Queste istituzioni 121

Anno XXVIII - n. 121 - trimestrale - gennaio/marzo 2001 Spedizione in abb. postale - 45%, au. 2 comma 20/B legge 662/96 Filiale di Roma

queste e

e

IstitĂşZIORI e

121

Un progetto di lavoro Dentro l'Unione monetaria europea Costituzione, magistratura e amministrazioni

queste istituzioni XXVIII n. 12112001 Dirertote: SERGIO RISTUCCIA condirettore: ANTONIO DI MAJO Redattore capo: SAVERI,\ ADDOTTA comitato di redazione: FAIIIOBISCOrrl, ROSALIIA CORI, FRANCESCA DI LASCIO, ALESSANDRO 1-IINNA,

Anno

GIORGIO PAGANO, MASSIMO RIHAIJDO, CRISTIANO

collaboratori:

A.

RISTUCCIA, ANDREA SI'ADETTA

ARNALDO BAGNASCO, ADOLFO BATTAGI.IA, GIOVANNI BECHELLONI, GIuSEI'I'E

BERTA, GIANFRANCO BETTIN LATTES, Os\'ALDO CROCI, ROMANO BETTINI, DAVID BOGI, GIROLAMO CAIANIELLO, GABRIELE CALVI, MANIN CARABIIA, BERNARDINO CASADEI, MARIO CACIAGLI, MARCO CIMINI, GIusEI'I'E COGLIANDRO, MAssIMO A. CONTE, ERNESTO D'ALIIERGO, MASSIMO DE FELICE, DONATELLA DELLA PORTA, BRUNO DENTE, ANGELA

DI GREGORIO, CARLO

D'ORTA, SERGIO FABBRINI, MARIA ROSARIA FERRARESE, PASQUALE FERRO, TOMMASO FROSINI, CARLO FUSARO, FRANCESCA GAGLIARDUCCI, FRANCO GALLO, GIULIANA GEMELLI, VALERIA GIANNELLA, MARINA GIGANTE, GIUSEPPE GODANO, ALBERTO LACAVA, SIMONA LA ROCCA, GIAMI'AOLO LADU, SERGIO LARICCIA, GIANNI LISIA, ANNICK MAGNIER, ADELE MAGRO, ROSA MAIORINO, GIAMI'AOLo MANZELLA, DONATO MASCIANDARO, PAOLO MIELI, ELINOR

OS- rROI,

VINCENT OSTROM, ALESSANDRO PALANZA, ANDREA PIRAINO, BERNARDO PIZZETTI, IGNAZIO PORTELLI, GIOVANNI POSANI, GUIDO MARIO REY, GIANNI RIorrA, MARCELLO ROMEI, FRANCESCA

ROSSI,

F,\IIRIzI0 SACCOMANNI, LUIGI SAI, GIANCARLO SALVEMINI, MARIA TERESA SALVEMINI,

STEFANO SEPE, URuIIRro SER.AFINI, FRANCESCO SID0TI, ALESSANDRO SILJ, FEDERICO SIANTIGATI, VINCENZO SFAZIANTE, PIERO STEFANI, DAVID SZANTON, JULIA SZANTON, SALVATORE IERESI, VALERIA 1EI(MINI, TIZIANO FERZANI, GUIDO VERUCCI, FEDERICO ZAMPINI, ANDREA ZOI'PINI

Sqretaria amministrativa: PAOLA ZACCH I NI Direzione e Redazione: Via EnnioQuirino Visconti, 20 - 00193 Tel. 0613208732 - Fax e segreteria telefonica 06/3208628

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Responsabile: GIOVANNI BECH ELLON I Editore:

QUES.I.RE srI QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE

ISSN 1121-3353 Stampa: Litoprint sri - Aprilia In copertina: elaborazione a cura di Jnrealma

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana

14.847(12

dicembre

1972)

N. 121 2001

Indice

III

Un progetto di lavoro

Taccuino i

Riforma dei servizi pubblici locali: la prospettiva dell'attuazione Sergio Ristuccia

7

Il federalismo: uso e abuso Umberto Serafini

19

Ritratti: Impresa a Rete Saveria Addotta

Dentro l'Unione monetaria europea 33

Banca d'Italia, Banca centrale europea e questione dell'autonomia Osvaldo Croci, Paul Bowies, Brian K. MacLean

49

Finanza locale e mercato dei capitali Maria Teresa Salvemini

61

Costituzione, magistratura e amministrazioni Il problema dell'ampliamento della democrazia Nino Longobardi

Rubriche 110

Notizie da...

116

Segnalazioni

editoriale

Un progetto di lavoro

Diamo inizio ad una nuova serie della Rivista. Una delle varie già sperimentate e come questa caratterizzate, innanzitutto, da una veste grafica aggiornata. Un restyling, come si dice. Che, tuttavia, è modesto, fatto di ritocchi nella grafica della testata, nella copertina, nella composizione delle pagine. Su questo numero non si troverà il formato della composizione su due colonne, che in seguito potremo riprendere, per parti dedicate alla pubblicazione di documenti utili ad integrare i nostri dossier.

Formula, questa dei dossier, che ormai molte altre riviste seguono.

Linizio del nuovo millennio è divenuto, quindi, anche per noi un'occasione per cambiare. Ma non soltanto, naturalmente, per quel che riguarda la veste grafica.

Abbiamo scandito su due righe la testata. Per alleggerirla sul piano visivo, ma anche per evidenziare meglio un'intenzione di approfondimento e di messa a fuoco. Le istituzioni che ci interessano sono "queste", cioè l'una e l'altra e l'altra, nella loro diversità e non facendo sistema delle une e delle altre. È un modo per uscire da quanto può risultare datato nella testata (scelta nel contesto della temperie culturale degli anni Settanta: bisognerà riandare all'editoriale di apertura e fare i conti con la storia a cui apparteniamo), ma è anche un modo per sottolineare una linea editoriale.

Come abbiamo già avuto modo di dire ai nostri abbonati, queste istituzioni intende porsi in maggiore consonanza con la cultura di cui professionisti di varia specializzazione, amministratori e operatori del servizio pubblico e delle infrastrutture sociali sono produttori e referenti. La Società che edita la rivista si considera parte e soggetto di promozione ditale cultura.

Continueremo, così, ad analizzare i punti critici della vita istituzionale e amministrativa ma con una maggiore attenzione a problemi ben individuati e alla loro soluzione.

Dunque, senza trascurare i temi forti del nostro interesse politico (l'Europa del diritto, soprattutto), il lavoro redazionale si organizza intorno a temi e problemi delle comunità ed istituzioni locali, del mondo non profit, delle professioni; con una particolare àttenzione nei confronti dei settori. trainanti per lo sviluppo locale: le cosiddette utilities.

III

Ambiti apparentemente eterogenei ma che, in realtà, hanno un comune riferimento: sono i luoghi tematici dove si giocano molti dei fenomeni di trasformazione delle società "europee" e la loro capacità di inventare modelli per una migliore qualità di vita.

La Rivista vuole rappresentare, o meglio contribuire a costruire il background culturale della Società che la edita, (sul modello - un po' alla lontana - di noti quarterly della tradizione delle società di consulenza statunitensi), rimanendo uno strumento per raccontare l'evoluzione del rapporto tra istituzioni e comunità civile.

Da qui, l'esigenza di un ulteriore elemento all'interno del Taccuino: il segmento "Ritratti". Si tratterà di rapide interviste o agili articoli che illustrano la posizione, su determinati temi affrontati nei dossier, dei protagonisti di quel circuito - enti locali, non profit, comunità civile - che rappresenta il punto di riferimento di queste istituzioni.

In questa nuova sezione, che speriamo ottenga la partecipazione di un sempre maggior numero di collaboratori, vogliamo appunto che i soggetti di riferimento del nostro impegno editoriale possano raccontare al lettore lo stato dell'arte della propria attività, le loro aspettative, gli scenari di riferimento.

Non ultima novità è il nostro legame con la Rete.

Stiamo mettendo a punto i collegamenti con due siti: quello della Società editrice (www.ristucciaadvisors.com ) e quello dedicato ai servizi pubblici locali (servizilocali.com ). Nel corso dell'anno, la Rivista si ritroverà su Internet, secondo modalità che presto illustreremo. Ed, in parte, vi si troveranno anticipazioni importanti della Rivista. La quarta serie di queste istituzioni sarà quindi anche una serie di e-review.

Tutto nell'aspettativa di stabilire un circuito di collegamento efficace - e ci auguriamo pi1 gradito - con lettori e collaboratori.

Iv

taccuino

Riforma dei servizi pubblici locali: la prospettiva dell'attuazione di Sergio Ristuccia

Quello che segue è il testo della relazione di Sergio Ristuccia alla presentazione del volume 'Le liberalizzazioni e le privatizzazioni dei servizi pubblici locali" (a cura di Alberto Quadriocurzio e Marco Fortis, Ed. il Mulino) della Fondazione Montedison Comunità e Innovazione. La presentazione è avvenuta il 18 luglio scorso, a Roma, presso la Sala Santa Chiara de/Senato della Repubblica.

1 mio punto di vista in questo incontro - in cui, dall'occasione del libro su "Le liberalizzazioni e la privatizzazione dei servizi pubblici locali", non si può che riandare al tema sostanziale dello stato attuale del disegno di legge di riforma dei servizi pubblici locali - è quello del professionista. Professionista legale e professionista della consulenza direzionale delle amministrazioni pubbliche. Come tale si deve mantenere una linea di osservazione indipendente che - questa è una mia forte convinzione -, deve fondarsi su un metodo analitico e valutativo, frutto di quelle che sono le scienze sociali applicate.

Far buona professione, oggi, significa anche fare, in qualche misura, buon esercizio di analisi sociale con capacità di individuazione dei problemi; il che significa mettere insieme i punti di vista diversi e, quindi, non soltanto giuridici ma anche economici, aziendali e sociali. Ed è questa una delle ragioni per le quali sono impegnato proprio nel campo delle scienze sociali.

Non sembri stravagante questa dichiarazione, perché credo che il mio punto di osservazione faciliti qualche considerazione sull'aspetto più controverso della legge in corso di approvazione, oggetto continuo di grandi polemiche e di discussione: la lunghezza del pe-

J

Uimportanza dell'analisi sociale

nodo transitorio e del meccanismo di deleghe che viene previsto all'interno della legge.

Nel «'Libro Bianco" che, da me coordinato, costituisce la prima parte del volume della Fondazione Montedison Comunità e Innovazione, viene affermata un'opinione sostanzialmente sfavorevole a lunghi periodi transitori.

E devo dire perché, proprio all'interno del particolare punto di vista di cui parlavo prima. Perché nella storia delle applicazioni, delle realizzazioni delle importanti riforme legislative mai lunghi periodi transitori hanno facilitato la soluzione della complessità della materia.

In qualche misura è meglio, come dire, "buttarsi in acqua per nuotare", che non rinviare il momento della prova.

Ciò, tuttavia, non significa affatto che il processo di trasformazione sia un processo semplice e di facile realizzazione. Al contrario, è assolutamente complesso, sia dal punto di vista dell'analista giuridico, che facilmente può prevedere l'intreccio tra questa legge e gli ordinamenti di settore nei quali andrà ad impattare, con problemi interpretativi non scontati né di facile soluzione, sia sotto altri profili.

Si considerino quelli delle strategie aziendali fondamentali dei rapporti con gli utenti.

Perché è meglio "buttarsi in acqua e nuotare"

Un problema che, in qualche modo, fa ritenere che ci troviamo di fronte - fuori da ogni dubbio - ad un sistema da implementare che è inedito e che rompe, come è stato detto, il lungo periodo della municipalizzazione. Il '900, non solo in Italia, è da Giolitti ad oggi il secolo della municipalizzazione, pur passando per momenti diversi e per situazioni storiche diverse. Chiudere il secolo della municipalizzazione e trasformarlo in un sistema evoluto, ma assai diverso, dà la misura della complessità della realizzazione. Occorre rendersi conto che la sofisticazione dei rapporti interni a questo processo è più ampia di quella che poteva essere immaginata alla fine degli anni Ottanta: per esempio, quando il tema della privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici locali fu posto in America dall'AOR (Advisory Commission for Intergovernmental Relations), che fu una commissione, (ha ormai terminato il suo mandato) che operò con molta efficacia e prestigio durante la presidenza Reagan.

Chiudere il secolo della municipalizzazione

2

Quella commissione riprese una vecchia distinzione all'interno del campo della scienza delle finanze fra la fornitura, o provision, del servizio pubblico e quella della produzione (production). Ciò significa che all'ente pubblico locale spetta provvedere a che i servizi siano resi alla cittadinanza, mentre la produzione degli stessi può anche, se non necessariamente, essere affidata al sistema delle imprese.

E già allora, nei termini in cui questo discorso fu proposto nel 1987-88, erano possibili delle semplificazioni che oggi, leggendo l'iter di quello che adesso è l'Atto Camera 7042, sicuramente non possono più essere fatte. Le tematiche sono assai più complesse.

Proprio nell'ottica del professionista, cioè di chi poi su questi temi si troverà ad essere interpellato nel concreto: temi, come dire, "micr0" che si porranno nelle situazioni particolari dove si tratta di cominciare, concretamente, questo processo di trasformazione. Cominciamo, in altri termini, ad individuare le "criticità", per usare il gergo dei consulenti.

Indubbiamente, la trasformazione del sistema da municipalizzazione a mercato dei servizi pubblici locali deve significare - innanzitutto - accrescimento di valore, creazione del valore com'è nella logica di un mercato concorrenziale. E tuttavia, se parliamo dal punto di vista dei soggetti da trasformare, si possono profilare problemi non modesti di perdita di valore, almeno in una prima fase del processo. Mi riferisco al tema dell'impiantistica e della sua proprietà, alla questione della clientela e della mancanza di una azione di marketing che è stata rilevata anche da recenti ricerche. La clientela è un asset importante delle aziende municipalizzate ma rischia, al momento, di essere sottostimato nel caso di dismissioni.

Il passggio ai mercato

C'è poi il problema degli investimenti. Un problema colossale.

Se ci riferiamo all'area del servizio idrico, ci si trova di fronte al dato impressionante, cne rru ricavatociiue anni rar aaii i ' irs, in una ricerca condotta sulla base dell'archivio dei certificati e dei conti consuntivi comunali - una ricerca attendibile e di grande interesse - gli investimenti nel campo dell'acqua, dal 1985 al 1995, sono calati drasticamente della metà. Non credo che dal '95 ad oggi siano cresciuti.

Andando a vedere ie prospettive evidenziate dal libro che stiamo presentando, il problema che salta agli occhi è quello della vastità

Il problema

degli investimenti

3

degli investimenti da compiere, anche per aziende che sono tutto sommato ben funzionanti, almeno da un punto di vista impiantistico. Lo stesso Irs ha fatto un calcolo due anni fa secondo il quale il fabbisogno di investimenti nel settore idrico è di circa 50 mila miliardi. D'altra parte, sempre riferendomi ai casi che si possono fare in concreto, tali conti tornano: i fabbisogni che si rilevano dall'esperienza concreta sono, nella dimensione specifica, di un ordine di grandezza assai cospicuo. È questo uno dei punti di maggiore criticità.

Che siano calati gli investimenti dal 1985 al 1995 è, probabilmente, dovuto a tutto l'andamento della finanza locale in quel periodo.

Una finanza stretta fra gli obblighi del risanamento. Agli effetti di vincoli severi, si è sommato lo stato di stallo determinato dalla stessa Legge "Galli": come sempre, nelle fasi dell'attuazione di una nuova legislazione, gli investimenti rimangono sostanzialmente fermi. Sarebbe, comunque, interessante verificare questi dati anche sulla base di altre fonti.

Da qui si passa all'altro tema di grande rilievo che è quello della tariffa, in quanto è dal sistema tariffario che poi dipendono gli investimenti. Un altro punto di grande criticità. È veramente possibile caricare sulle tariffe tutto il carico degli investimenti?

Continuiamo a segnalare, anche senza un ordine preciso, i problemi Gli altri critici. punti critici Uno, certo rilevante, è dato dalla mancanza di una vera e propria "cultura delle gare". Le gare vogliono una capacità ad hoc delle amministrazioni. Oggi queste si avvalgono delle consulenze, ma non è detto che i consulenti abbiano sempre la capacità che manca alle amministrazioni. Anche loro "devono studiare". Il mercato della consulenza dovrà essere fondato sul valore delle conoscenze reali possedute.

Guardando in prospettiva, il tema "capacità di fare gare" è tutt'uno con quello della innovazione all'interno della cultura amministrativa. Le amministrazioni italiane non amano fare confronti con le altre, ma su questo terreno mi pare che la capacità di fare gare sia ancora lontana dal giusto livello perché un così grosso processo di trasformazione possa essere portato avanti con sollecitudine.

Basta considerare che la tradizione amministrativa è stata, finora,

4

quella di considerare come parametro principale la gara sul prezzo.

Il prezzo, in un mercato come quello che si presenta nel campo dei servizi pubblici locali, non ha molto senso. Quindi, qui la gara la si fa sull'offerta economicamente più vantaggiosa, vista anche la preferenza in questo senso dell'ordinamento comunitario. Ma predisporre gare di questo tipo è un problema notevole.

Collegato a questo, ma probabilmente sull'altro lato, quello cioè dei Il problema gestori e quindi non della pubblica amministrazione, c'è il proble- della ma - credo che si ponga immediatamente con questa trasformazio- gestione ne - di quale debba essere la managerialità per le local utilities.

La municipalizzazione è stata molto spesso, in uno dei suoi aspetti migliori, un meccanismo governato dalla professionalità degli ingegneri ed è stata una buona managerialità. Ma si sono sempre ignorati, finora, managerialità di tipo commerciale, ed anche di negoziazione con la comunità e con gli utenti per acquisirne consenso, laddove questo tema diventa inevitabilmente un tema fondamentale.

E qui ci colleghiamo alla formula che viene proposta da un libro recente di Marsilio/Ristuccia Advisors, Il triangolo dei servizi pubblici.

In questo nuovo meccanismo, non si può non tenere nella giusta considerazione la componente dei consumatori. Nel campo si rischia la retorica, perché la retorica è facile. Il problema è come gli utenti possono organizzarsi e di come debbano influire attraverso strumenti quali le Carte dei servizi od intervenire e interloquire sullo stesso procedimento di formazione del Contratto di servizio.

Anche attraverso l'esame dell'esperienza anglosassone, si giunge ad Il ruolo un altro punto critico fondamentale: quello del ruolo del giudice in dei giudici questa progressiva formazione del mercato. Attori principali della materia dei servizi pubblici, anche nei Paesi anglosassoni, sono stati i giudici. Qualche film ce ne ha dato testimonianza. Da noi sembra aperta la questione, dato che proprio ieri, la Corte Costituzionale ha depositato una sentenza su a chi spetti la competenza in questa materia. Al di là della sentenza, riguardante gli eccessi di delega di norme contenute in decreti legislativi, mi auguro che il sistema trovi una giusta sistemazione e che sia mantenuta al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva sui servizi pubblici locali. Per una ragione assolutamente pragmatica: che tutto sommato la giustizia

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amministrativa ha una buona misura di efficacia-efficienza, sicuramente maggiore della sovraccarica giustizia ordinaria.

Si può dire tutto dei TAR o del Consiglio di Stato, ma i tempi delle questioni davanti a questi due livelli di giurisdizione sono ampiamente pi1 rapidi. In ragione della necessità che questo processo sia presidiato da un giudice dotato di una qualche tempestività, ritengo che aggiustando, come immagino si potrà fare, la questione, possa rimanere questa competenza esclusiva. Ad una condizione: che il giudice amministrativo ragioni sempre pii in termini di un nuovo diritto che poco abbia a che vedere con il diritto amministrativo tradizionale.

Pensando al tema della giustizia, una cosa bisogna pur dirla, risalendo alla questione delle fonti normative. L'impressione è, e in questo mi ricollego a quanto detto inizialmente ed è stato molto efficacemente detto nelle conclusioni del volume dal gruppo degli studiosi che le hanno formulate: non solo non è facile l'implementazione di tutta la normativa ma questa crea grossi problemi di rapporti fra livelli di fonti normative.

Ho segnalato altre volte che la legge in itinere rappresenta la correzione, l'aggiustamento della legge n. 142 del '90 che è una "legge di principi". Tuttavia, in molte parti, vi è un eccesso di rinvio a regolamenti governativi. Credo che in questo modo si creino due problemi: uno di stallo nell'applicazione; il rinvio a regolamenti è sempre stato un incentivo a che le cose rimangano ferme, nell'attesa dell'emanazione, e nel campo delle società miste ne abbiamo avuto ampia riprova. Il secondo problema deriva dal fatto che una legge, che sia di principi, è soltanto tale se opera rimettendosi alla prassi delle autonomie, facendo cioè un grosso rinvio a come il diritto si crea in concreto. Fermi certi principi.

Dove vi sono molti dettagli, e molti rinvii ad altro livello di norme, le leggi finiscono per creare leggi. Linterpretazione della norma vuole non tanto un parere e una sentenza ma una nuova legge.

Personalmente, mi auguro che la legge vada avanti e che, quindi, si metta in moto il meccanismo. Ma è giusto pensare per tempo a queste criticità. Gli operatori che devono gestire la situazione, all'interno del nuovo mercato, devono cominciare ad affrontarle.

La questione normativa

Il federalismo: uso e abuso di Umberto Sera fini

J

1 •fedealismo a • partie da1la Rivoluzione americana „ e dalla teo rizzazione kantiana, e diventato un orientamento dell intera società umana legato a una strategia etico-politica, ma cresciuto e perfezionatosi con successive esperienze e in ambienti diversi, e altresì in "applicazioni” parziali (anche se coerenti). Ma non si presenta, di fronte alle più svariate proposte politiche odierne, come un manuale di prescrizioni precise: ogni proposta va valutata, soprattutto in funzione della sua coerenza con quella strategia eticapolitica e col rispetto delle sue esigenze. Indubbiamente, il federalismo si presenta a tutti i livelli come inconciliabile con l'idea della guerra o, più generalmente, con la prevalenza assoluta, in tutti i rapporti fra comunità umane di tutte le dimensioni e di tutti i livelli, del "giusto" da valutare con un negoziato previsto da norme "costituzionali" concordate, respingendo a priori quel che viene chiamato volgarmente il "diritto della forza", cioè, in parole povere, la violenza. Si tende, ormai, a definire il federalismo come la democrazia dell'interdipendenza planetaria di tutti i rapporti fra le comunità umane di qualsiasi dimensione e qualità.

Ma perché si data a fine Settecento l'inizio della "rivoluzione" fede- La ralista? Con quale legittimità? L'incubazione è stata storicamente "rivoluzione" lunga ma si è trattato del lungo viaggio di una utopia (la pace stabile federalista e garantita nella giustizia e nella libertà), che è diventata centrale nell'evoluzione dell'umanità per l'occasione di una serie di eventi concorrenti, favorevoli e anche antagonisti e stimolanti. La rivolta delle "colonie americane", risolta con un sistema politico "che funzionava"; la simultanea Rivoluzione francese, con le sue luci e le sue ombre; un filosofo (Kant), che seguì passo passo le due Rivoluzioni (americana e francese) e utilizzò genialmente il precedente pensiero cosmopolitico occidentale. Non si avverte frequentemente, d'altra parte, il condizionamento positivo inglese della Rivoluzione americana: il feudalesimo inglese (i Normanni!) non si sviluppò in antago7

nismo al re, ma condizionando il re (la sovranità "divisa"), negando il re come re teocratico, re per grazia divina, e impegnandolo come supremo signore feudale, e il feudalesimo si basava su un contratto fra il signore e il vassallo, dando luogo ad "obblighi reciproci non unilaterali". Non risultò, invece, neanche un antagonista irriducibile del movimento comunale, il quale venne a partecipare a sua volta a un ampio sistema contrattuale, che aveva nel Parlamento nazionale il luogo di mediazione. «La teoria dei diritti naturali dell'uomo, col necessario corollario del patto e del consenso, trovò un terreno fertile preparato dalla civiltà feudale". Conclude Walter Ullmann, nell'eccellente e affascinante volume Individuo e società nel Medioevo (edizione italiana Bari, 1974): "Vi è una linea netta che congiunge Locke", cioè il teorico del liberalismo inglese, "al patto e al consenso feudale del Medioevo e alla Dichiarazione di indipendenza americana" (1776). Ma la convenzione di Filadelfia (1787), che è rappresentata nella sua apparente "novità informatrice" nel classico Federalist, di Hamilton, Jay e Madison andrebbe approfondita analizzando la preparazione di ciascuno dei tre autori: limitandoci ad affrontare Madison, apprendiamo che studiò, storicamente, gli esperimenti precedenti di "federalismo" e arrivò a un'affermazione che è calzante, a pennello, nel 1999: la Federazione non regge se è fra gli Stati (e i loro governi) ma deve esprimere un governo direttamente rappresentativo di tutti i cittadini dell'Unione (e tanti saluti all'attuale Europa intergovernativa: essa non preoccupa numerosi uomini politici, che si dichiarano - a torto - federalisti).

Il successivo, crescente successo della Federazione americana coin- Il volse la riflessione di almeno tre Potenze coloniali - lo stesso Regno coronamento Unito, la Francia, la Spagna - e il "sistema" fu lucidamente illustra- kantiano to agli europei quanto meno da due opere classiche, De la démocratie en Amérique (1835-1840) di Alexis de Tocqueville e The j4merican Commonwealth (1888) di James Bryce; inoltre, l'esistenza e la stessa lotta interna fra "conservatori" e "idealisti" negli Stati Uniti d'America produsse una svolta realistica nei pacifisti tradizionali dell'ambito illuminista (sintomatico a sua volta il fatto che, in occasione del grande congresso pacifista di Ginevra del 1867, Garibaldi e Victor Hugo appoggiarono la creazione del periodico "Stati Uniti d'Europa"). Il federalismo assunse, definitivamente, il suo coronaH .

mento kantiano, cosmopolitico, come irrinunciabile. Lo conservò quando, dopo l'esperienza americana, in molti Paesi europei si produsse - sia nella teoria che nella pratica - il processo inverso. Dopo l'Unione di più Stati si ebbe l'articolazione regionale, antiautoritaria ed autonomista, nello Stato: è ovvio ricordare Proudhon, come per noi italiani è consueto ricordare Carlo Cattaneo e il meno consueto Giuseppe Ferrari, come per la Germania il cattolico Costantin Franz (1817-1891, rivalutato in questo dopoguerra da Brugmans, nel suo "Panorama del pensiero federalista"), tenace avversario di Bismarck e del suo Stato nazionale autoritario. Tutti guardavano alla "logica" riforma sovranazionale (gli Stati Uniti d'Europa di Cattaneo). Meno noto, ma sintomatico, è Parrik Geddes, conosciuto prevalentemente come maestro di urbanistica: ora che è di moda la "devoluzione", è bene sottolineare di questo grande regionalista scozzese che (come ha scritto il suo interprete Peter Green - nella sua introduzione al classico "City development", di Geddes del 1904): "his regionalism had wider connotations than the narrow separatist ideal. Scotland, for Geddes, was an entity made up ofdifferent regional units and set within a British and European framework. Nationalism without internationalism was inthinkable..."

Negli studi europei "continentali" viene alquanto trascurata tutta la L'esperienza straordinaria esperienza inglese (e, a fianco di essa, l'esperienza in- inglese diana) in tema di federalismo; nella teoria, anche qui, e nella pratica. Ci limiteremo a ricordare la polemica dello storico Seeley contro i pacifisti (un pacifismo efficace deve implicare un cambiamento di sistema politico non solo negli Stati ma fra gli Stati): ma è da tener presente l'intera attività della Imperial Federation League, volta a guardare con una prospettiva federalista l'Impero britannico, e da qui allargare il colpo d'occhio alle considerazioni cosmopolitiche di un gruppo federalista, di cui ci limiteremo a ricordare Lione! Curtis (il suo oggetto non è il solo Impero britannico, ma sono le sorti del Mondo). Comunque, l'intera storia del Commonwealth britannico va approfondita, cogliendo la divergenza tra coloro che possono essere considerati i predecessori del Presidente (americano) Wilson (un concerto di Paesi liberi e democratici: ma nell'impero britannico salvava dall'anarchia l'egemonia della Corona britannica, mentre, dopo la prima guerra mondiale, con Wilson, mancava il "rego9

latore", autoritario o democratico) e coloro (perdenti) che erano federalisti (nella madre-patria britannica nasce e si ramifica la Federal Union). Sul Commonwealth, poi, è stata alquanto sorvolata alla storia dei singoli Dominions: si ricorda, appena, la richiesta della Nuova Zelanda di un'Assemblea democratica del Commonwealth.

Una attenzione specifica va rivolta all'India, che è sfociata in quella Federazione che - piaccia o dispiaccia - è l'Unione Indiana, la quale molto deve a Jawaharlal Nehru.

LUnione indiana federale è nata in un momento terribile e molto deve, dicevamo, alla freddezza di Jawaharlal, laico e di una cultura euroasiatica, assai elevata sia nella componente indiana che in quella europea non solo inglese: conosceva bene, fra l'altro, il Risorgimento italiano, (e rimane un mistero che in Italia non ci sia stato, a mia conoscenza, un editore delle sue straordinarie lettere dal carcere alla figlia Indira). Tutta la storia e la realtà indiana, del resto, richiedevano, conquistata l'indipendenza, una logica soluzione unitaria e federale: il Pakistan ha rappresentato una pessima anomalia, dovuta più che alla parte più retriva dell'islamismo come tale alla spinta di irrisolti problemi economico-sociali (l'egemonia finanziaria degli Indù, causata dal divieto coranico del denaro a prestito retribuito, ecc.). La convivenza di comunità religiose e culturali, assai diverse, non ha evitato storicamente soprassalti sanguinosi, ma ha anche visto lungamente una pacifica "vita comune" tra indù e musulmani, non raramente anche nello stesso villaggio. Il "congresso" di Gandhi, dopo uno splendido lavoro di anni, ha fallito in politica istituzionale la soluzione unitaria, ma Nehru ha salvato l'unità dell'India, con una soluzione chiaramente federale, che comprende una minoranza islamica numerosa quanto alcuni dei più estesi e popolati Stati islamici.

Comunque, da parte inglese, tutto sommato, ci sono state responsabilità "conservatrici", particolarmente dell'Indian civil service, nel non facilitare la convivenza, anzi nello sperare di utilizzare nell'India "abbandonata" un machiavellico "divide et impera": viceversa la cultura inglese democratica ha collaborato alla ideazione federale nell'unità, tra l'altro col Nuffield Report on the Constitutional Problem in India (Oxford 1942) di Reginald Coupland. Ci attardiamo sul federalismo indiano, perché esso rappresenta un illuminante incontro fra Asia ed Europa, citando due esempi.

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e quella indiana ...

Il primo nella Rivoluzione Comunista russa del '17 un indiano divenne capo del Dipartimento orientale del Comintern, Manvendra Nath Roy. Già prima della Rivoluzione d'ottobre c'era stata una disputa tra Lenin, contrario, e Trotzky, favorevole, alla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa, che si incrociava con la questione nazionale (Lenin, 1914: "Sul diritto di autodecisione delle nazioni") e coloniale. Rosa Luxembourg, la "marxista rivoluzionaria", aveva dissensi con Lenin sulla «questione nazionale , perche si basava su un eurocentrismo non piui accettabile. Trotzky continuò a considerare il superamento delle frontiere nazionali necessario e lo ribadì in una intervista, nel pieno della Rivoluzione d'ottobre, a John Reed (che la riportò nel libro famoso "Dieci giorni che sconvolsero il mondo"). "Nella conclusione della pace" disse allora Trotzky; "la Russia rivoluzionaria avrà come direttive: nessuna annessione, nessuna indennità, diritto dei popoli di disporre di se stessi, creazione della Repubblica federale europea". Emarginato ormai dalla politica sovietica ed esule, Trotzky si dichiarò poi a favore del briandismo (la Paneuropa), che poteva raggiungere una ragionevole autonomia dall'America: "statu quo? No, Stati Uniti d'Europa" (cioè la sua prospettiva andava ben al di là della visione strumentale dei "fronti popolari"); soprattutto, nell'affermarsi del nazismo egli prevedeva una nuova guerra mondiale.

Comunque, nel frattempo il ricordato indiano Roy, alto dirigente comunista, percorreva una analoga linea di pensiero (ma intanto, dissentendo da Lenin, la "rivoluzionaria" Rosa Luxembourg polemizzava sul modo di intendere la democrazia socialista e sulle insufficienti garanzie leniniste di attività libertarie: ovviamente, con ciò l'Unione sovietica non poteva considerarsi in nessun modo una autentica Unione federale); nel 1928, quando il VI Congresso del Comintem lanciò la tesi del socialfascismo (tesi estremista, settaria e inevitabilmente isolazionista), M. N. Roy abbandonò il comunismo "ufficiale" e si dichiarò fautore di un "fronte democratico contro il fascismo". Le vicende posteriori di Roy, rientrato in India e imprigionato sul momento dagli inglesi, non pii "sovietico" ma avversando, tuttavia, il verticismo nazionalista del Partito indiano del Congresso, lo portarono a un marxismo revisionista e, col tempo, a posizioni di democrazia radicale (partendo dal villaggio e ipotizzando una piramide di federalismo radicale, che, talvolta, sembra ricordare L'ordine politico della Comunità di Adriano Olivetti). Nel 1949, a

Due esempi

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guerra mondiale conclusa, Roy - nel libro "The Russian Revolution" lanciò la speranza di una evoluzione dell'Unione Sovietica e della creazione di una democratica comunità (Commonwealth) d'Europa, che avrebbe significato un apporto decisivo della Rivoluzione Russa, bene intesa.

Il secondo esempio: l'apporto politico e culturale di Rajagopalachari.

Rajagopalachari era un indiano di Madras (cioè dell'India meridionale del Gruppo linguistico dravidiano) ed è stato considerato uno dei tre pupilli di Gandhi (gli altri due erano Rajendra Prasad e Va1labhai - non Vitalbhai - Pate!) ma nel cuore del conflitto mondiale e durante uno degli scioperi patriottici del Congress Party ebbe il coraggio di richiamare ai suoi concittadini e compagni, sia pure con la più severa e coerente avversione al dominio inglese, il fatto che l'obiettivo primario dell'umanità, anche al di sopra dell'indipendenza indiana, era la vittoria della democrazia contro il fascismo.

Scrivendo di Gandhi e della sua formazione è usuale richiamare Tolstoj, Ruskin, Thoreau (e meno la poco conosciuta influenza indigena della religione giainista sull'induismo della sua famiglia indù, originaria del Gujarat), di Rajogopalahari non si ricordano invece i suoi studi su Marc'Aurelio e, quindi, suiio stoicismo. Non si usa notare, sul cosmopolitismo dei federalisti, la vecchia suggestione dello stoicismo (che, ricordo, mi influenzò da ragazzo prima di una completa adesione al federalismo): "lo stoico sa... di essere cittadino di uno Stato esteso quanto il mondo (cosmopolitismo) sa di appartenere a una società universale di esseri ragionevoli; ammette la partecipazione di tutti a certi diritti che sono posti dalla natura (ingiustizia della schiavitù)"; per brevità riporto un mio appunto adolescenziale, quando mi stavo avviando al federalismo.

Rajagopalachari non è un caso isolato e poi si tratta di una delle teste più quadre del Congress Party (è bene sottolineare qui l'appoggio che Giovanni Gentile, il presuntuoso irresponsabile, diede a Subas Chandra Bose, il leader del manipolo degli indipendentisti indiani che se ne andarono coi giapponesi, i quali avanzavano verso l'India tra non sconosciuta crudeltà di intensità nazista).

Oggi, ecco un esempio di federalismo male inteso (infantile), non U. tanto occorre biasimare il nazionalismo dell'Unione indiana, accu- federalismo male inteso sata tra l'altro di "colpevoli esperienze atomiche", quanto mettere 12

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anzitutto sotto accusa una parziale riforma progettata dell'ONu (con la spinta specifica degli USA), che santifica, anzi accresce la posizione egemonica degli Stati con poteri acquisiti e di altri potentati ritenuti "comodi", escludendo da una collocazione stabile, nel Consiglio di sicurezza, con pieno diritto di veto (quanto coloro che già ne godono e finché ne godono), l'Unione indiana, accusandola di bellicosità atomica, quando essa rimane priva di strumenti negoziali essenziali e si trova "sulla testa" la nemica essenziale, la Cina atomica. Ma un passo indietro, storico, è necessario, ed è il riconoscimento e l'appoggio adeguato negato a Gorbaciov dopo la caduta del muro di Berlino (errore capitale degli USA e inesistenza dell'Unione europea). Ora può essere tardi (ma non è mai realmente tardi) riaprire un discorso radicale, che fallì per l'opposizione sovietica alla sovranazionalità, allorché il Rapporto Acheson-Lilienthal (maggio 1946) ammetteva che il monopolio atomico statunitense non poteva durare, chiedeva senza indugio un controllo internazionale e si spingeva a prevedere - o quanto meno ad auspicare - "la fine di ogni guerra".

Il fallimento del "piano (americano) Baruch di governo mondiale della pace" (anche diplomaticarnente svirilizzato, tanto che nel 1958 produsse il ripensamento pesantemente critico di Grenville Clark, che sottolineava cosa richiedano in realtà la pace e una ONu seriamente funzionante, attraverso lo studio "World Peace through World Law") determinò, a sua volta, il secondo fallimento storico di una autentica "Società delle Nazioni (democratica e dotata di poteri reali)". Gorbaciov, poi, comprese in pieno la ormai incontestabile interdipendenza economica, ambientale, politica, culturale dell'intero Pianeta e l'esigenza di inventare la democrazia planetaria: non fu aiutato, con appoggio tempestivo, neanche a sopravvivere nel suo Paese. Ma il problema del governo mondiale, indipendentemente dalla bomba atomica, esisteva già da tempo; almeno dal fallimento dell'assetto mondiale dopo il primo conflitto mondiale, e si fa oggidì sempre più impellente, mentre andiamo verso l'anarchia di una umanità sottoposta a una crescita esponenziale, incontrollata, del cosiddetto progresso tecnologico. Non solo, ma anche ci costringe la "scoperta, dei limiti dello sviluppo, come individuati dal famoso studio del MIT americano, su sollecitazioiie del Club di Roma: cioè

La q uestione del governo mondiale

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ecologia, bomba demografica, consumismo e problemi correlati ci pongono di fronte a un baratro. Non basta: la capacità di razionalizzare attività criminosa a prescindere dalla Ragione (Horkheimer, L'eclisse della Ragione) presenta, anche ai più sprovveduti, l'orrore del mondo di Caino: insomma il genocidio etnico, ricorrente in una società di massa con armi terribili diffuse, mostra che non è più sopportabile l'ONu incapace di intervento risolutivo, al di sopra di singole sovranità statuali e dotato di una sua forza reale.

L'istanza del governo mondiale è, dunque, ancora una volta e più di una volta, l'obiettivo che guida tutto il federalismo: ma chi guida e controlla il governo mondiale? Il problema si delineò già a Kant, ma il momento storico del nazismo e di tutti i sistemi totalitari io pose al centro dell'analisi della costruzione, a tutti i livelli, del castello federalista. Nel 1932 - l'anno prima della vittoria nazista in Germania - Aldous Huxley scrisse una favola terribile, Il mondo nuovo., una équipe tirannica, senza possibile alternativa, si impossessa del governo mondiale e arriva a (fa paura solo a pensarci) alla donazione di esseri umani su misura di se stessa (Aldous era di una fine famiglia di scienziati e arriva con molto anticipo a un problema divenuto attuale adesso). E allora?

Ecco che comincia ad apparirci chiaro il principio di interdipen- Sul principio di denza, che informa (o dovrebbe informare) il federalismo attuale. prossimita Se, da un lato, il principio di sussidiarietà - frainteso furbescamente da parecchi sedicenti federalisti (i criptonazionalisti lo invocano perché la Comunità sovranazionale non impedisca alle Nazioni di fare quello che "sanno fare assai meglio") -, se, dicevamo, il principio di sussidiarietà funziona correttamente nei due sensi, comincia a delinearsi il federalismo come un sistema razionale. Ancora spaventati da Huxley, considereremo tutte le comunità umane "minori" anche come contropoteri di sicurezza democratica: sta bene. Ma dove la mettiamo la minaccia dell'anarco-autonomismo? Lasciamo stare Bossi, al quale consiglieremo un diuretico formidabile, affinché, orinando torno torno a una Padania virtuale, impedisca - secondo le regole animali che ci ha descritto l'etologia - entro il circuito urinato la penetrazione disturbante di extra-comunitari, di meridionali, eccetera, e affrontiamo seriamente il principio di sussidiarietà nella sua fase discendente, e inorridiamo subito di fronte al 14

nuovo "principio di prossimità". In una buona educazione democratica è ovvio che si faccia di tutto affinché, monopolizzati i cittadini sul grandi problemi della Terra, non trascurino l'impegno anche nella democrazia della "porta accanto": ma è chiaro - come a me capita di ripetere sino alla noia - che il cosmopolitismo nasce (deve nascere!) all'ombra del proprio campanile. I federalisti non si basano sull'onnipotenza dell'Homo oeconomicus, ma sono i principali assertori di una convivenza umana che esalti lo slancio morale (e anche l'amore della bellezza) della "persona": come una volta si moriva volentieri per la patria, oggi si dovrebbe morire volentieri per la "civiltà umana". In altri termini, il principio di prossimità dovrebbe aiutare per il buon funzionamento di un condominio abitativo, ma non può essere la copertura dell'egoismo, e neanche di un'altra bestia nera del buon federalisnio: cioè il corporativismo. Mi sono trovato più volte in questo dopoguerra a combattere tracce di corporativismo della destra proudhoniana: in parole povere di Alexandre Marc e del suo Maestro Robert Aron.

Il federalismo aiuta a rendersi conto che la politica è la negazione Contro il del corporativismo, l'interesse generale non può patteggiare con corporativi smo l'interesse settoriale. In una società libera, ognuno ha il diritto di servirsi di tutti i mezzi leciti per badare anche al proprio interesse personale o a quello del proprio dan: ma le istituzioni politiche, di tutti i livelli, esistono per curare l'interesse generale (che è una autonoma sintesi e non la somma o il compromesso tra innumerevoli interessi settoriali). Non basta. Come vive l'interdipendenza dei diversi livelli dell'autonomia politica? Comuni, Enti intermedi, Regioni, Nazioni ... ? Il federalismo è convinto della esigenza del bicameralismo: contro ogni defatigante "compromesso" fra Enti di livelli istituzionali diversi. Si vuoi creare una Repubblica italiana federale? Accanto alla Camera popolare nazionale le autonomie saranno rappresentate dal Senato delle Regioni: e non, esautorando le Regioni stesse (che già hanno una loro matrice democratica), con elezioni "regionali" per il Senato delle Regioni (così si inventerebbe un nuovo lavoro, peggio che inutile, turbativo dei partiti, che già sono intervenuti nella formazione democratica degli organi della Regione). I Comuni non possono e non debbono intervenire, come tali, nel legiferare (debbono piuttosto impedire di essere derubati da 15

Enti sovraordinati nel disimpegno esecutivo, eliminando lacci e lacciuoli): ma la Regione legiferante dovrà darsi una struttura bicamerale - elezione diretta, una Camera, e rappresentanza degli Enti infraregionali l'altra Camera). Complicato bicameralismo? No, è un impedimento a negoziati defatiganti extraistituzionali e incontrollati fra i due livelli: del resto il bicameralismo funziona bene nel Landkreise (le Province "rurali" della Germania federale), e si presenta ineccepibilmente il progetto di Regione bicamerale della Regione Emilia Romagna, per ora (comprensibilmente!) senza grande successo.

Naturalmente, i vari Enti intemedi tra la persona umana e il governo mondiale non sono stati decretati dal Padreterno, ma corrispondono - devono corrispondere - a esigenze della società attuale, che è in lenta ma continua evoluzione e non si presenta del tutto omogenea ovunque. Nel dopoguerra - questo dopoguerra - europeo fece colpo il celebre scritto "Parigi e il deserto francese' d'altra parte i Comuni (soprattutto le Città) non vivevano più da tempo in un rapporto di sudditanza rispetto alle proprie mura. I soliti avventurosi profeti del futuro proclamavano la morte della Città e la nascita della Città-Regione; ragionando si è addivenuti alla conclusione che la Città, con la sua individualità, sopravvive - anzi ha tuttora un ruolo culturale straordinario -, ma è in un rapporto problematico con un territorio assai più ampio (regionale?), che può comprendere anche il deserto di cui sopra: ecco che la pianificazione del territorio, al suo gradino di base, ci fa identificare il ruolo essenziale della Regione. Ricordo che tanti anni fa mi venne a trovare a Palazzo Canavese (Comune di meno di mille abitanti, dove ero consigliere comunale) Claudius-Petit, non solo e non tanto Ministro francese della Ricostruzione (e leader del partitino francese promosso, durante la Resistenza, da quell'esemplare federalista francese che fu Frenay, e che allevò nei suoi ranghi Pleven e Mitterrand), ma soprattutto autore di un saggio, pubblicato su una rivista della Gauche européenne dal titolo i4mènagement du territoire dans une perspective européenne. Mi piaceva il saggio ma, appunto, mi aiutava nella richiesta di una politica regionale europea; quale era, dunque, la base di partenza di questo aménagement? D'altra parte, io avevo in testa la geniale anticipazione di Adriano Olivetti (declinanti anni Tren16

L'importanza

della Regione

ta), coi progetto di "Piano regolatore della Valle d'Aosta": ecco la funzione principale di una Regione moderna, in uno Stato federale.

In generale si ha un'idea, alquanto sbagliata, che certe materie, decentrate in ambiti territoriali più modesti e ristretti, siano amministrate meglio; comunque, si ha l'idea, un po' pigra, che giovi liberare lo Stato, il centro, dei troppo lavoro e lo si lasci trattare più, tranquillamente le "cose gravi": ma quali sono le cose gravi? In realtà, il decentramento autarchico - come si diceva un tempo - deve essere affidato a Enti non tanto e non solo più piccoli, ma anzitutto propri per competenza specifica. Certo, specificità che nasce anche con la prossimità, la maggiore vicinanza ai cittadini e alle cose da trattare (o alla differenza della particolare materia secondo i territori di un tutto statuale, che deve occuparsi delle soluzioni omogenee: l'unità nelle diversità), ma troppo spesso si cerca, semplicemente, di smantellare un centro che funziona male e non si sa meglio organizzare. Comunque, rimanendo in Italia, si è cominciato a capire che non sempre la mancata riorganizzazione del centro si risolve scaricando molti problemi su Enti del tutto impreparati (e disegnati per restare impreparati) a riceverli.

Stiamo attenti: molti Enti territoriali autonomi, essendo destinati ed è fondamentale - a far politica, si devono lasciar sbrigare senza ulteriori impegni l'interesse generale, in funzione della loro specificità, e non ostacolarli nel compito di dominare tutti gli interessi settoriali (il corporativismo, appunto) del proprio ambito. Di qui, la insopprimibile parola d'ordine "un territorio, un governo". I partiti non devono esser tentati di curare - di mediare - vani interessi settoriali: il loro compito deve essere (ma è difficile) presentare programmi alternativi - giudicheranno i cittadini elettori - per governare politicamente (ora è chiaro in che senso?) l'Ente per il quale si battono.

Tutto quello che si presenta come alternativa a questa prassi, impedisce una ragionata costruzione della piramide federale e di affrontare razionalmente l'interdipendenza. Qui nasce la contrarietà del federalismo alla pluralità dei referendum impropri (cioè quasi tutti quelli che non affrontino problemi di coscienza, quelli per i quali i partiti democratici lasciano ai loro associati il voto di coscienza). Se vogliamo essere cattivi, dovremmo dire che si comincia col tentati-

Contro i referendum impropri

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vo di governare, prescindendo dalle istituzioni, con una massa di referendum (non di rado tra di loro contraddittori), e si finisce con la Marcia su Roma: poi, non ci si può lamentare che gli elettori non partecipino alle elezioni "dovute". Chi è che confeziona, oltretutto, questa democrazia "plebiscitaria"? A chi risponde delle proprie proposte? Con chi ne discute prima di presentarle, attraverso le bancarelle e in tanti altri modi improvvisati, a cittadini "ignari"? o attraverso le aspirazioni di un "partitino" che rappresenta la "bocca della verità"? Si obietta che molti referendum chiedono "cose giuste, anzi sacrosante": anche prima della Marcia su Roma i fascisti si battevano per obiettivi non sempre ingiusti e, spesso, rompendo l'inerzia della vita parlamentare e il sabotaggio della burocrazia, ma ciò non toglie che la cura sia sbagliata e non permetta il miglioramento della democrazia, anzi avvii alla dittatura dell'arbitrio del giorno per giorno, al di fuori di ogni e qualsiasi regola costituzionale. Il federalismo segue un'altra via e l'arroganza dei presentatori quotidiani di referendum non lo facilita.

Un semplice articolo è sempre pieno di ellissi, espone a mille frairitendimenti e risente inevitabilmente degli umori del momento «psicologico" di chi lo scrive. Non pretendo di aver spiegato bene tutto l'uso che si può (e si deve) fare del federalismo (a mio avviso) e tutti gli abusi che si commettono in suo nome, senza saper bene di che si tratta (è incredibile leggere perfino presunti "tecnici" che discettano del "federalismo fiscale", senza sapere cosa sia). Ma io sono un ottimista e spero bene di aver messo qualche pulce nell'orecchio dell'onesto lettore.

Questo articolo è stato scritto, su richiesta, per la rivista 'Nord e Sud"

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Ritratti: Impresa a Rete Un'esperienza nella cooperazione sociale

di Saveria Addotta

mpresa a Rete è una cooperativa sociale partecipata da 80 soggetti giuridici (cooperative sociali, consorzi di cooperative sociali, cooperative non sociali, associazioni e comunità) e 20 persone che hanno deciso di dar vita ad una rete a livello nazionale, diventando soci sovventori di Noncello Formazione, una cooperativa di Pordenone. Trasformata da una così ampia partecipazione al proprio progetto sociale, Noncello Formazione è diventata Impresa a Rete. La struttura creata è "leggera", utilizza personale proprio soltanto per compiti di innovazione dei prodotti e di coordinamento, mentre altre iniziative sono gestite direttamente da soggetti della rete. Hanno ruoli fissi le cooperative "Sintonie" di Catania, "Lavorint" di Milano ed Orologica di Genova.

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Per entrare a far parte della rete, i futuri soci devono superare delle "prove d'ingresso" che danno la misura degli scopi che si sono prefissi i soggetti coinvolti; questi, infatti: 1) devono adottare un codice etico da sottoporre a verifica annuale con i soci e con gli stakeholders esterni; 2) si impegnano a discutere e definire periodicamente con i soci la propria missione aziendale; 3) devono redigere annualmente il bilancio sociale ovvero la rendicontazione sociale delle proprie attività. Il bilancio sociale è ritenuto un elemento centrale; quando la rete sarà a regime con Codici e carte etiche, missione aziendale e bilancio sociale, potrà dare garanzie all'esterno con un marchio di qualità; 4) per le cooperative di tipo A, condizione per ottenere il marchio sarà dimostrare di svolgere pratiche di promozione dei diritti e doveri di cittadinanza. Per Impresa e Rete, infatti, sono fondamentali il rispetto e la valorizzazione dei diritti fondamentali della persona (dei soci, dei dipendenti, dei clienti, degli utenti, dei cittadini, delle comunità e dei territori in cui si opera) e delle comunità, anche nelle condizioni personali e sociali più problematiche. Le iniziative devono essere sempre finalizzate alla ri-socializzazione, alla promozione dell'identità e della cittadinanza; 5) per le cooperative di tipo B, la 19

condizione per ottenere il marchio sarà progettare e gestire l'inserimento lavorativo dei disabili in stretta relazione coi servizi sociosanitari e la rete sociale. A parità di prestazioni alla persona in riabilitazione deve essere garantita parità di salario. Nella cooperativa sociale deve esistere una struttura interna che progetti, segua e valuti i risultati dell'inserimento, in stretto contatto con i servizi e la rete sociale e territoriale; 6) altro elemento fondamentale per chi desidera aderire a Impresa a Rete è il rapporto con le istituzioni democratiche e la sua promozione, nel contesto di un nuovo welfare, che sia partecipato e su base locale; 7) il lavoro di rete sociale e territoriale è altrettanto importante, piìi che per gestire l'esistente, per le "progettazioni sociali".

Queste devono svolgersi sulla base di rapporti fra soggetti della rete sociale e territoriale (quindi, anche i soggetti istituzionali) regolati sulla base di "protocolli d'intesa"; 8) tutti i soci dell'Impresa a Rete devono mettere a disposizione degli altri soggetti della rete le proprie esperienze per informare, formare, svolgere stage o management intermale, ecc.; 9) infine, altra condizione per stare nella rete è il rispetto dell'ambiente, inteso come elemento di identità e cittadinanza.

Naturalmente, per perseguire tali obiettivi, le imprese sociali socie si sono impegnate ad operare in un regime di trasparenza, per permettere a tutta la rete di verificare se tali condizioni sono rispettate.

I servizi che l'Impresa a Rete fornisce - attraverso i propri soci possono essere divisi in tre aree: a) la progettazione sociale, per la quale vengono messi a disposizione le conoscenze e le esperienze già maturate. L'intervento riguarda anche l'attuazione. Clienti possono essere sia cooperative sociali, associazioni, fondazioni, che Enti locali e singoli privati; b) le qualità plurali, per la cui promozione viene fornita assistenza per il codice etico, la missione, il bilancio sociale, i diritti dei soci, degli utenticlienti dei territori in cui si opera, la diffusione delle buone pratiche (o bestpractisces), la definizione dei prot6colli nei rapporti con i servizi sociosanjtari e la rete sociale, le metodologie per l'inserimento lavorativo e la formazione; c) il cantiere Nord-Sud, per realizzare politiche di promozione della cooperazione sociale al Sud. Per questi progetti è previsto un impegno particolare al fine di far nascere nuove imprese sociali da mettere in rete, attraverso stage formativi, docenze, trasmissione di esperienze con il tutoraggio d'impresa.

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Linformazione rivolta ai soci su quanto l'Impresa a Rete fa è ritenuta importante dai soci per la democrazia interna, ed anche la stessa rete ha, quindi, il suo codice etico, una sua missione e il proprio bilancio sociale. La cooperativa Sintonie realizzerà un servizio banca dati. Strumento importante della comunicazione è la rivista Fuori Orario che rappresenta un luogo di riflessione e di elaborazione dell'intervento sociale della rete. È intenzione di Impresa a Rete - dichiarano, infine, i promotori non occupare spazi di altri, per evitare inutili sovrapposizioni o assumere funzioni che spettano ad altri. In un anno di preparazione, la rete ha dialogato con persone ed organizzazioni di CNcA (il Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza), del Gruppo Abele e della Lega delle Cooperative proprio nell'intento di mantenere aperto il dialogo ed aprirsi alla collaborazione con tutti.

Per completare il profilo di Impresa a Rete abbiamo intervistato uno dei suoi promotori, Giovanni Zanolin.

Come è arrivato a ricoprire il suo attuale ruolo di Amministratore delegato di Impresa a Rete? Quali sono il suo percorso professionale e la sua storia?

Il mio percorso professionale è molto vario e mobile. Ho fatto diverse cose nella vita. Il mio primo lavoro fu nel 1977, a 22 anni - e questo interruppe, anzi sospese i miei studi universitari - come funzionario della FGcI. Ero segretario della mia Regione, il Friuli Venezia Giulia, durante la prima fase della segreteria di D'Alema. Ho lavorato con lui e col suo gruppo dirigente, conservo alcuni amici ed anche dei bei ricordi di quegli anni. Ho fatto poi un breve periodo fra Trieste e Roma e, in seguito, mi chiesero di fare il funzionario del Partito Comunista nella mia città, Pordenone.

Devo dire che arrivai a ricoprire questo incarico con una straordinaria dose di ingenuità e con la convinzione di trovare un contesto diverso da quello poi sperimentato. Immaginavo di lavorare in un partito, una grande struttura in cui fossero prevalenti elementi culturali e ideali, invece mi ritrovai in una guerra per la sopravvivenza.

Abituato a discussioni di livello politico, di indirizzo generale, tipici 21

della direzione nazionale della FGcI, mi ritrovai in una situazione di terrificante battaglia politica, dove erano prevalenti gli elementi personali. Ho resistito facendo anche delle esperienze interessanti: ho coordinato a livello nazionale, per due anni, il lavoro del Pci verso il gruppo Zanussi. La Sezione industria della Direzione del Pci allora era diretta da Gianfranco Borghini, una personalità di notevole spessore. Ho seguito, così, il processo di internazionalizzazione del gruppo Zanussi.

Ho fatto questo lavoro fino al 1982, quando una serie di ragioni anche di natura personale, mi condussero a pensare che dovevo cambiare lavoro, che quel tipo di professione non era quella che mi soddisfaceva. Lanno precedente mi ero sposato e non credo proprio che questi due cambiamenti nella mia vita siano indipendenti l'uno dall'altro. Mia moglie è una psicologa e psicoterapeuta, se ho iniziato ad interessarmi e poi ad amare quanto riguarda la salute mentale lo debbo a lei.

A quei tempi abbandonare il funzionariato non era semplice, specie se non ci si affidava alle mani del Partito per passare in qualche "organizzazione di massa", come si diceva. Non lo feci, volevo provare altro e cominciai a fare una cosa che mi piacque molto: acquistate le quote di una libreria di Pordenone. Imparai a fare il libraio e per un periodo ho fatto anche l'editore di una piccola casa editrice di Pordenone che faceva e fa ancora libri per bambini. Questa attività di conduzione culturale mi è sempre molto piaciuta. Questo non interruppe comunque il mio impegno politico, solo che lo svolgevo in altro modo: ero capogruppo per il Partito Comunista nel consiglio comunale di Pordenone, dove sono stato eletto per tre volte. Facendo il capogruppo ho avuto modo di conoscere il Primario coordinatore del Dipartimento di Salute Mentale di Pordenone, il dottor Enzo Sarli, che era stato uno stretto collaboratore di Franco Basaglia. Questo rapporto - che è poi diventato un'amicizia - ha segnato una svolta nella mia vita. Nelle riunioni del Consiglio comunale, che a volte si protraevano per intere nottate, ma anche nella vita quotidiana, parlando con Sarli ho avuto modo di discutere la questione del lavoro per le persone disabili (in quegli anni molti erano in uscita dagli ospedali psichiatrici, in Friuli grazie alla presenza di Basaglia prima a Gorizia e poi a Trieste la riforma si è fatta davvero e nei tempi stabiliti dalla Legge 180). A 22

Venezia e Trieste erano nate le prime cooperative integrate, così chiamate perché integravano le persone disabili con quelle che non lo erano. Sani voleva costruirne una anche a Pordenone, perché avviasse questi percorsi di riabilitazione. E ci riuscì, nacque prima una cooperativa agricola che aveva funzioni residenziali, poi la Coop Service Noncello per fare pulizie. La Noncello è, oggi, la pii grande cooperativa sociale di inserimento lavorativo in Italia. Fu allora, nei primi anni Ottanta, che iniziò il mio rapporto con il mondo dell'esclusione, in particolare dell'inserimento lavorativo di persone disabili psichiche.

Poi Sani morì. Io non ho mai smesso di collegare la morte di Enzo a quella di Basaglia. Solo chi abbia visitato l'ex Ospedale Psichiatrico di Trieste può concepire quale carico di fatica fisica e mentale debba aver sopportato Basaglia per chiudere quella mostruosa macchina di sofferenza, fino a esserne stroncato. La storia di Enzo, che fra l'altro era Vicepresidente nazionale di Psichiatria Democratica, è per molti aspetti simile. Lasciò un grande vuoto, per me e per tante persone con cui a Pordenone aveva costruito un rapporto straordinario. Continuai il mio impegno nella cooperativa per cui feci diversi lavori, nei settori dove mi piaceva lavorare: la produzione culturale e la formazione. Un altro Consigliere comunale del Pci divenne uno degli altri protagonisti della cooperativa ed è tuttora Presidente di una grande cooperativa sociale di tipo A di Pordenone, Gianluigi Bettoli. In Coop Service, negli anni Ottanta, reduce da una esperienza di direzione sindacale, venne a lavorare un altro amico, Rodolfo Giorgetti.

Coop Service Noncello è cresciuta in una condizione di assoluto favore del mercato, nel senso che allora si stavano decentrando alcune funzioni degli Enti locali, in particolare le pulizie e il giardinaggio, in cui in Friuli non lavorava praticamente nessuno. Eravamo anche in una temperie politico-culturale favorevole: la chiusura degli Ospedali psichiatrici e l'avvio della psichiatria territoriale erano stati da noi un successo innegabile. L'assenza di concorrenza consentiva di presentarsi ai sindaci come coloro i quali erano in grado di risolvere alcuni grossi problemi di "vivibilità" dei loro Comuni: portavamo a lavorare dei pazienti psichiatrici, li levavamo dalle strade, davamo loro una regola, un indirizzo. Ben presto siamo diventati per i sindaci l'occasione per risolvere alcuni problemi e, così, ci presenta23

vano le situazioni di alcune famiglie disperate. In cambio, ci davano lavoro. Coop Service Noncello diventò uno strumento straordinario sul piano sociale in provincia di Pordenone e dette il via alla nascita di altre cooperative sociali.

Sul piano personale, questo fu per me un periodo fecondo: ripresi gli studi, mi sono laureato poi in storia all'Università di Trieste con una tesi che riprendeva il lavoro che avevo fatto sulla Zanussi, sul processo di internazionalizzazione del gruppo. Studiai le modalità con cui diventano multinazionali questi gruppi e come la finanza internazionale riesce a influire su questi meccanismi.

Furono Giorgetti e Bettoli a propormi di dedicare tutto il mio tempo alla cooperazione sociale ed accettai, abbandonando le attività editoriali. Per me è stato importante, anche se non ne ho ancora parlato, l'aver cominciato fin dalla metà degli anni Ottanta l'attività di amministratore della Fiera di Pordenone, che è un Ente fiera piccolo ma estremamente significativo, nel quale ho vissuto esperienze molto interessanti. Sono tuttora Vicepresidente della Fiera, al secondo ed ultimo mandato. Però sono stato anche Commissario straordinario dell'Ente per un periodo; in Fiera ho ricoperto così tutti i ruoli e ciò mi ha consentito di conoscere persone in tutta Europa. È un'esperienza decisamente positiva.

Nel '92 ho abbandonato il PDS e chiuso un rapporto che non aveva più ragione di essere. Facevo parte del Consiglio nazionale del PDs, l'organismo, per capirci, che non aveva rieletto Occhetto dopo il congresso di Rimini. Ma in quel partito non mi ci ritrovavo più. La mia collocazione culturale rimane all'interno della sinistra, ma non ho più vincoli con alcuna forza politica.

Dicevo che nel 1995 iniziò il mio lavoro a tempo pieno nella cooperazione sociale. Facevo essenzialmente attività di formazione.

Coop Service Noncello aveva deciso di dedicare risorse ad uno strumento di diffusione del proprio modello e, quindi, fui chiamato a fare questo lavoro. Nacque così la Noncello Formazione, la cui mission era utilizzare modelli formativi per diffondere il modello di Coop Service Noncello. Abbiamo constatato subito che quel modello non era riproducibile in Italia, perché aveva due punti di forza, due condizioni che non erano riproducibili all'esterno: 1) a Pordenone coprivamo un settore quasi senza concorrenza, 2) nasceva da un rapporto di collaborazione strettissima con il Dipartimento 24

di Salute Mentale di Pordenone. Per Coop Service iniziò, comunque, una fase di trasformazione profonda, perché la vittoria elettorale del partito leghista nella nostra "landa" ci metteva in una tempene culturale che ha un suo punto caratteristico nell'idea liberistica dello sviluppo economico, secondo la quale vincono i più forti. È stata la fine dei rapporti privilegiati con i Comuni e sorse, ben presto, la necessità di stare sul mercato vincendo gare.

Vincere gare e fare inserimenti lavorativi, quando il committente non te li chiede o addirittura ti dice che, a lui, dei problemi sociali non interessa nulla, che è roba da "comunisti", è oggettivamente molto difficile. Ritengo che quello che sta facendo ora la Coop Service Noncello in provincia di Pordenone, Udine e Treviso, tre città con tre sindaci leghisti, equivale ad un miracolo: riesce a fare inserimenti lavorativi vincendo gare sul libero mercato, senza alcun paracadute. Può farlo perché ha "spalle grosse", le più grosse della cooperazione sociale in Italia.

Dunque, il modello non era niproducibile. E questo constatavamo proprio mentre emergeva la richiesta di introdurre novità nell'integrazione lavorativa: si cominciava a parlare, infatti, di politiche di qualita. Nel 1997 Noncello Formazione organizzò un convegno nazionale, a Città di Castello, sulla costruzione dei modelli di qualità e avviammo un anno di ricerca su questo tema. Abbiamo individuato una serie di cooperative sociali che erano particolarmente interessanti, cercando di capire quali potevano essere gli elementi forti della loro esperienza. Da qui siamo partiti per alcune scelte che caratterizzano l'attuale fase del nostro lavoro: ad iniziare da quella della ricerca di qualità intesa come rapporto sociale della cooperativa, rapporto interno ed esterno. Gli strumenti che sono per noi fondamentali in tal senso sono i codici etici e i bilanci sociali: è nostra convinzione che questi debbano servire alla costruzione di un welfare partecipato, misto e territoriale. Sulla base di questo anno di lavoro abbiamo lanciato un'idea che trasformava Noncello Formazione da azienda che esportava il modello a un'impresa sociale, partecipata da altre imprese sociali - l'Impresa a Rete, appunto - il cui compito non è la rappresentanza politica di queste imprese ma fornire strumenti per il loro sviluppo, per la loro qualità, per la loro attività sociale.

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In che rapporto siete con i consorzi di cooperative sociali? Di cosa si occupa, specificatamente, la Rete?

Noi non siamo un consorzio e non svolgiamo attività commerciali proprie: non partecipiamo a gare, ad esempio, cerchiamo di costruire occasioni di lavoro che poi affidiamo alle cooperative, soprattutto puntando su settori di nuovo sviluppo, dove contino molto le tecnologie, la relazione con l'innovazione e con il cliente privato. In questo campo abbiamo in corso due iniziative importanti: abbiamo costituito un società che si chiama Rete Logistica Italia perché, sulla base di un lavoro condotto per anni, a partire dall'esperienza che Giorgetti ed io avevamo fatto con la Zanussi, abbiamo capito che la questione della consegna e del ritiro degli elettrodomestici sarebbe diventata importante. Ci abbiamo lavorato con la Cispel, la Federazione delle Aziende Municipalizzate con la quale abbiamo costruito delle piattaforme per lo smaltimento di questi elettrodomestici in giro per l'Italia, utilizzando i programmi per i Lavoratori Socialmente Utili. Oggi siamo in grado, attraverso Rete Logistica Italia, di firmare contratti con gli operatori privati per la consegna a domicilio e il ritiro dell'usato.

Questa può essere la struttura per dare risposte efficienti ma anche solidali al nuovo grande mercato degli acquisti via internet che si svilupperà. Vorremmo essere quelli che mettono a disposizione di chi vuoi vendere via internet la rete di consegna dei prodotti e vogliamo fare questo con le cooperative sociali: è una sfida difficilissima, perché comporta dei livelli elevatissimi di mobilità, di novità culturale per le coop sociali abituate a lavorare con gli Enti locali.

Devo dire che questo lavoro l'abbiamo molto pensato, lo sento molto "mio" e non lo concepisco come concorrenziale rispetto a quello che fanno altri, altre associazioni di categoria o consorzi nazionali della cooperazione sociale che, comunque, non incontro mai nel lavoro che faccio. Avverto che può esserci un problema: questo spazio politico rappresentato dalla cooperazione sociale è molto ambito oggi. Se ne stanno occupando in molti e molti pensano di poter rappresentare questa realtà. Avverto, ovviamente, che quanto più Impresa a Rete cresce, tanto più riuscirà a rappresentare una buona opportunità, a divenire attrattiva. Ma abbiamo scelto un modo d'essere e campi d'attività non concorrenziali con altri e, se 26

posso usare anche questa tribuna per ribadirlo, per noi non si pongono problemi di concorrenza con altri consorzi.

Il vostro rapporto con le centrali di rappresentanza politica delle cooperative?

Tradizionalmente il nostro sindacato d'azienda è Lega Coop: è un'iscrizione che risale alla costituzione della Coop Service Noncello e ci siamo iscritti anche come Impresa a Rete. Abbiamo un rapporto storico con la Lega; devo dire che, comunque, Impresa a Rete vive molto anche della relazione con quel mondo dell'impegno solidale cristiano-cattolico, che dentro Impresa a Rete è rappresentato dal Gruppo Abele e dal CNCA (il Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza). Molte cooperative di CNCA e del Gruppo Abele sono socie di Impresa a Rete. Se si dovesse fare una sintesi culturale della nostra esperienza, è certamente orientata verso la sinistra e quei cattolici che hanno una relazione con la sinistra. Ma non ci appiattiamo, non siamo "cinghia di trasmissione" di alcuno. Concepiamo la nostra autonomia e la complessità di esperienze e presenza dentro Impresa a Rete come la nostra maggior ricchezza.

Quali sono le soddisfazioni, i risultati migliori che raggiunge nel suo lavoro? Quali ritiene siano, in qualche misura, i punti di forza nel campo in cui opera?

La soddisfazione maggiore è vedere che quello che hai pensato, che hai in qualche modo elaborato, corrisponde poi ad una domanda che è reale. Aver pensato, sulla base di una ricerca, che la questione dei bilanci sociali, della relazione sociale delle cooperative fosse un grande punto su cui operare e constatare che, oggi, questo lavoro va avanti positivamente in tutta Italia dà grande soddisfazione.

Faver pensato che ie cooperative non avevano bisogno di strutture pesanti che si sostituissero alle classi dirigenti delle cooperative ma di strumenti di implementazione, di rafforzamento del loro lavoro che fossero leggeri e che non richiedessero continui esborsi di denaro; quindi, pensare ad un rete leggera, in cui ognuno dialoga con l'altro e vedere che questa cosa funziona ogni giorno di pi1 dà una grande soddisfazione. Questo lavoro mi dà la possibilità di avere contatti con un gran numero di persone, cosa che mi piace 27

molto. Nel momento in cui abbiamo deciso di fare questa rete, abbiamo capito che internet e la posta elettronica, le nuove tecnologie erano fondamentali per mantenere le relazioni; noi lavoriamo molto in questo modo, devo dire che guardando un p0' come lavorano gli altri su questo piano mi sembra che stiamo avanti e vorrei fare sempre nuovi passi avanti. Da quest'anno una persona lavora a tempo pieno sui nostro sito internet. Già intravedo una ulteriore fase di crescita in questa direzione. Anche questo è un elemento di soddisfazione: pensi che stai lavorando con strumenti che ti mettono avanti.

Quali sono gli ostacoli, invece, le dzfficolti che incontra nel suo lavoro; in sintesi, quelli che ritiene possano essere i punti di debolezza della cooperazione sociale?

Un gran numero di cooperative sociali in Italia sono, sostanzialmente, delle estroflessioni povere della pubblica amministrazione.

Queste cooperative tardano ad assumere una logica imprenditoriale, di investimenti e di ritorni degli investimenti, del rischio di impresa: è questa la maggiore difficoltà rispetto all'iniziativa che abbiamo. Intravedo enormi possibilità di mercato ma queste cooperative sono troppo occupate a gestire il vecchio, mentre, secondo me, se vogliamo rispondere alle nuove domande sociali, dobbiamo buttarci, anche rischiando. La costruzione di welfare misto, di welfare territoriale partecipato, passa attraverso un forte coraggio culturale di origine imprenditoriale. Bisogna proporsi la ricomposizione, ad esempio, fra la spesa sociale e la spesa sanitaria, perché è necessario riposizionare la spesa sui piano della prevenzione, della qualità sociale, che vuoi dire sulla qualità ambientale. La cultura dello sviluppo compatibile, delle compatibilità economiche, ecologiche e umane, richiede un grande coraggio culturale e politico oltreché imprenditoriale. Se le cooperative non hanno gruppi dirigenti che hanno questo coraggio, si perde una grande occasione. Per preparare una classe dirigente che abbia coraggio ci vuole una grande capacità di mobilità e flessibilità: le cooperative devono essere in grado di avere una mobilità dei loro gruppi dirigenti, devono assumere esperienze di altri e trasmettere le loro. Queste sono le difficoltà della cooperazione: la rigidità, la difficoltà a rinnovarsi, a cambiare.

L'Italia cambia più in fretta della sua cooperazione sociale.

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Come pensa si possano migliorare i punti di forza e quali soluzioni intra vede per i punti di debolezza?

L'elemento positivo che intravedo è, soprattutto, che molta parte della cooperazione italiana ha una grande sensibilità, una grande vivacità e curiosità culturale. Questo è un elemento su cui si può giocare la partita dello sviluppo futuro, soprattutto quando ciò si somma ad una mobilità e agilità nella gestione dell'impresa. Vedo una divaricazione fra due modelli di impresa sociale: una estremamente mobile, pronta a buttare il proprio entusiasmo politico e culturale sulle questioni, a giocare la propria relazione sociale in forma coraggiosa, a fare appello alle risorse delle persone nei territori in cui operano, con coraggio, proponendo soluzioni di grande innovazione e, d'altra parte, un gruppo di cooperative sociali italiane, anche molto forte, legato alla logica dell'impiego pubblico, del decentramento di funzioni pubbliche. Per carità, quelle cooperative danno risposte a necessità vere dello Stato, ma temo che questo modello si fossilizzi. Il punto di forza lo vedo in quelle cooperative che hanno una grande disponibilità culturale. Bisogna partire dalla considerazione che i nuovi poveri sono coloro che sono tagliati fuori dai circuiti culturali, dai circuiti di formazione, che subiscono informazione e non riescono mai a produrla.

In un Paese ricco come l'Italia, in cui intere Regioni sono oltre la soglia della piena occupazione, la vera povertà è questa. Dovremmo riuscire a fare in modo che queste persone escano da tale circuito negativo e prendano in mano nuovi strumenti per avere una propria identità. Il vero nodo è proprio come portare queste persone a darsi un'identità: ci sono gruppi sociali (ad esempio, i gruppi di giovani negli stadi), che trovano un'identità in un modo per cui tendono a diventare un problema sociale; dobbiamo andare incontro a questa domanda di identità, di gruppi sociali e di territori italiani che ne sono stati espropriati. Per questo dobbiamo coniugare culture, tecnologie, capacità di memoria. Le malattie sociali che abbiamo di fronte sono tutte legate all'ambiente e alla memoria dell'ambiente, malattie legate alla distruzione della memoria collettiva: la costruzione di nuove identità è anche lo strumento per affrontare alcune grandi patologie contemporanee e la crisi dei ruoli sociali.

Non ho visioni salvifiche della cooperazione sociale, noi siamo un pezzetto delle politiche sociali in Italia, ma possiamo avere ruoli im29

portanti, non dobbiamo giocare a rimorchio, non possiamo pensare che i ruoli affidati da altri siano quelli dati una volta per tutte. Dare un ruolo sociale al nostro lavoro, valorizzarlo professionalmente significa dare a noi più opportunità, più dignità e secondo me, significa anche dare agli operatori sociali italiani più soddisfazioni. Questione aperta, importante: non si può fare lavoro sociale con bassi salari, bassa dignità, con scarsa visibilità sociale, noi abbiamo la necessità di valorizzare queste professionalità, di fare comprendere alla società civile, alla classe politica che è necessario dare, come dire, nuova spinta, nuovo entusiasmo alle persone. Noi non riusciamo ad attirare i migliori quadri che escono dall'università, con gli attuali livelli salariali. Questo è un problema, dobbiamo costruire una riserva di intelligenze, di culture in questo campo. Dobbiamo dare soddisfazioni a questi ragazzi, sul piano economico, della valorizzazione pubblica, dargli l'opportunità di giocarsi un ruolo sociale importante.

Questa è una delle necessità a cui rispondere prima possibile.

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dossier

Dentro l'Unione monetaria europea

"Un caffe macchiato ed un cornetto. Pronti. Un euro e 50 centesimi. Ecco a lei. Grazie.

E buona giornata" Pensiamo che se questo fosse già il dialogo quotidiano tra baristi e clienti, forse non ci troveremmo a dover parlare di moneta unica e Banca centrale europea in toni ogni giorno più allarmati.

Anche se si è voluto, probabilmente con buone ragioni, prospettare una procedura di lenta introduzione all'utilizzo finale dell'euro, forse ci si è fin troppo preoccupati dell'impatto sul grande pubblico e molto meno del fatto che una moneta, ad oggi quasi puramente elettronica, ha un "valore" soltanto per due protagonisti del mercato monetario: gli speculatori e la Banca centrale. Il che è controproducente.

Purtroppo il pubblico, non utilizzando l'euro, non può percepire convenienze e svantaggi dell'attuale debolezza rispetto al dollaro né, probabilmente, potrebbe comprendere una strenua difesa da parte della Banca centrale europea della moneta unica, ormai necessaria.

Nel numero n. 114-115 di queste istituzioni, Sergio Ristuccia aveva segnalto come il modello decisionale dell'IME e, quindi, della BCE fosse basato su una sapiente commistione tra una forte centralizzazione del momento decisionale ed un altrettanto notevole decentramento nelle fasi di analisi e di esecuzione. Procedure che hanno saputo far convivere le ragioni dell'agenda dell'integrazione monetaria, con gli spazi di autonomia del31

le banche centrali (ora, comunque, notevolmente compressi), di cui ci parlano, nel saggio che presentiamo, Osvaldo Croci, Paul Bowies e Brian McLean.

Un modello interessante, ma non sufficiente, come aveva notato lo stesso Ristuccia, insieme ad altri commentatori, per realizzare la moneta unica europea.

Come è stato varie volte sottolineato sulle pagine della nostra Rivista, la 7iinzione" monetaria è soltanto uno dei diversi elementi della complessa macchina dell'integrazione europea. Si è voluto sperare che questo elemento avrebbe condotto i Paesi membri verso una maggiore integrazione fiscale (a tutt'oggi incompiuta), verso un concerto delle politiche di spesa (soprattutto in campo previdenziale), verso una politica estera comune, autorevole e coerente.

Così non è stato: proprio la mancanza di un solido legame di comunicazione istituzionale tra Europa e cittadini (di cui il referendum danese ha rappresentato una spia preoccupante) fa sì che l'euro sia molto più debole di quanto l'analisi dei fondamentali dell'economia prescriverebbe.

Non è certo soltanto il presidente della Banca centrale ad aver commesso errori di cattiva comunicazione, come gli si rimprovera: sempre meno si parla di Europa come contenitore di idee, di cultura e di scelte sociali. A livello di comunicazione politica e istituzione (i leader politici degli Stati membri) non sifa alcun cenno ad un'integrazione dei programmi scolastici e formati vi, per non parlare della totale assenza di posizioni autenticamente "europee" sulla crisi medio-orientale.

Leggiamo che il premio Nobel dell'economia Mendell (Corriere della Sera del 20 ottobre) consiglia alla Banca centrale europea di parlare di meno ed agire con più rapidità.

A livello monetario è necessario definire una soglia minima di valore di cambio col dollaro, al di là del quale, la BCE difenderà l'euro con massicci interventi. Mendell però va giustamente oltre: propone la creazione di un ministro del Tesoro europeo, una gestione finanziaria continentale che dia credibilità, purché dotata di visione strategica, all'i ntero sistema della moneta unica.

Potrebbe sembrare una provocazione: forse è invece un interessante suggerimento per ri solvere la questione centrale dei rapporti finanziari tra Unione e Stati membri: chi gestirà la complessa dinamica finanziaria tra istanze locali e mercato globalizzato? I ministeri economici dei partner europei in ordine sparso, o sarà necessaria una visione centralizzata che tenga in debito conto i bisogni delle entità locali europee?

Di queste ultime, e del loro dimostrarsi sempre più protagoniste della politica finanziaria europea ci parla Maria Teresa Salvemini nel suo saggio. Un'attenta analisi del ruolo preponderante che la Finanza locale, con la sua domanda di credito, presenterà all'i nterno del sistema economico europeo. Un sistema che, come si è detto ha bisogno di progettualità non legata all'emergenza.

Per risolvere le tensioni legate a quest'ultima sono certamente necessarie scelte coraggiose ed inusuali. Tra queste, la prima è legata al gesto più semplice dell'azione di scambio economico: comprare e vendere in euro. (M.R.) 32

Banca d'italia, Banca centrale europea e questione dell'autonomia di Osvaldo Croci, Paul Bowles, Brian K. MacLean

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all 0 gennaio 1999 la Banca d'Italia (BdI) è diventata una semplice sussidiaria della nuova Banca centrale europea (Bce) ed ha, quindi, perso la sua autonomia in materia di politica monetaria a vantaggio di quest'ultima. La BdI aveva acquisito piena autonomia nel 1993, a compimento di un processo che era iniziato nel 1981. L'acquisizione d'autonomia da parte della BdI non è stato un caso isolato ma è avvenuta nel quadro di una tendenza manifestatasi in tutti e cinque i continenti, in Paesi a differenti livelli di sviluppo e con regimi politici e assetti istituzionali diversi, tassi d'inflazione disparati, e regimi di cambio di vario tipo. Per questo, l'acquisizione d'autonomia da parte delle banche centrali rappresenta un esempio non comune di convergenza istituzionale su scala globale.

Attraverso un'analisi dei casi della BdI e della Bce, questo articolo offre un contributo alla spiegazione ditale fenomeno. La prima parte esamina le ragioni dell'autonomia delle banche centrali e conclude che, contrariamente a quanto spesso affermato, l'autonomia è anche fonte di costi economici e politici. La seconda parte presenta quella che è stata definita "l'ipotesi della globalizzazione", vale a dire l'idea che la convergenza verso l'autonomia derivi dalla globalizzazione economica, e più precisamente dalla liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitale. La terza parte esamina il processo di acquisizione dell'autonomia da parte della BdI e della Bce. Le conclusioni discutono le implicazioni di questi due casi per la comprensione del processo di convergenza verso l'autonomia ed offrono alcune riflessioni sul futuro della Bce. LE RAGIONI DELL'AUTONOMIA

A dare il via al dibattito sulle conseguenze economiche, in termini empirici, dell'autonomia delle banche centrali fu uno studio di Bade e Parkin apO.Croci è Associate Professor, presso il Department of Political Science, Laurentian University P. Bowies è Professor, presso il Departmenc ofEconomics, University of North British Columbia B. K. MacLean è Associare Professor, presso il Department of Economics, Laurentian Universiry 33

parso nel 1978, che ha fornito ispirazione a gran parte della letteratura apparsa sino agli inizi degli anni Novanta'. L'argomento più frequentemente usato a sostegno dell'autonomia delle banche centrali è che essa migliora le prestazioni del sistema economico perché garantisce livelli più bassi del tasso d'inflazione senza, allo stesso tempo, determinare altri costi. Questo avverrebbe poiché l'autonomia priva i politici della capacità d'influenzare la politica monetaria per ricavarne vantaggi a breve (l'induzione, per esempio, di brevi periodi di crescita) che potrebbero però essere nocivi a più lungo termine 2 L'evidenza empirica in favore di tale affermazione è comunque debole e, anzi, dagli studi più recenti emergono nuovi dubbi. Non soltanto la misura del livello d'autonomia delle banche, basata di solito su elementi legali, potrebbe non rispecchiare adeguatamente il livello di autonomia effettiva delle banche centrali nell'esercizio delle loro funzioni. Vi sono anche problemi legati alla specificità del modello empirico. Infatti, gli studi che sostengono che l'autonomia della banca centrale migliora le prestazioni del sistema economico si basano, generalmente, sullo studio della correlazione tra un indice che misura l'autonomia delle banche centrali di vari Paesi e il tasso medio d'inflazione per quegli stessi Paesi per diversi periodi di tempo; oppure, tra l'indice d'autonomia e i tassi di crescita reale del prodotto nazionale. Scegliendo in maniera oculata l'indice d'autonomia, i periodi temporali, e i Paesi da includere nel campione esaminato, è possibile mostrare l'esistenza di una correlazione negativa tra livello di autonomia e tasso d'inflazione, e di una correlazione positiva tra autonomia e tasso di crescita.

Purtroppo, i risultati non sono particolarmente robusti, come del resto riconosciuto da alcuni degli stessi autori. Cukierman e i suoi collaboratori, per esempio, concludono che "un indice di autonomia inferiore alla media non conduce necessariamente apiu alti tassi dinflazione eche un alto indice di autonomia non e necessario per la stabilita dei prezzi . Alesina e Summers mostrano che nel caso dei Paesi industrializzati non vi è correlazione tra indice di autonomia e tasso di crescita, ma insistono che una maggiore autonomia conduce a tassi più bassi d'inflazione, e che tale beneficio si ottiene senza incorrere in altri costi, vale a dire senza effetti negativi sul prodotto e sui livelli di occupazione. Fujiki mette in dubbio questi risultati, sostenendo che "se si adotta un metodo più sofisticato e si verificano in maniera più rigorosa le ipotesi di Alesina e Summers concernenti le relazioni tra l'autonomia delle banche centrali e diverse variabili macroeconomiche, tali relazioni diventano meno robuste e più ambigue di quanto appaiono nella rappresentazione grafica". Posen conclude che non esiste nessun legame causale tra autonomia e .

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bassi livelli d'inflazione, e che le due variabili appaiono correlate perché entrambe sono influenzate dalle pressioni politiche esercitate dai gruppi finanziari. Fuhrer afferma che "il supporto empirico all'affermazione concernente l'assenza di costi associati all'autonomia delle banche centrali è meno forte di quanto sostenuto in alcuni studi. Le sole correlazioni significative ... sono una correlazione negativa tra autonomia e crescita reale e una positiva tra autonomia e tasso di disoccupazione". A simile conclusione arriva Epstein il quale afferma che "maggiore autonomia tende ad essere associata a più alti differenziali nel prodotto" e conclude che la tendenza verso una maggiore autonomia delle banche centrali potrebbe impartire una tendenza deflazionistica all'economia mondiale. Tale conclusione è condivisa da Cornwall e Cornwall che, utilizzando diversi indici di autonomia, giungono alla conclusione che quest'ultima è correlata positivamente con il tasso di disoccupazione.

Hall e Franzese, sulla base di dati riguardanti diversi Paesi dell'Oecd per il periodo 1955-90, concludono che "l'autonomia delle banche centrali può abbassare il tasso d'inflazione con costi modesti in termini di disoccupazione" solo in quei Paesi in cui la contrattazione salariale e centralmente coordinata 3. Levidenza empirica suggerisce, quindi, che 1 autonomia delle banche centrali è associata a costi economici notevoli, quali la diminuzione del tasso di crescita e l'aumento del tasso di disoccupazione.

L'autonomia, inoltre, ha anche dei costi politici. Implica, innanzitutto, una diminuzione della rappresentanza politica, o un aumento del cosiddetto "deficit democratico". L'autonomia rimuove la politica monetaria dalle responsabilità del governo, e quindi dal controllo democratico, trasformando quelle che sono importanti decisioni politiche in semplici scelte tecniche. La politica monetaria non è però una semplice questione tecnica, dal momento che essa ha una importante dimensione distributiva. Come nota Epstein "certi gruppi sono avversi all'inflazione a causa dei suoi effetti sulla ripartizione della torta economica, e non si curano troppo delle dimensioni di quest'ultima. ... L'opposizione a livelli di inflazione anche modesti proviene da gruppi relativamente benestanti, dalle banche e dalle istituzioni finanziarie in genere"4 . Le banche centrali autonome, solitamente, privilegiano l'obiettivo della stabilità dei prezzi e della moneta, obiettivo spesso inserito esplicitamente nel loro statuto, e si preoccupano meno della crescita economica e dell'occupazione. Per questo, l'autonomia determina una politica monetaria più sensibile agli interessi dei gruppi finanziari e contribuisce a rafforzare la loro influenza nella società.

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GLOBALIZZAZIONE E AUTONOMIA

Se consideriamo la propensione delle banche centrali autonome a privilegiare politiche anti-inflazionistiche, è sorprendente che la tendenza alla concessione dell'autonomia sia emersa solo a partire dagli anni Ottanta. Infatti, durante gli ultimi due decenni l'economia mondiale ha manifestato delle tendenze più deflazionistiche che inflazionistiche. Se la ragione principale dell'autonomia fosse la lotta all'inflazione, tale convergenza istituzionale avrebbe dovuto manifestarsi durante gli anni Settanta, quando i tassi d'inflazione erano molto più elevati. Una possibile spiegazione a questa situazione è offerta dall"ipotesi della globalizzazione", per la quale l'autonomia, più che un mezzo per combattere l'inflazione, costituisce un aggiustamento istituzionale necessitato dal processo di liberalizzazione dei mercati finanziari iniziato alla fine degli anni Settanta nei Paesi dell'Oecd, ed estesasi successivamente altrove5 . L'accresciuta mobilità dei capitali esporrebbe i governi nazionali al giudizio dei mercati finanziari, e i governi, se adottano delle politiche economiche non gradite dai mercati finanziari, provocano delle fughe di capitali. Le crisi valutarie di cui sono state vittime paesi come l'Inghilterra, la Svezia e la stessa Italia nel 1992, il Messico nel 1994, la Tailandia, l'Indonesia e la Corea del Sud nel 1997-98, e più recentemente la Russia, fornirebbero evidenza in favore di questo punto di vista 6 Di fronte all'accresciuto potere dei mercati finanziari e, quindi, all'importanza di avere credibilita ai loro occhi, 1 ipotesi della globalizzazione sostiene che molti governi abbiano identificato nell'autonomia della banca centrale la risposta politica appropriata. L'autonomia aumenterebbe la "credibilità", perché rappresenta una garanzia contro la tentazione da parte dei governi di adottare politiche monetarie contrarie agli interessi dei gruppi finanziari7. Maxfield, per esempio, sulla base di uno studio del legame tra autonomia e flussi internazionali di capitale in Tailandia, Messico, Corea del Sud e Brasile, ha concluso che "i politici usano l'autonomia della banca centrale per segnalare la credibilita del Paese a potenziali creditori e investitori . In questo senso, l'autonomia della banca centrale sarebbe uno tra i modi a disposizione di un Paese per segnalare ai mercati finanziari l'entità modesta dei rischi di investiment08 . Come notato da Pauly, la logica dell'economia è senza frontiere, mentre la politica è condizionata dalle frontiere. Una delle maniere di evitare la collisione di queste due logiche è di rimuovere la banca centrale dal diretto controllo democratico e renderla "apolitica". L'istituzione responsabile della politica monetaria viene riposizionata, per così dire, in modo da rispon.

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dere alle esigenze dell'economia globale piuttosto che a quelle della democrazia. Per questa ragione, tale trasformazione istituzionale è vista come il riflesso della capacità del capitale finanziario di formare un "blocco storico" che è rapidamente diventato egemonico a livello internazionale 9 L ipotesi della globalizzazione e senza dubbio plausibile, ma e non e facile fornirle sostegno empirico. Innanzitutto, è difficile costruire indici in grado di misurare l'autonomia e la liberalizzazione finanziaria su scala globale, come sarebbe necessario per una verifica formale dell'ipotesi. In secondo luogo, anche se fosse possibile provare l'esistenza di una forte relazione su scala globale tra liberalizzazione e autonomia negli ultimi venti anni, tale lasso di tempo sarebbe inadeguato per poter concludere che, se il processo di liberalizzazione recedesse, le banche centrali tornerebbero sotto il controllo delle autorita politiche. Infine, 1 ipotesi della globalizzazione , concentrandosi su una sola variabile, offre una spiegazione che, almeno in alcuni casi, non risulta sufficientemente persuasiva'°. Questo saggio, per valutare se e come altre variabili svolgano un ruolo importante nel processo di convergenza verso l'autonomia", esamina il processo di acquisizione dell'autonomia nel caso della BdI e la scelta dell'autonomia ab initio nel caso della Bce. .

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IL PERCORSO VERSO L'AUTONOMIA DELLA BANCA D'ITALIA

Studiosi di orientamento monetarista quali Fratianni e Spinelli ritengono che la BdI abbia avuto poca o nessuna autonomia fino alla fine degli anni Settanta 12 . Una definizione tradizionale dell'autonomia confermerebbe questo punto di vista: malgrado, a partire dalla fondazione della banca nel 1893, vi siano stati tre cambiamenti importanti di regime politico, i rapporti statutari tra la BdI e il governo sono rimasti sostanzialmente gli stessi. I suoi funzionari più importanti, sebbene scelti dal Consiglio di amministrazione della BdI, erano nominati e rimanevano in carica a discrezione del governo. Le scelte finali di politica monetaria erano del governo. Infine, la BdI era obbligata a finanziare il fabbisogno del Tesoro sia attraverso anticipi di conto corrente, che attraverso l'acquisto di tutti i titoli emessi dal Tesoro e non assorbiti dal mercato. La conquista dell'autonomia, un processo che iniziò alla fine degli anni Settanta fu, secondo Fratianni e Spinelli, il risultato di un cambiamento ideologico al vertice della BdI. Mentre Carli (il governatore dal 1960 al 1975) era un seguace delle dottrine di Keynes, i suoi successori Baffi e Ciampi (governatori tra il 1975 e 1980 e il 1980 e 1993, rispettivamente) erano monetaristi, almeno nel senso che loro obiettivo principale era la stabilità dei prezzi.

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Fratianni e Spinelli, interpretando l'autonomia esclusivamente nei termini della libertà di fissare obiettivi quantitativi alla creazione di valuta, esagerano il grado di dipendenza della BdI prima della fine degli anni Settanta. Economisti di stampo non monetarista ritengono invece che la BdI abbia avuto un significativo grado di influenza anche prima degli anni Settanta. La differenza tra Carli e i suoi successori sarebbe nel fatto che il primo perseguì gli obiettivi della Banca "partecipando alle scelte del governo nel campo di tutte le politiche economiche e non solo in quella monetaria". Una delle conseguenze di questa piena partecipazione fu che, talvolta, la BdI mancava "della necessaria autonomia nel campo specifico della politica monetaria" 13 . Per esempio, nel 1962-63 la BdI rinviò l'adozione di una politica monetaria più restrittiva, che pur considerava necessaria per diminuire il deficit nel conto corrente della bilancia dei pagamenti e il tasso d'inflazione, per non mettere a repentaglio un importante programma di investimenti pubblici nel settore chimico e metallurgico 14 . La mancanza di piena autonomia nel campo della politica monetaria era comunque più che compensata dal ruolo centrale che la BdI aveva nella formulazione della politica economica 15 . La BdI mantenne tale capacità fino a quando l'aumento della spesa pubblica, dovuta in gran parte alle richieste clientelistiche del sistema politico 16, cominciò a generare deficit di spesa tali da restringere la gamma di scelte della BdI. Carli denunciò questa situazione in maniera sempre piu insistente e, alla fine, decise di rassegnare le sue dimission1 17 A differenza di quanto previsto dall'approccio monetarista, la BdI cominciò a concentrarsi sulla lotta all'inflazione sin dalla fine degli anni Settanta, quindi molto prima che iniziasse il processo di acquisizione d'autonomia. Il cambiamento di priorità non fu dovuto semplicemente alle dimissioni di Carli. Di gran lunga più importante fu l'ingresso dell'Italia, nel 1978, nel regime di cambio del Sistema monetario europeo (Sme). Lo Sme limitava le variazioni nei cambi delle valute dei Paesi partecipanti a più o meno 2,25 per cento di parità predeterminate. Per quanto la cosa possa apparire oggetto d'ironia, all'epoca la BdI era molto scettica riguardo alla capacità della lira di rispettare quei margini di variazione, e convinse il governo a negoziarne di più ampi (più o meno 6 per cento) come condizione di adesione. Per un verso, lo Sme rappresentava una costrizione esterna e, quindi, un limite addizionale all'autonomia della BdI. Questa, infatti, non poteva ora prendere decisioni di politica monetaria in autonomia, ma era costretta ad adeguarsi alle scelte dell'attore egemone nello Sme, vale a dire la Bundesbank 18 . Contemporaneamente, lo Sme contribuiva a dare alla BdI più autonomia perché contribuiva ad emanciparla dalle esigenze del Tesoro. La decisione di aderire allo .

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Sme, in altre parole, rafforzò la preferenza della BdI per una politica monetaria anti-inflazionistica, politica che essa avrebbe trovato più difficoltoso mettere in atto se l'Italia non avesse partecipato agli accordi valutar1 19 Il primo passo formale verso l'acquisizione dell'autonomia fu compiuto nel luglio del 1981, allorché il governo italiano sollevò la BdI dell'obbligo di acquistare i titoli del Tesoro rimasti invenduti, un provvedimento conosciuto come "il divorzio" 20 . Le ragioni del "divorzio" possono spiegarsi attraverso un modello recentemente proposto da Bernhard. Il modello prevede che le probabilità che l'autorità politica decida di concedere l'autonomia alla banca centrale aumentano se: 1) all'interno del governo (ministri, partiti membri della coalizione, parlamentari della maggioranza) esistono differenze d'opinione riguardo alla politica monetaria; 2) vi è il rischio che la coalizione di governo possa dissolversi a causa di tali differenze 21 Nel caso italiano, l'iniziativa venne dal ministro del Tesoro, il democristiano Beniamino Andreatta. Economista di professione, Andreatta era convinto che per combattere l'inflazione si doveva aumentare la credibilità della Bd1 22 La Democrazia cristiana era divisa. Alcune correnti si erano opposte all'idea di sottrarre la BdI e, quindi, la politica monetaria e il sistema creditizio, al controllo del governo, per timore che questo avrebbe impedito al partito di rispondere adeguatamente ai bisogni delle sue molte clientele. Clientele e correnti che, nel 1979, avevano manovrato la campagna di diffamazione contro la BdI che aveva condotto all'accusa di malversazione, accusa poi trovata senza fondamento, nei confronti del governatore Baffi e del vicedirettore generale Sarcinelli. Altre correnti, compresa quella a cui apparteneva Andreatta erano favorevoli al divorzio 23 . Anche i membri della coalizione di governo erano divisi. I repubblicani e i liberali favorivano una politica anti-inflazionistica e, quindi, il "divorzio"; i socialisti e i social-democratici erano invece contrari. Oltre a questo, i democristiani si trovavano in una situazione politica molto delicata. Il loro tradizionale ruolo di leader delle coalizioni di governo era stato messo in discussione; il governo formato nel giugno del 1981, per la prima volta dal dicembre 1945, era guidato da un non democristiano, il repubblicano Spadolini. Con consensi che stagnavano attorno al 38% dell'elettorato, e il partito comunista che dal 27% del 1972 era passato, nel 1977, al 34%, lo stesso ruolo della Democrazia cristiana di partito di maggioranza relativa appariva instabile.

L'avanzata dei comunisti era, almeno in parte, da collegarsi alla loro crociata a favore di una maggiore moralità pubblica (la cosiddetta "questione morale"), che includeva una favorevole disposizione all'adozione di politiche di au.

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sterità macroeconomica. Queste posizioni, a loro volta, ovviamente giocavano a favore dell'aspirazione dei comunisti ad essere percepiti come legittimi aspiranti a un ruolo governativo. In un tale contesto, la concessione del "divorzio" permetteva ai democristiani di rimuovere la politica monetaria dalla lista delle questioni che avrebbero potuto creare divisioni all'interno della maggioranza.

Oltre a questo, il governo Spadolini era considerato un governo di transizione, che sarebbe durato solo fino a quando i democristiani si fossero rimessi dallo scandalo della loggia massonica P-2. Per Spadolini, come pure per Andreatta e i suoi colleghi democristiani che condividevano il suo punto di vista, il "divorzio" rappresentava anche una maniera di "legare le mani" ai loro successori e di ridurre, quindi, la loro discreziorialità in materia di spesa pubblica 24 A livello degli altri soggetti sociali, il «divorziJ era favorito dalle banche che erano preoccupate del pericolo della cosiddetta "disintermediazione". Esse avevano la percezione che lo Stato stesse, lentamente ma inesorabilmente, usurpando la loro legittima funzione di intermediazione finanziaria e per questo vedevano nel divorzio uno strumento per contrastare questa tendenza25 . Opposizione al "divorzio" sarebbe potuta venire dai sindacati più militanti, che decisero, invece, di appoggiare la posizione del Partito Comunista, loro tradizionale referente politico, e rimasero sostanzialmente silenziosi sulla questione 26 . I comunisti, per parte loro, vedevano con favore il "divorzio" perché giudicavano la BdI "una diga contro l'uso da parte della Democrazia cristiana del potere di governo per rafforzare la forza del partito . Dal loro punto di vista, una BdI più autonoma, e in grado di adottare una politica monetaria più restrittiva, rendendo più difficile per i democristiani l'uso di fondi pubblici a scopi clientelari, avrebbe contribuito a minare la base elettorale di quel partito 27 . V'è anche da notare che alla fine degli anni Settanta, le idee monetariste avevano cominciato a permeare sia la comunità scientifica che quella politica. La commissione incaricata dal Tesoro di studiare il sistema finanziario e creditizio concluse, per esempio, che 1 obiettivo principale avrebbe dovuto essere quello di rendere la gestione della politica monetaria e creditizia quanto più indipendente possibile dal bisogno di assicurare il finanziamento del settore pubblico" 28 . I commenti della stampa furono, in generale, favorevoli a tale raccomandazione.

Nessun nuovo passo per aumentare l'autonomia della BdI fu fatto tra il 1981 e il 1992. In questo periodo, la BdI abolì però alcuni vincoli e controlli diretti sul sistema bancario in passato utilizzati come strumenti di politica monetaria. Nel 1987 furono aboliti i vincoli di portafoglio introdotti nel 1973, e l'anno seguente furono rimossi i tetti al credito. Furono poi introdotte delle .

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misure per aumentare la liquidità e lo spessore dei mercati finanziari naziona1i29 . Infine, per adeguarsi alle disposizioni dell'Atto unico europeo, si procedette alla liberalizzazione del sistema dei cambi e dei movimenti valutari con l'estero. Nel 1987, rovesciando il principio che aveva prevalso sino ad allora, si permisero tutte le transazioni commerciali e finanziarie con l'estero ad eccezione di quelle esplicitamente vietate. Nel 1990, questo processo di liberalizzazione fu completato con la rimozione di tutte le proibizioni ancora in vigore.

Alcuni osservatori hanno interpretato le misure citate come un importante sostegno all'autonomia della BdI. Da un lato, l'eliminazione di vincoli e controlli sul sistema bancario ha contribuito a diminuire gli strumenti a disposizione della BdI per accomodare le richieste del Tesoro. Questo è importante perché tali strumenti erano quelli meno visibili e, quindi, politicamente meno costosi per il finanziamento del debito pubblico. Dall'altro lato, le riforme del mercato monetario e finanziario hanno rafforzato e stabilizzato la domanda per i titoli del Tesoro, e per questo hanno diminuito l'esigenza di intervento della BdI in soccorso del Tesoro 30 Il completamento del processo di acquisizione d'autonomia della BdI è av venuto per adempiere ai requisiti previsti dal trattato di Maastricht del 1992 per l'entrata nell'Unione economica e monetaria. Così, nel febbraio del 1992, il potere di fissare il tasso di sconto è passato dal Tesoro alla BdI. Nel novembre del 1993, il parlamento ha abolito la facoltà del Tesoro di avvalersi di anticipi in conto corrente e ha ridotto il ruolo della BdI a quello di semplice cassiere per il Tesoro. Infine, sebbene il governatore e gli alti funzionari della BdI ricevano ancora formalmente il loro incarico dal governo, quest'ultimo ha perso la facoltà di rimuoverli a sua discrezione; facoltà della quale, a dire il vero, non s'era mai avvalso. .

LA SCELTA DELL'AUTONOMIA PER LA BANCA CENTRALE EUROPEA

Nel caso della Banca centrale europea, la scelta dell'autonomia riflette le preferenze dell'attore principale, il governo tedesco e soprattutto la Bundesbank, e la sua capacità di far prevalere tali preferenze durante le negoziazioni. Sin dall'inizio dei lavori della Commissione Delors fu chiaro che non ci sarebbe stata nessuna unione monetaria, o almeno nessuna unione monetaria comprendente la Germania, a meno che essa non fosse gestita da una banca centrale autonoma avente come obiettivo principale la stabilità dei prezzi. Altrettanto chiaro fu che soltanto i Paesi in grado di soddisfare rigidi criteri di convergenza riguardanti il tasso d'inflazione, il deficit di bilancio, i tassi d'in41

teresse e la stabilità dei cambi, avrebbero potuto far parte dell'Unione. Inoltre, i governi nazionali avrebbero dovuto soddisfare i criteri di convergenza autonomamente, vale a dire senza l'aiuto di una riforma dello Sme durante il processo di transizione. Una tale riforma, proposta senza successo dai rappresentanti francesi, italiani e spagnoli, avrebbe mirato ad istituire un processo di convergenza i cui costi sarebbero stati condivisi anche dai Paesi a valuta forte. La Germania si oppose perché questo avrebbe significato una diminuzione dell'autonomia della Bundesbank durante il periodo di transizione 31 Durante le negoziazioni intergovernamentali che seguirono il Rapporto Delors, il solo Paese che cercò di limitare l'autonomia della Bce fu la Francia.

Neanche i rappresentanti francesi presero, però, una posizione netta contro l'idea dell'autonomia ma si limitarono, piuttosto, ad avanzare delle proposte miranti a limitarne la portata. Essi suggerirono, per esempio, di dare ad Ecofin (il consiglio dei ministri delle Finanze) più competenze in materia di politica monetaria, e si batterono anche per rinviare a quanto più tardi possibile entro il periodo di transizione la data in cui le banche centrali nazionali sarebbero dovute diventare autonome. Questa proposta fu probabilmente dettata dalla considerazione che, se non si fosse mai giunti al varo dell'Unione monetaria, sarebbe stato difficile fare passi indietro e limitare di nuovo l'autonomia delle banche centrali nazionali. Tutto quello che i francesi riuscirono ad ottenere furono maggiori competenze per Ecofin in materia di politica dei cambi tra l'Euro e le valute straniere, all'interno di un quadro in cui le scelte di Ecofin non possono comunque pregiudicare la capacità della Bce di perseguire il suo obiettivo principale della stabilità dei prezzi 32 .

.

AUTONOMIA E LIBERALIZZAZIONE FINANZIARIA

L'analisi del processo che ha condotto la BdI alla piena autonomia non rivela la presenza di legami diretti con il processo di liberalizzazione dei mercati finanziari. La liberalizzazione finanziaria in Italia è avvenuta principalmente alla fine degli anni Ottanta, dopo che il processo di acquisizione dell'autonomia era iniziato. La sola affermazione possibile, a proposito di tale nesso, è che la liberalizzazione finanziaria ha contribuito a rafforzare l'autonomia della BdJ quando quest'ultima era ancora incompleta, almeno formalmente. Il processo di emancipazione della BdI iniziò alla fine degli anni Settanta grazie alla presa di coscienza da parte di alcuni politici della necessità di mettere un limite istituzionale agli eccessi della spesa pubblica in Italia. Due fattori contribuirono a questo: 1) il progressivo affermarsi di un contesto epistemico in cui il keynesia42

nismo era soppiantato dal monetarismo; 2) il fatto che la BdI aveva cominciato a reclamare più autonomia nella gestione della politica monetaria a causa dell'aumento indiscriminato del debito pubblico, che aveva finito col restringere la gamma di scelte a sua disposizione, e quindi diminuire la sua influenza, nella formulazione della politica economica del Paese. Il divorzio fu possibile, perché i politici favorevoli all'autonomia e la BdI riuscirono a formare un'alleanza con gruppi politici e socio-economici che vedevano nell'autonomia della BdI un modo per legare le mani dei governi futuri, vincolandoli al perseguimento di obiettivi a loro cari: maggiore virtuosismo finanziario o, nel caso dei comunisti, minore spazio per le politiche clienteliste dei democristiani.

La BdI fu anche aiutata, soprattutto per quanto riguarda l'obiettivo della lotta all'inflazione, dall'entrata dell'Italia nello Sme. Il completamento del processo di acquisizione d'autonomia da parte della BdI è avvenuto negli anni Novanta, grazie al bisogno di mettere in atto i provvedimenti previsti nel trattato di Maastricht per la partecipazione all'Unione economica e monetaria. Nel caso italiano, si puo quindi concludere che dopo i1 divorzio (dovuto principalmente all'affermarsi delle idee monetariste e ad una favorevole congiuntura politica nazionale), l'autonomia della Bce sia dovuta principalmente a un processo di "armonizzazione", vale a dire una convergenza risultante da decisioni prese in seguito a accordi comunitari.

Il nesso tra liberalizzazione finanziaria e autonomia non sembra evidente neanche nel caso della Bce. La liberalizzazione finanziaria in Europa è stata completata più o meno nello stesso periodo, in cui si sceglieva di istituire una Bce autonoma. La scelta dell'autonomia sembra però derivare, essenzialmente, dal maggior potere contrattuale che la Germania ha nei confronti dei suoi partner, almeno per quanto riguarda le questioni monetarie ed economiche.

L'autonomia è il risultato, quindi, di un processo di "emulazione", vale a dire la decisione di creare una Bce che fosse simile alla Bundesbank. Un ruolo importante ha avuto anche il fatto che la Commissione Delors rappresentasse una sorta di "comunità epistemica", formata in larga parte da governatori delle banche centrali e da esperti che condividevano l'idea di istituire una Bce autonoma e avente come obiettivo principale la stabilità dei prezzi 33 .

IN PROSPETTIVA

La mancanza di un legame chiaro e diretto tra liberalizzazione finanziaria e autonomia delle banche centrali contribuisce a gettare ulteriori dubbi sulla tesi che le forze della globalizzazione siano deterministiche, nel senso che non la43

sciano nessun margine di manovra agli Stati nazionali, eccetto quello di creare un clima favorevole agli interessi del capitale internazionale3 4 . Quello che è importante non è tanto l'esistenza di una convergenza delle politiche ma la ragione alla base ditale convergenza. Almeno nei due casi qui esaminati, l'autonomia della banca centrale, lungi dall'essere un aggiustamento inevitabile alle forze della globalizzazione è stata, piuttosto, il risultato di un confronto politico in cui le forze a favore sono emerse vincenti. L'emergenza, a livello europeo, di una coalizione di forze favorevoli ad un controllo democratico sulla politica monetaria potrebbe, però, limitare l'attuale autonomia della Bce. L'autonomia reale della Bce è, in ogni caso, ancora tutta da verificare. Sebbene il Trattato di Maastricht l'abbia resa indipendente dalle autorità politiche comunitarie e nazionali (art. 107) e abbia fatto della stabilità dei prezzi il suo obiettivo principale (art. 2 del protocollo 3), è ancora presto per prevedere quale tipo di relazione s'instaurerà nel tempo tra la Bce e le autorità politiche.

In particolare, resta da vedere quale sarà il ruolo del cosiddetto "Euro- 11 committee", un organo informale, non previsto dal Trattato, che riunisce i ministri delle Finanze degli undici Paesi partecipanti all'Unione monetaria e la cui funzione è quella di "consigliare politicamente" la Bce. Ci sono, inoltre, forze politiche che vorrebbero che l'obiettivo della Bce non sia solo la difesa della stabilità dei prezzi ma anche la promozione della crescita economica e del livello dell'occupazione. Coscienti che la maggior parte dei costi dell'unifiazione monetaria, soprattutto durante il periodo di convergenza, sarebbero ricaduti sulle spalle dei salariati e dei gruppi sociali più deboli, i sindacati hanno appoggiato il progetto d'integrazione monetaria a patto che esso includesse anche dei provvedimenti per salvaguardare e promuovere l'occupazione. Però, tutto quello che hanno ottenuto è stato che la Comunità europea nel suo insieme (ma non la Bce) si desse l'obiettivo del raggiungimento di «un alto livello d occupazione Questo e avvenuto attraverso l'inserimento di un titolo sull'occupazione, concepito come contrappeso alla priorità della Bce per la stabilità dei prezzi, nel nuovo Trattato di Amsterdam35 . Anche se, accanto all'obiettivo della stabilità dei prezzi, la Bce adottasse quelli della crescita e dell'occupazione, questo non implicherebbe un eguale peso degli obiettivi nella scala delle priorità. Istruttivo a questo proposito è il caso della "Bank of Canada", il cui statuto menziona tutti e tre gli obiettivi, ma che, soprattutto negli ultimi due decenni, ha privilegiato la lotta all'inflazione36 . C'è, tuttavia, da sottolineare che un cambiamento in questo senso allo statuto della Bce contribuirebbe, comunque, ad aumentare la sua legittimità politica e, più in generale, quella dell'Unione europea.

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I BADE R. e PARK!N M., Central Bank Laws andMonetary Policy, ciclostilato, Department of

Economics, University ofWestern Ontario, Canada, 1978. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, gli studi sull'autonomia sono stati influenzati da concetti derivati dalla teoria dei giochi. Questo saggio però, si concentra sull'evidenza empirica più che sulle raffinazioni teoriche.

2 Cfr. ROGOFF K., The Optimal Degree of

Commitment te an Intermea'iate Monetary Target in «QuarterlyJournal ofEconomics», 1985, pp.

1169-1190. Si veda anche l'opinione di due economisti del Fondo Monetario Internazionale che scrivono: "La ragione per cui si deve preferire l'autonomia è la credibilità che essa apporta alla politica monetaria e, quindi, il fatto che essa permette di raggiungere e mantenere la stabilità dei prezzi nel lungo periodo a costi economici minimi. Questo è possibile se la formulazione della politica monetaria è nelle mani di tecnici che, a differenza dei politici, possono permettersi di operare con uno sguardo al periodo lungo". CASTELLO-BRANCO M. e SwINBuRNE M., Central Bank Independence in «Finance and Development>, marzo 1982, pp. 19-21.

CUKIERMAN A., WEBB S. e NEVAPTI B.,

febbraio 1997, pp. 19-36 a p. 34; EPSTEIN G.,

Politicai Economy and Comparative Centrai Banking, in «Review of Radical Political Economics» 24, 1, 1992, pp. 1-30 a p. 19; CORNWALL J. e CORNWALL W., Unemployment Costs oflnflation Targeting, Department of Economics, Workin g Paper 97-04, Dalhousie University, Halifax, Canada.; HALL P. e FRANZESE R., Mixed

Signais: Centrai Bank Ina'epena'ence, Coordinatea' Wage Bargaining, and European Monetary Union, in «International Organization» 52, 3, estate 1998, pp. 505-535 a p. 506.

EPSTEIN G., Monetary Poiicy in the 1990s: Ouercoming the Barriers te Equity and Growth in DYasKI G., EPSTEIN G. e P0LuN R. (a cura di),

Transforming the US Financiai System. Equity and Efficiency for the 215t Century, Sharpe Armonk 1993, p. 79. La ragione per cui i gruppi finanziari sono avversi a un aumento del tasso d'inflazione è che se l'inflazione aumenta più di quanto previsto, il tasso reale d'interesse sui prestiti risulterà più basso.

5 Sulla liberalizzazione finanziaria si veda HELLEINER E., States and the Re-emergence of C'io-

bai Finance: From Bretton Woods te the 1990s,

in «Foreign Affairs» 78, 2, marzo-aprile 1999, pp. 2-8 a pp. 4-5; FUHRER J.C., Centrai Bank

Corneli University Press, Ithaca 1994.

6 Ci sono, ovviamente, variazioni considerevoli in termini di quanto ognuno di questi casi rappresenti un valido esempio dell'accresciuto potere dei mercati finanziari. Alcuni potrebbero sostenere, per esempio, che la svalutazione della lira nel settembre 1992 fosse dovuta a fattori economici fondamentali e che quello che avvenne non fosse, quindi, molto diverso da quello che avveniva, a valute soppravalutate, nel sistema di Bretton Woods.

7 Per un approfondimento di questo punto, si veda Bowi.r.s P. e WHITE G., C'entrai Bank Ina'epedence: A Politicai Economy Approach in «Journal of Development Studies» 31, 2, dicembre 1994, pp. 23 5-264.

8 MAXFIELD S.,Gatekeepers ofGrowth. The

Independence ana' Inflation Thrgeting: Monetary Poiicy Paraa'igms for the Next Miiiennium? in

Internationai Politicai Economy of C'entrai Banking in Developing Countries, Princeton

«New England Economic Review», gennaio-

University Press, Princeton 1997.

Measuring the Ina'ependence of Central Banks and its Effects on Policy Outcomes in «World Bank Economic Review» 6, 3, 1992, pp. 353-398 a p.

382; ALESINA A. e SUMMERS L., C'entrai Bank In-

dependence and Macroeconomic Performance: Seme Comparative Evidence in «Journal of Money, Credit and Banking» 25, 2, 1993, pp. 151-162; FUJIKI H., Centrai Bank Independence Indexes in Economic Analysis: A Reappraisai in «Bank ofJapan Monetary and Economic Studies», dicembre 1996, pp. 79-101 a p. 81; Posen is quotedin BERMAN S. e McNA1vIAit K. R., Bank on Demo-

cracy. Why Centrai Banks Need Pubiic Oversight,

45

PAULY L., Who Elected the Bankers? Surveillance and Controlin the World Economy, Corneli University Press, lthaca 1997; GILL S. e LAw D., Global Hegemony and the Structural Power of Capital in GILL S. (a cura di), Gramsci, Historical Materialism, and International Relations, Cambridge University Press, Cambridge 1993, pp. 93-124.

IO Nel caso de! Giappone, per esempio, la concessione dell'autonomia si spiega principalmente con variabili di politica interna. Si veda a questo proposito, MacLN B. K. e BOWLES P., The New Bank ofJapan Law. Why is Japan Joining the Global Trend? In DONNELLY M. (a cura di), Confidence and Uncertainty in Japan, Proceedings of the 10th Annua! Conference of the J apan Studies Association of Canada, University ofToronto-York University, Toronto 1998.

1 Sui processi di convergenza si veda, BENNET C. What is policy convergence and what causes it? «British Journal of Politica! Science» 21, 2, aprile 1991, pp. 215-233.

12 FRATTIANNI M. e SPINELLI F., A Monetary History ofltaly, Cambridge University Press, Cambridge 1997.

3 NARDOZZI G., A CentralBank between the Government and the Credit System: The Bank of Italy afier World War Il in T0NI0L0 G. (a cura di), Central Banks' independence in Historical Perspective, Walter de Gruyter, Berlino 1988, pp. 161-196ap. 177.

14 Si veda CARLI G., Intervista sul Capitalismo, SCALFARI E. (a cura di), Laterza, Bari, 1977, pp. 37-38.

5 Questa capacità divenne ancora più significativa dopo l'ingresso dei socialisti nella coalizione di governo nel 1963. L'opinione "tecnica" della BdI risultò spesso decisiva quando democristiani e socialisti si trovavano in disaccordo.

Come affermato da Carli, il governatore della BdI "fu sempre il principale consigliere del Principe" (CARLI, op. cit., p. 36). Si noti anche che, in quegli anni, ci si interrogava sul grado reale d'autonomia del Tesoro e del governo dalla BdI piuttosto che del contrario. Si veda REY G. 9

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M. e PELUFFO P. (a cura di), Dialogo tra un professore e la Banca d'italia, Vallecchi, Firenze 1995, p. 37.

16 Sull'aumento della spesa pubblica si veda DE ROSA L. italian Economic Development Since the Second World War: A Reconstruction Based on the Review in «Review of Economic Conditions in ltaly» 2, luglio-dicembre 1997, pp. 177-265 a pp. 519-523. Sugli aspetti finanziari del clientelismo si veda GUZZINI S. The 'Long Night of the First Republic Years of Clientelistic implosion in italy in «Review of International Politica!

Economy» 2, 1, 1995, pp. 27-61. '' CARLI, op. cit., p. 52-54; REY e PELUFFO, op. cit., pp. 238-241.

18 GIAVAZZI F. e GIOVANNINI A, Limiting Lvchange Rate Flexibility: The European Monetary System, MIT Press, Cambridge, Ma. 1989.

19 Si veda a questo proposito GIAVAZZI F. e PAGANO M., The Aa'vantage of Tying One's Hands: EMS Disczpline and Central Bank Credibility, in «European Economic Review» 32, 1988, pp. 1055-1082. Sostanzialmente, lo Sme permise alla BdI di ridurre il tasso d'inflazione lasciando che il valore reale della lira si apprezzasse relativamente alle altre valute nello Sme. Tra il 1978 e il 1990, per esempio, il tasso cumulativo di inflazione fu del 98 per cento più alto in Italia che in Germania mentre, il deprezzamento nominale della lira in relazione al marco tedesco fu del 56 per cento. Quindi, la lira si apprezzò rispetto al marco de! 42 per cento. Si veda FRATIANNI e SPINELLI, op. cit., p. 236.

20 La BdI aveva cominciato a richiedere maggiore autonomia già verso la fine del governatorato di Carli (1960-1975) ma tutto quello che aveva ottenuto era che, a partire dal 1975, parte del debito pubblico fosse denominato in titoli a breve e che le aste fossero pubbliche e non aperte solo alle banche. Sebbene queste innovazioni aumentassero il margine di manovra della BdI nella determinazione del tasso di interesse sui titoli del Tesoro, esse non emancipavano la BdI dal Tesoro. SALVEMINI M.T, The Treasu?y and the Money Market: The New Responsibilities afier the Divorce

in «Review of the Economic Conditions ofltaly» 34, 1, febbraio 1983, pp. 33-54.

21 BERNHARD W, A Political &planation of Variation in Central Bank Jna'ependence, in «Arnerican Political Science Review» 92, 2, giugno 1998, pp. 311-327.

22 Fratianni e Spinelli esagerano quando attribuiscono tutto il merito del "divorzio" all"illuminato" Andreatta che definiscono come "uno dei più grandi innovatori nella storia".

Sebbene il ruolo di Andreatta sia stato senza dubbio cruciale (la decisione non fu, per esempio, sottoposta all'esame del Consiglio dei ministri, ma fu presa dal solo Andreatta - cfr. G000MAN J.B., Monetary Sovereignry. The Politics of Central Banking in Western Europe, Cornell University Press, lthaca 1992, p. 173), tale spiegazione ignora il significato politico del "divorzio" come pure il contesto socio-politico in cui esso avvenne. Una decisione che è stata definita "una pietra miliare nell'evoluzione della politica monetaria italiana" (cfr. PASSACANTANDO F.,

Building an Institutional Framework for Monetary Stability: The Case ofltaly 1979-1994 in «Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review» 196, marzo 1996, pp. 83-132 a p. 88, nota n.

7) non può certamente essere stata presa in assenza di una coalizione di forze socio-politiche che la favorivano o, come minimo, non la osteggiavano.

23 Si veda CRAVERI P. La Repubblica dal 1958 and 1992, Milano: TEA, 1995, pp. 778783 e 865-866.

24 Si veda GOODMAN J.B., The Politics of C'entraI Bank Independence in «Comparative Politics» 23, 3, aprile 1991, pp. 329-349 a pp.

341-342.

25 Nel 1973, in seguito alla crisi petrolifera, la BdI aveva imposto dei tetti di credito e dei vincoli di portafoglio alle banche obbligandole a mantenere nel loro portafoglio una certa percentuale di titoli di Stato. Tali vincoli e la già menzionata apertura nel 1975 di un mercato pubblico per titoli di Stato a breve erano risultati in una caduta del quoziente tra crediti e de-

posiri bancari. Dal momento che i titoli di governo acquistati dalle banche andavano a finanziare il Tesoro e le istituzioni speciali di credito che elargivano credito a medio e lungo termine alle imprese, le banche ritenevano che lo Stato stesse usurpando la loro legittima funzione di intermediazione finanziaria. Sulla "disintermediazione" si veda EPSTEIN G. e SCHOR J. B,, The

Divorce of the Banca d'Italia ana' the Italian Treasury: A Case Study of Central Bank Indepena'ence in LANGE P. e REGINI M. (a cura di), State, Market and Social Regulation. New Perspectives on Italy, Cambridge University Press, Cambridge 1989, pp. 147-164 a pp. 158-159.

26 FLANAGAN R., SosKIcE D.W. e ULMAN L.,

Unionism, Economic Stabilization, and Incomes Policies: European Experience, The Brookings Institution, Washington Dc 1983, pp. 546-561.

27 EPSTEIN e SCHOR, op. cit., p. 160.

28 MoNTI S., CESARINI F. e SCOGNAMIGLIO C., Report on the Italian Credit and Financial System in «Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review», numero speciale, 1983.

29 Si veda PASSACANTANDO, op. cit., per una rassegna ditali misure.

30 BRUNI F. e MoNTI M., Autonomia della

banca centrale, inflazione e disavanzo pubblico: osservazioni sulla teoria e sul caso italiano in ARCELLI M. (a cura di), Il Ruolo della Banca Centrale nella Politica Economica, Il Mulino, Bologna 1992, p. 45; PASSACANTANDO, op. cit., pp.

91-92,98 e 117.

31 Si veda a questo proposito, DYSON K. Elu-

sive Union. The Process ofEconomic and Monetary Union in Europe, Longman, Londra 1994, pp. 130-132 e WALSH J.I., European Monetary Integration and Domestic Politics. Britain, France and Itaty, Boulder, Lynne Rienner, 2000, pp.

88-89.

32 WALSH, op. cit., pp. 94-95.

33 WLsH, op. cit., p. 91.

34 Per due recenti persuasive critiche di questa tesi, si veda WEISS, L. The Myth of the Powerless State, Cornell University Press, Ithaca 1998 e McQUA!G L., The Cult oflmpotence, Selling the 47

Myth of Powerlessness in the Global Economy, Viking, Toronto 1998.

35 Si veda, a questo proposito, WALSH J.I., L'incerto cammino verso l'Unione monetaria", in BARDI L. e RHODES M. (a cura di) Politica in Italia. I fatti dell'anno e ie interpretazioni. Edi-

48

zione 98, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 109130app. 126-127.

36 A questo proposito si veda McQuAIG, L., Shooting the Hippo. Death by Deficit and Other Canadian Myths, Penguin Books, Toronto 1995-

Finanza locale e mercato dei capitali di Maria Teresa Sa/vemini

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1 presente articolo è centrato su tre punti: il primo è il tema della dimensione della domanda globale di credito che proverrà, nei prossimi anni, dagli Enti territoriali (Comuni, Province e Regioni); il secondo è quale ruolo pensiamo potrà essere assegnato ai titoli emessi dagli Enti stessi, Boc e B0R; il terzo, su quali linee di indirizzo si sta muovendo la Cassa Depositi e Prestiti negli ultimi tempi.

Ne! nostro Paese non vi è un divieto assoluto all'indebitamento per gli Enti locali e per le Regioni, ma solo un insieme di norme che tendono a limitare il debito, sia in termini quantitativi sia in termini degli usi consentiti. Per quanto riguarda gli Enti locali, il d.lgs. n. 77/9 5 pone un vincolo non sui debito ma sul rapporto tra il servizio del debito e le entrate correnti. L'indebitamento è ammesso solo per la realizzazione degli investimenti (con limitatissime eccezioni).

LA DOMANDA GLOBALE DI CREDITO

Non vi è dubbio che, nella attuale situazione finanziaria degli Enti (ci si basa sugli ultimi bilanci consuntivi disponibili, quelli del 1996), questo vincolo è assai poco significativo o stringente. Un recente Rapporto della Banca Commerciale Italiana stima una domanda possibile di credito ad un tasso del 5%, per oltre 250 mila miliardi. La principale ragione per cui il decreto n. 77 non costituisce un vero vincolo è che il servizio del debito per gli Enti locali è stato, per lungo tempo, assunto in proprio dal bilancio dello Stato. Alla fine degli anni Settanta, il Tesoro si fece carico di tutti i debiti di questi enti, liberandoli dei relativi oneri finanziari. Negli anni Ottanta, il Tesoro ha adottato su larga scala la tecnica delle "leggi speciali", nelle quali il mutuo è a favore

L'autrice è professore ordinario di politica economica alla Sapienza di Roma. Attualmente è Direttore Generale della Cassa Depositi e Prestiti.

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dell'Ente, ma l'onere è a carico dello Stato. (Si pensi alle leggi per l'edilizia scolastica e giudiziaria, per gli impianti sportivi e lo smaltimento dei rifiuti urbani, e altro ancora). E questo, a prescindere dalle norme sui trasferimenti, legate anch'esse in parte alla spesa per investimenti. La forte crescita della spesa, sia corrente che d'investimento, degli Enti locali negli anni Ottanta, in altre parole, fu sostenuta dalle risorse trasferite dal bilancio dello Stato, gran parte delle quali nella forma di "spese diluite" nel tempo, attraverso l'assunzione del debito da parte dello Stato (in prevalente misura debiti verso la Cassa Depositi e Prestiti, che si confìgurava come un operatore particolarmente adatto alla gestione di questo circuito.)

Il ridursi dei trasferimenti statali, e delle leggi speciali, ha invece messo in luce un altro vincolo, assai più stringente. Quello derivante dal fatto che il bilancio degli Enti locali deve essere deliberato in pareggio finanziario complessivo, ed al contempo deve esistere un equilibrio nell'ambito della gestione corrente, nel senso che le entrate correnti devono essere almeno uguali alle spese correnti, più le quote capitale delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti finanziari (art. 4 c.6 d.lgs. 77/95). Il servizio del debito, in base a questa norma, diviene un vero limite alla crescita del debito stesso. Se si ricalcola, col vincolo completo, lo spazio disponibile, esso appare addirittura inesistente: le quote capitale da rimborsare sui mutui esistenti sfiorano infatti i 6000 miliardi, sempre con riferimento ai dati '96.

Ma forse non è il caso di interrogarsi molto su come opera questo vincolo, sia perché dovremmo approfondire il rapporto tra bilanci di previsione e bilanci consuntivi, sia perché dovremmo conoscere la distribuzione dei saldi tra Comuni e, in particolare, quanti sono da considerare strutturalmente deficitari ai sensi del decreto del ministero dell'Interno n. 227/99, che pone ulteriori regole sul rapporto tra interessi passivi ed entrate correnti. Si può, tuttavia, osservare il fortissimo interesse degli Enti locali alla riduzione del tasso d'interesse sui vecchi mutui; la insistente pressione da loro esercitata a tal fine ha portato a rilevanti rinegoziazioni, in particolare con la Cassa Depositi e Prestiti, la quale ha ridotto al 7,5% il tasso sullo stock dei mutui in essere.

Questa pressione è una prova del fatto che il vincolo del pareggio finanziario, negli ultimi anni, ha cominciato a mordere, e non poco.

Per quanto riguarda le Regioni, anche per loro il ricorso all'indebitamento è consentito solo per spese in conto capitale, ma con varie eccezioni; la più importante di tutti è la copertura dei disavanzi del Servizio sanitario. Anche 50

per loro è posto un tetto attraverso il rapporto tra annualità di ammortamento e entrate tributarie; questo limite appare, tuttavia, oggi molto debole per l'introduzione dell'Iip e, in prospettiva, per il nuovo assetto della ripartizione delle entrate fra Stato centrale e Regioni, cioè il nuovo federalismo fiscale.

In prospettiva, perciò, la crescita del debito delle Regioni può essere anche forte, sia per i fabbisogni legati alla spesa sanitaria, sia per il fabbisogno di finanziamento della opera in conto capitale.

REGOLE ED EFFETTI DEL PATTO DI STABILITÀ INTERNO

A questa regola si aggiunge il Patto di Stabilità Interno. L'art. 28 del collegato alla legge finanziaria 1999 ha esteso alle Regioni e agli Enti locali gli impegni assunti dal nostro Paese, in sede comunitaria, in materia di saldi di bilancio, ma non pone un obbiettivo in termini di dinamica del debito. I risultati dell'applicazione del Patto di stabilità, per l'anno 1999, non sono stati ancora completamente verificati; bisogna, comunque, considerare che gli Enti possono recuperare nel 2000 il differenziale negativo rispetto all'obiettivo 1999, se parzialmente raggiunto. Quest'anno la norma è stata riprodotta, ed è stato fissato sia un obiettivo macroeconomico (la riduzione del disavanzo pari ad almeno lo 0,1% del PIL, per ciascun anno, realizzabile attraverso una riduzione dell'l,l% della spesa corrente rilevante ai fini del saldo, oppure attraverso un miglioramento del 3% del saldo finanziario) sia un insieme di incentivi, sia una pit precisa identificazione dei dati contabili da utilizzare. La definizione del saldo rilevante è diversa, nel Patto di stabilità, sia da quella dei conti finanziari sia da quella dei conti economici.

La definizione del disavanzo esclude le spese di investimento. Da questo punto di vista, si può ritenere che la politica di bilancio sia riassumibile nell'obiettivo di realizzare un adeguato volume di investimenti, anche finanziandoli con debiti, purché nel singolo ente, e a livello della pubblica amministrazione nel suo complesso, l'avanzo corrente sia di dimensioni adeguate a compensare tale spesa e il connesso debito.

Per le Regioni, vi sono norme rivolte al contenimento del disavanzo sanitario, ma non certo tali da assicurare il pareggio di questa parte dei bilanci. E probabile che le Regioni continueranno ad avere importanti fabbisogni da finanziare.

Apparentemente, dunque, non vi è un vincolo che freni la domanda di credito da parte degli Enti territoriali. Anzi, se si verificasse veramente un miglioramento nei saldi finanziari ne verrebbe anche un miglioramento del di51

savanzo economico, e questo potrebbe ampliare lo spazio degli investimenti fmnanziabili con debito. Ma non mi azzarderei a fare previsioni quantitative su questa domanda. Qualche notizia in più potrà venire dall'osservazione degli effetti della norma che consente un rimborso anticipato senza penali dei debiti verso la Cassa, se l'Ente si impegna a contenere la crescita del rapporto del suo debito al PIL. Anche la riduzione degli interessi pagati alla Cassa opera in questa direzione, cioè amplia lo spazio utilizzabile per assumere altri debiti. Tale riduzione è significativa: quasi 450 miliardi sul bilancio 2000.

Strettamente collegata al vincolo di politica di bilancio è la necessità che l'indebitamento avvenga alle condizioni più convenienti possibili, minimizzando il costo per il singolo Ente, e perciò per il settore pubblico nel suo insieme.

GLI ENTI TERRITORIALI SUL MERCATO OBBLIGAZIONARIO

Ci si può chiedere se vi possa essere, da questo punto di vista, una superiorità nel ricorso diretto al mercato obbligazionario da parte degli Enti territoriali, rispetto al più tradizionale ricorso al mutuo bancario.

E evidente che, in situazioni di mercato efficiente, tale superiorità potrebbe solo riflettere un "merito di credito" dell'Ente locale superiore al merito di credito dell'intermediario che cerca sul mercato le risorse da destinare al finanziamento ditali Enti. Di norma, è esattamente l'opposto anche perché la valutazione del mutuo di credito può risultare eccessivamente costosa per prenditori di dimensioni medio-piccole.

Inoltre, l'intermediario può operare in mercati di titoli espressamente rivolti al finanziamento degli investimenti pubblici, come è il caso dei Pfandbrief tedeschi, e contribuire, con emissioni rilevanti, a dare spessore ed efficienza a questo mercato (un po' come avvenne in Italia negli anni Trenta, quando 1Ml, Iciu e CIuD1or furono creati non solo per finanziare investimenti a lungo termine, ma per assicurare la nascita di un mercato obbligazionano).

Anche quando non opera in mercati con questo grado di specializzazione, l'intermediario può avere capacità di raccolta maggiori di quelle dei suoi clienti. E il caso, ad esempio, delle Agenzie Scandinave di finanziamento degli Enti locali, che riescono a garantire una raccolta a tassi molto bassi perché legata ad impieghi quasi del tutto privi di rischio, o dotati di un sistema cooperativo di garanzia.

In un certo senso, è anche il caso della Cassa Depositi e Prestiti. Questa opera attivando un circuito di raccolta tramite le Poste con vincolo di utilizzo 52

a favore del Tesoro e degli investimenti pubblici. Non è qui la sede per esporre le caratteristiche dei titoli postali, e il particolare mix rendimento-rischio di tasso che è loro connesso per la clausola di liquidabilità a vista. Ricordo soltanto che tale circuito consente alla Cassa Depositi e Prestiti di fare mutui a tassi che stanno qualche punto base al di sotto dei tassi di mercato.

Ci si può chiedere, fatta questa premessa sulle alternative di finanziamento, se i Boc/Boiz presentino caratteristiche tali da far prevedere uno sviluppo nella direzione della situazione USA, anziché europea, cioè uno spostamento dal mercato degli intermediari al mercato dei titoli emessi direttamente.

Secondo alcuni commentatori, la nascita del grande mercato finanziario in Euro potrebbe accentuare la domanda di titoli municipali. Si potrebbe aggiungere che date le regole sui bilanci pubblici, tale domanda sarà soprattutto sostenuta dalla minore offerta di titoli dei governi centrali, che può lasciare fortemente insoddisfatta la domanda di titoli a basso rischio. E probabile che gli operatori e i gestori di risparmio comincino a vedere con qualche preoccupazione questo scenario, essendo a caccia di prodotti alternativi.

Quel che nel caso italiano accresce l'appeal di questi titoli è proprio il fatto che il grado di rischio è tenuto rigorosamente basso dal fatto che non sono legati alla redditività dell'investimento che finanziano (a differenza del caso dei Revenue bonds americani). Assomigliano perciò, per il carattere delle loro garanzie, di tipo istituzionale, ai titoli di Stato.

UN MERCATO DA CREARE NELLA TRASPARENZA

Ciò detto, e ricordato che vi è una certa domanda di investimenti da finanziare, bisogna però riconoscere che non basta questo a descrivere la dimensione del mercato, né a fare qualche ipotesi sulle scelte che verranno fatte dagli Enti locali in materia di struttura del finanziamento.

Si tende a dare una certa importanza al dato dinamico, la crescita da un anno all'altro di questi titoli, ben poca essendo ancora la loro consistenza.

Le statistiche della Banca d'Italia danno, a novembre 1999, consistenze di titoli di enti territoriali per 5.207 miliardi, 2.689 milioni di Euro. E davvero poco se si tiene conto del volume complessivo del debito che, per i soli Enti locali, supera i 70 mila miliardi a! 1° gennaio 1999. Le emissioni nette sono state, tuttavia, in forte crescita: da 239 miliardi di lire nel '96, a 758 nel '97, a 1.024 nel '98, a 3.261 nel '99. Non basta, tuttavia, questa dinamica a far parlare di successo.

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A mio parere, l'elemento maggiormente carente nel caso dei Boc-B0R è la trasparenza. Senza trasparenza, però, nessun mercato può crearsi.

Per sapere qualcosasulle varie emissioni di questi titoli, l'unica 'fonte sono i giornali e, ad intervalli, qualche ricerca specializzata, come quella accennata della Banca Commerciale Italiana.

Queste informazioni sono rapsodiche e parziali. Ad esempio, i giornali dicono che la Regione tale ha emesso BOR a una certa scadenza, con un certo rendimento ma non specificano tutte le condizioni e non fanno confronti sistematici con altre emissioni. Inoltre, tende più a fare notizia il fatto che un piccolo Comune ha emesso Boc, e non che li abbia emessi a molti punti base sopra Euribor, come è avvenuto. L'informazione viene più usata per "dare spazio a questo o quel sindaco, a questo o quell assessore regionale, che per valutare la convenienza economica dell'emissione.

Il rischio maggiore è che questa opacità non metta in grado l'Ente di scegliere bene. L'unico termine di confronto sono i tassi sui mutui Cassa (e per fortuna che questo termine di confronto esiste).

Vi è poi il problema dei costi di organizzazione. Non è un discorso irrilevante, come dimostrò uno studio fatto proprio dall'Ufficio studi della Banca commerciale, nel 1995. Il problema è che non se ne sa nulla, ogni Ente è lasciato alla sua contrattazione individuale.

Certamente, tali costi dovrebbero consigliare emissioni solo per grossi progetti, eventualmente consortili, o emissioni solo per Enti di grandi dimensioni. Certamente, dovrebbero essere dichiarati: si dovrebbe, cioè, indicare il costo onnicomprensivo dell'emissione e non raccontare ai propri cittadini solo una parte della storia.

E che dire delle opzioni che spesso accompagnano queste emissioni? Non se ne sa quasi nulla: non viene dichiarato il loro costo e, spesso, neanche le controparti (con gli impliciti rischi di credito).

Quando il collocamento viene preso "a fermo", le banche che sottoscrivono possono tenerli o collocarli nelle proprie gestioni patrimoniali.

Non esiste, di fatto, un mercato secondario, se non nella forma limitata della uscita dalla gestione. Gli unici titoli che circolano sul circuito ufficiale italiano sono: Città di Roma (Ribor 6 m.+ 62 b.p. luglio 1996-luglio 2016) e Provincia di Milano (Ribor 6 m. + 40 b.p. dicembre 1997-dicembre 2012); su questi l'operatività è comunque ridottissima, e in alcuni giorni nulla.

La mia convinzione è che solo un forte cambiamento nelle regole di trasparenza e di controllo su queste emissioni può dare una prospettiva al mer54

cato, nonché giustificare il loro uso all'interno di una strategia di ottimizzazione del debito e di riduzione dei costi.

TITOLI MUNICIPALI O REGIONALI NEL NASCENTE MERCATO EUROPEO DEI CAPITALI

Certo, i vantaggi dei Boc-B0R possono essere trovati altrove.

Nell'ottobre 1998, a proposito delle emissioni di titoli municipali, si poteva leggere in Euromoney: 'Municiai borrowers in both western and eastern Europe are favouring bonds aver ioans for reasons beyond current cost. Many issuers are seeking iv position themseives as soon as possibie in the nascent Pan-European capitai markets. Loans might be a few basis points cheaper today, but an inaugurai bond issue is an investinent".

Devo ritenere che ciò sia vero, e probabilmente lo è, non perché l'entrare tra i primi, ma con piccole emissioni, in un mercato così enorme dia qualche vantaggio posizionale, ma piuttosto perché "fa notizia" e assume un aspetto promozionale (non irrilevante, forse, più che per collocare titoli, per attrarre investimenti industriali o consenso politico).

Ma vi è un altro elemento che mi sembra abbia molto giocato, soprattutto nel caso delle Regioni, e che si aggiunge, per questo, al più forte richiamo delle ragioni di immagine e visibilità dell'Ente emittente. Ed è l'elemento "flessibilità", sia nella struttura del titolo offerto sia nell'uso dei fondi raccolti. Il titolo obbligazionano appare più facilmente disegnabile sulle specifiche esigenze dell'Ente, e nel caso delle Regioni non è vincolato, nel suo utilizzo, all'effettiva spesa per cui è stato emesso. Le Regioni, facendo riferimento non solo alla legge 724/94 (quella sui BOR che impone l'esistenza di un progetto esecutivo specifico) ma anche alla legge 28 1/70, che si limita a consentire emissioni a fronte di spese di investimenti, sono riuscite a svincolare l'utilizzo delle somme raccolte dalla procedura amministrativa di esecuzione della spesa.

Tutto ciò detto, e immaginando che possa esservi per le Regioni, in particolare, un interesse per l'emissione di titoli propri, a me sembra significativo dire che questo è un fenomeno prevalentemente italiano. Negli altri grandi Paesi europei ciò che si sta sviluppando sono i titoli come i Pfanfbriefe tedeschi, che i francesi stanno cercando di copiare. Titoli a largo mercato, garantiti da mutui concessi ai governi statali e locali, nonché ad altre istituzioni del settore pubblico. Ogni emissione è garantita da un insieme di mutui, il che riduce fortemente il rischio di indennizzo; vi è, comunque, la possibilità di rivalsa sulla banca emittente.

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Come ho detto, nel caso italiano la cosa più simile sono i titoli postali, che sono emessi e rimborsati dalle Poste per conto della Cassa Depositi e Prestiti.

LE LINEE DI INDIRIZZO DELLA CDP

Questo ci porta al mio terzo argomento.

Sulla Cassa Depositi e Prestiti vi è stato, negli ultimi anni, un certo dibattito. E una impresa pubblica, oldfashwned, la cui forma va privatizzata ? O e una parte della pubblica amministrazione con funzioni più particolari?

Per rispondere a queste domande, vorrei partire da quanto ho già accennato. C'è una certa tipologia di raccolta che avviene tramite strumenti speciali, i Buoni e i Depositi postali. I Buoni Postali sono la versione italiana dei Saving Bonds, oggi collocati in molti Paesi. Il prezzo di questi titoli (come quello dei Pfandbrief) viene tenuto alto da alcuni vantaggi accessori riguardanti la sicurezza dell'impiego e la sua liquidità. Sono titoli a tasso fisso scalettati secondo rendimenti crescenti, rimborsabili a prezzi noti all'emissione, in qualsiasi momento, presso gli stessi sportelli postali.

Con questa raccolta si finanziano, esclusivamente, gli investimenti pubblici. I tassi praticati sono, quindi, tassi che non comportano alcun sussidio sul bilancio dello Stato. Il rimborso di questi mutui avverrà tramite risorse fiscali che verranno raccolte in futuro.

La Cassa Depositi e Prestiti appare una agenzia esplicitamente dedicata a far funzionare questo circuito, i cui vantaggi sono una più bassa spesa per interessi ed un'uguaglianza di trattamento per tutte le Amministrazioni che domandano risorse per investimenti. La Cassa deve perciò preoccuparsi molto del livello dei suoi tassi, attivi e passivi.

Nel rapporto della Banca commerciale risulterebbe che in alcuni periodi questa ha avuto tassi più alti di quelli di mercato, in altri periodi più bassi.

Fino a qualche anno fa, per quindici anni, il tasso attivo Cassa era stato uno solo, il 9%, ma vi era uno stretto razionamento delle quantità concesse, il che descrive un circuito del tutto diverso.

Per vedere in che rapporto stanno i tassi Cassa con i tassi di mercato, tuttavia, bisogna vedere che cosa si intende per tassi di mercato: operando la Cassa, oggi, su molte scadenze e su tassi sia fissi che variabili, gli spreads sono molteplici. Sulla base della curva degli zero coupon ricavata dalla curva degli swaps per scadenza osservabile, in un dato momento, sul mercato, si possono individuare quei prezzi (e, quindi, quei tassi applicabili a ciascuna tipologia di passività da emettere o di crescita da concedere) che è corretto definire "di mercato".

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A questo insieme dei prezzi, la Cassa fa riferimento nel momento in cui propone al ministro del Tesoro (che con suoi decreti li fissa) sia i tassi sui Buoni Postali (che tengono conto anche del valore dei diritto di rimborso che questi titoli incorporano) sia i tassi sui mutui (il cui spread sul costo della raccolta, invece, non tiene pienamente conto del valore di tale diritto e che perciò vengano posti, di norma, al di sotto dei tassi di mercato).

Certo, è un processo di decisione abbastanza lungo, anche se è stato molto abbreviato negli ultimi tempi. Fino all'anno scorso ci volevano varie settimane tra la proposta iniziale e il decreto, per le norme procedurali Cassa. Dall'autunno scorso le norme procedurali sono state drasticamente semplificate, ma resta una fase decisionale che vede coinvolti, con la Cassa, sia gli uffici tecnici del Tesoro che gli uffici politici. Il che pone ancora qualche problema.

Quando i tassi si muovono lentamente, i problemi sono minori. Quando vi è molta volatilità, può essere quasi la regola che gli spreads fissati un giorno, già il giorno dopo siano diversi da quanto stabilito.

Quando i tassi di mercato sono scesi velocemente, come è avvenuto nel biennio 1997-1998, la Cassa si è trovata in alcuni periodi, involontariamente, a chiedere rendimenti troppo alti per i suoi membri. L'opposto può avvenire in fasi di veloce ascesa. Il criterio politico, comunque, che prevale è quello di consentire agli Enti di pagare meno di quanto pagherebbero sul mercato perché attingono ad un circuito di risorse il cui costo è, in parte, assorbito dall'assunzione del rischio di rimborso anticipato da parte della Cassa. Questa, infatti, tiene liquidi presso il Tesoro 160.000 miliardi (ed è questa la vera garanzia per il risparmiatore).

I nuovi prodottifinanziari della Cassa Le più recenti tendenze evolutive della Cassa, da un lato, riaffermano il ruolo dell'Istituto nel finanziamento degli investimenti pubblici, dall'altro, mostrano una gestione sempre più orientata al mercato, in un confronto che si sta sviluppando in termini sia di operatività che di condizioni offerte.

In un mercato sempre più caratterizzato da fenomeni di globalizzazione e concorrenza, la Cassa ha avviato una efficace politica di diversificazione della propria offerta di prodotti finanziari, ponendo a disposizione degli enti mutuatari un ampio ventaglio di scelte per far fronte alle loro esigenze di finanziamento.

In quest'ottica, a decorrere dal 1999, la Cassa ha arricchito la propria offerta di credito proponendo un insieme articolato di prodotti finanziari. Oggi, gli operatori hanno la possibilità di scegliere oltre ai mutui a tasso fisso,

(per i quali sono previsti tassi differenziati per la durata di ammortamento massimo 20 anni - e determinati in base a parametri diffusamente utilizzati nei mercati finanziari) anche mutui a tasso variabile, (il cui tasso è indicizzato all'EuRIBOR a sei mesi maggiorato di uno spread diverso a seconda della durata del finanziamento) e mutui a tasso fisso con diritto di estinzione parziale anticzjpata alla pari che rappresenta la proposta più innovativa della Cassa con la quale l'Istituto si pone all'avanguardia nell'offerta di servizi finanziari a favore delle autonomie locali nel nostro Paese.

Questi consistono in mutui che incorporano un diritto di rimborso anticipato alla pari, il cui costo dipende dalla durata del mutuo e dalla quota di capitale su cui si intende esercitare tale diritto. Tale modalità di finanziamento è stata pensata per gli operatori che intendono pianificare un programma flessibile di rientro del proprio debito a medio e lungo termine.

Vorrei concludere osservando che vedo con favore la concorrenza tra Cassa e banche e tra Cassa e mercato obbligazionario nel fornire credito agli Enti.

Tutti i miglioramenti che stiamo cercando di introdurre nascono da questa concorrenza, guai se la Cassa fosse un monopolista. Ma anche per il mercato, l'esistenza della Cassa è uno stimolo a non considerare il credito agli Enti pubblici come territorio di caccia facile, dagli ampi guadagni.

Questa concorrenza deve operare con la finalità che, essendo in gioco un interesse pubblico, il finanziamento degli investimenti pubblici debba avvenire nel modo più economico possibile.

L'articolo è tratto dall'intervento tenuto dall'autrice il 2 marzo 2000 ad un incontro di studio organizzato dalla Banca Commerciale Italiana

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saggio

2'

Costituzione, magistratura e amministrazioni

Abbiamo ricevuto e pubblichiamo volentieri il saggio di Nino Longobardi. Nel primo numero della nuova serie ci piace ospitare uno scritto ampio che supera le dimensioni consuete degli articoli della Rivista per una ragione fondamentale: che il saggio di Longobardi consente di riprendere il discorso su temi che rientrano fra i principali interessi di queste istituzioni e che meritano oggi valutazioni d'insieme compiute ed approfondite. Fitto, al riguardo, il "dibattito in redazione" dell'autunno 1999 alle giornate cortonesi.

La Rivista ritiene importante dare spazio a tutte le possibili opinioni. Ma poi - ovviamente - continua il suo discorso. In particolare, nella materia di pubbliche amministrazioni dove queste istituzioni ha maturato nel tempo posizioni precise, in senso sia analitico che propositivo. Di qui, i commenti che nel prossimo numero seguiranno. Apriamo un dibattito che contiamo vada avanti anche con la partecipazione di altri.

Una sola prima osservazione è da fare: il saggio di Longobardi contiene dei contributi propositivi di notevole interesse che vanno raccolti e, tuttavia, muove da una posizione di metodo che, invece, non condividiamo.

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Accenniamo subito ad alcune ragioni del dissenso.

Per essere precisi: si può ben sostenere che molte cose nel processo di rfirma amministrativa non vanno, che il disegno si è perso, che si può arrivare a parlare, per molti aspetti, di un'fallimento" della riforma, che ci voglia uno stop alla normativa che cresce su se stessa (molti addetti ai lavori hanno parlato della necessità di una "moratoria normativa'); tuttavia, di tutto ciò non sono causa - a nostro parere - impostazioni amministrativistiche di tipo dottrinario da anni Trenta e Quaranta né tanto meno disegni di tipo organicistico.

Diciamo piuttosto: attraverso la numerosa e alluvionale legislazione amministrativa degli anni Novanta ("tra il 1990 e il 1999 - osserva Marco Cammelli - è stato varato un numero di leggi di riforma amministrativa tali da superare nettamente, per concentrazione e contenuti, ogni altro periodo: le leggi del 1865, le riforme crispine, i provvedimenti giolittiani di iniziosecolo, il riformismo fascista degli anni Trenta e quello repubblicano degli anni Sessanta' Nulla da eccepire: è così) si è aperto un processo che è ben lontano dall'avere trovato un approdo saldo e chiaro. Anzi, rischia di essere andato Jiiori controllo. Al punto che allegri politici o osservatori, più o meno inconsapevoli, promettono ai cittadini, prossimi elettori, la "riforma amministrativa" (cosa? Un altro quinquennio di leggi?).

Di tutto ciò e d'altro, comunque, in un prossimo discorso compiuto quale, fra l'altro, merita il saggio di Longobardi.

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Costituzione, magistratura e amministrazioni Il problema dell'ampliamento della democrazia di Nino Longobardi

La tendenza democratica deve essere appoggiata nella lotta contro le sue conseguenze e La tendenza aristocratica deve essere abbandonata per il suo bene.

KARL KRAUS

hiamato ad esprimersi sulle ragioni che ostacolano l'avvio di un circolo di crescita virtuoso in Europa, Milton Friedman non si è limitato alla constatazione di alcune rigidità che bloccano il vecchio continente, da una regolamentazione «vecchia e molto rigida a strutture salariali e contrattuali superate. Dopo aver giudicato infausta l'ipotesi, avanzata dall'intervistatore, di affiancare alla Banca Centrale Europea una autorità politica o un sistema fiscale federale ("Per carità.., siete già fin troppo centralizzati"), il nobel per l'economia è andato al cuore del problema individuando "una complicazione di natura politica".

Gli stessi valori di fondo sono condivisi da americani ed europei, ha affermato l'economista, ma "la differenza vera sta nella struttura sistemica e di governo. La nostra è flessibile e decentralizzata. La vostra l'avete ereditata e non riuscite a cambiarla. L'Europa è prigioniera della tirannia dello status quo. Il potere non è delle masse, è nelle mani di piccoli gruppi che lo difendono a scapito dell'interesse nazionale. Siete ancora gestiti da élites"I. I giudizi dell'economista americano hanno diretta attinenza con l'argomento di questo scritto ed aiutano a capire perché l'Italia rappresenta in Europa un caso specialissimo e deteriore.

C

TORNARE ALLA COSTITUZIONE

"Il governo dei tecnici: burocrazie, corpi giudiziari, authorities". Con questa formula è stato individuato uno degli argomenti del recente Convegno L'autore è ordinario di diritto amministrativo nell'Università di L'Aquila.

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dal titolo "Tornare alla Costituzione", promosso dal Comitato promotore dei referendum nell'imminenza del giudizio sulla loro ammissibilità (Roma, 6-7 dicembre 1999).

La modalità di formulazione del tema incorpora un giudizio negativo piuttosto diffuso, che, messo in rapporto con il titolo del Convegno, sottintende che il ritorno alla Costituzione implichi lo sbarramento ad una presunta deriva tecnocratica nel nostro Paese.

Si impongono pertanto due chiarimenti. Il primo per sottolineare che il problema centrale oggi - per quanto incredibilmente, ancor più di ieri - è quello della patologica interferenza dei partiti politici (ai quali vanno ormai largamente assimilate le grandi confederazioni sindaca11 2) nella dinamica dei poteri costituzionali e nell'amministrazione. Una interferenza che trasmoda in pervasiva tutela, tale da conferire carattere largamente fittizio alle istituzioni. Il secondo chiarimento attiene alla Costituzione vigente. Essa, benché "ferita" 3 preoccupa in primo luogo e giustamente di questo diverso e sempre più ampio fenomeno, corrispondente ad una storica debolezza dello stato italiano. Alcune disposizioni di sbarramento e di indirizzo contenute nella nostra Costituzione, se non sono valse ad impedire una ulteriore accentuazione del fenomeno, continuano, tuttavia, a collocare il tentativo di istituzionalizzarlo fuori e contro la Costituzione.

E infatti questo tentativo, già largamente attuato, a costituire l'ultima escalation del fenomeno. Esso assume ora, per le sue modalità, per ampiezza, sistematicità e pervasività inusitate, tratti innovativi rispetto al passato e molto inquietanti. ,

Si

La strada maestra per garantire stabilità e influenza alla classe politica, attraverso il massimo grado di occupazione possibile degli spazi di potere presenti nell'ordinamento, è stata individuata nella "strategia costituente" 4 Il progetto di revisione costituzionale approvato dalla Commissione bicamerale delinea, infatti, uno scenario di istituzioni deboli - permeate o permeabili dalle formazioni politico-sindacali 5 - nel quale il primato del governo prefigura la tirannia della maggioranza. Alla stregua del progetto predetto, il governo "dirige la politica nazionale" e "dispone dell'amministrazione e delle Forze armate , ponendo a suo piacimento limiti alla propria azione, in conseguenza della retrocessione del principio di legalità a livello regolamentare e tendenzialmente scegliendo anche le forme (pubbliche o private) della sua attività, senza incontrare efficaci vincoli nelle norme costituzionali ipotizzate.

La concentrazione del potere nel governo risulta delineata secondo caratteristiche che implicano il distacco dalle democrazie liberali. Rilevano a! riguardo .

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l'assenza di indicazioni, anche minime, in ordine alle garanzie da accordare ai pubblici funzionari ed ancor più l'emarginazione del ruolo della legge 6 . Si rende, cosi, possibile la riduzione dell apparato amministrativo a mero prolungamento" del governo, secondo il modello teorico dello stato totalitar10 7 Alla ricerca interessata di una impossibile uniformità e coerenza si giunge al punto di trasferire al livello costituzionale l'indirizzo autarchico tenacemente perseguito in tema di pubblica amministrazione, fondato sulla sindacalizzazione del pubblico impiego garantita dallo stato a vantaggio delle confederazioni sindacal18 . In tal modo, i grandi sindacati vengono deviati dalla funzione ad essi appropriata in una società aperta e pluralista e se ne istituzionalizza, come avviene anche attraverso la sempre più spinta assegnazione in via normativa di poteri e proventi, il compito di integrare e sorreggere l'azione di governo.

Ancora, nemmeno si esita a stravolgere totalmente il modello organizzativo delle autorità amministrative indipendenti; attratte al livello costituzionale, anche al fine evidente di ridurre se non totalmente eliminare il sindacato giurisdizionale sul loro operato, queste vengono accuratamente emarginate dalla pubblica amministrazione 9 In generale, con riguardo alla giustizia, l'assetto derivante dal progetto della Bicamerale, privo di reale carattere innovativo, risulta diretto ad indebolire l'indipendenza ed il peso complessivo della magistratura nell'ordinamento. Si opera, in sostanza, una mera regressione verso l'originaria concezione ottocentesca dell'amministrazione della giustizia negli ordinamenti continentali, da ritenere oggi improponibil& Q Sovraccaricata di funzioni, iperpoliticizzata e staccata dal potere giudiziario, la Corte costituzionale disegnata dalla Bicamerale prefigura, infine, lo snaturamento della giustizia costituzionale.

Fortunatamente, la strada della "rottura costituzionale", della revisione uno actu dell'intera parte seconda della Costituzione - quella che veramente conta in quanto distribuisce e disciplina il potere - si è rivelata non percorribile. Non è valsa allo scopo l'instaurazione di un procedimento extra ordinem, da suggellare con una approvazione plebiscitaria accuratamente preparata dai mediai 2 La pagina buia della Commissione bicamerale, che ha significativamente registrato il distacco tra la dottrina giuridica più qualificata, di varia tendenza, e la politica dei partiti, continua, tuttavia, a proiettare la sua ombra perniciosa sulla vita delle istituzioni.

Le principali conseguenze della delegittimazione della Costituzione, così malamente operata, sono costituite da un generale indebolimento degli isti.

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tuti di garanzia, contro i quali viene spesso agitato da esponenti della classe politica lo spettro della riforma e da una grave degenerazione dei comportamenti istituzionali, dal momento che protagonisti delle istituzioni si sentono autorizzati ad invocare, secondo le convenienze, la Costituzione vigente o gli indirizzi riformatori da essi stessi incarnati.

Pur essendo venuto a mancare i ombrello costituzionale , la riforma della Costituzione - con riguardo all'aspetto centrale della pubblica amministrazione e dei suoi rapporti con il governo - continua in buona sostanza ad essere perseguita attraverso atti normativi del governo. La questione è essenziale perché dalla sua soluzione risulta determinato il modello politico 13 La costruzione di un nuovo e temibile stato amministrativo, a vocazione dirigista ed autoritaria, teso ad imbrigliare e vanificare ogni sorta di autonomie, secondo una concezione organicistica, avviene attraverso l'abuso della delegazione legislativa. L'impossessamento della funzione legislativa, per lo più incostituzionalmente operato, prelude spesso al trasferimento in pianta stabile della predetta funzione in capo al governo, attraverso il meccanismo della cosidetta delegificazione, con grande enfasi sugli effetti di efficienza che dovrebbero derivarne 14 .

Costruzione ed accentramento di poteri, soprattutto normativi, in capo al governo, emarginazione del parlamento, ruolo di governo dei grandi sindacati nel pubblico impiego (con conseguente ulteriore chiusura corporativa di esso) nel quadro di una crescente istituzionalizzazione, creazione e moltiplicazione di posti, specie di vertice, per il personale politico e parapolitico, politicizzazione dell'amministrazione, svalutazione dei principi di imparzialità e di selezione meritocratica, sono divenuti gli aspetti caratterizzanti ed assolutamente prevalenti delle riforme amministrative. Insofferenza verso i (residui) controlli ed il sindacato giurisdizionale sono ulteriori elementi del quadro' 5.

Anche la prospettiva, impropriamente definita federalista, opportunisticamente perseguita 16 , considerate le modalità di attuazione e l'ancor più ferrea logica centralistica di fondo, è destinata a produrre ulteriori effetti di disordinata politicizzazione 17 e, soprattutto, ancora moltiplicazione di apparati e funzioni, con accrescimento a dismisura dei costi amministrativi 18 .

La necessità di tornare alla Costituzione ed alle regole da essa poste a tutela dei cittadini e delle istituzioni dovrebbe, quindi, apparire incontestabile. .

Se l'imperativo "Tornare alla Costituzione" può raccogliere un largo consenso, più difficile è certamente stabilirne senso e portata.

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Solo molto limitatamente, infatti, può essere sufficiente pretendere il rispetto della Costituzione scritta. Basta, per comprovare quanto appena affermato, sottolineare la complementarietà del nostro ordinamento con l'ordinamento comunitario. Da essa, con la scelta a favore del mercato, deriva anzitutto un mutamento del significato fondamentale degli enunciati costituzionali sull'economia, che ne completa l'evoluzione' 9 . Ma non solo, giacché organizzazione e modalità d'azione dei pubblici poteri devono esserne necessariamente influenzati, ben più di quanto già attualmente non siano 20 . E, soprattutto, sin troppo ovvio rammentare che un testo costituzionale non può essere di facile ed univoca interpretazione, ché anzi la bontà di esso risiede in gran parte nel prestarsi ad una interpretazione evolutiva. La nostra Costituzione è stata certamente oggetto di disapplicazioni e deformazioni. Da queste occorre ripartire. Ciò non è però sufficiente.

Al di là del modello ideale che ognuno può avere in mente, la Costituzione italiana è una buona costituzione? Prima ancora, però, come si riconosce una buona costituzione?

Un fondamentale parametro, conforme al costituzionalismo moderno informato all'esigenza di limitare il sovrano, che ha condotto alla affermazione dello stato costituzionale nel quale i diritti sono garantiti anche nei confronti delle maggioranze politiche, è da rinvenire nel bilanciamento costituzionale dei poteri.

Proprio mentre imperversava - all'insegna di un "primato della politica" vitalisticamente affermato - il procedimento extra ordinem di revisione costituzionale, è stato opportunamente messo in evidenza che le costituzioni del futuro saranno "costituzioni bilanciate", ciò che indica come "principale compito" quello di "costruire istituti di garanzia adeguati" 21 Al predetto fondamentale parametro occorre aggiungere un'altra caratteristica essenziale, che va rinvenuta, secondo quanto già accennato, in una flessibilità del testo costituzionale, sufficientemente atta a consentirne una interpretazione evolutiva. Giacché, per converso, un cattivo testo costituzionale è immediatamente riconoscibile per il suo tendere a pietrificare assetti di potere esistenti o, peggio ancora, ad imporne di nuovi e "blindarli", approfittando di una particolare contingenza politica.

In tema di bilanciamento costituzionale dei poteri ho ritenuto di poter sostenere che la Costituzione vigente, al contrario di quanto spesso si ritiene, contiene alcune decisive premesse di carattere istituzionale idonee a favorire il superamento della democrazia incompiuta dello stato dei partiti, che ha connotato la storia repubblicana. Esse risiedono nel ruolo forte della Corte costi.

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tuzionale e della magistratura e nell'autonomia dell'amministrazione pubblica nel sistema.

Ciò è conforme alle esigenze dello stato costituzionale, che deve realizzare condizioni istituzionali atte a bilanciare il ruolo delle maggioranze politiche, contenendolo nell'ambito della costituzione, non solo a garanzia dei diritti di singoli e formazioni sociali, ma anche del corretto svolgersi della competizione politica. Il carattere pervasivo della tutela esercitata dai partiti ha, tuttavia, impedito il pieno e spesso anche il corretto dispiegarsi del ruolo delle predette istituzioni 22 La Costituzione italiana può ritenersi, in definitiva, una costituzione sufficientemente bilanciata, sulla quale pesa tuttavia l'ipoteca costituita dal ruolo dei partiti e, sempre pii, anche dei grandi sindacati. È questo il vero nodo costituzionale da sciogliere, premessa di ogni reale intervento riformatore. Il sistema delle garanzie presenta, però, drammatici problemi di ammodernamento ed adeguatezza, che riguardano, in primo luogo, l'amministrazione della giustizia.

Occorre ancora aggiungere che l'evoluzione verso un modello di democrazia bipolare e maggioritaria pone l'esigenza di un consistente rafforzamento degli istituti di garanzia. Senza di ciò può risultare favorita ed accelerata l'involuzione in atto verso uno stato amministrativo sclerotico e corporativ0 23 Anche sul piano della necessaria flessibilità del testo, la Costituzione italiana merita ampiamente la sufficienza. Ciò vale per la stessa posizione costituzionale dei partiti "caratterizzata da sostanziale ambivalenza" ma, anche, dal rifiuto di visioni organicistiche ed improntate all'istituzionalizzazione del monopolio partitico del processo politico. Pit in generale, il quadro costituzionale, dichiaratamente pluralista, non consente di legittimare la cristallizzazione di aree associative privilegiate, ancorché di carattere partitico e/o sindacale 24 Per restare nella metafora, un voto pieno con lode va, però, assegnato alla Costituzione in materia di amministrazione pubblica. L'esigenza di flessibilità organizzativa, pienamente accolta, risulta, infatti, incanalata nei principi di buon andamento ed imparzialità, il cui congiunto perseguimento deve essere assicurato dalla legge nel momento determinante dell'organizzazione (art. 97, c. 1). La disposizione secondo cui "i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione" (art. 98, c.1) e quella che stabilisce che l'accesso ai pubblici impieghi avviene "mediante concorso" (art. 97, c. 3) rispondono a principi tradizionali di una amministrazione liberale, tuttora necessari benché insufficienti. La garanzia dei pubblici funzionari nei confronti degli abusi politici del governo 25 assume contorni pii specifici con la disposizione secondo .

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cui "nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari" (art. 97, c. 2). Essa rimanda all'esigenza di statuti predefiniti dei funzionari che, delineandone compiti, poteri e responsabilità - così garantendoli - li sottraggano ad improprie ingerenze politiche.

Solo recentemente emerge dai principi fondamentali l'art. 3, c. 2 della Costituzione, destinato ad assumere, alla luce delle attuali esigenze di una società aperta e della crescita dei diritti dei cittadini, una grande pregnanza soprattutto in tema di amministrazione pubblica. La disposizione assegna alla Repubblica il compito di realizzare condizioni atte a consentire il "pieno sviluppo della persona umana e 1 effettiva partecipazione (non delegata, dunque) all'organizzazione politica, economica e sociale. La vanificazione di quest' ultimo dettato costituzionale è, soprattutto, derivata dall'dnterpretazione "assistenziale" che è stata data al sistema dei diritti», che "ha concorso non poco a rendere precario e sfuggente il principio democratico nell'organizzazione dei pubblici poteri 26 Le predette disposizioni, già oggetto di disapplicazioni e svalutazioni o praticamente ignorate (è il caso dell'art. 3, c. 2), consentono una piena evoluzione dell'amministrazione pubblica, imponendo al contempo che ciò avvenga secondo i principi di una moderna democrazia liberale.

In generale, in tema di interpretazione della Costituzione vi è sempre l'esigenza di "prestare orecchio al sottile mutamento della cultura e della percezione dei bisogni sociali, attraverso cui tutti noi dobbiamo leggere la Costituzione, trovandola naturalmente sempre diversa da tempo a tempo" 27. Ancora, si può aggiungere la necessità di partire dall'analisi corretta dei fenomeni reali, anziché dalla interessata sovrapposizione ad essi di schemi teorici in gran parte superati.

LA DEMOCRAZIA IN QUESTIONE

Mentre si delineano con chiarezza limiti e contraddizioni dello stato di diritto continentale, si evidenzia la storicità dei suoi paradigmi, costruiti tutti fra Ottocento e Novecento 28 ed i diritti fondamentali assumono una dimensione sovranazionale, una questione generale diviene dominante. E la concezione della democrazia ad essere chiamata in causa.

La cosidetta "questione morale", che investe oggi la Germania ed anche la Francia, dopo l'Italia, la Spagna ed il Belgio, non è riducibile al finanziamento illegale dei partiti ed ai problemi relativi al finanziamento della politica.

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Essa rivela - al di là delle pur notevoli differenze tra Paese e Paese - il persistere di una concezione asfittica ed oligarchica della democrazia, ormai inadeguata, che si sostanzia nell'intreccio sia formale che occulto tra potere politico, finanziario, industriale, sindacale 29 . Ma, è da aggiungere, non solo. E questa la "complicazione di natura politica" indicata da Milton Friedman.

Affinché la trasparenza e la partecipazione dei cittadini, indicate oggi unanimemente quali necessari caratteri della democrazia 30, non restino mere proclamazioni, occorre sciogliere il predetto intreccio. Ciò è necessario anche al fine di promuovere lo sviluppo non solo economico, ma anche morale, culturale e sociale.

Solo all'interno di una concezione difettosa della democrazia può affermarsi, ad esempio, il carattere per così dire veniale del finanziamento illecito ai partiti, mentre questo, per la sua valenza sistemica di distorsione del gioco democratico e dell'intero sistema economico, arreca danni sociali maggiori della corruzione riguardante singoli esponenti politici3 1• La "crisi" della partecipazione politica non deve stupire poiché la democrazia, specialmente in una società complessa, non può essere ridotta all'applicazione dell'istituto della rappresentanza politica.

In vero, la critica di questo istituto attraversa tutto il secolo appena passato, che pure ne ha sancito la fortuna, ed investe, specie in momenti di transizione, il suo carattere artificiale e fittizio. Già nel 1910, ad esempio, Santi Romano osservava che la "cosiddetta volontà popolare ha assai poche probabilità di trovare nei parlamenti il suo fedele oracolo" 32 .

Vero è che l'istituto resta essenziale ma è, oggi, ancor più di ieri, di per sé insufficiente.

In un primo tempo, l'istituto venne ricondotto all'interno dello stato-persona, vero e proprio "superconcetto" ordinante e così inquadrato ma, al contempo, anche sostenut0 33 .

A partire dagli anni Trenta, la svolta consiste nel ruolo costituzionale del partito politico, al quale viene attribuita la «"doppia virtù" che nel corso dell Ottocento era stata attribuita allo stato-persona» 34 . Il partito e «parte totale". Per definizione esso è "parte", chiamata ad esprimere bisogni parziali della societa ma e, al contempo, totale , strumento di selezione e organizzazione degli interessi secondo un progetto improntato ad una determinata visione dell'interesse generale 35 .

Ben presto, tuttavia, i partiti politici si sono rivelati inadatti a sostenere "il formidabile peso di quella doppia virtù", perché "per un verso troppo dipendenti dalla dinamica degli interessi e per altro verso troppo poco di68

stanti dagli apparati pubblici". È venuto così a mancare "sia ilprinczpio di unità, per la riduzione del centro politico a teatro di contrattazione tra interessi distinti, sia ilprincipio di differenza, per l'assorbimento degli strumenti di carattere associativo e partecipativo nella sfera delle istituzioni di goverI partiti, intesi come "preistituzioni", hanno svolto un positivo ruolo di integrazione nella democrazia di masse popolari impreparate. Già negli anni cinquanta essi si trasformano, però, in "dispensatori di benefici per i rispettivi elettorati", ciò che viene sintetizzato dai politologi come passaggio dal partito di integrazione al partito pigliatutt0 37 . La degenerazione dei partiti italiani ha assunto connotati di particolare gravità, emersi solo molto parzialmente e confusamente nella reazione da parte di un settore della magistratura ("mani pulite") al fenomeno comunemente indicato come "tangentopoli" 38 . Alla predetta degenerazione ha, di certo, contribuito il finanziamento pubblico dei partiti introdotto con legge 2 maggio 1974, n. 95, da molti giustamente considerato, per i suoi effetti di istituzionalizzazione e consolidamento, anche un moltiplicatore delle esigenze finanziarie della politica dei partiti, ciò che gli eventi successivi hanno compiutamente dimostrato 3 ; ancora, ha particolarmente pesato una cultura politica che, coltivando ad oltranza teorie costituzionali degli anni Trenta e Quaranta ed in particolare mitizzando concetti quali quello di indirizzo politico, ha preteso di individuare nei partiti politici i detentori della sovranità popolare 40 Simili radicate convinzioni hanno sostanzialmente vanificato il principio di separazione dei poteri 41 e, quindi, la sostanza dello stato costituzionale, soffocato il pluralismo e condotto ai noti esiti di politicizzazione dell'amministrazione e di lottizzazione, culminata nell'invasione da parte dei partiti verificatasi a partire dagli anni Settanta - non solo della sfera pubblica ma, anche, della sfera privata dell'economia. Ne è derivato un intreccio corruttivo e perverso anche sotto il profilo economico, che ha dato luogo ad un amplissimo settore di economia assistita, gravitante intorno allo stato ed agli enti pubblici, come fonti di risorse finanziarie, gestite dal sistema dei partiti anziché dall'amministrazione 42 La lezione che discende da questa esperienza non può essere equivocata.

Limiti al ruolo dei partiti sono necessari per salvaguardare le funzioni tuttora essenziali dei partiti; la separazione dei poteri va riscoperta e rafforzata, non certo mediante l'interessata applicazione di schemi teorici del passato, bensì cogliendo la duratura essenza del principio nell'esigenza di bilanciare e limitare il potere, al fine di garantire la libertà dei cittadini e la funzionalità de! si.

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stema democratic0 43 il pluralismo deve trovare a tutti i livelli procedure trasparenti e democratiche che ne consentano la proficua esplicazione.

In una società civile cresciuta, con una economia sviluppata e ricca, "la funzione di supplenza dei partiti e finita . Losservazione della realta rivela, infatti, una "arena politica" fortemente popolata 45 , nella quale non solo movimenti sociali ed associazioni volontarie insidiano i partiti sul terreno delle funzioni più tradizionali, ma gruppi settoriali ed interessi, i più diversi e variamente organizzati, reclamano una diretta incidenza nei processi decisionali. Gli interessi più forti sono in grado di incidere, pesantemente e comunque, sulle decisioni46 D'altro canto, i partiti subiscono rapide e sostanziali trasformazioni, mentre diviene obsoleta la forma organizzativa del partito di massa. In Europa diminuisce il numero degli iscritti ai partiti, crolla il cosidetto militantismo, declina progressivamente la partecipazione elettorale. In una società civile evoluta sono venute meno le condizioni per quell'opera di intensa acculturazione collettiva svolta in precedenza dai partiti, anche perché non esistono più classi sufficientemente omogenee alle quali rivolgere la predetta attività. La politica dei partiti assai poco, o in modo solo astratto, propone valori, mentre i valori più generalmente condivisi, di libertà e di autorealizzazione, sono ritenuti, secondo un vecchio modo di ragionare, in contrasto con gli interessi di potere.

L'oggetto prioritario della competizione tra i partiti è divenuto il controllo-possesso del sistema dei mass-media, soprattutto istantanei (televisivi). Il ruolo decisivo dei media ha l'effetto di esaltare il verticismo dei partiti politici, sempre più svincolati da qualsiasi controllo della loro base. Ne risulta, così, accentuata la caratteristica di "macchine oligarchiche che si autolegittimano e, finché riescono a dominare, piegano ai propri interessi particolari i poteri pubblici" 47 È una situazione che - anche per la mancanza di sufficiente indipendenza del sistema dell'informazione - esalta la possibilità di scambi ed intrecci occulti fra sfere di potere e di interessi che dovrebbero restare distinte e confrontarsi in modo aperto e trasparente. Una situazione che pone a rischio la democrazia o la svuota di sostanza.

Il sistema degli interessi, non trovando sufficienti ed idonei canali di disciplinata rappresentanza, preme in modo non trasparente sul sistema dei partiti, provocandone anche il frazionament0 48 La tendenza alla personalizzazione della politica, che ha nei media il principale fattore di promozione, non è in sé negativa e corrisponde allo sviluppo della società moderna. Ne deriva, tuttavia, una sostanziale perdita di senso ;

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della vecchia forma partito 49 . D'altro canto, la "personalizzazione della leadershi", con i rischi di derive plebiscitarie ed anche consociative che comporta, estremamente facilitate dalle tecniche di manipolazione consentite dai media, rende necessari il bilanciamento e la limitazione del potere. Soprattutto, la "domanda democratica" deve farsi assai più esigente e pervasiva.

La scienza politica più autorevole continua giustamente ad assegnare ai partiti la funzione più alta della politica, quella di provvedere al buon funzionamento delle regole, nella veste di "guardiani della democrazia" 50 Solo sgravato dalla diuturna gestione disfunzionale degli interessi, dal (non trasparente) "mercato degli interessi", il parlamento, espressione dei partiti, può ritrovare autorevolezza e fissare in modo adeguato e corretto regole e principi. Senza un parlamento autorevole la democrazia muore. Più sono distanti gli interessi, più il parlamento diviene esigente promotore della qualità, anche e soprattutto democratica, delle decisioni pubbliche. Tra le regole essenziali che in una democrazia liberale deve fissare il parlamento figurano quelle relative ai modelli organizzativi e ai modelli generali d'azione dell'amministrazione. Più in generale, il parlamento ha il compito di proteggere l'amministrazione e difenderne l'autonomo ruolo anche nei confronti del governo 51 . La pressione degli interessi deve essere, infatti, convogliata soprattutto nella dimensione amministrativa, l'unica adeguata ad assicurare un confronto trasparente.

La qualità democratica dell'azione amministrativa contribuisce anche a ricondurre a livelli fisiologici la pressione dei medesimi interessi sul giudice che può, così, meglio assolvere la sua indispensabile funzione di tutela delle situazioni soggettive. Ne deriva la necessità di valorizzare al massimo l'imparzialità dell'amministrazione, specie attraverso la cosidetta amministrazione giustiziale, nella quale soprattutto sono da rinvenire i caratteri di una amministrazione democratica che, nel confronto consentito da un pieno contraddittorio, ricerca le soluzioni più adeguate con la presenza attiva e diretta di singoli e gruppi.

In questa direzione, nel lontano 1962, è venuta dalla Corte costituzionale (sent. n. 13 del 1962) un'indicazione importante che, purtroppo, non è stata da essa coltivata e sviluppata successivamente.

La Corte dichiarò, allora, l'incostituzionalità di una legge che interveniva in modo diretto e concreto sacrificando situazioni giuridiche soggettive. Il divieto, per la legge, di operare in tal modo venne tratto dalla Corte dal principio del "giusto procedimento". In base ad esso, la legge avrebbe dovuto limi.

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tarsi a determinare in astratto fini e criteri del vincolo ambientale (riguardante, nel caso particolare, l'intero territorio regionale valdostano), demandando all'amministrazione la concreta limitazione dei diritti di utilizzazione delle proprietà immobiliari, in contraddittorio con gli interessati. Sarebbe stata così consentita, ai medesimi interessati, la difesa di fronte al giudice nel caso di abusi dell'autorità procedente in concreto 52 Con ciò, la Corte costituzionale non ha, tuttavia, definito il "giusto ?10ce dimento una volta per tutte. La nozione non e, infatti, inquadrabile in una precisa definizione e rimanda, in definitiva, ad un criterio di razionalità e correttezza che, in una democrazia civilizzata dal diritto, deve caratterizzare l'esercizio del potere pubblico. Il principio investe, come principio d'ordine, i rapporti tra le funzioni, nonché le modalità democratiche che devono contrassegnare lo svolgimento delle diverse funzioni. La sostanza è - né potrebbe essere diversamente - analoga a quella della formula costituzionale statunitense del due process oflaw53 E iniziata nel vecchio continente una nuova fase della democrazia liberale, dalla cui positiva evoluzione dipendono la crescita economica e civile e, probabilmente, la stessa costruzione europea. La presente fase è quella della tutela dei diritti fondamentali e dell'ampliamento della democrazia. Il diritto deve essere decisamente riorientato alla affermazione della persona umana e della sua dignità. Ciò comporta l'evidente insufficienza - sotto il profilo democratico - di concezioni che riducono la persona alla dimensione elettorale, considerandola per il resto spettatrice e destinataria passiva dell'esercizio del potere. Si impone che all'esercizio del potere partecipino, direttamente, le persone che assumono di volta in volta la veste di cittadini, lavoratori, consumatori, azionisti, ecc. Tutte le forme di esercizio del potere possono e debbono essere connotate da caratteri democratici. Solo così può essere risolto il problema che è ancora quello della "deficienza dei mezzi giuridici ed istituzionali, che la società... possiede per fare rispecchiare e valere la sua struttura in seno a quella dello stato", indicato da Santi Romano nel 1910.

La risposta non può essere, infatti, più basata né sulla mistica dello stato, né solo sui partiti, assolutizzando in questo caso il valore dell'istituto della rappresentanza politica. In una democrazia costituzionale è necessaria una più ampia e costante legittimazione democratica, quale può derivare solo dalla possibilità garantita di concorso attivo dei cittadini all'esercizio delle funzioni pubbliche. La legittimità democratica non dipende, infatti, solo dall'applicazione dell'istituto della rappresentanza politica ma, anche, da un processo partecipativo all'elaborazione ed applicazione delle regole, improntato a .

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criteri di correttezza e giustizia. In un sistema congegnato secondo questi criteri - adeguato al governo di una società complessa e pluralista incentrata suila persona umana - la legittimità democratica - come legittimità procedurale, che incorpora tuttavia criteri sostanziali di correttezza e giustizia - connota l'esercizio di tutte le funzioni pubbliche 55 Queste considerazioni, benché schematiche, consentono, in merito alla "domanda democratica" che investe i temi della magistratura, della burocrazia e delle autorità amministrative indipendenti, di discernere una "domanda" che si muove nella prospettiva del restringimento della democrazia, abusando di schemi teorici superati ed una "domanda" orientata invece all'ampliamento della democrazia in una prospettiva liberale, che è anche quella della nostra Costituzione. .

Nella dottrina italiana spicca la grande lezione di Feliciano Benvenuti, ricordato in un recente Convegno a pochi mesi dalla sua scomparsa (Venezia, 11 dicembre 1999). "Il nuovo cittadino", pubblicato nel 1994, autobiografia di una vita di studi illuminata dal valore della libertà, costituisce il testamento, intellettuale e morale ad un tempo, del grande giurista. Sarebbe vano ricercare, anche nella dottrina straniera, un così denso e completo saggio - godibile sotto il profilo letterario, benché tecnicamente estremamente provveduto - sulle motivazioni ed i presupposti, anche storici e filosofici, e sui caratteri essenziali dell'ordinamento della "nuova società aperta".

Trovano in esso equilibrata trattazione l'insufficienza dello Stato di diritt0 56 la critica della "democrazia apparente" derivante dal "monopolio partitico , il carattere fittizio della democratizzazione e dell autonomia locale realizzate, soprattutto, attraverso il "rafforzamento della influenza e della presenza partitica nell'ambito delle istituzioni", dal quale derivano anche il "depauperamento della qualita del personale amministrativo e la «degradazione dei valori professionali degli appartenenti ai ceto burocratico".

Lo scadimento della rappresentanza politica ad "evenienza occasionale" è all'origine della "crisi della rappresentatività come crisi del consenso" 57 . Infatti, "solo la partecipazione all'esercizio della funzione comporta un consenso reale"; cosicché la "crisi.., dipende proprio, in ultima analisi, dall'avere i partiti allontanato i cittadini dall'amministrazione e impedito ad essi, in ogni modo, una presenza all'interno delle istituzioni e, soprattutto, una presenza partecipativa all'esercizio delle loro funzioni" 58 La «risposta democratica va oggi impostata... mediante il riconoscimento di poteri di intervento dei cittadini nell'ambito dell'esercizio delle funzio,

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ni" 59 . La democrazia, infatti, "non è completamente attuata se... non si introducono, nel centro stesso dello stato, formule che consentano la presenza attiva e diretta dei cittadini come singoli". È colta, d'altro canto, l'importanza crescente dei fenomeni associativi, che sviluppano una forma di rappresentativita e operativita spontanea ed il valore dialettico, propositivo e critico, rispetto alle strutture pubbliche che questo apporto spontaneo rappresenta e che andrebbe perso qualora organicamente immesso nelle strutture dell'organizzazione pubblicistica.

LAutore e indotto a coniare per la vera democrazia il termine demarchia", per indicare una democrazia fondata sulla "libertà attiva" del cittadino.

Questa, da un canto, costituisce il completamento della tradizionale libertà garantita rpetto all'invasione dello stato, dall'altro recupera, sotto forma dipartecipazione personale e diretta al potere, Ia liberta degli antichi , cio che e oggi necessario alla stessa conservazione delle condizioni individuali di libertà 60 Il significato della libertà attiva viene sviluppato con riguardo alle diverse funzioni dello stato, a partire dalla sottolineatura dell'importanza dell'intervento dei cittadini, oltre che come elettori, "come comunità, nel campo delle decisioni referendarie o delle proposte di nuove norme per quanto concerne la funzione legislativa. Sottolineato il "momento partecipativo offerto dal processo , che contraddistingue la funzione giurisdizionale, una critica serrata e circostanziata è dedicata alla persistente concezione autoritaria dell'amministrazione, che nega al cittadino "la pienezza della sua sfera giuridica e la sua totale integrita . Una concezione, quella che connota tuttora il diritto amministrativo, che conferisce all'atto amministrativo la "funzione di soddisfazione di un interesse di parte", nonostante "il comando costituzionale tendente a riportare il potere esecutivo nell'ambito dell'imparzialità" e ha conseguenze nefaste di «clegeneraziorie dei rapporti tra il cittadino e 1 amministrazione nonché di grave inefficienza di quest'ultima, spesso "incapace di reagire perche priva del momento della rappresentativita e del consenso . La situazione di squilibrio che, oggi, deriva da una siffatta concezione autoritaria e non pata del potere, mentre rafforza la persuasione che l'interesse pubblico sia 1 interesse dell ente e ancor piu di chi lo domina, dall altro spinge i1 cittadino a trovare la sua unica difesa, anziché all'interno dell'istituzione stessa... al suo esterno sempre più mediante il ricorso all'opera equilibratrice di un giudice".

Cosicché, un "sistema siffatto" si rivela "manifestamente patologico".

D'altro canto, viene rilevata la tendenza, attraverso gli enti pubblici, a sviluppare una "attività di carattere economico", ciò che avviene anche nell'amministrazione del sociale. Da essa "deriva, da un lato che gran parte dell'azio.

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ne dello stato è impostata sulla negazione di posizioni attive del cittadino, considerato come mero destinatario dei servizi o consumatore dei prodotti; mentre dall'altro, in linea di fatto, perfino cede la presenza di una efficiente, cioè tempestiva e totale, possibilità di intervento garantistico di tutela passiva delle libertà individuali".

La considerazione del "momento tecnico dell'efficienza" e del ruolo delle scienze sociali nello studio dell'amministrazione pubblica, come fenomeno complesso, nel quadro di "una relazione biunivoca tra scienza e diritto", inducono l'Autore a rilevanti considerazioni. Viene, in particolare, sottolineata l'importanza della scienza nella "preparazione delle decisioni politiche" e di un «controllo tecnico preventivo sulla idoneita degli atti a raggiungere gli obiettivi". Cosicché, il "fallimento della politica" risulta spesso imputabile al prevalere della volontà sulla conoscenza. Così in materia di scuola, università, fisco e giurisdizione.

La "tendenza all'affermazione della necessità di un esercizio imparziale della funzione amministrativa, che consente di tornare a pensare alla sua neutralità", viene colta sia con riguardo alla disciplina del procedimento amministrativo, posta dalla legge n. 241 del 1990, sia con riguardo allo sviluppo delle autorità amministrative indipendenti.

Da un canto, l'interesse pubblico tende a perdere la sua connotazione di interesse di parte , soggettivato nell ente pubblico (stato o ente minore) detentore autoritario di esso, per divenire (in modo analogo all'ordinamento europeo e nord-americano) "public interesi!', ovvero "interesse dei consumatori-operatori, visti appunto come cittadini . Dall altro, i ordinamento introduce 9a considerazione inevitabile della valenza degli interessi del singolo nell'esercizio della funzione esecutiva". Ne deriva, positivamente, "un avvicinamento ai modelli tipici dell'esercizio della giurisdizione, che avviene sempre e inevitabilmente attraverso un processo". La prospettiva indicata è quella della «società aperta , nella quale non basta piu la difesa della liberta individuale, ma occorre che l'individuo vada oltre e cooperi a costruire, insieme agli altri, quella rete di relazioni che ne costituisce la base e il principio" 61 In conclusione, democrazia fondata sulla libertà attiva dei cittadini ("demarchia ) « significa estensione del centro di produzione del diritto a tutta la società. Non più, dunque, i giuristi-scienziati e neppure gli operatori del diritto, siano essi il legislatore o l'amministratore, hanno in mano la fonte del diritto, ma lo stesso cittadino uti cives".

La superiore efficienza di una compiuta democrazia risiede nella circostanza che dall'esercizio delle libertà attive risulta rafforzato "il principio di rap.

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presentatività di ogni autorità, attraverso quella manifestazione esplicita o implicita, del consenso che si esprime nella condivisione della responsabilità dell'azione dell'autorità".

Con la sottolineatura de! "momento etico" dell'attività del giurista 62 emerge, attraverso le pagine di Feliciano Benvenuti, il vero punto critico nella costruzione di una democrazia adeguata ad una società aperta: la necessità di una cultura della liberta 3. « Ma senza questa cultura i1 grande disegno del progresso troverà ostacoli derivanti bensì dalle tradizioni, dai costumi, dalla natura delle cose, ma soprattutto derivanti dal cuore dell uomo . Ai politici e ai giuristi "responsabili della comprensione delle prospettive e delle aspirazioni della comunita , mentre li suo percorso umano volge a conclusione, non certo quello del suo insegnamento, Feliciano Benvenuti reputa di poter applicare l'invettiva di Luca 11,52: "Guai a voi, dottori della Legge, perché avete tolto la chiave della conoscenza, voi stessi non siete entrati e l'avete impedito a quelli che entravano".

Con la (sommaria) esposizione del pensiero di Feliciano Benvenuti, che si è ritenuto di dover rispettare ricorrendo alla trascrizione integrale dei passi più salienti, risultano notevolmente arricchite e rinforzate le considerazioni in precedenza svolte e sulla base delle quali ci si è proposti di discernere, in ordine ad una generica "domanda democratica" che investe i temi della magistratura, della burocrazia e delle autorità amministrative indipendenti. L'economia del presente lavoro non consente una trattazione diffusa di questi argomenti che ho, comunque, svolto nel recente volume I/sistema politico-amministrativo e la riforma mancata, al quale ho già fatto rinvio più volte. Si delineano qui, pertanto, solo i tratti generali necessari al fine di procedere a considerazioni d'insieme ed esemplif'icazioni in ordine a quella che si è indicata come la "domanda democratica" che investe le materie predette.

LA MAGISTRATURA

In tema di organizzazione della giustizia, la concezione garantista dei Costituenti si concretizzò nella netta affermazione di principi di indipendenza e di autonomia della magistratura. La disciplina costituzionale si sviluppa, tuttavia, secondo una linea di continuità con l'assetto precedente, senza fuoriuscire dall'orizzonte culturale ereditato dal passato.

La concezione continentale dell'amministrazione della giustizia, molto diversa da quella anglosassone, trova la sua originaria espressione nella legislazione napoleonica, che raccoglie influenze dell'illuminismo e del pensiero ri-7

voluzionario francese. L'ideologia del giacobinismo parlamentare, che ne è alla base, è fortemente intrisa, anche per ragioni di carattere storico (la lotta ai parlamenti dell'ancien régime), di diffidenza nei confronti dei giudici. Gli elementi di questa concezione, nella sua versione originaria, possono essere così sintetizzati: a) la definizione del potere giudiziario è esclusivamente funzionale: ai giudici spetta l'esercizio della funzione giurisdizionale, ma compete all'esecutivo determinare sia la politica giudiziaria, sia l'organizzazione dell'amministrazione della giustizia; il pubblico ministero è conseguentemente subordinato al potere esecutivo; b) anche l'indipendenza è concepita come funzionale: essa riguarda i singoli giudici, liberi di applicare la legge senza ricevere ordini, istruzioni ed al riparo da pressioni, ma non il potere complessivamente considerato; c) la funzione giurisdizionale è intesa in senso restrittivo: restano fuori dal controllo giurisdizionale l'attività legislativa e quella dell'esecutivo; l'attività giurisdizionale è strettamente sottoposta alla legge; d) i giudici sono inquadrati nello stato apparato, come un settore dell'amministrazione, con le conseguenze che ne discendono (giudice-funzionario, carriera giudiziaria, organizzazione gerarchica e burocratica del potere giudiziario) 64 L'indipendenza del giudice è, in vero, valore unanimemente condiviso dal costituzionalismo liberale. Dalla concezione sopradescritta, che si inquadra in un modo di intendere la separazione dei poteri storicamente ben definito, deriva, tuttavia, una posizione marginale e dipendente del potere giudiziario all'interno dello stato.

I Costituenti avvertirono l'insufficienza della concezione continentale dell'amministrazione della giustizia nella sua versione originaria ed i rischi che essa comporta sia per le libertà individuali che per l'equilibrio tra i poteri, aspetti, tuttavia, strettamente collegati. Due facce, in sostanza, della stessa medaglia. Senza fuoriuscire dall'orizzonte culturale proprio di questa concezione, i Costituenti, accanto all'introduzione del sindacato di costituzionalità delle leggi, furono conseguentemente indotti: a) sotto il profilo della indipendenza interna, ad escludere l'applicazione del principio di gerarchia all'interno dell'ordinamento giudiziario (art. 107, 30 comma, cit.); b) a prevedere nella Costituzione un apposito organo, il Consiglio Superiore della Magistratura, investito del compito di assicurare l'indipendenza verso l'esterno della magistratura, affidandone la presidenza al Presidente della Repubblica, concepito come istanza arbitrale; c) ancora, a prevedere l'indipendenza anche del pubblico ministero, in quanto l'indipendenza connota la magistratura nel suo complesso, consentendo tuttavia una diversificazione della magistratura requirente sotto il profilo delle garanzie (art. 107, c. 4), in ragione delle caratte.

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ristiche dell'attività del PM, strettamente funzionale all'attività giurisdizionale, ma a quest'ultima non assimilabile 65 .

Con le innovazioni costituzionali non è, tuttavia, venuto meno lo stampo burocratico dell'organizzazione della giustizia, che configge con la creatività e l'importanza che caratterizzano oggi la funzione giurisdizionale 66 .

Nella democrazia costituzionale, nel nuovo contesto in cui la tutela dei diritti fondamentali assume una dimensione sovranazionale, il principio di "soggezione del giudice solo alla legge", derivato dalla tradizione dello stato liberale e sancito dalle costituzioni contemporanee, non può essere più inteso "come servizio passivo della volontà del legislatore" 67 . L'attività necessariamente creativa del giudice, la cui opera interpretativa è, del resto, spesso fondata su principi e clausole generali, ne fa un mediatore tra le norme e i casi concreti, tra lo stato e la società, rendendo superati sia la concezione del giudice bouche de la loi, secondo la nota formula di Montesquieu, sia i sistemi organizzativi pensati nell'ambito ditale concezione 68 .

Questa è la realtà, anche se può essere comodo non prenderne atto. Persistono, infatti, ideologie giuridiche che, ignorando la crescita ed il mutamento del ruolo del giudice, professano ancora il mito del primato assoluto del legislatore e del carattere esecutivo dell'attività giurisdizionale. Molto diffuse all'interno del sistema politico-partitico, esse sono largamente presenti anche all'interno della magistratura. Arretratezza culturale e disegni di "restaurazione" convergono, così, nel ridurre la portata del fenomeno della crescita della funzione giurisdizionale, che è fenomeno storico, interpretandolo come crisi, supplenza istituzionale, esasperazione del ruolo dell'interprete.

Dalla piena consapevolezza del fenomeno è derivato, invece, l'invito a "mettere in cantiere profonde trasformazioni organizzative conseguenti" al nuovo carattere dell'attività giurisdizionale69 . Non esistono, tuttavia, né soluzioni pronte né soluzioni facili. L'eventuale applicazione di un disegno illuministico preconfezionato di generale trasformazione è, anzi, sicuramente fonera assai più di danni che di vantaggi. Il massimo approfondimento e la massima cautela sono necessari anche per le modifiche più lievi.

Certo, si impone con urgenza un problema di diversa formazione e maggiore qualificazione del giudice; ma la nostra scienza del diritto appare impreparata. Più ampiamente, vi è un problema di crescita, condivisione e circolazione di valori generali all'interno di quella che dovrebbe essere la comunità degli operatori del diritto, costituita da magistrati, avvocati, studiosi. Più in generale ancora, riaffiora la necessità di una cultura della libertà, che è anche cultura della responsabilità 70 .

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L'attuale assetto burocratico dell'amministrazione della giustizia dà luogo ad un intreccio tra politica e giustizia, che si ripercuote negativamente sia sull'indipendenza della magistratura, sia sull'efficiente esercizio delle funzioni. Così, disciplina della composizione, funzioni dell'organo, assetto generale dei poteri relativi all'organizzazione della giustizia, fanno naturalmente del CSM un luogo di conflitto o più spesso di compromesso fra sistema politicopartitico e magistrati.

L'ipotesi di conflitto tra CSM e ministro della Giustizia può apparire addirittura fisiologica. In base all'art. 110 Cost., infatti, "ferme le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura, spettano al Ministro della giustizia l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia". Un organo non indipendente deve, quindi, organizzare lo svolgimento di una funzione indipendente. Ciò avviene, inoltre, in un quadro di incertezza di rapporti, non essendo mai stata emanata "la nuova legge sull'ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione", prevista dalla VII disposizione transitoria della Costituzione.

L'assetto organizzativo del ministero di Grazia e Giustizia è anomalo e contrasta con l'indipendenza del potere giudiziario. Questa amministrazione centrale non ha proprio personale dirigente. In essa le funzioni più importanti sono svolte da magistrati collocati fuori ruolo. Al ministero sono assegnati altri magistrati oltre quelli addetti a compiti dirigenziali. I ruoli del governo e dei giudici risultano in tal modo confusi, con tendenziale subordinazione dei secondi al primo. Ne deriva, comunque, una "oggettiva scarsità di trasparenza, fattore di non improbabili forme collusive con il potere politico" 71 Incide notevolmente sull'amministrazione della giustizia l'attività del parlamento, sia direttamente, mediante la legislazione in tema di ordinamento giudiziario, sia indirettamente, in molteplici modi. Il parlamento è chiamato, in questo campo, ad assolvere il delicatissimo compito di dettare regole preordinate al buon funzionamento della giustizia, ciò che induce nuovamente a sottolineare la necessità di un parlamento autorevole.

Considerato, tuttavia, il penoso stato in cui versa la giustizia italiana - lentezza dei giudizi, organizzazione arcaica delle circoscrizioni giudiziarie e degli organi giudiziari, moltiplicazione ingiustificata delle fattispecie di reato, ecc.

- le modalita della legislazione - etichettata come «ernergenzialè e caratterizzata dalla predominante mancanza di un progetto concreto inteso a restituire efficienza alla giustizia - sono potute apparire come uno dei modi di condizionare, di "governare" la giustizia.

Il ministro della Giustizia, inoltre, può conseguentemente invocare l'esi.

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stenza di molteplici condizionamenti che ne impediscono l'azione con riguardo all obiettivo dell efficienza della giustizia. Tra questi spicca il condizionamento finanziario. Le limitatissime risorse assegnate dal bilancio statale alla giustizia provano lo scarso interesse della classe politica per il funzionamento della giustizia.

L'inefficienza complessiva del sistema giustizia, benché le responsabilità organizzative ricadano soprattutto sulla politica dei partiti, produce una crisi di legittimità della giurisdizione, sulla quale si riversa la domanda di giustizia dei cittadini. I politici, si è osservato, ne "approfittano... per tentare operazioni involutive che segnerebbero una sconfitta non solo delle esigenze dello stato costituzionale ma, addirittura dello stato di diritto" 72 .

LA "DOMANDA DEMOCRATICA"

I problemi, come si vede, sono immensi e non possono essere affrontati che gradualmente. Si impone, al riguardo, un costante e consapevole impegno democratico per mantenere la rotta nella giusta direzione.

Nella prospettiva dell'ampliamento della democrazia la "domanda democratica" deve essere rivolta ad una progressiva riduzione del carattere burocratico dell'organizzazione della giustizia e dell'intreccio politica-giustizia promovendo anzitutto, la trasparenza nelle relazioni tra politica e giustizia. Si muove invece nella prospettiva del restringimento della democrazia la "domanda", il cui carattere democratico si esaurisce in una maggiore presenza partitica, ad esempio all'interno di un organo come il CSM o in forme di condizionamento partitico, che egualmente accentuano l'intreccio politica-giustizia.

L'apertura all'esercizio della funzione giurisdizionale da parte di personalità esterne (non individuate dai partiti) va, pertanto, giudicata positivamente. Ciò è avvenuto con la legge 5 agosto 1998, n. 303 che ha dato attuazione, ma in modo non efficace, all'art. 106, c. 3 Cost. 73 .

Fermo restando che l'impegno prioritario deve essere rivolto a restituire efficienza e rapidità alla giustizia 74 - attraverso una adeguata dotazione di mezzi e personale ma, soprattutto, una migliore organizzazione - sotto il profilo dell'ampliamento della democrazia (oltre che, ovviamente, sotto il profilo liberale) vanno generalmente giudicati negativamente gli indirizzi volti alla riduzione delle garanzie giurisdizionali; a meno che la riduzione non risulti più che compensata da una superiore ed effettiva qualità - anche in termini di accessibilità - della tutela giurisdizionale per i cittadini. Ciò vale anche per l'azione dell'amministrazione pubblica che, specie mediante l'assunzione di 80

forme privatistiche, tende a sottrarsi sia ai controlli amministrativi che ai controlli giurisdizionali, ciò che deve essere giudicato inammissibile in un or dinamento democratico.

Si iscrivono ovviamente nella "domanda" volta all'ampliamento della democrazia le iniziative dirette a salvaguardare ed ampliare la struttura partecipativa del processo, la pienezza del contraddittorio che deve svolgersi in esso ed in genere a migliorare la qualità del processo 75 . Senza un "vero" processo, semplicemente la giurisdizione non è.

Un passo importante in questo senso è stato compiuto con la legge cost. n. 2 del 1999 che ha introdotto il principio del cosidetto "giusto processo" all'interno dell'art. 111 Cost. E, tuttavia, segno di arretratezza che sia stata necessaria una modifica costituzionale per affermare ciò che poteva già trarsi dai principi costituzionali.

La nuova normativa costituzionale contempla, infatti, il processo in generale ed i suoi piìi ovvi principi ed impone alla legge di assicurare la "ragionevole durata" del processo. Una attenzione speciale è dedicata al processo penale ed al suo impianto garantistico. Ne deriva anche la necessità di una coerente disciplina del processo penale come processo accusatorio.

La differenziazione dello status del pubblico ministero - che assume il ruolo di parte nel processo accusatorio - rispetto a quello del giudice obbedisce al principio di razionalità elementare secondo cui l'organizzazione e le sue modalità rivestono carattere servente e tuttavia determinane rispetto all'esercizio delle funzioni. L'ignoranza di questo principio, la neghittosità della Corte costituzionale al riguardo, nonostante i richiami della dottrina più autorevole, sono all'origine di molte deformazioni dell'organizzazione pubblica 76 .

Va sottolineata la saggezza dei Costituenti i quali, nel consentire una diversificazione del PM sotto il profilo delle garanzie (art. 107, c. 4), hanno escluso che se ne possa colpire l'indipendenza, caratteristica dell'intera magistratura (art. 107, c. 3). Assumono, infatti, un carattere regressivo che si traduce in un restringimento della democrazia, le proposte tendenti a riportare il PM Sotto l'esecutivo (o sotto il parlamento) o che prospettano l'ampliamento di poteri riferibili in ultima analisi al sistema politico partitico, che obiettivamente si prestino a fini di condizionamento della magistratura requirente. E noto, infatti, che in tutti i paesi d'Europa il tentativo di interferire sulla giustizia passa soprattutto attraverso il legame del sistema politico con il PM77.

Misure quali la separazione delle carriere non incontrano ostacoli di carattere costituzionale. Devono essere, tuttavia, inserite in un generale progetto di rafforzamento che riconosca alla giustizia il peso che le compete in una so81

cietà evoluta. L'esigenza di equilibrio e bilanciamento tra i poteri va, infatti, giudicata prevalente.

Una giustizia indipendente, forte e rispettata contribuisce in modo decisivo all efficienza e all affidabilita del sistema Paese 7 . Essa ridonda anche a vantaggio delle formazioni politiche, agevolando attraverso un contributo dialettico la funzione di governo e stimolando così un processo di autocorrezione ed adattamento. Occorre, tuttavia, che le formazioni politiche accettino di muoversi sui terreno della democrazia costituzionale.

La proposta, da me avanzata, di esplorare la possibilità di organizzare le procure secondo il modello delle amministrazioni indipendenti può apparire provocatoria. In realtà, questo modello consentirebbe probabilmente di cominciare a sciogliere l'intreccio poli tica-gi us tizia, apportando trasparenza, responsabilizzando sia la politica che la giustizia e consentendo su entrambe il giudizio dei cittadini 79 . Ne deriverebbe, infatti, la necessità per le procure di enunciare gli indirizzi relativamente alla loro attività, il fabbisogno in termini di mezzi, nonché i risultati ottenuti a fronte dei mezzi ricevuti.

Si iscrivono nella "domanda" diretta a favorire l'ampliamento della democrazia le proposte volte al miglioramento della trasparenza e della qualità delle sentenze. Appare, così, sommamente opportuna la pretesa di una motivazione generalmente rigorosa, mentre la motivazione deve riguardare - ciò che oggi non avviene sempre - tutti i provvedimenti giurisdizionali, come richiesto dall'art. 111, Cost. (e non le sole sentenze). Ciò può favorire anche il necessario sviluppo da parte del giudice di una responsabile autodisciplina della propria attività creativa. Sotto il profilo organizzativo, un esempio può essere costituito dall'esigenza che la garanzia della precostituzione per legge del giudice implichi la precostituzione della persona fisica del giudicante e non solo - come oggi spesso avviene - l'indicazione preventiva dell'organo giudicante 80 .

La ventilata riduzione del giudizio in Cassazione a giudizio astratto di sola violazione di legge, benché possa essere prospettata come aderente all'art.

111, Cost. è suscettibile di esiti gravemente disfunzionali e, sostanzialmente, di risolversi in denegata giustizia. Essa va sicuramente ascritta ad un indirizzo volto a ridurre la democrazia ostacolando la fisiologica evoluzione della funzione giurisdizionale 8 l.

Si iscrivono, generalmente, nella domanda volta al restringimento della democrazia e costituiscono manifestazione di un indirizzo autoritario iniziative volte a riaffermare nei confronti dei magistrati stati di soggezione di tipo funzionariale che appartengono ad un passato ormai lontano. Va, in particolare, stigmatizzata la pretesa, talora avanzata da esponenti politici, di inibire 82

l'esercizio della libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati, specialmente con riguardo alla critica - che deve essere al contrario giudicata necessaria - avente ad oggetto riforme costituzionali o legislative riguardanti l'attività giurisdizionale.

LA RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

L'indirizzo politico unificante e l'esaltazione della funzione di governo sono i frusti strumenti ripescati dalla parte culturalmente egemone della classe politica nell'armamentario delle teorie costituzionali degli anni trenta e quaranta. Rispolverati, viene passata su di essi una vernice di attualità, che assume la forma dell'apologia dell'efficienza, della modernizzazione, della stabilità.

Questi obiettivi - che non sono valori in sé, ma vanno riempiti di contenuti per divenire tali - sono destinati, però, ad allontanarsi ulteriormente, in quanto incompatibili con le predette scelte di fondo.

Punto di partenza e volano di un più generale disegno è una nuova concezione in tema di pubblica amministrazione 82 . La traduzione in pratica di essa avviene attraverso l'abuso della delegazione legislativa. Con l'emarginazione del ruolo del parlamento viene realizzata per questa via - in violazione della Costituzione - anche una concentrazione di poteri normativi nel governo, che non ha eguali nei Paesi di democrazia occidentale. Il modello generale di amministrazione, così imposto, è fortemente irrazionale. Ciò deriva anzitutto dall'essere fondato su presupposti falsi.

Il primo falso presupposto è costituito da una generale ed acritica assimilazione tra impresa privata e pubblica amministrazione. E probabile che la forte tendenza, nel nostro paese, a trasformare le imprese in pubbliche amministrazioni abbia contribuito ad attribuire un qualche credito alla predetta assimilazione. Sulla base ditale presupposto viene avviata la cosidetta privatizzazione del pubblico impiego e viene sviluppata una pretesa concezione manageriale che pone grande enfasi sulla cosidetta amministrazione di risultati.

Sennonché, da un canto, non c'è un mercato per misurare in modo oggettivo i risultati dell'amministrazione; dall'altro, questa persegue risultati complessi, essendo sottoposta ad una triplice prova, di legittimità (ben più difficile che in passato), di efficienza funzionale e di consenso sociale. Nell'attività amministrativa riveste, inoltre, valore centrale l'imparzialità. Del tutto ignorato dalla costruzione normativa è il canone fondamentale secondo il quale occorre partire dall'analisi delle funzioni, diverse tra loro, svolte dall'amministrazione.

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La concezione manageriale, affermata in teoria, è negata in concreto.

Si viene così al secondo falso presupposto sul quale si fonda e pretende di giustificarsi l'edificio normativo del d. lgs. n. 29 del 1993, oggetto anche a questo riguardo di ripetute modifiche e varianti peggiorative: la separazionedistinzione tra politica e amministrazione sulla base della distinzione tra direzione e gestione e/o tra fini e mezzi. Il giudizio sulla "fallacia ineliminabile" di una simile distinzione discende da acquisizioni definitive delle scienze sociali, come è stato efficacemente argomentato da Bruno Dente.

Quanto ai rapporti fra politica e amministrazione, l'impianto del d. lgs. n.

29 si fonda sul "modello concettuale del processo decisionale razionale o razional-sinottico, quello secondo il quale gli esiti di qualsiasi processo decisionale sono spiegabili come (e saranno ottimali nella misura in cui si approssimano) una sequenza nella quale un decisore unitario è in grado di porre i propri obiettivi in ordine di priorità, di conoscere tutte le alternative di scelta aperte davanti a lui per conseguirli, è in grado di calcolare, per ciascuna di esse ed in modo omogeneo, i costi ed i benefici impliciti, ed infine è in grado di scegliere l'alternativa che ottimizza tale rapporto". "La filosofia che è stata alla base della riforma amministrativa" è "largamente ispirata ad un paradigma di riduzione amministrativa della complessità". Vengono evocati, al riguardo, il "gosplan sovietico che avrebbe dovuto garantire il maggior sviluppo possibile delle forze produttive" e "la cultura della programmazione", caratterizzata dall'enfasi "sulla possibilità di porre in essere effettivi meccanismi metadecisionali, attraverso una sequenza discendente dalle decisioni più generali a quelle più particolari - rilassandone alcune condizioni (in particolare l'onnicomprensività) - ma non negandone gli assunti di fondo" 83 Nella sua ultima formulazione, l'art. 3 del d. lgs. n. 29 del 1993 esplicita la pregnanza della categoria dell'indirizzo unificante (di pertinenza degli "organi di governo ), che emana dall alto e si diffonde progressivamente nelle più minute pieghe dell'organizzazione pubblica e oltre. La categoria è assunta nella sua valenza più pervasiva ed induce, addirittura, alla distinzione normativa tra indirizzo interpretativo ed applicativo. Diviene così di tutta evidenza che questo modello, un modello condannato dalla storia, ripropone - sotto la copertura della managerialità e dell'efficienza - una concezione assolutizzante (ed autoritaria) dell'interesse pubblico che proprio con quei valori massimamente contrasta.

Nel quadro della fallace distinzione tra politica e amministrazione, già sottolineata, l'impianto normativo del d. lgs. n. 29 del 1993 pone grande enfasi sul ruolo autonomo dei burocrati, traendone conseguenze che si pretende di .

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far discendere da nuovi caratteri manageriali della pubblica amministrazione.

In conseguenza della formale titolarità di poteri amministrativi e del conferimento di poteri di organizzazione delle risorse umane e finanziarie, i burocrati sarebbero divenuti unici responsabili degli esiti dell'attività amministrativa.

Essi devono, pertanto, essere chiamati a rispondere dei risultati ottenuti alla stregua dei manager dell'impresa privata. Stabilità e garanzie tradizionalmente riconosciute devono essere sostituite da premi e sanzioni collegati alla valutazione dei risultati.

L'immagine della trasformazione dei burocrati in manager viene, quindi, utilizzata per giustificare la fuoriuscita da saldi principi della tradizione liberale. Il ragionamento è doppiamente fallace. Lo è, in primo luogo, sul piano dei principi. Il ruolo autonomo dei burocrati - con diretta esposizione, quindi, al giudizio dei cittadini ed a varie forme di responsabilità - richiede, infatti, necessariamente un rafforzamento delle garanzie giuridiche (da calibrare in relazione alle funzioni), affinché essi siano posti al riparo da pressioni e condizionamenti, anche e specialmente esercitati dai politici. L'impostazione secondo cui la burocrazia, per potere esercitare correttamente un proprio ruolo, deve essere assistita da garanzie giuridiche, anche in termini di stabilità, è comune ai Paesi di democrazia liberale e rappresenta un risultato, sia pur parziale ed insoddisfacente, della tradizione liberale. La garanzia ha come destinataria finale la collettività, alla quale deve essere assicurato che il funzionario pubblico i cui atti incidono su situazioni giuridiche private sia posto nelle condizioni di essere imparziale.

Si incontra, così, un altro presupposto di ordine generale che è alla base della normativa sulla cosidetta privatizzazione del pubblico impiego: l'indifferenza del regime dell'organizzazione rispetto al regime dell'attività. Questo presupposto, manifestamente falso, nega il valore determinante del momento organizzatorio rispetto all'attività, costantemente sottolineato dalla migliore dottrina e recepito nell'art. 97, c. i Cost., in applicazione di un più generale canone di ragionevolezza 84 Accogliendo il predetto presupposto come vero, dovrebbe trarsi ad esempio la aberrante conseguenza che l'indipendenza del giudice non è necessaria, essendo sufficiente per un corretto esercizio della funzione giurisdizionale la disciplina del processo. Vero è, al contrario ed ovviamente, che la disciplina dell organizzazione e li primo e necessario momento che determina 1 esercizio delle funzioni.

In secondo luogo, la concreta situazione dei burocrati contraddice palesemente la predicata trasformazione di essi in manager, destinata a restare una .

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mera immagine. La pretesa trasformazione è, generalmente, negata dall'impianto stesso del d. lgs. n. 29 del 1993, caratterizzato dalla sequenza discendente dall'alto di indirizzi, obiettivi, priorità, programmi, ecc. destinati a pervadere attraverso stadi successivi l'organizzazione. La normativa ripropone così le più antiquate forme di organizzazione pubblica, escludendo anche l'applicazione di criteri manageriali che in essa possono agevolmente trovare posto. Ancora, in contraddizione con i criteri manageriali, la normativa realizza una accentuazione del rapporto gerarchico, spingendosi con riguardo ai semplici dirigenti a creare una situazione anomala di dipendenza pressoché assoluta e di sottoposizione a condizionamenti da parte del dirigente generale, ben oltre il tradizionale rapporto gerarchico. Manifesta risulta, al riguardo, la lesione del valore dell'imparzialità, posto dall'art. 97 Cost. La "contraddizione tra modello gerarchico e intenzione della riforma di trasformare la dirigenza - tutta la dirigenza, compresi i dirigenti del livello inferiore - in management" è stata sottolineata in uno studio edito dallo stesso Dipartimento per la Funzione Pubblica nel 1994 85 In un simile quadro, non stupisce che manchino anche le fondamentali ed indispensabili condizioni minime di contesto. Come mostra l'esperienza straniera, la responsabilizzazione in senso manageriale dei burocrati, laddove possibile, ad esempio nel settore dell'attività imprenditoriale ed in quello dell'erogazione di beni e servizi, richiede una risposta di contesto, che comporta anzitutto una rigorosa separazione organizzativa al fine di assicurare autonomia reale alla gestione burocratico-professionale. Ancora, i poteri di organizzazione delle risorse umane conferiti ai dirigenti - in un ambiente fortemente sindacalizzato e senza una responsabilizzazione dei quadri - sono illusori. Quelli di spesa incontrano vincoli stringenti nella normativa di finanza pubblica.

Il tentativo di dare credibilità all'intera costruzione era legato alla corretta attivazione del binomio autonomia del dirigente—responsabilità per i risultati della gestione. Si sarebbe dovuto rendere effettiva ed obbligatoria la previa definizione degli obiettivi da parte dell'organo di indirizzo politico ed organizzare un sofisticato sistema di valutazione indipendente. Quest'ultimo è stato tuttavia progettato - in modo asimmetrico - come non ricomprendente la valutazione della previa razionalità degli obiettivi e come non indipendente e sostanzialmente al servizio degli organi politici, anziché dei cittadini. D'altro canto, di fronte alla legittima pretesa di una chiara indicazione degli obiettivi da parte dei dirigenti, ci si è accorti che una reale applicazione del sistema immaginato comporta un insopportabile livello di formalizzazione, tale da condurre alla paralisi. .

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La disciplina posta dal d. lgs. n. 29 del 1993, anche e specialmente attraverso il suo carattere disfunzionale, si rivela una artificiale costruzione dislocatrice di poteri. L'emarginazione del ruolo del parlamento e del giudice amministrativo avviene a vantaggio del governo e delle grandi organizzazioni sindacali, segnando una escalation del ruolo politico di queste ultime.

Dal momento che lo scopo di politicizzazione dell'amministrazione non si è potuto raggiungere in modo soft - ossia attraverso l'applicazione del barocco disegno di amministrazione prefigurato (che conduce alla paralisi dell'amministrazione) - si è passati a misure esplicite di generale politicizzazione dell'amministrazione. Attraverso di esse non solo la "lottizzazione" viene estesa al cuore dello stato, ultimo territorio restatone immune, ma si tende a trasformare l'intera amministrazione in una gigantesca e cieca macchina asservita all'indirizzo di maggioranza.

Come sintetizzato da Sabino Cassese, il "disegno di mettere le mani sul vertice dell'amministrazione pubblica.., consta di più parti: precarizzazione dei dirigenti; ricambio di quelli più alti, al cambiare dei governi; appiattimento della dirigenza e, infine, conservazione del sistema dualistico gabinetto-dirigenza" 86 . L'alta burocrazia perde stabilità e diritto all'ufficio; il dirigente scomodo può essere facilmente allontanat0 87 L'attuazione di questo disegno è preparata e preceduta da una assai spinta politicizzazione degli Enti locali, con conseguente ulteriore dislocazione di poteri dal livello burocratico a quello politico, anche approfittando dell'occasione fornita dalla riforma della figura del Segretario comunale e provinciale.

L'effetto delle misure di politicizzazione da ultimo introdotte è quello di asservire l'amministrazione alla politica, rimettendo la carriera e la sorte dei dirigenti - costretti a ricercare affiliazioni e gradimenti politico-partitici nelle mani del governo (e dei partiti).

La politicizzazione dell'amministrazione percorre anche la via della dilatazione dei gabinetti ministeriali, mediante trasformazione di essi in uffici di staff, concepiti come veri e propri sub-apparati adibiti all'esercizio delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo, nonché la via della creazione e moltiplicazione di posizioni di vertice per il personale politico e parapolitico.

La dilatazione degli uffici di staff assume tratti grotteschi, in esperienze recenti di importanti amministrazioni regionali e comunali, che prefigurano come assai probabili più ampi esiti futuri a livello locale di un perverso indirizzo generale. I nuovi assetti normativi aprono la prospettiva di facili carriere per il personale impegnato politicamente. Nonostante producano un generale slittamento verso l'alto della dirigenza, si diffonde egualmente un pro.

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fondo malessere istituzionale. Ad esso si risponde per i rami più bassi, organizzando promozioni in massa senza adeguata selezione e per la dirigenza attraverso un vistoso incremento delle retribuzioni. La crescita della spesa pubblica per i dipendenti è tuttavia generale, salve mirate eccezioni.

Il potere di definire il trattamento economico dei dirigenti, caso per caso, e contrattualmente in base al singolo incarico, sostanzialmente attribuito dalla normativa ai ministri, è da riferire all'immagine manageriale proiettata sui burocrati. Esso, suscettibile nelle condizioni date ed in assenza di criteri affidabili, di tradursi in mero arbitrio, ha incontrato la legittima opposizione dei sindacati confederati. Ciò non può destare meraviglia, in quanto elemento cardine della concezione autarchica in tema di pubblica amministrazione è il ruolo politico dei grandi sindacati.

La disciplina posta dal d. lgs. n. 29 del 1993 realizza, in realtà, una contrattualizzazione atipica del rapporto di lavoro pubblico, a vantaggio delle confederazioni sindacali, il cui ruolo risulta conseguentemente istituzionalizzato. Come ha osservato Sabino Cassese, la disciplina non prevede «una maggiore tutela del lavoratore pubblico, ma un posto più ampio per i sindacati "ufficiali", che, così, conquisteranno un maggior seguito». Il sindacalismo pubblico diviene "un sindacalismo garantito dallo stato" 88 La sostanza del fenomeno è che il contratto collettivo di lavoro pubblico viene ad assumere vera e propria natura di fonte del diritto al di fuori delle garanzie previste dall'art. 39 Cost. Il ruolo della contrattazione collettiva cui si accompagna una assai costosa e farraginosa organizzazione ad hoc - è stato dalla normativa progressivamente esteso fino ad invadere materie riservate alla legge, espropriando quindi prerogative essenziali del parlamento in tema di organizzazione pubblica, garantite dall'art. 97 Cost. La funzione pubblica viene a trovarsi governata, anche per aspetti essenziali attinenti all'esercizio imparziale delle funzioni, dal diritto opaco della contrattazione collettiva, derivante dall'accordo fra governo e sindacati confederati.

L'accentuazione del ruolo politico del sindacato nel pubblico impiego, secondo quanto insegna l'esperienza, non favorisce l'efficienza, tende anzi all'appiattimento, producendo, così, un ulteriore scadimento complessivo della pubblica amministrazione. L'istituzionalizzazione del predetto ruolo politico favorisce, inoltre, una spinta espansiva delle elefantiache burocrazie sindacali, diretta all'occupazione e al condizionamento di ulteriori territori, a partire dall aggressione di categorie di personale pubblico per le quali la legge prevede garanzie e forme di autonomia, necessarie ad assicurare lo svolgimento di compiti e funzioni. .

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Particolarmente perniciose sono, infatti, le conseguenze sistemiche derivanti dall'accentuazione - attraverso norme statali - del ruolo politico dei sindacati confederati nel pubblico impiego, come nel lavoro privato. Questa scelta rende necessario il mutuo sostegno tra governo e sindacati confederati, confondendo i ruoli ed avviando circuiti perversi. Il potere dei grandi sindacati deve essere sempre più ampiamente sostenuto per legge: la tregua sul versante rivendicativo va compensata con l'assegnazione di nuovi poteri e proventi, il pericolo di perdita del consenso tende ad essere contrastato attraverso la limitazione della liberta sindacale. Una simile forma di controllo del mondo del lavoro - pubblico, ma anche privato - imbriglia il conflitto sociale, ma "ingessa" il sistema a danno dell'economia e dei soggetti esclusi, destinati a divenire ancora più numerosi; innesca anche involutivi meccanismi autoritari, a partire dalla limitazione del ruolo del giudice nei conflitti di lavoro.

RIFORME AMMINISTRATIVE E DEMOCRAZIA

A seguito delle ultime misure di politicizzazione dell'amministrazione risulta sostanzialmente vanificato il ruolo autonomo della burocrazia. Il modello concretamente adottato è quello già sperimentato nellé partecipazioni statali, fondato sulla "personalizzazione" del rapporto politica-amministrazione.

La classe politica si affida a fiduciari disposti ad assumere responsabilità anche di essa proprie. Per l'operatività di un simile ruolo - che ha dato luogo ad esiti assai negativi - mancano sia la separazione organizzativa, sia, decisivamente, il carattere imprenditoriale dell'attività. Inammissibile, sotto il profilo democratico, è l'estensione di un simile modello all'esercizio di funzioni imparziali.

Necessario e determinante è, tuttavia, il ruolo del sindacato nel governo della funzione pubblica. La politicizzazione dell'amministrazione ed il ruolo politico istituzionalizzato del sindacato, combinandosi, tendono alla progressiva indistinzione tra partiti, sindacati e governo. L'attività normativa, concentrata nel governo ma quanto alla elaborazione, anche e forse più nel sindacato, tende ad assumere caratteri conformativi non solo dell'organizzazione pubblica, ma anche dei sistema economico e della stessa società civile, a cominciare dai settori della cultura e dell'istruzione. Essa si rivela indirizzata ad accrescere il potere governativo e sindacale (rendendo in particolare strutturalmente necessaria la presenza di quest'ultimo) ed a facilitarne l'esercizio. Le riforme divengono strumento principe di affermazione politica non per i loro risultati nei confronti dei cittadini, bensì per i vantaggi prodotti in termini di 89

potere e sua tendenziale irreversibilità. Il legame tra partito e sindacato si fa progressivamente più stretto e la dinamica istituzionale avviata, di carattere sostanzialmente totalitario, se lasciata a se stessa, conduce alla fine all'esistenza di un solo grande partito-sindacato, destinato ad identificarsi nello statogoverno.

Il venir meno dei caratteri minimi di una amministrazione liberale conduce alla chiusura di tutti gli "spazi amministrativi" e, conseguentemente, all'insignificanza istituzionale di organismi - essenziali in diversi settori - quali le (sempre più maltollerate) autorità amministrative indipendenti e, tendenzialmente, anche all'insignificanza delle garanzie giurisdizionali, in particolare di quelle offerte dal Consiglio di stato, sempre più attratto nell'orbita governativa e posto sotto l'egemonia dell'indirizzo politico unificante.

Le più recenti vicende, relative in particolare alla legge sulle rappresentanze sindacali unitarie ed alla disciplina del trattamento di fine rapporto, indicano una reazione nei confronti di questa dinamica istituzionale anche da parte di partiti della maggioranza di governo. Essa appare, tuttavia, dettata da istinto di sopravvivenza, piuttosto che da una maturata coscienza della funzione di "guardiani della democrazia" 89 .

In modo estremamente cauto, ma probabilmente non privo di ironia, la Corte dei conti ha denunciato che la "cultura dei risultati" ha prodotto una generale caduta della legittimità dell'azione amministrativa. La corruzione continua ad essere fenomeno generalmente diffuso secondo le procure di Milano e della Corte dei conti. L'eliminazione di larga parte dei vecchi controlli ha trovato giustificazione nella loro inadeguatezza. Si è tuttavia creato nell'intero sistema un pauroso vuoto di controlli, essendo i nuovi controlli introdotti per lo più inoperanti e, comunque, inadeguati e insufficienti. Di risultati in termini di efficienza non se ne vedono. L'inefficienza, cumulandosi all'inaffidabilità di una amministrazione allo sbando e tendenzialmente svincolata dal valore dell'imparzialità, situazione determinata dalla alluvionale normativa governativa, è divenuta anzi il primo fattore che tiene lontani imprese e capitali stranieri. Spesso l'azione amministrativa assume tratti vessatori, in applicazione di una semplificazione amministrativa, che, quando non si traduce in ulteriore complicazione, cioè quasi sempre, tende ad essere intesa come semplificazione a vantaggio dell'amministrazione e a danno dei cittadini. Paradossalmente, tra le categorie più colpite vi sono i pensionati, come indicato dalla vistosa crescita dei ricorsi giurisdizionali, sottolineata ancora dalla Corte dei conti.

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Assenza di adeguati controlli, personalizzazione del rapporto politica-amministrazione, larga immissione nell'amministrazione di personale di derivazione partitico-sindacale, vanificazione del ruolo autonomo della burocrazia, svalutazione del principio di imparzialità, confusione normativa, sono fattori che inducono a ritenere che il cemento della nuova costruzione in tema di pubblica amministrazione sia destinato a divenire, presto o tardi, e specialmente a livello locale, la corruzione. Questa, secondo quanto notava Auguste Comte nella prima metà del secolo scorso, va intesa come ricomprendente "tutti i diversi modi mediante i quali si tenta di far prevalere i motivi di interesse privato nelle questioni di interesse pubblico Molti segnali sono già presenti. A partire dal diffondersi di "un pericoloso senso di impunità generale 90. Del resto, la pretesa della classe politica di distribuire premi e retribuzioni, prescindendo da criteri oggettivi, costituisce un tentativo di legalizzare la corruzione, che ovviamente non esalta, ma degrada i valori professionali della burocrazia.

La concezione artificiale in tema di pubblica amministrazione, sovrapposta alla necessità di adeguare l'amministrazione a partire dalla realtà e dalle plurime e differenziate esigenze, è la parte qualificante, la base necessaria sulla quale viene edificato un modello politico-amministrativo generale. Si tratta del rilancio dello stato amministrativo, in chiave corporativa e svincolato anche dagli obblighi minimi dello stato liberale, dominato dall'ossessiva ricerca di riduzione della complessità e dall'ansia di verticalizzazione del potere. Il fine, destinato a rivelarsi tuttavia illusorio, è quello di poter tutto guidare dall'alto, o comunque condizionare, plasmando lo stesso mercato ed i necessari processi di adeguamento ad esso, che ne risultano falsati e spesso impedendone l'affermazione.

Il rilancio dello stato amministrativo e delle connesse vocazioni dirigistiche trova alimento e terreno fertile di sviluppo nella protezione invocata da grandi imprese e sistema bancario dinanzi alla sfida della concorrenza, per i quali è strumento di arroccamento difensivo. L'intreccio tra potere politico, economico, finanziario e sindacale diviene strettissimo ed imperscrutabile.

Al riparo del nuovo stato amministrativo in costruzione e pi1 in generale della "strategia delle riforme", accompagnati da intensa propaganda, avviene una gestione assai opaca del processo di privatizzazione dell'amplissimo settore pubblico, senza previe regole adeguate, in violazione delle poche esistenti o con regole contrarie all'ordinamento comunitario 91 , spesso a vantaggio di soggetti pubblici o sotto l'influenza dei poteri pubblici; le liberalizzazioni dopo un timido inizio segnano il passo, arretrano o prendono direzioni e tratti 91

partigiani; nuovi vincoli vengono introdotti; si sviluppa una tendenza a "nascondere 1 organizzazione pubblica attraverso finte privauzzazioni e ad Imbrigliare in tutti i possibili modi il pluralismo, compreso quello di immettere nelle strutture ministeriali le associazioni dei consumatori, dopo averle opportunamente selezionate.

Dietro l'esaltazione dell'efficienza aziendale, a partire dalla nuova costruzione in tema di pubblica amministrazione, vi è la convenienza politica che induce pericolosamente all'affrancamento da ogni regola 92 La concezione autarchica introdotta dal d. lgs. n. 29 del 1993 si pone in stridente contraddizione con la concezione democratica dell'amministrazione, emergente dalla legge n. 241 del 1990. Questa ha introdotto in linea con la Costituzione - la valenza dell interesse del singolo nell esercizio della funzione esecutiva, ciò che comporta il riconoscimento della "cittadinanza amministrativa" 93 . La legge sul procedimento amministrativo impone l'apertura dell'amministrazione al confronto trasparente con gli interessi, mediante procedimenti partecipati e gestiti imparzialmente, per la ricerca dell'interesse pubblico, che non si esaurisce piÚ in un dato precostituito ed imposto.

Assolutizzazione dell'interesse pubblico calato dall'alto, accentuazione del rapporto gerarchico fino alla creazione di veri e propri stati di soggezione sono strumenti, oltre che disfunzionali, incompatibili con una concezione democratica dell'amministrazione. Il giusto procedimento e piĂš in generale il carattere liberai-democratico dell'amministrazione restano, infatti, vuote formule in assenza di discipline, che, sottraendo i pubblici funzionari ad indebiti condizionamenti e pressioni, pongano, anche attraverso statuti predefiniti e garanzie dei funzionari medesimi, idonee condizioni organizzative atte a coniugare efficienza ed imparziale esercizio delle funzioni.

L'assetto impresso all'amministrazione dal d. lgs. n. 29 del 1993, nella sua vigente versione, contrasta non solo con la normativa costituzionale, ma anche e nettamente con l'ordinamento comunitario, in quanto si distacca dai principi generali di esso, risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri.

La concezione dell'amministrazione, qui criticata, accentua proprio quelle caratteristiche di una amministrazione debole con i forti e forte con i deboli che occorre superare. Allontana ulteriormente le strutture burocratiche, annesse dalla politica dei partiti e con queste confuse dietro l'apparente distinzione, dal corpo dei cittadini. La vanificazione delle strutture partecipative offerte dalla legge n. 241 del 1990 e la gestione non imparziale di esse, accrescono il carattere odioso della burocrazia. La disistima verso la burocrazia, in.

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fatti, "dipende dal venir meno del legame di rappresentatività e, alla base, del momento del consenso" 94 , che possono derivare solo da un esercizio delle funzioni connotato da caratteri democratici. Ne risulta, tuttavia, alla fine, incrementata la crisi della politica dei partiti e la disaffezione dei rappresentati è destinata a divenire esasperazione.

La via italiana alla modernizzazione realizza la più estesa occupazione partitica possibile dell'amministrazione. Può essere, quindi, considerata come la massima espressione della "domanda democratica" fondata su una concezione monista del potere pubblico, come monopolio dei partiti. Si vedono, così, le conseguenze aberranti cui può pervenire la concezione monista del potere, vale a dire lo sbarramento all'evoluzione in senso democratico dell'amministrazione attraverso l'eliminazione anche delle condizioni minime dello stato di diritto liberale. La politicizzazione dell'amministrazione è stata, tuttavia, coperta dall'immagine manageriale proiettata sui burocrati. Alla politicizzazione dell'amministrazione si combina il ruolo politico del sindacato nel governo della funzione pubblica, nel quadro di una più generale estensione politica della rappresentanza sindacale. Il predetto ruolo politico istituzionalizzato dei. grandi sindacati, oltre ai perversi effetti sistemici che produce, confligge con una corretta responsabilizzazione dell'amministrazione nei confronti dei cittadini e degli utenti, secondo quanto sottolineato anche da Sabino Cassese come dato della sua esperienza di ministro della Funzione Pubblica 95 Per il ripristino dei caratteri minimi di una democrazia liberale è necessario che il parlamento riassuma le responsabilità che gli competono in tale tipo di sistema e che la Costituzione, accortamente, ha soprattutto specificato nel compito di imprimere con legge all'amministrazione un assetto conforme al buon andamento e all'imparzialità (art. 97, c.1). Ciò non significa intervento disfunzionale su ogni questione (le cosidette leggine), bensì definizione dei modelli organizzativi (ivi compresi moderni statuti dei funzionari) e dei modelli generali d azione dell amministrazione. Ne deriva i1 dovere del parlamento di proteggere l'amministrazione e difenderne l'autonomo ruolo anche nei confronti del governo 96 Nella prospettiva dell'ampliamento della democrazia, ma anche in quella dell'efficienza dell'amministrazione, è necessario un collegamento trasparente dell'amministrazione con la società civile.

La "domanda democratica", che pone al centro la persona e la sua dignità, è rivolta in primo luogo a conseguire il risultato di un esercizio della funzione amministrativa connotato da caratteri democratici. Ciò comporta l'eliminazione di anacronistici caratteri autoritari e privilegi dell'amministrazione pub.

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buca; implica anche con una reale applicazione della disciplina del procedimento amministrativo 1 evoluzione di essa verso 1 ammissione di un vero e proprio contraddittorio, a partire dalle funzioni maggiormente caratterizzate dal valore dell'imparzialità; infatti, secondo quanto autorevolmente sottolineato, "una ulteriore riduzione delle guarentigie del cittadino può derivare dall'impiego di forme che simulano il processo senza realizzarlo". Divieti, limiti, imposizione di adempimenti burocratici o di gestione burocratica di interessi propri dei singoli, che non siano rigorosamente giustificati nella forma e nella sostanza, sono da ritenere incostituzionali in quanto ostacolano "il pieno sviluppo della persona umana" ai sensi dell'art. 3, c. 2 Cost. Le garanzie déi funzionari sono necessarie in quanto strumentali all'imparzialità e vanno calibrate in relazione alle diverse funzioni. Vi sono, infatti, anche funzioni più direttamente collegate all'indirizzo governativo. Il ruolo professionale della burocrazia va, comunque, assicurato. Una previa analisi delle funzioni è, quindi, necessaria prima di qualsiasi intervento sull'organizzazione. I burocrati vanno responsabilizzati soprattutto nei confronti dei cittadini e degli utenti. Ogni sistema di valutazione deve essere configurato, nel modo più assoluto e rigoroso, come indipendente. Nel settore in cui l'amministrazione eroga servizi e prestazioni occorre evitare il gigantismo burocratico e l'accentramento e favorire la trasparenza; occorre soprattutto attribuire, ogni volta che ciò sia possibile, potere di scelta e di controllo ai cittadini, come singoli o liberamente associati.

La necessaria gradualità è anche caratteristica di riforme autenticamente liberali, aperte al confronto democratico, alla sperimentazione ed ai suggerimenti provenienti dall'esperienza.

LE AUTORITÀ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI

All'inizio degli anni Cinquanta, Tullio Ascarelli osservava che i "nove decimi delle nostre categorie giuridiche si riportano ad un mondo economico che è piuttosto quello di Balzac che quello dell'era atomica" 98 . Da allora si è passati all'era della cosidetta "globalizzazione" 99, ossia ad un mondo strettamente interdipendente, in cui l'ordine sociale si presenta come una realtà globale. Il contesto generale è divenuto estremamente favorevole, non solo alla mobilità dei fattori produttivi (lavoro, capitali, capacità organizzativa) ed alla diffusione delle informazioni, ma anche alla circolazione dei modelli giuridico-istituzionali ed al trapianto di soluzioni da un sistema all'altro. L'ordinamento comunitario spinge ed incoraggia questa evoluzione. Ne deriva un processo di imi94

tazione che deve essere favorito da una politica interessata al buon funzionamento delle regole e del sistema istituzionale generale. Il processo di imitazione innesca, infatti, una competizione virtuosa i cui esiti sono determinanti sia sotto il profilo del progresso economico che sotto quello del progresso civile.

L'apparire ed il rapido consolidarsi delle autorità amministrative indipendenti negli ordinamenti dell'Europa continentale, fino a divenire elementi necessari dei sistemi istituzionali, si iscrive in questo contesto. Né può stupire la derivazione di esse dal modello statunitense delle indijpendent regulatory agencies, in quanto questo modello vanta negli USA una tradizione secolar& 00 .

Troppo a lungo, anzi, gli ordinamenti continentali sono rimasti imprigionati in paradigmi e categorie giudicate superate, in quanto necessariamente legati ad un contesto venuto meno, lasciando inaridire importanti principi di fondo ed impedendo così che fruttificassero.

Troppa parte del pensiero giuridico (come di quello politico) nel nostro paese si rivela, tuttavia, ancora largamente impermeabile all'evoluzione dell'economia e della società, anziché esserne influenzata ed addirittura pericolosamente incline a volgersi all'indietro. Queste considerazioni rivestono carattere generale ma si attagliano, particolarmente, al tema delle autorità amministrative indipendentibol ed alle critiche ad esse spesso malamente indirizzate.

Si assiste dinanzi al fenomeno delle autorità amministrative indipendenti ad un ripescaggio della teoria tradizionale in una integrità da essa mai posseduta e, comunque, erosa dalla stessa evoluzione del diritto positivo. La teoria tradizionale diviene un feticcio. I giuristi sono, così, gli ultimi in grado di capire i problemi e di fornire ad essi soluzioni razionali, largamente superati nel momento prioritario della comprensione da economisti e politologi. Salvo rimarchevoli eccezioni, la responsabilità etica gravante sui giurista "come interprete di quella complessiva realtà che è l'insieme di diritto e società"° 2 viene rifiutata.

Le critiche rivolte alle indipenclent regulatory agencies negli USA sono state aspre soprattutto negli anni Trenta. Quelle di "quarto potere senza guida", di miscuglio, venuto su a caso, di irresponsabilita e poteri scoordinati sono invero definizioni interessate, tratte dal Rapporto finale di una Commissione nominata dal Presidente degli Stati Uniti (Report of the President's Committee on Administrative Management, Washington 1937). Non stupisce, tuttavia, che esse siano ricorrentemente riprese in un sistema che, in generale, garantisce, con la circolazione delle idee, un confronto ampio ed aperto. Ne è derivata - con l'importante contributo della Corte Suprema, che ha indirizzato il dibattito sul terreno della razionalità - una spinta al continuo affinamento, 95

anche e soprattutto sotto il profilo democratico, dello strumento di regolazione indipendente costituito dalle agencies.

In Europa si assiste, nei confronti delle autorità amministrative indipendenti, ad una replica delle critiche che, nel corso del tempo, sono state rivolte negli USA alle inclipendent regulatory agencies e dalle quali il modello è uscito rafforzato, specialmente sotto il profilo democratico. Le critiche si rivelano, tuttavia - specialmente in Italia - indirizzate, prevalentemente, allo scopo di vanificare il modello o di riassorbirlo all'interno delle strutture tradizionali, anziché allo scopo di favorirne la funzionalità e l'evoluzione in senso democratico. L'intenzione di larga parte della classe politica traspare, a questo riguardo, dalla soluzione autarchica ed illiberale apprestata anche per le autorità amministrative indipendenti dal progetto di revisione costituzionale sortito dalla Commissione bicamerale.

Lo sviluppo del modello delle autorità amministrative indipendenti negli ordinamenti continentali discende da un complesso di ragioni convergenti.

Alla originaria e di per sé insufficiente motivazione "tecnocratica", derivante dalla necessità di una regolazione amministrativa caratterizzata da elevato grado di competenza e specializzazione, si aggiunge l'esigenza di realizzare con riguardo a diversi settori la separazione tra politica ed amministrazione. Ciò corrisponde ad un principio liberale, ma è il dato della complessità a comportare sotto il profilo pratico l'ingovernabilità delle amministrazioni contemporanee in termini di formulazione ed attuazione di un indirizzo unitario e coerente. Questo risalente schema "weberiano", come evidenziato dalle scienze politiche e dell'organizzazione, è manifestamente inadeguato al governo delle società complesse. Nel dato della complessità si iscrive pure la relativa autonomizzazione dei mercati, che obbedisce anche ad un vincolo esterno e la necessità, per il loro sviluppo, di regole trasparenti e di una gestione continuativa ed imparziale di esse, costantemente vicina ai problemi, sottratta, invece, alla continua mediazione, generatrice di disfunzioni, con i molteplici obiettivi della maggioranza governativa. Soprattutto, il modello è in grado di realizzare pienamente quella apertura dei procedimenti statali alla società civile che costituisce il connotato di una amministrazione democratica.

La concezione regolativo-giustiziale delle funzioni amministrative è caratteristica del modello, ma è tendenza più generale, indicata anche dalla scienza politica e dalla scienza dell'organizzazione, come rispondente ad esigenze di funzionalità. Essa è, potenzialmente, in grado di coniugare saldamente l'istanza liberale - di riconoscimento delle competenze tecniche, di separazio96

ne tra politica e amministrazione, di limitazione dell'invadenza della politica (partisanpolitics) nell'economia, di riconoscimento dell'autonomia di soggetti ed associazioni nel perseguimento dei loro interessi - con l'istanza democratica, il cui soddisfacimento richiede regole, anche sofisticate, dirette ad assicurare la considerazione ed il confronto trasparente degli interessi nel "farsi" dell'azione amministrativa.

Il modello costituisce, quindi, un modo adeguato di soluzione in diversi settori del problema così bene indicato nel 1910 da Santi Romano, quello della "deficienza dei mezzi giuridici ed istituzionali, che la società... possiede per fare rispecchiare e valere la sua struttura in seno a quella dello stato . La soluzione statalista apparve allora a Romano come l'unico modo possibile di proteggere la società, ponendola al riparo dello stato e così difendendola dalla lotta delle fazioni. Il modo corretto in cui il problema venne tuttavia posto, a partire cioè dalla società e dall'esigenza del suo "rispecchiamento" esclude che autoritarie semplificazioni possano costituire una valida soluzione ed indica che il modello delle autorità amministrative indipendenti riceverebbe oggi, dallo stesso Romano, un positivo apprezzamento.

Le autorità amministrative indipendenti hanno immesso nel sistema una quantità enorme di informazioni, accrescendone la trasparenza in una misura fino a pochi anni addietro impensabile.

La presenza di autorità quali la Banca d'Italia, la Consob, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato e delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità è anche una presenza obbligata in base all'ordinamento comunitario. La regolazione dei mercati, specie di quelli finanziari, non può oggi prescindere dal ricorso alla regolazione indipendente.

La corretta funzionalità del modello - dalla quale dipende l'effettiva tutela dei cittadini, intesi come consumatori-operatori - richiede che la legge affidi alle autorità un mandato pieno con riguardo alla regolazione di un determinato settore, che siano conferiti poteri sufficienti e garantita l'indipendenza sia dal governo che dai soggetti regolati. Caratteristica della regolazione indipendente e la commistione di poteri normativi ed attuativi, attraverso l'esercizio di poteri amministrativi e di poteri quasi giurisdizionali. Il modello è qualificato in modo netto e necessario da una concezione garantista e partecipata dell'esercizio delle funzioni.

Procedimento, partecipazione (anche alla elaborazione delle regole), contraddittorio, trasparenza, motivazione autorevole, e approfondita delle decisioni, imparzialità intesa come neutralità sono i principi che devono caratterizzare l'azione delle autorità amministrative indipendenti e la cui realizzazio97

ne deve informarne anche l'organizzazione, ben al di là di quanto, sia pure in modo parzialmente innovativo, stabilito dalla legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo. Può così realizzarsi un processo partecipativo all'elaborazione ed applicazione delle regole, di estensione della formazione del diritto alla società, improntato a criteri di correttezza e giustizia, con ancoraggio delle decisioni al principio democratico nel modo "effettivo" indicato dall'art. 3, c. 2 Cost.

Il contributo ad un moderno sistema istituzionale risiede nella organizzazione degli interessi in sottosistemi nei quali l'autorità ha il compito di proteggere i cittadini intesi come utenti-operatori e favorire l'emersione di regole adeguate attraverso un processo trasparente e partecipativo. Ne risulta parzialmente sgravata dall'assalto degli interessi l'azione del governo, che tende a divenire, anch'esso, esigente promotore della qualità dell'azione delle autorità.

Il modello trova fondamento costituzionale negli artt. 97 e 98 Cost. La Costituzione, correttamente, non prescrive modelli organizzativi, ma rimette, in generale, al parlamento - in autonomia rispetto al governo - il compito di definire modelli organizzativi e procedurali preordinati ad assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione secondo le differenziate esigenze. Il modello, nella sua necessaria pienezza costituita dalla partecipazione all'esercizio del potere, trova ulteriore, profondo fondamento costituzionale nell'art. 3, c. 2 Cost., che impone di realizzare una partecipazione "effettiva", non delegata quindi, all'organizzazione politica economica e sociale del Paese.

Sono stati, tuttavia, indicati dalla dottrina, quali fondamenti costituzionali, anche gli artt. in tema di diritti di liberà, nonché gli artt. 5, 11 e 41 della Costituzione.

La pienezza del sindacato giurisdizionale nei confronti delle autorità assicura che esse non siano sottratte al principio costituzionale di responsabilità.

La legittimazione democratica derivante dal conferimento, con legge, della funzione di regolazione alle autorità amministrative indipendenti (che restano subordinate alla legge) si completa, secondo le convergenti esigenze di buon andamento ed imparzialità, con le modalità democratiche di esercizio delle funzioni. Né può seriamente invocarsi il principio di separazione dei poteri per contrastare il modello, caratterizzato, secondo quanto sottolineato, dalla "commistione di poteri". Per fa ciò, ci si riporta ad una immagine ottocentesca di tripartizione dei poteri e corrispondente distribuzione fra essi di funzioni esclusive di ciascun potere, che mai ha avuto integrale applicazione' 03 . Ci si dimentica, invece, il collegamento logico, razionale tra la scissione del potere e la garanzia delle libertà individuali, a partire da Montesquieu, 98

che lega direttamente la separazione alla libertà. Il postulato di fondo di una democrazia costituzionale è, infatti, che il potere deve essere diviso, nel senso che non può essere totale o esclusivo e la sua distribuzione deve tendere a realizzare condizioni di equilibrio 104 Affinché il modello possa pienamente esplicarsi in modo positivo occorre colmare le carenze che le autorità amministrative indipendenti presentano nel nostro ordinamento, in modo invero differenziato tra le diverse autorità. In linea generale, ancor più dell'indipendenza, che appare in diversi casi scarsamente garantita, va sottolineata l'insufficienza dei poteri conferiti, tale da compromettere spesso l'efficacia dei nuovi organismi amministrativi. L'insufficienza dei poteri diviene disfunzione organizzativa (rilevante ai sensi dell'art. 97 Cost.) allorché la legislazione realizza la coesistenza di poteri governativi - ciò che si verifica, spesso, in tema di poteri normativi - e di poteri della autorità amministrativa indipendente in settori affidati alla regolazione di quest'ultima. La tendenza più recente ad inquadrare l'attività delle autorità, costringendole ad una azione segmentata e intermittente nell'ambito di decisivi poteri ministeriali è sommamente disfunzionale.

Carente è, in modo, tuttavia, ancora differenziato, l'impianto giustiziale delle autorità ed, in generale, quello delle garanzie in tema di organizzazione ed azione, nonché di trasparenza. Questi aspetti sono particolarmente importanti, in quanto incidono sia sulla legittimazione che sulla indipendenza. L'attuale spinta - ad un tempo antidemocratica e disfunzionale - verso la verticalizzazione del potere e l'accentramento dei poteri del governo, specie secondo le modalità qui criticate, tende ad una sostanziale vanificazione delle autorità amministrative indipendenti, oltre che alla loro occupazione partitica e favorisce un uso strumentale di esse al fine di dissimulare, dietro lo schermo delle autorità, la responsabilità politica ed al fine di allargare la sfera amministrativa a scapito del giudice.

La linea avversatrice delle autorità amministrative indipendenti muove da un asserito deficit di legittimazione democratica di esse per pervenire - utilizzando teoriche superate del diritto amministrativo - ad interpretazioni riduttive del ruolo e dei poteri dell'autorità. Il modello viene, così, spinto verso l'inefficacia e verso esiti disfunzionali.

La ventilata prospettiva di riportare le autorità amministrative indipendenti sotto l'ala del governo comporta l'abolizione del modello e, se attuata, implica un'enorme complicarsi della gestione degli interessi all'interno del fittizio indirizzo politico unificante del governo, destinato all'implosione. Palese risulta l'aridità dell'approccio proprio della cultura monista del potere. Il suo .

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muoversi nella prospettiva del restringimento della democrazia è confermato dalla circostanza che dalla predetta cultura non provengono contributi diretti a favorire la crescita, in senso democratico, delle autorità amministrative indipendenti.

Nella prospettiva dell'ampliamento della democrazia, la "domanda democratica deve essere rivolta, in generale, alla corretta applicazione del modello ed, in modo particolare ed esigente, a rafforzare la concezione garantista e partecipata dell'esercizio delle flinzioni, che - secondo quanto qui indicato - connota in senso democratico il modello delle autorità amministrative indipendenti.

PER L'AMPLIAMENTO DELLA DEMOCRAZIA

La "domanda democratica" è chiamata anche, ad incanalare in un affidabile sistema istituzionale le spinte liberiste provenienti dalla società e che si profilano sullo scenario politico in risposta all'oppressione derivante dallo stato burocratico-sindacale, già nella sua fase di costruzione. Occorre evitare, anche per il futuro, di esaltare una decisione politica sempre unitaria e ribadire che sono illusorie tutte le riforme che puntano verso un eccesso di semplificazione o di riduzione della complessità 105 Un vero sistema di governo va inteso come sistema istituzionale complessivo aperto in modo trasparente e democratico alla società civile, nel quale i cittadini possano fare affidamento su tutte le funzioni dello stato per la legittima difesa dei loro interessi nel rispetto di quelli degli altri. L'imparzialità è il valore centrale attorno al quale va ricostruita l'amministrazione. Il conflitto non può essere soppresso, altrimenti riemerge in forme più crude ed inquinanti; può essere disciplinato, ma solo democraticamente. Nell'interesse di tutti, le forze politiche (come quelle sindacali) devono assumersi le loro alte responsabilità ed accettare di muoversi sul terreno della democrazia costituzionale, che è quello di una democrazia civilizzata dal diritto, che non consente deleterie scorciatoie istituzionali. Questo terreno è in notevole misura apprestato dalla Costituzione del 1948, che merita di essere riabilitata. Essa va, anzi, riscoperta in quanto indica la via liberale al completamento della democrazia, ovvero l'unica vià in questa direzione. Solo così può essere colmato il distacco sempre più evidente tra classe politica e società civile, quest'ultima - ormai - assai più avanzata della prima. E necessario che tutti facciano la loro parte.

La risposta alla "crisi " della democrazia la democrazia, ovvero il suo necessario ampliamento. .

100

Intervista di M. PLATERO, in Al Sole-24 Ore», 22 luglio 1999.

2 Sulla ormai difficile distinzione tra le grandi confederazioni sindacali e le formazioni propriamente politiche rinvio a N. LONGOBARDI, Il

sistema politico amministrativo e la riforma mancata, Torino 1999, p. 245 e passim.

3

Il riferimento è al recente volume di A. PlzzoRusso, La Costituzioneferita, Bari 1999.

'I Per questa motivata conclusione, v. N. LONGOBARDI, Il sistema politico-amministrativo, cit., p. 243. Sulla classe politica come "vera e propria istituzione", vedi ivi, partic. p. 10 ss., una sintesi dell'analisi di Giuseppe Guarino.

5 Cfr. G. BERTI, Illusioni e delusioni della "Bicamerale' in «Diritto pubblico», 1997, p. 916s.

6 Al riguardo, v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., partic. pp. 199 ss e 239 s. anche per il raffronto con la (ben diversa) costituzione francese che, benché squilibrata a favore del governo, si colloca tuttavia all'interno della tradizione costituzionale liberale.

Cfr. DIPARTIMENTO PER LA FUNZIONE PUBBLICA, La rforma della pubblica amministrazione, 11, Roma 1994, p. 70, ove si osserva che in questo modello "la discrezionalità politica invade anche il campo dell'esecuzione amministrativa in nome della più assoluta coerenza tra indirizzo e azione".

8 In questo senso cfr. S. CASSESE, Il sojìsma della privatizzazione del pubblico impiego, in «Riv. it. dir. lav.» 1993, p. 289; ID., Le ambi-

gnità della privatizzazione del pubblico impiego, in AA.Vv., Dall'impiego pubblico al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, p. 77 Ss, anche per la motivazione di carattere politico alla base della disciplina posta dal d. lgs. n. 29 deI 1993, ravvisata in uno scambio governo-sindacati tra garanzia del consenso sociale alla manovra di risanamento dei conti pubblici e attribuzione di un ruolo di governo del pubblico impiego alle confederazioni sindacali.

9 Al riguardo v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., partic. p. 205 s., nonché, sulle autorità amministrative indipendenti, p. 84 Ss.

Ivi, cap. Il, partic. p. 45 Ss, Ivi, pp. 6 s. e 242.

2 Ivi, cap. IV, p. 231 ss.

13 Cfr. M. FIORAVANTI, Stato e C'ostituzione, Torino 1993, p. 21, nonché B. DENTE, In un diverso Stato, Bologna 1995, p. 88.

Il

14

Sull'abuso da parte del governo della delegazione legislativa e l'accentramento dei poteri normativi in capo al governo, v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., p. 133 ss. (ove l'argomento è trattato da Fabrizio Politi) e passim.

15 lvi, p. 244 s. e cap. III, sa. Il. Vedi, ivi, citati i molteplici interventi critici di SARINO CASSESE apparsi sulla stampa.

16 E da condividere ed estendere questo giudizio espresso da Giuliano Amato nell'ottobre 1996 nei riguardi del partito di maggioranza relativa. Il giudizio è riportato ora da «Il Giornale», 8 gennaio 2000.

7 Cfr. G. BERTI, Illusioni e delusioni, cit., p.

917 ss. V. amplius N. LONGOBARDI, I/sistema, cit., p. 241 ss. e cap. III, sez. IV, § 6, Su piano generale ha recentemente osservato R. DAHRENDORF, Ma la terziz via non è una sola, in «La Repubblica», 6 luglio 1999, che "raramente il decentramento promuove la democrazia e la libertà, soprattutto ai livelli subnazionali, dove il più delle volte finisce per conferire maggior potere ad attivisti più o meno militanti, piuttosto che alla cittadinanza". E, infatti, necessario agire sulle funzioni e sulle modalità del loro esercizio.

Cfr. a questo riguardo F. BENVENUTI, Il nuovo cittadino, Venezia 1994, p. 28.

18 Cfr. S. CASSESE, Il disegno del terzo decentramento, in «Giornale di dir. Amm.», 1997, p.

418.

1 9 V. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., p. 5 s., e a p. 17, n. 13 i convergenti giudizi di G. Amato, G. Guarino, T. Padoa Schioppa e V. Onida.

20 Ivi, partic. p. 127 s.

21 M. FIORAVANTI, Costituzione e popolo sovrano, Bologna 1998, p. 35.

22 V. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., p. 244 e passim.

101

Cfr. per tutti S. CASSESE, Maggioranza e minoranzil. Il problema della democrazia in Italia, p. 63 Ss.; M. FIORAVANTI, Costituzione, cit., p. 82.

V. anche N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., pp. 199 ss., 243 s.

24 In questo senso, cfr. P. RIDOLA, Principio costituzionale pluralistico e mutamenti della forma partito, in AA.Vv., Lo stato delle istituzioni italiane, Milano 1994, p. 184. Dalla normativa costituzionale può essere tratta, pertanto, l'incostituzionalità dileggi sui finanziamento pubblico dei partiti, in quanto esse sanciscono la trasformazione e legittimazione dei partiti come istituzioni parallele. Così F. BENVENUTI, Il nuovo cittadino, Venezia 1994, p. 33, secondo il quale la legge del 1974 "fu il culmine e l'origine delle distorsioni di tutto il nostro ordinamento avendo separato la funzione politica da quella di governo e di amministrazione centrale come locale".

25 Cfr. per tutti M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, 1, Milano 1970, p. 87s.

26 G. MARONGIU, La Costituzione tra attuazione e revisione (1992), ora in La democrazia come problema, Il, Bologna 1994, p. 191.

27 G. BERTI, Amministrazione e Costituzione, in AA.VV., La pubblica amministrazione nella Costituzione. Riflessioni e indicazioni di riforma, Milano 1995, p. 15.

28 Cfr. soprattutto M. FIORAVANTI, Stato e Costituzione, cit., p. 12 ss. e passim. Con particolare riguardo al mutamento della concezione delle funzioni amministrative v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., cap. III, sez. 11, § 8.5, p. 100 55.

Sulla "generale crisi di plausibilità dei modelli tramandati" e le sue conseguenze v. partic. G. DI GASPARE, Il potere nel diritto pubblico, Padova 1992, cap. V, p. 359 ss.

29 Una crescente consapevolezza del fenomeno affiora in alcuni commenti apparsi recentemente sulla stampa quotidiana. V. ad es. A. CORNELI, "Concertazione" alla tedesca addio, in «Il Sole-24 Ore», 25 gennaio 2000; 1. CIPOLLETTA, Tocca ai cittadini "pagare" la politica, ivi, 26 gennaio 2000; F. DE BENEDETTI, Thngenti, paga il Paese, ivi, 27 gennaio 2000.

23

102

Al riguardo v. ora A. DAHL, Sulla democrazia (ed. it.) Bari 2000, che sottolinea anche come criterio fondamentale del processo democratico la presenza di un'opinione pubblica bene informata.

31 Cfr. partic. F. DE BENEDETTI, Tangenti, cit.; C. RINALDI, Quelle parole che Craxi non volle pronunciare, in «La Repubblica», 21 gennaio 2000.

32 "•, quando l'eletto è, per il tempo che intercede fra un'elezione e l'altra, indipendente dai suoi elettori, quando ad una organica rappresentanza delle minoranze non riescono né i vari meccanismi all'uopo poco fruttuosamente escogitati, né il più semplice, ma più empirico sistema della specializzazione del popolo in collegi; infine, quando i rappresentanti sono migliaia di persone casualmente raggruppate, ma distinte per modo di pensare, per interessi, per cultura e quindi per divergenti volontà. Ed è senza dubbio vera l'osservazione di un arguto scrittore, che più aumentano gli elettori illuminati, più si sviluppa la coscienza civile e politica dei singoli, più aumenta in altri termini la civiltà, e meno possibile diventa che l'eletto rappresenti gruppi così poco omogenei e numerosi di individui. La composizione delle camere elettive ha così qualche cosa di estremamente artificiale e fittizi o".

Così, S. ROMANO, Discorso inaugurale all'anno accademico 1909-1910 nella Regia università di Pisa, ora in Lo Stato moderno e la sua crisi, Civiltà del diritto, Milano 1969, p. 22.

33 V. ancora ad es. l'esaltazione da parte di S. ROMANO, Discorso, cit., p. 24 s. dello stato come "organizzazione superiore che unisca, contemperi e armonizzi le organizzazioni minori in cui la prima va specificandosi", come "organismo che superi gli interessi parziali e contingenti, che faccia valere una volontà che possa ben dirsi generale". Nello stato, "vera personificazione" della collettività, è individuato "non soltanto il simbolo, ma l'ente reale" in cui il principio di indivisibilità del potere pubblico "si affermerà sempre maggiormente". Al riguardo, v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., partic. pp. 100 ss e 30

118, n. 69 per indicazioni bibliografiche. Nel paradigma statalista, il pluralismo è visto come stato di crisi, "primo stadio della dissoluzione in senso particolaristico". Cfr. M. FIORAVANTI, Sta-

negli anni trenta del partito nazionale fascista".

Ancora, nella prassi si è affermata «l'assoluta prevalenza della categoria e della pratica della forza degli orientamenti collettivi (la questione

to, cit., p. 39 ss., il quale più in generale osserva che è ancora forte la tendenza a giudicare le nostre istituzioni in perenne condizione di "crisi" perché in oggettiva situazione di non corrispon-

dell'egemonia) sul riconoscimento delle idee, delle capacità ed attitudini proprie dei singoli, sempre considerati come "prodotto" dei partiti».

Impostazione questa tradizionalmente "teorizza-

denza ai modelli formatisi tra '800 e '900 (ivi,

ta e sostenuta" soprattutto nei partiti della sinistra (di derivazione marxista), ma condivisa nella prassi da pressoché tutte le forze politiche".

36 M. FIORAVANTI, Stato, cit., p. 212 s. ' Cfr. anche per indicazioni bibliografiche

p. 13).

3' M. FIoIvAJ4TI, Stato, cit., partic. pp. 144, 201 se 211.

5 Cfr. M. FIORAVANTI, Stato, cit., partic. pp.

96 e 232 5.; P. Scoppoi, La democrazia dei partiti: da una necessità storica ad una crisi di sistema, in AA.Vv., Lo stato delle istituzioni, cit., p.

144 ss. anche per gli sviluppi successivi. In Italia, questa duplice qualità del partito politico venne individuata e sostenuta da Costantino MORTATI (La Costituzione in senso materiale, Milano 1940, preceduto da ID., L'ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Roma 1931). , tuttavia, estremamente significativo che grazie soprattutto all'impegno nella Costituente di Costantino Mortati, consapevole dell'esigenza di frenare gli appetiti dei partiti sull'amministrazione, siano state fissate nella Costituzione disposizioni che conferiscono alla pubblica amministrazione una indelebile impronta liberale. Al riguardo e sulla tradizione italiana di pensiero liberale in tema di amministrazione, v. cenni e riferimenti bibliografici in N. LONGOBARDI, '4mministrazioni indipendenti" e posizione istituzionale dell'amministrazione pubblica, in Studi in onore di V Ottaviano, Milano 1993, 1, p. 545 5.; ID., Il sistema, cit., p. 98 s. In merito alla specifica situazione italiana, E. BETTINELLI, Partiti politici senza sistema dei partiti, in AA.Vv., Lo stato delle istituzioni italiane, cit., p. 160 osserva che all'affermarsi (e al resi-

P. SCOPPOLA, La democrazia dei partiti, cit., P. 142.

38

Al riguardo v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., partic. p. 10 ss., con particolare riferimento all'analisi della "classe politica" di G. Guarino, secondo il quale è ad un certo punto apparso evidente che "organizzazione dei partiti, burocrazia, lottizzazione, corruzione e debito pubblico, in una concatenazione divenuta indissolubile, avrebbero trainato il carro della società in una rapida corsa verso la rovina".

39

Cfr. da ultimo I. CIPOLLETTA, Tocca ai cittadini paga re la politica, cit.

40

Sull'incidenza al riguardo della esperienza di istituzionalizzazione del partito nazionale fascista, v. retro, n. 35. Non appare, tuttavia, da condividere il giudizio di M. FIORAVANTI, Costituzione, cit., p. 70 ss., il quale, esattamente descritta la cultura dei costituenti in ordine al ruolo istituzionale dei partiti, appare indotto a svalutare la concreta disciplina adottata dai Costituenti, favorevole al pluralismo ed informata all'esigenza di tenere l'amministrazione al riparo da ingerenze improprie del governo e dei partiti.

Al riguardo v. retro, n. 24. Sulla non trascurabile

stere) di una cultura nella quale i partiti sono considerati necessarie e pervasive "preistituzio-

influenza esercitata sulla Costituente italiana dai grandi modelli costituzionali stranieri ed in particolare dagli ordinamenti inglese e statunitense v. E DE FRANCHIS, Dizionario giuridico, I, Mila-

ni", "non è stata estranea l'esperienza (non del tutto rimossa, al di là delle ovvie e rituali proclamazioni formali) dell'istituzionalizzazione

no 1984, p. 56. Ivi indicazioni bibliografiche. 'li L'individuazione di un indirizzo politico unificante, operata a partire dagli anni trenta ha 103

reso la giù debole separazione dei poteri, intesa in senso classico, "uno schema davvero fragilissimo, e soprattutto un'arma spuntata, proprio per il fine fondamentale della tutela dei diritti". Così, M. FIop,vANTI, Stato, cit., partic. p. 114 s.

42 In questo senso cfr. amplius G. MELIS, Storia dell'amministrazione italiana, Bologn a 1996, p. 501 Ss. ' Sulla duratura valenza del principio di separazione dei poteri cfr. ad es. G. ZAGREBELSKY, La sovranità e la rappresentanza politica, in AA.Vv., Lo stato delle istituzioni, cit., p. 93.

44 P. SCOPPOLA, La democrazia dei partiti, cit.,p. 153.

45 G. MARONGIU, Pa rtiti politici o il dilemma della democrazia (1992), ora in La democrazia come pro blema, Il, cit., p. 294.

46 Sull"attuale condizione sociale ed economica di capacità autorealizzativa diretta degli interessi", cfr. G. ZAGREBELSKV, La sovranità e la rappresentanza politica, cit., p. 85 e passim. Trae da ciò le necessarie conseguenze A. PREDIERI, L'erompere delle autorità amministrative indipendenti, Firenze 1998, p. 103 Ss. nel sottolineare che "la formula della "forma di governo" basata solo sul sistema dei partiti non è più adeguata né per la sua forma semantica, né per il suo campo concettuale, né per la sua base, né per i collegamenti generali con una teoria generale dello Stato e del sistema; ed è datata perché collegata a sistemi di partiti ormai superati». Al riguardo, v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., pp. 1, 16, n. 3 epassim.

47 La definizione è di G.U. RESCIGNO, Nuovi e vecchi partiti e art. 49 della Costituzione, in M.Vv., Lo stato delle istituzioni, cit., p. 181. Sulla degenerazione dei partiti in strutture verticistiche e di tipo oligarchico cfr. M. VOLPI, Le forme di governo contemporanee tra modelli teorici ed esperienze reali, in S. GAMBINO (a cura di), Democraziaeforme di governo, Rimini 1997, p. 58 ss.

48 Sulla trasformazione dei partiti europei, nell'analisi effettuata da "The Economist", cfr. da ultimo G. ARE, I partiti si sgretolano ma c'è bisogno di loro, in «Il Sole-24 Ore>', 14 agosto 104

1999, nonché P. IGNAZI, È ormai cominciato il tramonto del partito di massa, in «Il Sole-24 Ore>', 11 luglio 1999, che riassume la relazione di Peter Mair, di apertura del Convegno recentemente organizzato a Rma dal Centro di ricerca sullo Stato. La sempre più ampia disaffezione, in Italia, dei citcaìiini nei confronti dei partiti e la contemporanespirazione ad "uno Stato di diritto auspicato e qu.si invocato, più o meno consapevolmente" emere,4,.una ricerca del Centro di Metodologia delle;4éienze sociali della Luiss. Al riguardo, v. R. D! > MuccI, Lontani dal Palazzo, in «Il Sole-24 ¶re», 10 agosto 1999. Sulla preoccupante assenta o marginalità della "parola libertà" nelle pubblicazioni sulle tesi della cosidetta "terza via", cfr. R. DAHRENDORE, Ma la terza via, cit., il quale sottolinea che la terza via "non persegue la società aperta, né la libertà" e "presenta un tratto curiosamente autoritario". La tentazione della terza via è in Italia ricorrente ed assume tratti grotteschi. V. in passato la risposta di N. BOBBI0, La terza via non esiste (1978), in N. BOBBI0, Le ideologie e il potere in crisi, Firenze 1981, p. 123. ' Cfr. partic. L. CAVALLI, Lapersonalizzazione della politica, in AA.Vv., Lo stato delle istituzioni, cit., p. 103 ss.

50 Così, P. MAIR, Relazione, cit. Al riguardo v. P. IGNAZI, È ormai cominciato, cit.

5' Cfr. sul punto G. BERTI, Amministrazione e Costituzione, cit., p. 17. Sulla valenza attuale del principio di kgalità, nonché della riserva di legge ex art. 97, c. 1 Cost., v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., p. 125 ss. Ivi, indicazioni bibliografiche.

52 Benché affermato con riguardo alla legislazione regionale, il principio, per la sua portata costituzionale generale ed inderogabile, è da ritenersi applicabile a tutti i livelli, compreso quello della legislazione statale, come allora venne sostenuto da V. CRISAFULLI, Commento a Corte costituzionale, sent. n. 13 del 1962, in Giur. cost., 1962, p. 132. Il merito di aver ripescato questo lontano precedente della Corte costituzionale e di averlo valorizzato al fine della

esigenza istituzionale di favorire la "ripresa di vitalità del parlamento in direzione della sua capacità di rappresentazione politica" è di G. ZAGREBELSKY, La sovranità, cit., partic. p. 94 Ss. L'impostazione di questo bellissimo saggio (purtroppo da me conosciuto solo ora) coincide nella sostanza con quanto da me sostenuto. V. da ultimo N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., partic.

Cap.III,Sezz.IIe III. 53 Il V e il XIV Emendamento della Costituzione U.S.A., con formule pressoché identiche, stabiliscono che né il Congresso, né il Governo federale, né quello di uno Stato possono privare una persona della vita, della libertà e della proprietà "without the due process oflaw". Sulla moderna portata del principio, frutto dell'affinamento giurisprudenziale, v. L. BARRA CnAcc!o-

Funzione amministrativa e amministrazione neutrale nell'ordinamento USA, Torino 1997,

LO,

partic. p. 124 ss. Lautore riporta una delle più citate definizioni del "due process", quella data dal "justice" Frankurter, nel caso "JointAntifizscist Refugee Committee v. Mc Grath" nel 1951: "a differenza di alcune regole di diritto, non è un concetto tecnico avente un contenuto prefissato,

piano della organizzazione, nei limiti in cui furono conservate proprio le tutele giurisdizionali.

E perfino il venir meno di una vera rappresentanza politica, considerata come momento dell'organizzazione dello stato, anziché come suo momento qualifìcatore, consentì al regime fascista di ritenersi "stato di diritto" proprio perché, pur venuta meno la libertà politica e, quindi, la indipendenza del legislativo dall'esecutivo, si affermò che erano rimaste tuttavia intatte quelle che furono chiamate le guarentigie del cittadino nei confronti dell'Amministrazio-

ne)' (ivi, p. 19).

57 "il momento della rappresentatività, visto

senza il contemporaneo momento del consenso, assume aspetti puramente meccanicistici perché si tratta di una strumentazione della partecipazione, come reso evidente dalla formula che parla di 'macchina elettorale" (ivi, p. 94).

58 "La disaffezione, che si trasforma in disistima verso la burocrazia, dipende dal venir meno del legame di rappresentatività e, alla base, del momento del consenso. Di modo che, da un lato le strutture burocratiche si sentono separate

svincolato da tempo, luogo e circostanze ... , ma rappresenta una profonda attitudine alla correttezza ('fairness')... il compendio di storia, razio-

dal corpo dei cittadini e quasi investite di quel potere di agire unilateralmente..., e dall'altro si verifica una tendenza ancora più forte all'accentramento come esclusione della presenza dei cit-

nalità, del corso delle decisioni passate e della so-

tadini proprio nelle strutture burocratico-am-

lida confidenza nella forza della fede democratica che professiamo".

5' S. Roio, Discorso, cit., p. 23.

55 Ciò deve anche ritenersi naturale conseguenza della circostanza che la "sovranità" nei regimi democratici contemporanei ha carattere

ministrative" (ivi, p. 95).

59 "In fondo, la soluzione partitica rispondeva ancora alla concezione di uno stato organizzazione, in equilibrio automatico quanto all'e-

"costituito", come sottolineato da G. GUARINO, Riflessioni sui regimi democratici, in «PoI. Dir.», 1991, p. 9.

56 Chiarito il venir meno delle ragioni storiche di un certo modo di intendere il principio di divisione dei poteri, il chiaro Autore osserva che «quello che fu considerato come il modello tipico di uno stato delle libertà e cioè lo stato di diritto, fu ritenuto tuttavia ancora sussistente anche quando perdette le sue connotazioni sul

sercizio delle funzioni, perché quella presenza tentava comunque di agire operando all'interno dell'organizzazione mediante la preposizione di soggetti appartenenti ai partiti o da essi scelti, perpetuandosi così il mito di una risposta democratica del sistema mediante l'intervento sulle strutture organiche. E invece imminente, ed è gia iniziato, il capovolgimento di queste concezioni che ormai si possono chiamare tipiche di una mentalità arcaica e tendenzialmente statalistica" (ivi, p. 22 s.).

60 "La libertà dei postmoderni... si pone, 105

oltre la libertà degli antichi e quella dei moderni, irrinunciabili entrambe e inseparabili, come un avanzamento nel cammino della civiltà" (ivi, p. 63).

61

L'importanza di una "interpretazione evolutiva", attraverso la "lettura del sistema, la lettura della civiltà, la lettura della comune opinione, ossia del macrocosmo socio-legale" è sottolineata con fona da Benvenuti. Da un canto, "in momenti di accelerata evoluzione come quelli quali noi stiamo vivendo, la lettura interna non è più sufficiente... "; dall'altro "in un sistema di società aperta non possiamo immettere nella società un corpo dileggi che non sia compatibile con le esigenze, i bisogni, i valori che sono espressi da essa.

I quali valori sono però anch'essi giuridici (e non politici o sociali)" (ivi, p, 117 ss.).

62 "Quando si passa alla funzione del giurista come interprete di quella complessiva realtà che è l'insieme di diritto e società, allora qui, proprio nella scelta dei valori che egli dovrà ap-

plicare nella sua ricerca costruttiva, emerge il momento etico, che è il momento ancora una volta, della vocazione all'obiettività, all'abbandono di interessi personali, naturalmente quelli ideali, per fare nel massimo di indipendenza il suo arduo lavoro" (ivi, p. 120).

63

"La cultura della libertà passa attraverso

tutti: passa attraverso la responsabilità della scuola come attraverso quella dei mezzi di comunicazione; passa attraverso l'opera dei partiti politici, quella dei sindacati, quella dei gruppi spontanei. Senza di queste, l'individuo, rimasto per troppo tempo privo del sostegno caratterizzante la sua personalità e cioè della possibilità di usare della libertà attiva, difficilmente potrà vincere questa battaglia ... spetta ancora ai ceti colti... impegnarsi nella diffusione della cultura della libertà" (ivi, p. 126 ss.).

64

L'istituzione di un giudice speciale per i rapporti in cui è parte la pubblica amministrazione costituisce un'evoluzione interna a questa concezione. Benché lentamente divenuto indi-

ticolare sensibilità per le ragioni della pubblica amministrazione.

65 V. amplius anche per indicazioni bibliografiche N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., Cap. TI. 66 Sui molteplici fattori che hanno concorso alla crescita ed al mutamento del ruolo del giu-

dice, oltre al venir meno delle ragioni storiche di un modo arcaico di intendere la separazione dei poteri quali la rigidità della Costituzione, il primato del diritto comunitario, il declino del tradizionale positivismo giuridico, le caratteristiche assunte dalla legislazione, ecc. v. amplius N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., cap. TI, partic. § 8.

Cfr. soprattutto G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino 1992, cap. VII, il quale sottolinea che "l'assetto organizzativo e funzionale attuale del potere giudiziario" è stato "pensato in tutt'altro ambito ideale, quando la giurisdizione si concepiva positivisticamente come applicazione unilaterale, meccanica, passiva, 'tecnica' della legge da parte di funzionari-burocrati" (ivi, p. 205).

67 G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p.

206, il quale giustamente sottolinea che "non c'è formula costituzionale che più di questa ri-

senta nel suo significato delle caratteristiche generali dell'ordinamento giuridico in cui i giudici sono chiamati ad operare", ciò che le ricerche storiche hanno ampiamente dimostrato. Al riguardo v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., partic. p.32,n.30.

68

V. ancora G. ZAGREBELSKY, I/diritto mite, cit., pp. 180 55., 205.

69 G. ZAGREBELSKY, Il dirittomite, cit., p.

206, 70

Cfr. F. BENVENUTI, Il nuovo cittadino, cit., p. 124 ss. epassim.

71

Così M. VAUDANO, Intervento, in Governo della giustizia e autogoverno dei giudici, Milano 1997, p. 273.

72 G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 207.

73

La legge reca il titolo "Nomina di professori universitari e di avvocati all'ufficio di consi-

pendente, -il giudice amministrativo trova, tutta-

gliere di Cassazione in attuazione dell'art. 106, 3 0 comma, Cosi." e prevede che la nomina sia

via, la sua originaria ragion d'essere in una par-

conferita con d.PR su designazione del CsM.

106

L'Italia detiene il non invidiabile primato del più alto numero di condanne da parte della Corte Europea dei diritti dell'uomo, dovuto soprattutto alla violazione del diritto ad una ragionevole durata del processo. Il Presidente della Corte europea dei diritti dell'uomo Lurius Windhaber ha recentemente sottolineato la specifìcità del "problema italiano", invitando formalmente il governo italiano ad assumere "misure concrete ed efficaci".

75 Sul valore democratico del processo v. nella dottrina statunitense C.J. PETERS, A dj ua'ication as representation, in «Col. L. Rev.», 1997, p. 312 Ss. 76 V. anche per indicazioni bibliografiche N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., pp. 126 s., 145 n.

74

17 epassim. ' Al riguardo, v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., partic. p. 37.

78 Come da più parti sottolineato, l'inefficienza della giustizia e l'inefficienza dell'amministrazione (aggravata dai recenti indirizzi) sono tra le principali cause che, determinando l'inaffidabilità del sistema Paese, ostacolano l'afflusso in Italia di capitali stranieri.

79 lvi, lc. ult. cit. anche per quanto concerne le sicure esigenze di coordinamento ed indirizzo che caratterizzano l'attività del PM. 80 Sull'attuale esigenza di motivazione rigorosa delle sentenze e sulla garanzia della precostituzione per legge del giudice v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., rispettivamente pp. 33, 53, n. 36 e51,n. 14.

81 "La separazione tra giudizi di fatto e giudizi di diritto e la pretesa (peraltro smentita dalla pratica) di poter depurare l'attività della Corte di Cassazione dai primi per concentrarla sulla difesa 'astratta' della legge contro le sue erronee interpretazioni, è la oggi sempre meno sostenibile conseguenza" della concezione della giurisdizione "come applicazione unilaterale, meccanica, passiva, 'tecnica' della legge da parte di funzionari-burocrati". Così G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 205 s.

82 Tutti gli aspetti riguardanti la pubblica am-

ministrazione e la riforma di essa, qui trattati, hanno trovato approfondimento in N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., cap. III e passim. Se ne offre qui la sintesi, nonché un diverso ordine esplicativo volto a facilitare la comprensione di una materia che rimane nascosta ai più, sia a causa della sua complessità sotto il profilo tecnico, sia a causa della cortina fumogena stesa su di essa dal linguaggio normativo, caratterizzato soprattutto dall'abuso del linguaggio economico. Trovano posto nel testo anche alcuni aggiornamenti con riferimento alla più viva attualità.

83 B. DENTE, In un diverso Stato, Bologna 1995, pp. 24,30 e 112.

84 Il carattere regressivo dell'impostazione accolta nel d. lgs. n. 29 del 1993 risulta esplicitato, sia pure in maniera perplessa, dalla sèguente affermazione: «la garanzia del singolo resta per sempre, in via primaria, legato all'atto e ai modi di far valere la sua illegittimità "sostanziale", mentre una sua proiezione sull'intera area "interna" pare irragionevole e ultronea». Così A. OP.SI BATTAGLINI, Fonti

normative e regime giuridico del rapporto di impiego con enti pubblici, in «Giornale di dir. del lav. e reI. Industr.», 1993, p. 472.

85

DIPARTIMENTO PER LA FUNZIONE PUBBLICA,

La riforma della pubblica amministrazione, volume Il, Roma 1994, p. 89 s.

86

J dirigenti dimezzati e in mano alla politi-

ca, in «Il Sole-24 Ore», 7 dicembre 1998.

87 Improponibile è qualsiasi accostamento tra lo spoil system all'italiana e l'ordinamento degli USA. In questo ordinamento, infatti, lo spoil system riguarda i vertici di una amministrazione tenuta ad agire attraverso procedure paragiurisdizionali nel più assoluto rispetto dei diritti dei cittadini e sommamente caratterizzata dal valore dell'imparzialità, fino alla garanzia della indipendenza di commissioni e funzionari che decidono su situazioni giuridiche di privati. Cfr. L.

Funzione amministrativa e aniministrazionione neutrale nell 'ordinamento BARRA CARACCIOLO,

USA, Torino 1997.

88

Il sofisma della privatizzazione, cit., pp.

11, 26s.

107

89

Di un "asse" tra il partito di maggioranza relativa (Ds) e la maggiore delle Confederazioni sindacali (CGIL) "che salta il confronto con la maggioranza" ha parlato il deputato dal partito popolare italiano Giancarlo Lombardi in una recente Intervista, in ME, 17 febbraio 2000. La vicenda relativa al TFR viene descritta come l'ultimo episodio, in ordine di tempo, di una prassi generale consistente nel mantenere l'elaborazione della normative sui temi sociali all'interno del predetto asse, nel presentarle, complete nella loro scrittura, come "fatto computo", "dicendo: 'Approvatele così come sono, perché non si può rompere il quadro della maggioranza". L'istinto di sopravvivenza sembra recentemente guidare anche la CIsL, seconda per importanza delle confederazioni sindacali, nel rompere l'unità sindacale e nel sottrarsi ad un ruolo di sostegno positivo del governo. Il candidato alla presidenza della Confindustria più vicino alle posizioni dei grandi sindacati dei lavoratori, Carlo Callieri, ha recentemente affermato: "I sindacati sono diventati ormai azionisti di maggioranza dei partiti. Questo può avere come conseguenza, giustificata, la richiesta di Berlusconi di chiedere alla Confindustria di schierarsi: eccessi da una parte generano eccessi dall'altra. E la crisi della concertazione dipende anche da questo". L'affermazione è riportata da N. PIccHIo, Callieri: concertazione in crisi, in «Il Sole-24 Ore», 2 marzo 2000. La convenienza fa, tuttavia, ancora velo ad una piena consapevolezza che tutto ciò è conseguenza della fuoriuscita dai caratteri minimi di una democrazia liberale.

90 G. RossI, Intervista di Curzio Maltese, in «La Repubblica», 9 marzo 2000.

SI Pesanti giudizi sulla conduzione del processo di privatizzazione sono stati espressi dalla Commissione istituita con d.p.c.m. 18 ottobre 1996, presieduta da Gustavo Minervini. Al riguardo vedi N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., p.

72. Recentemente, secondo quanto riportato dalla stampa, l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha parlato più volte di corru108

zione - aggiungendo poi - in forma legalizzata, a proposito delle privatizzazioni.

92 Cfr. F. DE BENEDETTI, Tangenti, paga il Paese, cit.

93 Cfr. S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, Milano 1995, pp. 217 e 326.

94 F. BENVENUTI, Il nuovo cittadino, cit., p.

95.

5 S. CASSESE, Il difficile mestiere di Ministro della Finanzii Pubblica, in AA.VV., Rfrmare la pubblica amministrazione, Torino 1995, p. 145 Ss. 96 Sul corretto significato da attribuire oggi alla riserva di legge posta dall'art. 97, c. 1 Cost. v. N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., pp. 91s., 125 ss. e passim.

97 E. FAZZALARI, Processo (teoria generale), in Noviss. Dig. It., XIII, Torino 1966, p. 1071.

98 Economia di massa e statistica giudiziaria (1954), in Saggi di diritto commerciale, Milano 1955, p. 525.

99 11 brutto termine globalizzazione evidenzia la dinamica comune dell'umanità, costituita da una crescente omogeneizzazione, mentre cela la complessità derivante soprattutto dalla centralità della libertà e creatività individuali quali fattori di sviluppo. L'enorme circolazione delle informazioni in uno spazio senza confini tende ad affrancare gli individui dall'informazione manipolata dal potere. Lo sviluppo della nuova economia prescinde dall'intervento dello stato.

Il mercato globale apporta democratizzazione.

Ai poteri pubblici si chiede di favorire la continua capacità di adattamento del sistema, ditogliere ostacoli all'ingresso degli esclusi, attraverso regole chiare e la capacità di agevolare la connessione sistemica tra gli operatori, rinunciando invece a strumenti meramente assistenziali ed a meccanismi discrezionali di incentivazione, che distorcono il mercato e generano dipendenza.

00 Già T. ASCARELLI, Interpretazione del diritto e studio del diritto comparato, in Saggi di diritto commerciale, cit., p. 510 sottolineava che l'America del Nord può insegnare all'Europa in quanto "più vecchia", essendo lì più avanzata la produzione industriale di massa, "più ricca la

elaborazione giuridica dei problemi relativi e pii viva la relativa coscienza giuridica".

101 Per l'approfondimento del tema, nonché per le indicazioni di dottrina italiana e straniera, rinvio a N. LONGOBARDI, Il sistema, cit., cap. III, sezz. Il e III, nonché in precedenza a Io., Le "amministrazioni indipendenti ", Ci u ffré 1988 (ed. provv.), ripubblicato nel 1991 negli Scritti per Mario Nigro, voI. Il, p. 173 ss. e Io., '.4mmi-

nistrazioni indipendenti" e posizione istituzionale dell'amministrazione pubblica, in Studi in onore di V Ottaviano, vo!. I, Milano 1993, p. 523 SS. 102 F. BENVENUTI, Nuovo stato e crisi delle scienze politiche, in «Amministrare», 1994, p.

245.

103 Cfr. M.S. GIANNINI,

Diritto amministra-

tivo, I, Milano 1970, p. 75 ss., che in particola-

re sottolinea che "una caratterizzazione oggettiva della funzione amministrativa non esiste" (ivi, p. 79). Mai la Corte Suprema degli USA ha seriamente contestato la legittimità della "commistione" dei poteri conferiti alle indtpendent regulatory agencies, necessaria all'espletamento delle funzioni di regolazione.

104 Cfr. G. GROTTANELLI DESANTI, L'equili-

brio tra poteri: modelli costituzionali e loro trasformazioni, in L. LUATTI (a cura di), L'equilibrio tra i poteri nei moderni ordinamenti costituzionali, Torino 1994; C. GUARINO, Riflessioni sui regimi democratici, cit., pp. 3 ss., 9.

105 Cfr. G. MARONGIU, La Costituzione tra attuazione e revisione (1992), ora in ID., La democrazia come problema, Il, Bologna 1994, p.

294.

109

rubriche

IL Notizie da...

ASSOCIAZIONE PER LECONOMIA DELLA CULTURA Il 1999 è stato per l'Associazione per l'Economia della Cultura l'anno di consolidamento della nuova struttura, definitasi con il riconoscimento della personalità giuridica.

Abbiamo così potuto dedicarci con maggiore impegno alla preparazione ed alla attuazione delle nostre iniziative che, pur nei limiti delle ristrette disponibilità finanziarie non sono state di poco momento.

Per quanto riguarda l'attività convegnistica e seminariale va segnalato il convegno tenuto a Roma su "Fondazioni ed enti lirici" svoltosi nella sede della Fondazione S. Cecilia il 23 aprile, nel corso del quale si è potuto affrontare a fondo uno dei problemi più intricati e spinosi dell'attività di spettacolo dal vivo e sul quale l'Associazione, fortemente preoccupata dalla situazione attuale intende, come vedremo, ritornare.

Sempre nel mese di aprile si è svolto a Bari un convegno su "Beni e servizi culturali in Puglia tra economia e sviluppo", che ha rappresentato la prima iniziativa pubblica del gruppo di Bari dell'Associazione, e ha riscontrato una folta presenza di pubblico con una notevole eco sulla stampa locale.

Di notevole interesse è stato anche il convegno svoltosi in collaborazione con la

Fondazione Zetema di Matera il 29-30 ottobre, dedicato al tema dei "Poteri locali e nuove forme di gestione della cultura", nel corso del quale è stato presentato e discusso il numero 2199 della rivista "Economia della Cultura", la cui sezione monografica è dedicata appunto a questo tema: è questa una prassi che vorremmo poter continuare anche per l'uscita dei prossimi numeri.

InfIne, in dicembre è stato organizzato a Bolzano, in collaborazione col locale Assessorato alla Cultura della Provincia Autonoma, un convegno sulle "Forme di finanziamento dell'associazionismo culturale ed educativo in Italia e all'estero".

L'attività di ricerca è consistita: I) nel p roseguimento della ricerca internazionale ARCIWEB-1 MED commissionata dalla Unione Europea sull'occupazione culturale nel Terzo settore nelle città d'arte: dopo i seminari di La Coruna, Ferrara e Napoli, la ricerca coordinata da Paolo Leon - è in dirittura d'arrivo; 2) nell'impostazione dello "Studio sul progetto di fattibilità per un osservatorio sull'occupazione nel settore culturale", richiestoci da Italia Lavoro e che viene coordinato e diretto da Emilio Cabasino; 3) nel lavoro di valutazione interna del progetto Pilota CRONOS, finanziato dall'Unione Europea con il Programma Leonardo da Vinci, per la progettazione di una formazione europea a distanza (via internet) per 11'

manager culturali (capofila del progetto è lo Studio ldée Europe di Parigi, il responsabile del lavoro di valutazione per AEC è Emilio Cabasino).

Anche nell'anno trascorso, tuttavia, l'impegno maggiore è stato dedicato all'attività relativa alla rivista "Economia della Cultura", che va imponendosi sempre più come strumento indispensabile per gli studiosi e gli operatori impegnati nel settore della cultura.

La riorganizzazione del Comitato di Redazione, di cui demmo conto già nella relazione dello scorso anno, ha permesso di programmare in modo più razionale ed efficace la predisposizione dei tre numeri annuali dedicati a: 1) la fiscalità; 2) cultura e poteri locali; 3) TV Digitale: innovazione tecnologica e produzione di programmi.

L'aver poi seguito la prassi di affidare l'elaborazione di ogni numero ad un curatore designato dalla redazione ha permesso un arricchimento delle tematiche ed una migliore organicità, delle quali ha beneficiato soprattutto la parte monografica.

Anche quest'anno, la vita della Rivista è stata resa possibile dalla generosa sponsorizzazione della Fondazione Zetema, alla quale va il nostro riconoscente ringraziamento.

Iniziative per il 2000. All'affacciarsi del nuovo anno (e del nuovo secolo) non possiamo che confermare la volontà di proseguire nella linea che AEc ha finora seguito, cercando di potenziarla in tutte le sue direttrici. È in preparazione una tavola rotonda, che stiamo organizzando insieme ad AEDON, sul progetto di regolamento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Confortati dal successo ottenuto dal convegno tenutosi a Matera lo scorso anno, 112

abbiamo deciso, insieme agli amici di Zetema, di riproporre ogni anno, in autunno, una riflessione sui temi comuni nel settore culturale, con particolare riguardo alle problematiche dello sviluppo culturale nel Mezzogiorno. Per il convegno del 2000 è allo studio un'iniziativa da intraprendere in comune con l'Unesco. È nostra intenzione continuare ad approfondire il tema delle Fondazioni degli Enti lirici, la vicenda della maggioranza delle quali è oggi arrivata forse ad un punto di non ritorno.

Il nostro gruppo di Bari ha in programma un convegno su "Il ruolo della Provincia nell'amministrazione della cultura. Ruolo istituzionale e modelli gestionali' allo scopo di comporre una sessione di studi di carattere formativo ed informativo diretta agli amministratori ed al personale amministrativo della Regione, delle Provincie e dei Comuni pugliesi. Il convegno si terrà a Bari nel mese di ottobre.

Sul fronte delle ricerche, saremo soprattutto impegnati ad ultimare i due studi in corso di cui si è detto. Ma il nostro impegno sarà diretto soprattutto a verificare la possibilità di realizzare il Il Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1991-2000.

Il problema è unicamente quello della copertura finanziaria. Per risolverlo, si sta cercando di mettere insieme un pool di fìnanziatori pubblici e privati in modo da poter mettere a disposizione del mondo della cultura uno strumento di enorme importanza e utilità come il Rapporto, la cui prima versione ormai esaurità, continua a venire utilizzata e citata in convegni e pubblicazioni.

Per quanto riguarda "Economia della Cultura" il Comitato Scientifico ha definito

il programma editoriale per l'anno 2000: 1) le nuove linee della politica culturale dell'Unione Europea; 2) i problemi relativi alla "evaluation" nel campo della cultura; 3) il sostegno della creatività contemporanea.

Anche quest'anno vogliamo proseguire nella prassi di illustrare i tre numeri della rivista organizzando per ognuno di essi un'apposita manifestazione. Stiamo, inoltre, definendo un progetto per la acquisizione di un dominio internet e la realizzazione di un sito informativo web. Con la casa editrice il Mulino si sta valutando l'opportunità di inserire la Rivista in rete.

ASSOCIAZIONE PER L'ECONOMIA DELLA CULTURA Via dello Statuto, 44 Tel. e Fax 064745839 - 064740248 e-mail: aeccult@edl.it

FONDAZIONE INTERNAZIONALE LELI0 BASSO

Il nostro lavoro nel 2000.

1. Il Tribunale Per,nanente dei Popoli - L'attività del Tribunale è in questa fase concentrata sulle multinazionali, sulle loro massiccie violazioni dei diritti umani e dei popoli, sulla loro immunità/impunità.

- La sessione di Warwick (20-25 marzo 2000) ha condotto alla formulazione di capi d'accusa contro quattro società giganti come Freeport McMoran, Rio Tinto, Monsanto, Union Carbide (il relativo documento sarà pronto per la metà di maggio).

- Dopo un periodo di ulteriore ricerca e confronto, si giungerà, l'anno prossimo, ad una seconda sessione che si concluderà con una sentenza.

Formazione - A Roma: sono al sesto anno i corsi di formazione sui diritti umani e dei popoli, attivi dall'ottobre al giugno dell'anno successivo. Il tema del corso di quest'anno è: Diritti fondamentali e pace.

- A Napoli: continua come ogni anno l'attività della Scuola napoletana del diritto dei popoli, in collaborazione con l'Istituto italiano per gli Studi Filosofici, con un corso, che si svolgerà dall'il al 22 settembre sul tema: Movimenti migratori di persone nella pratica contemporanea.

- A Tunisi: avrà inizio, dall'ottobre di quest'anno, la collaborazione fra la Facoltà di Scienze giuridiche, politiche e sociali della locale università e la Fondazione con un corso di due settimane, destinato a trenta borsisti maghrebini ed europei, dal tema: Il diritto dei popoli, ponte fra il diritto internazionale e i diritti umani.

Ricerca - Nell'ambito della pii vasta ricerca internazionale coordinata da José de Sousa Martins (Università di San Paolo), si conclude quest'anno la ricerca biennale su: Il lavoro servile e le forme di sfruttamento paraschiavistico in Italia.

- Sul terreno sociologico, sono nella fase di avvio altre tre ricerche: "Analisi del percorso di reclutamento, emigrazione e sfruttamento di donne albanesi, kosovare e rumene"; "Il traffico di minori e adolescenti per sfruttamento sessuale nel territorio europeo. Il quadro di fondo del fenomeno, i sistemi normativi e le pratiche sociali in Italia"; "Migrazioni di genere e ricongiungimenti familiari dai Balcani e dal Maghreb".

- Diretta da Franois Rigaux e Luigi 113

Ferrajoli e condotta da Siliana Laurenti e Gabriele Della Morte, è iniziata una ricerca dal titolo: I luoghi di garanzia internazionale per i diritti fondamentali: percorsi verso la Corte Penale Internazionale.

Per la Corte Penale Internazionale - Prosegue la partecipazione della Fondazione alle riunioni della Commissione preparatoria per la Corte Penale Internazionale a New York. In particolare, a proposito del crimine di aggressione, la Fondazione è impegnata nell'attività di monitoraggio sia delle negoziazioni internazionali che del comportamento adottato dai singoli Stati, nel tentativo di orientarne le posizioni.

- Una pubblicazione è stata curata su quella parte di lavori della Commissione che si è conclusa a giugno.

Per le popolazioni indigene Il Gruppo di ricerca amerindiani della Fondazione divide la sua attività tra ricerche sul campo, ricerche teoriche, seminari, interventi alle Nazioni Unite e formazione di esperti di diritti indigeni. Fra le attività si segnalano: - l'elaborazione e lo studio delle norme internazionali riguardanti le popolazioni indigene con interventi assidui presso le relative commissioni delle Nazioni Unite a Ginevra; - la ricerca, in collaborazione con istituti e organismi brasiliani, su Il posto degli indios nella società brasiliana. Orientamenti indigeni e indigenisti contemporanei nella cultura e nel diritto; - la progettazione di un bollettino telematico informativo sugli eventi relativi ai diritti delle popolazioni indigene destinato ai centri analoghi in Europa e America Latina.

114

6 Informazione - Seminari, dibattiti, tavole rotonde, incontri vengono solitamente organizzati a seguito di avvenimenti internazionali e di passaggi di esponenti della cultura indigena o di specialisti di argomenti oggetto di studio della Fondazione. Si segnalano in particolare due convegni: - Le grandi migrazioni delle popolazioni nel sud del mondo e in Europa, le conseguenze sulla vita dei popoli e, in particolare, delle donne, in collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (26 giugno); - Aiutare la Colombia ad uscire dalla crisi di violenza (in novembre), preceduto dalla pubblicazione di un dossier sulle tematiche della pace e della giustizia in Colombia e seguito dalla organizzazione di un monitoraggio sul rispetto degli accordi fra i governi europei e il governo colombiano.

Documentazione - Biblioteca, Emeroteca e Centro di Documentazione sono una preziosa fonte di informazione per quanti si appassionano della storia, dell'evoluzione e della lotta dei Paesi del sud del mondo, soprattutto sotto il profilo dei diritti umani, dei diritti dei popoli, delle minoranze, delle popolazioni indigene.

- Il centro è anche attivo per lo scambio di informazioni, via e-mail, attraverso i continenti e nella rete di Ong che producono ricerche e pubblicazioni sui temi privilegiati della Fondazione.

Pubblicazioni - Sono pubblicazioni correnti: la rivista trimestrale Fondazione gli atti dei corsi romani di formazione e perfezionamento su!

diritto dei popoli; gli atti dei corsi della Scuola napoletana.

- Si aggiungeranno: il volume I Curdi, un popolo transnazionale, a cura di Mirella Galletti, EdUP, il volume sulla ricerca I/la-

sull'attivitĂ della Commissione preparatoria per la Corte Penale Internazionale, a cura di Siliana Laurenti

voro servile e le forme di sfruttamento paraschiavistico in Italia, a cura di Francesco

FONDAZIONE INTERNAZIONALE LELI0 BASSO Via della Dogana Vecchia, 5 - 00186 Roma Tel. 066879953 - Fax 0668307516

Carchedi ed Enrico Pugliese; un testo

115

Segnalazioni

I beni culturali, Maggioli Editore, Rimini 1999, pp. 344.

FABIO CIcER0NI,

La maggiore attenzione posta dal legislatore nei confronti dei beni culturali » già a partire dall'insediamento del ministro Ronchey, e nuovamente dopo il 1996 con la nomina del ministro Veltroni, ha prodotto significativi mutamenti nel panorama normativo di questo settore. La disciplina è andata modificandosi rapidamente, prendendo talora indirizzi anche diversi da quelli immaginati in un primo momento.

L'esigenza di un più chiaro orientamento viene, pertanto, avvertita sia dagli studiosi sia dagli amministratori.

In tale ottica la pubblicazione, da parte dell'editore Maggioli, di un manuale in materia appare di notevole utilità ed interesse.

Il testo di Fabio Ciceroni si prefigge di fare il punto sullo stato amministrativo della gestione dei beni culturali in Italia, con una particolare attenzione verso i profili concernenti il decentramento di funzioni dallo Stato agli enti territoriali. Sebbene si tratti di un'impresa più che complessa, l'opera riesce a restituire un'immagine aggiornatissima, quasi fotografica, dell'attuale sistema amministrativo e gestionale dei beni culturali.

Il volume è suddiviso in due parti. Nella prima si esaminano i soggetti dell'inter116

vento: lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri enti locali, gli enti ecclesiastici, i privati. Nella seconda si traccia, invece, un quadro degli oggetti dell'intervento: gli archivi, le biblioteche, il museo, i beni archeologici, i centri storici ed i beni architettonici.

Lo stile chiaro e scorrevole rende il testo utile anche alla consultazione dei non addetti ai lavori, che possono avere una visione completa dell'organizzazione di questo settore ma possono anche servirsi del libro come opera di consultazione per la soluzione di problemi specifici.

Il testo è corredato da un ricco apparato di note nelle quali è richiamata una bibliografia molto aggiornata, soprattutto per quanto riguarda le riviste specializzate.

In appendice, infine, sono riportati sia i testi integrali della più recente normativa nazionale, sia i riferimenti completi alla legislazione regionale in vigore.

(TP)

NicoLA CORVINO, Certfìcazioni, dichiarazioni e autocertificazioni dopo la riforma Bassanini, Maggioli Editore, Rimini 1999, pp. 293.

La consistente produzione normativa degli anni Novanta in materia di documen-

tazione amministrativa sta rivoluzionando il sistema burocratico, che necessitava da tempo di adeguamenti ed ammodernamenti. Una significativa accelerazione nella direzione dello snellimento dell'attività di certifìcazione della pubblica amministrazione - risalente addirittura alla legge n.15 del 1968, e ripreso con maggior vigore nella fondamentale legge n. 241/1990 - si è avuta a seguito dell'emanazione delle leggi cosidette Bassanini. La fluidità ed il continuo evolvere della disciplina comportano, frequentemente, una certa difficoltà da parte degli amministratori ad adeguarsi alle nuove regole, la cui interpretazione e conoscenza si fa sempre pRi diflìcile.

In questo quadro, si pone lo studio di Nicola Corvino, pubblicato dall'editore Maggioli. Secondo l'autore, i pubblici funzionari, che in questa situazione assurgono al ruolo di protagonisti, devono rapportarsi in maniera diversa con l'utenza e conseguire una maggiore professionalità che, abbinata all'impegno profuso dalla classe politica, deve sortire benefici effetti per la collettività.

Il volume vuole rappresentare soprattutto uno strumento di lavoro per chi presta servizio nella pubblica amministrazione, in generale, e nei servizi demografici dei Comuni in particolare, per la panoramica effettuata ad ampio raggio sulla documentazione amministrativa e sulla variegata tipologia di casi concreti dell'operare quotidiano. Il testo è aggiornato con il d.PR 20 ottobre 1998, n. 403.

Il lavoro di Corvino non ha la pretesa di affrontare la vasta tematica in maniera esaustiva, ma di proporre alcuni interrogativi, anche allo scopo di rendere note le difficoltà degli operatori e fornire al legislatore

momenti di riflessione, nella convinzione che solo assicurando ai pubblici funzionari strumenti di agevole interpretazione ed applicazione sarà possibile modernizzare il Paese e proseguire il processo di europeizzazione già in atto.

(TP)

GAETANO DE

Viro, Gli enti non commercia-

li e le Onlus, Giuffrè, Milano 1999, pp.

306.

Il complesso iter legislativo sulle Onlus è partito il 14 dicembre 1995, con l'approvazione di un disegno di legge (decaduto in seguito allo scioglimento anticipato del Parlamento) ed è giunto a conclusione con il decreto legislativo 4 dicembre 1997, n.

460. In attesa di una organica definizione degli aspetti civilistici, il decreto riordina e razionalizza la disciplina tributaria di questo settore ed è strutturato in due sezioni: la prima, riservata al riordino delle norme tnbutarie relative agli enti non commerciali; la seconda, riservata alla definizione e regolamentazione delle Onlus.

Va tenuto presente che, sotto l'aspetto tributario, i cosiddetti enti non commerciali sono stati da sempre oggetto di una disciplina organica (contenuta nel capo III del TUIR). Sotto il profilo civilistico, questi enti sono rappresentati prevalentemente da associazioni e fondazioni. Nel decreto 460, mentre la sezione relativa alle Onlus prevede anche un insieme di regole extratributane, gli articoli riferiti agli enti non comnierciali attengono, invece, esclusivamente alla disciplina tributaria che interviene a modificare e integrare quella già esistente.

117

Il decreto legislativo ha rappresentato, pertanto, un importante passo in avanti sulla strada delle regole per il settore nonprofit; tuttavia, è proprio da questo decreto che emergono le attuali carenze di norme civilistiche riferite agli enti operanti in questo settore.

Anche questa nuova edizione del libro di Gaetano De Vito si occupa della disciplina dei cosiddetti enti non commerciali, enti non-profit ancorché di rango inferiore a quello delle Onlus.

La presente edizione, inoltre, si caratterizza per avere effettuato un'ampia e dettagliata disamina di tutta la normativa, sia di primo che di secondo livello, emanata successivamente al decreto legislativo 46011997 dalla quale, oltre al contributo per l'esatta interpretazione delle norme di riferimento, emerge un percorso operativo volto a coadiuvare tutti gli operatori del settore.

(T I?)

GIUSEPPE FARNETI, Gestione e contabilità dell'ente locale, Maggioli, Rimini, 1999.

L'autore, ampiamente conosciuto, è attualmente vicepresidente dell'Osservatorio sulla finanza e la contabilità degli Enti locaIl volume, giunto alla sua quarta edizione, si presenta radicalmente rinnovato nel testo e negli esempi (sempre più numerosi e chiari).

Nel complesso, costituisce la trattazione più organica ed aggiornata ed esprime per tutti gli operatori un puntuale ed utilissimo punto di riferimento. Da sottolineare, inoltre, una sua specifica caratteristica quella di 118

non limitarsi ad un commento delle norme, ma di trattare organicamente il tema della gestione e della contabilità, rimarcando sempre gli aspetti maggiormente innovativi della riforma, particolarmente nei rapporti che si pongono tra il profilo giuridico e quello economico-aziendale.

Questa quarta edizione presenta poi un nuovo capitolo introduttivo, che si propone di fornire al lettore il senso del processo, che è in corso, di continuo rinnovamento ed una nuova sesta parte, relativa all'Euro. Per la prima volta sono, inoltre, ricompresi nel testo specifici interventi di autori assai qualificati, sempre con lo scopo di offrire al lettore un quadro di riferimento assolutamente preciso e completo. Ci riferiamo a: Giuncato (sul dissesto), Mazzara (sull'Euro), Nicoletti (sulla gestione dei servizi pubblici) e Silvestri (relativo ad un'esperienza del nucleo di valutazione).

Nelle sei parti (ampiamente rinnovate ed integrate) nelle quali è stato suddiviso il lavoro, poi ripartite in capitoli, ci si sofferma sull'analisi della predisposizione, gestione, consuntivazione e controllo dell'attività amministrativa. Ogni parte, di seguito sintetizzata, è stata aggiornata alla luce delle norme più recenti (agosto 1999) e della casistica più attuale:

La programmazione e le rilevazioni preventive. Viene dettagliatamente descritto il processo di programmazione ed il bilancio, mettendo comunque in luce gli aspetti di tipo economico-aziendale. Viene anche trattato il tema relativo al "patto di stabilità".

La gestione attraverso il budget. Ci si sofferma con particolare attenzione sui PEG, considerato nei dettagli operativi, anche l'individuato collegamento con la con-

tabilità economica. Questa parte, che comprende numerosi e rinnovati esempi relativi alle diverse "aree critiche" analizzate dall'Autore, costituisce una vera "guida" alla sua predisposizione.

La gestione e le sue rilevazioni. Si analizza la gestione finanziaria, degli investimenti e dei finanziamenti, nella consapevolezza delle nuove finalità espresse dal mutato quadro normativo e con rinnovata attenzione per i piccoli Comuni. La parte sul dissesto è stata scritta con grande efficacia da Giuncato. Quella sulla gestione economica dei servizi pubblici, riferita alla normativa che sta per essere emanata, è stata scritta da Nicoletti, assai conosciuto per la sua esperienza nella materia. Si introduce, quindi, la gestione economica.

11 rendiconto. Anche con riferimento a questa parte l'Autore riesce efficacemente, attraverso un'agevole esposizione, a fare comprendere il contenuto delle nuove norme, finalizzate a realizzare una gestione che sia razionale sotto il profilo economico e che utilizzano strumenti di tipo privatistico, quali i parametri gestionali, il conto del patrimonio ed il conto economico. Quest'ultimo è inoltre visto nel suo formarsi attraverso il prospetto di conciliazione, per mezzo di una analitica descrizione di tutte le sue componenti, ed in chiave operativa: in grado, pertanto, di fare finalmente chiarezza rispetto alle tante discussioni e tendenze che al riguardo si sono variamente espresse. Nel complesso, vengono fornite le indicazioni per affrontare e risolvere il problema dell'inserimento della contabilità economica in ogni ente, indipendentemente dalle sue dimensioni.

La disciplina e le rilevazioni del controllo. L'argomento è stato aggiornato con

la considerazione del d.lgs. n. 286/99 e pertanto del rinnovato sistema dei controlli, comprensivo del "controllo strategico". Il tema relativo al controllo di gestione è stato inoltre ampliato, attraverso gli esempi ed attraverso la considerazione della gestione associata dai servizi pubblici.

L'argomento viene completato con un capitolo dedicato al controllo sulla gestione (da parte della Corte dei conti), comprensivo di riferimenti specifici e con un altro relativo al nucleo di valutazione. Circa quest'ultimo, viene presentata una completa esemplificazione, ulteriormente aggiornata nei suoi dettagli operativi.

Si considera quindi l'attività di revisione, analizzando la disciplina dell'organismo di revisione, le sue funzioni ora pi'i dettagliatamente normate ed inserendo alcuni riferimenti a casi concreti.

Al termine si analizza, alla luce del diverso contesto normativo (e culturale), il mutato quadro delle responsabilità.

L'euro. L'argomento viene esposto nei suoi aspetti operativi. Anche per questo tema vengono proposte alcune esemplificazioni.

Nella consultazione del volume si è poi agevolati da una tavola che riferisce le norme del d.lgs. n. 77 anche i singoli commi, ai paragrafi del testo, alla derogabilità delle norme, nonché agli approfondimenti possibili nell'ambito delle potestà regolamentare dei singoli enti.

L'appendice, pienamente aggiornata, si presenta quale utile punto di riferimento.

In modo particolare, lo stralcio della legge n. 142/1990 comprende le modificazioni di cui alla legge 3 agosto 1999, n. 265 ed egualmente il d.lgs. n. 77/1995 è comprensivo di tutte le modificazioni che si sono susseguite nel tempo.

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Il d.PR 3 agosto 1998, n. 36, relativo ai nuovi modelli di Relazione Previsionale e Programmatica, viene infatti presentato, per la parte relativa ai Comuni e Unioni di Comuni, con la evidenziazione delle integrazioni che sono state portate rispetto al testo precendente.

Il libro si propone nel suo insieme come

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indispensabile strumento per tutti gli operatori, quali: gli appartenenti agli uffici finanziari, manager e responsabili in genere di servizi, segretari, assessori, revisori; è, inoltre, di grande aiuto anche agli stessi consiglieri degli enti, agli osservatori esterni ed ai consulenti in genere.

(L. M.)

La società Ristuccia Advisors: oltre le leggi, per accompagnare le trasformazioni della comunità locale.

Ristuccia Advisors svolge attività di consulenza e assistenza alle decisioni dell'Ente locale riguardo alla fattibilità e ai processi più adeguati per la creazione, la promozione e l'avviamento delle società di gestione dei servizi, nonché contributi all'analisi ed alla valutazione dei migliori approcci per una collaborazione dell'imprenditore privato con il settore pubblico locale.

Per il settore non-proJìt, l'attività di consulenza della Ristuccia Advisors si realizza nei confronti dei principali soggetti innovativi che lo compongono: in primo luogo, fondazioni di origine bancaria e cooperative sociali. Per essi viene svolta attività di supporto alle scelte, valutazione delle attività, miglioramento della gestione dei processi, analisi dei risultati.

Ristuccia Advisors ha promosso la creazione di un portale verticale sul mondo dei servizi pubblici locali in Italia. www.servizilocali.com Il portale verticale vuole costituire una risorsa web completa: per conoscere la realtà del mercato delle utilities in Italia, comprenderne i passaggi normativi e valutarne le trasformazioni in corso.

Il servizio pubblico non è più visto soltanto come espressione dell'attività amministrativa dell'Ente locale, ma come fattore di sviluppo economico e sociale del territorio. Luogo d'incontro tra esperienze e bisogni della comunità dei cittadini, dei soggetti istituzionali, delle imprese pubbliche e private. www.servizilocali.com è una risorsa web di documentazione ed informazione su: - risorse idriche - energia elettrica - gas naturale - smaltimento rifiuti - trasporti - farmacie comunali all'interno è possibile trovare: - documentazione legislativa e giurisprudenziale • approfondimenti su - la trasformazione dei servizi pubblici in atto - le forme di gestione esistenti - le forme di finanziamento del sistema - la raccolta delle carte dei servizi - i link a tutte le aziende dei servizi pubblici locali - i link a tutte le associazioni di difesa e tutela degli utenti • gli utenti stessi possono votare i servizi della propria città ed è possibile vedere in tempo reale l'evolversi delle preferenze • è stato aperto un forum per la condivisione di opinioni e valutazioni sui servizi pubblici attraverso il quale creare una comunità di interessi orientata al miglioramento della qualità nei settori di riferimento.

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LA COLLANA MAGGIOLI - QUESTE ISTITUZIONI Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. SIof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000 Stefano Sepe Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'UnitĂ ai nostri giorni, pp. 455, 1995, L. 58.000 AA.VV. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, L. 38.000 Sergio Ristuccia Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non profit, pp. 324, 1996, L. 48.000.

LA COLLANA MARSILIO - RISTUCCIA ADVISORS Daniele Archibugi, Giuseppe Ciccarone, Mauro MarĂŠ, Bernardo Pizzetti, Flaminia Violati - Advisory Commission on Intergovernmental Relations Il triangolo dei servizi pubblici, pp. 235, 2000, L. 38.000 Sergio Ristuccia Il capitale altruistico. Fondazioni di origine bancaria e cultura delle fondazioni, pp. 181, 2000, L. 25.000

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