è Coadiutore presso la Commissione Straordiraria per i Diritti Umani, istituita presso il Senato

L'idea di istituire una Corte Penale Internazionale Permanente nasce proprio dalla volontà di completare il sistema internazionale di difesa e di garanzia dei diritti umani universalmente riconosciuti attraverso uno strumento di giustizia complementare alle magistrature nazionali, in grado di esercitare un proprio potere giurisdizionale sulle sole persone fisiche per crimini gravi di portata internazionale come il genocidio, i crimini contro l'umanità e di guerra, fattispecie penali di cui in questo modo si ribadisce la valenza internazionale. Uno strumento, dunque che, pur non sottraendosi alla debolezza oggettiva del diritto internazionale, giacché per operare richiede l'approvazione esplicita dei singoli ordinamenti statuali, tuttavia apre una breccia fondamentale nelle rigide impalcature giuridiche nazionali, innovandone in profondità le dinamiche relazionali, confermando la supremaiia dei principi universalistici alla base delle Nazioni Unite e dando corso al principio della responsabilità planetaria e della perseguibilità dei crimini più orrendi.

L'idea di istituire, in concreto, un organismo internazionale idoneo a giudicare sui crimini commessi nel periodo bellico, suggerita cammino per per la prima volta dallo svizzero Gustav Moynier nel 1870 alla fine la sua del conflitto franco-prussiano, deve esser fatta risalire al termine istituzione della prima guerra mondiale; un'apposita Commissione di inchiesta operante in seno alla Conferenza di Parigi del 1919 ed il successivo Trattato di Versailles, imputarono alla Germania ed ai suoi alleati la responsabilità oggettiva del conflitto e mossero l'accusa all'imperatore Guglielmo Il di aver offeso la morale internazionale ed attentato all'autorità dei trattati. Il tribunale ad hoc incaricato di formulare il giudizio secòndo il disposto del Trattato, non venne in realtà mai realizzato ed i processi a carico degli indiziati furono trasferiti alle corti tedesche, mentre l'imperatore, rifugiatosi in Olanda, si sottrasse risolutamente a qualsiasi ipotesi processuale.

Nel corso degli anni Trenta, dopo la sanguinosa catena di attentati terroristici, di matrice eminentemente croata, perpetrata ai danni di importanti personalità politiche come il ministro degli esteri francese Barthou ed il sovrano jugoslavo Alessandro, una convenzione internazionale - peraltro mai ratificata - previde la possibilità di istituire una Corte penale internazionale nell'ambito della Società delle Nazioni.

2

Ma fu soio la seconda guerra mondiale, con il suo carico di orrore e di morte, a rendere possibile l'istituzione di due tribunali internazionali speciali, a Norimberga (1945) ed a Tokyo (1946), atti a giudicare i gerarchi tedeschi e quelli giapponesi per i loro crimini. Malgrado le perplessità giuridiche suscitate dalle attività processuali delle due corti, lesive dei principi della irretroattività della norma penale e di quello della imparzialità dei giudici, esse consentirono una più adeguata formulazione delle fattispecie dei crimina iuris gentium, dei crimini appunto di guerra, contro l'umanità e del genocidio, e posero in concreto il principio della perseguibilità, al di là della rete di protezione rappresentata da qualsivoglia giurisdizione nazionale, di questi aberranti reati.

La formulazione, nel secondo dopoguerra, di una normativa a carattere internazionale di tutela dei diritti umani fondamentali, che ebbe nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948 il suo primo documento non vincolante, indusse le Nazioni Unite a rilanciare di nuovo il progetto di un tribunale internazionale. Un primo tentativo venne compiuto contestualmente all'adozione della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio (risoluzione 260 del 9 dicembre 1948); l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite incaricò nella circostanza la Commissione di Diritto Internazionale (International Law Commitee - ILC) di valutare la possibilità di istituire un organo giudiziario internazionale atto a giudicare persone accusate di genocidio. Una bozza di Statuto, elaborata da un apposito comitato, venne in effetti presentata all'Assemblea Generale nel 1951 e, dopo opportune modifiche, nuovamente nel 1953; ma il mutato contesto geopolitico, nonché le oggettive difficoltà nel definire sul piano giuridico il crimine di aggressione, non ne permisero in alcun modo l'adozione.

La contrapposizione planetaria tra Stati Uniti ed Unione Sovietica ed il clima di "guerra fredda" imposto alle relazioni internazionali per più di quarant'anni, impedirono qualsiasi ulteriore passo in questa direzione, fino agli inizi degli anni Novanta, quando la fine dell'equilibrio bipolare e la ripresa dei conflitti interetnici e dei genocidi di massa, ne hanno drammaticamente rilanciato l'urgenza.

L'istituzione, da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni i Tribunali Unite, del Tribunale internazionale per i crimini commessi nei ter- ad hoc 3

ritori della ex Jugoslavia (risoluzione 808 del 22.2.1993) e del Tribunale per i crimini commessi in Ruanda (risoluzione 955 dell'8.1 1.1994) ha risposto in primo luogo all'ansia di giustizia e diverità dell'opinione pubblica internazionale, sconvolta di fronte al perpetrarsi di nuove, orrende carneficine, ma ha anche voluto riaffermare una concezione civile della responsabilità giuridica, individuale e non collettiva, ponendosi l'obiettivo della punizione dei colpevoli dei singoli episodi criminali che scongiurasse il rischio di una condanna indiscriminata di tutti i membri di una determinata componente etnica. Gli Statuti e le regole procedurali dei due Tribunali ad hoc garantiscono il rispetto dei pit elevati standard del diritto internazionale dei diritti umani in merito alle garanzie di difesa ed ai requisiti di imparzialità ed equità del processo, assicurando al contempo indipendenza e piena libertà d'esercizio dell'azione penale al procuratore.

Il vero limite delle due corti è rappresentato dal fatto che esse non Un dispongono di propri strumenti coercitivi per la cattura degli indi- precedente ziati e per lo svolgimento delle necessarie indagini giudiziarie, do- importante vendosi in larga parte avvalere della cooperazione degli Stati coinvolti, spesso carente se non addirittura volutamente inesistente. La consegna al Tribunale dell'Aja di un ex capo di Stato come Slobodan Milosevic, maturata indubbiamente in circostanze eccezionali ed ancora oggi ritenuta "illegale ed incostituzionale" dal presidente jugoslavo Vojislav Kostunica, nonché le sue recenti imputazioni per crimini contro l'umanità, di guerra e per genocidio in relazione ai conflitti con la Croazia, in Bosnia-Erzegovina ed in Kosovo, rappresentano la riprova che questi strumenti giuridici sono ben lungi dall'essere un mero, astratto esercizio di legislazione penale internazionale, ma un precedente fondamentale verso la faticosa costruzione di un sistema di regole universalmente accettato e garantito, in grado di porsi come strumento di deterrenza e di sanzione dei peggiori atti contro l'umanità e capace di combattere l'impunità anche ai più alti livelli.

I dubbi e le polemiche di natura giuridica espressi in merito alla istituzione dei due tribunali ad hoc, non hanno infatti impedito a queste esperienze di esercitare un forte impulso per la creazione di una Corte penale internazionale permanente, pattiziamente fondata 2

e dotata di competenza generale in materia di genocidio, crimini di guerra e contro l'umanità. Il cammino per la sua istituzione, avviato nel 1994 con una risoluzione dell'Assemblea Generale dell'ONu (49/53 del 9.12.1994), si è poi concluso a Roma il 17 luglio 1998 con l'approvazione dello Statuto della Corte penale internazionale da parte di un'apposita e laboriosissima conferenza diplomatica delle Nazioni Unite, cui hanno partecipato delegazioni in rappresentanza di 160 Paesi.

Lo Statuto, che si compone di 128 articoli, è lo strumento nor- Le garanzie mativo primario volto a disciplinare le finalità, la struttura ed il che potrà funzionamento della Corte, ed individua i principi base per l'eserci- offrire la zio dell'attività giurisdizionale, l'indipendenza dei giudici, la coope- nuova Corte razione della Corte con gli Stati, i presupposti normativi della nuova funzione giudiziaria internazionale, e l'automaticità della giurisdizione stessa.

La Corte, una volta entrato in vigore il Trattato istitutivo, avrà sede a l'Aja, in Olanda, e sarà formata da 18 giudici, eletti per nove anni e scelti fra i candidati di diversi Paesi secondo un criterio di equa rappresentanza dei vari sistemi giuridici, dei sessi e delle differenti aree geografiche. Avrà competenza inizialmente sui cosiddetti core-crimes il genocidio, che contempla omicidi, causazione di gravi danni fisici o mentali, imposizioni di limitazioni delle nascite, trasferimento forzato di bambini, atti commessi con l'intento di distruggere anche solo parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso; i crimini contro l'umanità, ovvero azioni criminali estese e sistematiche a danno di intere popolazioni civili, quali assassinii, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazioni o trasferimenti coatti, tortura, sparizioni forzate, segregazioni razziali, stupri, schiavitù sessuali, costrizione alla prostituzione o alla sterilizzazione, gravidanze forzate; crimini di guerra, già individuati dalla Convezione di Ginevra del 1949 e dalle regole ed usi dei conflitti armati ed estesi anche ai conflitti interni ai singoli Paesi, quali gli attacchi volontari contro civili, personale umanitario, ospedali, edifici storici, religiosi, artistici, l'arruolamento di minori sotto i 15 anni, la presa di ostaggi, le mutilazioni o gli esperimenti cImici sui prigionieri, l'uso di veleni e di sostanze asfissianti. Fondamentale importanza riveste poi il principio della giurisdizione universale del Tribunale, accettato con limitazioni che tuttavia non ne invalidano il 5

contenuto essenziale; la Corte avrà infatti giurisdizione universale se agirà su richiesta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sarà competente per tutte quelle fattispecie penalmente rilevanti commesse da cittadini degli Stati che abbiano aderito allo Statuto o commesse sul territorio di uno Stato aderente o che abbia accettato la giurisdizione della Corte stessa.

I limiti del nuovo istituto - che hanno indotto alcune organizza- I limiti della zioni non governative di difesa dei diritti umani a manifestare una sua azione certa insoddisfazione per il profilo dello Statuto così come approvato dalla Conferenza di Roma - devono, ancora una volta, essere rintracciati nella complementarità della sua azione penale rispetto a quella delle giurisdizioni dei singoli Stati: la Corte potrà, cioè, procedere per i crimini di sua competenza solo se le giurisdizioni primarie nazionali non lo abbiano fatto, abbiano proceduto in modo negligente o non siano in condizioni di poter procedere. Indispensabile, a tal fine, è anche la collaborazione da parte dei singoli ordinamenti nazionali all'attività processuale della Corte, sia nella fase istruttoria - non è tra l'altro prevista la possibilità di un processo in contumacia - che in quella della decisione. Lo Statuto della Corte esclude poi la possibilità di un doppio giudizio, salva l'eventualità che l'azione processuale esercitata dalla giurisdizione nazionale non si sia svolta in modo indipendente o imparziale e nel rispetto della normativa internazionale. Altro limite oggettivo all'esercizio dell'azione penale da parte della Corte è la non perseguibilità per i cittadini di uno Stato che non abbia aderito al trattato istitutivo e per quei casi in cui non vi sia l'espresso consenso da parte dello Stato sul cui territorio sia stato commesso il crimine. Ulteriori ostacoli all'azione della Corte sono, infine, rappresentati dalla contestata clausola opt-out che consente ad uno Stato; al momento della ratifica, di escludere per un periodo di sette anni la giurisdizione della Corte su reati commessi sul suo territorio o da un suo cittadino, nonché dalla facoltà attribuita al Consiglio di Sicurezza dell'ONu di chiedere più volte la sospensione dell'azione penale a carico di un imputato per il periodo di un anno.

Ma al di là dei reali limiti di operatività che la Corte incontrerà Una novità nel suo cammino, frutto del faticoso compromesso raggiunto nella di portata conferenza di Roma ed attribuibili alla ritrosia degli Stati nazionali storica 6

ad accettare una ulteriore limitazione della propria sovranità, la portata storica della sua fondazione è innegabile; con essa viene reso "giustiziabile" il diritto internazionale dei diritti umani ed affermata la preminenza del diritto sulla pura logica di potenza, anche nel complesso ambito delle relazioni internazionali. La speranza è che la sua istituzione possa poi costituire un deterrente alla commissione di nuovi, ulteriori crimini contro l'umanità, scongiurando il rischio che novelli Pinochet, PoI Pot, Bokassa, Karadzic o Mobutu solo per citarne alcuni - restino impuniti o non vengano almeno chiamati a rispondere delle loro azioni al cospetto di giudici indipendenti e nel corso di processi equi ed imparziali.

Al momento, 139 Paesi hanno già sottoscritto il trattato istitutivo del nuovo organo di giustizia internazionale, e tra essi, dopo una iniziale diffidenza, anche gli Stati Uniti, la Russia ed Israele; 52, tra cui l'Italia, lo hanno già ratificato. Lo Statuto ha stabilito la soglia di 60 ratifiche per la sua definitiva entrata in vigore; l'auspicio è che ciò possa avvenire in tempi brevi e che quegli Stati che finora non lo hanno siglato, tra cui l'Afghanistan, la Cina, il Pakistan, l'India, anche alla luce della disastrosa crisi internazionale che il pianeta sta attualmente vivendo, decidano risolutamente di farlo, contribuendo in questo modo a consolidare la cultura del diritto e del rispetto della dignità umana nei rapporti fra le Nazioni.

Il nodo dolente è rappresentato, ancora una volta, dalla scarsa vo- Un percorso lontà politica dei Paesi più influenti di rendere pienamente operati- ad ostacoli vo il Tribunale penale internazionale e di riconoscerne l'autorità; l'attuale amministrazione statunitense ha, per esempio, proprio in questi giorni reso nota la sua intenzione di non dare corso alla ratifica del trattato istitutivo, sottoscritto dal precedente esecutivo nel dicembre del 2000, mentre la Repubblica Popolare Cinese, da parte sua, non ha ancora compiuto passi significativi per la sua sottoscrizione. Eppure i segnali politici in questa direzione non sono del tutto univoci e non devono necessariamente indurre al pessimismo: dopo gli attentati terroristici dell'il settembre, attente riflessioni sulla necessità di dotare la comunità internazionale di strumenti più idonei a fronteggiare le nuove sfide del pianeta hanno individuato proprio in una Corte indipendente e sovranazionale un tassello indispensabile per garantire maggiori condizioni di pace, equità e giu-

stizia nelle relazioni internazionali; da allora ben 8 Paesi hanno portato a termine il processo di ratifica dello Statuto, e tra essi il Regno Unito che pure aveva manifestato dubbi e resistenze.

Il percorso per la piena operatività della istituenda Corte Penale Internazionale Permanente, è dunque ancora lontano dall'essersi concluso, ma il portato giuridico e la sfida culturale e politica che essa rappresenta sono un patrimonio ed una conquista ormai davvero irrinunciabili, per quell'umanità sofferente ancora oggi troppo spesso vittima indifesa delle violenze e delle sopraffazioni, ed in nome di quell'ideale di equità e di giustizia che anima le coscienze di chi crede nella vita e nella dignità di ogni essere umano.

Siti consigliati: Nazioni Unite - Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale:

www.un.org/lawlicclindex.html Coalizione per l'entrata in vigore della Corte Penale Internazionale Permanente: www.iccnow.org Tribunale internazionale per i crimini commessi nei territori della ex Jugoslavia: www.un.org/icty Tribunale internazionale per i crimini commessi in Ruanda: www.ictr.org

Per una Cultura di Europa.

Il ruolo delle Fondazioni di RLidigerStephan

Presentiamo, di seguito, il discorso pronunciato da Rildiger Stephan al primo European Foundation Leaders Summit, tenuto 1'8-9 novembre 2001 a Bruxelles.

L

a "causa" che sono stato chiamato a presentare e a sostenere in non più di quindici minuti intendo chiamarla "per una Cultura di Europa".

Sarete d'accordo con me che si tratta di una bella sfida. Lasciatemi iniziare con un affermazione un po' provocatoria: potrebbe trattarsi di questioni ovvie per le Fondazioni indipendenti, ma non sempre per le tante altre.

Storicamente, le Fondazioni sono un significativo "marchio" della Cultura di Europa. Nel loro comune sentire (idealismo), esse rappresentano e mettono insieme valori democratici come la libertà, l'indipendenza e la solidarietà, l'individualità e la cittadinanza, l'eccellenza e l'uguaglianza. Ciò è stato evidente, in particolare, durante la Guerra fredda, quando modelli differenti di società da entrambi le parti del Muro si confrontavano attraverso le proprie Fondazioni non soltanto producendo beni culturali, ma costituendo esse medesime dei "beni "culturali di gran valore.

Le Fondazioni sono una parte integrante della Cultura di Europa, sono divenute attori importanti in tutti i principali campi della vita sociale: cultura, welfare, economia, politica. Esse sono fermenti per lo sviluppo della società.

Lasciatemi enfatizzare un altro aspetto di come le Fondazioni so- Fondazioni e no impegnate nell'essere parte ed espressione della Cultura d'Euro- diversità pa. Le Fondazioni rappresentano ed esprimono diversità culturali in culturale una forma pura. Nei diversi Paesi europei, osserviamo un'enorme varietà di Fondazioni, per quanto riguarda profili, scopi, strutture, basi legali ed economiche.

L'Autore è Segretario Generale uscente deIl'European Cultural Foundation 9

Inizialmente, le Fondazioni hanno per lo più una storia locale.

Nel periodo dopo la seconda guerra mondiale, le Fondazioni in Europa sviluppano le proprie attività principalmente all'interno delle nazioni (diversamente dagli Stati Uniti): I loro scopi e proposte hanno un orizzonte nazionale. Sono poche quelle che includono fin dall'inizio una prospettiva internazionale, europea. Si possono citare, al riguardo, Fondazioni come Robert Bosch, van Leer e, soprattutto, l'European Cultural Foundation (spero di non dispiacere nessuno) che è stata la sola istituzione non governativa in Europa che per prima è stata dedicata esclusivamente alle attività e alla cooperazione a livello europeo (si tratta di un'organizzazione governata da un vero board internazionale tale, quindi, da poter prendere decisioni europee". Essa sostiene e porta avanti programmi e progetti che mostrai no un carattere europeo). In generale, le Fondazioni hanno tardato ad aprire le loro porte locali o nazionali e ad adottare una prospettiva internazionale, europea. Tuttavia, durante l'ultima decade, c'è stato un grande cambiamento, principalmente in Nord Europa. Le Fondazioni, in particolare quelle create più di recente, includono spesso la dimensione europea nei loro scopi e nelle loro attività.

L'European Foundation Centre ha identificato non meno che 1750 progetti o grants europei tra il 1994 e il 1999 per un totale di 153 milioni di euro.

Durante l'ultima decade, le Fondazioni hanno mutato molto i lo- Non soltanto ro metodi di lavoro. Difficilmente si trovano Fondazioni, oggi, che grants limitano la loro attività alla sola elargizione di grant, ad eccezione, forse di quelle Fondazioni che supportano la scienza e la ricerca.

Molte di loro sviluppano strategie miste combinando loro proprie attività dirette con il grant making. Sono stati esplorati modi nuovi di dare finanziamenti: le Fondazioni divengono spesso partner dei destinatari di grant di base.

Più importante è un altro recente cambiamento di metodologia e di comportamento sostanziale. Se naturalmente le Fondazioni tendono ad agire in un modo "individualistico" e sono impegnate ad agire "per conto proprio", anche quando iniziano attività transnazionali ed europee, negli ultimi dieci anni si sono verificati cambiamenti rapidi e consistenti. Senza dubbio, 1'European Foundation Centre ha giocato un ruolo cruciale in questo cambiamento. Benin10

teso, non è stato e non è sempre un compito facile mettere insieme forti entità individuali come tradizionalmente sono le Fondazioni.

Ma come esiste l'Unione Europea e sta crescendo, esiste anche la Comunità delle Fondazioni che è destinata a crescere a livello europeo e oltre.

Lasciatemi menzionare alcuni esempi di partnership multilaterale, Esempi di transnazionale. partnership Tre anni fa, è stato deciso di implementare un'iniziativa che era stata lanciata nel 2000 da dieci Fondazioni europee e americane: il Youth Empowerment Partnership Programme (YEPP). Lobiettivo del YEPP è di stabilire una innovativa partnership di fondazioni a livello transatlantico ed europeo, altri finanziatori indipendenti e governi che avessero a cuore i problemi della gioventi svantaggiata. Questo obiettivo potrà essere raggiunto condividendo e mettendo insieme esperienze e risorse, trasferendo e mettendo in comune le migliori pratiche e creando nuove iniziative in un numero di luoghi selezionati in Europa e negli Stati Uniti denominati "Centers of High Intensity" (Ci-ij). Il Programma è iniziato con pochi CHJ: Lille (Francia), Mannheim (Germania), Regione dell'Osthrobothnia (Finlandia), Tuzla (Bosnia-Herzegovina). Si prevede che il numero cresca lì dove sarà sostenuto da altre Fondazioni.

Il programma "Politiche per la Cultura" è un esempio di partnership pubblico-privato. Questo è stato creato per stimolare e sostenere il processo democratico a stabilire politiche culturali efficaci e flessibili nei Paesi dell'Europa del Sud-Est, all'interno del contesto del cambiamento delle politiche culturali nell'intera Europa.

Le attività chiave sono: sviluppare legami tra attori culturali e artistici, da una parte, e decisori politici, dall'altra, a livelli locali e nazionali; incoraggiare la partecipazione alle decisioni politiche assumendo responsabilità; aiutare a stabilire nuove strutture che incoraggino partnership nel processo decisionale; mettere insieme esperienze e costruire gruppi regionali di esperti che contribuiranno alle questioni di politica culturale a livello internazionale ed europeo. Il Programma è stato lanciato tre anni fa dall'European Cultural Foundation in cooperazione con l'Association ECUME-ECF (European Master of Cultural Management) e l'East West Parliamentary Practice Project, in associazione con i rispettivi ministri della Cultura e i Par-

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lamenti nazionali. Si è iniziato in Romania e poi in Bulgaria. Nel 2001 il Programma è continuato in Croazia.

Lasciatemi menzionare brevemente un terzo programma, anch'esso con una prospettiva di lungo termine.

Tre Fondazioni hanno deciso di sostenere un'iniziativa dell'European Policy Centre, "The Europe we need", che intende dare un sostanziale contributo all'attuale processo di integrazione europea giungendo a importanti decisioni da prendere a livello della Conferenza dell'Unione nel 2004. Ci sono quattro aree di politica complementari su cui focalizzare l'attenzione in profondità e indirizzare le fondamentali domande sui "Perché abbiamo bisogno dell'Europa". Le quattro aree sono: legittimità ed efficienza delle istituzioni dell'UE; cittadinanza (diritti e responsabilità, inclusa la delineazione di una Costituzione europea basata sulla Carta Europea dei Diritti Fondamentali); crescita e coesione in un'Unione allargata.

Spero che questa breve presentazione di pochi recenti esempi di partnership transnazionali tra Fondazioni serva ad uno scopo concreto. Giocando il mio ruolo di "uomo di cultura", considererò questi esempi ponendo l'accento sulla cultura, sulla cooperazione culturale e sulla politica culturale transnazionale. Si può discutere sul termine di cultura nella presentazione di questi esempi. Sappiamo che è una questione "evergreen", come quella - del resto - della definizione stessa di Europa. Ognuno ha più o meno la propria definizione, ma tutti noi abbiamo un intendimento comune. Questo può essere rafforzato dalle definizioni tracciate dall'UNEsco, dal Consiglio di Europa e adottato - sulla carta - dalla Commissione Europea: la Cultura è uno stile di vita, formato dalla tradizione e dalla storia comune, guidato da una comune visione del mondo. La Cultura è elemento centrale dello sviluppo sociale.

Co-finanziare e co-sponsorizzare a livello internazionale, europeo è attività abbastanza recente. Le nuove alleanze e combinazioni pubblico-private dipendono, essenzialmente, dalle capacità dei promotori e iniziatori dei progetti a ottenere denaro. L'aspetto innovativo di questi nuovi progetti comuni è lo stabilire partnership sostenibili di interessi comuni tra Fondazioni. Tutto ciò è lontano dall'essere una norma, è qualcosa di innovativo. Riguardo agli 12

Quale significato per cultura ?

CI

Il ruolo

dell'AICE

aspetti organizzativi, non esito a dare un concreto esempio a cui ho preso parte fino a ieri (non esito poiché è nostro comune interesse): l'esempio è l'Association for Innovative Cooperation in Europe (AIcE) che cambierà il suo nome dal gennaio 2002 in "Network ofEuropean Foundationsfor Innovative Cooperation". AICE è, come è definito nel suo statuto "un'organizzazione non profit che focalizza la sua attenzione nel rafforzare la cooperazione tra Fondazioni, associazioni, organismi di volontariato e altre organizzazioni non governative in Europa. In particolare, essa mira ad agire come piattaforma di lancio per nuove iniziative in collegamento con le maggiori Fondazioni europee, che si focalizzano su progetti che pongono enfasi su approcci innovativi nei campi sociale e politico.

Essa ha una struttura leggera, aperta e flessibile, ed è gestita da un consiglio amministrativo attualmente composto da dieci Fondazioni AICE non porta avanti progetti propri. È soltanto un'organizzazione di Fondazioni che agisce come facilitatore nel lanciare progetti a carattere europeo. Andremmo lontano in questa direzione?

Dovremmo intensificare e rafforzare i legami transnazionali tra le L'importanza di un Fondazioni, coinvolgendo in particolare Fondazioni che hanno attività nei campi della cultura, della cooperazione e della politica cui- network turale? Non voglio ripetere ciò che è stato detto e scritto dopo il 1989 circa la fine della storia. Non ripeto le reazioni e le interpretazioni dopo lo shock mondiale dell'il Settembre, quando la tradizionale interpretazione della guerra e della pace ha perduto il suo senso. Noi tutti sappiamo che devono essere trovati nuovi approcci alla nostra cultura, alla cultura di Europa, alla Cultura Occidentale.

Come possiamo evitare di cadere nella trappola di un crollo della civiltà? Ci sono vecchie "profezie" che sembrano divenute d'attualità: "Il 210 secolo sarà religioso" (Malraux). Noi ci troviamo - individualmente o collettivamente, localmente o globalmente - di fronte ad un vecchio e nuovo dilemma storico: la ovvia fondamentale contraddizione/dialettica tra fede e conoscenza.

Perché menziono tutto ciò? Perché la Cultura è al centro di tutte queste preoccupazioni e domande. Come possiamo fronteggiare o mediare conflitti basati sulle differenze culturali e religiose, se non abbiamo strategie comuni?

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Ildialogo tra culture diverrà la principale preoccupazione nel futuro. Questa preoccupazione potrebbe divenire un argomento, una "ragion d'essere" di una forte rete di Fondazioni europee, che identifichi scopi comuni e sviluppi strategie comuni per raggiungerli.

Ho menzionato esempi di cooperazione e di partnership all' inter- Il rapporto no dell'Europa, dell'Unione Europea. Un seconda questione riguar- con le da la cooperazione e la partnership delle Fondazioni con l'Unione istituzioni Europea. Noi sappiamo che c'è una certa mancanza di riconoscimento e di comprensione. La Commissione Europea non ha una posizione coerente riguardo al rapporto con le Fondazioni. Questo è vero, in particolare, per le Fondazioni che sono impegnate nella cooperazione culturale e nella politica culturale. Ci troviamo di fronte ad un problema di natura generale: una forte resistenza allo sviluppo di una vera politica europea per la cultura. Nel passato, ci sono stati tre grandi campi nei quali vi è stata forte resistenza allo sviluppo di una politica europea comune: la Difesa e la Sicurezza, gli Affari Interni e la Giustizia, la Cultura.

Come sappiamo, la Difesa e la Sicurezza sono divenute (anche se con difficoltà) parte della governance europea (sotto la minaccia della guerra nell'Europa Sud-Est). Dalla catastrofe di Settembre, gli Affari Interni e la Giustizia sono stati messi in prima linea nelle decisioni politiche europee. E la Cultura?

L'articolo 151 del Trattato di Amsterdam (che ripete quasi esattamente l'art. 128 del Trattato di Maastricht) stabilisce il modello di riferimento per l'azione culturale nell'Unione Europea. Esso richiede che la dimensione culturale sia presa in considerazione nelle decisioni economiche, sociali e politiche; riflette la richiesta per l'inclusione di una valutazione dell'impatto culturale nei maggiori processi decisionali. Ma l'enfasi è nell'aspetto simbolico. Le intenzioni dietro le parole sono a volte diverse. Mi è stato confermato da quelli che hanno partecipato alla formulazione di questo articolo del Trattato, che esso doveva addirittura bloccare una politica culturale europea. La nozione di "diversità culturale" è servita a fissare il "razionale" come modello di riferimento per tutta la cooperazione europea nel campo culturale. Tentativi di emendare o modificare questo articolo in vista della formulazione del Trattato di Amsterdam non hanno avuto successo. La Cultura non ha una forte lobby presso l'Unione Europea.

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Ma la situazione può essere cambiata, per due ragioni: 1) c'è un generale sforzo a coinvolgere i cittadini europei nel dibattito sulla futura Europa, in particolare sulla Costituzione europea. Come possiamo promuovere un cosiddetto "sentimento comune", se non abbiamo un terreno comune per una politica culturale europea? La diversità culturale dovrebbe essere la base, il punto di partenza, per. ogni politica culturale non lo scopo finale. Credo che una larga maggioranza del pubblico possa essere d'accordo con quanto abbiamo affermato nel 2000 come nuovo mandato della nostra Fondazione: "la European Cultural Foundation è in favore di un'aperta, democratica Europa che rispetti i diritti umani fondamentali e la diversità culturale della sua popolazione. Essa cerca di incoraggiare per l"Europa' un senso di appartenenza per tutta la sua popolazione". Questo significa anche che la diversità culturale, nel senso stretto della parola, non può essere vista come il dato "esclusivo".

2) La seconda ragione del perché questa situazione è totalmente cambiata è il crescente dibattito all'interno dei Paesi europei e anche in Nord America sull'integrazione sociale e culturale. Che si è intensificato dopo la catastrofe dell'i i settembre 2001. Ricordo che nel 1997 la Commissione Europea ci chiese (come a molte altre organizzazioni culturali) di contribuire alla riflessione sul futuro Programma Europeo "Culture 2000". Nella nostra risposta noi proponemmo, tra l'altro, di fornire i mezzi per sviluppare il dialogo interculturale e la cooperazione culturale transeuropea.

Non ricevemmo alcuna risposta. Il Programma Culture 2000 fu realizzato "al fine di incoraggiare la cooperazione artistica e culturale in Europa e di incoraggiare uno spazio culturale comune". Esso sostiene progetti artistici e culturali che hanno una dimensione europea anche partecipando agli stessi. Le attività sostenute includono festival, co-produzioni, lezioni di esperti, mostre, creazioni artistiche, tour e conferenze. Nel 2002 verrà dato sostegno principalmente alle arti, alle arti visive, soprattutto al settore librario e a progetti per il patrimonio culturale. Soltanto pochi, tuttavia, possono essere descritti come promotori del dialogo tra culture.

All'inizio di quest'anno, il Parlamento Europeo avvierà una nuova Il Rapporto iniziativa per stimolare la cooperazione culturale nell'Unione Euro- Ruffolo 15

pea. Un rapporto (curato da Giorgio Ruffolo) è stato adottato in giugno dal Parliamentary Committeefor Youth, Education, the Media and Sports. Fare un resoconto di questo rapporto - che io considero importante - porterebbe molto tempo.

Illustrerò soltanto pochi punti.

La nozione dominante nell'esposizione dei motivi del Rapporto è i 'unità nella diversità. Questo significa ancora - dal mio punto di vista - che unità e diversità sono complementari; che sono persino interdipendenti. L'unità europea non può esistere senza diversità ma anche la diversità culturale non può esistere senza unità. Il Parlamento Europeo spiega e mette in evidenza che la cultura è una componente dell'identità dell'UE; osserva che il rispetto e la promozione della diversità culturale e linguistica e la condivisione di una comune eredtà ;SOflO una forza per l'integrazione e lo sviluppo degli esseri umani; afferma che questa identità è il minimo che è richiesto per consolidare il senso di cittadinanza europea e tracciare una futura Costituzione europea.

Lo scopo pratico dell'integrazione europea non può essere raginto, dal punto di vista del Parlamento Europeo, senza sviluppare la coscienza europea tra i cittadini di Europa. Quindi, deve essere swiluppata 'una attiva politica culturale europea. Il Parlamento Europeo 'sottolinea 'che lo scambio e la cooperazione culturale sostanzialrnente contribuiscono alla capacità di integrazione e coesione dell'Europa"..

Nel Rapporto Ruffolo, che ha ottenuto l'approvazione unanime del Pariiamentary Com'mitte for Culture, Youth, Media and Sports, le Fondazioni sono esplicitamente menzionate due volte e altre due volte non esplicitamente.

Sono menzionate esplicitamente: Le quando si chiede alla Commissione Europea di presentare una Fondazioni proposta di raccomandazione su (tra gli altri) lo stabilire reti tele- nel Rapporto matiche e servizi in connessione alle istituzioni culturali (incluse bi- Ruffolo blioteche, Fondazioni, musei, ecc.); quando si centra l'attenzione sull'importanza del patrocinio per gli eventi e la creazione artistici, chiedendo alla Commissione di incoraggiare partnership tra Fondazioni, istituzioni, associazioni e imprese private che desiderano perseguire attività su scala europea.

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Non esplicitamente: quando si chiede alla Commissione Europea di presentare una bozza di raccomandazione (tra l'altro) sulla promozione delle relazioni tra autorità culturali a vari livelli e gli operatori culturali in termini di informazione e cooperazione; quando si chiede alla Commissione Europea di presentare al Consiglio e al Parlamento "una proposta di delibera per istituire una agenzia europea per monitorare la cooperazione culturale, con il compito di identificare e promuovere sistematicamente le pratiche migliori nelle politiche degli Stati membri, le esperienze di eccellenza fra progetti di sponsorizzazione o partnership publico-privato per il beneficio delle tradizioni culturali, la creazione artistica e l'accesso alla cultura dei cittadini".

In breve, tutto ciò è assolutamente nuovo. Nuovi modi sono stati delineati per la politica culturale a livello europeo, non soltanto perché le Fondazioni sono esplicitamente menzionate e riconosciute. È l'enfasi posta sulla partnership come importante strumento della cooperazione europea e lo sviluppo della politica. È il suo incoraggiamento e la sua promozione che mi sembrano lungimiranti, in particolare con riguardo alla partnership pubblico-privato. Sarebbe semplicemente rivoluzionario se la partnership pubblico-privato divenisse un metodo per la cooperazione e il policy making a livello europeo, per esempio tra la Commissione Europea e le Fondazioni europee, le reti europee delle Fondazioni.

La proposta di creare un 'agenzia europea per monitorare la coo- Un'Agenzia perazione culturale in Europa sarebbe, dal mio punto di vista, un per la grande passo in avanti verso una vera politica culturale europea, cooperazione culturale mettendo in pratica il motto "unità e diversità".

Mentre per quanto riguarda l'obiettivo e la struttura organizzativa di questo nuovo strumento politico, vorrei menzionare l'esempio di un programma che si è rivelato efficace da vent'anni nel campo dell'istruzione.

Si tratta del programma Eurydice, creato dal 1979 dalla Commissione Europea per rispondere al bisogno crescente di informazioni comparative, documentazione e ricerche sui sistemi d'istruzione nazionali. Si tratta di una rete europea che ha corrispondenti in ogni nazione; l'Unità Europea (con base a Bruxelles) stimola e coordina 17

le attività; elabora analisi comparative, cercando costantemente di fornire similitudini o caratteristiche comuni delle diverse nazioni oltre alle caratteristiche specificamente nazionali. I servizi nazionali contribuiscono allo sviluppo di informazioni comparative europee sui sistemi 'd'istruzione e in questo modo essi diventano sempre più coscienti di una dimensione europea nel campo dell'istruzione riuscendo anche a considerare la situazione nazionale in un contesto europeo. 'Frovo ciò particolarmente interessante e degno di nota e suggerirei di cercare possibilità di cooperazione di questo tipo tra l'Unione Europea e le Fondazioni, per costruire un'agenzia europea che permetta di monitorare la cooperazione culturale. Ma si potrebbe andare anche oltre e considerare le attività di Eurydice come un modello.

Le Fondazioni sono molto attive in tutta Europa, non solo come finanziatori e promotori di cooperazione culturale, ma anche - lo ripeto e lo sottolineo - come attori a vari livelli, dal livello di base al livello di politica.

Nella nostra nuova Europa dobbiamo essere innovativi dappertutto. Perché non inventare, dopo lo sviluppo riuscito di Eurydice per l'istruzione, in partnership con una rete di Fondazioni, una "Eurydice per la Cultura dell'Europa"?

Di Cultura d'Europa «queste istituzioni» si è occupata in più occasioni. Ne ricordiamo alcune. Nel 1992 con Cultura europea e ricerca sociale, di Gabriele Calvi (n. 90-9 1). Sullo stesso numero, Europa: le ragioni della culturadi Sergio Ristuccia. Sul n. 94 del 1993 abbiamo presentato la traduzione del rapporto su Le scienze sociali nel contesto delle Comunità Europee, curato dalla Fondazione Europea della Scienza e dal Consiglio di Ricerca Economia e Sociale. Di "ragioni della cultura" nel contesto europeo è tornato, poi, a parlare Sergio Ristuccia in Europa: si addensano le questioni dirompenti, sul n. 110 del 1997.

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Contrordine: si torna agli enti pubblici.

Sulla riforma delle fondazioni bancarie di Sergio Ristuccia

L'articolo che segue è frutto di una orima lettura "a caldo del cosidetto emendamento Tremonti alla legge che regola le fondazioni di origine bancaria (d.lgs. n. 153 del 1999). Inserito nel corpo delle legge finanziaria per il 2002 (L. 448 del 2001) e modificato nel corso dell'iter parlamentare; l"emendamento" è divenuto l'art. 11 della Legge Finanziaria. Pur modificato e integrato il testo proposto dal Governo è rimasto fermo. Perciò il commento di pri ma lettura rimane pienamente valido. Sul testo legi slativo così come è stato approvato torneremo, comunque, nei prossimi numeri.

L

a proposta di riforma delle fondazioni di origine bancaria deve essere letta e interpretata nel suo complesso. Ritenere che l'aspetto pRi importante e decisivo sia costituito dalle modificazioni ed integrazioni delle norme vigenti in materia di rapporti fondazioni - banche è effetto di una lettura strabica o parziale se non di una non lettura.

Fermo rimanendo il fondamentale rilievo del rapporto fondazioni banche, cominciamo dal resto.

-

Il significato della "riforma" sta in coda.. Bisogna andare al com- Fondazioni e ma ibis da inserire nel decreto legislativo 153/1999 che regola le pol1tica di fondazioni. Il comma è appunto proposto come conclusione bilancio dell'emendamento. Questo recita: "In apposito allegato alla relazione previsionale e programmatica il ministro dell'economia e delle finanze espone l'ammontare delle risorse complessivamente attivate" dalle fondazioni. Fin qui si tratta di una ragionevole disposizione: il ministro che, in ogni caso e finche non sia modificato il Libro Primo del Codice civile è l'Autorità di vigilanza acquisisce i dati di bilancio delle fondazioni e li rende noti. Il comma, però, non finisce qui ma prosegue: "di tali risorse si tiene conto nella rideterminazione degli stanziamenti da iscrivere nei fondi di cui all'articolo 36 della presente legge (finanziaria)". E, infatti, l'emendamento fa subito dei cambiamenti nelle previsioni di bilancio e non certo sulla base dei dati (da acquisire) che saranno pubblicati in allegato alla 19

prossima relazione previsionale e programmatica di fine marzo 2002, ma evidentemente in base a stime di cui non vengono indicati i criteri. Gli stanziamenti del Fondo da ripartire per le politiche sociali (ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) e quelli relativi agli interventi dello Stato a favore dello spettacolo vengono entrambi ridotti a 100.000 euro, anche se non si capisce il nesso fra la riduzione degli stanziamenti per lo spettacolo con le risorse delle fondazioni, data la mancanza dello spettacolo fra i nuovi "settori ammessi" come campi d'intervento delle fondazioni (pii avanti verremo a considerare il tema).

In realtà, questa riduzione di stanziamenti, per irragionevole e immotivata che sia, era norma necessaria per ottenere la cosiddetta "ammissibilità" della proposta come emendamento della legge finanziaria.

Dunque, il Governo individua nelle risorse delle fondazioni delle Gestioni disponibilità finanziarie sostitutive degli stanziarnenti di bilancio. Na- extra bilancio turalmente, di tali disponibilità si deve poi avere un controllo sicuro.

Una prima, certa, conseguenza di questa disposizione si pone in termini di verifica della politica di bilancio e di copertura delle leggi. La Corte dei conti, ai sensi dell'art. 100, 2° comma, della Costituzione, dovrà mettersi in grado di conoscere l'attività delle fondazioni di origine bancaria al fine di esercitare il controllo sulla gestione del bilancio dello Stato. In sostanza, vengono a configurarsi dei casi nuovi di "gestioni extra bilancio".

Si dirà che no, le risorse delle fondazioni vengono prese in considerazione sulla base del principio di sussidiarietà. Sarebbe una risposta troppo semplice e divagatoria.

Del resto, quale omogeneità ci può essere fra stanziamenti dello Stato centrale e stanziamenti di organismi distribuiti sul territorio in modo del tutto diseguale? Non vale qui affrontare le possibili conseguenze. Per esempio, per evitare ulteriori distorsioni di diseguale, quanto casuale, distribuzione delle risorse si dovrebbe imporre alle fondazioni di operare fuori dal proprio territorio ma ciò, però, contrasta con altre fondamentali indicazioni dell'emendamento governativo. Oppure si dovrà considerare come assegnare le risorse statali in prevalenza alle aree dove, per esempio, non operano le fondazioni.

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Che le risorse delle fondazioni entrino a far parte della politica di Dal diritto bilancio dello Stato comporta che, almeno per questo fondamentale privato a quello aspetto, le fondazioni sono sottratte al diritto privato per essere piepubblico namente consegnate al diritto pubblico.

La proposta abrogazione del primo comma dell'art.2 del d.lgs. 153 (Le fondazioni sono persone giuridiche private senzi2 fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria egestionale) non lascia dubbi. È stato precisato che, in realtà, c'è un refuso o uno sbaglio a questo riguardo, da riparare. Anche se ciò sarà, difficilmente si potrà evitare di produrre un completo cambiamento di disegno istituzionale. Una definizione legislativa non basta, facendola sopravvivere, a cambiare la profonda mutazione dell'istituto "fondazioni bancarie" o di origine bancaria. È vecchia regola che "lex imperat non docet", cioè la legge dà precetti concreti ed è da questi che bisogna ricavare la natura degli istituti giuridici.

Nel nostro caso i precetti, oltre quello, già esaminato, che fa entrare le risorse delle fondazioni nella politica di bilancio dello Stato e degli enti territoriali, sono molto chiari e tutti nella direzione della natura pubblica. Vediamoli.

Vale riportare per disteso quali dovrebbero essere i cosiddetti "seri nuovi fini tori ammessi": "i) famiglia e valori connessi; crescita e formazione istituzionali giovanile; educazione, istruzione e formazione, incluso l'acquisto di prodotti editoriali per la scuola; volontariato, filantropia e beneficenza; religione e sviluppo spirituale; assistenza agli anziani, diritti civili; ii) prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica; sicurezza alimentare e agricoltura di qualità; sviluppo locale ed edilizia popolare locale; protezione dei consumatori; protezione civile; salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa; prevenzione e recupero delle tossicodipendenze; patologie e disturbi psichici e mentali; ricerca scientifica e tecnologica; protezione e qualità ambientale; arte, attività e beni culturali".

La minuta indicazione costituisce un miscuglio singolare di specifiche indicazioni (per esempio, l'acquisto di libri scolastici), di preferenze di principio (famiglia e valori connessi), di interventi in campi di competenza tradizionale ed esclusiva dello Stato come, fra tutti, la "prevenzione della criminalità e la sicurezza pubblica". A quest'ultimo riguardo nulla, ovviamente, potranno fare le fondazio21

ni se non devolvere denaro a chi lo Stato centrale o piuttosto Regioni ed enti territoriali (soprattutto dopo la cosidetta devolution), verranno ad indicare. Insomma, si tratta di un elenco in cui tutte le istanze a cui il Governo vuoi dare spazio viene assicurato un "tesoretto Tali settori potranno essere modificati con regolamento governativo, ai sensi dell'articolo 17 della legge n. 400 del 1988.

Quest'ultima previsione normativa completa la logica di mera strumentalità nei confronti dei fini e delle attività degli organismi pubblici che la proposta governativa contiene. Non vale la pena insistere sui punto. L'evidenza è piena.

Ogni residuo dubbio è comunque eliminato dalla norma che, secondo la proposta, tassativamente prescrive: le fondazioni "indirizzano la propria attività esclusivamente nei settori ammessi".

E veniamo alla composizione degli organi. Viene proposta la se- Gli organi guente aggiunta ail'art. 4 del decreto legislativo citato: "È comunque assicurata la presenza di una prevalente rappresentanza del territorio idonea a riflettere le competenze attribuite, nei settori di intervento delle fondazioni, agli enti diversi dallo Stato, dall'articolo 117 della Costituzione. Salvo quanto previsto al periodo precedente, i soggetti ai quali è attribuito il potere di designare i componenti dell'organo di indirizzo e i componenti stessi degli organi delle fondazioni non devono essere portatori di interessi riferibili ai destinatari degli interventi delle fondazioni' La norma proposta sancisce la strumentalità delle "fondazioni" (le virgolette sono a questo punto assolutamente necessarie) agli enti pubblici territoriali in ragione dei compiti ad essi attribuiti dalla Costituzione. Si precisa, con quanto detto nel secondo periodo, che soltanto questi enti possono essere portatori di interessi riferibili ai destinatari degli interventi delle fondazioni. Il legame strumentale con gli enti territoriali risulta con ciò molto stringente, .tanto da chiedersi che senso abbia mantenere in vita la norma secondo la quale "i componenti dell'organo di indirizzo non rappresentano i soggetti esterni che li hanno nominati né ad essi rispondono". In sostanza, questa disposizione perde d'efficacia ed è abrogata. Non farlo esplicitamente è segno, non certo di pudore o imbarazzo, ma di una semplice dimenticanza.

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A completare il quadro va ricordato il ricorso più volte previsto ai regolamenti governarivi. Un rafforzamento pieno, dunque, dei poteri di vigilanza com'è naturale nell'ambito del diritto pubblico.

In conclusione, se non si vuole parlare di enti pubblici e, per rimanere condizionati dall'uso si vuole mantenere la parola fondazioni nella legge occorre salutare, con l'approvazione dell'emendamento Tremonti, la nascita delle "fondazioni di diritto pubblico".

Sorge a questo punto, però, un bel problema. Chi ha potere legislativo nelle materie toccate dalla legge sulle fondazioni bancarie?

La questione è fondamentale dopo l'entrata in vigore, l'8 novembre scorso, delle modificazioni al Titolo V della Costituzione. La citazione dell'art. 117 che fa l'emendamento Tremonti dà la netta impressione che abbia a riferimento il vecchio testo dell'articolo 117, quello che enumerava le materie di competenza di Regioni e Comuni e non invece quelle dello Stato, per lasciare tutto il resto al potere legislativo regionale. Senza dire che la citazione sembra far riferimento, implicitamente, più alle competenze amministrative che a quelle legislative. Insomma, la lettura del testo dell'emendamento Tremonti sembra confermare che esso è stato scritto 18 mesi fa, secondo la notizia che dà Il Foglio di venerdì 7 dicembre.

Per rispondere alla domanda occorre, innanzitutto, verificare se la o le materie trattate rientrano nelle competenze esclusive dello Stato.

Considerando queste ultime si possono fare alcune ipotesi.

Se la materia della legge sulle fondazioni bancarie attiene alla tutela dei mercati finanziari e della concorrenza, o meglio nei limiti in cui la legge tocca tutto ciò, ebbene si tratta di materia esclusiva statale. Altrettanto può dirsi se, sulla scia del legame con la politica di bilancio statale, si debbano considerare le fondazioni "enti pubblici nazionali".

Ma c'è un'ultima e più congrua ipotesi affinché la materia rimanga nella competenza esclusiva dello Stato: che sia salvata sul serio la natura privata delle fondazioni. Il che può avvenire soltanto attraverso l'eliminazione di gran parte delle modificazioni proposte. Allora, la materia rientrerebbe pienamente nell'ambito dell"ordinamento civile" che è materia esclusiva dello Stato. Soprattutto nel caso che fosse valorizzato e non svilito il richiamo al Codice civile come ordinamento ultimo di rinvio e come terreno di approdo della

Riforma delle fondazioni e nuovo Titolo

V della Costituzione

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stessa legislazione speciale sulle fondazioni di origine bancaria, com'è detto nel citato decreto legislativo 153.

Salvo queste ipotesi (con tutto ciò che ciascuna comporta) e soprattutto nel caso che si debba prendere atto di una finale natura pubblica degli enti-fondazioni le Regioni avrebbero pieno potere legislativo, esclusivo per lo più o soltanto per alcuni aspetti concorrente.

C'era un percorso prefigurato nella legislazione Ciampi: governare la fuoruscita delle fondazioni bancarie dal controllo delle banche.

Ciò voleva la presenza di un'Autorità di vigilanza temporaneamente identificata con il Tesoro, per poi consegnare le fondazioni ad un rinnovato regime generale riguardante tutte le persone giuridiche private di carattere non lucrativo. Anzi, a tal fine si era discusso tempo addietro se non convenisse affrontare il tema in parallelo alla riforma delle persone giuridiche profit, cioè delle società.

Questo percorso sembra saltare e si apre, invece, una stagione di inevitabili sovrapposizioni legislative.

In ogni caso: in presenza di fondazioni di diritto pubblico, quanto prima si realizzerà il piano di completo distacco delle stesse dalle banche tanto prima si aprirà spazio alla legislazione regionale.

Oppure avverrà, alla fine, che pur di mantenere un ruolo alla legislazione statale e agli organismi di vigilanza attuali, si troverà successivamente un modo di prolungare, contro quel che oggi si dice, il periodo transitorio? Tutto è possibile sulla strada della "lotta legislativa continua".

Un percorso interrotto

Per chi ritenga ragionevole ed urgente sottrarre le fondazioni al fascino, se non all'incombenza, di occuparsi giornalmente di banche, le norme proposte sembrano accettabili. Forse alcune dovevano essere già presenti nella legge Ciampi.

Nulla da dire, per cominciare, sul regime più drastico delle incompatibilità nell'ambito dei rapporti diretti fondazioni-banche (i soggetti che svolgono funzioni di indirizzo, amministrazione, direzione o controllo presso le fondazioni non possono ricoprire funzioni di amministrazione, direzione o controllo presso la società bancaria conferitaria). Quel che è insensato è il seguito della norma proposta sulle incompatibilità e che cioè questa riguardi anche altre società operanti nel settore bancario, finanziario o assicurativo.

Il rapporto fondazioni banche

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Ancora, va bene prevedere un ampliamento del concetto di controllo per ricomprendere il caso che questo si realizzi attraverso l'accordo fra più fondazioni. Ma è, ovviamente, discutibile l'ipotesi che si consideri controllo la pura somma di partecipazioni di più fondazioni senza accordi fra loro. Sarebbe incostituzionale, se le fondazioni sono persone giuridiche private. Ammissibile, forse, se sono enti pubblici. Comunque, spetterà alla Banca d'Italia specificare con apposito provvedimento.

La soluzione dell'affidamento della partecipazione di controllo Il ruolo delle nella banca ad una Società di gestione del risparmio riprende e si- Società di stematizza l'esperienza in corso di realizzazione per la fusione San- gestione del risparmio Paololmi-Cardine (dove si prevede di affidare ad una Sgr le partecipazioni delle fondazioni, che peraltro - come nel caso della Compagnia di San Paolo -, già non sono partecipazioni di controllo). La configurazione attuale delle Sgr potrebbe non essere del tutto confacente: occorre, dunque, qualche accorgimento normativo che la proposta governativa prevede di realizzare attraverso atti regolamentari della Banca d'Italia.

In ogni caso, ove si adotti questa soluzione, la proposta prevede che il termine per la dismissione del controllo si allunghi di tre anni.

Notevoli problemi si profilano per il coordinamento fra la norma che amplia il concetto di controllo e quella dell'affidamento ad Sgr di partecipazioni non di controllo di più fondazioni in una banca.

Se le partecipazioni saranno gestite "in nome proprio secondo criteri di professionalità e indipendenza" non è certo configurabile un accordo fra le fondazioni titolari delle partecipazioni. Se ne deve concludere che le dismissioni, parziali o totali, delle partecipazioni dovrebbero avvenire - anche nel caso di partecipazioni di più fondazioni conferite ad una sola Sgr - soltanto sulla base di calcoli di opportunità economica, senza l'inevitabile deprezzamento che deriva dall'apposizione di un termine? Ovvero, le partecipazioni potrebbero essere detenute a tempo indeterminato a seconda dei calcoli di redditività? È tutto da chiarire.

Un'ultima norma va esaminata: quella secondo la quale l'Autorità Nuovi di vigilanza emanerà con regolamento le norme attuative "anche al statuti, nuovi fine di coordinarle con le disposizioni di cui al decreto legislativo organi 25

17 maggio 1999 n. 153" (e non sarà facile tale coordinamento!).

Entro novanta giorni dall'emanazione del regolamento, le fondazioni dovranno adeguare i propri statuti. Gli organi delle fondazioni dovranno poi essere ricostituiti e, nel frattempo, quelli in carica dovranno limitare la propria attività all'ordinaria amministrazione. È questa la norma di chiusura dell'operazione di pubblicizzazione. Si pensi che gli organi in carica non hanno più di un anno, o un anno e mezzo di anzianità, essendo entrati in carica dopo l'approvazione dei nuovi statuti nel corso del 2000.

La cancellazione degli organi viene accompagnata dalla proposta di alcune integrazioni delle norme sulle qualità dei componenti degli organi delle fondazioni come la seguente: i requisiti di professionalità e onorabilità vanno "intesi come requisiti di esperienza e di idoneità etica confacenti ad un ente senza scopo di lucro" ovvero aggiungendo alla norma sul patrimonio le parole "il patrimonio è gestito in modo coerente con la natura delle fondazioni quali enti senza scopo di lucro che operano secondo principi di trasparenza e moralità". Per quanto si tratti di affermazioni di per sé ineccepibili, se non ovvie, l'averle previste configura chiaramente un'operazione di neppur sottile delegittimazione morale degli organi attuali. Se non di larvale diffamazione. Che serve solo a camuffare un operazione spartitoria di grande rilievo, del tutto illegittima quanto avventurosa e facilona. Sono, infatti, i diritti soggettivi all'onore personale degli attuali componenti gli organi che vengono investiti e che, quindi, vengono sollecitati ad adeguata difesa.

Fin qui l'analisi di dettaglio della proposta di "riforma" delle fondazioni di origine bancaria. Occorre, a questo punto, darne una valutazione di carattere generale.

Un primo profilo concerne sicuramente l'inquadramento della proposta nelle tendenze attuali di politica legislativa che, a parte un certo grado di confusione, paiono ispirate al puro e semplice criterio della riconquista di spazi per la politica appropriativa dei partiti e del loro potere di nominare il personale dirigente lì dove è possibile, anche al costo di far rientrare nel settore pubblico ciò che ad esso non deve appartenere.

In questa sede non si deve tuttavia ampliare il discorso ma rimanere nell'ambito della vicenda, più che decennale, che sembrava aver portato alla nascita delle fondazioni di origine bancaria.

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I nodi che vengono al pettine

Questa storia è stata sempre caratterizzata da molte incertezze nel fare innovazione istituzionale e, soprattutto, dalla mancanza di una cultura delle fondazioni e, in genere, delle grandi organizzazioni non profit.

Tali incertezze e vuoti culturali hanno origini profonde ed hanno pesato in misura ampia e pesante già nell'iter legislativo della precedente legislatura. Basta ricordare gli allarmi inutili lanciati a proposito di "sviluppo locale" da illustri studiosi e promotori di tale sviluppo durante quell'iter, allarmi che servirono per esempio ad alcune parti del centrosinistra per rivendicare una maggior presa sulle fondazioni da parte degli enti locali (quel che il centrodestra oggi sta per realizzare).

Da questa mancanza di cultura è stata naturalmente caratterizzata l'assoluta maggioranza del ceto dirigente delle Casse di risparmio portata semplicemente a sognare il ritorno al passato (le Casse di diritto pubblico) e, comunque, a proseguire le prassi della vecchia beneficenza Di qui, la scarsa o nulla capacità di visione da parte di gran parte delle fondazioni e il troppo lento e timido emergere di un'azione al livello del ruolo e delle responsabilità sociali che le fondazioni si trovavano a dover esercitare come gestori a fini di utilità sociale di ampi patrimoni creati nel tempo da collettività concrete di borghesia risparmiatrice, elemento fondamentale della "società civile" (e mai, certo, con contributi va ricordato di bilanci pubblici, centrali o territoriali).

Di questa mancanza di consapevolezza, pari a profonda irresponsabilità, sono stati espressioni quei sia pur rari "satrapi locali" che attraverso le fondazioni hanno ritenuto di fare le proprie personali scalate bancarie.

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Mancanza di una cultura delle fondazioni

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Una presa di coscienza lenta

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Né a fronte di tutto ciò è emersa un'Autorità di vigilanza capace Un'Autorità di sottrarsi a un basso profilo burocratico. Un'Autorità priva di au- senza torevolezza di merito, perché non è l'amministrazione centrale dello autorevolezza Stato a poter avere le competenze per interloquire costantemente con soggetti nuovi la cui esperienza andava, invece, governata avendo grandi capacità di comprensione del fenomeno e in spirito di forte cooperazione. Del resto, l'Autorità non ha sollecitato, né il mondo delle fondazioni ha espresso autonomamente forme di rap27

presentanza che non fossero la riverniciatura dell'associazionismo delle Casse di risparmio vecchia maniera. Laddove occorreva che le fondazioni avessero ben presente la necessità di rappresentare, in modo nuovo e adeguato, la realtà di un fenomeno che appartiene alla società civile nel suo complesso e che, dunque, deve andare a ricomprendere le tante altre fondazioni, sia pure di ben più modeste dimensioni e di varie origini, che in questi anni sono nate e si sono sviluppate. In ogni caso, lo stesso fenomeno delle fondazioni di origine bancaria è rimasto mal rappresentato presso l'Autorità di vigilanza e verso l'opinione pubblica.

C'è da dire, da ultimo, che stampa ed opinion leader hanno fatto Le questioni a gara per imporre la visione strabica e parziale di cui si parlava che non all'inizio, tutta centrata sul rapporto fondazioni-banche e sul mer- emergono cato ancora non contendibile della proprietà bancaria. Tema fondamentale ma non esclusivo. Tema, invece, considerato pregiudiziale ad ogni discorso sulle fondazioni.

Di qui, il totale disinteresse per problemi di interesse primario per il pubblico e la società: come operano le fondazioni? quali statuti si sono dati? quali sistemi di selezione per le iniziative e i grants quale trasparenza è stata realizzata e quale discussione è stata attivata sui risultati raggiunti? quale politica di investimento è stata seguita, a parte la questione delle partecipazioni nelle banche d'origine?

E ancora: come opera, nelle diverse fondazioni, quel modello di governance che vede la distinzione fra indirizzo e gestione ed impone una forte dialettica fra i due livelli come garanzia della responsabilità sociale delle fondazioni?

Di tutto ciò non c'è traccia nei tanti articoli degli opinion leaders, per lo più economisti. Evidentemente sono estranei ad ogni cultura del non profit e sono inconsapevoli del fatto che, proprio partendo da queste domande e da questi temi, si sarebbe potuto avviare un movimento d'opinione, a favore, per esempio, della fissazione di una misura delle erogazioni in rapporto al patrimonio da imporre, come avviene in altri Paesi, alle fondazioni per avere riconosciuto un trattamento fiscale di favore. Limite che funzionerebbe efficacemente per spingere a politiche patrirnoniali contrarie al mantenimento delle partecipazioni bancarie, anche quando non adeguatamente redditizie.

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Quale che sia l'esito dell'iter parlamentare della legge finaiìziaria, comincerà una nuova stagione normativa: i regolamenti delle autorità di vigilanza, gli adeguamenti statutari e tutto quel che avverrà al contorno.

Bene, poiché non è mai troppo tardi, si trovi il modo, d'ora innanzi, di dare voce e forza alla rappresentanza delle fondazioni come espressione diretta della società civile.

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Cittadini europei e politica dei trasporti.

La sessanta misure del Libro Bianco di Francesca Di Lascio

J

1 dodici settembre 2001, la Commissione delle Comunità Europee ha approvato il Libro Bianco intitolato "La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte". Sono stati così ufficializzati gli orientamenti politici adottati in materia di trasporti già nel mese di luglio.

Il documento, che fa un bilancio generale della situazione attuale al fine di proporre una serie di strategie volte a mantenere un sistema di trasporti competitivo e durevole, ha avviato un ampio dibattito tuttora in corso e che nel mese di novembre ha visto coinvolti, in un incontro organizzato a Bruxelles dalla Direzione Generale dell'Energia e dei Trasporti, quasi tutti gli attori chiave del settore.

La conferenza ha permesso di approfondire alcuni orientamenti riguardanti le principali decisioni politiche, legislative e industriali che dovranno essere prese nei prossimi anni. Le tavole rotonde sono state incentrate, in particolare, su alcuni degli aspetti che, a tutt'oggi, paiono maggiormente condizionare il sistema dei trasporti europei. Una particolare attenzione è stata rivolta ai modi di realizzazione concreta dell'intermodalità per il trasporto di merci, alla determinazione di prezzi equi, alle possibili infrastrutture per una nuova rete transeuropea nonché alla necessità di conciliare il diritto alla mobilità con standard ottimali di qualità e sicurezza.

Ma la portata programmatica del Libro Bianco si sviluppa ben ol- Le caratteristitre le accennate linee generali che, in realtà, sono sviluppate e approfondite in un'ampia proposta di intervento, articolata in circa che del sessanta misure la cui finalita complessiva e di giungere, entro il settore 2010, ad un riequilibrio stabile delle diverse modalità di trasporto.

Il settore, infatti, è caratterizzato da una costante crescita della domanda, che negli ultimi venti anni è stata pari a circa 2,3% l'an.

L'Autrice è Consulente della Ristuccia Advisors e dottoranda di ricerca in Diritto regionale e degli Enti locali presso l'Università di Ancona.

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no per le merci e al 3,1% per i passeggeri. Questo trend ha inevitabilmente comportato notevoli problemi, connessi alla congestione ed alla saturazione delle vie di comunicazione, tanto che in più parti del Libro Bianco la Commissione evidenzia come "in assenza di interventi correttivi, l'Europa si troverà presto minacciata da una sindrome di soffocamento al suo centro e di paralisi alle sue estremità Per altri versi, tuttavia, la crescita' della domanda di trasporto rimane un elemento essenziale nel raggiungimento degli obiettivi indicati nelle conclusioni del Consiglio Europeo di Goteborg ovvero l'allargamento ai Paesi candidati e l'effettiva realizzazione dello sviluppo sostenibile.

L'esame delle misure programmatiche contenute nel Libro Bianco La rilevanza non può, inoltre, svilupparsi a prescindere da una costante valuta- economica zione della rilevanza economica assunta dal settore sul generale assetto dell'Unione. L'industria dei trasporti rappresenta, infatti, oltre il 10% del prodotto interno lordo, impiega circa il 7% dei posti di lavoro complessivi e attrae il 40% degli investimenti realizzati dai vari Stati membri.

Proprio quest'ultimo elemento ha ispirato la volontà degli Stati firmatari del Trattato di Roma di elaborare una politica comune dei trasporti ed è in quest'ottica che nel 1992 la Commissione ha elaborato il primo Libro Bianco, intitolato "Lo sviluppo futuro della politica comune dei trasporti", il cui obiettivo primario era identificato nell'apertura del mercato.

A distanza di quasi un decennio, questa meta è stata pressoché raggiunta. Ciò ha consentito di ottenere significativi progressi nell'attuazione della politica comune che, però, non sempre ha avuto uno sviluppo coerente e armonioso. La piena realizzazione del mercato unico, infatti, è stata spesso ostacolata da distorsioni nei meccanismi di concorrenza e dalla mancata omogeneizzazione delle disposizioni normative vigenti in campo fiscale e sociale nei vari Stati membri.

L'azione congiunta dei due ultimi elementi considerati ha fatto crescere alcuni specifici fattori di criticità, la cui definitiva eliminazione è posta alla base del programma d'attività contenuto nel Libro Bianco.

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Il primo fattore di criticità è senza dubbio rappresentato dalla crescita squilibrata dei diversi modi di trasporto che, se in parte è espressione della flessibilità e della capacità di adattamento insita in alcune tipologie di trasporto, dall altra e una diretta conseguenza sia dell'inosservanza delle normative in materia di sicurezza e di lavoro, sia della mancata internalizzazione dei costi esterni nei prezzi di utilizzo dei servizi.

A questo fattore si aggiunge l'aumento costante della congestione delle reti, che è un fenomeno rilevante soprattutto nel caso di determinati assi stradali e ferroviari, dei grandi centri urbani e degli aeroporti. Non meno importanti sono, infine, i problemi di tipo ambientale e quelli strettamente connessi alla salute dei cittadini europei.

Lo squilibrio dei modi e la congestione delle reti

Si tratta di fenomeni strettamente connessi nel senso che la cresci- Le ta della congestione, che è avvenuta soprattutto nelle regioni centrali conseguenze e si è coniugata con un isolamento eccessivo delle zone periferiche, è della congestione dovuta proprio all accentuarsi dello squilibrio tra i diversi modi di trasporto che, tra gli altri, muove in evidente favore del traffico su strada il quale fra il 1990 ed il 1998 è aumentato del 19,4% contro la diminuzione del 43,5% subita dal traffico ferroviario.

In ogni caso, l'eccesso di congestione di cui è affetto il sistema europeo rappresenta una minaccia seria per la competitività dell'industria comunitaria e per la possibilità di questa di accedere a nuovi mercati. Le reti infrastrutturali costituiscono, infatti, delle vere e proprie "arterie" per il mercato unico che risente inevitabilmente di ogni incostanza nella circolazione, oltre che dell'assenza di interoperabilità fra i diversi modi di trasporto.

Recenti studi in materia hanno, inoltre, evidenziato come tra i costi esterni connessi alla congestione, quelli legati al traffico statale rappresentino una parte non indifferente dell'intero prodotto interno lordo comunitario (circa lo 0,5%) e detti costi sono destinati a crescere in misura sensibile in assenza di specifici interventi correttivi.

Le ragioni che, secondo la Commissione, sono alla base dei pro- Le ragioni blemi connessi alla congestione sono diverse, ma tra queste la strut- della tura dei prezzi assume indubbiamente un ruolo peculiare. Questa, congestione infatti, troppo spesso non riflette in maniera integrale i costi soste32

nuti nello svolgimento del trasporto come, ad esempio, quelli derivanti dai danni all'ambiente e dagli incidenti.

L'eccessiva saturazione è dovuta, tuttavia, anche ai notevoli ritardi accumulati nella realizzazione delle infrastrutture volte a costruire la rete transeuropea, ritardi che si sono verificati soprattutto in località caratterizzate da flussi di traffico esigui e, comunque, non sufficienti a garantire a priori una redditività degli investimenti sostenuti.

Le notazioni che qui sono state brevemente riportate vanno lette congiuntamente ad alcune osservazioni inerenti il terzo fattore di criticità che, come già accennato, è rappresentato dall'esigenza di perseguire la stabilizzazione di uno sviluppo sostenibile.

Quest'obiettivo, che trova una piena legittimazione nel Trattato di Amsterdam, rende inevitabile un'integrazione effettiva della dimensione ambientale nelle politiche comunitarie e, in effetti, già dagli orientamenti espressi nel Consiglio di Goteborg era emersa la necessità di porre al centro di detta strategia, quale elemento prioritario, proprio il riequilibrio fra i modi di trasporto.

In ogni caso, la Commissione ritiene realisticamente che non sarà possibile raggiungere lo scopo prefissato se non nel medio periodo, ma sfrutta comunque il Libro Bianco per porre in evidenza che alcune criticità possono essere affrontate e risolte entro il termine decennale previsto dal programma d'azione comunitario. Il riferimento è, in particolare, alla diminuzione, almeno parziale, delle emissioni di ossido di carbonio, alla riduzione della dipendenza dal petrolio nonché ad una maggiore tutela della qualità dell'aria, anche con riguardo all'inquinamento acustico.

L'aumento Si deve tenere presente, tuttavia, che le misure proposte dal Libro Bianco, oltre a definire le linee programmatiche della politica comu- della di ne volte ad eliminare i fattori di criticita evidenziati, sono finalizzate domanda moDilita a prevenire alcuni degli effetti che deriveranno dall allargamento dell'Unione ai Paesi attualmente candidati. Tra gli altri, detto evento potrebbe incidere in maniera particolare sull'aumento della domanda di mobilità e, come accennato, questa può rappresentare un grave fattore negativo: è possibile separare il riequilibrio dei modi di crescita delle economie integrate da un'adeguata politica dei trasporti?

In realtà, gli orientamenti espressi nel Libro Bianco sembrano comunque tesi a tenere distinti i problemi, poiché non necessaria-

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mente una crescita costante della domanda di mobilità comporta benefici durevoli per quella del sistema economico. Per questo motivo, la Commissione ha previsto una serie di misure specificamente volte al progressivo "sganciamento" delle due politiche, pur dòvendo mantenere ferma l'ipotesi di un approccio integrato. Si cercherà, dunque, di coniugare modalità d'intervento che interessino la tariffazione con altre che stimolino un rilancio dei modi di trasporto alternativi e a queste azioni si accompagnerà una politica di investimenti mirati rivolta, soprattutto, alla realizzazione di infrastrutture ferroviarie e di navigazione interna o marittima di corto raggio.

Sotto il profilo considerato, l'obiettivo posto dalla Commissione è di realizzare, in qualche modo, la scissione tra crescita economica e quella del traffico senza per questo incidere negativamente sulla mobilità dei cittadini e delle merci, componente essenziale alla piena realizzazione del mercato unico.

Alla luce delle considerazioni sinora svolte, occorre ora esaminare più nel dettaglio le principali misure indicate dalla Commissione nel Libro Bianco sulla politica comune dei trasporti, considerando comunque che il programma d'azione proposto prevede tempi di attuazione differenziati su cui sarà operata una valutazione intermedia nel 2005 al fine di verificare almeno il raggiungimento degli obiettivi quantitativi più agevolmente misurabili.

Un primo gruppo di misure ha ad oggetto indicazioni volte ad Il rilancio operare un rilancio mirato di singoli settori del trasporto europeo e, dei singoli in primo luogo, l'attenzione è posta sul ruolo delle ferrovie che rap- settori presentano, ad avviso della Commissione, il settore strategico che sarà maggiormente in grado di contribuire al riequilibrio dei modi.

Il fattore cruciale in quest'ambito è il rafforzamento della competitività, che dovrebbe avvenire sia stimolando l'ingresso di nuove compagnie ferroviarie sul mercato, sia ristrutturando le compagnie esistenti. In altre parole, occorre favorire l'operatività delle imprese in regime di concorrenza al fine di realizzare, nel medio periodo, una piena apertura dei mercati sotto il profilo del trasporto internazionale di merci e del cabotaggio sui territori nazionali. Nel lungo periodo, questa politica dovrebbe, inoltre, permettere di allargare l'obiettivo previsto per il trasporto internazionale di passeggeri.

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Il trasporto su strada, invece, pur rappresentando il settore con pii elevato grado di flessibilità, è anche quello caratterizzato dalla maggiore frammentazione e da una notevole pressione sui prezzi.

Le imprese tendono, pertanto, ad adottare pratiche di dumping sui prezzi nonché ad eludere la normativa esistente in materia di sicurezza e di lavoro.

Le misure proposte nel Libro Bianco per il settore considerato sono, quindi, prevalentemente di tipo regolamentare e sono finalizzate all'armonizzazione delle clausole contrattuali che consentono di regolare le tariffe in caso di improvviso aumento del prezzo del carburante. La stessa natura normativa delle azioni previste richiederà, tuttavia, anche una revisione delle procedure di controllo e di verifica a posteriori.

Per quanto riguarda i trasporti marittimi e fluviali, che sono le modalità di trasporto alternative forse maggiormente in grado di ridurre la congestione, la Commissione prevede la creazione di "autostrade del mare" ovvero di specifiche infrastrutture di trasporto marittimo a corto raggio nonché di ulteriori collegamenti fluviali. La realizzazione di dette strutture dovrà, però, essere accompagnata da miglioramenti delle connessioni intermodali fra reti portuali, ferroviarie e fluviali.

Dal punto di vista normativo, invece, l'obiettivo proposto nel Libro Bianco è di rafforzare le regole di sicurezza in mare nonché quelle di gestione del traffico marittimo e, a tal fine, la Commissione si impegna a presentare un'apposita proposta di direttiva.

Le

Di tipo legislativo sono anche le misure d'intervento indicate per il settore del trasporto aereo. La modalità considerata, infatti, è sempre stata caratterizzata da una gestione del traffico estremamente frammentaria, dal che derivano notevoli ritardi nell'erogazione del servizio, consumi di carburante eccessivi e diminuzione di competitività per le compagnie operanti.

Per queste ragioni, la Commissione ha deliberato l'esigenza di emanare entro il 2004 un documento di regolamentazione comunitaria del settore, nel quale si dovranno prevedere anche appositi strumenti di crescita delle stesse capacità aeroportuali e di riduzione dell'inquinamento acustico e ambientale provocato dai mezzi.

Il trasporto aereo

"autostrade del mare"

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Un secondo gruppo di misure riguarda, invece, il settore dei trasporti inteso nella sua globalità. In tal senso, la prima azione di intervento ipotizzata è ovviamente quella che riguarda la valorizzazione dell'intermodalità, elemento indispensabile all'effettivo sviluppo di soluzioni alternative al trasporto su strada. L'obiettivo prefissato, che a tutt'oggi trova attuazione in pochissime esperienze concrete, può essere raggiunto solo attraverso una gestione efficace dei diversi modi di trasporto all'interno della quale le prestazioni erogate siano perfettamente integrate e coordinate.

Le azioni proposte dalla Commissione sono, perciò, finalizzate a promuovere l'armonizzazione tecnica dei sistemi di traffico e trovano un efficace supporto nel programma comunitario di sostegno denominato "Marco Polo", che è lo stesso in cui trova finanziamento anche la costruzione delle citate "autostrade del mare".

Questo programma di intervento è direttamente collegato con le misure che hanno ad oggetto la revisione degli orientamenti adottati in materia di realizzazione delle infrastrutture transeuropee. La volontà della Commissione è di rivedere le decisioni assunte; privilegiando i progetti che sono finalizzati all'eliminazione delle "strozzature" nella rete ferroviaria e al riadattamento degli itinerari che saranno maggiormente interessati dai flussi di traffico conseguenti all'allargamento dell'Unione verso le regioni frontaliere e periferiche.

Detta revisione non sarà scissa da quella relativa alle disposizioni che attualmente regolano la concessione degli aiuti finanziari e lo scopo di quest'azione sarà principalmente di autorizzare una maggiore partecipazione della Comunità al finanziamento di quelle opere che presentano una minore redditività per i privati ma un maggior valore aggiunto ai fini dellacostituzione della rete transeuropea.

La valorizzazione del settore nel suo complesso

Un ultimo gruppo di misure è quello che, per alcuni aspetti, può essere considerato il pii innovativo poiché, per la prima volta, pone la politica comune dei trasporti "al servizio" dei cittadini europei.

L'attenzione rivolta all'utenza trova riscontro, innanzitutto, nella volontà della Commissione di rafforzare in misura considerevole la sicurezza stradale. In proposito, si deve considerare che "ogni giorno il numero di morti sulle strade europee è praticamente pari al numero di passeggeri di un aereo di medie dimensioni" ed è evi-

Al servizio dei cittadini

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dente come queste vittime rappresentino per la Comunità un costo umano intollerabile, oltreché un grave costo economico.

L'obiettivo proposto nel Libro Bianco è, quindi, di riuscire a dimezzare il numero delle vittime entro il 2010 e, considerando la diffusa reticenza degli Stati membri ad una regolamentazione unitaria della materia, la Commissione propone di sfruttare innanzitutto lo strumento dello scambio di buone pratiche, anche se ciò non preclude in alcun modo l'eventuale adozione di iniziative regolamentari, ove necessario. Inoltre, nel breve periodo si provvederà ad operare una parziale armonizzazione della segnaletica stradale in alcune delle località più pericolose, nonché a riorganizzare le disposizioni in materia di controlli e sanzioni per abuso di alcol ed eccesso di velocità.

Alcuni orientamenti riguarderanno, invece, le politiche di tariffa- L'uso della zione e saranno rivolti sia ad operare l'armonizzazione della fiscalità tariffa dei carburanti per uso professionale, sia a riavvicinare l'impostazione dei profili tariffari all'uso effettivo delle infrastrutture. Molto spesso, infatti, gli utenti non pagano i costi che generano usufruendo del servizio e ciò induce a distorsioni della concorrenza, oltre a limitare il corretto funzionamento del mercato unico.

La leva tariffaria rappresenta, inoltre, pressoché l'unico strumento in grado di influenzare l'utilizzo di modi di trasporto meno inquinanti o ridurre quello di reti eccessivamente congestionate. In particolare, l'obiettivo della Commissione è di stimolare l'uso di tipologie di trasporto con minore impatto sull'ambiente al fine di permettere nuovi investimenti in infrastrutture operati con le risorse risparmiate.

Tuttavia, ciò sarà possibile solo ove si preveda un'effettiva parità di trattamento tra operatori e modi di trasporto, azione che comunque dovrà essere coniugata con la destinazione delle risorse aggiunte alla costruzione di infrastrutture in grado di agevolare l'intermodalità.

Gli orientamenti contenuti nel Libro Bianco prevedono, inoltre, che le politiche tariffarie siano accompagnate dall'estensione dei diritti dei cittadini nell'accesso ai servizi di trasporto, anche con riferimento alla trasparenza e alla circolazione delle informazioni. L'ipotesi suggerita dalla Commissione è di estendere anche ad altre modalità il riconoscimento formale operato con la Carta dei diritti del, 37

passeggero aereo, cui potrebbe corrispondere un'identificazione più puntuale dei doveri che l'erogazione del servizio inevitabilmente comporta per i gestori.

Occorre insomma sottolineare che l'attenzione per l'utenza è l'elemento trainante anche delle indicazioni volte a favorire lo scambio di buone pratiche per un utilizzo più efficiente delle strutture di trasporto esistenti nei centri urbani, soprattutto di maggiori dimensioni. In questi casi, infatti, la crescente congestione ha comportato un graduale ma costante degrado della qualità della vita, cui la Commissione cerca di porre rimedio mediante la realizzazione di un approccio diverso al trasporto urbano, anche al fine di rendere più razionale l'utilizzo delle automobili negli spostamenti in città.

Il trasporto urbano

Infine, negli orientamenti espressi dalla Commissione un ruolo fondamentale è riconosciuto alla ricerca ed allo sviluppo tecnologico, per i quali negli ultimi anni sono stati compiuti notevoli investimenti. In quest'ambito, si intende operare un avvicinamento tra gli obiettivi inseriti nel nuovo Programma Quadro di Ricerca 20002006 e quelli contenuti nel Libro Bianco, soprattutto con riguardo all'avvio di azioni finalizzate a rendere i trasporti stradali e marittimi più sicuri ed al contempo meno inquinanti.

Inoltre, gli studi sinora effettuati dalla Commissione costituiranno la base scientifica su cui verrà formulata un'apposita proposta di direttiva volta all'armonizzazione delle modalità di pagamento di alcune tipologie di infrastrutture nonché di un secondo documento avente ad oggetto la revisione delle norme di sicurezza da osservare nel transito in galleria.

Il ruolo della ricerca e

L'analisi del programma d'azione indicato dalla Commissione nel Libro Bianco dimostra come le singole misure contengano forti elementi di innovazione che, se correttamente messi in opera, avranno senza dubbio un'influenza positiva sul settore dei trasporti europei.

Occorre, tuttavia, considerare che il complesso del sistema normativo che regola il settore è il frutto di regole diverse: quelle del diritto internazionale e comunitario, che mirano a facilitare gli scambi e il commercio, e quelle indicate dai singoli Stati membri che, spesso, sono finalizzate ad una forte protezione dei mercati interni.

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dello

sviluppo tecnologico

Le prospettive

del programma d'azione

Pertanto, e anche in prospettiva dell'allargamento ai Paesi candidati, l'Unione dovrĂ inevitabilmente rivedere il suo ruolo sulla scena internazionale, cercando di continuare a favorire l'apertura concorrenziale dei mercati senza, tuttavia, trascurare l'importanza di porre in essere una politica che garantisca la qualitĂ dei servizi offerti ai cittadini e la sicurezza sia di questi che degli operatori del settore.

In tal senso, la Commissione ritiene necessario rafforzare il ruolo della Comunità anche all'interno delle organizzazioni internazionali. Ciò dovrebbe consentire anche la realizzazione di un'effettiva tutela degli interessi europei a livello mondiale.

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UE-government come problema editoriale.

Spunti da un dibattito a Cortona di Massimo Ribaudo

ueste istituzioni ha organizzato, dal 17 al 18 novembre a Cortona, un dibattito suiio stato dell'arte in merito alle concrete attuazioni delle policy relative all'e-government in Italia. Sergio Ristuccia ne ha diretto i lavori, all'interno dei quali si sono succeduti diversi e autorevoli interventi. Il ministro dell'Innovazione Tecnologica, Lucio Stanca, ha offerto un quadro della situazione al momento del suo insediamento e le linee strategiche del suo mandato.

Uno dei temi più interessanti è stato quello del rapporto tra l'Information Technology e la figura del soggetto beneficiano dei servizi: una figura che può essere inquadrata nelle categorie di cittadino, utente e/o cliente. L'e-citizenship, appunto. Degli interventi di Gregorio Arena, Lucio Stanca, Antonio Di Majo e di Sergio Ristuccia su questo aspetto tratteremo più diffusamente nel prossimo numero della rivista.

Ciò che ci preme, invece, sottolineare in questo breve articolo è l'atmosfera di sostanziale e, talvolta, aperta diffidenza tra rappresentanti delle istituzioni pubbliche e management delle società private di software e consulenza che l'incontro ha cercato di attenuare attraverso un franco confronto. Atmosfera che non permette, in generale, di raggiungere gli obiettivi più impegnativi del piano di egovernment nazionale, che sono quelli di ottimale gestione delle risorse impiegate, sviluppo di progetti integrati a livello nazionale e locale di informatizzazione dei servizi, utilizzazione delle più aggiornate e sicure tecnologie in materia di trasmissione multi-piattaforma dei dati (modelli di gestione dei dati che possano essere utilizzati per trasferirli su un Pc domestico, su un palmare, in un microchip di carta digitale multifunzione).

In tutti i Paesi dove sono stati sviluppati modelli di azione ammiUn approccio nistrativa basata sull'utilizzazione dell'Information Tecnology, i casi pragmatico 40

di successo si sono basati suiio stesso pragmatico approccio metodologico. Ci si è chiesto quali tipologie di procedimenti amministrativi potessero - per la loro natura e la loro funzione - essere informatizzati, attraverso quali linguaggi di sviluppo e software, con quale impatto comunicativo-procedurale interno ed esterno.

E, in prima battuta, possiamo affermare che, in genere, l'e-government è stato visto come facilitazione procedurale "interna" alla pubblica amministrazione.

Laddove, anche a livello federale americano, si è parlato di "rivoluzioni", di programmi faraonici per "cutting the red tape" (the red tape è il cordoncino rosso che lega i fascicoli sulle scrivanie dei burocrati), il tutto si è poi risolto in un vigoroso "taglio delle risorse umane" e conseguente perdita di consenso politico e amministrativo.

Il dibattito va spesso nella direzione di chiedersi quanto e come la tecnologia sia in grado di riformare i modelli di azione amministrativa e la qualità dei servizi per la cittadinanza. Il che non è del tutto fuori luogo, una volta pianificate le azioni, implementate, poste a regime e monitorate. Ma preoccuparsi di come l'lT possa modificare il volto della Pubblica Amministrazione quale tema strategico iniziale rischia di mandare fuori rotta l'analisi delle azioni intraprese e la progettazione di quelle da prendere.

In questo articolo proveremo a suggerire, invece, due diversi approcci interpretativi che non pongono le esigenze di riforma della Pubblica Amministrazione come angolo visuale prioritario, ma che vedono nei problemi di costruzione di modelli editoriali dei contenuti e nell'esigenza di partnership pubblico-private per una effettiva governance del settore, due fuochi di discussione alternativi, e si spera, maggiormente produttivi di soluzioni concrete.

Che la Rete globale sia qualcosa di notevolmente vicina all'ammi- L'enistrazione pubblica lo si potrebbe far risalire direttamente alle sue government e origini fin troppo scopertamente legate alle necessità di comunica- Gutemberg zione dell'amministrazione militare americana che ne iniziò la costruzione fisica e la diffusione attraverso Arpanet. Ma è un'altra storia quella che vorremmo ricordare.

Charles Goldfarb amava confondere la gente.

Nel 1966, due anni dopo essersi laureato ad Harvard, questo giovane avvocato non ne poteva già più di stare a scrivere e riscrivere 41

relazioni per il suo boss: per dare sfogo all'energia repressa, dedicava parecchie ore del proprio tempo al suo hobby preferito: organizzare raily per auto sportive nell'area di Boston.

Il suo compito di "rally master" consisteva nel tracciare i percorsi sulle cartine e convertirli poi in una successione di istruzioni molto dettagliate. Charles scriveva comandi tipo "Ripetere gli ultimi sei passaggi sostituendo 'svolta a destra' con 'svolta a sinistra".

Capitò un giorno che un amico gli fece notare che i suoi tragitti erano scritti esattamente come i programmi per computer. Davvero?" rispose, "E cos'è un programma per computer?". Ben presto scoprì che la IBM era disposta a pagargli un buon stipendio per scrivere le sue istruzioni logiche non per i patiti del volante, ma per i computer. La IBM gli propose, quindi, di partecipare a un interessante progetto: valutare la possibilità di applicare la tecnologia informatica alla giurisprudenza.

L'idea di base prevedeva l'archiviazione, in un database, dei docu- L'lT ela menti legali sotto forma di testi elettronici e la possibilità, per gli giutisprudenavvocati, di consultare tali informazioni e combinare i risultati se- za condo le proprie necessità.

Charles si ricordò della frustrazione provata anni addietro, quando si vedeva costretto a inviare i testi dettati alla segretaria, a rivederli e correggerli per poi riscriverli ogni volta: un processo della massima inefficienza.

I rudimentali sistemi di elaborazione testo allora conosciuti consentivano di memorizzare i documenti e recuperarli, mantenendo comunque la formattazione base. Ben presto, Charles si rese conto che era facile memorizzare un testo in un database (anche se il database era formato da schede cartacee); più difficile era prelevare il testo e farne qualcosa di interessante.

Il nostro amante dell'eclettismo si trovò di fronte a un dilemma.

Come era possibile memorizzare in un database un testo, con tutte le sue belle formattazioni per la stampa e, allo stesso tempo, effettuare ricerche approfondite? Per trovare la soluzione a questo problema è necessario un piccolo ripasso di storia dell'editoria.

Quando un documento stampato viene consegnato al revisore di Testi e codici bozze per gli ultimi ritocchi grammaticali e tipografici, il revisore è solito inserire i suoi appunti scrivendo varie note a margine. È 42

questo che continuiamo a fare con la rivista che state leggendo. Tali note o codici specificano l'aspetto che il testo deve avere. Il tipografo, il responsabile della composizione della pagina finale sulla macchina da stampa, interpreta questi codici. Per i titoli, e per qualsiasi altra parte del testo, si specifica un codice indicante il tipo di carattere da utilizzare. "7R36gIc", ad esempio, significa che il titolo deve essere scritto in Times Roman, 36 punti, grassetto e centrato.

Per snellire un po' il processo, sono stati spesso definiti degli standard relativi a ogni paragrafo che compone un brano o una pagina.

In tal modo, il revisore non deve scrivere sempre gli stessi codici tipografici ogni volta che incontrava lo stesso titolo o lo stesso paragrafo. A ogni codice è stato poi attribuito un nome, allo scopo di risparmiare tempo e garantire maggiore uniformità a tutta la pubblicazione. Se si tratta, ad esempio, di un quotidiano, si possono definire gli stili corrispondenti ai titoli degli articoli, in base alla posizione che questi occupano sulla pagina. In fase di impaginazione basta marcare, ad esempio, la prima riga di testo di un articolo con una notazione standard tipo "7IT0LO3". Quando il compositore vede tale annotazione, va a consultare l'elenco degli stili e, di conseguenza, applica alla riga lo stile corrispondente. Questo processo è passato in tutti i campi dell'editoria ed è giunto anche ad altre discipline, tra cui l'informatica.

I primi programmi computerizzati di elaborazione testo seguiro- La storia del no più o meno la stessa evoluzione. Come i revisori di bozze ag- testo giungono le note ai vari paragrafi, cosi i programmi di elaborazione elettronico testo applicano i loro codici specifici o marcature (in inglese markup). L'utente aveva, quindi, la possibilità di definire il testo con istruzioni di formattazione indicanti in che modo il testo doveva essere presentato: se in grassetto, corsivo, grande o piccolo.

Pur sembrando una trovata abbastanza interessante in un contesto storico astratto, in realtà fu un'innovazione radicale per ricercatori còme Charles Goldfarb i quali, tra l'altro, si resero ben presto conto che non bastava utilizzare le normali convenzioni tipografiche nei programmi di elaborazione testi. Essi ritenevano piuttosto che, anche per i testi elettronici, si dovessero utilizzare gli stessi codici generali noti a revisori di bozze e compositori. Separando la 43

presentazione di un documento dal suo contenuto strutturale di base, si riuscivano a spezzare le catene che tenevano il testo elettronico legato ad un unico aspetto visivo.

Goldfarb provò a memorizzare i propri testi legali scomposti in varie parti, etichettando ogni parte in base al suo contenuto e non all'aspetto esteriore che avrebbe dovuto avere. Invece di contrassegnare una parte di testo come Times Roman 36 punti, bastava scrivere "Titolo". E la stessa procedura poteva essere seguita per le altre parti dei testo: autore, data di pubblicazione, sintesi, ecc. Ogni marcatore veniva abbinato a un determinato stile di formattazione, dopodiché veniva prodotto il documento vero e proprio. Aggiornare, modificare e ristampare erano ormai operazioni semplicissime, giochi da ragazzi. La tecnologia aveva semplicemente risposto ad un'esigenza. Come in genere dovrebbe fare.

Charles Goldfarb continuò a lavorare alla IBM con Edward Mosher I Tag e i e Ray Lorie fino ai primi anni Settanta. Alla ricerca di sistemi infor- documenti matici per la gestione dei documenti legali, che, come noterete, hanno una stretta ed inscindibile somiglianza con gli atti amministrativi, questi tre ricercatori svilupparono un sistema basato sull'utilizzo di vari tag, con cui codificare la struttura di un documento. Questi tag seguivano lo stesso principio dei codici tipografici, vale a dire definivano il tipo di presentazione non delle singole parole, ma dei vari elementi del testo. Da qui i tre iniziarono un'opera di astrazione: invece di sviluppare un set standard di tag, perché non definire regole generiche in base alle quali applicare questi tag ai documenti? Così facendo si definì la possibilità di codificare il documento in base alle proprie caratteristiche specifiche, lasciando tuttavia a livello generico, e quindi uniforme, aspetti quali la ricerca, l'applicazione di stili e la stampa dei documenti, siano essi memorie legali o articoli per quotidiani. Questo sistema fu battezzato con il nome di "Generalized Markup Language" o GML, acronimo che, casualmente, corrisponde anche alle iniziali dei suoi ideatori.

Ed ecco l'aspetto interessante: il linguaggio GML andava bene per La scoperta qualsiasi testo elettronico. Adottando un metodo standard di codi- di un fica del contenuto - questo il ragionamento seguito - i documenti lntj urnversale potevano essere ietti aa qualsiasi computer.

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L'importanza di un sistema come questo crebbe in modo esponenziale.

L'idea superò ben presto le mura della IBM e il mondo editoriale si rese subito conto che, standardizzando la metodologia base su cui si fondava il linguaggio GML, nel mondo sarebbero nati svariati sistemi editoriali vertenti tutti attorno allo stesso concetto centrale. Per anni, i ricercatori si diedero da fare cercando il modo migliore per raggiungere questi obiettivi ed ecco che, verso la metà degli anni Ottanta, fu messo a punto lo Standard Generatized Markup Language o linguaggio SGML, le cui specifiche, note al mondo con il nome di Iso 8879, sono tuttora in uso.

Con il linguaggio SGML venivano portate avanti le idee costituenti Il sistema il GML. I tag non si limitavano a essere semplici comandi di foHnat- SGML tazione tipografica, ma potevano servire per avviare programmi con qualsiasi tipo di comportamento avanzato. Se, ad esempio, al titolo di un libro veniva abbinato il tag <book>, un sistema SGML era in grado non solo di scrivere il titolo in corsivo, ma di farci molto di più. Il tag book poteva far partire un codice con la ricerca di un numero ISBN, seguita dalla creazione di un riferimento bibliografico comprensivo di autore, editore e altri dati.

Il linguaggio SGML segna quindi un'importante pietra miliare, ancor più importante se si considera che migliaia di società, organizzazioni e istituzioni si erano concordate su un sistema unico di codifica dei documenti elettronici: un'innovazione rivoluzionaria.

Se abbiamo ricordato questa storia è per dimostrare che il tema Un dialogo della digitalizzazione e veicolazione delle informazioni su diverse da piattaforme non è (soltanto) un tema per informatici. È un campo ripristinare dove, sin dall'inizio, il dialogo tra utilizzatori e sperimentatori di sistemi ha condotto alle soluzioni più innovative.

Ci chiediamo allora perché gli amministratori pubblici e i dirigenti delle più importanti società produttrici di software lascino che i discorsi sui nuovi linguaggi di marcatura (sigle quali SMIL, )(ML, XHTML, So) siano riservati a circoli esoterici (che poi conquistano un effettivo potere di decisione come il www Council), quando invece, attraverso workshop e brainstorming comuni tra amministratori, ingegneri, e perché no, esperti di comunicazione si potrebbero

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realizzare modelli informativi più adeguati alle esigenze del pubblico e dei consumatori.

Nel suo intervento al dibattito sull'e-government cortonese, il manager della Microsoft Davide Viganò ha giustamente ricordato quanto sarebbe necessario utilizzare nuovi modelli di metalinguaggi per far sì che, su una intranet o una extranet pubblica, determinati tipi di documenti siano rintracciabili attraverso una definizione degli stessi nei termini prima accennati. Ha anche detto che un linguaggio del genere esiste: è l'XML (eXtended Markup Language). Per poi, però, aggiungere che è troppo difficile spiegare cosa questo sia. Ed invece dovremmo spiegarlo di più, formare centinaia di addetti alla comunicazione amministrativa per fare in modo che il prossimo bando di gara pubblicato in Internet sia rintracciabile - entro il periodo della sua validità - da motori di ricerca specialistici attraverso il tag <bandodigara> e non si perda nella grande rete.

In Italia, soltanto il gruppo di lavoro di giustizia.it , portale pubblico da sempre all'avanguardia tecnologica e contenutistica, sta proponendo modelli di formazione orientati all'XML, mentre sarebbe importante porre la questione a livello strategico soprattutto in relazione ai portai pubblici delle amministrazioni locali, principali destinatari delle risorse del Piano di e-government nazionale.

Spiegare

Le soluzioni applicative legate all'information technology dovrebbero consistere in procedure per migliorare la catalogazione, l'archiviazione, la sicurezza e la fruizione di dati. Che questo possa velocizzare i procedimenti amministrativi e migliorare i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino è evidente. Ma ciò si verifica, e può essere avvertito dal cittadino elettore, soltanto nel caso in cui la tecnologia offra un autentico beneficio, e ciò non accade per decreto. Come ha messo in chiaro il Ministro Stanca, al "cittadinocliente" non interessa che la propria residenza sia certificata o meno attraverso internet o una firma digitale. Vorrebbe che il cambio di residenza sia effettivo per tutte le amministrazioni con cui viene in contatto in un arco temporale ristretto. E questo non avviene proprio perché il dialogo tra decisori pubblici e sviluppatori di soluzioni tecnologiche è spesso in cortocircuito.

Per velocizzare le procedure

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l'XML

Sarà anche vero, come ha affermato autorevolmente Andrea Di E-government Maio di Gartner Group, che il compito e l'autorevolezza dei web e diritti dei pubblici andra sempre piu scemando, (anche se, per il momento, il cittadini survey proposto dal portale Washington Technology - www. washingtontechnology.com - afferma esattamente il contrario). Comunque, oggi, gli investimenti più cospicui e le soluzioni più interessanti vengono proposti proprio dagli esperimenti di e-government. È semplice spiegare il perché. Se, come abbiamo cercato di ricordare, l'usabilità dei dati viene prima di qualsiasi soluzione informatica, dovremmo ricordare come, dalle generalità anagrafiche, al luogo di residenza, alle caratteristiche fisiche, all'assenza di condizioni interdittive della capacità giuridica, il settore pubblico custodisca la maggior parte di dati "sensibili" relativi alla vita di un individuo. È bene anche sottolineare come, dalla scuola alla pensione, questi ed altri dati da sempre certificati o comunque archiviati dal soggetto pubblico contribuiscano all'esplicazione di diritti politici, civili, economici. È quindi questo uno dei settori principe per la casistica di ciò che The public negli Stati Uniti viene chiamata Public Private Partnership. Per de- private scriverla, in breve, potremmo usare la definizione che troviamo sul pathip sito del governo irlandese per la public private partnership: "a Public Private Partnership (Pp) is a partnership between the public and private sectorfor the purpose of delivering a project or service traditionaily provided by the public sector. Public Private Partnership recognises that both the public sector and the private sector have certain advantages relative to the other in the performance ofspecific tasks. By allowing each sector to do what it does best, public services and infrastructure can beprovided in the most economically efficient manner".

Il soggetto privato non si sostituisce al detentore della funzione pubblica ma elaborerà all'interno di un gruppo di progetto misto una serie di metodologie o di prodotti che possono contribuire ad eliminare le criticità del suo esercizio.

Diverse sono le possibilità perché tra i due soggetti non vi sia una competizione che ne elimini uno nella dicotomia statalizzazione/privatizzazione. E si concretano spesso nel settore dell'e-government, come diverse best practices a livello nazionale hanno dimostrato. Di questo speriamo tenga conto il prossimo forte intervento governativo per il finanziamento di piani di e-government locali.

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Flessibili e t artassati* di Giuseppe Berta

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uasi nessuno l'ha segnalato, ma fra le novità di fine anno emerse dalla nuova Legge Finanziaria approvata dall'esecutivo, ce n'è una che tocca una categoria di lavoratori sempre più folta, ma dai lineamenti ancora sfuggenti, quella dei "collaboratori coordinati e continuativi".

Si tratta di una massa di lavoratori che, a fine secolo, incarnano il principio di flessibilità: i "parasubordinati" sono "prestatori d'opera" ingaggiati per un periodo di tempo delimitato, che possono essere reclutati con facilità quanto facilmente esonerati. All'inizio erano dei consulenti di serie B; poi, quando è stato riconosciuto un obbligo relativamente alle assicurazioni contro gli infortuni e pensionistica, sono stati sommariamente assimilati al lavoro dipendente, ma senza godere delle prerogative di tutela di quest'ultimo.

Ufficialmente, la categoria dei collaboratori è nata nel 1996, Il "popolo quando sono stati assoggettati alla disciplina previdenziale e del 10%" all'iscrizione obbligatoria all'Inps, e subito è stata coniata per loro una definizione: sono diventati "il popolo del 10%", perché questa era la percentuale del reddito che dovevano versare all'ente pubblico di previdenza. Era una definizione ricalcata su quella, più celebre e altisonante, del "popolo delle partite Iva", carica di valenze politiche all'epoca in cui era di moda discutere della "questione settentrionale". Solo che non è valsa a riscattare dall'anonimato i collaboratori, i quali hanno visto rapidamente crescere i loro oneri contributivi, senza alcuna certezza di ricevere un giorno una pensione. L'anno scorso il contributo era già del 13 per cento; quest'anno è stato fissato al 14%. È un aggravio molto consistenze per soggetti che col lavoro dipendente tradizionale condividono soltanto degli obblighi, mentre

L'Autore è Professore di Storia Economica Contemporanea presso l'Università Bocconi di Milano.

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partecipano della precarietà e dell'incertezza del lavoro autonomo e professionale. Per molti giovani, l'ingresso nelle file dei collaboratori rappresenta la via d'accesso al lavoro e per non pochi di loro una condizione permanente, che devono imparare a gestire, superando difficoltà con cui fanno i conti quotidianamente.

Ad onta delle sue frequenti dichiarazioni di liberismo, il governo Contro i non sembra affatto intenzionato a concedere alcuna agevolazione principi del alla categoria dei collaboratori, che pure è uno dei cardini dell'o- liberismo dierna flessibilità italiana. Se avesse davvero a cuore la loro tutela pensionistica, dovrebbe infatti prendere un provvedimento sulla faIsariga di quelli adottati nel Regno Unito durante il periodo dei governi conservatori di Margaret Thatcher, che hanno dato la facoltà di scegliere fra il sistema previdenziale pubblico e i piani assicurativi privati. In realtà, la decisione di elevare i contributi per i collaboratori serve allo scopo di garantire un'entrata crescente all'Inps da parte di una componente del mondo del lavoro che per quasi vent'anni o giù di li non maturerà diritti alla pensione.

Questa situazione rivela in modo sintomatico l'indeterminatezza e la confusione che vigono in Italia quando occorre attuare dei modelli sociali coerenti. Capita allora che il governo scivoli rapidamente dall'affermazione di criteri liberistici a una prassi che non abdica proprio per nulla a uno statalismo senza principi, la cui unica ragione sostanziale sembra quella di garantire la continuità del flusso di risorse necessarie a tamponare le falle nelle casse degli enti pubblici.

Questo anche a costo di recare pregiudizio a strati crescenti di lavoratori dei quali nessuno pare interessato ad assumersi la rappresentanza.

* Gia pubblicato su «La Stampa», 9 gennaio 2002

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dossier

Oltre l'Euro

Ormai possiamo confrontare i valori degli stipendi degli abitanti di un piccolo paesino dellAlsazia con i nostri, sapere quanto pagano una connessione internet in Olanda ed avere maggiori motivi di lamentarci per il servizio e i prezzi delle aziende telefoniche nazionali. li/la questo (ah si, è cambiato il colore ed il taglio delle banconote nel nostro portafoglio) non può certo bastare a farci sentire più europei di prima. Non si vuole certo negare. la portata dell'unzìcazione monetaria: un elemento del modello firnzionalistico di integrazione che appariva irrealizzabile e che ora è nelle nostre tasche.

Come ripetiamo da molto tempo però, se l'Europa vorrà costituire un soggetto di primaria importanza geopolitica (ed ancora dobbiamo sottolineare la sua inconsistenza a presentarsi tale sullo scenario internazionale nel corso dei recenti stati di crisi) non potrà soltanto affidarsi al rating della propria moneta.

Nell'editoriale "Di moneta Europea e di Costituzione" del n. 109 di queste istituzioni rispondevamo all'euroscetticismo di Dahrendorf essendo consapevoli però che "senza dare tempo ed energie anche ad altre questioni importanti, il 51

problema dell'Unione Monetaria può ben alimentare un assai pericoloso effetto boomerang"i A quella preoccupazione ci colleghiamo nel presente dossier, del quale è parte integrante l'articolo di Stephan Riidiger pubblicato nel taccuino. Ancora una volta i diversi percorsi, (l'economico, il socio-politico, il culturale), non debbono costituire "idola" polemici, ma integrarsi in modelli compatibili di costruzione istituzionale.

I saggi pubblicati nel dossier approfondiscono due frochi del discorso. Con quale tradizione giuridica in materia economico-finanziaria l'Inghilterra si appresta a cambiare atteggiamento - come sembra - nei confronti dell'Euro? Quali le prospettive di riforma della Bank ofEngland (soggetto misconosciuto agli occhi dell'interprete continentale)? Hadrian Simonetti affionta con completezza la difficile analisi del modello inglese ripercorrendo la sua storia istituzionale e delineando con precisione le criticità che trapelano nella prospettiva di una non lontana adesione britannica all'Euro.

Continuiamo quindi il percorso che iniziammo nel n. 121 con l'articolo di Cròci, Bowles e McLean sui rapporti tra Banche centrali nazionali (nel caso la Banca d'Italia) e la Banca centrale europea.

L'approccio "costituzionale" è l'altro fi€oco.

Con la Dichiarazione sul fi4turo dell'Unione, il Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000 ha invitato tutti i Paesi membri ad aprire un ampio dibattito pubblico sui temi della rifirma dell'Unione europea, particolarmente importante in vista del prossimo allargamento a dodici nuovi Stati.

Il Consiglio europeo di Laeken (14 e 15 dicembre 2001) ha adottato una Dichiarazione che individua alcune grandi questioni intorno alle quali dovrà articolarsi il dibattito per le rbrme: una migliore ripartizione delle competenze dell'Unione Europea; la semplificazione degli strumenti legislativi dell'Unione; maggiore legittimità democratica e trasparenza delle istituzioni dell'Unione, con una riflessione sui ruolo dei Parlamenti nazionali; la semplificazione dei trattati. Si è parlato allora dell'adozione di una Costituzione europea (breve, di principi, in grado di assicurare la certezza del diritto, anche e soprattutto in relazione ai rapporti con i newcomers) e dell'inserimento della Carta dei Diritti nel trattato di base.

Luca Albino illustra i vari passaggi che hanno condotto alla redazione della Carta dei Diritti, ne sottolinea le interpretazioni e soprattutto individua percorsi turi per il suo riconoscimento ed il necessario inserimento all'interno di una Costituzione europea che non costituisca documento di minuziosa disciplina dell'esistente, ma, come detto, base giuridica scritta di interpretazione delle norme e strumento di tutela sopranazionale dei diritti.

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Il discorso sull'Europa flaura necessita di una prospettiva di ordine costituzionale. E in relazione a questa non può mancare un discorso propedeutico sulla dimensione e la tutela dei diritti in una fi€tura Costituzione, tanto più necessaria, quanto più il processo di integrazione si sta muovendo su un approccio widening invece di occuparsi dell'approfondimento delle politiche.

La relativa sottovalutazione della Carta che percepiamo in giro è il portato di una frettolosa superficialità. Bene ha fatto il Maastricht Journal of European and Comparative Law a dedicare alla Carta dei Diritti un numero monografico (vd. Lo "special issue: European Charter ofFundamental Rights" sul n. i del 2001), che consigliamo di vedere.

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La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

Tra presente e futuro di Luca Albino

N

on vi è dubbio che la tutela dei diritti nei Paesi membri dell'Unione Europea sia ormai ampia e consolidata. Questa è sorretta, da un punto di vista normativo, da tre colonne portanti: le Costituzioni nazionali; le convenzioni di diritto internazionale (tra tutte va menzionata la Carta Europea dei Diritti Umani); i Trattati comunitari. Tuttavia, relativamente ai diritti fondamentali, rispetto al dato normativo delle Costituzioni nazionali (ma la considerazione vale anche per la CEDU) che si presenta, sia pure con sostanziali differenze, ampio ed articolato, i Trattati comunitari si caratterizzano per disposizioni normative decisamente scarne. In effetti, com'è noto, nell'ambito dell'ordinamento comunitario la tutela dei diritti si è affermata soprattutto attraverso l'azione della Corte di Giustizia', configurandosi un modello di interazione tra "diritto giurisprudenziale" e "diritto scritto" che sembra essere presente ancora oggi e potrà esserlo per il prossimo futuro.

Nell'ordinamento comunitario tale schema operativo non è stato utilizzato solo per la definizione di un sistema di tutela dei diritti, ma esso si inserisce in quella più ampia impostazione progressiva e gradualistica che ha connotato la costruzione comunitaria fin dall'inizio e che ha consentito, negli anni, superando ostacoli e resistenze, di pervenire all'attuale situazione di un'Unione economica e monetaria proiettata, almeno nelle intenzioni di massima, verso una unificazione di tipo politico.

LA TUTELA DEI DIRITTI: LINTERAZIONE TRA DIRITTO SCRITTO E DIRITTO GIURISPRUDENZIALE

Ilmodello incrementale si è, da sempre, caratterizzato per un dato normativo di partenza sicuramente scarno, sintetico o con clausole di tipo "aperto".

LAutore è Professore a contratto di Istituzioni di Diritto Pubblico, presso l'Università della Calabria 55

Si veda, ad esempio, la cosidetta "clausola dei poteri impliciti" di cui all'art.

308 TcE - ex 235 -, che ha reso possibile, in capo alle Istituzioni comunitane, ed in particolare alla Corte di Giustizia, il compito di integrare e completare il diritto scritto. In un secondo tempo, la giurisprudenza (per molti versi consolidata) della Corte, ha trovato riscontro, mediante un'operazione di tipo "ricognitivo", nelle diverse revisioni dei Trattati e nei conseguenti atti di diritto comunitario derivato dall'attuazione delle politiche comunitarie. Le modifiche a questi ultimi hanno, poi, dato origine a formazioni anche di tipo innovativo che sono state a loro volta ampliate ed integrate dall'opera successiva della giurisprudenza comunitaria. I risultati di questa costruzione progressiva dell'ordinamento comunitario, mediante l'interazione tra diritto giurisprudenziale e diritto scritto, sono riscontrabili sia nell'allargamento dei settori di competenza comunitaria, sia nella progressiva e maggiore attenzione dell'ordinamento comunitario verso gli individui e non solo verso gli Stati. Questo modello sembra imporsi, anche nella costruzione di un sistema di tutela dei diritti fondamentali a livello comunitario.

Infatti, nella fase iniziale il Trattato di Roma - diversamente dalle Costituzioni degli Stati membri e non volendo essere, nelle intenzioni delle Parti contraenti, una sorta di Costituzione europea - ha attribuito un peso limitato all'individuo in quanto tale e ai suoi diritti. Nella sua prima configurazione normativa, l'ordinamento comunitario attribuisce alla persona un ruolo ben definito soprattutto laddove si presenti come protagonista della vita economica. I diritti che vengono riconosciuti e tutelati sono quelli che appaiono funzionali alla costruzione del mercato comune (che, all'epoca, era l'obiettivo principale della neonata Comunità Economica Europea) e, di conseguenza, gli stessi diritti sono garantiti nella misura in cui non confliggono con gli scopi della stessa Comunità. In quest'ottica vengono garantite la libertà di circolazione dei lavoratori dipendenti (art 48-51 TCEE nella numerazione allora vigente) e la libertà di circolazione dei lavoratori indipendenti che comprende la libertà di stabilimento (art 52-58 TCEE) e quella di prestazione di servizi (art. 59-66 TCEE). Ma rilevano anche la libertà di circolazione delle merci e dei capitali (artt 9-37 e art. 67-73 TCEE) e, più in generale, le norme volte ad assicurare che i mercati siano concorrenziali (artt 85-94 TCEE). Anche altri diritti appaiono letti in chiave economica. Fra tutti si segnala 2 la concezione del principio di eguaglianza prevalentemente in termini di non discriminazione in base alla nazionalità (art. 7 TCEE) o ancora una visione riduttiva degli obiettivi della politica sociale a livello comunitario (artt. 117-128 TCEE).

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Partendo da questo scarno e limitato dato normativo, la Corte di Giustizia (che com'è noto è stata - ed è tuttora - uno dei motori dell'integrazione comunitaria) ha posto in essere un'attività di creazione giurisprudenziale di princìpi, norme e regole quanto mai rilevante. La dottrina 3 ha ben evidenziato come il compito di assicurare la garanzia dell'effettività del diritto comunitario si sia dispiegato, in buona parte, attraverso un processo di trasformazione degli obblighi degli Stati in diritti soggettivi dei singoli, mediante la creazione giurisprudenziale del principio del cosidetto effetto diretto 4, secondo il quale il diritto comunitario può attribuire all'individuo la titolarità di situazioni giuridiche soggettive direttamente azionabili in giudizio.

Com'è noto, in una prima fase 5 la Corte, soprattutto al fine di ribadire la preminenza del diritto comunitario sul diritto interno, ha negato una propria competenza in merito alla tutela dei diritti fondamentali.

Dal 1969, la Corte 6 ha abbandonato l'iniziale chiusura e ha stabilito che i diritti fondamentali fanno parte dei principi generali di diritto comunitario di cui la stessa Corte garantisce l'osservanza. Certamente, se è vero che si tratta di un'osservanza subordinata al rispetto delle finalità della Comunità, è anche vero che essa deve ispirarsi alle cosidette tradizioni costituzionali comuni.

In altri termini, la centralità del tema dei diritti fondamentali si impone quando si evidenzia che un'integrazione di tipo economico non può non avere effetti anche sulla sfera personale degli individui e che, perciò, sia pure con le riserve sopraccennate, l'ordinamento comunitario deve garantire forme di tutela dei diritti fondamentali paragonabili in qualche misura - nonostante le profonde differenze esistenti a livello ordinamentale - a quelle offerte dalle Costituzioni nazionali e dalle Corti nazionali. Ed allora, anche da questo punto di vista, si è agito mediante un processo di interazione, questa volta tra diritto comunitario e diritti nazionali e tra Corte di Giustizia e Corti nazionali.

La tutela della Corte di Giustizia si è arricchita successivamente di innumerevoli pronunce che, da un lato, hanno ribadito, puntualizzato, specificato il principio generale7 , dall'altro hanno individuato tutta una serie di diritti specifici mediante il sopraccitato modello di interazione con i Trattati (che via via sono stati modificati), e con la copiosa mole di diritto comunitario derivato. A questo proposito si può sinteticamente e limitandosi alle innovazioni contenute nei Trattati, ricostruire il percorso evolutivo del diritto comunitario "scritto" in materia di diritti fondamentali. L'Atto Unico inizia l'opera di recepimento di conclusioni giurisprudenziali, all'epoca ormai quasi ventennali, già dal Preambolo che richiama i diritti fondamentali sanciti dalle ,

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Costituzioni e dalle leggi degli Stati membri, dalla CEDU e dalla Carta sociale europea, ma inizia ad allargare gli orizzonti della Comunità introducendo nei Trattati nuove sfere materiali di interesse e competenza 8 e, di conseguenza, spunti per la successiva costruzione di nuovi diritti.

Il Trattato di Maastricht è il vero punto di snodo nell'evoluzione dell'ordinamento comunitario: esso è stato firmato quando la costruzione del mercato unico era pressocchè conclusa e ha posto le basi dei successivi ambiziosi obiettivi, operando una sorta di sintesi tra elementi ricognitivi ed innovativi. In tal senso, appaiono rilevanti la creazione dell'Unione Europea e la struttura cosidetta a tre pilastri e la volontà di costruire un'Unione economica e monetaria.

Ed è proprio nel nuovo Trattato sull'Unione Europea (art F) che viene sancito il principio secondo il quale l'Unione rispetta i diritti fondamentali tratti dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni quali princìpi generali di diritto comunitario. Inoltre, nonostante l'elemento economico sia ancora preponderante, appare rilevante nella prospettiva di una maggiore centralità dell'individuo e dei suoi diritti, l'istituzione della cittadinanza europea.

Il Trattato di Amsterdam ha proseguito nella direzione tracciata a Maastricht, aggiungendo all'art 6 TUE (nuova numerazione che sostituisce modificandolo il precedente e già citato art. F) la disposizione che proclama il fondamento dell'UE sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Inoltre, per un verso, introduce, all'art 7 TUE, una particolare procedura volta ad assicurare il rispetto di tali diritti, sanzionando le eventuali violazioni compiute dagli Stati; per un altro, innova o amplia il catalogo dei diritti mediante l'aggiunta dei diritti relativi ai rapporti tra cittadini e istituzioni, quali quello di accesso ai documenti e alla trasparenza (art. 255 TcE) e, per un altro verso ancora, tenta, con risultati sicuramente alterni, di dare un peso specifico maggiore a quei diritti sociali (tra tutti l'occupazione, alla quale il Trattato CE dedica ora un intero Titolo, il VIII) che hanno sempre vissuto di una condizione di minorità all'interno dell'ordinamento comunitario.

Più recentemente, il Trattato di Nizza ha rafforzato la procedura (art. 7 TUE) volta ad assicurare il rispetto dei diritti, mediante la possibilità per il Consiglio di constatare non solo l'esistenza di una tale violazione, ma anche il rischio di una violazione dei diritti fondamentali da parte di uno Stato, introducendo così un meccanismo di tipo preventivo. Tuttavia, nonostante i notevoli passi in avanti in materia di tutela dei diritti fondamentali, fino ad oggi sembra irrisolto il problema della maggiore visibilità, certezza e formalizzazio58

ne del cosidetto catalogo dei diritti fondamentali dell'Unione, sia all'interno dell'ordinamento comunitario, (nei confronti di Stati membri, istituzioni nazionali e comunitarie e soprattutto cittadini) ma anche nei confronti di quei Paesi che, volendo porre la propria candidatura a far parte dell'Unione dovranno recepirne il cosidetto acquis comunitario.

EFFICACIA FORMALE E SOSTANZIALE DELLA CARTA: UN'INVERSIONE DI TENDENZA?

La Carta dei diritti, pur costituendo un importante elemento di innovazione - quantomeno dal punto di vista storico-politico, in quanto doveva dare una risposta a molti dei problemi ancora irrisolti - non rappresenta un'eccezione alla costruzione gradualistica e progressiva. t sicuramente vero che per la Carta si è pensato ad un'approvazione mediante un'atipica proclamazione congiunta delle istituzioni comunitarie e non ad un inserimento nei Trattati, ma è anche vero che se questo, da un punto di vista strettamente giuridico, distingue in maniera sostanziale la Carta dai Trattati, da un punto di vista fattuale non modifica il significato della stessa quale importante punto di snodo del cammino dell'integrazione europea. Essa, infatti, da un lato, rende più visibile ed organico, in uno sforzo di ricognizione e positivizzazione9 il livello di tutela dei diritti presente nell'ordinamento comunitario, dall'altro innova il catalogo dei diritti fondamentali a livello europeo'°.

Proprio per questo sembra possibile convenire con chi sostiene che la Carta rappresenta una sorta di inversione di tendenza, sancendo che la vita e i fini dell'Unione non possono ricondursi principalmente a principi di tipo economico, ma che occorre dare una posizione di centralità alla persona in quanto tale o quantomeno al cittadino!. In questo senso, appare degna di rilievo la scelta di suddividere i titoli della Carta secondo le diverse prerogative che vanno garantite alla persona e, in particolare, non è irrilevante che il Capo I sia dedicato alla dignità. ,

Ciò nonostante, i problemi sollevati dalla Carta appaiono molteplici e in ordine a questi si è aperto un ampio dibattito dottrinale. In questa sede, avendo riguardo soprattutto all'analisi dell'evoluzione temporale e delle modalità della costruzione europea, tali problemi potranno essere ricordati solo per grandi linee. Anzitutto, occorre riflettere su quale sarà l'efficacia della Carta, posto che esiste certamente una tensione dialettica tra il suo valore giuridico formale e il suo "peso" culturale e politico. Come si è detto, la Carta, sebbene 59

solennemente proclamata, non è stata inserita nei Trattati, né si è precisato quale debba essere il suo valore giuridico formale. Ciò è da ricondurre all'opposizione verso questa soluzione, manifestata da alcuni Stati membri. Si è preferito pertanto, rimandare la questione ad un secondo tempo 12, prevedendo, quasi come una sorta di "sigillo formale", un'atipica "proclamazione congiunta" delle istituzioni che, se ha risolto i contingenti problemi politici, ne ha aperto altri, e non di poco conto, dal punto di vista giuridico.

Il problema della posizione della Carta nel sistema delle fonti è tuttora aperto. La cosa certa è che essa non è stata inserita né nel Trattato di Nizza né nel vigente testo dei Trattati. Ciò non ha impedito alla dottrina 13 di paragonare la Carta ad altre importanti dichiarazioni politiche del passato che, se anche prive di efficacia giuridica, hanno costituito un riferimento di tipo retorico di notevole importanza. Ciò sembra valere ancor di più per la Carta, per diversi ordini di ragioni. Innanzitutto, essa è stata posta in essere da un organo (la Convenzione) dotata di una ampia rappresentatività sia a livello comunitario che a livello statale 14 e di una legittimazione che, se non può definirsi pienamente "popolare", certamente è originata "dal basso". In secondo luogo, anche se non si può non concordare con chi 15 sottolinea le differenze profonde, con le Costituzioni contemporanee (in particolare, la Carta si limita a sancire dei diritti senza però indicarne i limiti e senza prevedere un corrispondente quadro di doveri), va evidenziata la modalità di redazione della Carta nelle forme di un testo giuridico. In terzo luogo, essa, pur non essendo inserita nei Trattati, è stata solennemente proclamata dal Parlamento Europeo, dalla Commissione e dal Consiglio.

Può, dunque, prefigurarsi una certa efficacia di fattolG della Carta soprattutto quale strumento ermeneutico dell'opera garantista e creatrice della Corte di Giustizia, delle Corti nazionali ed anche delle Istituzioni comunitarie 17 L'analisi delle pronunce della giurisprudenza comunitaria fin qui emanate, ci mostra come i riferimenti alla Carta siano venuti in modo pressocché esclusivo dagli Avvocati generali. In alcuni casi 18 ci Si è riferiti alla Carta in maniera sintetica, nel testo delle conclusioni o nelle note di accompagnamento, soprattutto al fine di presentare ulteriori elementi atti a suffragare la tesi sostenuta. Altre volte, il riferimento, ad uno o più articoli della Carta, ha dato anche lo spunto, in particolare agli Avvocati generali Léger' 9 e Tizzano 20, per operare delle considerazioni più generali sulla Carta dei diritti.

Tali riferimenti, tuttavia, non sono stati presi in considerazione dalla Corte di Giustizia2 1 né dal Tribunale di primo grado 22 che hanno preferito ancorare le loro decisioni ad altri dati normativi. Un tale atteggiamento, probabil.

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mente, è da ascriversi alla prudenza degli organi giudicanti sia nel riferirsi ad un testo che, da un punto di vista formale, non ha un valore giuridico determinato e sia nell'utilizzarlo come base giuridica per delle pronunce dagli effetti vincolanti per le parti ed anche, in alcuni casi, per gli Stati membri. Si può quindi affermare, che gli organi di giustizia comunitari hanno finora cercato di non creare allarmi soprattutto in quegli Stati che, già in sede di approvazione, avevano manifestato la loro contrarietà riguardo il riconoscimento per la Carta di un determinato valore giuridico. Ad ogni modo, si può prevedere che prima o poi - soprattutto quando le condizioni politiche lo consentiranno - inizieranno ad aversi riferimenti (bisognerà vedere se sfumati, diretti o addirittura determinanti) alla Carta nelle decisioni della giurisprudenza comunitaria23 . Per ciò che riguarda le Istituzioni comunitarie iniziano a registrarsi varie dichiarazioni sull'opportunità di considerare la Carta quale fonte di ispirazione, e conseguentemente considerare i suoi enunciati come una sorta di linee-guida dell'azione degli organi in questione.

In conclusione non può che essere ancora una volta evidenziato il fatto che le norme della Carta potranno essere considerate come convincent1 24 ai fini dell'attività d'interprete svolta dalla Corte ovvero dell'azione degli organi comunitari, ma sempre sul terreno dell'opportunità politica e non certamente su quello dell'obbligatorietà giuridica. Proprio per questo sembra possibile affermare che la Carta, pur non avendo una collocazione giuridico-formale determinata, si inserisce pienamente nel consolidato processo di costruzione gradualista. Di questo processo, l'interazione tra costruzioni giurisprudenziali e disposizioni scritte (a prescindere dal loro valore giuridico), costituisce sicuramente uno degli aspetti più significativ1 25 , considerato che 26 il processo di costituzionalizzazione a livello europeo può essere ritenuto, per molti aspetti, un processo di giurisdizionalizzazione.

COME RIPARTIRE LE COMPETENZE IN MATERIA DI DIRITTI FONDAMENTALI TRA STATI MEMBRI E UNIONE

Un secondo ordine di problemi è quello relativo all'ambito di applicazione della Carta, soprattutto in relazione al sistema di riparto delle competenze fra Stati e Unione fin qui affermatosi. Tale problema sembra riaffiorare anche dall'art. 5127 della Carta, inserito nel Capo VII relativo alle Disposizioni generali.

Come ha sottolineato la dottrina 28 le disposizioni di tale capo hanno una loro logica che va ricondotta alle intenzioni della Convenzione di contenere ,

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gli effetti della Carta sia all'interno dell'ordinamento comunitario e sia negli ordinamentii degli Stati membri. Secondo il comma 1 ditale articolo, le disposizioni della Carta si applicano, in via generale, alle Istituzioni e agli organi dell'Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà ed in via particolare agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione. Pertanto, i soggetti destinatari, sia a livello comunitario che a livello statale, nella loro azione e nell'ambito delle rispettive competenze, devono rispettare i diritti contenuti nella Carta, osservarne i principi e promuoverne l'applicazione.

Per ciò che riguarda le Istituzioni e gli organi dell'Unione, va detto che tale disposizione ed in particolare l'accenno al principio di sussidiarietà, da un lato, potrebbe consentire (attraverso una lettura del principio a favore del livello istituzionale comunitario) un intervento dell'Unione qualora uno Stato non intervenisse, nell'ambito delle proprie competenze, in modo coerente al disposto di cui all'art. 51 29, dall'altro sembra quasi "tranquillizzare" (viceversa attraverso una lettura dello stesso a favore del livello istituzionale statale) chi possa paventare una espansione, evidentemente ritenuta eccessiva, degli spazi di intervento dell'Unione30 Per ciò che riguarda gli Stati, la disposizione di cui all'art. 51.1 riprende sostanzialmente le conclusioni consolidate della giurisprudenza della Corte di Giustizia3 ' riguardo ai diritti fondamentali dell'ordinamento comunitario, da essa garantiti, ma anche in qualche misura creati. L'organo di giustizia comunitario ha, infatti, più volte precisato che le esigenze inerenti alla tutela degli stessi, vincolano anche gli Stati membri quàndo essi danno esecuzione alle discipline comunitarie 32 . La Carta vincolerebbe gli Stati solo in questa fattispecie, ma non quando gli Stati stessi agiscono nell'ambito delle competenze nazionali33 . Il problema sorge poiché, com'è noto, la storia dell'integrazione europea ha dimostrato che l'ordinamento comunitario e quelli statali tendono più ad integrarsi che non a restare separati secondo ambiti di competenza determinati. In effetti, esiste una progressiva tendenza all'affermarsi della visione, che può definirsi in qualche misura "monistica" del rapporto tra gli ordinamenti e, di conseguenza, un progressivo abbandono della visione dualistica34 . In altri termini, se non è facile individuare con esattezza cosa ricade nell'ambito dell'attuazione del diritto dell'Unione e cosa ne è escluso, non è, di conseguenza, facile prevedere se l'applicazione della Carta all'interno degli ordinamenti statali sarà più o meno ampia.

Ed allora, tale problematica si intreccia inevitabilmente con il disposto del comma successivo (art. 51.2) che stabilisce che la Carta non introduce competenze nuove a livello di Comunità o Unione, né modifica il riparto di que.

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ste effettuato dai Trattati. Anche questa disposizione - come l'accenno al principio di sussidiarietà nel comma precedente - si ricollega certamente ad una volontà di fugare i timori di chi teme che la Carta possa generare un'espansione delle competenze dell'Unione nel campo dei diritti fondamentali non supportata da un quadro istituzionale pienamente democratico e rappresentativo. Tuttavia, c'è da dire che una garanzia di questo tipo potrebbe avere un peso relativo atteso che il sistema di riparto delle competenze tra livello comunitario e livello statale non è costruito secondo un criterio materiale, ma secondo uno di tipo dinamico-finalistico il quale ha comportato un bilanciamento tra le esigenze sovranazionali e quelle statuali secondo il criterio degli obiettivi35 . Come la dottrina va sottolineando 36 , l'auspicio è che, proprio per l'importanza e la delicatezza della materia dei diritti fondamentali, l'attribuzione di una competenza generale all'Unione su1 tema, passi almeno attraverso una revisione dei Trattati se non attraverso un vero e proprio processo costituente che preluda alla nascita di una Costituzione europea.

CARTA DEI DIRITTI E COSTITUZIONE EUROPEA: UN PERCORSO PIENO DI INCOGNITE

Uno degli interrogativi pi1 suggestivi, al quale però non è semplice dare una risposta, è se la Carta dei diritti possa essere considerata una sorta di prima pietra della costruzione di una Costituzione europea 37 . A questo proposito, la dottrina ha anzitutto sottolineato 38 come, in ogni processo costituente, l'identificazione di un catalogo di diritti fondamentali è un momento prioritario alla scelta del modello di organizzazione costituzionale il quale, però, deve essere funzionale all'effettiva realizzazione e garanzia dei diritti stessi.

Inoltre, è stato anche evidenzato 39 come la garanzia dei diritti non consista solo in un giudice o in una procedura, ma risiede ancor prima in un assetto istituzionale nel quale i titolari dei diritti sono compartecipi di un potere politico che, com'è noto, dei diritti è il potenziale fattore di rischio. Si può allora affermare che la Carta, per come è strutturata, non sembra intervenire sostanzialmente sulla limitazione del potere pubblico europe0 40 e, di conseguenza l'immagine della "prima pietra" non appare del tutto congrua, anche se è vero che la Carta4 ' si pone, in qualche misura, nella direzione dello sviluppo e della formalizzazione della Costituzione materiale dell'Unione 42 . In altri termini, la Carta dei diritti non è stata certamente immaginata, da parte degli Stati membri, come atto che dovesse scatuire da un organo dotato di poteri di tipo costituente, ma come ulteriore elemento di un processo gra63

duale che, di per sé, ha sempre avuto connotazioni di tipo costituente. Tuttavia, al di là della cosidetta efficacia di fatto, si deve riconoscere che la costruzione di un sistema - compiuto e coerente - di tutela dei diritti fondamentali a livello comunitario fondato sulla Carta potrà aversi soio nell'ambito di un nuovo assetto costituzionale sostanzialmente diverso da quello attuale. Il superamento del deficit costituzionale appare, allora, una priorità logica prima ancora che politica. È fuor di dubbio che, al di là delle sollecitazioni di tipo politico - che alcune volte restano a livello di semplici auspici - rimangono ancora irrisolti numerosi problemi fra i quali permane, in primo piano, quello del deficit di democrazia del sistema attuale di governo dell'Unione e della Comunità, risultato in qualche misura obbligato del processo incrementalista 43 . Tale costruzione progressiva ha avuto come conseguenza un'eccessiva complessità della struttura istituzionale e delle procedure decisionali fonte di sovrapposizioni e tortuosità 44 . La riforma dell'assetto istituzionale dell'Unione non è allora tanto una questione di "fantasia istituzionale", ma soprattutto un problema di strutturare un'organizzazione del potere e una configurazione dei rapporti tra le Istituzioni ed i cittadini che accentui, in misura maggiore rispetto all'assetto attuale, i caratteri di democrazia e di rappresentatività. In tal senso, va ripensata anche l'articolazione territoriale delle competenze con una definizione più precisa degli ambiti materiali riservati ai diversi livelli di governo (locale, nazionale ed europeo). Analogamente, va affrontato il problema del rapporto fra la Corte di Giustizia e le Corti Costituzionali, se si vuole evitare un possibile contrasto tra giudicati tanto più pericoloso quanto più riguardi aspetti che sono posti a fondamento sia della forma di Stato che di quella di governo45 . Tutto ciò porta alla conclusione che anche le Costituzioni nazionali debbano essere ripensate e revisionate nell'ottica della costruzione della Costituzione europea.

Tuttavia, questo non sembra essere l'obiettivo primario e comune a tutti gli Stati membri. Esistono infatti difformità di vedute, anche notevoli, segno evidente della necessità di un approfondimento del confronto su questa tematica46 e, come già accaduto in passato, è assai probabile che la risoluzione delle questioni non proceda secondo uno schema lineare, ma attraverso momenti di accelerazione e momenti di rallentamento.

Un ulteriore elemento di complessità, di cui si è già fatto cenno precedentemente, è rappresentato dai futuri ampliamenti dell'Unione che oltre a portare ad un quasi raddoppio del numero di Stati membri, apporteranno un 64

aumento notevole del grado di eterogeneità dell'Unione. i vero che l'integrazione europea ha sempre vissuto sulla contemporaneità dei processi di deepening con quelli di widening, ma è anche vero che le dimensioni quantitative e qualitative dei prossimi ampliamenti, alla cui base sembrano esservi per lo più motivazioni di tipo economicistico (leggi nuovi mercati), rischiano, proprio per le notevoli differenziazioni di tipo culturale e giuridico, di paralizzare il cammino futuro dell'integrazione europea.

Una possibile via d'uscita potrebbe consistere nel privilegiare quelle soiuzioni istituzionali cosidette a geometria variabile che potrebbero vedere un primo nucleo di Paesi (quelli ad integrazione più consolidata) approfondire i temi dell'integrazione politica e costituzionale, consentendo agli Stati di più recente integrazione di costruire gradualmente al proprio interno un'identità di tipo europeo. Ciò appare necessario se è vero che la Costituzione europea, come tutte le Costituzioni, dovrà essere un momento di sintesi dei valori comuni di un popoio europeo che si percepisca come tale e non come mera sommatoria d'identità nazionali. Un passaggio di questo tipo passa necessariamente attraverso la costruzione di una sfera di ampio consenso che, anche nei Paesi che da decenni stanno percorrendo il. cammino dell'integrazione, non può più né essere presupposto da parte dei Govern1 47, né altresì fondato su aspetti che potrebbero definirsi emozionali e, in qualche misura, superficiali 48 .

In questa ricerca di effettività, la Carta potrebbe certamente imprimere una forza costituente4 9 all'ordinamento costituzionale europeo in corso di formazione, tanto maggiore quanto più sarà ritenuta materialmente vincolante.

Tuttavia, occorre rimarcare, come, in considerazione della portata degli obiettivi, l'approccio gradualistico, basato sull'interazione tra diritto scritto e diritto giurisprudenziale, non sembra essere pienamente congruo e suffìciente 50 .

In considerazione di quella ricerca del consenso di cui si accennava, occorrerà dare visibilità e formalizzazione al momento costituente che dovrà necessariamente avere legittimazione democratica e popolare, se si vuole restare ancorati a quel patrimonio di valori comuni al quale la Carta ed i Trattati dichiarano di ispirarsi.

Cfr sul punto R. ToNIArn, La via giurisdizionale per la legittimazione dell'Unione Europea, in «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2001, 188 2 Su cui v. amplius, L. AZZENA, L'integrazione

attraverso i diritti - Dal cittadino italiano al cittadino europeo, Torino, 1998, pag. 54 Ss. Cfr. L. AZZENA, L'integrazione attraverso i diritti - Dal cittadino italiano al cittadino europeo, Torino, 1998, pag. 93 ss 65

Il principio dell'effetto diretto quale creazione giurisprudenziale, com'è noto, va tenuto distinto dall'efficacia diretta, prevista nei Trattati per le norme tratte dai regolamenti comunitari. Si può affermare che l'effetto diretto costituisce un allargamento dell'efficacia diretta e sussistendo alcune condizioni, ad alcune norme tratte da fonti diverse da quella regolamentare.

5 Nella sentenza 04102/1959, C 1158, Stork & Cie. Contro Ecsc High Authority, (in Racc 1959, p.43) la Corte ha affermato che essa "ga-

rantisce il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione del trattato e dei regolamenti di esecuzione, ma non può di regola pronunciarsi in merito alle norme dei diritti nazionali. Ne consegue che una censura relativa al fatto che l'Alta Autorita avrebbe violato principi fondamentali della Costituzione di uno Stato membro non può essere presa in considerazione dalla Corte". Cfr ancora ad es. sentenza 01/0411965, C-40164 Sgarlata e altri contro Commissione in Racc.

1965, p. 279).

6 Sentenza 12111/1969, C-29/69, Stauder contro Stadt Ulm, in Racc. 1969, p. 419 7 Cfr soprattutto sentenza 17/1211970, Internationale Handelsgesellschafi mb contro Einfihr- und Vorratsstelle fiir Getreide und Futtermittel (in Racc. 1970, p. 1125); sentenza 1711211970, Einfihr- und Vorratsstellefiir Getreide und Futtermittel contro Kiister (in Racc.

1970, p. 1161); sentenza 14105/1974, C-4173, NoIdKG contro Commissione, (in Racc, 1974, p.

491); sentenza 15/06/1978, Defrenne contro Sabena (in Racc. 1978, p. 1365); sentenza 12/10/1978, Belbouab (in Rac. 1978, p. 1915) sentenza 13112/1979, C-44/79, Hauer contro LandRheinland-Pfalz (in Racc. 1979, p. 3727); sentenza 26/0611980, National Panasonic contro Commissione (in Racc. 1980, p. 2033). In queste pronunce, la Corte ha, prima, sancito il princìpio secondo cui la tutela dei diritti fondamentali costituisce parte integrante dei princìpi giuridici di cui essa stessa garantisce l'osservanza e, successivamente, ampliato la portata del principio stesso introducendo, quali fonti di 66

ispirazione ditale tutela le tradizioni costituzionali comuni, le Costituzioni degli Stati membri, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo.

8 Si vedano ad es. il Titolo V del Trattato CEE sulla Coesione economica e sociale, il Titolo VII sull'ambiente, il Titolo VI sulla ricerca e sviluppo tecnologico.

A questo proposito, va sottolineato come la decisione del Consiglio Europeo di Colonia (3-4 giugno 1999) di redigere una Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, affidasse alla Convenzione un compito esclusivamente ricognitivo. Al punto 44 delle conclusioni si legge,

infatti: "Il Consiglio europeo ritiene che, allo stato attuale dello sviluppo dell'Unione europea, i diritti fondamentali vigenti a livello dell'Unione debbano essere raccolti in una Carta e in tal modo resi più manifesti". lo Si possono segnalare, a tal proposito, i principi in materia di bioetica (divieto di pratiche eugenetiche e della donazione riproduttiva degli esseri umani, ex art, 3), o l'esplicita menzione dei diritti del bambino (art. 24), degli anziani (art. 25), dei disabili (art. 26) già presenti ma solo in alcune Costituzioni degli Stati membri dell'Unione.

Il Cfr. V. ATRIPALDI, La Carta dei diritti fondamentali: un processo verso una Carta d'identità europea, in «Diritto Pubblico Comunitario ed Europeo», 2001, 160 12 Cfr. Conclusioni del Consiglio Europeo di Nizza (Dicembre 2000): "Il Consiglio europeo si compiace della proclamazione congiunta, da parte del Consiglio, del Parlamento europeo e della Commissione, della Carta dei diritti fondamentali, che riunisce in un unico testo i diritti civili, politici, economici, sociali e societali finora enunciati in fonti diverse, internazionali, europee o nazionali. Il Consiglio europeo auspica che alla Carta sia data la più ampia diffisione possibile presso i cittadini dell'Unione. In conformità delle conclusioni di Colonia, la questione della portata della Carta sarà esaminata in un secondo tempo".

3 Cfr. A. PACE, A che serve la Carta dei di-

ritti fondamentali dell'Unione Europea? Appunti

1W Savelbergh, Price Waterhouse Belastingadvi-

preliminari, in «Giur. Cost.», 2001 p. 194

seurs BV contro Algemene Raad van de Nederlandse Orde van Advocaten (riferimento, nelle

14

Si rammenti che dei 62 membri della Convenzione, 15 erano rappresentanti dei capi di Stato o di governo degli Stati membri, i era il rappresentante della Commissione, 16 membri erano stati designati dal Parlamento Europeo e 30 dai Parlamenti nazionali.

15 Cfr. L. AZZENA, Prospettive della Carta europea dei diritti e ruolo della giurisprudenza, in G. F. FERRARA (a cura di), I diritti fondamentali

dopo la Carta di Nizza - Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, pag. 131.

16

A questo proposito va anche menzionata la comunicazione della Commissione sulla natura della Carta dei Diritti fondamentali (C0M/200010644) dell'il ottobre 2000 (deliberata perciò in data antecedente alla stessa proclamazione della Carta) dove, tra l'altro, al punto 10 si afferma con una certa perentorietà che

"Non è troppo azzardato prevedere che la Carta dispiegherà i propri effetti, anche sul piano giuridico, a prescindere dallo status che le verrà conferito. È altrettanto probabile che la Corte di Giustizia si ispirerà a sua volta alla Carta, come già fa con altri testi relativi ai diritti fondamentali. Verosimilmente, la Carta diventerà in ogni caso un testo vincolante attraverso l'interpretazione che la Corte darà dei princìpi generali del diritto comunitario ivi formulati".

17 In tal senso A. L0I0DIcE (La Carta dei Diritti quale parametro assiologico, in G.E FERRARI (a cura di), I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza - Il costituzionalismo dei diritti, (..)

Milano 2001, pag. 212) qualifica la Carta quale

"parametro assiologico avente efficacia orientativa dell'interpretazione giurisprudenziale" 18

Cfr. Conclusioni dell'Avvocato generale Christine Stix-Hackl presentate il 12 luglio 2001 Causa C-i31/00 Ingemar Nilsson contro Lànsstyrelsen i Norrbottens liin (riferimento, nelle note di accompagnamento all'art. 49 della Carta sul Principio di legalità); Conclusioni dell'Avvocato generale Philippe Léger preseItare il 10 luglio 2001 Causa C309/99 JCJ Wouters,

note di accompagnamento, al Preambolo della Carta sul Principio dello Stato di diritto); Conclusioni dell'Avvocato generale EG. Jacobs presentate il 14 giugno 2001 Causa C-377198 Re-

gno dei Paesi Bassi contro Parlamento europeo e Consiglio dell'Unione europea (riferimento, nel testo delle conclusioni, agli artt. 1 e 3.2 della Carta sulla dignità umana e sul rispetto al consenso libero ed informato); Conclusioni dell'Avvocato generale Christine Stix-Hackl presentate il 31 maggio 2001 Causa C-49/00 Commissione

delle Comunità europee contro Repubblica italiana (riferimento, nelle note di accompagnamento, all'art. 31 della Carta sul diritto a ferie retribuite); Conclusioni dell'Avvocato generale Antonio Tizzano presentate l'8 maggio 2001 Causa C-133/00 fR Bowden e altri contro Tuffiwlls

Parcels Express Ltd (in questo caso il riferimento alla Carta dei Diritti è indiretto richiamandosi le conclusioni alla causa C-173/99 dello stesso Avvocato riguardo alla definizione del diritto alle ferie retribuite); Conclusioni dell'Avvocato generale Jean Mischo presentate il 22 febbraio 2001 Cause C-122/99 P e C-125/99 PD e Regno di Svezia contro Consiglio dell'Unione europea (riferimento, nel testo delle conclusioni, all'art. 9 della Carta sul diritto di sposarsi e costituire una famiglia); Conclusioni dell'avvocato generale Siegbert Alber presentate il 1° febbraio 2001 Causa C-340199 TNT Traco SpA contro

Poste Italiane SpA (già Ente Poste Italiane) nonché Michele Carbone, Raffaele Ciriolo e Clemente IViarino (riferimento, nel testo delle conclusioni, all'art 36 della Carta sull'accesso ai servizi di interesse economico generale).

19 Conclusioni dell'Avvocato generale Philippe Léger presentate il 10 luglio 2001, Causa

C-353/99 P Consiglio dell'Unione europea soste-

nuto dal Regno di Spagna, contro Heidi Hautala sostenuta da Regno di Danimarca, Repubblica francese, Repubblica di Finlandia, Regno di Svezia, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del 67

Nord. In quest'ultima pronuncia l'Avv. gen., in riferimento all'art. 42 della Carta sul diritto di accesso ai documenti, ha testualmente affermato: "Certamente non si deve ignorare la volontà chiaramente espressa dagli autori della Carta di non dotarla di fo rza giuridica obbligatoria. Ma, a parte qualsiasi considerazione relativa alla sua portata normativa, la natura dei diritti enunciati nella Carta dei diritti fondamentali vieta di considerarla come una semplice elencazione senza conseguenze di principi meramente morali. Occorre ricordare che tali valori hanno in comune i/fatto di essere unanimemente condivisi dagli Stati membri, che hanno scelto di renderli visibili trascrivendoli in una Carta, alfine di rafforzarne la tutela. La Carta ha innegabilmente collocato i diritti che ne costituiscono l'oggetto a/più alto rango dei valori comuni agli Stati membri."

20 Conclusioni dell'Avv. generale Antonio Tizzano relative alla causa BECTU contro Secretary ofStatefor Trade and Industry (Causa C173/99) presentate l'8 febbraio 2001. In esse viene affermato, in riferimento all'art. 31 della Carta sul diritto a ferie annuali retribuite, quanto segue: "Ancor più significativo, peraltro, mi pare i/fatto che detto diritto trovi oggi una solenne conferma nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ( .,). Certo, al pari di alcuni degli atti precedentemente citati, anche la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea non si è vista riconoscere autentica portata normativa, è rimasta cioè priva, da/punto di vista formale, di autonomo valore vincolante. Tuttavia, anche a non voler entrare qui nell'ampio dibattito già in corso circa g/i effetti che, in a/tre forme eper a/tre vie, la Carta potrebbe comunque produrre, resta il fatto che essa racchiude enunciazioni che appaiono in gran parte come ricognitive di diritti già altrove . Credo quindi che in un giudizio che sanciti. verte sulla natura e sulla portata di un diritto fondamenta/e non si possano ignorare le pertinenti enunciazioni de/la Carta, né soprattutto se ne possa ignorare l'evidente vocazione aJingere, quando le sue disposizioni lo consentono, da sostanziale parametro di riferimento per tutti gli attori - Sta(..)

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ti membri, istituzioni, persone fisiche e giuridiche - de/la scena comunitaria. In questo senso, quindi, ritengo che la Carta ci fornisca la più qua/fìcata e definitiva conferma della natura di diritto fondamenta/e che riveste i/ diritto a ferie annua/i retribuite".

21 Sentenza del 15.11.2001, causa C-49/00, Commissione delle Comunità europee contro Repubb/ica italiana; Sentenza del 09.10.2001, causa C-377/98, Regno dei Paesi Bassi contro Parlamento europeo e Consiglio dell'Unione europea; Sentenza del 04.10.2001, causa C-133/00, IR. Bowden e altri contro Tuffi2e/ls Parcels Express Ltd; Sentenza del 26.06.2001, causa C-173/99, BECTU contro Secretary ofStatefor Trade and Industry (in Racc. 2001, I, 4881); Sentenza del 31.05.2001, cause C-122/99 e C-125/99, PD e Regno di Svezia contro Consig/io dell'Unione europea (in Racc. 2001, 1, 4319); Sentenza del 17.05.2001, causa C-340/99, TNT Traco SpA contro Poste Italiane SpA (già Ente Poste Italiane) nonché Michele Carbone, Raffaele Ciriolo e Clemente Marino (in Racc. 2001,1,4109) 22 In realtà, il Tribunale di primo grado Prima Sezione ampliata- (Sentenza del 20 febbraio 2001 causa T-1 12198, Mannesmannròhren-Werke AG, contro Commissione delle Comunità europee (in Racc. 2001, lI, 729)) ha fatto riferimento alla Carta nel dispositivo, negando però di poterla prendere in considerazione per un problema di efficacia temporale. Esso ha, infatti, affermato: "la ricorrente ha chiesto a/lo stesso di prendere in considerazione la Carta dei diritti fondamenta/i dell'Unione europea (..) per la valutazione de/la presente causa, poiché essa costituirebbe un elemento giuridico nuovo sull'applicabilità alla fattispecie dell'art. 6, n. 1, della CEDU. In via subordinata la ricorrente chiede la riapertura della fase orale. Invitata a presentare le sue osservazioni su ta/e richiesta, con lettera 15 gennaio 2001 la Commissione ha respinto l'argomento della ricorrente, sostenendo che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea non ha alcuna rilevanza per la valutazione della fattispecie. (..)

Quanto all'eventuale incidenza de/la Carta, invo-

cata dalla ricorrente (..), nella valutazione del/a presente causa, occorre ricordare che detta Carta è stata proclamata dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione il 7 dicembre 2000. Pertanto la Carta non può avere alcuna conseguenza sulla valutazione dell'atto impugnato, adottato anteriormente".

23 Per ciò che riguarda la giurisprudenza delle Corti nazionali va menzionata ad es. la pronuncia del Tribunal Constitucional spagnolo, addirittura anteriore alla proclamazione della Carta stessa (STC 29212000 del 30 novembre 2000). Il Tribunale esplicita tale riferimento, al punto 8 della motivazione in diritto affermando: "Por iltimo, otto tanto ocurre en el dmbito comunitario, con la Directiva 95146, sobre Protecciòn de las Personas Fisicas en lo que respecta al Tratamiento de Datos Personales y la Libre Circulaciòn de estos datos, asi como con la Carta de Derechos Fundamentales de la Unién Europea del presente aiio, cuyo art. 8 reconoce este derecho, precisa su contenido y establece la necesidad de una autoridad que vele por su respeto" 24 Così U. DE SIERVO, I diritti fondamentali europei ed i diritti costituzionali italiani (a proposito della Carta dei Diritti fondamentali) in «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2001, 159 25 Tuttavia, va detto che tale approccio metodologico non è esente da critiche. Parte della dottrina (Cfr. a tale proposito le considerazioni di A. GIOVANELLI, Dalla Carta dei diritti alla Costituzione europea, in «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2001, 170) ritiene, in primo luogo, che attualmente l'opera interpretativo-creatrice della Corte di Giustizia e il suo ruolo di supplenza rispetto all'inserimento della Carta nel corpo del diritto europeo sia un indice di scarsa trasparenza che contrasta con la pretesa di migliorare la credibilità democratica dell'Unione attraverso la maggiore visibilità dei diritti. In secondo luogo e più in generale ciò induce ad auspicare che finisca l'epoca del funzionalismo, quale approccio parziale e indiretto a temi che non si ha il coraggio di affrontare.

26 Cfr. A. SPADARO, Sulla 'iuridicità" della Carta europea dei diritti. c2' ma (per molti) non si vede, in G. E FERRARI (a cura di), Idiritti fondamentali dopo la Carta di Nizza - Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, pag. 267 e R. ToNlxrr!, La via giurisdizionale per la legittimazione dell'Unione Europea, in «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2001, 186 Ss. 27 Art. 51: "1. Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell'Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e nepromuovono l'applicazione secondo le rispettive competenze. 2. La presente Carta non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l'Unione, né modfica le competenze e i compiti definiti dai trattati."

28 Cfr. G.E FERRARI, I diritti tra costituzionalismi statali e discipline trasnazionali, in G. E FERJJJ (a cura di), I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza - Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, pag. 58.

29 Una tale ipotesi evidentemente sembra, parafrasando il disposto di una nota sentenza, sommamente improbabile ma tuttavia possibile.

Non dimentichiamo che attualmente diversi Paesi, la cui tradizione di tutela dei diritti non sempre è riconducibile a quella dello Stato di diritto, hanno, con diversi livelli di avanzamento, avviato i colloqui per l'adesione all'Unione (Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Slovenia, Cipro, Estonia, ma anche Romania, Bulgaria, Slovacchia, Lituania, Lettonia, Malta ed infine la Turchia). Inoltre, va menzionata anche la recente controversia tra l'Unione e il governo austriaco (nota anche come caso Haider). Questi dati di fatto hanno, di sicuro, contribuito alla redazione sia di questa e altre clausole cd. di salvaguardia, ma anche alla già citata modifica, col Trattato di Nizza dell'art./TuE. Com'è noto, l'articolo in questione, nel testo attualmente in vigore, consente al Consiglio dei Ministri dell'Unione di constatare l'esistenza di una viola-

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zione grave e persistente dei diritti fondamentali all'interno di uno Stato membro e, di conseguenza, di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato stesso dal Trattato. In futuro, quando il trattato di Nizza entrerà in vigore, sarà possibile constatare anche l'esistenza di un chiaro rischio di violazione dei diritti fondamentali.

30 Mi sembra anche questa un'indicazione di quella tensione dialettica che non è altro che un ulteriore specificazione del principio della costruzione progressiva dell'ordinamento comunitario. In questo senso, gli Stati sono consapevoli, da un lato, dell'indispensabile - e in qualche modo inevitabile - progressivo rafforzamento dell'elemento sovranazionale comunitario, dall'altro cercano, con diverse modalità, di guidare tale processo di integrazione sovranazionale in modo vantaggioso o non eccessivamente svantaggioso per il singolo Stato, o, addirittura, di tentare di conservare in capo allo Stato nazionale il maggior numero possibile di quelle prerogative e competenze che appartengono alla sfera di attribuzioni dello Stato nazionale così come si è andato configurando nei secoli. Tale approccio non deve però considerarsi frutto esclusivo di opporrunismi e tatticismi di corto respiro. Se è vero, infatti, che "l'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto" (art. 6 TuE), è anche vero che, ancora oggi, il problema del deficit democratico e costituzionale dell'ordinamento comunitario non è completamente superato e, pertanto, alcune riserve poste in essere da istituzioni politiche e organi giurisdizionali nazionali possono essere pienamente giustificate.

3' Cfr. ad es. le sentenze 18/05/2000, C107/97, Rombi andArkopharma (in Racc. 2000, p. 1-3367); 13104/2000, C-292/97, Karlsson e altri (In Racc. 2000, p12737); 24/0311994, C-

/92, The Queen contro Ministry ofAgriculture, Fisheries and Food, ex parte Dennis Clffrd Bostock (In Racc. 1994, p. 1-955); 18/0611991, C260/89 ERT contro DEP (in Racc. 1991, p. I2925); 13/07/1989, C-5188, Wachauf contro

Bundesamtfiir Erniihrung und Forswirtschafi (in Racc. 1989, p. 2609) 32 Cfr. a tale proposito le riflessioni di M. CARTABIA (commento all'art. 51 della Carta) in R. BiFuLco, M. CARTABR, A. CELOTTO, L'Europa dei diritti - Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, Bologna, 2001, pag. 347) che riconduce tale metodologia nell'ambito della cd. dottrina dell' incorporation che ha origine nell'ordinamento statunitense.

33 Cfr. S. TR0IL0, I possibili contrasti tra i diversi livelli di protezione dei diritti fondamentali in Europa: A chi spetta l'ultima parola?, in G. F. FEPJ.iI (a cura di), I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza - Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, pag. 273) " Quest'ultima impostazione, presente soprattutto nella giurisprudenza di alcune corti costituzionali, attualmente pare manifestarsi soprattutto nelle forme di quella che può definirsi una clausola di salvaguardia dei sistemi nazionali contro ipotetiche violazioni dei principi fondamentali dell'ordinamento da parte della Comunità o dell'Unione.

35 Anche in questo caso ciò va ricondotto al metodo funzionalista e incrementale. In questo senso, il dinamismo e la tendenza all'espansione degli ambiti operativi e dei compiti dell'ordinamento comunitario probabilmente non avrebbero potuto realizzarsi adeguatamente mediante un'attribuzione specifica di poteri e compiti ai vari livelli territoriali. Tuttavia, la scelta di non ripartire le competenze per singole materie, ma proceduralmente in funzione degli obiettivi da raggiungere, ha reso, com'è noto, fin dall'inizio, particolarmente complessa sia la definizione di un modello generale e sia la risoluzione dei problemi riguardanti i poteri ed i compiti spettanti alla Comunità ed agli Stati membri nei diversi settori di intervento delle politiche comunitarie.

Si spiegano così la previsione e l'utilizzazione della previsione di cui all'art 308 TCE (cd. clausola dei poteri impliciti), la ricostruzione o, meglio, la definizione del modello di riparto tracciata non senza difficoltà, dalla giurisprudenza

della Corte di Giustizia e degli organi giurisdizionali degli Stati membri e soprattutto il principio di sussidiarietà (formalizzato nell'art. 5 TCE) che rappresenta sicuramente la chiave di lettura pii pregnante e significativa dell'intero sistema.

36 Cfr. M. CARTABIA, (commento all'art. 51 della Carta) in R. BIFULc0, M. CARTABIA, A. CELOTTO, L'Europa dei diritti - Commento alla

Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, Bologna, 2001, pag. 351 37 In questo senso si esprime G. G. FLORIDIA, "I'/ell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli

abitanti". Osservazioni sulla "Dichiarazione dei diritti" di Nizza, in «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2001, pag. 168, operando un suggestivo parallelo tra la situazione attuale e quella di fine '700 dove la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino precedette la prima Costituzione della Francia rivoluzionaria.

38 Cfr. V. ATRIPALDI, La Carta dei diritti fondamentali.' un processo verso una Carta d'identità europea, in »Diritto Pubblico Comunitario ed Europeo», 2001, 161.

39 Cfr. M. LUcIAJ'li, Riflessioni minime sulla Carta europea dei diritti fondamentali, in «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2001, 172.

40 A tal proposito G. E FERRARI, Idiritti tra costituzionalismi statali e discipline trasnazionali, in G. F. FERRARi (a cura di), I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza - Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, pag. 54, ritiene che tale strutturazione dei diritti nella Carta europea non introduca "fratture rispetto alla cultura costituzionalistica del secondo dopoguerra, ma solo inevitabili diffi'renze di sensibilità per lo più indotte dalla collocazione della Carta in un proceso di costituzionalizzazione graduale, in cui i diritti vedono necessariamente attenuata la valenza oppositiva tipica della loro positivizzazione statuale...... Al contrario, un'altra dottrina (A. ìvLì'iZELLA, Dal mercato ai diritti, in A. MANZELLA, P. MELOGRANI, E. PAclorri, S. RODOTÀ, Riscri vere i diritti in Europa, Bologna, 2001 pag. 50) af-

ferma testualmente: "Assunta, per ora, nel para-

metro sostanzialista, della tutela pretoria dei diritti la Carta ha quindi un immediato valore garantista, limitativo del potere pubblico europeo (con un duro colpo alla reiterata e troppo spesso non precisata narrazione sul "deficit democratico').

41 Cfr. G. Di PLINIo, La Carta dei Diritti nel processo di integrazione europea, in G. E FERRARI (a cura di), I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza - Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, pag.146.

42 A tal proposito cfr. S. GAMBINO, Il diritto costituzionale europeo: princìpi strutturali e diritti fondamentali, in (a cura di S. Gambino), La Costituzione italiana e il diritto comunitario, Milano, 2001. LA. testualmente afferma: "La Costituzione europea come 'atto di un popolo che crea un governo come strumento di 'limitazione del potere e di garanzia dei diritti', allo stato attuale, non esiste se non come 'acquisizione evolutiva' in bilico tra essere e divenire, se non come progetto politico che non ha saputo ancora trasformarsi in realtà né, contrariamente a quanto avviene per la 'costituzione mondiale', è rimasto mera utopia. Un progetto, dunque, che si risolve e si surroga in un ordinamento giuridico non originario che, pur non trovando in sé il titolo della propria legittimazione se non condizionatamente alla realizzazione delle finalità statuite nel Trattati, è comunque in grado di esprimere meccanismi propri di produzione di un diritto capace di applicazione negli Stati membri. Se, nella realtà, una simile Costituziòne si svela come qualcosa di più e di diverso di un diritto internazionale, è sicuramente ancora molto meno di un diritto costituzionale in senso proprio, ancorché aspiri a divenirlo ed almeno sotto il limitato profilo giurisprudenziale già lo è e con modalità capaci di assicurane l'effittività, pur nei limiti già richiamati", 43 A proposito di questo tema, controverso e ampiamente dibattuto in dottrina, appaiono estremamente rilevanti le recenti considerazioni metodologiche di C. AMIRANTE (Unione monetaria e Unione politica: Contraddizioni e prospettive del processo di integrazione europea, in Unioni so71

vranazionali e riorganizzazione costituzionale dello Stato, Torino, 2001 p. IX). L'A. infatti afferma: "Se il tema del deficit democratico è stato il minimo comun denominatore di molte analisi sulla UE e sul suo destino, non sempre il problema è stato affrontato nel modo più corretto, distinguendo fra le questioni più strettamente legate all'o rganizzazione istituzionale dell'UE quelle relative ai rapporti fra l'Unione e i singoli Stati membri, e soprattutto ai rapporti fra regole e procedure della democrazia e suoi contenuti, con particolare riferimento alla vera rivoluzione normativa ed istituzionale indotta da due processi: la progressiva prevalenza della mediazione economica su quella politico-giuridica e la correlativa predominanza dei poteri sovranazionali sui poteri sovrani del singolo Stato".

44 In tal senso, anche il recente Trattato di Nizza si muove nell'ambito del gradualismo. Esso non ha apportato elementi di modificazione qualitativa al quadro istituzionale, ma, al contrario, di incremento di tipo quantitativo nella composizione delle Istituzioni e nelle procedure. Tale risultato è la conseguenza dei forti contrasti esistenti tra gli Stati membri sia nella fase delle trattative che in quella dell'elaborazione del testo. Si è cercato, pertanto, di superarli con risultati solo in parte soddisfacenti - attraverso lunghi negoziati e ricorrendo a soluzioni di compromesso, soprattutto in tema di riequilibrio dei voti di ciascuno Stato nel Consiglio dei ministri dell'Unione e delle modalità d'allargamento della Comunità ai Paesi dell'Est. Quando il Trattato entrerà in vigore e l'Unione avrà proceduto al suo successivo allargamento (non ancora quantificabile con esattezza in riferimento al numero dei Paesi) ci si troverà di fronte ad Istituzioni (soprattutto Commissione, Parlamento, Consiglio, Corte di Giustizia) sicuramente più "ponderose", sull'efficienza delle quali - anche in relazione alla procedure - esiste più di un dubbio.

45 A questo proposito, un esempio di notevole portata è costituito dalla materia dei diritti sociali. Come ha sottolineato la dottrina (cfr. A. 72

Eguaglianza sostanziale e diritti sociali nel rapporto tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, in - a cura di S. Gambino -, La Costituzione italiana e il diritto comunitario, Milano, 2001) "fino a quando l'individuazione e la portata dei diritti sociali viene determinata per via giurisprudenziale o attraverso atti di dubbio valore, continueranno a sussistere perplessità in relazione alla 'certezza', a livello europeo, dei diritti sociali stessi'.

46 A questo proposito va ricordata la Dichiarazione n. 23 allegata al Trattato di Nizza (in GUCE - C 80 del 10 marzo 2001) che ricorda come le questioni aperte, in ordine alle successive tappe del processo di integrazione, siano le seguenti: le modalità per stabilire, e mantenere, una più precisa delimitazione delle competenze tra l'Unione europea e gli Stati membri, che rispecchi il principio di sussidiarietà; lo status della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza, conformemente alle conclusioni del Consiglio europeo di Colonia; una semplificazione dei trattati al fine di renderli più chiari e meglio comprensibili senza modificarne la sostanza; il ruolo dei parlamenti nazionali nell'architettura europea. Il confronto su questi temi dovrebbe poi trovare una sua formalizzazione in una Conferenza Intergovernativa fissata per il 2004 che dovrebbe occuparsi dei temi summenzionati in vista delle corrispondenti modifiche dei Trattati.

47 Tuttavia, a questo proposito, va menzionato quale atto rilevante (e pressoché unico) nella formazione di un consenso popolare alla costruzione di un'unificazione di tipo politico a livello europeo, il referendum costituzionale d'indirizzo del 1989 (creato nel nostro ordinamento dalla legge costituzionale n. 2 del 1989).

48 A questo proposito M. Luc1NI, (Riflessioni minime sulla Carta europea dei diritti fondamentali, in «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2001, 173) sottolinea come, se è vero che attualmente un popolo europeo non esista è anche vero che tale assenza non vada opposta in maniera strumentale, perché la definizione di SACCOMANNO,

popoio alla quale occorre riferirsi non è quella di qualche secolo fa. La costruzione di un popolo europeo che esprima una comunanza di valori passa attraverso una sfera pubblica di comunicazione comune che coinvolga tutti e non soltanto, come fino ad ora è stato, alcune élites.

49 L'espressione è di A. SPADARO, Sulla 'iu-

ridicità" della Carta europea dei diritti: c'è ma (per molti) non si vede, in G. E FERRARI (a cura di), I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza - Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, pag. 261.

50 A questo proposito S. R000TÀ, (La Carta come atto politico e documento giuridico, in A.

MANZELLA, P. MELOGRANI, E. PAcIolrn, S. RoDOTÀ, Riscrivere i diritti in Europa, Bologna,

2001, pag. 68) afferma: "Un procedere solo per

tasselli, per faticose composizioni di un mosaico, non può essere la prospettiva dell'Unione. Quali che possano essere i tempi e le scansioni, i processi di unificazione istituzionale richiedono, prima o poi, l'approdo ad un documento comune e non settoriale come sono stati finora i trattati di Roma, Maastricht, Amsterdam. Per abitudine e tradizione chiamiamo questo documento 'Costituzione': che però, non è detto debba rispondere in tutto ai caratteri delle Costituzioni quali le abbiamo finora conosciute".

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La Banca d'inghilterra tra sovranità nazionale e moneta unica europea di Hadrian Simonetti

La campagna quest'anno è popolata di mostri. Un pecoraio, un contadino, una donna hanno visto avvicinarsi a loro e poi figgire una specie di scimpanzè irsuto, nerissimo e gigantesco.

(LEONARDO ScIAscIA,

Nero su nero, Adelphi, Mila-

no, 1991, p. 9)

L

attenzione riposta sulla Banca d'Inghilterra si giustifica, oltre che per il prestigio che l'istituzione ha conquistato nella sua lunga storia, in ragione della mancata adesione del Regno Unito alla fase iniziale dell'Unione monetaria europea, quale suggello ad una posizione da sempre riluttante riguardo alla creazione della moneta unica 1 . Simile attitudine qualifica, più in generale, la partecipazione britannica al processo d'integrazione europea, ed è all'origine del ritardo con il quale, dapprima, il Regno Unito ha aderito alla Comunità europea, quindi, limitatamente al biennio 1990-1992, ha fatto parte del sistema monetario europeo.

Le ragioni del disimpegno, o del limitato impegno, del Regno Unito sono legate anche alla specificità della propria esperienza costituzionale, per tacere della particolare collocazione geografica 2 e della posizione egemonica di un tempo. Come noto, l'esperienza costituzionale britannica è segnata dal principio della sovranità del Parlamento, principio affermatosi con la gloriosa rivoluzione del 1688 ed in seguito riconosciuto, nell'opera di Dicey, come uno dei capisaldi, con la Rule ofLaw, della Costituzione inglese 3 . Unico esempio oramai nelle democrazie occidentali di Costituzione non scritta 4 .

La sovranità del Parlamento spiega la mancata distinzione, nella gerarchia delle fonti, tra legge costituzionale e legge ordinaria, attesi i poteri pressoché

L'Autore è dottorando di ricerca in Diritto Amministrativo presso l'Università La Sapienza di Roma.

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illimitati riconosciuti al Parlamento, giusta la definizione secondo la quale: "It is a fundamental principle with English lawyer, that a Parliament can do everything but make a woman in man, and a man in woman" 5 Da ciò discende anche la difficoltà, ad esempio, di introdurre nel Regno Unito un nuovo Bill of Rights avente valore di legge costituzionale ("entrenched", secondo la versione inglese) 6, che pure figurava nel programma originario del New Labour di Tony Blair 7 .

L'ingresso del Regno Unito nella Comunità europea, con lo European Communities Act 1972, ha comportato l'assunzione di una serie di impegni di grande rilevanza, anche dal punto di vista costituzionale, non ultimo l'adesione ad un processo costituente permanente, che hanno finito per modificare nella sostanza la Costituzione e, più in generale, il diritto pubblico inglese.

Sin da principio, la partecipazione al progetto europeo ha rappresentato una prima ferita inferta al principio dellà sovranità del Parlamento 8 , sollecitando l'attenzione crescente della dottrina 9 e investendo le corti del problema di risolvere gli eventuali conflitti tra la norma interna e quella comunitaria, nel difficile sforzo di coniugare la riconosciuta primazia del diritto di Bruxelles con la tradizionale sovranità di Westminster'°. .

MAASTRICHT, BANCA D'INGHILTERRA E MODIFICAZIONI DELLA COSTITUZIONE

Dell'integrazione europea costituisce ora una tappa fondamentale la realizzazione dell'unione economica e monetaria. Al riguardo si è osservato come il Trattato di Maastricht sull'Unione europea, segnatamente nella parte concernente il sistema europeo delle banche centrali (SEBC), presenti una visione della banca centrale e della sua condotta della politica monetaria che è estranea alla tradizione britannica' 1; in particolare l'idea di una banca centrale europea indipendente, che riceve dal Trattato il proprio fondamento ed i propri obiettivi, si distacca dal classico modello britannico.

In tale modello, la banca centrale era strettamente legata e subordinata al Tesoro 12 , e quest'ultimo a sua volta responsabile dinanzi al Parlamento sovrano perché democraticamente eletto13. In questo senso, il Bank of England Act 1998, preceduto da una lettera del Cancelliere dello Scacchiere, Gordon Brown, all'indirizzo del Governatore della Banca 14, - nella quale si annunciava l'impegno teso a garantire l'indipendenza della Banca medesima in tema di politica monetaria -, segna, almeno formalmente, il definitivo abbandono di un tradizionale ed importante elemento del sistema istituzionale del Regno Unito.

La riforma della Banca d'Inghilterra si inserisce in un quadro più in generale dove, agli occhi del civil lawyer, l'intero territorio del diritto pubblico appare percorso da radicali cambiamenti (che vanno dal tema dei diritti umani alla riforma della House of Lords, dalla possibilità di modificare il sistema elettorale in senso proporzionale alla devolution in Scozia ed in Galies, per citare solamente alcuni esempi) sollecitati dal confronto con altri Paesi, tra i quali naturalmente, ma non solamente 15, quelli facenti parte dell'Unione europea.

La riforma della Banca d'Inghilterra può essere quindi assunta a paradigma del bisogno sempre più avvertito di innovare la Costituzione inglese; bisogno originato anche da ragioni politiche ed economiche, e, tra queste, le sollecitazioni insistenti che provengono dai mercati finanziari internazionali per quanto concerne le politiche monetaria e fiscale.

L'odierno dibattito istituzionale appare tanto più vitale ove messo a confronto con la orgogliosa chiusura a qualsiasi cambiamento, di un passato anche recente. Sia consentito richiamare un episodio significativo accaduto nel 1976 alla Camera dei Lords: in quella sede, il Lord Cancelliere dell'epoca ebbe occasione più volte di far riferimento alla Corte europea dei diritti dell'uomo come se avesse sede a Bruxelles, invece che - com'era e com'è - a Strasburgo; dove l'insistenza per Bruxelles sembrò rivelare l'errata convinzione, peraltro confortata dal silenzio dei presenti, che la Corte fosse un'istituzione dell'allora Comunità economica europea 16. L'episodio documenta nel migliore dei modi, ancor prima della poca dimestichezza dei politici britannici di allora con il diritto comunitario, la fede cieca nella perfezione delle proprie istituzioni e la grande diffidenza verso le istituzioni europee.

Collocare la Banca d'Inghilterra nel quadro del processo costituzionale in atto nel Regno Unito non è affatto agevole; se fino a ieri, la dipendenza dal tesoro della banca centrale poteva giustificare lo scarso interesse dei giuristi, le trasformazioni intercorse nell'ultimo decennio non sembrano tuttavia avere suscitato l'attenzione che era prevedibile aspettarsi dagli stessi. Il tema investe la definizione dei confini della Costituzione e rappresenta, a suo modo, un capitolo classico della storia del diritto 17 . Come è stato osservato, gli scienziati della politica, avvertiti della ramificazione del potere pubblico, sono propensi a riconoscere come parti dello "state system" istituzioni che, di contro, i costituzionalisti non di rado considerano, per inveterata abitudine, fuori del loro campo di osservazione 18 . Tra queste istituzioni di confine (definite come "finge bodies") - l'elenco include principalmente le imprese pubbliche e la serie numerosa di "independent or quasi-autonomous public bodies which 76

perform a variety of executive and advisoryfinctions" 9 - assume una posizione centrale la Banca d'Inghilterra.

LE RAGIONI DI UN SILENZIO

Prima di esaminare la riforma della Banca d'Inghilterra è necessaria un'altra premessa. Come già sottolineato, le trasformazioni intercorse nell'ultimo decennio concernenti la politica monetaria hanno ricevuto limitata considerazione da parte dei giuristi, in special modo i public lawyers. Chi volesse studiare la Banca centrale dalla prospettiva dell'evoluzione del diritto pubblico, rimarrebbe probabilmente sorpreso dal numero contenuto di articoli, riferimenti manualistici, lavori monografici dedicati a questo tema 20 .

Le ragioni di questo silenzio, o quasi, sono molteplici; la prima è legata ai modi tradizionali di insegnamento e apprendimento del diritto nelle università inglesi, basati prevalentemente sulla lettura e lo studio del precedente giudiziario. Ne deriva un'attenzione concentrata sui profili applicativi della legge, alla ricerca del caso pratico, terreno di caccia di futuri avvocat1 21 . In tal senso si comprende l'attenzione crescente per la "regolazione", proprio in ragione delle ricadute pratiche che essa comporta, e, di contro, il limitato interesse per la politica monetaria il cui esercizio, almeno di regola, non si traduce in atti o fatti suscettibili di ledere gli interessi giuridici dei privati, consentendo ai medesimi di adire l'autorità giudiziaria 22.

La seconda ragione investe i controversi rapporti tra "public law" ed "economic policy"; da una parte, la vecchia convinzione che l'elaborazione e l'applicazione della politica economica sia compito primario del governo, il quale, giusto il suo ruolo privilegiato nel procedimento legislativo, si affida primariamente alla legge, quale strumento principale per raggiungere i propri obiettivi di politica economica23 . Dall'altra, l'opinione diffusa, lungo una sottile linea che da Dicey conduce a Hayek 24 e da questi alla scuola di Chicag025 , che l'intervento dello Stato nell'economia sia, oltre che fallimentare, difficilmente compatibile con la "rule of law"26. Come noto, in Dicey, l'avversione per gli interventi pubblici nell'economia si legava al rifiuto per il diritto amministrativo, ovvero per una normazione propria che regolasse l'amministrazione pubblica27 , diritto ritenuto incompatibile con la rule oflaw che postulava una eguale soggezione, dei privati come dei soggetti pubblici, al diritto comune applicato dai giudic1 28 .

Questa seconda ragione (in special modo la perdurante influenza di Dicey), accompagnata alla prima, probabilmente spiega il limitato contributo 77

offerto dai British academic lawyers alla comprensione dei rapporti tra il diritto e l'economia nel Regno Unito 29 Venendo ai giorni nostri, il declino dello Stato gestore 30, mentre certifica la crisi del ruolo strumentale ed attivo della legge, segnatamente del diritto pubblico, volta al raggiungimento degli obiettivi di politica economica; di contro sembrerebbe assecondarne quello che viene definito il public law framework role31 , ritenuto più consistente con il nuovo modello dello Stato regolatore 32 In questa direzione possiamo collocare il Bank England Act 1998, nel quale the framework role della legge è particolarmente evidente, atteso che l'atto costituisce la nuova base legale della Banca centrale sul terreno della politica monetaria, ne fissa gli obiettivi (a cominciare dal mantenimento della stabilità dei prezzi) la cui realizzazione tuttavia, giusta l'indipendenza riconosciutale, è rimessa alla stessa Banca d'Inghilterra (come vedremo, attraverso la Monetary Policy Committee, Mpc). .

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La poca attenzione prestata dai giuristi, specie dai public lawyers, alla riforma del 1998 - tanto più se confrontata con l'entusiasmo suscitato dalle riforme costituzionali promosse dal nuovo Governo - muove anche da una considerazione che investe, ancora una volta, il ruolo della legge nella regolazione della sfera economica. Come osserva, di recente, Terence Daintith, il cuore dell'indipendenza della Banca d'Inghilterra è dato dal trasferimento del potere di fissare i tassi di interesse dal Cancelliere dello Scacchiere alla IVlonetary Policy Committee della Banca centrale. Rilevante sul piano costituzionale è che questo cambiamento sia avvenuto per legge, legge che rimuove i poteri in precedenza spettanti al Cancelliere di dare indicazioni alla Banca in tema di politica monetaria. Secondo l'autore, non è forse generalmente avvertito che, under the law ofour constitution, per tutto questo non c'era bisogno di una legge (non a caso molti dei cambiamenti registrati nell'Act operavano, defacto, già in precedenza, on the basis ofan agreement between the executive government and the Bank ofEngland). Piuttosto, si è fatto ricorso alla legge del Parlamento al fine di ingenerare l'affidamento della comunità finanziaria internazionale sul fatto che l'impiego degli strumenti chiave della politica monetaria sarebbe stato in futuro determinato da definiti obiettivi anti-inflazionistici ("suggeriti" dalla scienza economica dominante) e non più da imprevedibili pressioni politiche 33 La legge diventa, in sostanza, una forma di esternazione di decisioni - non di rado frutto di negoziazione tra i soggetti interessati, come l'esempio della Banca d'Inghilterra documenta - prese altrove 34 la sua funzione essenziale è .

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quella di ratificare cambiamenti già in atto, che, nel caso del Bank ofEngland Act 1998, investono i modi attraverso i quali il potere pubblico viene esercitato sulla moneta35 Dinanzi ad un ruolo ancillare della legge (e del diritto, almeno di quello statuale), il silenzio dei giuristi inglesi potrebbe essere allora il segno di un disagio e la presa di coscienza di una subalternità nei confronti del mercato 36 da qui il ritrarsi verso lidi più familiari o, almeno, confortati dalla casistica giurisprudenziale (pensiamo, ad esempio, al financial law). Di contro e forse non a caso, dal lat9 degli economisti si osserva una messe di studi sulla politica monetaria e sulle responsabilità delle banche centrali e, tra queste, naturalmente anche della Banca d'Inghilterra. .

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RIANDANDO ALLA STORJIA

Se si eccettua la svedese Riksbank37 la Banca d'Inghilterra costituisce la più antica delle banche centrali, essendo stata fondata nel lontano 1694 per far fronte al bisogno di Guglielmo III di finanziare la propria campagna militare nell'Europa continentale 38 . Istituita con atto del Parlament0 39 la Banca d'Inghilterra, alla quale era stata concessa una royal charter, aveva la forma della società per azioni con capitale privato (joint-stock company); amministrata da un consiglio composto dal governatore, il suo vice e 24 direttori scelti dagli azionisti riuniti in una sorta di assemblea annuale (Generai Courts of the Bank Proprietors).

A fronte della perdurante natura giuridica di società privata (come vedremo, fino alla nazionalizzazione del 1946) 40 la Banca assunse gradualmente nel tempo funzioni che, di fatto, la qualificavano come una istituzione pubblica: sin dal diciottesimo secolo la Banca d'Inghilterra era uno degli istituti di emissione di banconote (con il Bank Charter Act del 1844 le verrà poi riconosciuto il monopolio) 41 nella seconda metà dell'ottocento appariva già evidente come i compiti della stessa non fossero limitati alla gestione del debito pubblico e ad assicurare la convertibilità delle banconote in oro secondo il sistema del Gold Standarc4 procurando liquidità addizionale al resto del sistema bancario in periodi di ristrettezza finanziaria, così assicurando la stabilità monetaria e prevenendo crisi finanziarie, la Banca assunse progressivamente le funzioni di una moderna Banca centrale" 42 Per quanto concerne segnatamente le relazioni tra la Banca e lo Stato, le ragioni di un rapporto tanto forte, a dispetto della forma giuridica riconosciuta alla Banca, sono prevalentemente di origine storica: la creazione e ,

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l'evoluzione della Banca, almeno per tutto il settecento, si accompagnano al costante impegno militare dell'impero britannico, bisognevole di finanziamenti per le proprie guerre; compito primario della Banca, in tale periodo, è quello di foraggiare la politica imperialista della monarchia inglese. La generosità dei prestiti accordati da un creditore tanto sollecito si spiegava in ragione del fatto che lo statuto della Banca, nel quale erano definiti poteri e privilegi, era soggetto a periodiche revisioni da parte del Parlamento, che divenivano l'occasione per valutarne la condotta 43 La prima metà del secolo diciannovesimo è segnata da ricorrenti crisi monetarie (1825, 1837, 1839, 1847) che sembrano minare la credibilità della Banca; la legislazione del 1816, 1819 e 1844 nel suo insieme è diretta a limitarne la discrezionalità, vincolandone l'azione al rispetto di regole predeterminate di politica monetaria, e tra queste il sicuro ancoraggio alla parità aurea (gold standard) 44. Contraddicendo opinioni consolidate, si è osservato come queste riforme, peraltro in linea con la dottrina del laissez-faire, finirono per giovare alla autonomia della Banca d'Inghilterra, se è vero che nel corso dei decenni successivi (fino alla prima guerra mondiale) i risultati della Banca, in termini di tassi di cambio, offerta di moneta e livello dei prezzi, furono generalmente accolti con piena soddisfazione 45 . Il consenso in tal modo guadagnato, congiunto ad una immagine di imparzialità ed elevata competenza derivante dall'essere vincolata al rispetto di regole predeterminate, fecero acquistare alla Banca d'Inghilterra un apprezzabile grado di autonomia 46 .

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Ancora una volta le vicende della guerra, la prima guerra mondiale, dovevano condizionare l'autonomia della Banca d'Inghilterra e, di contro, rafforzare il controllo da parte del governo: significativo in tal senso, durante il conflitto, l'invito rivolto dal Primo Ministro Asquith al Governatore Cunliffe affinché la Banca rispettasse le indicazioni del Cancelliere dello Scacchiere e non assumesse iniziative concernenti il credito senza essersi prima consultata con il Tesoro47 invito pienamente accolto dal Governatore 48 Gli anni a cavallo tra le due guerre vedono la Banca d'Inghilterra impegnata nel tentativo di difendere la propria indipendenza 49, auspicando un ritorno alla situazione prebellica. Le mutate condizioni economiche interne (in termini di forte diminuzione delle esportazioni, crescita della disoccupazione, difficoltà dell'industria) legandosi sul versante internazionale alla grande crisi del '29, determinarono tuttavia un periodo di forte instabilità, segnato anche dalla svalutazione della sterlina 50 . Come avviene soprattutto nei periodi di crisi, ci si divise tra quanti proponevano una politica monetaria espansiva, ;

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per sostenere l'industria nazionale riducendo la disoccupazione, e quanti difendevano il tradizionale impegno della Banca volto a controllare l'inflazione e a garantire la stabilità dei prezzi.

Fu in tali circostanze che il ruolo neutrale della Banca centrale, esecutore fedele di condivise regole di politica monetaria, venne meno; dal momento che la stessa veniva avvertita come guardiano degli interessi della City contro quelli dell'industria; della stabilità dei prezzi contro la preoccupazione per la disoccupazione, degli scambi con l'estero contro la crescita della domanda interna51 La critica rivolta alla neutralità della Banca centrale, neutralità confutata in special modo dai laburisti, si legava al rifiuto delle "vecchie" regole della politica monetaria alle quali la Banca aveva ispirato la propria azione. La sospensione della convertibilità in oro della sterlina, nel 1931, fece il resto; facendo venire meno "the constitutional justification of the Bank's autonomy over monetary matters, especially as it was stili a privately owned institution with very little accountabi!ity to ministers" 52 . La sospensione della convertibilità mutò il quadro dei rapporti costituzionali tra la Banca ed il Tesoro a favore dei secondo, essendo oramai venuta meno la ragione dell'autonomia della prima.

In questo quadro, ai fini della battaglia per il controllo della politica monetaria, la nazionalizzazione del 1946 fu quasi irrilevante (le sue ragioni vanno piuttosto, come vedremo, ricercate altrove), perché già dopo il 1931 quei controllo era stato sottratto alla Banca d'Inghilterra. Quando nel 1937 il governatore Norman dichiara di essere "an instrument of Treasury" 53 la battaglia può dirsi conclusa; le parti hanno già sottoscritto un "gentleman's agreement" che sarà, qualche anno più tardi, "convertito" in legge 54 .

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DALLA NAZIONALIZZAZIONE ALLA RIVOLUZIONE CONSERVATRICE: LA SUBORDINAZIONE AL TESORO

Nell'immediato secondo dopoguerra non vi erano più dubbi che, "as a matter of constitutional competency", la guida della politica monetaria spettasse oramai al Tesoro e al Cancelliere dello Scacchiere (in definitiva, quindi, al Governo) 55 . La nazionalizzazione della Banca, realizzata con il Bank ofEngland Act 1946, doveva servire piuttosto, per usare le parole del Cancelliere dello Scacchiere del tempo, a tradurre in legge i rapporti già esistenti nella prassi56. Tanto più che gli impegni elettorali dei laburisti, vincitori nelle elezioni del 1945, che in tale ambito prevedevano oltre alla nazionalizzazione 81

della Banca l'assoggettamento ad uno stringente controllo pubblico dell'intero sistema bancario (se non proprio la nazionalizzazione tout court delle banche), ricevettero attuazione soio in parte. Del resto la stessa Banca, rinunciando ad ogni tentativo di opporsi alla nazionalizzazione, diede un importante contributo alla elaborazione dell'Atto, assicurandosi che la transizione verso la proprietà pubblica non inficiasse quantomeno la propria autonomia gestionale57 L'ambizioso e temuto progetto elettorale dei laburisti si tradusse pertanto in una Legge di pochi articoli, nella quale si disponeva l'acquisto del capitale azionario della Banca 58 da parte del Tesoro, un adeguato indennizzo a vantaggio dei vecchi azionisti, l'istituzione di una "Court of Directors", composta dal Governatore, Vice Governatore e 16 direttori tutti di nomina della Corona, nella sostanza il Primo Ministro, infine il potere del Tesoro di dare istruzioni alla Banca, in nome dell'interesse pubblico, previa consultazione con il Governatore 59 La clausola piii controversa, a lungo dibattuta, concerneva il potere di direzione che si voleva conferire alla Banca d'Inghilterra sul sistema bancario, con il proposito di assoggettare per tale via il sistema medesimo al diretto controllo governativo. Alla fine venne concordato un testo nel quale, piìt blandamente, si attribuiva alla banca centrale la possibilità, sempre se giustificata dall'interesse pubblico, di chiedere informazioni e fare raccomandazioni alle banche (segnatamente "bankers"); alla Banca d'Inghilterra si riconosceva peraltro il potere di dare istruzioni alle banche al fine di dare esecuzione alle richieste ed alle raccomandazioni stesse, con l'avvertenza che tali istruzioni dovevano essere previamente autorizzate dal Tesoro, consentendo alle banche medesime di presentare le proprie osservazioni 60 .

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Giova sottolineare come l'articolo 4 della Legge, che "brilla" per la sua genericità specie con riguardo alla nozione di interesse pubblico, non abbia mai ricevuto concreta attuazione: il Tesoro non ha mai dato, almeno formalmente, alcuna istruzione alla Banca, né questa ha rivolto raccomandazioni, tanto meno ha dato istruzioni, alle altre banche nell'esercizio della propria attività di vigilanza61 A ben considerare la genericità valeva a qualificare la Legge nel suo insieme, se è vero che, a parte l'articolo citato, nulla era stabilito circa i rapporti e le rispettive responsabilità della Banca e del Tesoro, specie con riferimento alla fissazione dei tassi di interesse 62; né la legge vincolava la Banca al perseguimento di particolari obiettivi di politica monetaria come, ad esempio, la sta.

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bilità dei prezzi. Se a tutto questo aggiungiamo l'irrisolta natura giuridica della Banca, al di là del dato formale della sua nazionalizzazione, il risultato era un disegno della politica monetaria fondato su un alto tasso di discrezionalità ed un insoddisfacente grado di trasparenza 63 La mancata indicazione nella Legge del 46 di obiettivi definiti di politica monetaria (a differenza di quanto dispone, come vedremo, il Bank ofEngland Act 1998, section 11), cui vincolare la condotta della Banca, si legava al fatto che le nuove priorità della politica macroeconomia di quegli anni erano il mantenimento di un elevato livello di occupazione e di un alto tasso di crescita; la stabilità dei prezzi veniva dopo, subordinata a quegli obiettivi principal164. In via preliminare, la scelta tra le regole e la discrezionalità veniva risolta a vantaggio della seconda 65, che diveniva nelle parole di Richard Sayers, la ragione fondante di una Banca centrale, dal momento che non era dato rinvenire "rules applicable to all times and all places". Scriveva Sayers nel 1957 che "L'essenza della politica di una Banca centrale è il controllo discrezionale del sistema monetario ( ... ) Una Banca centrale è necessaria solo quando la società decide che l'elemento della discrezionalità è desiderabile. Il Banchiere centrale è colui il quale esercita la discrezionalità, e non un automa che lavora sulla base di regole ( ... ) Noi abbiamo Banche centrali che esercitano una influenza discrezionale sulla situazione monetaria. Dal che consegue che non ci sono regole immodificabili da seguire. Piuttosto le banche centrali debbono adattare i loro interventi ai modi in cui i comportamenti economici della società cambiano di continuo" 66 Una politica monetaria all'insegna della discrezionalità, piegata al conseguimento di obiettivi sinceramente politici, presuppone, quale guida, un organo dotato di legittimazione democratica; nella realtà britannica, dove la sovranità del Parlamento democraticamente eletto si era già tradotta da tempo nella supremazia del governo, questo ruolo guida spettava appunto al potere esecutivo. Per quanto concerne in particolare la questione dei tassi di interesse, ricordiamo che per quasi un ventennio, tra il 1932 e il 1951 questi non subirono alcuna variazione; la politica dei tassi di interesse era divenuta parte integrante della politica economica generale 67 tutta rivolta a sostenere la domanda interna. Nel silenzio della Legge del 1946, le decisioni spettavano ancora formalmente al Consiglio dei Direttori (Court ofDirectors), mentre nella realtà erano subordinate al consenso del Tesoro: nei documenti parlamentari si legge di un deputato, Mr Stokes, che in una seduta alla Camera dei Comuni affermava: "Ho detto un giorno al Governatore, 'il Cancelliere dello Scacchiere mi ha assicurato che non controlla i tassi di interesse' e la replica che .

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ho ricevuto è stata 'mi rincresce dirti, Mr Stokes, che il cancelliere dello Scacchiere non ti ha detto la verità" 68 Le testimonianze rese dinanzi alla Commissione di inchiesta, istituita alla fine degli anni Cinquanta per accertare presunte fughe di notizie in merito alla decisione di variare il tasso di interesse, fornivano un quadro dettagliato di come la decisione era stata presa: attraverso consultazioni ristrette tra la Banca d'inghilterra e il Tesoro, dalla quali era difficile stabilire quale dei due avesse influenzato l'altro. Sebbene la Banca rivendicasse ancora, quantomeno, l'iniziativa sulla decisione di variare il tasso di interesse, l'allora Governatore diceva plausibilmente la verità quando dichiarava a Radcliffe 69 :"Non avrei mai potuto dire in un preciso momento che una certa idea venisse da noi piuttosto che dal Tesoro".

In tempi meno lontan1 70 l'abbandono delle politiche keynesiane e l'influenza della scuola monetarista 71 , caratterizzanti il regno di Margaret Thatcher, non parrebbero aver restituito alla Banca d'Inghilterra una maggiore indipendenza; si potrebbe osservare come proprio la nuova attenzione riposta sulla politica monetaria, divenuta negli anni Ottanta lo strumento prediletto della politica economica dei conservatori, presupponesse la responsabilità politica del governo. Lasciare quel compito a una Banca d'Inghilterra indipendente, formata da tecnici e non da politici, per citare le parole della Thatcher: "sarebbe stata vista come un'abdicazione da parte del Cancelliere (...) un'ammissione di incapacità da parte nostra" 2 .

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Per concludere, il ruolo guida del Governo sui terreno della politica monetaria (in particolare la determinazione dei tassi di interesse) appare costante attraverso le diverse fasi della politica (economica) del Regno Unito: dalle nazionalizzazioni dei laburisti nell'immediato secondo dopoguerra fino alle privatizzazioni dei conservatori nel corso degli anni Ottanta; da Keynes a Friedman, passando per Hayek. Senza tacere, naturalmente, le differenze che non investono tuttavia la sostanza: la subordinazione della banca centrale nei confronti del Governo. Si è considerato peraltro come il controllo di quest'ultimo non avrebbe mai fatto venir meno del tutto l'autonomia gestionale della Banca, che sarebbe rimasta inoltre consigliere ascoltato anche in ragione dei suoi stretti legami con i mercati finanziari; piuttosto, ciò che emerge dalla letteratura disponibile è la difficoltà a tracciare una divisione chiara dei compiti e delle responsabilità. Al riguardo si è osservato come tale riparto di competenze, rimesso ai rapporti di forza tra i due soggetti, abbia finito per nascondere agli osservatori esterni, e tra questi il Parlamento presunto sovrano, i 84

modi nei quali le decisioni di politica monetaria venivano prese e le precise responsabilità di ciascuno; il che produceva come risultato un livello di accountability a dir poco insoddisfacente.

IL PROBLEMA DELL'ACCOUNTABILITY

Da quanto fin qui detto sulla Banca d'Inghilterra emerge, almeno fino agli inizi degli anni Novanta un giudizio severo in termini di indipendenza e di responsabilità (accountab11ùy) 74). Dell'indipendenza, o meglio della poca indipendenza, della Banca centrale speriamo di avere dato sufficiente contezza75 . Per quanto concerne la "democratic accountability", con riguardo al controllo democratico sugli organi governativi, la tradizione costituzionale britannica distingue due forme: il cosiddetto controllo ex ante, nel corso del quale il Parlamento, organo direttamente rappresentativo, nell'esercizio della funzione legislativa, stabilisce le regole della condotta del governo; il controllo ex post, diretto, secondo i principi della "parliamentary accountability" (che corrisponde alla nostra responsabilità ministeriale), a valutarne il comportamento.

Sul terreno della politica monetaria è diffusa l'opinione secondo la quale il fondamento legale del controllo ex ante fosse praticamente inesistente, considerata la genericità del Bank ofEnglandAct 1946 76 ; mentre per quanto concerne il controllo expost, il problema è sempre stato legato alla natura giuridica della Banca d'Inghilterra, definita come "a non-departmental public body"77 (ovvero un soggetto pubblico separato dal governo: "a non ministerial body"). Secondo la dottrina costituzionale del Regno Unito queste figure soggettive pubbliche non sono direttamente responsabili dinanzi al Parlamento; la loro responsabilità è piuttosto indiretta e si realizza attraverso i Ministri (a loro volta direttamente responsabili dinanzi al Parlamento) e sulla base dei poteri di direzione e di controllo riconosciuti loro dalla legge. Nel caso della Banca d'Inghilterra, il problema era pii avvertito per il fatto, in precedenza ricordato, che i poteri di direzione del Tesoro sulla Banca non erano chiaramente definiti dal momento che la section 4 della Legge del '46 non aveva ricevuto concreta attuazione, sicché il controllo del Tesoro si era affermato in via di fatto. Basti pensare alla politica dei tassi di interesse. Il risultato finale era stato quello di impedire il sindacato del Parlamento sulla politica monetaria: nei confronti della Banca per ragioni legate alla teoria, nei confronti del Tesoro a causa dell'indisponibilità di un fondamento legale e di una divisione non chiara dei compiti e delle responsabilità 78 .

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Non dovrebbe sorprendere allora se le prime trasformazioni istituzionali occorse alla Banca d'Inghilterra, all'inizio degli anni Novanta, siano state sollecitate dalle pressanti richieste di maggiore accountability delle autorità monetarie. Nel settembre del 1992, la svalutazione della sterlina e l'uscita dallo SME, meno di due anni dopo il tardivo ingresso del Regno Unito, rendevano il problema non più procrastinabile da parte del governo conservatore 79 . Così nell'ottobre dello stesso anno l'allora Cancelliere dello Scacchiere, Norman Lamont, scriveva al Presidente della Commissione Parlamentare "Treasury and Civil Service annunciando 1 intenzione del governo di cambiare 1 ossatura della politica monetaria, "al fine di sostituire quella in precedenza fornita dallo SME" 80 . Il cambiamento maggiore concerneva l'introduzione di un esplicito obiettivo con riguardo alla crescita dei prezzi, nel senso che da quel momento in poi il governo avrebbe individuato il tasso di inflazione desiderato e la Banca si sarebbe impegnata ad assicurane il rispetto (il prima obiettivo stabiliva un tasso tra l'i % ed il 4%, con l'impegno di scendere al di sotto del 2,5% entro la fine della legislatura). Gli altri cambiamenti riguardavano la pubblicazione da parte della Banca di un rapporto trimestrale sull'inflazione (Quarterly Inflation report), nel quale documentare i progressi compiuti nel raggiungimento degli obiettivi programmati; la pubblicazione dei resoconti degli incontri mensili tra il Cancelliere dello Scacchiere ed il Governatore della Banca, al più tardi entro sei settimane, a cominciare da quelli concernenti la variazione dei tassi di interesse; infine, sempre in tema di tassi di interesse, l'attribuzione alla Banca di una certa autonomia nella attuazione delle decisioni prese.

Se è vero che tali innovazioni non modificavano la posizione della Banca d'Inghilterra, che rimaneva pertanto subordinata al Tesoro, creavano le premesse della sua riforma. Da un lato, la previsione di un esplicito "target" per l'inflazione significava vincolare la politica monetaria al mantenimento della stabilità dei prezzi, che ne diventava ufficialmente l'obiettivo principale.

Dall'altro, si predisponevano tutta una serie di strumenti informativi, a cominciare dal Quarterly Inflation report, che avrebbero consentito di valutare la condotta della Banca sulla base di dati ufficiali; infine, la pubblicazione dei resoconti degli incontri tra il Cancelliere dello Scacchiere ed il Governatore della Banca valeva a sollevare il velo che fino a quel momento aveva nascosto i reali rapporti tra i due soggetti e le rispettive responsabilità. In particolare, emergeva il ruolo preminente della banca centrale con riguardo alla gestione quotidiana della politica monetaria81 .

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"INDEPENDENT AND ACCOUNTABLE: QUALE MODELLO DI BANCA CENTRALE?

Se questi erano gli accorgimenti predisposti dal Governo conservatore per soddisfare quantomeno la richiesta di una maggiore accountability82 sul terreno della politica monetaria, da segnalare in quegli anni due Rapporti, di origine diversa, che entrambi suggerivano di riconsiderare il ruolo della Banca d'Inghilterra garantendole soprattutto l'indipendenza. Mentre il primo di questi rapporti proveniva da un autorevole gruppo di studio formato da banchieri, industriali, giuristi ed economisti e presieduto da Eric Ro11 83 secondo era il prodotto di una Commissione d'Inchiesta della Camera dei Comuni (Treasury and Civil Service Committee) 84 ; entrambi furono accolti dal Governo con spirito agnostico.

Per quanto concerne il secondo dei Rapporti, le finalità dell'inchiesta erano, nell'ordine, quelle di riconsiderare: il ruolo della Banca d'Inghilterra; le relazioni tra la Banca, il Governo, il Parlamento; gli argomenti a favore e contro il riconoscimento alla prima di una posizione di indipendenza nei confronti dei secondi; le implicazioni che il Trattato di Maastricht presentava proprio con riferimento alle relazioni future tra Banca, Governo e Parlamento; in particolare, si voleva appurare quali cambiamenti legislativi fossero richiesti al fine di uniformare ruolo e responsabilità della Banca inglese al modello di banca centrale delineato dal Trattato. Nel sommario finale, la Commissione dava conto dei cambiamenti già introdotti dal Governo a seguito dell'uscita della sterlina dallo SME, giudicandoli tuttavia non ancora sufficienti; nel Rapporto si suggeriva pertanto una riforma più generale della politica monetaria, e non una semplice evoluzione della stessa 85 , da attuare attraverso la previsione per legge della stabilità dei prezzi quale obiettivo primario della politica monetaria; al fine di raggiungere tale obiettivo, compito del Governo doveva essere quello di fissare dei "targets", la cui realizzazione era rimessa alla Banca, che diveniva anche responsabile della determinazione dei tassi di interessi. L'indipendenza operativa della Banca d'Inghilterra avrebbe richiesto dei cambiamenti anche sul piano organizzativo: si prevedeva in tal senso la creazione di un nuovo organo della Banca da affiancare al tradizionale Consiglio dei Direttori, la Monetary Policy Committee 86 . Questo riparto di competenze tra il Tesoro e la Banca, finalmente definito per legge, avrebbe costituito la base per un soddisfacente controllo da parte del Parlamento ("the Government would be responsible to Parliament for setting the targets, and the Bank would have to account to Parliament on its progress in achieving the targets and the statutory objective ofprice stability" 87 ). ,

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Molti dei suggerimenti contenuti nel Rapporto, come vedremo, verranno accolti dai laburisti e versati nel Bank of England Act 1998. Prima ancora sembra importante considerare in questa sede i modelli di indipendenza della Banca centrale esaminati dalla Commissione d'Inchiesta. Infatti, se è vero che il Rapporto nasceva anche dall'esigenza di valutare il grado di compatibilità della Banca d'Inghilterra, in termini appunto di indipendenza e di accountability, rispetto al modello accolto nel Trattato di Maastricht, quest'ultimo non era il solo considerato. Il Rapporto, nella IV sezione, passa in rassegna infatti l'esperienza della Bundesbank, della FED statunitense, della New Zealand Reserve Bank e, solo in ultimo, affronta il cosiddetto "modello Maastricht". Nel giudizio dei membri della Commissione d'Inchiesta, proprio quest'ultimo, e quello della Bundesbank appaiono eccessivamente rigidi (hardline), in particolare laddove delineano il quadro di una Banca centrale che è, per legge, al riparo da ogni tipo di influenza da parte di Governo e Parlament0 88 . Mentre, nel caso della FED, si sottolineano le radicali differenze istituzionali che separano il Regno Unito dagli Stati Uniti 89 . Rimane il modello neozelandese così come definito con il Reserve Bank of New Zealand Act 1989 questo atto, da un lato, ha attribuito alla Banca centrale il compito di elaborare ed attuare una politica monetaria volta a realizzare l'obiettivo primario della stabilità dei prezzi, dall'altro, ha previsto che il Ministro delle Finanze e la Banca stessa concordino tra di loro i traguardi (Policy targets agreement) verso i quali orientare la politica monetaria, naturalmente nel rispetto dell'obiettivo primario del controllo dell'inflazione. Si riconosce inoltre in capo al Governo, in presenza di eventi straordinari, il potere di sostituirsi alla Banca con la possibilità di derogare temporaneamente all'obiettivo statutario della stabilità dei prezzi ("override mechanism"). Ed era proprio sul modello neozelandese che sembravano orientarsi i favori della Commissione 90 .

Queste conclusioni differivano in parte da quelle cui perveniva il "Panel" presieduto da Eric Roll; comune era l'opzione per una Banca centrale indipendente dal Governo e responsabile dinanzi al Parlamento 91 ; piuttosto le differenze concernevano il modello di indipendenza al quale rifarsi. Sul presupposto che la politica monetaria possa essere distribuita su tre livelli distinti: gli obiettivi fondamentali, il loro tradursi in traguardi di breve periodo aventi ad oggetto le principali variabili economiche, infine l'impiego degli strumenti monetari (a cominciare dai tassi di interesse); gli esperti sembravano prediligere un modello di indipendenza equidistante tra quello tedesco e quello neozelandese. Infatti, dopo aver raccomandato di prevedere per legge EB]

la stabilità dei prezzi quale obiettivo fondamentale della politica monetaria, si riservava alla Banca d'Inghilterra non solo l'utilizzo degli strumenti, compresi i tassi di interesse, ma anche la responsabilità per la scelta dei traguardi di breve periodo in tema di inflazione 92 . Dal modello neozelandese si mutuava peraltro la previsione del cosiddetto override mechanism, ovvero il potere riconosciuto al governo di sospendere temporaneamente l'obiettivo della stabilità dei prezzi; l'ordine di sospensione, reso necessario da straordinarie esigenze economiche, doveva ricevere il placet del Parlamento. È doveroso sottolineare che il primo dei rapporti muoveva dalla premessa che il Regno Unito sarebbe rimasto pienamente sovrano con riguardo alla politica monetaria; nel senso che le ragioni addotte a sostegno di una maggiore indipendenza della propria Banca centrale non erano legate, almeno nell'immediato, all'esigenza di soddisfare i parametri imposti dall'unione economica e monetaria. Quelle ragioni erano piuttosto tutte di natura endogena. Il che non significava non porsi il problema della rispondenza del modello proposto (di una Banca centrale sostanzialmente equidistante tra modello tedesco e neozelandese) rispetto a quello della Banca Centrale Europea. La risposta era coerente con le premesse: il modello suggerito in quegli anni doveva sposarsi con la tradizione britannica e con le ragioni, ripetiamo di natura endogena, che richiedevano la riforma della Banca d'Inghilterra, a prescindere dall'allora ancora futura (e futuribile) Unione monetaria. Se poi il Regno Unito avesse deciso in seguito di aderirvi, non ci sarebbero stati ostacoli insuperabili, anche di natura costituzionale, ad adottare un modello di Banca centrale maggiormente rispondente a quello della Bundesbank93 Una qualche distinzione, se non altro negli accenti, tra i due Rapporti si coglieva anche sul terreno della vigilanza bancaria, attività fino ad allora esercitata dalla Banca d'Inghilterra; mentre il rapporto della Commissione parlamentare concludeva nel senso di non ritenere indispensabile il suo trasferimento dalla Banca ad un nuova autorità; nelle conclusioni della Commissione Roll, con una formula inversa, si affermava piuttosto che "non era necessario che la Banca conservasse la responsabilità della vigilanza sul sistema bancario 9. .

IL BANK OF ENGLAND ACT 1998

All'indomani della vittoria elettorale del maggio 1997, il nuovo governo laburista avviava due fondamentali riforme, entrambe destinate a mutare il ruolo ed i compiti della Banca d'Inghilterra. Da una parte, l'appena nomi89

nato Cancelliere dello Scacchiere, Gordon Brown, annunciava il fermo proposito di assicurare alla Banca centrale l'indipendenza operativa riguardo alla condotta della politica monetaria, ferma restando in capo al Tesoro la responsabilità di fissare gli obiettivi relativi al tasso annuale di inflazione 95 .

Dall'altra, appena due settimane dopo, sempre il Cancelliere annunciava l'intenzione di trasferire le funzioni di vigilanza bancaria (banking supervision), fino ad allora di competenza della Banca d'Inghilterra, ad una nuova autorità di regolazione di prossima istituzione, poi divenuta la Financial Services Authority (FSA) 96 che avrebbe sostituito il Securities and Investment Board (SIB), assommando anche i compiti precedentemente Svolti dalle Self-Regulatory Organisations (SROs) e dalle altre istituzioni previste dal Financial Services Act 1986 La seconda riforma valeva ad introdurre, nel Regno Unito, un regolatore unico del mercato finanziario e segnava una forte soluzione di continuità rispetto al passato 97; per quanto concerne, in particolare, la vigilanza prudenziale sul sistema bancario esercitata fino ad allora dalla Banca d'Inghilterra, questa si era ispirata ad un modello le cui caratteristiche erano state l'informalità del controllo ed il ricorso alla "moral suasion", assecondando, negli operatori del settore, una diffusa autoregolamentazio ne98 .

Il secondo annuncio di Gordon Brown non poteva dirsi inatteso, se non forse nei tempi, considerate le critiche mosse in passato dai laburisti alla capacità di cui la Banca aveva dato prova in questo settore; specie con riguardo ai numerosi scandali succedutisi negli ann1 99. Tuttavia, al di là del dato politico, i primi commentatori hanno giustamente sottolineato i nessi che legavano i due annunci: da una parte, il timore che la vigilanza bancaria conferisse alla Banca d'Inghilterra, composta da "unelected officials" un potere eccessivo, tanto piit nel momento in cui le era riconosciuta formalmente l'indipendenza dal governo; dall'altra, la convinzione, confermata dall'esperienza, che la vigilanza bancaria sia una sorta di "amaro calice" (poisoned chalice), nel senso che le crisi bancarie fatalmente gettano un'ombra sull'autorità di vigilanza, a prescindere dalle responsabilità effettive, minando infine la credibilità anche della sua politica monetaria 100 .

Per quanto concerne la politica monetaria, i particolari della riforma venivano illustrati dal Cancelliere nel suo discorso dinanzi alla Camera dei Comuni il 20 maggio del 1997101, mentre il Bank ofEngland Billveniva presentato il 28 ottobre dello stesso anno, per essere approvato dal Parlamento in via definitiva il 23 aprile dell'anno successivo (entrando in vigore il i giugno). ,

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L'Atto è diviso in quattro parti: nella prima sono contenute disposizioni che modificano, tra le altre cose, la composizione ed i compiti della "Court of Directors", che si conferma organo di vertice della Banca, del quale fanno parte il Governatore, due vice governatori e 16 direttori, tutti di nomina governativa102. Le funzioni del Consiglio sono quelle di dirigere la Banca e di elaborare la politica monetaria, il che comprende, in particolare, l'indicazione degli obiettivi e delle strategie ed il fine di assicurare l'effettivo adempimento degli obblighi che per legge gravano sulla Banca e l'impiego efficiente delle sue risorse (art. 2). Il Consiglio deve riunirsi almeno una volta al mese 103 . Si prevede poi che alcune delle funzioni citate siano delegate ad una sottocommissione permanente composta solamente dai 16 direttori non esecutivi, il cui chairman può essere nominato dal Cancelliere dello Scacchiereb 04 . Come vedremo in seguito, compito essenziale di questa sottocommissione è quello di controllare l'operato della Commissione per la politica monetaria (v. art. 16)105.

Al termine di ogni anno è fatto obbligo alla Banca di presentare una Relazione annuale delle attività poste in essere (art. 4).

La seconda parte della Legge costituisce il cuore della riforma. L'art. 10 modifica il Bank ofEnglandAct 1946 laddove attribuiva al Tesoro il potere di dare istruzioni alla Banca (section 4), escludendo che tale potere possa essere esercitato in tema di politica monetaria; il che vale a riconoscere, sul punto, l'indipendenza operativa della Banca, fatta eccezione come vedremo per i poteri di riserva del Tesoro. Quindi, per la prima volta, si individuano per legge gli obiettivi della politica monetaria (art. 11): che sono in via principale il mantenimento della stabilità dei prezzi e, ma solo in via subordinata, il sostegno alla politica economica del governo, compresi gli obiettivi legati alla crescita economica ed all'occupazione (art. 11). Ne deriva una formula di compromesso, tra la scelta della stabilità monetaria quale unico obiettivo e la considerazione anche di altri elementi di politica economica, formula che è sembrata peraltro richiamare i modelli della Bundesbank e della Banca centrale europea (art. 105 Trattato di Roma), piuttosto che quello della Fedstatunitense.

Se questi sono gli obiettivi di medio e di lungo periodo, è importante osservare che l'art. 12 assegna al Tesoro il compito di specificare per iscritto, ogni anno, quale obiettivo di breve periodo, naturalmente volto al mantenimento della stabilità dei prezzi, dovrà essere perseguito dalla Banca centrale; ed è in questa sede che il Governo annuncia il traguardo desiderato per l'inflazione ("inflation target")106. Al di là della formula della legge, invero piuttosto sibillina, tutto questo significa che "the Bank was not granted goal independence" 107• 91

La Commissione per la politica monetaria (Monetary Policy Committee Mpc) rappresenta indubbiamente la novità maggiore sui piano organizzativ0 108 , quale organo responsabile della condotta della politica monetaria. In particolare la Mpc, mediante le decisioni sui tasso di interesse, è investita del compito fondamentale di attuare gli obiettivi fissati dal Governo109. La Commissione è formata dal Governatore, dai vice-Governatori, e da sei membri, due dei quali sono nominati dal Governatore, mentre i rimanenti vengono scelti dal Cancelliere dello Scacchiere (art. 13).

La legge prescrive la pubblicazione, il prima possibile, al termine di ogni riunione della Mpc, di una dichiarazione nella quale si dica se sono state prese delle decisioni di politica monetaria e, in caso affermativo, quali esse siano (art. 14); mentre per quanto concerne la pubblicazione dei verbali degli incontri, questa deve avvenire entro e non oltre le sei settimane dall'incontro stesso (sono consentite tuttavia alcune eccezioni).

Si è già detto della funzione di controllo del Consiglio dei Direttori, tramite la propria sottocommissione, sull'operato della Mc (art. 16)110. Trovano poi conferma gli strumenti informativi predisposti nel corso degli anni precedenti, a cominciare dal Quarterly Inflation Report (art. 18).

L'art. 19 prevede infine i poteri di riserva del Tesoro, nell'ambito del cosidetto override mechanism ; questi poteri consentono al Tesoro di dare delle direttive alla Banca, anche con riguardo alla politica monetaria, derogando all'obiettivo della stabilità dei prezzi, quando ciò si renda necessario in ragione dell'interesse pubblico e di circostanze economiche eccezionalihhl. I poteri sono esercitati attraverso un "order" (ovvero un atto normativo secondario), che può comportare anche la sospensione delle previsioni relative alla Mpc, da presentare immediatamente all'esame del Parlamento. I provvedimenti presi cessano di avere efficacia se non ricevono l'approvazione di entrambe le Camere entro 28 giorni e non possono comunque restare in vigore per oltre tre mesi' 2 .

Le parti terza e quarta della Legge contengono una serie di norme relative al trasferimento della vigilanza bancaria a favore della FSA, oltre a varie disposizioni che qui non è possibile prendere in considerazione.

UN PRIMO COMMENTO

Una valutazione del portato della riforma può condurre a risultati differenti, a seconda del parametro prescelto.

A confronto con il regime della politica monetaria affermatosi dopo la pri-

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ma guerra mondiale e formalizzato, come si è visto in termini peraltro molto generici e con obiettivi prevalentemente simbolici, nel Bank of England Act 1946, risulta evidente la soluzione di continuità che la riforma del 1998 rappresenta. Quest'ultima garantisce alla Banca d'Inghilterra la piena indipendenza sul piano operativo, vincolandola definitivamente all'obbligazione della stabilità dei prezzi. In questo senso "The core element of Bank of England independence" 113 è senz'altro il trasferimento della responsabilità delle decisioni sui tassi di interesse dal Cancelliere, durante colloqui riservati con il Governatore della Banca, al nuovo Monetary Policy Committee, vale a dire un organo di comprovata competenza tecnica. Di contro, l'esplicita riserva in capo al Tesoro del potere di predeterminare, ogni anno, i traguardi ritenuti più conformi con l'obiettivo generale della stabilità dei prezzi (a cominciare dallo Inflation Target), sembrerebbe tracciare una sicura linea di demarcazione tra le responsabilità del Tesoro e quelle della Banca. Sul punto giova peraltro precisare che, sulla base della Legge del '98, il governo della moneta appare snodarsi su tre livelli differenti: ad un primo livello troviamo il Tesoro, che individua gli obiettivi di breve periodo della politica monetaria, lasciandone la cura alla Banca; ad un livello intermedio la Court ofDirectors della Banca d'Inghilterra, che a sua volta determina gli obiettivi e le strategia di quest'ultima. Infine, al terzo livello troviamo il braccio esecutivo dell'intero processo, la Jv.fpc, che prende le decisioni sui tassi di interesse.

L'intero processo è infine caratterizzato da un elevato grado di trasparenza e di accountability' 14: più di una volta si è fatto cenno al Quarterly Inflation Report e alla sollecita pubblicazione dei verbali degli incontri mensili della Mpc' ancora, il Governatore, i suoi vice e gli altri membri della MPC si presentano tre volte nel corso di ogni anno dinanzi alla Camera dei Comuni (segnatamente, Commons Treasury Committee) e alla Camera dei Lords (Monetary Policy Committee)" 5 Se tuttavia consideriamo che molte di queste riforme erano state introdotte prima del Bank of England Act 1998, a partire dal 1992, il giudizio può cambiare. La vera novità rimane la Monetary Policy Committee e il potere riconosciutole di fissare i tassi di interesse, sebbene questa abbia cominciato a riunirsi già nel corso del 1997, quindi un anno prima che la legge entrasse in vigore. Si potrà obiettare che l'Act finalmente riconosce anche la stabilità dei prezzi come obiettivo primario della politica monetaria, ma si è trattato appunto di un riconoscimento e non di un cambiamento, meno che mai di una scoperta.

Piuttosto, per restare in tema di indipendenza della Banca centrale, non .

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convince il sistema di nomina dei membri della Court ofDirectors. La legge riserva il potere di nomina formalmente alla Regina, nella sostanza al Governo (ed in particolare alla diarchia Primo Ministro-Cancelliere dello Scacchiere); mentre la proposta di coinvolgere nella decisione anche gli speakers dei Comuni e dei Lords, quindi il Parlamento - il che doveva, nelle intenzioni del suo autore, far recuperare alla Banca un poco della legittimazione democratica perduta con il distacco dal Tesoro - è rimasta inascoltatah 16. In definitiva, paragonata ai cambiamenti già intercorsi dopo il '92, la riforma del '98 è in larga parte confermativa, piuttosto che innovativa; e per quanto concerne le novità, si è dubitato che per queste ci fosse assoluto bisogno di una legge, almeno secondo gli usi e i costumi della Costituzione britannicah 17 .

Da tutto questo sembrerebbe trovare conferma l'idea che la ragione predominante della Legge del '98 sia stata la volontà del Governo di rendere la propria legislazione compatibile con il Trattato di Roma e con lo statuto del Sistema Europeo delle Banche centrale (art. 109), in previsione dell'adesione del Regno Unito all'Unione economica, se non fin dalla prima fase, non appena le condizioni economiche lo avessero consentito.

Tuttavia, il modello di Banca centrale accolto nella legislazione inglese si differenzia non poco da quello di stanza a Francoforte. Il potere del Tesoro inglese di determinare il "target" dell'inflazione; il potere di "override" le decisioni della Banca Centrale, sebbene in circostanze eccezionali (l'uno e l'altro sembrando contraddire il "dogma" racchiuso nell'art. 108 del Trattato di Roma 118) ; la natura giuridica della stessa, che è sostanzialmente quella di un'impresa pubblica di proprietà del Tesoro; il fatto che i Direttori e sei dei nove membri della MPC siano nominati per soli tre anni, con la possibilità di essere confermati (contraddicendo l'assunto secondo il quale, ai fini di una maggiore indipendenza, sarebbe auspicabile un termine più lungo, senza un secondo mandato). Sono tutti dati che disegnano i contorni di una Banca centrale diversa dal modello di Maastricht e, prima ancora dalla Bundesbankl 19 Del resto, come si è ripetutamente osservato, il dibattito che ha preceduto l'approvazione della Legge del '98 si è sempre rapportato ad un modello prevalentemente endogeno, quale risultato della combinazione di modelli differenti, sul presupposto che fosse il più conforme alla lunga tradizione britannica in tema di governo della moneta. Come si ricorderà, già nel Rapporto della Commissione Roli (le cui conclusioni dimostravano probabilmente un rigore maggiore, a confronto con i risultati della Legge) era avvertita la consapevolezza di suggerire una riforma calibrata sulla situazione interna'20.

IL REGNO UNITO E L'EURO

In apertura di questo articolo si è fatto cenno alla mancata adesione del Regno Unito alla fase iniziale dell'Unione monetaria europea, decisione che rende peculiare la posizione del Regno Unito tra i Paesi dell'Unione e quella della Banca d'Inghilterra tra le altre Banche centrali europee.

Non è questa la sede dove dare conto delle ragioni, prevalentemente di natura politica ed economica 121 , di questa scelta; o dove prevedere se e quando il Regno Unito deciderà di entrare nell'Unione monetaria.

Per questo ci limiteremo a sottolineare le implicazioni, in special modo sul piano costituzionale, derivanti dalla mancata adesione, richiamando, almeno in parte, l'eco del dibattito attualmente in corso nel Regno Unito.

Durante i negoziati che portarono alla firma del Trattato di Maastricht, l'allora Primo Ministro John Major chiese ed ottenne per il Regno Unito il riconoscimento del cosidetto diritto di rimanere fuori dalla fase finale dell'Unione monetaria ("the right to opt out"). Sulla base del Protocollo n.

11 allegato al Trattato, il Regno Unito non è obbligato ad aderire alla fase nate dell'UME, se non sulla base di una decisione del Governo e del Parlamento; il solo obbligo è quello di comunicare per tempo al Consiglio la propria decisione, qualunque essa sia (art. 1). Qualora la decisione iniziale dovesse essere, come poi è stata, negativa 122, è sempre data la possibilità di un'adesione tardiva, salvo il rispetto dei criteri necessari di convergenza (art. 10)123.

Per quanto concerne un'adesione futura, il governo laburista, rimandando ogni decisione, sin dal principio del suo mandato ha dettato delle precise condizioni economiche alle quali subordinare l'adesione 124 ; prevedendo altresì l'indizione di un referendum popolare, dall'esito tuttora molto incerto 125 .

Fedele a quella che è stata definita la politica del "prepare and decide", il Governo ha adottato una serie di misure volte a rendere possibile l'ingresso del Regno Unito, se e quando la decisione verrà presa, a cominciare dalla pubblicazione del "National Changeover Piane" (che dovrebbe regolare la fase di transizione). Nel progetto è coinvolta anche la Banca d'Inghilterra.

Le misure adottate muovono peraltro dalla premessa che l'indipendenza concessa alla Banca d'Inghilterra, nei modi e nei limiti descritti nei paragrafi precedenti, sia pienamente conforme alle previsioni del Trattato CE, segnatamente gli articoli 108 e 109. Secondo un diverso orientamento, che sottolinea la distinzione neanche troppo sottile tra la "instrument-independence" e la "goal-independence", e come il modello di Maastricht richieda entrambe, la conclusione potrebbe essere diversa 126 . Già l'Istituto Monetario europeo,

fi-

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all'indomani della presentazione del Bank of England Bill da parte del nuovo governo laburista, aveva rilevato come la sola indipendenza operativa non soddisfacesse ancora i requisiti del Trattato CE: in particolare la clausola "override" era giudicata incompatibile con l'art. 108127.

Nel dibattito in corso nel Regno Unito, fortemente condizionato dai mezzi di comunicazione (e da chi ne è proprietario), la prospettiva di entrare nell'Euro è legata al tema della sovranità nazionale, alla paura di dovervi rinunciare sul terreno della politica monetaria 128; in particolare, un'eventuale adesione significherebbe consegnare la propria sovranità monetaria nelle mani della Banca centrale Europea, vale a dire nelle mani di un'istituzione nuova, assolutamente indipendente e, nella sostanza, poco "accountable" 129, specie se messa a confronto con la Banca d'Inghilterra 130 .

Allo stato attuale, il Regno Unito, pur essendo fuori dall'Unione monetaria, rimane pur sempre membro dell'Unione Europea, come tale vincolato al rispetto dei numerosi obblighi posti dal Trattato agli Stati membri nel corso delle fasi che hanno preceduto la nascita dell'Euro 131 . In questa curiosa fase di transizione, della quale non è dato per il momento immaginare l'esito finale, la Banca d'Inghilterra non può dirsi parte integrante del Sistema Europeo delle Banche Centrali, non essendo rappresentata nel Consiglio direttivo (art.

14. 3 dello Statuto); il Governatore è tuttavia membro del Consiglio Generale della BCE, organo di coordinamento tra i Paesi fuori e dentro dell'Euro.

PER CONCLUDERE: A PROPOSITO DI SCAMBI E INFLUSSI NORMATIVI

La conclusione di questo articolo vorrebbe essere affidata a poche considerazioni, evocate di tanto in tanto nelle pagine che precedono.

Come prima considerazione, l'esperienza della Banca d'Inghilterra conferma l'importanza che ha nel Regno Unito l'extragiuridico e, di conseguenza, l'obbligo per il giurista di dare conto del "comportamento", oltre che della "regola"; tanto più dove la regola - era il caso del Bank of England Act 1946 - è generica o, quando puntuale - sembra essere il caso adesso del Bank of England Act 1998 -, "costituisce non di rado un simulacro, un rito che si contrappone al comportamento, che è esso la vera regola" 132 .

C'è stato un tempo nel quale il Regno Unito esportava regole in tutto il mondo occidentale, e forse non solo occidentale, talvolta intere Costituzioni; se oggi l'applicazione nell'ordinamento interno dei diritti protetti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (a seguito dello Human Rights Act 1998) è destinato ad avere profonde implicazioni anche di natura costituzio96

nali, non bisogna tuttavia dimenticare l'apporto fondamentale dato dai giuristi inglesi proprio all'elaborazione della Convenzione stessa, dopo la seconda guerra mondiale; e come questa codificasse, in buona parte, i principi fondamentali della common 1aw1 33.

Da allora il Regno Unito è divenuto un Paese importatore di regole, a cominciare dalle norme dei Trattati europei che disegnano oggi, nell'opinione di Prosser 134, le linee della costituzione economica britannica. Naturalmente le soluzioni importate sono staté adattate alle condizioni interne; e talvolta, è il caso del processo di privatizzazione delle imprese pubbliche, il Regno Unito ha dato prova di potere ancora influenzare il dibattito all'esterno.

L'indipendenza della Banca centrale, molto meno la sindacabilità della sua condotta, costituisce l'ultimo degli acquisti britannici al mercato globale dei prodotti giuridici; anche in questo caso si è provato ad adattare il modello imperante nei palazzi di Francoforte alla tradizione nazionale, conservando alcuni poteri in capo al governo: certamente un sussulto di indipendenza, ma stavolta della politica.

Se è vero, infatti, che il Novecento è stato "il secolo del tentativo (da sottolineare: solo del tentativo) di appropriazione (o di riappropriazione) dell'economico da parte del politico" 135 , il tempo presente sembra indicare una via diversa, quella dell'autogoverno dell'economia, in forme nuove e sovranazionali. Da qui la mistica dei poteri neutrali136, tecnici, efficienti, indipendenti.

Di tutto questo processo la vicenda della Banca centrale inglese costituisce un esempio, ed al contempo il tentativo (da sottolineare ancora una volta: solo il tentativo) di darvi una risposta. L'indipendenza riconosciuta alla Banca dalla legge del "98, legge presentata da un governo laburista (dopo che nel '46 sempre un governo laburista aveva voluto la nazionalizzazione della stessa) come primo atto di politica economica, è l'esempio. L'avere limitato l'indipendenza alla gestione della politica monetaria, conservando presso di sé il potere di determinare gli obiettivi della politica stessa e la possibilità di sospendere anche l'indipendenza operativa laddove richiesto dall'interesse pubblico, è il tentativo di riaffermare uno dei fondamenti della Costituzione britannica: la supremazia del governo democratico, nel, quale da tempo (dopo la nascita dei partiti di massa) si è tradotto il principio della sovranità del Parlamento.

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F. GIORDANO-S. PERSUAD, The Politicai

Economy ofMonetarian Union. Toward the euro, Londra, 1998.

2 Forse non sarà inutile richiamare la celebre affermazione di Winston Churchill: "Between the mainland and high seas, we shali aiways choose the high seas".

A. DICEY, Introduction to the Study of the Law ofthe Constitution (10 ed.), 1959.

P. BIRKINSHAW, European Integration and United Kingdom Constitutionai Law, in «European Public Law», 1997, 58.

Nelle parole di Redley, (Defining Constitutionai Law in Britain, in «Anglo-American Law Review», 1991, 101), "The principle ofPariiamentary sovereignty means neither more not iess than this, namely, that Parliament (..) has, under the Engiish constitution, the right to make or unmake any iaw whatever, and, frrther, that no person or body is recognised by the iaw ofEngiand as having a right to override or set aside the legisiation of Pariiament". Nell'esperienza scozzese l'assolutezza del principio della sovranità del Parlamento è peraltro oggetto di discussione; riportando le parole del lord President Cooper (MacCormick v. Lord Advocate, 1953, SC, 261): "The principie of the uniimited sovereignty ofPariiament is a distinctiy Engiish princile whieh has no counterpart in Scottish constitutionai iaw". Il fondamento ditale obiezione poggia sull'Act of Union 1707 istitutivo del Parlamento della Gran Bretagna. Sul tema si rinvia a I. MAHER, A Question of Conflict: the Higher Courts and the Impiementation ofEuropean Community Law, in Impiementing EC Law in the United Kingdom: Structures for Indirect Rule, a cura di T. DAINTITH, Londra, 1995, 315, nota 52.

6 Sul tema di un nuovo Bili of Rights per il Regno Unito, vedasi R. BLACKBURN, Toward a Constitutionai Bill ofRightsfor the United Kingdom, Londra, 1999; e, in precedenza, R. DwoRKIN, Does britain need a bill ofrights, in Human rights in UKby R. GORDON and R. WILM0TSMITH, Oxford, 1996.

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A New Agenda for Democracy: Labour's Proposais for Constitutionai Reform, 1993. Trattatasi di un importante documento, che segnava un cambiamento radicale nelle scelte istituzionali della sinistra inglese, elaborato negli anni della leadership di John Smith; al tempo, Tony Blair era il portavoce del partito per gli affari interni e costituzionali. Responsabile di quel progetto fu Robert Blackburn.

8 La teoria, rispetto al modello diceyiano, consta ora di due versioni: i fautori della "continuing" e quelli della "self-embracing" sovranità del parlamento (le rispettive formule sono state coniate da H. L. A 1-LT, The Concept ofLaw, Oxford, 1961, Il ed, it., Il concetto dei diritto, trad. Mario Cattaneo, Torino, 1991). Secondo i primi, il Parlamento potrebbe sempre modificare successivamente la propria volontà, di conseguenza le corti dovrebbero sempre dare effetti all'ultima volontà espressa del parlamento, anche nell'ipotesi in cui una legge anteriore abbia inteso vincolare in qualunque modo la libertà di azione del parlamento stesso per il futuro (ex muitis, WADE, The Basis of Legai Sovereignty, in «Cambridge Law Journal», 1955, 172); per i secondi, la sovranità del parlamento comporterebbe anche la possibilità di autovincolarsi per il futuro quanto ai modi ed alle forme del proprio intervento, ne conseguirebbe che tali limiti non potrebbero essere implicitamente superati da una legge successiva con essi incompatibile (R. F. V. HEUSTON, "Sovereignty", in Essays in ConstitutionaiLaw, 2 nd. Ed. ,Londra, 1964).

Se, da una parte, come ricordava H. W. R. Wade, "in 1972 the root probiem ofsovereignty was never quite cieaniy disposed of (What has Happened to the Sovereignty of Pariiament?, in «Law Quarterly Review», 1991, 3); dall'altra, in seguito, per spiegare dapprima il graduale riconoscimento da parte delle corti degli effetti diretti e della supremazia del diritto comunitario e, ancor più di recente, la regola che impone ai giudici di interpretare "domestic iaw consistentiy with non-directiy effective Community iaw", si sono seguite strade diverse (M. HUNT, Using 7

Human Rights Law in English Courts, Oxford, 1997, ch. 2, 45). Secondo una prima interpretazione, propria dei fautori della self-embrancing sovereigiay, ogni passo percorso dalle corti sarebbe stato autorizzato in anticipo dal Parlamento sovrano in forza dello Ec Act 1972 (IRvINE, Judges and Decision-makers: The Theory and Practice of Wednesbury Review, in «Public Law», 1996, 75). Giusta una diversa ricostruzione, invero molto autorevole ed espressione della continuing sovereignty, vi sarebbe stata una sorta di rivoluzione legale alla quale le corti si sarebbero fedelmente conformate (H. W. R. WADE, Souereignsy and the European Communities, in «Law Quarterly Review», 1972, 1); un terzo orientamento, al fine di giustificare la lenta evoluzione registratasi a partire dal 1972, fonda il principio della sovranità del Parlamento sulla common law; "a common lawfoundation" avrebbe consentito al principio della sovranità del Parlamento di evolversi nel tempo, attraverso le pronunce dei giudici (M. Hunt, cit., ch. 2. Già in precedenza, DIXON, The Common Law as an Ultimate Constitutionai Foundation, in Aij, 1957, 240; S. A. DE SMITH, The Constitution and the Common Market: A Tentative Appraisab in «Modern Law Review», 1971, 597; A. \X'. BRADLEY, The Sovereigniy ofParliament-in Perpetuity?, in The Changing Constitution, 30 ed., a cura diJ. JOWELL-D. OLIVER, Oxford, 1994, 85-89).

IO La vicenda dell'applicazione del diritto comunitario da parte delle alte corti inglese è bene riassunta da I. MAHER, cit,, 305-323. L'autrice sottolinea come nella prima fase le corti inglesi hanno continuato a dare priorità alla fonte interna, disconoscendo la primazia di quella comunitaria. Alle origini ditale orientamento vi era, da una parte, la poca familiarità con il diritto comunitario e la mancanza di precedenti ai quali rifarsi; dall'altra, l'assenza di una Costituzione scritta che prevedesse una fudicial review oflegislation. Peraltro, in una fase successiva, acquistata una maggiore esperienza, proprio la mancanza di una Costituzione scritta, segnatamente di un Bili ofRights, ha consen-

tito ai giudici di muoversi con maggiore flessibilità. L'accorto impiego della tecnica del precedente ha portato gradualmente le corti britanniche a riconoscere la primazia del diritto comunitario. Lo spartiacque ("watershed in the implementation of Ec law in the English courts") è stato il caso Factortame (Factortame v. Secretary of State for transport, 1991, in i AC 603), nel quale per la prima volta la House of Lords ha sospeso una legge del Parlamento sul presup-

posto che "Under terms of the 1972 Act it has always been clear that it was the duty of a United Kingdom court, when delivering Jinal judgment, to override any rule ofnational lawfound to be in conflict with any directiy enforceable rule ofCommunity law" (sono le parole di Lord Bridge of Harwich). In seguito, sempre la House of Lords, disapplicando una statute-law perché in contrasto con il diritto comunitario (Equal opportunities Commission v. Secretary ofStatefor employment, 1994, ALL ER 910), ha compiuto un ulteriore passo in avanti, "removing EC law from the shadow ofParliamenta7y sovereignty and acknowledging its supremacy within the legai system" (I. Maher, cit., 323). li T. DAINTITH, Between Domestic Democray and an Alien Rule ofLaw? Some Thoughts on the "Independence" of the Bank ofEnglana in «PublicLaw», 1995, 118.

12 Idem, "The idea ofan independent European centrai bank, established as a trealy institution and controlled princzpally by a legai maneliite, is not best calcul.ated to appeal to British politicians schooled in a tradition ofpurely political responsibility for a monetary policy in whose conduct of the central bank is the intimate, but ultimately subordinate, partner of the Treasury".

13 Sulla contrapposizione tra il modello di banca centrale accolto nel Trattato di Maastricht, "sperimentato con successo in Germania con la Bunsesbank", e quello a lungo sostenuto in Francia e nel Regno Unito, "che tende ad assoggettare anche la politica monetaria alle libere scelte dell'esecutivo", vedasi E PAPADIA-C. SAI'1TINI, La Banca centrale europea, Bologna, 1999, 28.

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" La lettera è del maggio del 1997, proprio all'indomani della vittoria elettorale dei laburiSri; può essere letta sul sito www. bankofengland.

king regulation" e solo marginalmente sulla "monetary policy". Sulla rivista «Public Law» si segnalano due interventi di T. DAINTITH (Bet-

co. uk

ween Domestic Democracy and an Alien Rule of Law? Some Thoughts on the "Independence" of the Bank of Eng1ana cit., e Exchange, Response and Competition: External Perspectives on the United Kingdom Constitution, 2000, 159-165). Più frequentemente, il tema della Banca centrale viene liquidato in poche battute, assorbito dal dibattito circa l'integrazione europea ed il ruolo del Regno Unito: R. HAZELL-D. SINcLAIR, The Bntish Constitution in 1997-98: Labour's Constitutional Revolution, in «Parliamentary Affairs», 1999, 175; S. BULMER-M. BURCH, Organizing for Europe: Whitehall, the British State and European Union, in «Public Administration», 1998, 623. Né miglior fortuna riceve sulle riviste di diritto bancario e finanziario, "monopolizzate" dalla nuova authority del mercato finanziario (FsA).

21 Come noto, la cultura giuridica italiana, seguendo principalmente il glorioso modello della pandettistica tedesca, ha percorso strade molto diverse, quando non diametralmente opposte, da quelle proprie della cultura giuridica inglese e più in generale anglosassone. Nell'opinione di un maestro (sulla influenza della pandettistica sulla scienza giuridica italiana), "fra le poste passive del bilancio, va compreso in primo luogo il soffocamento, su1 nascere, di quella serie di vie nuove verso cui la scienza italiana del diritto avrebbe potuto indirizzarsi e non si è indirizzata. In secondo luogo, fra le poste passive va compreso il fatto che la scienza giuridica italiana, ponendosi al seguito della pandettistica tedesca, abbia dovuto toccare i vertici (o gli abissi?) del concettualismo sempre più spinto e del formalismo sempre più rarefatto, perché cominciasse a rendersi conto delle conseguenze nefaste cui la strada, con tanto entusiasmo imboccata, l'aveva condotta" (R. OvsTAÌ'1o, Azione - Diritti soggettivi. Persone giuridiche, Bologna, 1978, 279) 22 T. DAINTITH, Between Domestic Demo-

15

In particolare, sull'influenza del modello statunitense sul diritto pubblico britannico, vedasi Jan Loveland (ed.), A Special Re1ationshi?

American Influences on Public Law in the United Kingdom, 1995.

16 L'episodio è ricordato da R. KERRIDGE, Incorporation of the European Convention on Human Rights into United Kingdom Domestic Law, in "The effect ori English domestic law of Membership of the European Communities and of ratification of the European Convention on Human Right's", a cura di M. P. FURMSTONR. KERRIDGE-B. E. Su1uIN, Londra, 1983, 248.

17 Se la questione oggi investe istituzioni tecniche e presunte neutrali quali le banche centrali, in passato concerneva il fondamento giuridico di istituzioni a forte caratterizzazione politica quali i partiti ed i sindacati. Il tema, tradizionalmente centrale nella dottrina italiana (S. Rowi'o, L'ordinamento giuridico, 2° ed., Firenze, 1946; P. RESCIGNO, Persona e comunità, Bologna, 1966) è giustamente considerato anche dalla cultura anglo-sassone, C. TURPIN, British Government and the Constitution, 4° ed., Londra, 1999, 16: "Arepoliticalparties (..) to be excluded as private Iaw a.ssociations with no legaily definied role in the political system? Yet our form of represantitive government is essentially one of party government. Parties dominate elections, the work of Parliament, the formations ofgovernments; could any realistic descrtption of the constitutionfail to take account ofthem?".

18 C. Turpin, British Government and the Constitution, 4° ed., Londra, 1999, 16: "Thepolitical scientist, aware of the ramifications of state power, will recognize as parts of the 'state system' institutions which the constitutional lawyer may regard as being outside his province".

19 Idem, 16.

20 Si è già menzionato il lavoro di C. HADJIEMMANUIL, peraltro incentrato sulla "bari100

cracy and an alien Rule ofLaw?. Cit., 128-129: "The current exercise of monetary policy instruments does not invoive any action capabie ofimpairing individuai legai rights, so that litigants mayfind it dftìcult - Iput no more strongly than that - to establish that they have a sufficient interest to seekjudicial review". Lautore cita alla nota 46 un precedente tentativo, fallito, di citare in giudizio il Tesoro inglese "for the negiigent conduct of economic policy" (" Treasury sued by troubied builder", Financial Times, i ottobre 1991, 11).

23 T. DAINTITH, Law as a Policy Instrument: Comparative Perespectiue, Firenze, 1984, 3. Anche muovendo dall'assunto tradizionale che il Parlamento sia "the oniy legittimate law-maker under the United Kingdom constitution" (p. 11).

24 A. VON HAYEK, Rules and Order (1973), trad. li. Legge, legislazione e libertà, Milano, 1986 25 Definiti i "red light" theorists da C. 1-LaLOW-R. RAWLINGS, Law and Administration, Londra, 1997, ch. I. 26 A. V. DIcEY, cit., 187-196; 27 Sulla distinzione tra tipi strutturali di amministrazioni pubbliche, a normazione comune ed a normazione propria, si rinvia alle premesse generali di M. S. GIN1NI, Diritto amministrativo, 30 ed. voi. 1, Milano, 1993, 15ss.

28 Sulle possibili interpretazioni dell'avversione di Dicey per il diritto amministrativo, S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, Torino, 1989, 39 ss. Confutando la tesi di Dicey, "solo parzialmente vera", l'autore la porta ad esempio di come "le ideologie possano prevalere sulla realtà giuridica" (41). Sul tema si rinvia anche a H. R. WADE, Diritto amministrativo inglese (trad. it. Con prefazione di M. S. Giannini), Milano, 1969.

29 Conclusione alla quale era già pervenuto T. DAINTITH, Public Law and Economic Policy, in «Journal of Business Law», 1974, 21: "British academic Lawyers have so far contributed little to the understanding of the relationsbip oflaw with economic phenomena".

30 A. LA SP!NA-G. MAJONE, Lo Stato regolatore, Bologna, 2000, cap. 1.

31 La distinzione tra "instrumentality role" e "framework role", riferiti entrambi al "public law", veniva tracciata già negli anni Settanta da T. DAINTITH, Pubiic Law and Economic Policy, cit., 10.

32 Sulla definizione di Stato regolatore, si rinvia a A. Lk SPINA-G. MAJONE, cit. In particolare, a p. 27, lo Stato regolatore viene definito come quello Stato che "governa la società privilegiando ( ..) la statuizione esterna di regole, secondo una certa visione dell'interesse pubblico e del benessere collettivo, anziché la gestione diretta o la creazione ex novo di sfere di attività". La letteratura sulla "regolazione" è ormai vastissima, tra i contributi piii recenti ricordiamo R. BDw1NM. CAVE, Understanding Regulation, New York, 1999 e soprattutto la voce di T. DAINTITH, Regulation, in International Enciclopedia ofComparative Law, a cura di R. BUXBAUM-E MADL, vo1. )(VII, 1997.

33 Giustifica la legge del 1998 in termini di "credibility and reputation" del New Labour, desideroso di apparire al cospetto dei mercati finanziari del tutto diverso dai suoi predecessori, K. BAIN, Some problems with the use of"credibility" and "reputation" to support the independence ofcentral banks, in (a cura di P. Av.sTIs-M.C. SAWYERS) The Political Economy of Central Banking, Cheltenham UK, 1998, 38-48.

34 Per un cenno al rapporto tra "regole" e "comportamento" nella tradizione inglese, si rinvia alle conclusioni.

35 T. DAINTITH, Exchange, Response and Competition: External Perspectives on the United Kingdom Constitution, in «Public Law», 2000, 163.

36 11 tema dei rapporti tra diritto e mercato conosce, in Italia, una stagione di intensi dibattiti, sollecitati in special modo dall'Unione economica e monetaria europea. In termini generali, ribadisce la funzione conformatrice dei diritto ed il carattere artificiale, politico e storico del mercato, M. IRTI, L'ordine giuridicd del mercato, 101

Bari, 1998. Sul mercato come regola o istituzione, "in grado di garantire sia il rispetto del principio pluralistico, e quindi dei diritti fondamentali, sia il perseguimento di finalità sociali", e non come "parte di un ordine economico dotato di propria legalità, autonomia, rispetto a superiori fini o valori costituzionali", R. BIFULCO, Costituzioni pluralistiche e modelli economici, in Governi ed economia, a cura di ATRIPALDI-GAROFANO-GNESUTFA-LOLITO, Padova, 1998.

37 La Banca di Svezia, istituita nel 1654.

38 La Banca d'Inghilterra ottiene il diritto di emettere banconote "come il solo mezzo per potere mobilizzare il credito che essa ha fatto allo Stato" (G. LuzzArro, Storia economica, parte seconda, 40 ed. , Padova, 1960, 51).

39 Bank of England Act 1694.

40 "The bank was a profit-making corporation, with independent income which carne partly from commercial banking operations (bili discounting, lending, remittance and dearing services). Formally, therefore, the Bank was autonornous - privately owned, independently rnanaged and generating its own revenue", M. COLLINS-M. BAKER, Bank of England Authonomy: A Retrospective, in The emergence of Modern Central Bankingfrom 1918 to the present, a cura di C. HOLTFRERICH-J. REIs-G. ToNioLo, 1999, 23. Sottolineava la duplice natura della Bank of England, banca centrale da una parte, società privata dall'altra, già W. BAGEHOT, Lombard street, Londra, 1912.

41 L'act del 1844 divideva la Banca d'Inghilterra in due dipartimenti separati: dell'emissione e del credito. Il primo era autorizzato ad emettere banconote fino a 14 milioni di sterline sulla base di garanzie costituite principalmente da crediti verso lo Stato. Come osservava G. Luzzatto (cit., 294), "La legge del 1844, che di fatto, se non di diritto, riusciva ad assicurare alla Banca d'Inghilterra il monopolio dell'emissione, raggiunse pienamente lo scopo immediato che essa si proponeva: di impedire cioè l'aumento illimitato e pericoloso della circolazione fiduciaria". Definisce l'Act del 1844 come "a 102

striking example of anticompetitive regulatory politics", sottolineando come le disposizioni furono adottate "on the suggestion of the Bank itself, i. e. the prospective regulatee", C. Hadjemmanuil, cit., 4, nota 11.

42 C. HADJEMMANUIL, cit., 4-5. L'autore ricorda come Bagehot scrivesse a suo tempo il suo

Lombard street. A description of the Money Market (1873), proprio al fine di evidenziare le nuove responsabilità assunte dalla Banca d'Inghilterra. Sul tema si rinvia anche ad A. CMRNCROSS, The Bank ofEngland.' Relationsbip with the Government, the Civil Service, and Parliament, in Central Bank's Independence in Historical Perspective, Berlino-New York, 1988, a cura di G. T0NIOLO, 39-72. ' M. COLLINS-M. BAKER, Bank ofEngland Autonomy: A Retrospective, cit., 24.

44 Il sistema "Gold standard" venne adottato nel 1816, abolito nel marzo del 1919 e, sebbene per pochi anni, reintrodotto in forma diversa nel maggio del 1925.

45 M. COLLINS-M. BAKER, Bank ofEngland Autonomy: A Retrospective, cit., 26.

46 "The degree of autonomy exercised by Threadneedle Street has been much less in the twentieth century than in the nineteenth. This autonomy was at its greatest prior to 1914", M. COLLINS-M. BAKER, Bank of England Autonomy: A Retrospective, cit., 14. Il giudizio dell'autore muove dalla premessa che sia dato rinvenire un legame stretto tra autonomia della banca centrale e la definizione di regole condivise di politica monetaria, nel senso che le seconde sarebbero condizioni imprescindibili della prima; l'autonomia si giustifica in ragione della imparzialità e quest'ultima presuppone una azione condizionata al rispetto di regole predefinite (27). La condotta della Banca d'Inghilterra, nel quadro del sistema monetario vigente prima della grande guerra, era apprezzata nel Report elaborato dalla Commissione Cunliffe (Committee on Currency and Foreign Echanges. First Interim Report, Parliamentary Papers 1918, VI, Londra). Sulla incidenza dei provvedimenti richia-

mati nel testo sui sistema monetario inglese, nella dottrina italiana, vedasi anche G. Luzzatto, cit., 236. ' "During the War the Bank must in all things act on the discretion of the Chancellor of the Exchequer and must not take any actions likely to affect credit without prior consultation with the Chancellor". (Citato da A. CAIRNCROSS, cit., 45. ) 48 "So long as I am governor of the Bank I shall do my utmost to work loyally and harmonious!y with you and for you as Chancellor of the Exchequer". (Sempre citato da A. CA!RNCROSS, cit., 45). ' Come ha sottolineato M. MoRAN (Monetary Policy and the Machinery of Government, in «Public Administration», 1981, 49), le audizioni rese dalla Banca d'Inghilterra dinanzi alla Commissione Macmillan nel 1929, rappresentarono l'occasione per rivendicare il diritto ad una condotta indipendente dall'esecutivo, specie con riguardo al tassi di interesse: in tal senso, secondo le parole del Vice-governatore, Sir Ernest Harvey, gli obblighi della Banca nei confronti del governo altro non erano che "the ordinary duties of banker to client", in particolare "a principal duty (...) to mantain in the general interest of the community the stability of the national monetary unit"; mentre tali obblighi non "required to submit to politica1 pressure and to subordinate sound finance to the dictates of politica1 expediency" (vedasi Committee on Finance and Industry: Minutes of Evidence, Londra, 1931, vol. 1, p. 1-2, vo!. 2, p. 275.

Brani citati da M. M0RAN).

50 Il 21 settembre del 1931 la Banca d'Inghilterra fu costretta a sospendere la convertibilità in oro della sterlina; nella primavera dell'anno successivo la sterlina fu svalutata del 30%.

Da considerare che appena pochi anni prima, nel 1925, la sterlina era stata rivalutata, disponendone la convertibilità in oro alla vecchia parità.

SI M. COLLINS-M. BAKER, Bank ofEngland Authonomy: A Retrospective, cit., 228-29, richia-

mando peraltro le osservazioni fatte a suo tempo da J. M. Kvs, The economic consequences ofMr Churchill, ora in The Gold Standard and Employment. Policies between the Wars, a cura di S. POLLARD, Londra, 1970.

52 M. COLLINS-M. BAKER, Bank ofEngland Authonomy: A Retrospective, cit., 29.

53 La frase attribuita a Norman è la seguente: "I am an instrument of the Treasury ( ... ) when the go!d standard was abandoned there took pIace an immediate redistribution of authority which deprived the Bank of some essentia!s functions" (citata da H. CiÀY, Lord No rman, Londra, 1957, 437). In termini pressoché coincidenti, di recente, M. CoLuNs-M. BAKER,

Bank of England Authonomy: A Retrospective, cit., 29.

54 Di un "Control of the central bank (...) rested on a 'gentleman's agreement' which would now be expressed as law" parlò Hugh Gaitske!!, presentando il Bank of Eng!and Bili dinanzi alla Camera dei Comuni i! 21 agosto 1945 (così come riportato da M. Moiw', cit., 57).

55 C. HADJEMMANULL, cit., 5.

56 "The purpose of public ownership, according to the Chancellor, was to bring 'the !aw into accord with the facts of the situation" (M. MORAN, cit., 57). L'autore sottolinea altresì il significato politico della Legge, testimonianza dell'ostilità laburista, in special modo della sinistra del partito, nei confronti delle grandi banche e della City. Sulle caratteristiche del Bank of Eng!and Act 1946, in senso conforme, F. AìiTENBRICK, cit., 65: "With respect to the institutional arrangements, the Bank of Eng!and Act in many respects gave statutory form to the previous!y existing arrangements in practice. Indeed, the Bank of England Act 1946 may be characterized as being affirmative, rather than innovative".

57 C. HADJEMMANUIL, cit., 6. Nelle parole di Lord Catto, al tempo i! Governatore della Banca, l'indipendenza dell'Istituto non è pii riferita alla condotta della Banca, oramai subordinata 103

alla politica del governo, bensì al nuovo ruolo prevalentemente consultivo ed esecutivo; dinanzi alla Commissione Radcliffe, alcuni anni più tardi, il Governatore Cobbod rivendicherà per la Banca, più modestamente, "the right to offer independent advice" (M. Moo.N, cit., 49).

58 Il trasferimento del capitale azionario della Banca nelle tasche del Tesoro rientra nella nozione di "compulsory acquisition", ovvero trasferimento coattivo, e richiama alla mente l'art.

43 della Costituzione italiana.

59 Bank of England Act 1946 (1-4).

60 Dà contezza del processo di formazione della section 4 della Legge e delle pressioni della Banca a fronte delle misure draconiane proposte dal Governo, con riguardo alla vigilanza bancaria, C. HADJEMMANUIL, cit., 6. L'autore sottolinea anche come l'iniziativa per l'esercizio dei poteri di direzione sul sistema bancario sia stata attribuita alla Banca d'Inghilterra, alla quale solamente spetta di valutare l'interesse pubblico che potrebbe giustificare l'avvio del procedimento; mentre ogni tentativo del Tesoro di sostituirsi ad essa sarebbe per ciò solo ultra vires (p. 7). Tale riparto di competenze tra il Tesoro e la Banca centrale ha Finito per ribadire il ruolo egemone della Banca d'Inghilterra quale autorità di regolazione del sistema bancario (naturalmente, come vedremo fino alla recente riforma del 1998). Le vicende successive al 1946 hanno visto la Banca centrale prediligere forme di regolazione "informali", di tipo negoziale, integrate da un diffuso ricorso, da parte degli interessati, all'autoregolazione. Il potere in astratto contemplato dalla section 4 della Legge ha rappresentato, quindi, una sorta di "riserve legal weapon" che ricorda da vicino il fucile oliato, pulito e pronto per l'uso (ma con la speranza che non debba mai essere usato) di cui parlava uno dei primi presidenti della SEC, quale limite e forse anche condizione necessaria di ogni forma di self-regulation (le parole sono di W O. DOUGLAS, citate da E VELLA, L'auto regolamenta-

zione nella disciplina dei mercati mobiliari: il modello italiano, in).

104

61

T. DAINTITH, The finctions ofLaw in the field ofshort-term economicpolicy, in «Law Quarterly Review», 1976, 74. Nello stesso senso anche C. HADJEMMANU!L, cit., 7. Sull'attività di vigilanza, dal 1946 al 1998, si rinvia alla nota 60.

62 A. CAJRNCROSS, cit., 50.

63 T. DAINTITH, Between Domestic Democracy and an Alien Rule of Law, cit., 122.

64 M. COLLTNS-M. BAKER, cit., 16.

65 Come osservava recentemente M. KING (Changes in UK monetary policy: Rules and discretion in practice, in «Journal of Monetary Economics», n. 39, 1997, 85), "The choice between rules and discretion has been central to the academic literature on the conduct of monetary policy since Simons"; del quale cita un articolo degli anni Trenta (H. C. SIMONS, Rules versus authorities in monetary polity, in «Journal of Monetary Economics», n. 44, 1936, 130.

66 R. SAYERS, Central Banking afier Bagehot, Oxford, 1957, 1.

67 M. MoRAN, cit., 50.

68 La frase è presa da House of Commons (HC), Debates, vol. 361, colonna 264, 29 maggio 1940.

69 L'inchiesta pubblica fu sollecitata dall'accusa, peraltro alla fine non dimostrata, che informazioni riservate concernenti l'imminente rialzo del tasso di interesse fossero state rivelate a soggetti privati da componenti del Consiglio dei Direttori; è opportuno ricordare come il Consiglio fosse composto, tra gli altri, da 12 non-executive Directors, ai quali era consentito svolgere altre attività al di fuori della banca, perseguendo interessi in ipotesi configgenti con quelli "istituzionali". Non a caso la vicenda ricordata nel testo nasceva proprio dall'accusa rivolta a due non-executive Directors di avere speculato sulla fuga di notizie concernenti l'imminente rialzo dei tassi di interesse. Sull'intera vicenda, v. Report of the Tribunal Appointed to Enquire into Allegations of Improper Disclosure of Information Relating to the Raising of Bank Rate, Londra, 1958).

Per quanto concerne il periodo che va dal Rapporto della Commissione Radcliffe (1959) alla vittoria dei conservatori nelle elezioni politiche del 1979, rinviando anche alle fonti più volte citate, riteniamo sufficiente ed esaustiva la pungente osservazione di Moran: "at the end of the 'twenties the Bank reluctancy conceded the right of the politicians to be consulted; a generation later it asked only that it be consulted by the politicians. Sometimes it asked in vain: in 1967 Sir Leslie O'Brien remarked sardonically that he expected to be made redundant, after a meeting of international finance ministers had changed Rates 'without the distracting presence of their central bank governors" (M. MORAN, cit., 51).

71 Della scuola monetarista mi limito a ricordare i nomi di Milton Friedman (a partire dal suo The Role ofMonetary Policy, in «Amencan Economic Review», 1968, traduzione in italiano, Il ruolo della politica monetaria, in G. BELLONE, a cura di, Il dibattito sulla moneta, Bologna, 1972); e, in Inghilterra, di DAVID LAIDLER, Money and Money income: An Essay on the Trasmission Mechanism, in «Journal of Monetary Economics», 1978.

72 M THATCHER, Downing Street Years, Londra, 1993, 706. Come sottolineano M. Collins e M. Baker (cit., 20), sebbene le scelte di politica monetaria fossero ispirate in quegli anni a principi radicalmente diversi da quelli seguiti in passato, sebbene, quindi ed in buona sostanza, lo spettro di Keynes fosse stato a dir poco lontano, l'importanza che la Signora Thatcher attribuiva alla politica monetaria fu tale da rafforzare il grado di politicità della Banca, al punto che, dinanzi alla resistenza del governatore Gordon Richardson, pensò bene nel 1983, giunto a termine il suo mandato, di sostituirlo con Robin Leigh-Pemberton, considerato "a politica1 sympatizer". Da ricordare, infine, la proposta del Cancelliere dello Scacchiere, Nigel Lawson, ottobre 1989, di introdurre misure legislative idonee ad assicurare l'indipendenza della Banca d'Inghilterra sul modello della Federal Riserve; 70

proposta respinta dalla Lady di ferro. Sui rapporti complicati tra la Thatcher e la Bank of England, per conoscenza diretta, C. GOODHART, Whither now? In «BNL Quarterly Review», 1997, 398ss.

73 In questo senso, C. HADJEMMANUIL, cit., 395-396; M. MoRAN, cit., 50; Treasury and Civi1 Service Committee, First Report, The Role of The Bank ofEngland, House of Commons (1993-94), 98. " "Accontability" letteralmente significa "responsabilità". Tanto nella versione inglese, quanto nella traduzione italiana il concetto rimane piuttosto generico. Secondo l'Oxford English Dictionary, "accountable" è colui il quale è obbligato a rendere conto, a dare ragione delle proprie azioni a qualcun altro.

5 Il giudizio sulla scarsa indipendenza della Banca d'Inghilterra è costante e condiviso anche negli anni che precedono la riforma del 1998: Centre for Economic Policy Research, Indepen-

dent and Accountable: A new Mandate for the Bank ofEngland, 1993; Treasury and Civil Service Committee, First Report, The Role of The Bank ofEngland, House of Commons (199394), C. BRIAULT-A. HALDANE-M. KING, Independence and Accountability, in Toward More Effective Monetary Policy (a cura dii. KURODA), UK-USA, 1997, 299-326.

76 Ex multis, T. DAINTITH, Between Domestic Democracy and an Alien Rule ofLaw?, cit., 126; Centre for Economic Policy Research, Independent and Accountable: A new Mandate for the Bank of Englana cit., paragrafo 4: "In the United Kingdom, there are important policy areas where Parliament has never succeeded in asserting, if indeed has tried, effective ex ante control over government action. Foreign policy is one such area, monetary policy another.

77 C. HADJEMMANIJIL, cit., 388. Prima della nazionalizzazione del '46, annoverava la Banca d'Inghilterra tra gli enti pubblici semi-autonomi, al pari delle università e della Port of London Authorit J. M. KEYs, The End ofLaissez-faire, Londra, 1926 (trad. it. La fine del Lais105

sez-Faire, in La fine del laissez-faire e altri scritti, Torino, 1991, 38. Per una classificazione della Banca d'Inghilterra all'interno della categoria delle «Public corporations» (grossomodo le nostre imprese pubbliche), W. FR!EDMANN-J.F. GARNER (a cura di), Government Enterprise. A comparativeStudy, Londra, 1970, parte I. 78 In questo senso, C. HADJEMMANU!L, cit., capitolo 6.

79 L'uscita della Sterlina dallo SME è generalmente considerato il momento a partire dal quale il dibattito sulla indipendenza o meno della Banca d'Inghilterra, oltre che sulla sua "accounrability", è divenuto di stretta attualità; come osservavano due economisti all'indomani di quella data, "While sterling was committed to membership of the European Monetary System, this issue was pre-empted since monetary policy was effectively determined by the actions of the Bundesbank. Now, with the UK's withdrawal from the EMS and no immediate prospect ofany return, the question has again returned to the policy agenda" (A. BLAKE-P. WESTWAY, Should the Bank ofEngland be Independent?, in «National Institute Economic Review», 1993, 72).

80 A. BOWEN, Infiation targetry in the United Kingdom, in (a cura di A. HALDANE) Targeting Infi.ation, Bank ofEngland, 1995, 59ss.

81 Sottolinea il legame stretto tra "an explicit inflarion target" ed "a degree of transparency and accounrability unprecedented in UK monetary history", entrambi elementi chiave di un nuovo assetto della politica monetaria, M. Changes in UK monetay policy: Rules and discretion in practice, in «Journal of Monetary Economics», n. 39, 1997, 91. Che questo nuovo approccio suggerisse il bisogno di una riforma istituzionale, che avrebbe riconosciuto alla Banca la piena indipendenza sul piano operativo, vincolandola al mantenimento della stabilità dei prezzi, già prima del Bank of England Act 1998, C. HADJAMMANUIL, cit., 401. Nel senso che questi "administrative steps" avessero già accresciuto de facto l'indipendenza della Banca e determinato il riparto di competenze tra la stesKJNG,

106

sa ed il Tesoro, T.

DAINT!TH, Between Domestic Democracy and an Alien Rule ofLaw?, cit., 123.

Con particolare riferimento al nuovo "inflation rargeting" negli anni tra il 1992 ed il 1997, per un giudizio relativamente positivo, B. BERNANKE-T. LAIJBACH-E MISHK!N-A. POSEN, Infiation Targeting, Princeton, 1999, capitolo 7.

82 Per la definizione di "independence" ed "accountability" si rinvia in special modo a B. BRIAULT-A. HALDANE-M. KING, Independence and Accountability, Bank of England Working Paper Series n. 49, Londra, 1996. Per un'analisi del dibattito, oramai sterminato, v. F. AMTENBRINK, cit.

83 Centre for Economic Policy Research, Independent and Accountable: A New Mandate for the Bank ofEnglana 1993. I membri del panel erano, tra gli altri, Terence Daintith, al tempo direttore dello Li.s (Institute ofAdvanced LegaI Studies), Charles Goodhart, della London School of Economics, il nostro Mario Monti, in quegli anni Rettore della Università Bocconi.

84 House of Commons, Treasury and Civil Service Committee, The Role of the Bank of England(session 1993-94), Londra, 1993.

85 Vedasi la parte V del Rapporto, "A new mandate for the Bank?", nella quale si domanda una riforma istituzionale che preveda "a recognition of the ultimate desiderability of price stability as a policy objective (...); that the besr method of entrenching price stability as an objective of policy is to devolve the implementation of that policy to the Bank".

86 Paragrafi 68 e 69, nei quali è manifesto il riferimento alla riforma della Banca di Francia, che ha previsto il nuovo Consiglio della Politica monetaria, organo distinto rispetto al Consiglio Generale e responsabile dei tassi di interesse.

87 Paragrafo 79, dove si prevedono anche, sempre in tema di accountability, il rapporto annuale della Banca, che dovrà essere discusso in Parlamento, e le audizioni del Governatore dinanzi alla Treasury and Civil Service Committee.

88 "If there are objections to adopting the

"hardline" model of bank independence represented by the Bunsesbank the same objections must app!y to the central requirement of the ESBC provisions - that the bank should be statutorily immune from any kind of direction or "override" by the national government or parliament" (paragrafo 55).

89 Paragrafi 56, 57 e 58.

90 "The New Zea!and arrangements contain several features which wou!d be attractive in favour of grearer autonomy for the Bank of Eng!and - most notab!y, a specific and quantifiab!e price stability target for which the Bank could be made accountable while retaining ultimate po!itical control over monetary po!icy" (paragrafo 53). The Reserve Bank of New Zealand fu fondata nel 1934 e nazionalizzata ne!

1936 (ad opera del primo governo !aburista). È curioso ricordare come il governo neozelandese avesse invitato Sir Otto Niemeyer, della Banca d'inghilterra, per ricevere consig!i su come organizzare la Banca che si stava fondando e qua!i obiettivi assegnar!e. Quasi 60 anni dopo, !a riforma de! 1989 (ancora una vo!ta introdotta da un governo laburista) ha accolto i suggerimenti di Niemeyer, stabi!endo che "funzione primaria de!la Banca è que!la di formu!are e dare app!icazione ad una politica monetaria avente come obiettivo economico il raggiungimento ed il mantenimento de!!a stabilità ne! !ive!lo generale dei prezzi". L'Atto non specifica quale stabilità dei prezzi debba essere garantita; richiede piuttosto che i! Ministro de!!e Finanze, d'intesa con il Governatore della Banca, determini i traguardi da raggiungere, a cominciare dal tasso di inflazione. Nel caso in cui la Banca non raggiunga i traguardi fissati, sono previste del!e sanzioni, che possono portare fino alla rimozione del Governatore (per la letteratura su! tema, P. DAZIEL, New Zealand's experience with an independent central bank since 1989, in The Political Economy of Central Banking, cit., 199-2 16; D. J. ARCHER, The New Zealand approach to rules and discretion in mònetary policy, in «Journal ofMonetary Economics», 1997, 3-15).

91

Nel dibattito di quegli anni sulla indipendenza della Banca d'Inghilterra si registrano anche voci di segno contrario. Da una parte, si sottolinea la difficoltà di coordinare, una volta trasferita la politica monetaria nelle mani della banca centrale, la stessa con la politica fiscale de! Governo, e si cita l'esempio tedesco al tempo della riunificazione (A. BiKE-P. WESTWAY, cit., 72-79); dall'altra, si ipotizza, se è vero che l'indipendenza della Banca centrale è uno strumento per assicurare la stabilità dei prezzi, di imporre per legge lo stesso obbligo in capo al Governo. La soluzione consentirebbe anche di risolvere, nel migliore dei modi, la questione della accountability. Si tratta naturalmente di una ipotesi di scuola, che tuttavia dell'obbligo legale della stabilità dei prezzi rivela la vera funzione: che non è quella di forzare la Banca a cambiare la sua condotta, quanto piuttosto quella di consentirle di fare, respingendo eventuali pressioni di segno contrario, quello che comunque avrebbe voluto fare (T. DAINTITH,

Between Domestic Democracy and an Alien Ruk ofLaw?, cit., 128, nota 42).

92 "A!though in section 4 we concede that the New Zealand model of explicit contracting would fit easily with constitutiona! an Parliamentary practice in the United Kingdom, where emphasis is !aid on ministerial responsibi!ity, we believe that UK monetary po!icy needs greater independence than can be achieved through any system in which ministers have operational responsibility for framing targets. Our design attempts to achieve this by assigning ultimate responsibility for choice of targets to the Bank alone". (par. 3.3). Il sistema neozelandese, nel quale la determinazione dei targets riposa su di una base contrattuale, il che conferma il ruolo attivo del Governo, era considerato nel Rapporto un passo in avanti troppo breve al confronto con la situazione britannica; nella quale, già dal '92, i targets erano definiti dal governo "but subsequent!y subject to monitoring and comment by the Bank through its regular Inflation Report".

107

93

Paragrafo 5.2 "Keeping open the option on Maastricht".

94 Così nel sommario; per una analisi delle ragioni a favore e contro il trasferimento della vigilanza bancaria, v. paragrafo 3. 6.

95 Vedasi la lettera di Gordon Brown del 6 maggio 1997 all'indirizzo del Governatore della Banca d'Inghilterra, Eddie George. Già nel manifesto elettorale del New Labour di Tony Blair

si leggeva che: "We will reform the Bank of England to censure that decision-making on monetarypolicy is more effective, open, accountable and free from short-term political manipulation" (il brano è citato in Blair's Britain, «The Banker», june 1997, 21).

96 Mentre, in un primo tempo, la nuova authority era stata definita semplicemente come a "New Regulatory organisation", in seguito, al momento del suo lancio il 28 ottobre del 1997, venne ridenominata "Financial Services Authority"; nella stessa data veniva pubblicato un paper dal titolo "Financial Services Authority: An Outline" (G. WALZER, Banking and Financial Services in the United Kingdom: The new Regulatory Regime, in «Yearbook of International Financial and Economic Law», 1998, 508). Per le ultime novità legislative, che portano a conclusione la poderosa riforma annunciata nel '97, v.

Financial Services andMarketAct 2000.

97 L'importanza della riforma è stata subito avvertita anche dalla dottrina italiana, commentando il nostro testo unico sulla finanza, quasi coevo, che in controtendenza "apre" all'autoregolazione nel mercato finanziario (invero confermando la disciplina già introdotta con il d. lgs n. 41511996): S. CASSESE, La nuova borsa: un equilibrio fragile, in «Giornale di diritto amministrativo», 1998, 583.

98 Proprio con riguardo al passato, vedasi C. HADJEMMANUIL, Banking Regulation and the Bank ofEngland, Londra, 1996. In merito alle trasformazioni del biennio 1997-98, G. WALKER, cit.

99 In ordine cronologico: Johnson Matthey Bankers (1984); Bcci (1991); Barings (1995).

108

Per la documentazione sul tema si rinvia a M. J. B. HML, All change at the Bank of Englana in «Butterworth Journal of International Banking and Financial Law», 1997, 298.

100 Già nel Rapporto della Commissione RolI, la separazione della vigilanza bancaria e il suo trasferimento ad un'altra autorità si giustificava sulla base di due ragioni fondamentali: la prima era il conflitto di interessi (ovvero il timore che lo spettro di nuove crisi bancarie potesse distogliere la Banca centrale dal perseguimento dell'obiettivo statutario della stabilità dei prezzi); la seconda muoveva dalla premessa secondo la quale il confine tra le banche e gli altri intermediari finanziari era diventato sempre più labile, da qui la preferenza per un'unica autorità di regolazione dell'intero sistema finanziario (Centre for Economic Policy Research, IndependentandAccountable, cit., 3. 6).

101 House of Commons Treasury News Re-

lease, The Chancellor's Statement iv the House of Commons on Bank ofEngland, 20 maggio 1997, paragrafo 7. Questi in estrema sintesi i punti illustrati dal Cancelliere (che in buona parte ripetevano le conclusioni alle quali erano giunte le commissioni RolI e del Tesoro negli anni precedenti): l'obiettivo della stabilità dei prezzi e, solo in subordine, quello di favorire la politica economica del governo per quanto concerne la crescita e l'occupazione; la conferma del sistema dello "inflation target", rimesso alla determinazione del governo, da farsi ogni anno in occasione della presentazione del bilancio; responsabilità della Banca per quanto concerne il raggiungimento del target annuale sulla base di decisioni lasciate in buona parte alla nuova Monetary Policy Committe (Mpc); in particolare la Mc si riunirà mensilmente per decidere sui tassi di interesse, i verbali di questi incontri saranno resi pubblici entro sei settimane; compito del Consiglio dei Direttori sarà quello di valutare e giudicare la condotta della Mpc; al fine di accrescere il grado di accountability, oltre all'ormai consolidato quarterly inflation Report, si prevede l'obbligo in capo alla Banca di presentarsi di-

nanzi alla Treasury Select Committee e alla Camera dei Comuni; infine, come clausola finale, si prevede il potere per il Tesoro, in circostanze economiche eccezionali, di sostituirsi alla Banca nella determinazione dei tassi di interesse, con l'avvertenza che i provvedimenti assunti dal Governo dovranno essere confermati dal Parlamento.

102 Sebbene formalmente, "all ofwhom shall be appointed by Her Majesty" (art. 1, 2° comma).

103 Bank of England, Annual Report 2000, 04

Come è stato sottolineato, per alcuni aspetti, la "nuova" sottocommissione assume le funzioni in precedenza svolte dal "Committee of Treasury" sotto il precedente regime (F. AìiTENBRINK, cit., 68) 105 Sulla divisione dei compiti tra il Consiglio e la sottocommissione (denominata "NedCo"), si legge nell'ultima Relazione annuale della Banca d'Inghilterra che "While Court as a whole is responsible for managing the affairs of the Bank, including setting its objectives and strategy, NedCo is responsible for reviewing the Bank's performance in relation to its objectives and strategy (...) NedCo is also responsible for reviewing the procedures of the MPC, and in particular whether the Committee has collected the regional, sectoral and other information necessary for formulating monetary policy (Bank ofEngland, Annual Report 2000, 8).

106 "The Treasury was given power to specify in writing what price stability is to be taken to consist of which will generally comprise an inflation target as well as the economic policy of the government at any particular time" (G. WALKER, cit,, 539). Nell'ultima Relazione annuale della Banca d'Inghilterra si legge che "Under the Act the Government is required to set a price stabiliry objective each year" (cit., 15).

107 B. BERNANKE-T LAUBACH-F. MIsHKIN-A. POSEN, Inflation Targeting, cit., 170.

108 Abbiamo già osservato in precedenza co-

me la Mpc, già prevista nel Rapporto RolI, presenti delle assonanze con il Conseil de la politique monétaire introdotto nell'ambito della riforma della Banca di Francia.

109 1112 giugno del 1997 - quasi un anno prima dell'entrata in vigore della Legge di riforma - poco prima che si tenesse la riunione inaugurale della Mpc, il Cancelliere dello Scacchiere Gordon Brown indicò alla Commissione un target annuale dell'inflazione pari al 2,5%.

Erano consentite variazioni del tasso di inflazione entro la soglia dell'l%, in entrambe le direzioni (in pratica non si poteva scendere al di sotto dell'1,5% e superare il 3,5%). In caso di variazioni superiori di un punto percentuale è dovere del Governatore scrivere una lettera aperta al Cancelliere dando spiegazioni delle variazioni registratesi, rispetto al target previsto, e suggerendo le misure opportune per porvi rimedio. Qualora una tale situazione si dovesse verificare, il Parlamento potrebbe occuparsi della questione attraverso la propria Treasury select committee come è stato sottolineato nei primi commenti, la Commissione potrebbe chiedere al Governatore copia della lettera ed invitare il Governatore a spiegare davanti a sé le ragioni dell'accaduto. A differenza del modello neozelandese, in simili evenienze non si prevedono misure sanzionatorie del Governo ai danni della Banca (segnatamente, la rimozione del Governatore, secondo l'esempio neozelandese). L'obiettivo del tasso di inflazione al 2,5% è stato via via confermato negli anni successivi, da ultimo con l'approvazione del Bilancio lo scorso 21 marzo 2000.

110 Per una valutazione della condotta della Mc nell'anno 199912000 si rinvia all'ultima Relazione annuale della Banca d'Inghilterra (cit., 15-27).

111 L'espressa previsione di queste condizioni, interesse pubblico e circostanze economiche eccezionali, non si riscontra nelle leggi olandese e neozelandese, che adottano entrambe questo meccanismo. Inutile osservare, peraltro, come le formule dell'interesse pubblico e delle circostan109

ze economiche eccezionali, necessitino di interpretazione e questa sia in ultima istanza rimessa al Governo.

112 Nell'adozione del cosiddetto "override mechanism" è evidente l'influenza esercitata

dallo Riserve Bank af New Zealand Act 1989.

L'art. 12 prevede la possibilità di derogare provvisoriamente all'obiettivo della price sta bility, qualora circostanze economiche particolari spingano a farlo. Da considerare che l'order con il quale si dispone la sospensione (e che deve essere ratificato da! Parlamento) determina anche la risoluzione in via unilaterale del poiicy targets agreement stipulato tra il Ministro delle Finanze ed il Governatore della Banca. Infine, a differenza della soluzione britannica, nel modello neozelandese la sospensione può durare fino a 12 mesi. Peraltro, nel caso inglese, niente sembrerebbe vietare al Tesoro di emanare un nuovo atto, alla scadenza dei primi tre mesi, che dovrebbe naturalmente ricevere una volta ancora l'approvazione del Parlamento.

113 T. DAINTITH, Exchange, Response and Competition, cit., 163; nello stesso senso, E. ROLL, Where Are We Going? The Next Twenty Years, Londra, 2000, 81ss; M. King, The MPC two Years on, in «Bank of England Quarterly Bulletin», 1999, 297ss. Secondo il quale, naturalmente con riferimento alla Banca d'Inghilterra, "In its 300 - year history probably no change has been as significant as operational independence and the creation of the Monetary Policy Committee".

114 Per un giudizio molto positivo, anche in termini di accountabiiity, dall'interno, M. King, The MPC two years, cit., 297. Il giudizio era condiviso, ancor prima della Legge del '98, da C. BIiuL'r-A. HALDANE-M. KJNG, Independence andAccountabiiity, cit., 316; gli autori assumevano, come parametri quattro criteri: il rapporto della Banca con il Parlamento; la pubblicazione dei verbali delle riunioni aventi ad oggetto la politica monetaria; la pubblicazione dei rapporti sull'inflazione; infine, l'esistenza di una clausola (an override clause) che consenta al Go110

verno di intervenire in casi straordinari. Alla stregua di tali criteri, il modello neozelandese forniva il livello più elevato di accountabiiity.

Non era da meno la Banca d'Inghilterra, considerando non senza qualche forzatura, in particolare, tre elementi ormai noti: inflation target, pubblicazione dei verbali delle riunioni Cancelliere/Governatore, Inflation Report. Sempre con riferimento alla Banca d'Inghilterra, estremamente lusinghiera è la valutazione diJ. DE HN-F. AMTENBR!NK-S.C.W. EIJFFINGER, Ac-

countabiiity of Centrai Banks: Aspects and Quantifications, 1998, Centre for Economic Research, Discussion paper, no. 9854, Tilburg University, 1998. Già sulla base de! Bili presentato in Parlamento ne! '97, la Banca centrale inglese superava, quanto a livello di accountabiiisy, quella neozelandese, entrambe di gran lunga più "democratiche" della Banca centrale Europea.

115 Come osserva F. Amtenbrink (cit., 344), "this is due to the powerful position of parliamentary committee in the ( ... ) parliamentary system, rather than from concrete provisions in the lega! bases".

116 La proposta era di T. DAINT!TH, Between Domestic Democracy and an Alien Ruie ofLaw?, cit., 130-131. Prendendo come modello la riforma della Banca francese ed il sistema di nomina del Consiglio della Politica monetaria.

117 Vedi nota 35.

118 "li has been observed that primary Community law excluded the existence of any kind of override mechanism for the national central banks participating in the ESBC" (F. Amtenbrink; cit,, 357).

119 K. BAIN, Someprobiems with the use of "credibiiity" and "reputation" to support the independence of centrai banks, in The Politicai Economy of Centrai Banking (a cura di P. Arestis-M. C. Sawyer), Che!tenham, 1998, 41-42.

120 Al fine di spiegare per quale ragione l'indipendenza sia stata concessa alla Banca d'Inghilterra dai laburisti e non invece dai conservatori (al governo per quasi venti anni), gli economisti hanno adoperato i concetti della "credibi-

lity" e della "reputation". Una delle possibili interpretazioni della riforma del '98 sarebbe legata al bisogno, di Blair e di Brown, di dimostrare ai mercati finanziari il loro impegno assoluto nella lotta all'inflazione. Considerando che la nazionalizzazione della Banca era stata voluta dagli stessi laburisti più di 50 anni prima, quale occasione migliore, della riforma del '98, per marcare l'enorme differenza tra new e o/a' labour. Di contro, l'inerzia dei conservatori potrebbe essere spiegata alla luce dell'intenzione di fare della politica monetaria, quindi dell'inflazione, una questione elettorale, puntando sulla propria credibilità e reputazione; per questo serviva una Banca centrale dipendente dal Governo (K. Bain, cit., 38 ss).

121 Senza alcuna pretesa di completezza e limitandoci alle ragioni economiche: ricorda il timore che l'adesione immediata alla moneta unica avrebbe potuto determinare effetti negativi sull'inflazione nel Regno Unito, considerati i tassi di interesse della zona dell'Euro, l'attuale Governatore della Banca d'Inghilterra, E. GEORGE, Monetary Policy and the Euro, in «Bank of England Quarterly Bulletin», 2000, 168 ss.; per le preoccupazioni legate alla forza delle economie francese e tedesca, E. ROLL, Where Are We Going?, cit., 97.

122 Come noto, il Regno Unito ha comunicato la propria intenzione di rimanere fuori in due tempi: prima alla fine del '96 e poi, a conferma della prima, nel novembre del '97.

123 Alla stregua dei parametri prescritti nell'art. 122 del Trattato CE, non dovrebbero esserci particolari problemi per il Regno Unito con riferimento all'inflazione, ai tassi di interesse ed alla situazione della finanza pubblica; piuttosto si potrebbe porre il problema del rispetto, per almeno due anni, dei margini normali di fluttuazione previsti dal meccanismo di cambio dello SME, senza che siano consentite svalutazioni. Si tenga conto che attualmente, le relazioni di cambio, nell'ambito dell'Unione Europea, sono regolate dal cd. SME 2, del quale non fanno parte né il Regno Unito, né la Svezia.

In teoria, il Consiglio potrebbe chiedere al Regno Unito, prima di aderire alla moneta unica, di entrare nello SME 2. In senso contrario si citano gli esempi dell'Italia e della Finlandia, ammessi nell'Euro, anche se non soddisfacevano alla lettera il requisito prescritto (sul punto, v.

M. ARTIS, The UKandEMU, cit., 176).

124 1) Whether there can be siistainable convergence between Britain and the economies of a single currency; 2) whether there is a suffìcient flexibility to cope with economic change; 3) the effect on investment; 4) the impact on our financial services industry; 5) whether it is good for employment (HM Treasury, 1997, discorso di Gordon Brown). Più di recente, il Primo Ministro Tony Blair, criticando gli opposti estremismi ("no, never"; "yes, now"), ha dichiarato, alla Camera dei Comuni: "So our intention is clear. Britain should join a successful single currency, provided the economic conditions are met". (Hc, 23. 2. 1999).

125 Nel gennaio del 1999, secondo un sondaggio d'opinione, favorevoli all'ingresso del Regno Unito nell'Euro erano appena il 31% degli intervistati, contrari il 51% (J. CIJRTICE, Can

Britain Join the Euro? Political Opportunities and Jmpediments, in From EMS to EMU, cit., 183).

Curioso osservare come, nel novero dei contrari, dovremmo oggi considerare anche lo stesso Tony Blair; rispondendo ad una domanda dei giornalisti su questo tema, avrebbe detto: "If I was asked in a referendum how I would vote today, I would vote not". Secondo gli ultimi sondaggi, appena il 27% dei britannici voterebbe a favore dell'Euro (»The Economist>, 28 ottobre 2000).

126 M. ARTIS, cit., 177. È significativo che Gordon Brown, nel sottolinerare le implicazioni derivanti dal mancato ingresso del Regno Unito nell'Euro, dichiarasse che, allo stato attuale, The Bank's independent status need not accord with the strict terms and interpretation of the Maastricht Treaty (House of Commons, 27 ottobre 1997); confermando che lo scopo primario della riforma della Banca d'Inghilterra non era quello di 111

renderla conforme al modello di banca centrale disegnato dalle norme del Trattato.

127 Queste, in dettaglio, le critiche mosse dall'IME alla riforma: 1) l'indipendenza operativa della Banca centrale inglese non è ancora sufficiente a soddisfare i requisiti di indipendenza richiesti dal Trattato; 2) le previsioni relative alla Court of Directors non valgono a garantire l'indipendenza di chi ne fa parte; 3) il potere del governo di riappropriarsi della politica monetaria, in circostanze economiche eccezionali, è in contrasto con l'art. 108 del Trattato CE; 4) nulla viene stabilito quanto alla partecipazione della Banca nel SEBC (Bank of England, May weekend decisions, v. www. bankofengland. co . uk).

128 M. PANIC, Monetary Souereignty under

Dtfferent International Systems: A Historical Comparison, in European Monetary Union: The Kingsdown Enquiry (I. Davidson), Londra, 1996, 200 ss. Secondo l'autore l'introduzione di una moneta unica, e l'istituzione della Banca centrale europea, se da una parte comporta per gli Stati nazionali la rinuncia al controllo della politica monetaria (o meglio, la fine di quel poCO di autonomia nazionale rimasta); non ha effetti, almeno definitivi, sulla sovranità degli stessi Stati, che potrebbero sempre uscire dall'Unione in nome dei propri interessi nazionali.

Non è questa la sede per toccare il tema della irrevocabilità o meno degli obblighi derivanti dall'integrazione europea, giova considerare che l'opinione non tiene conto dei cambiamenti successivamente intercorsi, ad Amsterdam e da ultimo a Nizza. Più interessante è l'esplicito riferimento alla indipendenza della politica monetaria degli Stati nazionali, al fatto che l'erosione della stessa non incomincia con il Trattato di Maastricht, ma ha origini molto lontane.

129 C. GOODHART, Would it Matter if the British Chancellor of the Exchequer No Longer Controlled Monetary Policy?, in European Mone-

112

tary Union: The Kingsdown Enquiry (I. Davidson), Londra, 1996, 195 ss.

130V nota 115.

131 Come puntualizza di recente D. O'KEEFFE, (Opting oui Relazione scritta presentata al Convegno di Siena, Novembre 2000, 3), questi obblighi sono in particolare: l'art. 2 (il fine comune della stabilità dei prezzi); l'art. 98 (che vincola la politica economica del Regno Unito allo scopo di contribuire a realizzare gli obiettivi della Comunità, così come definiti nel ricordato art. 2); l'art, 99 (che impone al Regno Unito di considerare la propria politica economica una questione di interesse comune); l'art. 124 (per quanto concerne la propria politica dei cambi).

Da considerare, accanto alle obbligazioni, anche i diritti, che si risolvono in altrettante deroghe alle previsioni del Trattato; tra queste, la più significativa concerne proprio la Banca d'Inghilterra: l'art. 11 del Protocollo autorizzerebbe il Regno Unito a conservare il potere di direzione sulla Banca centrale, secondo quanto stabiliva il Bank ofEngland Act 1946 (la cui section 4, limitatamente alla politica monetaria, è stata abrogata nel '98).

132 F. DE FrcHLs, Dizionario giuridico Inglese-Italiano, Milano, 1984, 20.

133 T. DAINTITH, Exchange, Response and Competition, cit.

134 T. PROSSER, Privatisation, Regulation and PublicServices, in «Jiur. Rev.», 1994,7.

135 G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 135.

136 Sulla teoria pubblicistica dei poteri neutrali è d'obbligo il rinvio a C. SCHMIIT, Il custode della costituzione, trad. it. a cura di A. Caracciolo, Milano, 1981. Per un suggestivo svolgimento della stessa nell'odierno panorama italiano, con particolare riferimento ai rapporti Stato-economia, si rinvia a M. MANETTI, Poteri neutrali e costituzione, Milano, 1994.

dossier

Valutazione delle politiche pubbliche: metodologie ed esperienze

Valutare politiche pubbliche significa, in qualche modo, legittimare i risultati delle scelte politiche. Sia in termini di garanzia dell'efficacia delle policies, sia in termini di consenso rivolto ai decision makers.

Ma per valutare le politiche pubbliche bisogna innanzitutto attivarsi in concrete misurazioni della coerenza, adeguatezza, implementazione delle policies. In questo senso, l'attività di valutazione significa mettere a disposizione elementi di natura squisitamente tecnica per supportare le capacità di soddisfare domande, bisogni ed opportunità pubbliche.

La finzione di valutazione delle politiche pubbliche non può avere assetto definitivo data la necessaria varietà di forme applicative. Basti qui ricordare quelle più comunemente diffuse, quali l'analisi costi benefici, il metodo dei case studies - sviluppato soprattutto nei Paesi anglosassoni - le valutazioni di impatto socioambientale.

Regole universali dell'attività di valutazione, quindi, non sembrano esistere; l'eterogeneità della prassi e delle esperienze, infatti, indica che la tendenza è più quella di rispettare principi di carattere generale piuttosto che metodi, di fare del 113

processo di valutazione un'occasione di conoscenza e apprendimento più completo possibile, indipendentemente dai soggetti valutatori (cosiddetti interni od esterni) o dai momenti della valutazione (ex ante, in itinere, expost).

Di questi argomenti ne avevamo già parlato, in termini generali, in uno degli "opuscoli" di queste istituzioni (Cultura della valutazione, M Gigante, B. Pizzetti, S. Ristuccia, gli opuscoli, 1994).

Il dossier che presentiamo ora, invece, mette a fuoco in modo più puntuale specifici elementi tecnici ed una concreta esperienza di valutazione. In particolare, tra gli approcci valutativi esistenti, viene qui proposto uno tra i più difficili da coordinare, (vista l'ampia partecipazione di soggetti interessati), quello definito democratico.

L'articolo di Floc'hlay e Plottu, in particolare, analizza, dal punto di vista metodologico, il delicato aspetto della parteczpazione degli stakeholders al processo di policy making e della loro negoziazione. Viene così descritto una particolare valutazione, quella democratica, idonea per dare concretezza al consenso attraverso la parteczpazione ma attuabile soltanto tramite uno specifico supporto metodologico: che qui viene identificato nell'analisi multicriterio, in grado di coniugare le specifiche valenze delle politiche con le diverse preferenze dei portatori di interesse.

L'articolo di Giannella racconta, invece, di un'esperienza - condotta dall'Università di Venezia - tesa a valorizzare la valenza partecipativa dei meccanismi decisionali nel particolare ambito delle azioni di trasformazione urbana.

Sia che si parli - per così dire - di "teoria" che di «prassi ' l'idea di valutazione delle politi che pubbliche che se ne può desumere è comunque quella di condividere un comune spazio di riflessione, di crescita e di apprendimento delle istanze altrui e, conseguentemente, della cognizione del suo naturale grado di incertezza.

Nonostante i necessari tentativi di renderla più oggettiva possibile, sia per quantificarla in termini monetari sia per avere rifirimenti di natura più propriamente qualitativa.

•

114

La valutazione democratica delle decisioni pubbliche di Beatrice F/oc'h/ay e Eric Plottu

A

partire dagli anni Settanta, è sorto un numero crescente di associazioni di utenti per far sì che il grande pubblico potesse essere ascoltato e potesse partecipare in modo più sistematico alle decisioni pubbliche.

All'inizio, queste diverse manifestazioni sembravano derivare dall'assenza di un contropotere e dal desiderio dei cittadini di far sentire la propria voce nell'ambito del processo decisionale pubblico.

I responsabili delle decisioni pubbliche, spesso, favoriscono una maggiore partecipazione ai processi decisionali, ritenendo che ciò rafforzi il sostegno pubblico alle loro azioni e limiti, in un secondo tempo, l'espressione del contropotere negativo che potrebbe creare ostacoli in sede di realizzazione. Pertanto, il principio della pubblica partecipazione ai processi decisionali potrebbe metterci in grado di riequilibrare l'esercizio di potere e contropotere per far fronte alla domanda di maggior controllo dell'elemento pubblico da parte dei cittadini e alla domanda di efficienza nei servizi pubblici.

Il principio di una maggiore partecipazione popolare ai processi decisionali con l'incoraggiamento, da un lato, dell'uso del contropotere e la limitazione, dall'altro, dei relativi effetti, è bene accetto sia al grande pubblico sia ai responsabili delle decisioni, anche se è possibile che questi vari soggetti non vedano sempre le cose dalla medesima angolazione. Quindi è lecito chiedersi se attualmente, considerati gli sviluppi registrati nell'arco degli ultimi 25 anni, si riscontrino un eccesso o una carenza di contropotere.

Noi riteniamo che vi sia una carenza di contropotere a monte dei processi decisionali, e un eccesso di contropotere dopo che le decisioni sono state prese.

Floc'hlay opera presso l'Institut National de Recherche sur les Transports et leur Sécurité a Vi!leneuve d'Ascq, Plottu è docente di Valutazione delle Politiche Pubbliche, presso l'Università di Rennes 115

METODI DI VALUTAZIONE PER LA PARTECIPAZIONE

Il consenso sul principio di una maggiore partecipazione pubblica ai processi decisionali ha portato ad elaborare dei metodi di valutazione, finalizzati a realizzare la partecipazione popolare ai processi decisionali. Tra i metodi dell'ultima generazione troviamo la Valutazione Partecipativa (Particzpatory Evaluation) e la Valutazione del Conferimento di Responsabilità (Empowerment Evaluation). La Valutazione Democratica (Democratic Evaluation) che include la Valutazione Partecipativa e la Valutazione del Conferimento di Responsabilità, pur apparendo interessante, soffre di una carenza di strumenti operativi, tale da limitare il suo contributo alle decisioni effettive. Il nostro scopo è quello di dimostrare che la Valutazione Democratica può essere messa in pratica soltanto qualora vengano associati e considerate fasi dello stesso processo di valutazione, la Valutazione del Conferimento di Responsabilità, la Valutazione Partecipativa e la Valutazione Basata su Criteri Multipli (Multicriteria Evaluation). Questi sono gli elementi che compongono quello che chiamiamo "Modello per l'Attuazione della Valutazione Democratica" (Model of the Operationalization for Democratic Evaluation). In particolare, il Metodo di Supporto Decisionale Basato su Criteri Multipli sembra essere uno strumento per la negoziazione e un supporto del processo decisionale che garantisce la coerenza e la natura pratica della Valutazione Democratica.

In primo luogo, occorre distinguere tra Valutazione Democratica e Valutazione Amministrativa (Administrative Evaluation), facendo particolare attenzione al simultaneo esercizio di potere e contropotere consentito dall'uso della Valutazione Democratica. In secondo luogo, presentiamo le tre fasi della Valutazione Democratica: Valutazione del Conferimento di Responsabilità, Valutazione Partecipativa e Valutazione Basata su Criteri Multipli.

IL PRINCIPIO DELLA PARTECIPAZIONE PUBBLICA NEI PROCESSI DECISIONALI

Nei periodi di grande espansione economica le nostre società hanno tentato di costruire un ordine sociale indipendente dai cicli economici, nei periodi di difficoltà economica riscopriamo il problema insormontabile dei limiti delle risorse. È necessario fare nuove scelte riguardo alla natura dei servizi pubblici. I vincoli di bilancio comportano una maggiore razionalizzazione nell'allocazione delle risorse pubbliche. Ad esempio, a partire dal 1990, qualsiasi nuovo progetto basato sui fondi strutturali europei, a livello europeo, 116

statale o regionale, deve essere in grado di dimostrare, attraverso una valutazione ex ante, che i benefici sono compatibili con i fondi spesi (Conseil Scientifique de l'Evaluation, 1991). Anche la valutazione ex post dell'efficienza dei servizi pubblici sta diventando più sistematica. Le nuove condizioni per l'assegnazione delle risorse pubbliche, di fatto, incrementano la domanda di valutazioni in tutte le fasi temporali: ex ante, come strumento del processo decisionale, o ex post, come strumento dell'analisi critica dei modi di organizzazione e dell'uso delle risorse.

I vincoli di bilancio, che vengono imposti nei processi decisionali pubblici, portano ad una modifica dell'oggetto e della natura delle scelte politiche.

E più probabile che le future decisioni pubbliche rappresenteranno una scelta, nell'ambito della medesima sfera, tra politiche alternative (ad esempio: tra due politiche in merito al servizio sanitario pubblico), o tra politiche attinenti a sfere diverse (ad esempio: una scelta tra una politica sociale o economica del tipo "scegliere se costruire un ospedale o un'autostrada"), invece di una scelta tra soluzioni tecniche alternative (ad esempio: nel servizio sanitario, la scelta tra diverse alternative terapeutiche). I futuri processi decisionali pubblici, inoltre, possono essere di natura più collettiva, invece che individuale. La relativa scarsità dei fondi pubblici, costringendoci a scegliere tra diversi tipi di politiche pubbliche, determina una caduta del consenso che esisteva in precedenza sugli obiettivi di politica pubblica. Pertanto, non ci troviamo più di fronte ad un problema semplicemente "tecnico" e cioè quello di individuare le modalità migliori per il raggiungimento di un dato obiettivo.

La questione è ora di natura strategica: i precedenti obiettivi della politica pubblica sono dz giudicarsi positivi? Questo interrogativo evidenzia la crisi di identità che sta interessando la società. Mettendo in discussione gli obiettivi delle politiche pubbliche, mettiamo in discussione anche i valori rappresentati dalla stessa politica pubblica (Ewald, 1986). L'oggetto della nostra discussione non è più puramente tecnico (una scelta tra diversi mezzi di attuazione), ma piuttosto di identità (una scelta tra i valori che le politiche possono mobilitare) (Plottu, 1996). Questo cambiamento delle questioni di base è evidente in tutta l'evoluzione del concetto di Valutazione della politica pubblica.

La prima risposta, sia che fosse ispirata al Sistema di Pianificazione, Programmazione, Bilancio (PPBS), impiegato negli UsA dal 1965 in poi, o al sistema della Razionalizzazione delle Scelte di Bilancio (RBc) sviluppato in Francia negli anni Settanta, è stata data partendo da una concezione soltanto amministrativa della valutazione (Guba e Lincoln, 1989). Secondo questa 117

concezione, le risorse di una organizzazione devono essere usate il più efficacemente possibile per raggiungere i relativi obiettivi. Questa fondamentale esigenza si è spesso accompagnata a quella di migliorare l'attuazione delle politiche pubbliche.

A seguito del relativo insuccesso dei sistemi PPBS e RBC, si è sviluppata una nuova generazione di metodi di valutazione, in risposta alla crescente esigenza dei responsabili delle decisioni pubbliche di vedere legilLimale le loro decisioni sia dai gruppi destinatari delle politiche, sia dal pubblico e dall'elettorato contribuente. Occorre tenere maggior conto delle esigenze degli utenti o dei beneficiari, specialmente se insoddisfatti. Tale concezione della valutazione soddisfa il bisogno di trasparenza nell'uso dei fondi pubblici, essendo la trasparenza alla base del dibattito democratico. Inoltre, è influenzata dalle difficoltà dello Stato di trovare una soluzione ai conflitti che si verificano dopo che le decisioni pubbliche sono state prese e che potrebbero ritardare o arrestare l'attuazione dei progetti pubblici.

Possiamo indicare tre motivazioni che giustificano il ricorso alla Valutazione Democratica: una motivazione "ideologica". La Valutazione Democratica tenta di rispondere a interrogativi riferiti ai valori, mettendo in discussione gli obiettivi delle politiche. Consentendo ai cittadini di partecipare ai processi decisionali pubblici attraverso gruppi di valutazione tematica, commissioni o comitati pilota (sono possibili numerose combinazioni), sarà possibile prendere meglio in considerazione i loro interessi ex ante, nonché incoraggiare gli stessi a riflettere sui propri sistemi di valori. Questo tipo di procedura interroga, direttamente, gli individui in merito alle loro preferenze sociali e mira a produrre decisioni che risulteranno conformi alle aspettative collettive. La partecipazione dei cittadini è un elemento fondamentale della procedura, considerato che essi esprimono valori che la procedura tenta di individuare. La procedura, inoltre, aspira ad essere egualitaria, con elementi della "giustizia garantita da una procedura perfetta" proposta da Rawls (1971). Si tratta di una procedura caratterizzata da due elementi dominanti: l'esistenza di un criterio indipendente (l'uguale partecipazione di ciascun cittadino ai processi decisionali) per definire che cosa è una decisione corretta e giusta e la procedura stessa (il principio della Valutazione Democratica) per garantire che il risultato desiderato verrà ottenuto (Gamel, 1991); una motivazione "politica". La Valutazione Democratica, mezzo di espressione delle scelte collettive, riveste interesse anche per i responsabili del118

le decisioni pubbliche. Sia ex ante (alla nascita dei progetti pubblici), sia ex post (in fase di realizzazione), la Valutazione Democratica può essere uno strumento strategico in sede di realizzazione di progetti proposti a livello politico. Il fatto che i cittadini prendano parte ai processi decisionali pubblici offre ai politici l'opportunità di trasmettere un'immagine positiva dei progetti che essi sostengono. Questo può garantire un maggiore sostegno ad un progetto da parte della collettività, evitando in questo modo conflitti che potrebbero sorgere in un secondo tempo, in quanto non necessariamente i cittadini condivideranno il progetto. Favorendo lo sviluppo della valutazione partecipativa si evitano i costi dei conflitti. Questo ci porta alla terza motivazione; 3) una motivazione "economica". La Valutazione Democratica, favorendo la partecipazione generale della collettività ai processi decisionali e la verifica ex ante dei relativi interessi, ci consente di evitare conflitti che potrebbero sorgere ex post e che potrebbero avere costi molto elevati a causa dei ritardi nella realizzazione dei progetti. Il costo addizionale sostenuto per la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali, rispetto al processo decisionale "puramente amministrativo" (vale a dire senza consultare affatto la collettività), deve essere confrontato con i costi "evitati".

La Valutazione Democratica, così come descritta, costituisce una strategia per la raccolta dei dati, il controllo di qualità e il simultaneo esercizio di potere e contropotere (Floc'hlay, 1997).

Nella Valutazione Amministrativa la struttura del processo decisionale, e in particolare dei progetti sottoposti alla valutazione, viene assunta come data a priori. L'approccio alla decisione deriva da una razionalità preesistente e indipendente. La fase di valutazione coinvolge il politico e l'esperto, sebbene il loro rapporto sia raramente stabile. O la valutazione appare meramente come la garanzia di una decisione puramente politica, oppure la decisione viene presa interamente dai tecnici, senza entrare nei processi politici. La collettività non viene chiamata a partecipare al processo decisionale, anche se potrà essere chiamata a dare un contributo. Nella concezione amministrativa della valutazione, sembra esservi soltanto una fonte di potere.

Non si riscontra, tuttavia, l'assenza del contropotere, ma semplicemente un differimento temporale tra l'esercizio del potere (ex ante) e quello del contropotere (ex post). Il contropotere viene esercitato durante l'effettiva attuazione, e viene evidenziato dai ritardi o addirittura dalla contestazione della validità dei progetti pubblici. In Francia, possiamo citare i conflitti in merito ai piani delle nuove linee ferroviarie ad alta velocità o delle nuove autostrade.

119

La Valutazione Democratica consente ai cittadini di prendere parte ai processi decisionali. Il processo di valutazione diventa un processo di negoziazione tra i responsabili politici delle decisioni, gli esperti e la collettività. La struttura della materia oggetto di scelte non viene fissata a priori, ma si evolve nel corso della negoziazione. In questo modo, possono nascere nuovi progetti mentre, parallelamente, vengono prese le decisioni. Con questo metodo, l'approccio alle decisioni deriva da una razionalità procedurale. Il processo di valutazione/negoziazione deve culminare con il consenso o con un compromesso. La Valutazione Democratica consente l'espressione simultanea del potere e del contropotere, in modo tale che l'attuazione di una decisione provochi una minore opposizione, essendo già stato espresso il contropotere.

COME ARTICOLARE LA VALUTAZIONE DEMOCRATICA

La Valutazione Democratica, in base alle definizioni precedenti, presenta due caratteristiche essenziali: 1) partecipano i cittadini ai processi decisionali, 2) le decisioni sono il risultato di un processo di negoziazione.

Per essere effettiva, la partecipazione del pubblico al processo decisionale presuppone l'esistenza di rappresentanti (associazioni, gruppi di interesse, ecc.) che dovrebbero essere negoziatori affidabili e rappresentanti degli interessi del grande pubblico. In effetti, però, sono pochi i gruppi sufficientemente organizzati per poter prendere parte al processo di negoziazione.

Il contropotere, pertanto, sembra essere disorganizzato in confronto a strutture quali i sindacati e i partiti politici, e si esprime in modo isolato, senza alcuna reale influenza sulle decisioni. Mentre la creazione spontanea di gruppi di interesse ex post, come espressione della reazione del contropotere, risulta frequente, la mobilitazione e la federazione di individui, ex ante, è molto più difficile, mentre la Valutazione Democratica presuppone, sin dall'inizio, l'organizzazione e la strutturazione del contropotere.

La Valutazione del "Conferimento di Responsabilità" (Empowerment Eva1utation) 1 , che mira a portare la collettività al punto di essere in grado di valutare e di assumere la responsabilità di se stessa (Fetterman, 1994) è, perciò, il primo indispensabile passo di una efficiente attuazione della Valutazione Democratica. Essa permette la nascita e la strutturazione del contropotere, attraverso il quale il pubblico interessato è in grado di "parlare con una sola voce Una seconda fase della Valutazione Democratica, che chiamiamo Valutazione Partecipativa (Partecipatory Evaluation), è il processo di negoziazione 120

tra i responsabili delle decisioni pubbliche (potere) e la collettività (contropotere), dove ciascuno dei due soggetti tenta di tutelare i propri interessi attraverso la negoziazione.

La terza fase della Valutazione Democratica - la Valutazione Basata su Criteri Multipli (IVIult-icriteria Evaluation) - è finalizzata a rendere praticabile la Valutazione Partecipativa, proponendo un quadro formale per lo sviluppo della negoziazione, e favorendo il processo decisionale (processo di selezione dei progetti).

Svariati metodi (Delphi, Abaque de Réignier, MACTOR, ecc.) possono essere impiegati durante le fasi della Valutazione del Conferimento di Responsabilità e della Valutazione Partecipativa (Godet, 1991). Questi metodi sono i veri strumenti della strutturazione del problema oggetto del processo decisionale e dell'organizzazione del processo di negoziazione. Pensiamo, in particolare, all'impiego del metodo Abaque de Réignier per la fase di Valutazione del Conferimento di Responsabilità, e del metodo MACTOR (analisi dello svolgimento del ruolo) per la fase della Valutazione Partecipativa. Comunque, nessuno di questi metodi offre, di fatto, un algoritmo che ci consenta di trovare una soluzione. Solo il Metodo di Supporto Decisionale Basato su Criteri Multipli sembra essere in grado di superare il quadro formale della negoziazione e di fornire un algoritmo per una soluzione negoziata. E, perciò, complementare alle fasi di Valutazione del Conferimento di Responsabilità e di Valutazione della Partecipazione.

Occorre sottolineare che per realizzare la Valutazione Democratica sono necessarie tutte e tre le fasi (di Valutazione del Conferimento di Responsabilità, Valutazione Partecipativa e Valutazione Basata su Criteri Multipli). Non sarebbe realistico immaginare una vera partecipazione dei cittadini al processo decisionale senza un minimo livello organizzativo (ruolo di Valutazione del Conferimento di Responsabilità). Allo stesso modo, la partecipazione dei cittadini al processo decisionale (che comporta un processo di negoziazione, il ruolo di Valutazione Partecipativa) ha un significato solo se sfocia in una decisione concreta, che è la possibilità creata dal Metodo di Supporto Decisionale Basato su Criteri Multipli. Lungo le stesse linee, ciascuna delle diverse fasi (Valutazione del Conferimento di Responsabilità, Valutazione Partecipativa e Valutazione Basata su Criteri Multipli) può essere giustificata se anche le altre due fasi sono state eseguite. Il ruolo del valutatore nella Valutazione Democratica, a seconda della fase del processo di valutazione, è quello di facilitare, istruire (Valutazione del Conferimento di Responsabilità), e mediare (Valutazione Partecipativa) (Fetterman e al., 1996).

121

L'attuazione della Valutazione Democratica è garantita dall'esecuzione dei tre diversi punti di forza del processo di Valutazione Democratica: la Valutazione del Conferimento di Responsabilità, concepita come un processo di apprendimento dell'esperimento di valutazione da parte della collettività; la Valutazione Partecipativa, concepita come un processo dinamico di negoziazione tra gli attori della decisione e di costruzione della materia oggetto delle scelte; la Valutazione Basata su Criteri Multipli, concepita come un supporto al processo decisionale, che consente al processo di Valutazione Democratica. di sfociare nella selezione e nell'attuazione di una soluzione ai problemi oggetto di scelta che emergono.

Dal punto di vista dei responsabili delle decisioni pubbliche, due possono essere le principali obiezioni: Primo. La democrazia rappresentativa presuppone che il politico eletto abbia il mandato di agire per conto dei cittadini. Favorendo il ricorso alla Valutazione Democratica, si ammette che gli eletti non sono in grado di adempiere alla loro missione efficacemente. Ciò può portare a delegittimare il politico eletto.

Secondo. Esiste il timore che il conflitto dei sistemi di valori si esprima come opposizione muro contro muro dei diversi punti di vista, bloccando qualsiasi possibile negoziazione tra gli attori, e rafforzando i loro dubbi. Ciò evoca il timore di una situazione di chiusura e mette in dubbio la portata effettiva dell'attuazione pratica del processo di negoziazione in relazione al processo decisionale.

Esiste un approccio ad un supporto decisionale i cui fondamenti logici siano in accordo con lo spirito della Valutazione Democratica, così da garantirne la praticabilità? L'interesse concettuale della Valutazione Democratica, e la sua attenzione alla attuale preoccupazione dei responsabili delle decisioni pubbliche, in confronto alla Valutazione Amministrativa, non può nascondere un punto debole: la mancanza di praticabilità della Valutazione Partecipativa, in confronto alla Valutazione Amministrativa. La logica di quest'ultima è quella di un calcolo economico tradizionale la cui praticabilità è garantita dalla analisi costi-benefici come metodo di supporto decisionale. Coloro che sostengono la Valutazione Partecipativa sono spesso sospettati di rifiutare il principio stesso della valutazione (Stufflebeam, 1994). Pertanto, nella Valutazione Democratica, dobbiamo dissipare questi sospetti e dimostrarne la praticabilità.

IL METODO DI SUPPORTO DECISIONALE BASATO SU CRITEPJ MULTIPLI

Il Metodo di Supporto Decisionale Basato su Criteri Multipli (Bana e Costa, 1990) può garantire la praticabilità della Valutazione Democratica. Infat122

ti, questo metodo sembra essere un potente strumento di supporto sia della negoziazione che del processo decisionale (Fayat, 1993). Pertanto ha due funzioni, quelle di un quadro formale. Il Metodo di Supporto Decisionale Basato su Criteri Multipli, in confronto a metodi piut convenzionali di valutazione, basati su una logica amministrativa, ci permette di considerare criteri decisionali quantitativi e qualitativi senza ridurre i diversi punti di vista degli attori ad un solo indicatore (di solito in forma monetaria). I Metodi di Valutazione Basati su Criteri Multipli mirano a ricreare le diverse dimensioni del problema da sottoporre al processo decisionale, e le diverse opinioni degli operatori coinvolti. A questo livello, la Valutazione Basata su Criteri Multipli e il principio della Valutazione Democratica prendono una posizione "costruttiva", rifiutando di considerare l'esistenza di una sola verità, e accettando la natura soggettiva di qualsiasi valutazione. Riconoscere la natura soggettiva di qualsiasi giudizio di valore, e perciò distinguere i fatti oggettivi dal giudizio di valore, è un punto di partenza necessario in una negoziazione concepita come un processo dinamico finalizzato alla costruzione collettiva di una soluzione negoziata, e non come un semplice conflitto di interessi. La Valutazione Basata su Criteri Multipli 2, nel suo approccio al processo decisionale, sembra un metodo ben adattato alla Valutazione Democratica.

Possiamo mettere in evidenza diverse fasi nell'attuazione di una Valutazione Basata su Criteri Multipli, che presentiamo qui nel quadro del metodo ELECTRE i (Roy, 1985, 1990): Fase 1: Definizione delle azioni possibili (alternative), ad es: progetti rivali.

Fase 2: Elaborazione di pertinenti criteri quantitativi e qualitativi per il processo decisionale.

Fase 3: Valutazione dell'efficienza delle alternative per ciascun criterio. In questo modo, possiamo ottenere una tabella di efficienza (matrice della valutazione).

Fase 4: I partecipanti al processo decisionale esprimono l'importanza relativa che essi attribuiscono a ciascun criterio decisionale (coefficienti relativi alla importanza). In questo modo, possiamo ottenere una ponderazione specifica dei criteri per ciascun partecipante.

Fase 5: Possiamo fare un'ipotesi: l'azione i è più efficiente dell'azione j.

Quindi proviamo a confermare questa ipotesi confrontando l'efficienza delle due azioni a fronte di ciascun criterio (confronto delle alternative a due a due). Possiamo così ottenere l'indicazione di concordanza (ipotesi confermata) e l'indicazione di discordanza (ipotesi non confermata).

Fase 6: Allo scopo di affermare che l'azione i è.più efficiente dell'azione 123

possiamo stabilire un livello minimo (soglia) di conferma da raggiungere e un livello massimo di mancata cùnferma da non superare.

Fase 7: Possiamo così ottenere un grafico che mostra il "miglioramento".

Notiamo che possiamo ottenere tanti di questi grafici quanti sono i vettori dei pesi. In questo modo, è possibile determinare i progetti che registrano un consenso o i compromessi che sono accettabili per tutti i partecipanti al processo decisionale.

Fase 8: Possiamo variare i parametri del problema oggetto di scelta (livelli di concordanza ecc.) per una migliore definizione della raccomandazione da fornire, e mettere in risalto i progetti suscettibili di aggiudicarsi il consenso più vasto (analisi di sensibilità).

Un esercizio concreto Presenteremo ora un esempio di approccio, basato su Criteri Multipli, al problema del processo decisionale. Questo esempio è stato ispirato dal lavoro che abbiamo eseguito nel 1993 usando il Metodo del Supporto Basato su Criteri Multipli nella questione della cooperazione intermunicipale (Plottu, 1993). Questo esempio ci permette di illustrare e chiarire ciascuna fase del metodo basato su Criteri Multipli presentato sopra. Questo esempio intermunicipale è interessante per due motivi. In primo luogo, mette insieme i diversi attori del processo decisionale, aventi ciascuno sistemi di valori potenzialmente in conflitto. La decisione sarà, pertanto, il risultato di una procedura di negoziazione tra interessi economici, responsabili politici (rappresentanti locali) e popolazione. In secondo luogo, gli elementi necessari per il processo decisionale (i criteri di scelta) sono sia quantitativi che qualitativi (motivazioni politiche, finanziarie ed emotive, ecc.). Queste due caratteristiche possono trovarsi in numerose decisioni in merito a infrastrutture e risorse della comunità (treni ad alta velocità, autostrade, ecc.)

Abbiamo in precedenza evidenziato le caratteristiche della Valutazione Democratica, e cioè che la struttura della materia oggetto della scelta non viene fissata a priori, ma si evolve attraverso la negoziazione. Pertanto, possono emergere nuovi progetti mentre vengono prese le decisioni. Il seguente esempio illustra tale affermazione. Contrariamente al processo decisionale tradizionale (struttura predefinita sul problema oggetto della scelta), i dati originari sul problema (alternative, criteri, attori del processo decisionale) nell'approccio al processo decisionale basato su Criteri Multipli, costituiscono solo i fondamenti sui quali sarà basato il processo di negoziazione tra gli operatori coinvolti. Il problema oggetto della scelta viene costruito gradualmente, evolvendosi con il processo di negoziazione. Come dimostreremo nell'esempio, il Metodo di Supporto Decisionale Basato su Criteri Multipli non farà discendere una soluzione dalle opzioni originali, ma favorirà il sorgere di nuove opzioni.

Il contesto dello studio effettuato Data la grande quantità di communes, o comunità (circa 36.000), il governo francese ha da lungo tempo incoraggiato lo sviluppo della cooperazione tra le stesse, in modo particolare in campo economico. Esistono diverse formule di intermunicipalità, dalla cooperazione 124

selettiva su un determinato progetto tra comunità che restano indipendenti, alla fusione e alla creazione di una entità sovramunicipale (la condivisione delle risorse e delle competenze delle municipalità). La finalità del nostro studio è stata quella di aiutare un certo numero di comunità rurali a rispondere alla domanda: hanno qualcosa da guadagnare dalla cooperazione e, in caso affermativo, secondo quali modalità? In questo esempio, verranno presentati tre tipi di operatori che prendono parte al processo decisionale: i rappresentanti locali, la popolazione, e coloro che rappresentano gli interessi economici locali.

Le diverse fasi del Ivletodo di Supporto Decisioriale Basata su Criteri Multipli Fase 1: "Definizione delle azioni possibili (alternative)". Questa fase consiste nel prendere in considerazione le diverse possibili forme di cooperazione in aggiunta alla possibilità dello status quo (cioè la scelta di non cooperare). Per semplificare questo concetto, presentiamo due forme: alternativa "integrazione" (INTEG), che implica la fusione delle risorse delle municipalità e la creazione di una struttura sovramunicipale gestita da un ente che sia finanziariamente autonomo; alternativa "cooperazione" (Coop), che consente la cooperazione selettiva, su particolari progetti, tra comunità che restano indipendenti.

Assieme all'alternativa "status quo" (STAQUO), prenderemo pertanto in considerazione tre opzioni.

Fase 2: "Elaborazione di criteri pertinenti per il processo decisionale". Lo scopo di questa fase è quello di tradurre in criteri di scelta i diversi elementi giudicati pertinenti dai responsabili delle decisioni, allo scopo di scegliere tra le tre opzioni proposte. In questa fase, il valutatore svolge un importante ruolo, in particolare: a) aiutare i responsabili delle decisioni ad esprimere gli elementi che essi ritengono importanti per la scelta, e b) tradurre questi diversi elementi in criteri che riflettano le materie di interesse dei responsabili delle decisioni.

Nel nostro esempio, tre tipi di materie caratterizzano il problema del processo decisionale per i rappresentanti locali, la popolazione e gli interessi economici: 1) impatto, per quanto riguarda lo sviluppo economico; 2) impatto, a livello del potere decisionale del Comune, e 3) impatto, a livello finanziario o impositivo.

Questi tre tipi di materie vengono tradotti nei seguenti criteri: a) il numero dei progetti che la struttura è in grado di sostenere; b) il peso relativo della comunità nell'ambito della struttura (distribuzione dei poteri); c) la somma che lo Stato intende concedere alla struttura.

Fase 3: "Matrice di Valutazione". Siamo ora in grado di prendere in considerazione l'efficienza di tre alternative in base a tre criteri. Abbiamo deciso di rappresentare l'efficienza su una scala ordinale (Tabella 1). In questo modo, attribuiremo un punteggio all'efficienza, da "pessimo" a "ottimo", a ciascuna alternativa, in relazione a ciascun criterio, da i a 7.

Tabella I. Scala Ordinale 1

2

3

4

5

6

7

pessimo

mediocre

passabile

medio

molto buono

buono

ottimo 125

Su questa base, otteniamo la seguente matrice di valutazione (Tabella 2):

Tabella 2. Matrice di valutazione Ponderazione Alternative Criteri

Progetti economici Distribuzione dei poteri Contributi finanziari

»

INTEG

COOP

STA quo

6 2 5

4 5 2

2 7 1

Rappres. Popolaz. locali

2 4 1

4 2 1

Rappres. interessi economici 4 1 2

Illustrazione della tabella: l'alternativa INTEG consente l'attuazione di un certo numero di progetti economici. È relativamente efficiente nell'ambito di questo criterio. Possiamo pertanto assegnarle un punteggio di 6. INTEG è molto meno efficiente nel mantenere un equilibrio delle modalità di distribuzione del potere, e perciò le viene assegnato solo il punteggio 2. STAQUO è indicata in termini meno positivi come fattore che porta ad ulteriori progetti economici (punteggio 2), ma preserva una distribuzione dei poteri tra le comunità (punteggio 7), e così via.

Questa matrice di valutazione - a cui abbiamo aggiunto la ponderazione dei criteri per categoria di responsabili delle decisioni - offre una visione sintetica dei problemi oggetto di decisione. Questa trasparenza nel delineare i differenti elementi permette che la negoziazione inizi su un piano non ambiguo.

Fase 4: "Ponderazione dei criteri". Per i responsabili delle decisioni, i criteri prescelti non hanno tutti la stessa importanza nell'ambito del processo decisionale. È perciò necessario attribuire a ciascun criterio un peso relativo, allo scopo di rispecchiare l'importanza relativa attribuita dal responsabile delle decisioni a ciascun particolare criterio. Il ruolo del valutatore è quello di assistere i responsabili delle decisioni nell'esprimere i loro sistemi di valori. Esistono molte diverse tecniche di scelta dei pesi. Noi abbiamo optato per la tecnica di "analisi del rapporto" che consiste nello stabilire un legame tra i criteri in base alla loro importanza. Nel nostro esempio (Tabella i rappresentanti locali hanno attribuito alla "distribuzione dei poteri" una importanza quattro volte maggiore rispetto ai "contributi finanziari". Cosicché, il criterio dei contributi finanziari rappresenta un peso di 1, e la distribuzione dei poteri un peso di 4. Allo stesso modo, il criterio dei "progetti economici" ha un'importanza doppia rispetto ai contributi finanziari, e solo la metà del criterio della distribuzione dei poteri.

I pesi rispecchiano il sistema di valori per ciascun responsabile delle decisioni. Questo esercizio di attribuzione dei pesi ai criteri costringe i partecipanti al processo decisionale a rivelare le loro preferenze.

126

Tabella 3. Ponderazione At-tori Criteri

Rappres. locali

Popolazione

Rappres. interessi economici

2 4 1

4 2 1

4 1 2

Progetti economici Distribuzione dei poteri Contributi finanziari

Infatti, mano a mano che ciascun sistema di valori viene confrontato con le alternative e contribuisce a dar forma alla decisione finale, i partecipanti sono costretti a "scoprire le proprie carte".

Fase 5: "Confronto delle alternative a due a due". Come possiamo stabilire se un'alternativa è migliore di un'altra? La risposta a questa domanda, derivante dal metodo basato su Criteri Multipli, non consiste tanto nell'individuare l'alternativa ottimale, quanto nel decidere una buona soluzione. Lo scopo è quello di scegliere una soluzione che appaia relativamente buona secondo alcuni criteri, senza essere pessima secondo altri. Confronteremo le alternative a due a due. A tale scopo, partiamo dal presupposto che: l'alternativa i è più efficiente dell'alternativa j. Controlleremo i criteri su cui si basa tale presupposto, vale a dire che il punteggio ottenuto dall'alternativa i, su un dato criterio, sia almeno altrettanto buono di quello ottenuto daj sul medesimo criterio.

Nel nostro esempio, partiremo dal presupposto che l'alternativa INTEG sia più efficiente dell'alternativa Coop. Questo presupposto è confermato per i criteri "progetti economici e contributi finanziari", ma non per i! criterio "distribuzione dei poteri". Di conseguenza, possiamo stabilire un indice di concordanza sommando i pesi dei diversi criteri e controllando il presupposto rispetto alla somma totale dei diversi pesi. In questo caso, pertanto, abbiamo (1 + 2)17 con i pesi dei rappresentanti locali, (4 + 1)17 con i pesi della popolazione, e (4 + 2)17 con i pesi dei rappresentanti economici.

Tabella 4. Tabella di concordanza

Alternative

Rappr. locali Coop

INTEG

0,43

INTEG COOP STAQUO

0,57 0,57

0,57

Popolazione STÌ1QUO

0,43 0,43

Alternative

INTEG

0,71

INTEG

Coop STAQUO

COOP

0,28 0,28

STJ1QUO

0,71 0,71

0,28 127

Rappresentanti economici Alternative

JNTEG

INTEG COOP STAQUO

0,14 0,14

COOP

STA QUO

0,86

0,86 0,86

0,14

Ripetendo questa operazione, è possibile creare una tabella di concordanza (Tabella 4) riferita al sistema di ponderazione di ciascun operatore.

Allo stesso modo, possiamo stabilire un indice di "discordanza" quando il presupposto che INTEG sia piui efficiente dell'alternativa Coop non sia stato confermato. Questo è il caso del criterio "distribuzione dei poteri". In questo caso, l'indice di discordanza verrà creato come segue: prendendo la differenza tra i punteggi dati, e quindi moltiplicandola per il peso del criterio, otteniamo un risultato massimo (nella misura in cui esistono diversi criteri di discordanza); cioè, nell'esempio dato: (5 - 2) x 4 per la ponderazione dei rappresentanti locali, (5 - 2) x 2 nel sistema di valori della popolazione, e (5 - 2) x 1 nel sistema di valori dei rappresentanti economici locali. Ripetendo questa operazione, è possibile creare una tabella di discordanza (Tabella 5) riguardo alla ponderazione di ciascun partecipante.

Tabella 5. Tabella di discordanza Rappresentanti locali Alternative INTEG COOP STAQUO

Popolazione

INTEG

4 8

COOP

STA QUO

12

20 8

Alternative INTEG COOP STAQU0

4

INTEG

8 16

Coop

STA QUO

6

10 4

8

Rappresentanti economici Alternative INTEG COOP STAQUO

INTEG

COOP 3

8 16

STA QUO

5 2

8

Fase 6: "Minimo livello di concordanza e massimo livello di discordanza". Per affermare che una alternativa è più efficiente di un'altra, il livello di concordanza deve raggiungere un certo livello senza che l'indice di discordanza vada oltre un certo punto. Questi livelli di discordanza e di concordanza traducono effettivamente le esigenze del responsabile delle decisioni (a livello di veto) nel definire la qualità della soluzione. Nel nostro esempio, abbiamo scelto un indice di concordanza (i) che deve essere superiore o pari a 4/7 e un indice di di128

scordanza (id) che deve essere inferiore o pari a 6: i >= 4/7 e id >= 6. Quando si verificano entrambe queste due condizioni, possiamo affermare che la alternativa i è più efficiente dell'alternativa j. Graficamente ciò equivale a i—>j. In una fase successiva, sarebbe possibile variare i livelli di concordanza e/o discordanza, e vederne gli effetti sul grafico del miglioramento (sebbene in questa fase non sia stata effettuata l'analisi di sensitività).

Fase 7: "Grafico di evidenziazione del miglioramento". Nel nostro esempio, otteniamo tre grafici del miglioramento, che corrispondono ai tre sistemi di ponderazione (Figura 4). È possibile osservare che non c'è una soluzione consensuale. Sebbene l'alternativa INTEG appaia una buona scelta per la popolazione e per i rappresentanti economici, essa non è una soluzione accettabile per i rappresentanti locali.

Coo

INTEG

INTEG

INTEG

_ STAQUO

7

Coop

Rappresentanti locali

»

STAQUO

Popolazione

_

Coop

»

STAQUO

Rappresentanti economici

Figura 4. Grafico del miglioramento In questa fase del processo decisionale, potremmo essere tentati di ammettere il fallimento. Ma in effetti, la trasparenza del processo decisionale basato su Criteri Multipli consente a ciascun partecipante di avere una migliore comprensione delle opinioni e del sistema di valori degli altri partecipanti. Il quadro complessivo proposto dall'approccio basato su Criteri Multipli conduce così alla generazione di nuove soluzioni negoziate. Nel nostro esempio è evidente che l'ostacolo alla scelta dell'alternativa INTEG deriva dalla sua debole efficienza sul criterio distribuzione dei poteri. Una soluzione a questo problema consisterebbe nell'allargare la zona della cooperazione intermunicipale ad altre comunità, permettendo così una migliore distribuzione dei poteri. La procedura di negoziazione tra i diversi partecipanti al processo decisionale potrebbe così essere lanciata dalla creazione di nuove alternative.

ALCUNE CONCLUSIONI

L'approccio basato su Criteri Multipli per assistere il processo decisionale favorisce la ricerca e la creazione di soluzioni innovative da parte dei partecipanti stessi, e la creazione di nuove alternative per effetto della trasparenza della procedura di negoziazione garantita da tale approccio.

Per tornare al nostro esempio, la riflessione, che era iniziata sulla cooperazione intermunicipale, viene rilanciata dalle proposte di nuove forme di cooperazione intermunicipale.

129

Questo esempio ci ha permesso di sostenere che il Metodo di Supporto Decisionale Basato su Criteri Multipli consente di mettere in pratica il principio della Valutazione Democratica, in quanto: offre un quadro formale per la negoziazione, organizzando il processo di negoziazione e fissandone le regole (fase 1-8). Struttura il processo di negoziazione e ne facilita lo sviluppo, una volta che tutti gli attori che partecipano alla negoziazione abbiano accettato le regole e siano consapevoli delle diverse fasi del processo. I partecipanti sono costretti a rivelare i propri sistemi di valori (fase 4), se vogliono che la loro opinione influenzi la decisione. La Valutazione basata su Criteri Multipli, come supporto nella negoziazione, migliora la trasparenza del processo decisionale; permette che il potere e il contropotere vengano esercitati contemporaneamente. Attraverso la traduzione delle diverse opinioni degli attori in criteri quantitativi e qualitativi (fase 2), e la determinazione di un vettore di pesi (coefficienti di importanza, fase 4) pertinenti a ciascun attore, la Valutazione basata su Criteri Multipli ricrea le convinzioni di base degli attori. In questo modo, la negoziazione non mira a discutere i sistemi di valori ma, invece, a definire le soluzioni che siano accettabili per tutte le parti. La negoziazione può, pertanto, avere una natura collaborativa ed incoraggiare la ricerca di nuove soluzioni. A questo livello, il processo decisionale è basato sulla deliberazione, in quanto deriva da una razionalità procedurale. Le soluzioni negoziate che possono emergere (fasi 7 e 8) derivano da un processo decisionale procedurale (soddisfazione) e non da un processo di ottimizzazione. Perciò, l'esistenza di un livello di veto (livello di concordanza e discordanza, fase 6) mette in grado ognuno di definire la portata di ciò che si considera inaccettabile. Il confronto delle soluzioni che sono accettabili per ciascun attore (prendendo in considerazione diversi vettori di pesi) può indicare se esiste o meno una soluzione negoziata (fase 7). È da notare che la partecipazione dei cittadini al processo decisionale (l'espressione simultanea ex ante di potere/contropotere) dovrebbe limitare i rischi di opposizione cx post all'attuazione della soluzione.

Nel quadro della Valutazione Democratica, la decisione appare perciò il risultato dell'espressione di potere/contropotere nel processo dinamico della negoziazione. Il Metodo di Supporto Decisionale Basato su Criteri Multipli fornisce un quadro formale per lo sviluppo di questa Valutazione Democratica, organizzando il processo di negoziazione e rendendo più facile il processo decisionale.

A questo punto, si può dire - più in generale - che la Valutazione Democratica si presenta con chiarezza come un caso di razionalità procedurale. Il 130

processo di valutazione e il contrasto tra i progetti degli attori può essere analizzato come la costruzione progressiva della materia oggetto di scelta. La decisione finale è così il risultato del processo di valutazione/negoziazione. Questo approccio al processo decisionale è particolarmente adeguato alle scelte che comportano incertezza, o alle scelte che richiedono la messa in discussione dei valori, dato che consente ai parametri della materia oggetto di scelta di evolversi durante il processo di valutazione. Quando c'è incertezza, le decisioni divengono sempre piii spesso decisioni politiche, cosa che implica un maggior controllo della collettività sulle scelte pubbliche.

L'esistenza di un contropotere è fondamentale in una democrazia. L'esercizio di potere e contropotere nel processo di valutazione sembra perciò indispensabile per le decisioni che concernono il futuro di una data comunità. La accresciuta partecipazione dei cittadini nelle fasi che sono a monte del processo decisionale, per sua natura rafforza la legittimazione e l'accettazione dell'intervento pubblico da parte della collettività. Il responsabile delle decisioni eletto può, così, sperare che questo approccio partecipativo al processo decisionale contribuirà ad evitare i costi finanziari e politici legati ad una espressione ex post del contropotere (opposizione da parte della popolazione alla fase di attuazione dell'intervento pubblico). Abbiamo dimostrato che la Valutazione Democratica consente l'esercizio contemporaneo di potere e contropotere nel processo decisionale pubblico, quando viene usato come parte dello stesso processo di valutazione.

Il Modello per lAttuazione della Valutazione Democratica (MODE) che abbiamo presentato raccomanda pertanto l'associazione di questi tre tipi di valutazione nell'ambito del medesimo metodo di valutazione. Gli aspetti complementari, usati nell'ambito del MODE, e cioè la Valutazione del Conferimento di Responsabilità, la Valutazione Partecipativa e la Valutazione Basata su Criteri Multipli, permettono alla Valutazione Democratica di trovare coerenza e praticità, elementi di cui il processo è spesso privo. Non è possibile separare le tre componenti, Valutazione del Conferimento di Responsabilità, Valutazione Partecipativa e Valutazione Basata su Criteri Multipli, all'atto di dimostrare l'aspetto pratico della Valutazione Democratica. Se uno degli anelli della catena è spezzato, la Valutazione Democratica non è più praticabile. Allo stesso modo, mettere in pratica uno dei tre metodi di valutazione può essere giustificato solo quando sono presenti anche gli altri due tipi di valutazione. Naturalmente, saranno necessarie ulteriori ricerche per migliorare gli strumenti di pertinenza di ciascun tipo di valutazione, tenendo in mente la natura complementare di questi tre tipi di valutazione. La sinergia così 131

creata può contribuire all'ulteriore sviluppo della Valutazione Democratica, molto opportuno in quanto, in ultima analisi, è in gioco la futura applicazione del principio della partecipazione pubblica al processo decisionale. (traduzione di Stefano Spila) DAVID FErFERÌVIAN (1994, p. 1) ha definito il conferimento di responsabilità come "l'uso di concetti e tecniche di valutazione per favorire l'autodeterminazione".

2 Sui fondamenti logici di Valutazione basata su Criteri Multipli, e per una presentazione

didattica, ved. C. FAYAT (1993). Sull'assiomizzazione originale di Valutazione basata su Criteri Multipli, e in particolare sui metodi ELECTRE ved. B. Ro (1985; 1990). Per la presentazione dei metodi ELECTRE, ved. anche L. Y. MAISTRE etal. (1994).

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132

Urban Centers e politiche delle città.

L'esperienza de l'Ombrello per Venezia di Valeria Giannella

L

e pratiche descritte con i termini urban centers ed urban forums sono diffuse nel mondo anglosassone da circa un ventennio, e sollecitano da qualche anno interesse e riflessioni crescenti anche in Italia. All'osservazione ed all'analisi di queste esperienze straniere si associa l'avvio di alcuni esperimenti concreti, tutti ancora parzialmente incompiuti e, dunque, di difficile valutazione.

Ilruolo che queste nuove istituzioni associative potrebbero giocare nei vari contesti urbani acquista rilevanza di pari passo al riconoscimento di come aumentano gli attori capaci di influenzare o interferire con le trasformazioni urbane e di comé - al tempo stesso - sia elevato il numero di soggetti territorialmente attivi ai quali i processi di policy making restano del tutto inaccessibili, con una dannosa sottrazione di risorse di conoscenza, mobilitazione, conflitto e consenso.

ATTORI STRATEGICI SULLA SCENA URBANA

Paradossalmente, in virtù del processo di frammentazione che caratterizza la società e la città contemporanea (cfr. Balducci, 2000, Papadopoulos, 2000), le arene decisionali urbane sono, al tempo stesso, peantemente affollate ed ancora non abbastanza inclusive, così da soffrire spesso sia i problemi tipici della gestione dei sistemi interattivi complessi che di quelli che affliggono tradizionalmente sistemi più marcatamente burocratizzati ed istituzionalizzati (difficoltà di trattare il conflitto, potere di veto dei soggetti esclusi, stallo decisionale). Forum, brainstorming, tavoli negoziai più o meno formalizzati sembrano essere i nuovi strumenti a disposizione di nuove istituzioni - Urban Centers o, secondo un tentativo di traduzione italiana, Case della Città - coni

L'Autrice collabora con il Dipartimento di Pianificazione dell'IuAv ed è ricercatrice del Laboratorio l'Ombrello.

133

cepite apposta per trattare queste situazioni ibride, muoversi con agio nelle arene decisionali urbane valorizzando conoscenze marginalizzate, facendo emergere possibilità cooperative e progettualità latenti.

L'osservazione delle esperienze realizzate (cfr, Fareri 1995) mostra che pur nella varietà di declinazioni ed adattamenti alla specificità dei contesti locali - gli Urban Centers sembrano rimandare ad un modello comune di riferimento basato sui tre elementi principali: - della focalizzazione sulle attività interconnesse di "education-advocacy"; - dell'affermata neutralità che legittima la pretesa di poter svolgere un ruolo particolare (diverso da quello di ogni altro stakeholder) nel merito delle politiche urbane; - della vocazione alla produzione di innovazione sia sostantiva che processuale nel trattamento dei problemi.

Il fatto che, nei diversi casi, sia riconoscibile la presenza comune di questi elementi non implica una conseguente omogeneità nelle strategie di azione praticate, nelle funzioni e nei ruoli che questi attori preferiscono assumere nei contesti di riferimento. Troviamo, infatti, centri che privilegiano l'azione su di un ambito specificamente architettonico-urbanistico accanto a quelli impegnati sul fronte più ampio delle politiche urbane, centri che alle attività di informazione sulle politiche urbane associano interventi diretti nelle arene decisionali con il ruolo di mediatori ed altri che evitano di assumere tale funzione operando, piuttosto, sulla mobilitazione dell'opinione pubblica e la costruzione di coalizioni influenti nella ridefinizione delle issues in gioco.

In ogni caso, questi attori "giocano" nel contesto a partire da ipotesi interpretative forti sul funzionamento del policy making a livello urbano, sui problemi che ne limitano l'efficacia e le risorse mobilitabili per affrontare quel limite. Essi rivendicano - non senza ragioni - la strategicità del proprio ruolo per una migliore funzionalità del sistema decisionale urbano ed è - ci pare proprio quest'elemento a legittimare il riferimento esplicito all'attributo della centralità (Urban Centers) nella denominazione correntemente usata per identificarli.

UN URBAN CENTER SENZA CENTRO

Si può dire, dunque, che il modello rappresentato dalle pur variegate esperienze degli Urban Centers emerga recentemente come riferimento cospicuo per il ventaglio di soggetti interessati a vario titolo al governo della trasforma134

zione urbanà (dai planners agli amministratori alle associazioni di interesse).

Un modello che si vuole capace di dare risposte - seppure estremamente localizzate - ai problemi tipici del panorama della governance l'assenza di un soggetto dotato di capacità autoritativa e poteri capaci di informare la direzione dei processi di trasformazione; l'estrema frammentazione dei contesti sociali che implica la difficoltà e necessità di rendere il più possibile inclusivi i processi di deliberazione su questioni di interesse pubblico; la rapidità dei processi di trasformazione che fa da contraltare alla lentezza, complessità e spesso - all'inconcludenza dei processi di governo.

Eppure - nonostante l'interesse delle esperienze richiamate e la varietà di spunti teorico-pratici che esse possono offrire - resta il dubbio che il modello "UrbanCenter" testimoni, tutto sommato, il legame stretto che i nostri schemi teorici mantengono con una visione che e ancora quella del governo «a guida centrale". Viene attribuita a queste nuove "istituzioni" la centralità tradizionalmente riconosciuta alle amministrazioni pubbliche, laddove si riconosce che queste ultime non sono in grado di affrontare in modo appropriato ed efficace una serie di funzioni sollecitate dalla nuova situazione.

Del resto, se è vero che è proprio la categoria di centro ad essere messa drasticamente in discussione nella nozione di governance, acquista rilievo ed interesse la ricerca su pratiche nelle quali sono le dimensioni dell'orizzontalità, reticolarità e responsabilità condivisa dei soggetti ad essere messe in valore piuttosto che il richiamo ad una funzione centrale cui vengono assegnate, in fin dei conti, ancora potenzialità salvifiche.

Il progetto de l'Ombrello' fa proprio l'orizzonte di queste domande e riflessioni teoriche cercandovi risposte - in prima istanza locali e contingenti - prima di tutto al livello delle pratiche. In particolare, cerca di intervenire entro specifici contesti di interazione promuovendo il riconoscimento e l'attivazione delle risorse latenti (specie di quelle conoscitive e di mobilitazione), la condivisione di responsabilità progettuale, la promozione di ogni soggetto territoriale in quanto potenziale soggetto di politiche, una visione del ruolo del tecnico come partecipante alla pari tra quelli coinvolti nel policy making urbano 2 .

DA UNA RICERCA UNIVERSITARIA L'INIZIATIVA DE L'OMBRELLO

Il progetto di ricerca a cui di qui in avanti ci si riferisce si svolge nell'arco di alcuni anni (dal '96 ad oggi), e può essere ricostruito individuando tre fasi successive e diversamente caratterizzate: "Politica-Venezia", "Reti di interazione Urbana", l'Ombrello. Come sempre, il segnare scansioni in un corso di 135

azione è in buona parte una forzatura analitica. Nella ricostruzione di ogni fase, infatti, sarebbe possibile individuare dei caratteri ibridi che anticipano quella successiva o rimandano a quella precedente. Ognuna, però, serve a segnalare un'accentuazione, una "pre-occupazione", che ci ha guidato nell'azione e nella riflessione e che ci ha portato a modificare il modo di concettualizzare il nostro contesto di riferimento, come segnalato dal fatto che è mutato - piuttosto sensibilmente - il modo di entrare in relazione con esso.

Politica-Venezia: è il titolo della ricerca universitaria dalla quale prende avvio l'intera esperienza. L'obiettivo è di ricostruire una visione sintetica ed alcune ipotesi sul funzionamento del sistema veneziano di policy-making attraverso una ricostruzione analitica dei segmenti decisionali attivi nella produzione di singole "operazioni" di trasformazione urbana. Con la parola operazioni si segnala il privilegio accordato alla dimensione materiale della trasformazione, al suo lasciare tracce concretamente rinvenibili sul territorio; una scelta che esclude intenzionalmente dall'analisi il livello dei piani o progetti che non raggiungono la fase dell'implementazione. La scheda tipo utilizzata per l'analisi individua - per ogni azione di trasformazione selezionata - la rete dei soggetti attivi, il complesso delle risorse mobilitate, il sistema dei quadri di senso in cui ogni trasformazione è inserita. In particolare, in quest'ultimo ambito l'indagine sulla "variazione (temporale) del problema di riferimento" e sulle operazioni interconnesse evidenzia i interesse per le modalita di costruzione collettiva del senso di specifiche "soluzioni" ai problemi urbani.

Reti di Interazione Urbana: una denominazione così cautamente descrittiva segnala una fase di passaggio. In essa il gruppo di ricerca comincia ad accostarsi alle pratiche concrete di alcuni soggetti urbani, molto eterogenei sia per ambito di attività che per carattere organizzativo-istituzionale, selezionati in base alla loro capacità di produrre beni comun1 3 . Lintenzione è di "ispessire" - rendere ridondanti - le trame delle reti nelle quali tali soggetti sono inseriti, grazie all'individuazione di cooperazioni possibili ed alla realizzazione di progetti evento capaci di intrecciare le competenze, le risorse, i punti di vista. La proposta in base alla quale questi referenti vengono contattati rimanda all'esperienza straniera degli Urban Centers ed alla volontà di rivisitarla, adattandola alla specificità del contesto veneziano. Il lavoro procede attraverso l'organizzazione di una serie di incontri a partecipazione allargata, svolti in sede universitaria. Il tema del rapporto tra l'università ed i soggetti esterni emerge fin da subito come cruciale. Da un lato, tutti gli invitati mostrano di 136

apprezzare l'intenzione di apertura del gruppo universitario alla città e l'opportunità di essere coinvolti su un'ipotesi di lavoro giudicata interessante; dall'altro, la reticenza dei ricercatori ad assumere un deciso ruolo di guida del progetto ed a definirne unilateralmente gli obiettivi rendono faticosa e spiazzante la relazione, troppo difficile da inquadrare nei più consolidati schemi di rapporto tra esperto e non esperto. In particolare, è l'assenza di uno specifico problema tecnico da risolvere che elimina la forma più tradizionale di mediazione tra chi è e chi non è "esperto" e lascia emergere con forza, proprio nello spazio di quest'assenza, il problema della distanza tra i linguaggi e delle motivazioni per le quali impegnarsi in un progetto.

L'Ombrello: è la metafora che comincia a circolare già nella fase iniziale e introduttiva per indicare lo spazio da noi proposto, che di volta in volta si apre all'incontro e all'interazione tra più soggetti. Rimanda all'immagine delle guide turistiche che lo usano per attirare l'attenzione e far convergere tutti i membri di un gruppo su un medesimo percorso, temporaneamente condiviso; oppure a quella meno prosaica e più orientaleggiante di processioni rituali aperte da ampi ombrelli, riccamente addobbati, ad ospitare figure significative per la comunità e la cerimonia celebrata. L'Ombrello si propone come spazio dell'incontro e dello scambio; è tendenzialmente accogliente (ha scarsi vincoli all'ingresso), può essere usato opportunisticamente (nel senso letterale dell'usare e valorizzare delle opportunità), ha intrinseco il carattere del nomadismo, vale a dire che si apre a segnalare un incontro ed uno scambio tra soggetti urbani, si richiude quando quest'evento è concluso per riaprirsi altrove, in un altro momento. I caratteri richiamati - l'ultimo in particolare - rimandano alla volontà di connotare l'Ombrello in maniera più destrutturata rispetto alle esperienze note di Urban Centers stranieri; un istituzione "leggera", morfologicamente adatta ad evidenziare o creare eventi territoriali seguendone i percorsi reticolari e dispersi, senza cercare di ricondurli ad una propria visione di centralità eteronomamente definita. In parallelo a questa visione "orizzontale" e tendenzialmente non gerarchica si definisce l'istanza di un rapporto analogamente caratterizzato tra i soggetti che "sotto l'Ombrello" si attivano. Come già accennato riguardo alla fase precedente, i problemi del rapportò tra l'università e gli altri soggetti urbani e della relazione tra esperti e non, sono ripetutamente tematizzati ed interrogati nella pratica, anche perché intorno a questi temi si affollano pre-giudizi, attese e schemi di comportamento consolidati che ne rendono estremamente delicato il trattamento. I materiali di base con i quali lavorare per affrontare tali questioni sembrano essere, da un lato la credi137

bilità ed autorevolezza che - nonostante la sua scarsa "presenza sociale" - viene diffusamente attribuita all'attore "università" e che pare giustificare l'ipotesi di un suo ruolo più attivo nel contesto; dall'altro, l'insieme di immagini so,, cialmente costruite intorno a 1cc , esperto ed al ruolo che esso puo giocare nella gestione-ridefinizione dei problemi. Su entrambi questi elementi sembra esserci lo spazio per mettere alla prova alcune ipotesi che, magari, fanno già parte di un certo bagaglio teorico ma mancano ancora di un ampio set di pratiche capaci di evidenziarne il senso profondo e la fertilità.

LA PRIMA "APERTURA" DE L'OMBRELLO

"Fuori dall'Isola" è stata la prima iniziativa organizzata in città "sotto l'Ombrello" ed ha coinvolto un ampio ventaglio di soggetti in un'esperienza svolta nell'arco di dieci giorni. Si è trattato di una mostra ed altri eventi focalizzati intorno a quel luogo un po' speciale della laguna di Venezia che è l'isola di S. Erasm04 . Non sono tanti - nemmeno a Venezia - ad avere dimestichezza con quest'isola che è - nel senso comune più diffuso —"l'orto della città" o "l'isola dei carciofi" e vede esaurite in queste brevi descrizioni le ragioni e le spinte per l'esplorazione e la conoscenza. Fosse davvero tutta qui S. Erasmo, non ci sarebbe probabilmente motivo per occuparsene. La sua vocazione orticola che pure è in aperta crisi e con un futuro di grande incertezza - non riuscirebbe ad essere, di per sé, ragione sufficiente per spingere la questione al di fuori di un ambito strettamente settoriale. Invece, come spesso succede, basta andare a guardare un po' al di là dello stereotipo per trovarsi a considerare elementi sconnessi, per tanti versi inattesi, che offrono il quadro incerto di un presente difficile ed aperto alla ricerca di un futuro plausibile. Cosa tra le più importanti inoltre, è che - in isola - un gruppo significativo di persone sta sviluppando una riflessione sui temi dell'identità problematica e del futuro del luogo, senza mancare di impegnarsi su alcune azioni concrete di miglioramento dei livelli di servizio e della qualità della vita più in generale.

Prima di proporre una breve descrizione dei contenuti, dei caratteri e del senso dell'iniziativa può essere utile far presente che "Fuori dall'isola" è stata costruita per funzionare in qualche modo come caso esemplare, capace cioè di illustrare concretamente la metodologia di azione ed il potenziale della proposta de l'Ombrello in relazione al policy-making urbano.

Secondo la rappresentazione ricorrente del gruppo di ricerca è l'iniziativa o la segnalazione proveniente da un soggetto territoriale a costituire, preferen138

zialmente, l'occasione per "l'apertura de l'Ombrello". In questo caso, lo spunto è stato offerto da uno dei partecipanti al progetto - un fotografo - il quale frequentando ripetutamente l'isola ha avuto voglia di restituire ad altri la sua perpiessità e lo stupore provato di fronte a questo confine di Venezia. Questi materiali fotografici ci sono sembrati, da subito, una risorsa importante da mettere in gioco nella riflessione in corso a S. Erasmo, perché forniscono una immagine "aperta" (non agiografica e non stereotipata) del luogo, nella quale non ci sono direzioni già segnate ma invece una serie di bivi possibili.

Intorno a questo nucleo sono cresciute una serie di altre proposte, tutte a proprio modo rivolte a sollecitare la riflessione - ma anche l'azione - su questa realtà territoriale, oltre che lo scambio, più intenso e fertile di quanto oggi non sia, con il resto della realtà urbana.

La semplice lista delle iniziative comprese nell'evento può dare, più semplicemente che molte parole, il senso di quanto si sta dicendo: - mostra fotografica e restituzione scritta di testimonianze di abitanti dell'isola; - installazione artistica sull'insularità e sul rapporto tra l'acqua e la terra in questa campagna veneziana; - incontro sul non profit nello sviluppo del territorio ed il ruolo della finanza etica (a cura di Mag Venezia); - incontro sull'emergenza sanità a S. Erasmo (a cura del comitato salute dell'isola e della ommissione salute del Consiglio di Quartiere); - incontro di presentazione della ricerca per l'ottenimento della tutela comunitaria "Denominazione di Origine Protetta" per il carciofo violetto delle isole veneziane (a cura di Spazio Verde s.r.l. in collaborazione con Coldiretti provinciale ed Enea); - gite in isola a cura delle associazioni locali, per incontrare le realtà produttive e scoprire i luoghi un po' segreti di S. Erasmo; - laboratori sul futuro dell'isola, organizzati e condotti dal gruppo di ricerca con il coinvolgimento e la partecipazione attiva di più di venti tra soggetti istituzionali e non, in varie forme impegnati (o potenzialmente interessati) a lavorare sull'isola.

A commento di questa lista è utile notare un elemento significativo, per come esemplifica - in relazione al luogo prescelto - uno stile di azione che vuole essere tipico de l'Ombrello. Si tratta di quella che potremmo definire una "ricerca dell'intersezione", che si manifesta nel tentativo di accostare più linguaggi - da quelli dell'arte visiva, a quelli, più solitamente frequentati dalle 139

nostre discipline, della scrittura e della comunicazione verbale - più promotori, al limite più temi di attenzione oltre che più soggetti impegnati - in posizioni diverse - sulio stesso tema.

Le ragioni della scelta - che tra l'altro è abbastanza diffusa nelle esperienze internazionali richiamate - sono sostanzialmente legate all'ipotesi che esista una fertilità potenziale, un valore aggiunto possibilmente emergente, dall'accostamento - soio in parte preordinabile - delle diversità (da quelle legate alla competenza, tecnica o ordinaria, a quelle degli interessi, dei linguaggi ... ).

In ultima istanza l'esito - indirettamente ricercato - è l'arricchimento e complessificazione dei quadri cognitivi dei partecipanti, una possibile ridefinizione che ognuno ha della propria posizione e identità in relazione ad uno specifico contesto o problema, l'emergere di visioni e modalità di trattamento innovative per questioni ridefinite attraverso un processo aperto e condiviso, il contributo al costruirsi - multiforme, lento e stratificato - di una cultura civica che rimanda ad un'idea condivisa di bene comune 5 .

QUALCHE VALUTAZIONE E PROSPETTIVA

"Fuori dall'Isola" è stato il primo esperimento di attivazione di quella forma un po' particolare di Urban Center che abbiamo definito "l'Ombrello".

Attraverso di esso si è voluto istituire uno spazio di attenzione verso un luogo specifico della laguna di Venezia (l'isola di S. Erasmo, appunto), e fare in modo che un ventaglio eterogeneo di soggetti intrecciassero le proprie prospettive, i vissuti e le progettualità perché potesse evolvere la riflessione, individuale e collettiva, sul futuro del luogo, crescere la capacità di comprensione delle difficoltà che esso attraversa attualmente, ma anche la capacità di cooperazione e - in fin dei conti - l'avanzamento del processo di riqualificazione e valorizzazione di quel territorio.

Il fine dell'incremento di efficacia è sullo sfondo, tanto da far rientrare questo progetto nella "famiglia" delle esperienze internazionali più consolidate di Urban Center; la strategia, però, è volutamente "trasversale", centrata sulla trasformazione delle relazioni tra i soggetti attivi nel contesto (oltre che della percezione che i soggetti hanno di sé in quel contesto), più che sull'intervento diretto sulle politiche; questo in base alla convinzione che l'azione strumentale - linearmente orientata allo scopo - non è quella che garantisce i maggiori margini di successo quando la "scena" dell'azione è affollata da soggetti portatori di esperienze, interessi e visioni del mondo diversi e non riducibili ad unità. Si sceglie, dunque, l'azione indiretta, che attraverso l'esperien140

za eventuale di apprendimento dei soggetti coinvolti nella condivisione di un spazio di riflessione, confronto e crescita della cooperazione, avrà effetti molteplici, ed in parte imprevedibili, sulle questioni di volta in volta trattate e, più in generale, su1 policy making urbano. Se vogliamo, l'effetto più facilmente imputabile al tipo di azione promossa è quello, che - mediato dal filtro complesso dell'apprendimento individuale e collettivo - "precipita" in una crescita di cultura urbana intesa come capacità di definire - su base locale un progetto di convivenza di diversi, trascendendo visioni esclusivamente privatistiche di uso dello spazio e delle relazioni sociali che in esso si danno.

Il processo di costituzione di "Pubblici" (Dewey, 1971), cioè di soggetti capaci di condividere la percezione che "qualcosa fa problema" e la conseguente decisione che ci si possa mobilitare e fare qualcosa in ordine a quel problema (Crosta, 2000), è - in effetti - uno dei temi salienti presenti nell'agenda de l'Ombrello. A questo proposito, "Fuori dall'Isola" ha costituito un'occasione interessante, in particolare per osservare il modo in cui dei soggetti privati (dei semplici abitanti), ridefiniscono la propria visione dei problemi e delle opportunità legati al tema dello sviluppo territoriale in base al contesto di discussione pubblica nel quale sono momentaneamente coinvolti.

La possibilità che essi, durante il processo, siano riconosciuti e si riconoscano come soggetti di politiche si da a partire da una dimensione sia oggettiva che soggettiva; da un lato, si evidenziano cioè ambiti problematici nei quali, "oggettivamente", le loro decisioni private interferiscono con la sfera delle politiche e dell'interesse pubblico ed il loro coinvolgimento sarebbe, quindi, funzionale al trattamento di quei problemi 6; dall'altro, loro stessi sperimentano - attraverso la condivisione di uno spazio e di una pratica pubblici - la possibilità di pensarsi, e progettare le loro azioni future, in quanto intervenienti a pieno titolo nell'arena delle politiche.

Questo processo, del resto, ha i caratteri dell'eventualità e della precarietà; non si produce cioè in maniera meccanica o certa e - una volta che si sia prodotto - non è pensabile come un conseguimento assodato che modifica in modo duraturo le (auto) rappresentazioni dei soggetti. Detto in altri termini, ciò significa che l'apprendimento che ha avuto luogo nell'evento interattivo va sostenuto e confermato tramite occasioni successive nelle quali i soggetti in questione possano "fare esperienza di se" alla luce della rappresentazione medita che si sono costruiti della propria identità e delle nuove possibilità di (inter)azione che questa lascia intravedere.

L'attività di individuazione e promozione di eventi capaci di produrre l'in141

terazione virtuosa tra soggetti diversi per competenze ed appartenenza a ruoli e contesti, e la successiva capacità di sostenere i processi di apprendimento eventualmente attivati, delineano dunque i confini di un progetto che l'Ombrello propone all'attenzione di istituzioni urbane quali il Comune, l'Università, i soggetti economici organizzati, quelli associativi, etc.

DOMANDE APERTE

La riflessione che il gruppo di ricerca de l'Ombrello sta sviluppando, in particolare alla luce dalle prime "uscite" all'esterno dell'ambito accademico, è associata ed alimentata da quella più vasta che, in alcuni ambiti disciplinari, si viene elaborando in merito ai nuovi modi e strumenti della pianificazione in un contesto sociale sempre più frammentato e complesso. Il progetto presentato si colloca in quest'ambito di riflessione, ne è interrogato e lo interroga, cercando risposte - di tipo locale e contingente - al manifestarsi concreto di questioni più generali caratteristiche, potremmo dire, di una fase.

Le domande esplicitate, a chiusura di queste note, riprendono, sintetizzandoli, temi già trattati fin qui, che ci sembrano cruciali nella riflessione in cors07 . Nel cercare di formulare alcune risposte vorremmo chiarire, in quattro punti, la posizione dell'esperienza che stiamo sviluppando in relazione a quella riflessione e (auspicabilmente), contribuire alla sua evoluzione.

Qual è il nostro ruolo?

I. Qual è il problema di un'iniziativa come l'Ombrello? Ovvero qual è l'obiettivo che si sceglie di privilegiare, il punto d'intervento considerato "sensibile" alla luce di una interpretazione del contesto di riferimento, delle sue modalità e problemi di funzionamento, delle sue possibilità di trasformazione?

Rispondere individuando il tema dell'aumento di efficacia del policy making urbano serve ad accentuare l'appartenenza alla "famiglia" di pratiche che orientano il progetto; infatti, le esperienze internazionali più note e consolidate di Urban Center hanno, in genere, questo come fine esplicito e perseguito attraverso strategie di azione variegate. Eppure - come abbiamo visto - quello dell'efficacia non è un tema centrale nelle argomentazioni che sostengono la pratica de l'Ombrello. Non è certo escluso, ma - si potrebbe dire - messo tra parentesi, in quanto problema rispetto al quale, forse, non è utile assumere un approccio diretto ma piuttosto una "strategia trasversale", ondi142

vaga e ridondante. Dunque, se non quello dell'efficacia, qual è allora il punto chiave di intervento del progetto, il problema da trattare che - prioritariamente - ne orienta l'azione? Come già accennato, il problema, formulato nella sua accezione più generale, è quello della costruzione di una cultura urbana capace di affrontare e gestire i conflitti creati dalla convivenza tra diversi, producendo in questo processo visioni di trasformazione, regole di convivenza, istituzioni ... ; in definitiva, beni comuni (cfr. nota 3). Il punto, fondamentale in questa risposta, è che slitta !'interrogativo su quali siano i modi grazie ai quali si possa contribuire alla "costruzione di cultura urbana" (nel senso specificato), modi che diventano elemento caratterizzante del progetto teoricamente e praticamente, visto che la loro individuazione risponde a delle ipotesi sui funzionamento dei contesti relazionali e deliberativi propri delle nostre città contemporanee e su come si possa intervenirvi in modo appropriato.

La scelta de l'Ombrello è di inserirsi nel trattamento delle questioni urbane promuovendo la costituzione di spazi pubblici di massima inclusività, dedicati a lavorare sulle relazioni tra i soggetti in essi attivi ed ancora attivabili; il fine è di produrre processi di apprendimento, in merito alla ridefinizione dei rispettivi quadri di riferimento, alla riconsiderazione delle risorse a disposizione di ognuno, alle proprie possibilità di azione e - in fin dei conti - alla propria identità in relazione al contesto dato. Il movimento nella direzione auspicata comporterebbe il riconoscimento che è, a tutti gli effetti, un "soggetto di politiche" ogni soggetto attivo e capace di mobilitare risorse sul territorio piuttosto che, soltanto, l'autorità statale e le sue dirette emanazioni e con progressive estensioni - i soggetti economici e sociali rappresentanti interessi coesi e fortemente strutturati. Da un tale passo risulterebbe un allargamento sostanziale dei confini del policy making urbano ed un corrispondente aumento delle risorse di ogni tipo, mobilitabili per il trattamento delle questioni in gioc0 8 . Ritorniamo, a ben vedere, dopo un percorso circonvolutorio, al tema dell'efficacia soltanto che questo venga inteso come "costruzione delle condizioni per reagire creativamente alle situazioni problematiche nel modo in cui queste concretamente si presentano" (Balducci, 1991) 9 .

Chi è il "pubblico"?

2. Qual è il ruolo "del pubblico" nel trattamento delle questioni urbane ipotizzato da l'Ombrello e più in generale nel panorama della governance urbana?

Qui, prima di tutto, bisogna chiarire che ci sono almeno due accezioni di pubblico alle quali si può far riferimento e che muovono risposte sostanzial143

mente diverse all'interrogativo posto. La prima, e più ovvia, è quella che rimanda al pubblico in quanto amministrazione pubblica quindi - per ciò che qui prevalentemente interessa - al ruolo degli Enti locali di fronte al problema del governo ridefinito nei termini della governance. Se riconosciamo superata quella che Crosta (2000) definisce una visione "unitarista" dell'interesse pubblico' 0, ed ammettiamo invece la legittima pluralizzazione di quel concetto, ai soggetti pubblici (nell'accezione che qui si sta discutendo), si prospetta l'interpretazione di un ruolo, per certi aspetti decentrato rispetto a quello tradizionalmente concepito, ma sicuramente importante per rilievo teorico e per gli esiti pratici che può contribuire ad indurre. Infatti, in un panorama teorico che assuma in forma radicale il concetto di governance (come processo tendenziale di autogoverno di una "società delle differenze"), sarebbe - letteralmente - "fuori luogo" concepire l'autorità pubblica (in quanto diretta emanazione di quella statale) come unico regista di un processo che non ha più, in effetti, né un oggetto né un soggetto unici. L'idea di pluralizzazione implica, infatti, che la nozione di interesse pubblico non è soltanto ampiamente discutibile (e, di fatto, messa in discussione), ma irrimediabilmente frammentata e ricomponibile, eventualmente, solo entro pratiche concrete nelle quali individuare e sperimentare percorsi di convivenza. In questo passaggio nessun soggetto è detentore di visioni più legittime degli altri e, dunque, il soggetto pubblico è "semplicemente" un soggetto che ha risorse (e vincoli) speciali rispetto a quelli mobilitabili da soggetti privati . In base al quadro di questi vincoli e risorse il soggetto pubblico diviene (nei casi migliori) capace di ascolto dei processi territoriali, di promozione e orientamento al loro sviluppo, di allocazione intelligente delle risorse non solo finanziarie, di supporto ai soggetti attivi nella loro ricerca...

La seconda accezione di "pubblico" che si può prendere in considerazione è quella che riconosce virtualmente ad ogni soggetto la capacità/possibilità di farsi "soggetto pubblico", cioè di intraprendere azioni, stabilire relazioni, mobilitare risorse cognitive e progettuali, per il trattamento di questioni di interesse comune. Se prendiamo per buona questa seconda declinazione del concetto, e dunque il fatto che "i pubblici" capaci di prender forma e voce nel contesto urbano sono molteplici, si può riformulare l'interrogativo proposto nel modo seguente: qual è la strategia di azione de l'Ombrello in grado di sollecitare e sostenere le potenzialità dei soggetti di "farsi pubblici" (Dewey, 1971)? In questo caso la risposta è nella ideazione e realizzazione di eventi, nella guida di processi interattivi che siano occasioni concrete per i partecipanti per fare esperienza di sé in quella veste.

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Esperto in cosa?

3. Qual è il ruolo e la posizione dell'esperto nell'attivazione di questi processi? Qual è, in particolare, nella strategia di azione de l'Ombrello, il ruolo del gruppo di ricerca che ne è il primo ideatore? Si potrebbe dire altrimenti: chi "porta" e chi "apre" l'Ombrello?

In generale, com'è ormai ampiamente dibattuto, la risposta a questa domanda passa attraverso una tendenziale "detronizzazione" dell'esperto all'interno dei processi di governance che, del resto, va di pari passo con quella subita dal soggetto pubblico (inteso come ente politico-amministrativo) che è stata discussa più sopra. Una volta che la conoscenza esperta non sia più ritenuta l'unica legittimata ad entrare in gioco nel trattamento di problemi, l'esperto può essere concepito più come "accompagnatore" dei processi di governo che come unico deus ex machina del loro svolgimento. Dunque, un soggetto che riconosce e mobilita risorse, costruisce ed infittisce relazioni, produce e propone visioni ed orientamenti d'azione di volta in volta appropriati ad entrare in risonanza con gli specifici contesti relazionali entro i quali si trova ad intervenire.

Nella pratica concreta questa visione generale deve trovare una propria declinazione, in particolare in relazione al fatto che il progetto de l'Ombrello, nel prefigurare lo svolgimento di una funzione stabile all'interno del contesto urbano, necessita della figura di un promotore. Questo, da un lato - e proprio in virtù di tale ruolo - si distingue dall'insieme dei soggetti urbani capaci di concorrere all'iniziativa, dall'altro, non deve correre il rischio di restare il solo titolare del progetto e riuscire invece a creare, di volta in volta, una condivisione più ampia delle sue finalità e dei percorsi intrapresi. Eppure - proprio a partire dall'esperienza concreta della ricerca-azione che qui si è sommariamente descritta - emerge tutta la problematicità di una pratica che rifiuti l'eccesso di protagonismo dell'esperto e cerchi, invece, una maggiore orizzontalità nel rapporto tra soggetti "esperti" e non. Si verifica empiricamente la forza di legittimazione che il ruolo del tecnico, tradizionalmente inteso, ha conquistato a livello sociale nell'arco di alcuni decenni, tanto da far ritenere necessaria un'assoluta centralità di tale figura e criticabile ogni suo tentativo di decentamento che rischia di essere interpretato, più che altro, come pratica di deresponsabilizzazione rispetto ai processi.

La figura di un esperto che non legittima il proprio intervento in relazione al trattamento di un qualche problema tecnico e si presenta, invece, come possibile partner di un progetto rispetto al quale condividere responsabilità e rischi, produce perplessità e spiazzamento. Quando la mediazione della tecni145

ca viene meno, in modo soio apparentemente controintuitivo, tutte le differenze tra soggetti esperti e non, trovano modo di esplicarsi e vengono, se possibile, amplificate. Nel vuoto lasciato da una modalità di espressione che qualcuno controlla ed altri subiscono, emergono potentemente le drastiche differenze di linguaggi, le distinte modalità di valutazione delle situazioni, i sistemi di valori, i set di risorse mobilitabili. Una complessità che richiede uno spazio di ascolto e riconoscimento, un lavoro consapevole di ricomposizione che non è (non può essere) riconduzione ad unità ma individuazione/invenzione di spazi possibili di cooperazione e convivenza. In conclusione - e per rispondere alla domanda sul ruolo problematico di promotore (chi "porta" e chi "apre" l'Ombrello) - si può dire che per il gruppo di ricerca è necessario trovare una via di mezzo tra una totale e solitaria presa in carico del progetto, che relegherebbe a ruoli gregari gli altri soggetti potenzialmente mobilitabili, e l'affermazione di una completa paritarietà, altrettanto impropria per come trascura le differenze evidentemente esistenti tra il soggetto ideatore /promotore e tutti gli altri.

Come può essere utile l'università?

4. Infine, quale può essere il ruolo dell'università nella strategia di azione proposta da l'Ombrello?

Anche in questo caso - come nel punto precedente - si può rispondere a questa domanda cercando nello spazio che sta tra due estremi entrambi insoddisfacenti. Il primo è rappresentato dal rischio di un'eccessiva identificazione tra il progetto e l'attore "università"; si tratta di un attore il cui operato è gravato da una mole corposa di giudizi (sia positivi che negativi) e che finirebbe per "schiacciare" con la sua imponenza il carattere sperimentale ed innovativo de l'Ombrello. Questo - per come è stato definito - tende a scoraggiare qualsiasi eccesso di protagonismo, tanto più quello eventuale dell'università, cioè dell'attore socialmente riconosciuto come depositano di quella competenza esperta che il progetto cerca di mettere in discussione e relativizzare. L'altro estremo da evitare è - evidentemente - quello del completo disimpegno. Sempre nell'ottica di riconoscere e valorizzare le differenze tra i soggetti (invece di mascherarle sotto un presunto velo di uguaglianza) bisogna prendere atto del patrimonio di credibilità sociale e .legittimazione piuttosto diffusamente attribuito all'università a livello di senso comune (cioè indipendentemente da una disamina puntuale dei suoi meriti e del ruolo positivo effettivamente svolto nel trattamento delle questioni urbane). Mancare di "mettere al lavoro" un tale patrimonio sarebbe uno spreco di risorse non 146

giustificabile, specie in contesti sociali nei quali proprio credibilità e legittimazione sono "beni" estremamente rari e difficili da riprodurre.

Dunque qual è, concretamente, lo spazio d'azione delimitato dai due poli descritti e che possibilità ci sono che l'università individui delle modalità, anche formalmente riconoscibili, per occuparlo? Nella fattispecie il problema è quello di assicurare una presenza certa ma discreta, si potrebbe dire "di garanzia", in relazione alla problematicità del tema trattato, evitando di innescare il meccanismo della delega, nella soluzione dei problemi, alla funzione salvifica di una qualche tecnica. Si potrebbe dire - sperando che l'uso reiterato della metafora non risulti stucchevole - che si sta cercando di definire quale sia la più leggera forma di istituzionalizzazione per fare in modo che il riconoscimento sociale di cui gode l'università "faccia da ombrello" al gruppo di ricerca senza limitarne l'autonomia e la sperimentalità d'azione. Sono caratteri, questi ultimi, resi necessari dalla natura stessa della situazione nella quale si interviene, dall'assenza di una domanda socialmente formulata, già pronta "lì fuori" a chiedere la costituzione di un Urban Center (più o meno rivisitato), e dall'ipotesi che quella domanda possa costruirsi nell'incontro diretto con pratiche esemplari, che sappiano rendere evidente il valore aggiunto dell'obiettivo proposto. Fare de l'Ombrello un laboratorio che nasce sotto l'egida dell'università ma è costitutivamente "estroverso", cioè rivolto al territorio nella ricerca delle relazioni, delle risorse e dei progetti sui quali investire, sembra in questo momento la scelta più congruente con il profilo e le ambizioni del progetto intrapreso'.

Questo articolo è tratto da una relazione presentata al convegno Dal government alla governance nella regolazione locale: quale forma del piano? Venezia, 25-26 settembre 2000 ed è in pubblicazione in: GELLI, E, MlLkÌ'SI E. (a cura di), 2002, "Dal government alla governance: quale forma del piano?'

Quaderni Iiiiiv

i È nato all'interno del Dipartimento di Analisi Economica e Sociale del Territorio dello IUAV nell'ambito di una ricerca coordinata da Pier Luigi Crosta. Il gruppo di lavoro comprende Simona Boselli, Francesca Gelli, Valeria Giannella ed Andrea Mariotto, tutti dottori di ricerca in Politiche Pubbliche del Territorio. Il presente articolo è frutto del lavoro comune di ricerca e azione e rappresenta, dunque, lo stato della riflessione all'interno del gruppo di ricer-

ca. L'e-mail, per contattare il gruppo, richiedere materiali o altro è: ombrello@ivav.it 2 Un ruolo caratterizzato più ancora che dall'expertise disciplinare di vario tipo da competenze relazionali, di guida di processi di empowerment e reframing delle attività svolte sui territorio dagli abitanti o da soggetti a legame organizzativo debole...

3 "I beni comuni sono beni che una società - per molti versi ormai il sistema mondo - de147

tiene in comune... Il loro elenco, forse anche una tipologia, è impossibile: ogni analisi accurata di un frammento di vita sociale ne ritroverebbe decine di tipi e forme. Ma possiamo rilevare alcune loro specificità. .1) in quanto presupposto ed esito rimandano al processo sociale nel suo insieme; 2) non è nota la loro funzione di produzione ... e comunque tale funzione non appare quasi mai progettabile; 3) hanno per lo più la natura di 'stati sottoprodotto', cioè di esiti risultanti come ridondanza di processi orientati ad altri scopi; 4) . . .sono in essenza e principalmente beni virtuali legati al linguaggio, alla conoscenza, al sapere e al potere;..." (Donolo, 1997, par 2) ' È, insieme alle più famose Murano e Burano, una delle poche isole abitate della laguna di Venezia, collocata a nord est del centro storico, vi risiedono ancora oggi da circa 800 persone.

5 Pellizzoni (1998), partendo dalla constatazione che le democrazie attuali sono messe alla prova ed invitate a ripensarsi da un numero crescente di "controversie intrattabili", affronta l'analisi dei nessi esistenti tra quelle che definisce "virtù civica", "virtù di governo", "virtù cognitiva"all'interno dei processi deliberativi attivabili nelle "società delle differenze". Nonostante il problema della deliberazione non sia il principale che l'Ombrello si propone di affrontare, l'analisi di Pellizzoni è di grande interesse anche nel nostro caso. In particolare, vogliamo sottolineare l'indicazione di ricerca al livello delle pratiche, come campo nel quale affrontare il problema delle questioni intrattabili (piuttosto che nella ricerca di meta-livelli discorsivi unificanti la pluralità delle ragioni e dei valori); l'indicazione (mutuata da Dewey) sulla natura prepolitica dell'orientamento alla cooperazione, che si giustifica in base al riconoscimento sociale attribuito al contributo che ogni partecipante è in grado di dare al processo di soluzione di problemi; infine, l'indicazione fondamentale sul fatto che - quando si tratta di mettere a confronto saperi diversi - "ciò che va messo sul tavolo della discussione, anziché dato per sconta148

to, è proprio la divisione del lavoro epistemico.

Ciò che va rivisto - a partire da casi concreti...

- è la separazione tra compiti basata su un'inso-

stenibile gerarchizzazione delle competenze." (ibid. p.613) corsivi aggiunti.

6 L'esempio delle aree incolte e abbandonate sull'isola di S. Erasmo sembra abbastanza illuminante: si tratta di aree di proprietà privata, legate dunque ad interessi e progetti costruiti com'è consueto - in modo fortemente individuale (al massimo legati a progetti di vita di scala familiare). La questione non trova, al momento, nessun trattamento a livello di politiche pubbliche proprio perché è pensata tradizionalmente come questione fondamentalmente privata nella quale, dunque, l'amministrazione locale non è legittimata ad interferire. Eppure gli effetti di queste decisioni sono senz'altro pubblici, nel senso che pongono un problema che riguarda non più i singoli abitanti ma la collettività nel suo insieme, in quanto interessata (si suppone), a che l'Isola non perda completamente i caratteri che la rendono, oggi, così speciale. (vedi Gruppo di ricerca de l'Ombrello, 2000) 7 Abbiamo avuto modo di presentare il progetto de l'Ombrello nel seminario "Dal government alla governance nella regolazione locale: quale forma del piano" tenutosi a Venezia, presso il Daest, il 25 e 26 settembre del 2000. In quell'occasione abbiamo potuto discutere e confrontarci con una serie di domande che - in una selezione arbitraria e forzatamente ridotta - riportiamo nel testo.

8 Sulla tendenza alla crescente inclusività dei processi d'azione legati al governo urbano come risposta all'endemica carenza di consenso che lo affligge e sul nesso tra inclusività ed efficacia rimando a Giannella (1995). In quel lavoro, l'analisi di alcuni casi di pianificazione permette di evidenziare come l'apertura crescente dei sistemi di azione ha comunque carattere funzionale al sistema di governo, sia che venga intesa come "riduzione di complessità", che come "riserva di senso" per la soluzione creativa dei problemi.

Emerge, del resto, anche l'insostenibilità di un approccio puramente procedurale alla questione dell'efficacia. In altri termini, la "buona forma" dei processi (ed, in particolare, la loro apertura a tutti gli stakeholders), è senz'altro una risorsa importante di legittimazione ma non garantisce di per sé né il raggiungimento del consenso, né l'efficacia dell'azione, elementi entrambi legati ad una valutazione sostantiva delle deliberazioni prodotte e della loro capacità di interpretare e dare risposta in modo significativo ai problemi in campo (cfr. pp. 354-356).

Ancora sul tema dell'efficacia mi permetto di rimandare di nuovo a Giannella (1995) dove indicavo che "in una visione non funzionalista del policy-making l'efficacia si debba definire in due direzioni: a) come capacità del processo di generare ridefinizioni dei problemi ... eb) come aumento della capacità dei soggetti locali di

produrre senso condiviso ed azione congiunta" (p. 31) La pratica de l'Ombrello - ma più in generale degli Urban Centers - sembra poter essere rilevante in relazione ad entrambi gli aspetti.

IO Secondo tale visione il soggetto pubblico è il solo legittimato, e quindi potenzialmente capace, di ricondurre ad unità la molteplicità dei punti di vista sulle forme desiderabili di ordine sociale. In quest'ottica, il passaggio al contesto della governance urbana non induce in effetti null'altro che una complicazione nei processi di governo.

Il Nel tempo intercorso fra la stesura di questo articolo e la sua pubblicazione l'Ombrello è effettivamente stato riconosciuto in quanto laboratorio all'interno del Dipartimento di Pianificazione dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia ed agisce sotto l'egida del suo direttore.

Note bibliografiche BDuccI A., Disegnare ilJi.'turo, il Mulino, Bologna 1991; (a cura di), Come cambiano i mestieri dell'urbanista in Italia, in «Territorio», n. 7. 1998; Le nuove politi che della governance urbana in «Territorio» n. 13, 2000.

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PAPADOPOULIS

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PELLIzz0NI L.,

Conoscenza, deliberazione e cooperazione, in «Rassegna Italiana di Sociologia», n. 4,

ottobre-dicembre 1998.

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rubriche

Notizie da...

FONDAZIONE HYPERCAMPO

Hypercampo - Fondazione Toscana di Comunicazione e Media - ha ideato e reso operativo una struttura professionale con un alto contributo di esperti con forti competenze nei campi della Comunicazione, Formazione e Marketing.

La Fondazione, presieduta dal Prof. Giovanni Bechelloni, è stata istituita nel 1994 da alcuni docenti del Master in Comunicazione e Media della Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri"- Università degli Studi di Firenze.

La Fondazione è concepita come uno strumento autonomo e distinto dall'Università, ma destinato a collaborare con essa per consentirle di meglio raggiungere scopi di ricerca e formazione anche verso il mondo imprenditoriale, attivando canali che siano in grado di convogliate energie e risorse (istituzionali e finanziarie) per specifici progetti di alto e significativo livello.

La Fondazione nasce come struttura di uomini, mezzi e risorse culturali essenzialmente toscane, ossia facenti capo a Firenze ed alla sede secondaria di Cetona (SI) dove viene organizzata annualmente la "Summer School", settimana intensiva di studio e formazione promossa dal citato Master: ai partecipanti si offre un'opportunità unica di confrontarsi su temi cruciali connessi al-

la gestione delle strategie comunicative nella realtà mediatizzata dei sistemi sociali complessi.

Sono iniziative della nostra Fondazione la Scuola Fiorentina di Comunicazione, le Giornate Fiorentine sulla comunicazione, la Giornata della Formazione, il Convegno Europeo sull'industria televisiva e ancora altre iniziative di taglio misto accademicoprofessionale. La Fondazione dedica le sue attenzioni anche allo studio dei caratteri di Toscanità nel mondo in ogni tempo, a cominciare dalla civiltà etrusca tramite un'associazione promossa dalla nostra Fondazione denominata Rasenna.

Ma le attività della Fondazione non si limitano all'ambito toscano, dal momento che sono aperte a Roma due unità locali le cui attività sono effettuate in collaborazione con l'Associazione "Il Campo" con sede a Roma. Sono iniziative della sede di Roma i progetti di ricerca Eurofiction per conto di Mediaset e RAI. A ciò si affianca un'iniziativa editoriale (rivista "Interferenze", newsletter titolata Fu', sito web).

La Fondazione ha anche promosso incontri di studio con accademici e ricercatori dell'America Latina, instaurando legami e scambi culturali sostanziatisi in convegni a Firenze ed in Brasile.

La Fondazione Hypercampo, insieme alla 151

Fondazione Adriano Olivetti, 1' Università degli Studi di Firenze (Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri ", ìvlaster Comunicazione e Media), nel quadro delle celebrazioni per il centenario della nascita di Adriano Olivetti, hanno dedicato una giornata di studio e di testimonianza (La Olivetti di Adriano: identità, immagine, comunicazione) all'opera e al pensiero dell'imprenditore italiano soprattutto nell'area della comunicazione e dell'immagine.

La Olivetti di Adriano ha costituito per anni un modello di riferimento, peraltro ancora valido, sul tema della cultura d'impresa e della comunicazione come strumenti centrali delle strategie e delle politiche aziendali, attraverso: 1) il posizionamento dell'immagine dell'azienda e dei prodotti al centro delle strategie di comunicazione esterna, oggi corporate image (gestione ordinata e mirata delle politiche complessive della comunicazione anche attraverso il coordinamento di tutti i segni dell'azienda da quelli dell'identità, dal logotipo, alla grafica, al design, all'advertising, all'architettura, ecc.); 2) l'impianto di strutture e competenze dedicate all'analisi, allo studio, al disegno e agli interventi di organizzazione del lavoro, oggi comunicazione organizzativa; 3) l'utilizzazione dei processi formativi continui sul campo, oggi learning organization.

Uintera giornata di studio è stata dedicata all'analisi, al racconto, alla riproposizione di questi modelli e del loro valore attuale, nonché alla individuazione delle originali peculiarità della figura di Adriano Olivetti come comunicatore.

Nel corso della Giornata di Studi è stato inaugurato il primo anno accademico del Corso di Laurea in Media e Giornalismo dell'Università di Firenze.

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Sono intervenuti: il prof. Del Nord (Università degli Studi di Firenze), Sandro Rogari (Preside Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri"), Cosimo Ceccuti (Presidente Fondazione Spadolini - Nuova Antologia), Massimo Lucchesi (Presidente Ordine dei Giornalisti della Toscana), Edoardo Garrone (Presidente Giovani Imprenditori Confindustria), Toni Muzi Falconi (Presidente FERPI), Laura Olivetti (Presidente Fondazione Adriano Olivetti), Giovanni Maggio (Università di Firenze), Stefano Rolando (Rivista Italiana di Comunicazione Pubblica), Luciano Gallino (Università di Torino), Giuliana Gemelli (Università di Bologna), Gianluigi Gabetti (Vice Presidente IFI), Mario Unnia (Presidente Prospecta), Elserino Piol (Presidente PINO Venture Partners sri), Piero Trupia (Università Pontificia Salesiana), Rosario Amodeo (Amministratore Delegato Engineering Spa), Renzo Zorzi (Segretario Generale e Vicepresidente Fondazione Cmi), Federico Butera (Univ. Milano Bicocca, Istituto Irso Butera e Partners), Francesco Novara (Università di Torino), Zeffiro Ciuffoletti (Università di Firenze), Emilo Renzi (Politecnico di Milano) I lavori sono stati coordinati da Giovanni Bechelloni (Presidente Corso di Laurea in Media e Giornalismo, Università di Firenze).

Al termine è stato proiettato il video "Un giorno all'Olivetti. Visitando la fabbrica di Ivrea" (1946-47), cortometraggio di Luigi Veronesi, accompagnato, dal vivo, dalla musica di Nicola Perricone eseguita da Imago Ensemble.

FONDAZIONE HYPERCAMPO

Via della Piazzola, 45 - 50133 Firenze Tel. 055/57.30.52 - Fax 57.15.39 amministrazione@hyperampo.org www.hypercampo.org

FONDAZIONE INTERNAZIONALE LELI0 BASSO

Formazione - Sull'ultimo numero di Fondazione, il bimestrale della Fondazione Internazionale Lelio Basso si può leggere dell'attività di formazione negli ultimi mesi del 2001. Ci riferiamo alla intervista di Rebecca Samonà, che si inserisce nell'ambito del corso della Scuola Mediterranea dei Popoli, que-

st'anno su Les femmes et la migration dans les pays de la Méditerranée (Napoli, 12-22 novembre), e alla relazione di Franois Rigaux, tenuta al Seminario internazionale della Scuola Napoletana del Diritto dei Popoli su Frontiere aperte, frontiere chiuse (Napoli, 23-24 novembre 2001). Ambedue gli eventi hanno avuto notevole successo. Rimandiamo al numero precedente per quanto riguarda i contenuti delle lezioni e degli interventi, i nomi e le provenienze di docenti e ricercatori partecipanti. Vogliamo aggiungere qui la notizia del prossimo avvio di una rete internazionale di ricercheconvegni-pubblicazioni sul tema Donne, migrazioni e diritti umani, promossa per l'iniziativa della professoressa Khadija EImadmad dell'Università Hassan TI di Casablablanca ed anche direttrice del corso della Scuola Mediterranea dei Popoli.

- Quanto all'attività formativa che si tiene a Roma, dopo la lezione inaugurale del Ministro Roberto Toscano (9.11.2001), il Corso di approfondimento e perfezionamento sui Diritti umani e Diritti dei Popoli, dedicato per il 200 1-2002 a Il diritto all'informazione nel 30 Millennio, ha preso l'avvio il 30 novembre a palazzo San Macuto con una intensa giornata di dibattito su Guerra e informazione e Il mondo in rete e i padroni della rete: due tavole rotonde in cui

si sono succeduti noti giornalisti che, a partire dalle esperienze di lavoro, hanno esposto il loro pensiero su questi temi. Mentre si può leggere in apertura dell'ultimo numero di Fondazione la relazione di Raniero La Valle tenuta a chiusura dei lavori della mattina, tutti gli altri interventi e la relazione finale di Gianni Tognoni si possono trovare sul sito della Fondazione.

Il calendario del corso romano prosegue con i seguenti appuntamenti:

14.12.01 - Comunicazione e valori. il ruolo del Vaticano, E Gentiloni.

25.0 1.02 - Infanzia fra diritto e mercato: Auditele Pubblicità, M. D'Amato.

2 2.02.02 - Comunicazione e valori, il diritto alla salute, G. Tognoni.

22.03.02 - Contro-informazione duemila, M. D'Eramo.

19.04.02 - Comunicazione e democrazia, E. Menduni.

24.05.02 - La soglia digitale e i dannati della terra, D. Mazzonis e M. Ghirelli.

07.06.02 - La manipolazione dell'informazione. Tavola rotonda con G. Chiesa, E Colombo, V. Emiliani, E. Mauro.

14.06.02 - Lezione conclusiva, E Ferrarotti.

- Una nuova formula di attività formativa ha visto quest'anno la Fondazione partecipe di un progetto di educazione allo sviluppo, a cura di Icei, Acra, Cesvi, Cespi, sul tema Diritti umani e Diritti di Cittadinanza.

La Fondazione ha dato il suo contributo al progetto approntando sei schede on line come strumento di provocazione e stimolo ad affrontare e approfondire alcuni temi attuali di cultura solidale per cogliere il nesso che li riferisce ai diritti umani e di cittadinanza.

Queste sono le schede: Diritti indigeni (Elisabetta Salvatorelli), Cittadinanza e mzgra153

degli innocenti: quale scuola per i figli dei migranti? José de Sousa Martins, - professore di sociologia all'università di Sao Paolo, consigliere della Fondazione Internazionale Lelio Basso e membro della Commissione Onu sulla schiavitù -, ha offerto la sua riflessione sulla contraddizione di una scuola di per sé istituzione stabile, immobile, e i bisogni di una scolarizzazione in conRicerca dizione di mobilità, quale quella dei bam- Continua l'approfondimento dello bini dei migranti: solo legittimità e rilevanstudio sulla condizione di vita dei migranti, za nelle scuole della cultura d'origine dei fisoprattutto nelle loro fasce più deboli. Si gli di lavoratori mobili permette di realizzasono concluse in questo periodo due ricerre convivenza e integrazione di culture diche: Salute e diritti umani degli emigranti, a verse. È processo che si può realizzare se gli cura di Simona La Rocca, e Inserimento dei lavoratori stranieri nell'economia e nel merca- insegnanti si mettono in ascolto della cultura d'origine di questi bambini. to del lavoro a Roma, a cura di Danielle - 12 febbraio. È stato presentato nella Mazzonis. Si sono inoltre avviate altre due sala conferenze della Fondazione Basso il liricerche: Il traffico internazionale di minori: bro, a cura di Giovanni Miglioli, Desaparepiccoli schiavi senza frontiere. I casi Albania cidos. La sentenza italiana contro i militari e Romania, con Terre des Hommes e Save argentini. Sono intervenuti: Enrico Calathe Children, a cura di Francesco Carchedi, mai, Maurizio Matteuzzi, Italo Moretti, e Traffico umano dalla Moldavia e daTh4lbaSalvatore Senese, i quali, nella specificità nia, a cura di Simona La Rocca. dei loro interventi, hanno fatto rivivere - Per quanto riguarda le altre aree di rinell'affollato pubblico l'anima di quella vicerca, come multinazionali e diritti econocenda giudiziale. Ma la vicenda non può mici e come la giurisdizione penale internaconsiderarsi chiusa: gli italiani uccisi duranzionale, ne verrà dato un aggiornamento te la criminale dittatura argentina sono più nel prossimo numero di Fondazione. di mille: è possibile contentarsi degli otto per cui si è ottenuta la sentenza?

Pubblicazioni - 9-10 marzo. Nella sala della Chiesa - È in libreria il nuovo titolo della Fonvaldese (v. Marianna Dionigi 59) sabato 9 e dazione Internazionale Lelio Basso e nell'Aula magna della Facoltà valdese di dell'Associazione Culturale Ponte della Memoria: Desaparecidos. La sentenza italiana teologia (via Pietro Cossa 40) domenica 10, la Fondazione internazionale Lelio Basso ha contro i militari argentini, a cura di Giovanorganizzato un convegno sul tema Risorse ni Miglioli, ed. Manifestolibri. del pianeta e dello spazio. beni comuni. Nuovi diritti e credito dei poveri. Interverranno Altre iniziative Salvatore Senese e Luigi Ferrajoli; Filippo - 18 gennaio. Si è tenuta in Fondazione Graziani, Josè Esquinas, Bruno Amoroso; una conferenza-dibattito su: La pedagogia

zioni (Alessandra Filippini), Immigrazione: lavoro e diritti (Sebastiano Ceschi), La schiavit'ù contemporanea (Martino Mazzonis), Diritti e delitti economici e impunità delle multinazionali (Augusta Anelli), Il problema della impunità e la responsabilità penale internazionale. casi emergenti (Siliana Laurenti).

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Riccardo Petrella; Monique ChemellierGendrau, Stefano RodotĂ , Daniele Archibugi. Moderatori: Raniero La Valle, Giovanni Franzoni, Gianni Tognoni.

FONDAZIONE INTERNAZIONALE LELI0 BASSO Via della Dogana Vecchia, 5 - 00186 Roma Te!. 06168.80.14.68 - Fax 06168.77.774 E-mail: filb@iol.it

Sito Web www.grisnet.itlfi!b

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Segnalazioni

DANIELE ARCHIBUGI, La democrazia cosmopolita, Asterios Editore, Trieste 2000

La democrazia cosmopolita è un volume di poche pagine di una collana che il Centro di Politica Estera-Osservatorio sulla globalizzazione (in collaborazione con il Foreign Policy Centre di Londra e l'Observatoire de la Mondialization di Parigi) dedica a dei Concetti Chiave. Scopo della collana è di approfondire le idee alla base della politica estera cercando di analizzare le conoscenze convenzionali per tentare di capire "cosa esse realmente significano per i politici di oggi".

Daniele Archibugi (dirigente del CNR, docente presso università italiane e straniere, e consulente dell'OcsE) spiega il concetto, appunto, di "democrazia cosmopolita", partendo da quello di Stato come centro dell'autorità politica, ricordando il successo che questa istituzione è giunta ad avere storicamente.

Nel corso dei secoli, sottolinea l'Autore, ogni Stato ha adottato vari mezzi per raggiungere il più alto grado di omogeneità, fondando la propria identità nazionale di volta in volta su elementi diversi (religione, lingua, sangue, razza, ecc.), mentre alcuni hanno cercato di basarsi su sistemi che potessero comprendere le diversità. In ogni caso, sempre combattendo "contro un av156

versano insidioso e nascosto, quello rappresentato dal fatto che né la società civile né la natura rispettano le frontiere che gli Stati hanno creato artificialmente". Anche se, aggiunge, Archibugi, il successo dell'istituzione Stato è dovuta anche al fatto che questa è stata capace di inglobare e regolare anche ciò che succede al di là delle frontiere, attraverso il diritto internazionale, la diplomazia, gli accordi commerciali e le organizzazioni intergovernative.

Sempre di più, ora, "risulta evidente che molti dei problemi di organizzazione politica della società contemporanea sono al di là della portata dei singoli Stati". Si assiste, infatti, ad una crescente insoddisfazione "tra i popoli, che ritengono la loro comunità politica troppo accentrata per le loro esigenze". evidente, infatti, che la democrazia è presente, in gradi diversi, all'interno di vari Stati ma meno tra Stati o a livello mondiale. La democrazia interna non può essere più sufficiente: è necessaria "la democratizzazione della comunità internazionale intesa come processo che deve unire comunità politiche con tradizioni diverse e a stadi diversi del proprio sviluppo". La democrazia cosmopolitica, appunto.

Questa si basa sulla considerazione sostanziale che aspetti quali la regolazione dell'uso della forza nei rapporti internazionali, il rispetto dei diritti umani e l'autode-

terminazione dei popoli possano essere raggiunti soltanto tramite un ampliamento e un accrescimento della democrazia. E ciò può avvenire soltanto ad un livello transnazionale. Archibugi ricorda che il progetto della democrazia cosmopolitica è diverso da quello federalista, in quanto il primo non esige che vengano meno gli Stati per creare una specie di Stato mondiale. La democrazia cosmopolitica comporta, invece, una nuova forma di organizzazione politica che non riproduca il modello statuale su scala globale ma comporti una revisione delle funzioni e dei poteri degli Stati. Si tratta di creare istituzioni che facciano sentire la voce degli individui sulle questioni del pianeta, (una sorta di Parlamento mondiale), attraverso - intanto - il rafforzamento degli attuali organismi intergovernativi, a partire dall'Onu. Da qui le tante proposte di riforma, dell'Assemblea generale, del Consiglio di sicurezza, della Corte di giustizia internazionale, ecc. che sono, però, spesso fermate proprio dalle stesse democrazie occidentali. L'Autore richiama anche l'importanza crescente che stanno avendo nel processo politico le associazioni dei cittadini, in particolare quelle pacifiste, quelle per la difesa dei diritti umani e dell'ambiente.

L'estensione della democrazia ad un numero crescente di Stati comporta il ripensamento delle relazioni internazionali da cui siano escluse la ragion di Stato e della forza.

Per far avanzare la democrazia è fondamentale, quindi, il rispetto di tutti i diritti umani (quelli definiti, già, più di cinquant'anni fa, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo): da quelli civili e politici a quelli economici, sociali e culturali. Archibugi (insieme a David Beetham) ha dedica-

to a questo, in particolare, un bel volume

del 1998, Diritti umani e democrazia cosmopolitica (Feltrinelli) da cui riprendiamo la descrizione del modello della democrazia cosmopolitica che in quell'occasione è più ampiamente presentato.

Questi i punti fondamentali del modello: 1) la rappresentanza politica è data ai governi e agli individui; 2) quest'ultimi hanno sia la cittadinanza nazionale che quella globale. I popoli stringono un patto, comportante diritti e doveri, per salvaguardare la propria sopravvivenza; 3) dalle organizzazioni intergovernative sono esclusi soltanto i governi che violano diritti umani fondamentali o che effettuano clamorose discriminazioni. Nelle istituzioni della società civile sono ammessi soltanto i delegati ritenuti rappresentativi dei propri popoli; 4) le istituzioni intergovernative si basano sull'uguaglianza degli Stati, garantita dal principio "uno Stato, un voto", così come nelle istituzioni della società civile vige il principio dell'uguaglianza dei cittadini, basata sul principio "un individuo, un voto"; 5) la sovranità interna degli Stati viene limitata dalle norme costituzionali globali; 6) la sovranità esterna degli Stati viene limitata dallo loro appartenenza all'Unione. Questa si incarica di risolvere i conflitti in modo negoziale, svolge una funzione di prevenzione - tramite anche accordi multilaterali di sicurezza -' pratica una politica attiva di disarmo che prevede il controllo sulla produzione, il commercio e la vendita di armamenti; 7) gli Stati hanno le proprie forze armate. Gli interventi internazionali umanitari per impedire atti di genocidio sono gestiti dalle istituzioni dei cittadini del mondo. I2Unione può richiedere agli Stati membri di mettere a disposizione le proprie 157

forze militari ma i criteri ispiratori dell'intervento non devono essere quelli delle forze armate tradizionali bensì quelli delle forze di polizia (caratterizzati dall'obiettivo di minimizzare il numero delle perdite da entrambi i lati); 8) l'Unione incoraggia una valutazione periodica del regime politico interno dei suoi membri, compiuta sia dalle istituzioni intergovernative che da quelle della società civile. Questa comporta anche una censura e, quando necessario, l'applicazione di sanzioni per quei governi che non rispettano i diritti umani; 9) gli Stati dell'Unione accettano la giurisdizione obbligatoria delle Corti internazionali. L'Unione non dispone di mezzi coercitivi per far applicare le sentenze ma può far uso di sanzioni economiche, politiche e culturali. Alla Corte internazionale si affianca una Corte penale con giurisdizione suoi crimini maggiori contro i diritti umani. Tale Corte consente di separare le responsabilità dei governanti da quelle dei cittadini; 10) la partecipazione all'Unione è volontaria e revocabile. Essa richiede la consultazione dei governi e dei cittadini; 11) l'Unione promuove l'autodeterminazione dei popoli e può accettare tra i suoi membri rappresentanti dei popoli oltre che degli Stati. Essa ha la facoltà di istituire protettorati, garantiti dalla forza degli Stati membri ma gestiti dai rappresentanti della società civile, nelle zone soggette a conflitto.

Questo il modello di una democrazia cosmopolitica. Intanto, però, la marcia della democrazia procede a passi lenti "insopportabilmente lenti" ma sarà inevitabile, ricorda giustamente Archibugi, che anche per le istituzioni politiche dovrà avvenire un deciso adeguamento "all'irrompere della globalizzazione".

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GIOVANNI BECHELLONI, Svolta Comunicativa, Ipermedium libri, Napoli 2001.

Diventare italiani, Ipermedium libri, Napoli 2001

Svolta comunicativa di Giovanni BechelIoni (Ordinario di Sociologia dei Processi Culturali alla Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" dell'Università di Firenze, Direttore del Master in Comunicazione e Media e Presidente del nuovo Corso di Laurea in Media e Giornalismo, presso il medesimo Ateneo) forniscé chiavi d'interpretazione originali per la comprensione dei processi di modernizzazione del nostro Paese e rivela le tracce di una ricerca iniziata molti anni fa e che si dipana nel tempo, sempre aperta alle nuove voci che incontra.

Non è stata e non è una ricerca solitaria, quella di Bechelloni. È stata ed è il portato di un movimento di studi e di progetti che prende il nome di Scuola Fiorentina di Comunicazione (SFC). È una "scuola" sui generis, una scuola italiana, uno stile comunicativo caldo, aperto all'interlocuzione con l'altro, fatto di improvvisazione situata (e cioè adattata alle circostanze di tempo, di luogo e di interazione sociale). Uno stile comunicativo che si distingue dalla "scuola americana", tutta costruita a tavolino, in modo razionale, sulla base di regole e prescrizioni che impongono comportamenti.

In più, la SFC sfrutta alcune specificità derivanti dal ruolo, dal fascino e dal potere di convocazione di Firenze e dal prestigio della "Cesare Alfieri", la più antica Facoltà di Scienze Politiche d'Italia, improntando di sé, oltre a molti altri eventi e ricerche, rilevanti progetti formativi che fanno capo all'Università di Firenze, il Master in Co-

municazione e Media e, da quest'anno accademico, il Corso di Laurea in Media e Giornalismo.

Qual è il core della Scuola Fiorentina di Comunicazione, più laboratorio che specifica scuola accademica o professionale? Il fatto che coloro che partecipano alle sue iniziative (docenti universitari, ricercatori, professionisti delle più diverse estrazioni e formazioni) condividono stili di lavoro intellettuale e professionale e convergono sull'idea di fondo che la comunicazione non è tanto un orpello, un tema aggiuntivo ai tanti di cui si occupano le scienze sociali quanto una risorsa (punto di vista, pratica sociale, comportamento organizzativo) usando la quale si può meglio agire nella complessità. Osservare il mondo sociale e agire nel mondo sociale dal punto di vista della comunicazione, del comunicare inteso come comportamento che caratterizza tutti gli esseri umani, costringe a rivisitare molti paradigmi, luoghi comuni e idee correnti.

E a concepire in modo diverso il ruolo dei media e delle nuove tecnologie dell'informazione da una parte e quello delle organizzazioni pubbliche e private dall'altro.

Tre sono le indicazioni di metodo che vengono dalle riflessioni e dalle pratiche esperite dagli "artigiani" della SFC: 1) concorrere a costruire - attraverso la ricerca e la formazione - tre tipi di culture tra loro strettamente interdipendenti: cultura del so-

ciale, cultura della comunicazioni-, cultura del fare 2) costruire percorsi di ricerca capaci di stare sui due territori (quello "reale" e quello immaginario); 3) costruire percorsi formativi a tutti i livelli in stretto rapporto con i risultati e le competenze che si acquisiscono nei percorsi di ricerca.

Il contesto in cui gli studiosi, gli intellet-

tuali e i professionisti si muovono è quello caratterizzato dalla presenza di due concezioni, entrambe, a giudizio dell'autore, errate e pericolosamente pervasive della comunicazione. Da un lato, un euforismo tecnologico dilagante, frutto di un'ideologia ingegneristica ed economicistica che si ammanta di un'utopia semplicistica e disarmante che sembra promettere l'arrivo imminente di un'epoca di comunicazione universale, come se per comunicare bastasse saper adoperare i nuovi mezzi di comunicazione di massa; dall'altro, un nichilismo cupo privo di futuro e speranze, che sta gettando nell'anomia coorti sempre più numerose di giovani di tutti i continenti, e che riflette una concatenazione difficilmente estricabile di pregiudizi accademico-intellettuali e politico-ideologici sulla comunicazione ed, in particolare, sul più centrale tra i media, la televisione.

Bechelloni propone un nuovo paradigma, affermando una visione della realtà sociale e politica improntata ad un costruttivo realismo, senza indicare come soluzione, come molti buonisti eredi di sogni promettori smentiti dalla Storia, una koiné fondata su una comunione universalistica ed irrealistica di fini ultimi, bensì il suo esatto contrario, vale a dire il riconoscimento delle differenze ed il pluralismo dei valori, a partire dai quali cercare le vie per ascoltare l'altro.

Da qui le critiche al marxismo e allo struttural-funzionalismo, uniti dal medesimo errore di sottovalutazione della soggettività umana, del singolo attore, da educare e socializzare, anziché da comprendere nella sua specifica natura, nel contesto del farsi della modernità. Da qui, la rivalutazione della tradizione dell'individualismo e del 159

pragmatismo americano (da Whitman a Dewey) e di tutti quegli autori e linee di pensiero, che nel )(D( e XX secolo, sulla scia della lezione di grandi teorici sociali come Marcel Mauss e Norbert Elias, mediati da Erving Goffman e Marshall McLuhan, hanno esplorato la soggettività.

Per arrivare ad Anthony Giddens, cui è dedicato un importante capitolo, apprezzato per l'importanza che attribuisce ai media nei processi di strutturazione del sociale e di costruzione delle identità, per la sua concezione democratica del potere, per una innovativa capacità di lavorare empiricamente.

Da qui una nuova attenzione, da parte di Bechelloni, alle Audiences, spesso ingiustamente sottovalutate nell'analisi degli effetti dei media.

Da qui, soprattutto, l'invocazione di una Svolta Comunicativa, delineata dall'autore in molte e diverse accezioni, con l'ausilio di un excursus storico inedito che data l'inizio della modernità all'affermarsi di una tradizione greco-romana (contrapposta a quella giudaico-cristiana) che si sviluppa, nella Magna Grecia italiana, nell'Atene di Pericle e nelle terre bagnate dal Mediterraneo nel V secolo Avanti Cristo, perché con essa si affermano le figure del filosofo e del mercante, che operano entrambi, proponendo e scambiando l'uno beni simbolici l'altro beni materiali, nel mercato, vero luogo sociale di origine dell'individuo moderno sradicato e delle sue libertà, e nel quale si impone l'invenzione di nuovi linguaggi per conoscersi e riconoscersi, per attribuire e attribuirsi identità, per darsi regole, per fondare e costruire comunità.

Svolta Comunicativa come grido d'allarme per reagire alle interpretazioni aberranti della comunicazione, che non tengono 160

conto della complessità e dei processi di modernità in atto, che comunicare è maledettamente diffcile ma che è impossibile non comunicare, che le strategie di comunicazione attivate, a vari livelli, negli ultimi anni mostrano disprezzo per i cittadini, che la società dell'informazione non è la società della comunicazione.

Svolta Comunicativa come presa di coscienza e consapevolezza che per comunicare non basta esserci, non basta "aprire la bocca e parlare", e quindi come concetto per teorizzare la comunicazione come problema e come risorsa. Problema che si affaccia alla sensibilità del singolo, del gruppo e dell'organizzazione nel momento in cui comincia ad agire fuori dai recinti delle tradizioni, fuori dal controllo sociale. Risorsa costituita dall'insieme dei saperi e dei comportamenti che deve acquisire ed imparare per stare nei processi e nelle interazioni sociali di una società che si apre: alla democrazia, al mercato e alla formazione, cioè ai tre insiemi istituzionali che, se riescono a costruire un virtuoso equilibrio fra loro, possono far nascere e funzionare una società aperta.

Svolta Comunicativa come identificazione dell'insieme delle trasformazioni sociali alle quali hanno contribuito i media moderni negli ultimi centocinquant'anni concorrendo, dall'invenzione del giornalismo professionale in poi, alla formazione della cosiddetta società mediatizzata. L'avvento e la crescita di nuovi media si sono sempre verificati in contesti storici e in situazioni sociali di accelerazione del mutamento sociale e dei processi si modernizzazione causati da una molteplicità di fattori che non avevano a che fare con i media, i quali però venivano a rappresentare le risposte acceleratrici e complessificatrici a tali cambiamenti; per-

ché allargavano l'ambito della comunicazione, coinvolgendo soggetti non in presenza l'uno dell'altro e sempre più distanti dalle culture di appartenenza.

Svolta Comunicativa come richiesta di intervento scientifico, etico e politico, in un Paese come l'Italia più di altri "imbastardito" da un processo di modernizzazione interrotto, che ha accolto una cultura della comunicazione ipersemplificata, basata su un'americanizzazione lessicale e di facciata, su un entusiasmo acritico per la tecnologizzazione, su un economicismo e un sociologismo indegni per un Paese che ha tradizioni economiche di prima grandezza.

Questi, in sintesi, sono i temi che "Svolta comunicativa" propone all'attenzione dell'opinione pubblica e degli addetti ai lavori Come di consueto, Bechelloni propone, anche in questo suo lavoro, una serie di citazioni, pretesto per attivare riflessioni. Ce n'è una, di Giorgio De Chirico, che forse, più di altre, sottolinea lo spirito di apertura che caratterizza il metodo di lavoro del Professore e della Scuola Fiorentina di Comunicazione: "Siamo esploratori, pronti per nuove partenze".

Il senso e il significato di un libro denso e articolato come "Diventare Italiani", di Giovanni Bechelloni, può cominciare a delinearsi da una domanda che l'autore pone e dalla risposta che fornisce nell'introduzione, una domanda e una risposta provocatone e orgogliose, dopo i fatti dell'i i settem-

bre. Che cosa significa affermare che come italiani non possiamo non dirci cristiani e americani, italiani e moderni? significa, innanzitutto, aver presente la nostra lunga storia, la quale inequivocabilmente assegna tali attributi alla nostra identità collettiva.

Sul nostro essere "cristiani", anzi cattolici romani, non ci possono essere dubbi. Ma siamo anche americani e moderni, aldilà del contributo determinante dato dall'emigrazione italiana allo sviluppo della Nazione Americana. L'invenzione del capitalismo e della libertà privata e la rilettura della tradizione repubblicana romana (due importanti lasciti dell'Italia medievale e rinascimentale) operate dai rivoluzionari americani sono all'origine di quel processo di secolarizzazione che è parte costitutiva delle modernizzazioni, segnando il passaggio dal tempo sacro, dal tempo della chiesa, al tempo del mercato e del mercante. E il passaggio dalla libertà degli antichi, così intrinsecamente intrisa di dispotismo, alla libertà dei moderni, che hanno trovato negli Stati Uniti la loro massima espressione, sono la premessa e il fondamento della democrazia rappresentativa.

Se è vero che non possiamo non dirci, ad un tempo, cristiani e americani, italiani e moderni, è altrettanto vero che per diventarlo nei fatti dei nostri comportamenti quotidiani e nel funzionamento delle nostre istituzioni è necessario imparare sia a coltivare la memoria collettiva dell'Italia e degli italiani sia a comunicarla tra noi, alle nuove generazioni e agli altri. Se comunicare significa soprattutto porsi il problema dell'altro (imparando ad ascoltarlo) e se, dunque, l'identità di un Paese e dei suoi abitatori dipende dalla capacità di comunicarla, di metterla in gioco nell'agire comunicativo, nei comportamenti che si attivano con l'altro, diventa cruciale porsi il problema del rapporto di interdipendenza tra la capacità di coltivare la memoria collettiva e quella di comunicarla. Se manca la prima manca anche la seconda. E la prima manca, secondo 161

l'ipotesi centrale del libro dell'autore, perché i "capi sono nemici' perché in altre parole, le classi dirigenti italiane post-unitarie nella successione dei tre regimi che hanno governato lo Stato italiano - non sono riuscite ad essere una classe dirigente nazionale, non hanno saputo rappresentare gli italiani, non li hanno saputi ascoltare.

Bechelloni ricostruisce l'itinerario che ha percorso e sta percorrendo (ricco anche di riferimenti autobiografici) per costruire il tema e l'ipotesi interpretativa che lo declina con riferimento al processo di nazionalizzazione degli italiani, inteso come un processo di lunga durata non ancora concluso e dagli esiti aperti. Un percorso nel quale lo Stato unitario, costruito da segmenti delle classi dirigenti nel succedersi dei tre regimi che lo hanno caratterizzato - monarchico-liberale, monarchico-fascista, repubblicano-democratico - si è trovato più volte in rotta di collisione con gli italiani, non riuscendo a legittimarsi, a mettersi in sintonia col processo di nazionalizzazione che gli italiani percorrevano "per conto loro", attraverso i rapporti e le configurazioni che andavano costruendo con i viaggi, il mercato, i media, lo sport; un processo di nazionalizzazione che ha portato centodieci-centoventi milioni di italiani - in Italia e fuori d'Italia - a sentirsi parte di una noità, di quella comunità immaginaria e immaginata che si chiama nazione. La nazione può esistere indipendentemente o anche contro e ai margini dello Stato nazionale, purché si diano almeno tre elementi: la visibilità di un territorio percepito come immaginario e comune, una lingua d'uso, una memoria storica comune. È necessaria molta umiltà, mettersi all'ascolto e guardare all'Italia non solo dal punto di vista degli intellettuali, delle élites 162

dirigenti, bensì anche dal punto di vista delle persone comuni, degli esseri umani in carne e ossa, che sono nati e cresciuti in questo Paese, che ci vivono e ci lavorano, che lo fanno esistere, con le loro interazioni e con le loro culture, così comZ Il capitolo 6, Biennio fatale, è centrale. Le vicende occorse in Italia nel biennio 194345 e in particolare nei ventidue mesi che intercorrono tra il 10 luglio 1943 - sbarco degli Alleati sulle coste meridionali della Sicilia e il 25 aprile 1945, data simbolo della Liberazione - sono decisive per comprendere quella che Bechelloni considera una svolta nel lungo processo di nazionalizzazione degli italiani. Una svolta provocata dal fatto che la stragrande maggioranza degli italiani - potenzialmente tutti - ha sperimentato, per la prima volta direttamente e in prima persona, il sentimento della propria comune appartenenza alla nazionalità italiana. La guerra, con la seconda guerra

mondiale, diventa un fatto sociale importante perché: 1) si impiega per la prima volta in modo massiccio la forza aerea; 2) per la prima volta le truppe terrestri non si spostano più a piedi o a cavallo bensì su mezzi di trasporto semoventi e corazzati, dotati di una velocità e di una potenza di fuoco incommensurabili rispetto al passato; 3) durante la seconda guerra mondiale si realizza una presenza importante, in quasi tutti i Paesi, di una forma di guerra - la lotta partigiana - che contribuisce a generalizzare la presenza della guerra sul territorio e a rendere labili i confini tra soldati e civili. Il fatto che gli italiani, soprattutto quelli di loro più chiusi nei confini istituzionali della sola famiglia, abbiano potuto partecipare il valore della territorialità, che è elemento costitutivo della nazionalità, proprio nel mo-

mento in cui lo Stato - che si era proposto come simbolo e nume tutelare della nazione - si sfascia e le classi dirigenti si dividono e si combattono in nome di contrapposte ideologie, il fatto di questa percezione è, a giudizio del sociologo fiorentino, molto importante per capire gli sviluppi successivi alla guerra della storia italiana. Tra l'istituzione famiglia, che durante la guerra celebra la sua forza di sempre, e l'istituzione Stato, che durante la guerra si sfascia e non regge alla prova, si viene a costituire una realtà intermedia, indipendente dalla famiglia e dallo Stato, che è la coscienza collettiva nazionale, l'idea che gli italiani sono accomunati dalla residenza su di un territorio ben identificato dalla geografia e dalla storia. Un territorio che la guerra ha violato; ma che proprio quella violazione ha reso riconoscibile come comune agli italiani, come spazio delimitante di una noità. Il fallimento principale delle classi dirigenti è stato quello di non proporre al Paese ideali e miti comuni nei quali fosse possibile identificarsi, ideali e miti radicati in una ben intesa concezione e conoscenza dei caratteri costitutivi della nazionalità italiana Non è vero, come molti sostengono, che gli italiani non abbiano un sentimento nazionale e che quèsto sia un tratto distintivo della nostra noità. Bechelloni sostiene, da un lato, che tale sentimento esiste e ha origini lontane nel tempo e dall'altro che esso si è venuto allargando e consolidando a partire dalla nascita dello Stato unitario e, soprattutto, a partire dal biennio 1943-45.

In secondo luogo, l'autore argomenta che nella costruzione, nel mantenimento e nella generalizzazione di tale sentimento di appartenenza, un ruolo centrale e importante

è stato svolto dai media di comunicazione e, tra essi negli ultimi cinquant'anni, soprattutto dalla televisione.

Controcorrente rispetto all'opinione di molti commentatori è Bechelloni anche quando sostiene, in base a molte ricerche condotte sul campo, che gli italiani percepiscono bene il loro senso di appartenenza.

Semmai prendono le distanze dalle istituzioni. Colgono le dimensioni geografiche e storiche del proprio destino ma nutrono riserve, non hanno per le istituzioni e lo Stato la stessa fiducia degli altri europei. Sono dati su cui riflettere, soprattutto a proposito dei riferimenti, che si trovano negli elaborati dei giovani, al carattere interattivo dell'identità, quando parlano della "scoperta" che hanno fatto della propria identità italiana attraverso la duplice esperienza delle migrazioni interne o dei viaggi all'estero. Come la storia, così molta della comunicazione è rimossa.

Quando si leggono le recenti analisi sulla decadenza della sfera pubblica e sulla debolezza del senso civico si può capire che dietro le righe c'è l'idea di un modello di cittadino bene informato e bene educato che assomiglia più a quello di un santo che non a un essere umano in carne e ossa che vive in quest'Italia mal regolata da troppe leggi. Impostare, dunque, un'efficace attività di comunicazione pubblica vuol dire molto di più di quanto normalmente si pensi. Il punto fondamentale del ragionamento dell'autore è che la comunicazione diventa necessaria nel cambiamento, nella società aperta, nella mobilità. Perché la cultura della comunicazione è un complesso bagaglio intellettuale al servizio della costruzione comunitaria, della condivisione.

(Andrea Pannocchia)

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Diventare italiani

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