Queste istituzioni 117 120

Anno XXVII - n. 117-120 - Annale 1999

questo ìstìtuzìunì 200

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I

I Servizi pubblici locali: aspettando la legge Taccuino Sergio Ristuccia, Daniela Mazzo li, Federico Pica, Nicola Giudice pietro, Pierluigi Ropolo

Contro i "cinque giganti" ancora il Welfare State?

Francesca Rossi, Gianni Lima

Fondazioni per la comunità Bernardino Casadei, Julia E. Szanton

Una società "usa e getta" Simona La Rocca, Kari I Hanninen, Simo I. Suoja

Enti locali ed economia pubblica E

Pasquale Ferro, Giancarlo Salvemini, Gherarao Magnini

Per un"Eutopìa" possibile Massimo Ribaudo, Comitato Dehaene

queste ishtuzioni rivista del Gruppo di Studio Società e Istituzioni Anno XXVII n. 117-120 (annate 1999) Direttore: SERGIO RISTUCCIA Condirettore: ANTONIO DI MAJO Vice Direttori: MASSIMO A. CONTE, FRANCESCO SIDOTI Comitato scientifico: MASSIMO DE FELICE, BRUNO DENTE,

SERGIO LARICCIA, MARIA TERESA SALVEMINI,

UMBERTO SERAFINI

Redattore rapo: SAVERIA ADDOTTA Comitato di redazione: ANTONIO CHIZZONITI, ROSALBA CORI, ALESSANDRO HINNA, BARBARA NEI'ITELLI, GIORGIO PAGANO, IGNAZIO PORTELLI, MASSIMO RIBAUDÒ, CRISTIANO A. 1IJSTUCCIA, ANDREA SPADErrA

Responsabile organizzazione: GIORGIO PAGANO .Responsabile relazioni esterne: MASSIMO RIBAUDO Segretaria amministrativa: PAOLA ZACCHINI Direzione e Redazione: Via Ennio Quirino Visconti, 20 00193 Roma Tel. 0613208732 Fax e segreteria telefonica 0613208628 -

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E-mail: quesire@xwnet.com . .. ..... .

Periodico isrittp ai registro della stam déi Tribunale di Roma al n. 14.847 (12 dicembre 1972)

Responsabile: GIOVANNI BECHEI1ONI Editore: QUES.I.RE sri QUESTE ISTITUZIONI RICERCHE ISSN 1121-3353 Stampa: SAVINI Via G.E.Rizo; 18 Roma Chiuso in tipografia il 30 gennaio 2000 -

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In copertina: el bora ~ ione al computer di Masssimq Ribaudo

Associato ali Uspi Unione Stampa Periodica Italiana

N. 117 1999

In dice

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Servizi pubblici locali: aspettando la legge

Taccuino i

Un giornalista a queste istituzioni La redazione

4

Etnobarometro: scienze sociali e conflitti etnici Sergio Ristuccia

9

Due in uno: un connubio tra Università e impresa Dtiniela Mazzoli

14

Il "Patto di stabilità" alla prova: alcuni risultati Federico Pica, Nicola Giudicepietro, Pierluigi Ropolo

Contro i "cinque giganti" ancora il Welfare State?

25

Storia del Welfare State in Italia Francesca Rossi

54

Dalla beneficenza alle politiche sociali Gianni Lima

Fondazioni per la comunità 73

Fondazioni di origine bancaria e società civile Bernardino Casadei

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Iniziative a beneficio delle comunità JuliaE. Szanton

Una società "usa e getta" 115

Un mondo di rifiuti Simona La Rocca

127

La gestione dei rifiuti urbani in Finlandia KarilHanninen, Simol. Suoja

Enti locali ed economia pubblica 159

Il Patto di stabilità interno Pasquale Ferro, Giancarlo Salvemini

184

Pareggio di bilancio e Patto di stabilità Gherardo Magnini ..

ier un tutopia possibile 201

Implicazioni istituzionali dell'allargamento Comitato Dehaene

213

"Eutopa": i nuovi compiti per l'Unione che verrà Massimo Ribaudo

Rubriche 227

Notizie da...

240

Segnalazioni

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editoriale M. 41!

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Servizi pubblici locali: aspettando la legge

Allo scorcio del XX secolo si afferma una forte spinta verso la trasformazione delle amministrazioni pubbliche intese soprattutto come i soggetti che erogano servizi pubblici. Ricerca di efficienza dopo fenomeni di anchilosi burocratica, necessità di ridurre e controllare i costi, vincoli di bilancio stringenti e maggiore competitività diffusa anche in ambiti pubblici tradizionalmente protetti, maggior coscienza ecologica, crescente scrutinio dei cittadini verso l'azione pubblica concreta a seguito della logica maggioritaria (elezione diretta dei sindaci) e del decadere di filtri ideologici: questi, tanto per citare alla rinfusa, sono fatti e fattori rilevanti della spinta alla trasformazione delle strutture di erogazione dei servizi pubblici, entro il grande quadro dell'Unione Europea e dell'unione monetaria. Al riguardo si può sentir dire, in giro per l'Europa, che il sistema pubblico è un vero "cantiere aperto".

In una situazione del genere sono necessari alcuni principi guida, occorre mettere a punto concetti e nozioni e identificare, infine, dei percorsi di metodo. E qui si incontrano le prime grandi difficoltà quando, come è nel caso, il sentiero da aprire sia sul terreno paludoso delle idee consolidate e delle prassi stancamente ripetitive.

Come cambiare, insomma. Questo sembra l'affanno che assilla amministratori pubblici elettivi e di carriera, temporanei o permanenti. Di qui l'attesa e la richiesta di leggi e norme. Mai tanta formazione è stata prodotta, a livello primario e secondario, in materia di pubbliche amministrazioni come in quest'ultimo periodo. Certamente in Italia, ma anche altrove.

Al punto da doversi oggi proporre, come avviene nei corridoi dei nostri palazzi ministeriali o nei seminari di studio, una vera e propria moratoria normativa.

Insomma, modesta capacità progettuale e timori nei confronti delle responsabilità (ovvero: la spada di Damocle di un'indagine giudiziaria) stimolano la richiesta di norme che si dice di voler chiare ma che, si intende, siano di dettaglio: tanto pRi minute e specifiche quanto più pretendano di essere innovative. Credendo in molti che così tutti siano più "coperti".

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In realtà la contraddizione è in termini: il cambiamento, le trasformazioni possono pur essere mosse da alcune idee guida, qualche volta da un ben disegnato progetto, ma molto dipendono dalle capacità creative della prassi.

Può, dunque, capitare che - come nell'ultimo faticato disegno di legge sui servizi pubblici locali (atto Senato n. 4014) - si affermino principi di grande novità ed impatto. Vediamo di che si tratta.

I punti più significativi del disegno di legge che modifica gli articoli 22 e 23 della legge 142/90, possono essere così sintetizzati.

E' stata adottata una definizione ampia di servizio pubblico locale al fine di garantire agli Enti locali - come viene precisato nella citata Relazione di accompagnamento al disegno di legge - la necessaria discrezionalità nell'interpretazione dei bisogni delle relative comunità. Si introduce, nell'ambito dei servizi pubblici locali, la distinzione tra i servizi a rilevanza industriale (erogazione di energia, con esclusione di quella elettrica, erogazione del gas, gestione del ciclo dell'acqua, gestione dei rifiuti solidi urbani e trasporto collettivo) e gli altri servizi pubblici non aventi una tale rilevanza.

Per i servizi a rilevanza industriale il disegno di legge stabilisce una serie di principi non derogabili e finalizzati ad attivare meccanismi di "concorrenza per il mercato": affidamento soio mediante gara, cui possono partecipare soio società di capitali, senza vincoli territoriali, con limiti predefiniti di durata massima degli affidamenti.

Per ogni tipo di servizio tale limite di durata è stabilito in modo da risultare inferiore al periodo necessario alla realizzazione di un coerente piano di investimento e non superiore al periodo di completamento dell'ammortamento.

Per i servizi a contenuto non industriale, invece, viene lasciata all'Ente locale la scelta tra affidamento tramite gara e l'affidamento diretto a una società controllata; si consente, inoltre, la gestione a mezzo di Istituzione per i servizi a contenuto sociale, nonché, eccezionalmente, la gestione in economia.

Sia in caso di affidamento dei servizi pubblici locali tramite gara, sia in caso di affidamento diretto, i rapporti tra gli Enti locali e i gestori sono regolati da contratti di servizio, il cui contenuto essenziale - in terminL di indicatori di qualità e di condizioni economiche - è definito da un regolamento governativo.

Anche nel caso di servizi a rilevanza industriale, vengono offerte agli Enti locali diverse opzioni di affidamento a gara per corrispondere meglio alle specificità locali: affidamento congiunto di rete e servizio, oppure affidamento separato di rete e servizio. In quest'ultimo caso, anche la possibilità per gli Enti locali associati di trasferire la proprietà della rete a una società da loro controllata che ne curi la progettazione.

Per i servizi pubblici locali a rilevanza imprenditoriale, la durata massima dell'affiIV

damento è fissata per il servizio di trasporto collettivo, in nove anni, per il servizio di gestione del ciclo dell'acqua in quindici anni, per gli altri servizi in dieci anni.

Termini diversi possono, però, essere stabiliti, per singoli settori, con i regolamenti.

Il disegno di legge favorisce l'aggregazione degli Enti locali per ambiti territoriali che garantiscano la migliore erogazione del servizio.

Si viene, invece, a dare spazio ad un reticolo fitto di normative a cascata, con dettagli di scadenze e controscadenze. Sempre nel presupposto che tutto debba essere detto nelle norme, nella logica di un paternalistico legislatore o normatore che "vede e provvede" e che, in realtà, non potendo vedere e provvedere subito con adeguata chiarezza e capacità di comporre gli interessi, realizza un meccanismo di attese e aspettative che non si realizzano. Così, dopo aver sancito i principi secondo i quali: i servizi pubblici locali di rilevanza industriale devono essere affidati a gestori scelti esclusivamente in base gara, che gli Enti locali debbano svolgere "unicamente attività di indirizzo, di vigilanza, di programmazione e di controllo", (nonché quella di "regolazione diretta"), che i rapporti fra Enti locali e gestori debbono esser regolati da Contratti di servizio anche sulla base delle Carte dei servizi; e, quindi, altri principi ancora certamente di rilievo, si passa poi a norme transitorie di gran dettaglio, a indicazioni - non ben comprensibili nelle loro motivazioni - di percentuali riferite alla partecipazione di terzi privati in società miste e, soprattutto, si fa ampio rinvio a norme che dovranno essere emanate con regolamenti. Norme spesso inutili. Per esempio: che significa rinviare a, nuovi regolamenti "gli elementi di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa" quando questi - nel quadro dei principi enucleati - sono normalmente da rimettere ai bandi e agli altri atti di gara? Al riguardo c'è già una estesa giurisprudenza. Se ne potrebbe fare un bilancio critico e magari insegnare alle amministrazioni a fare bene i bandi, capitolati disciplinari, cioè a sapere bene cosa si vuole e in qual modo lo si vuole. Fare un regolamento è molto spesso un atto di ipocrita supplenza.

Tutto ciò è un modo per ritardare, comunque, il cammino (nella speranza magari di recuperare nel frattempo i recalcitranti) o veramente rappresenta una necessità di tipo didattico? O forse è l'ennesima reincarnazione di un centralismo statale che non sa reinventare il proprio mestiere anche quando predica libertà e "mercato" e che, in ciò, cede ai desideri di "irresponsabilità" e di utilizzare - diciamo così - "pasti precotti" e magari li coltiva perché rimangano desideri ben radicati nel mondo degli Enti locali?

Sta comunque il fatto che in questo modo si nega quella libertà di prassi, e dunque di sperimentazione, che costituisce la via maestra per un buon diritto dei servizi pubblici che nasca dall'esperienza concreta, negoziale e organizzativa.

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Perché un annale

Da qualche tempo ricordiamo ai nostri lettori che queste istituzioni ha ormai una storia di venticinque anni.

Per una rivista del nostro tipo non sono pochi. Tutt'altro. Sono la dimostrazione che anche una pubblicazione con una relativa diffusione come ha la nostra —ma con una cerchia di amici e sostenitori fedeli - può continuare ad esserci e a dire qualcosa malgrado le avverse condizioni di quel mare magnum che è il mondo della stampa nel nostro Paese. Quindi, nonostante la sua "veneranda" età, queste istituzioni ha la voglia, qualcuno dei nostri amici lo definisce il coraggio, di cambiare. Di cambiare ancora una volta, poiché la Rivista, come i nostri più fedeli lettori hanno avuto modo di notare, ha vissuto altre trasformazioni in diversi momenti della sua vita. Tutte hanno coinciso con le trasformazioni che hanno riguardato, in primo luogo, le persone che, di volta in volta, l'hanno promossa e sostenuta: quelle che vi hanno lavorato o che semplicemente hanno dato una mano.

Dunque, siamo alla vigilia di un nuovo cambiamento: un'altra grafica ma soprattutto un assestamento dell'impostazione editoriale. Dopo un ritardo di qualche mese, pubblichiamo 1 'unico fascicolo per il 1999: un annale, appunto.

Questo periodo di apparente riposo ci è servito per lavorare a quello che sarà il primo numero di una nuova serie che, appunto, con una veste grafica rinnovata (più "all'altezza dei tempi"), vuole rispondere ad un nostro nuovo progetto. Intendiamo, infatti, porre in maggiore consonanza la Rivista con la cultura professionale di cui la Società di ricerca e di consulenza che la pubblica è, insieme, parte ed elemento di promozione. Per questo, continueremo ad analizzare i punti critici della vita istituzionale e amministrativa ma con una maggiore attenzione alla risoluzione cli problemi concreti.

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taccuino

Un giornalista a queste istituzioni La redazione

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i ritorno dalle vacanze estive abbiamo fatto il consueto "giro di telefonate" agli amici della Rivista. Chiamando Antonio Chizzoniti e non trovandolo a nessuno dei suoi telefoni, abbiamo avuto la brutta sensazione che fosse successo qualcosa di serio. Poi abbiamo saputo che non era più fra noi, scomparso - si potrebbe dire - con quella grande discrezione che ci eravamo abituati a conoscere.

Fra i collaboratori di queste istituzioni, Chizzoniti, benché fosse giunto fra noi ad "una certa età", era, in realtà, fra i più giovani. Per la sua vitalità intellettuale da giornalista, abile e curioso. La sua scrittura, poi, aveva catturato. Una delle frasi ricorrenti, nelle riunioni di redazione o a margine di esse, era che "ci volevano più Chizzoniti nella rivista". Era dotato, infatti, di una scrittura chiara e piacevole, che coinvolgeva il lettore a prescindere dal tema trattato. E anche in questo, Antonio mostrava una versatilità incredibile. Senza essere superficiale (poiché era evidente che i suoi articoli erano frutto di una scrupolosa preparazione), riusciva a parlare di argomenti fra loro molto diversi: di vari aspetti istituzionali ma anche di gestione delle acque, di mafia russa e di professioni. Insomma, Antonio ha sicuramente interpretato al meglio il tentativo di non fare una rivista di specialisti odi studiosi ma, in qualche misura, un giornale. Cioé un mezzo per seguire gli eventi cercando, però, di comprenderne radici e sviluppi.

Abbiamo chiesto a Massimo Conte, che ha introdotto il nostro amico nella redazione di queste istituzioni, di scrivere una pagina per ricordarlo. È il saluto che non siamo riusciti a darti, Antonio.

Se n'è andato un gentiluomo, se n'è andato un cittadino per bene, se n'è andato un ottimo giornalista, un uomo di cultura. Se n'è andato un amico. Venerdì 23 dellò scorso luglio Antonio Chizzoniti ci ha lasciati. Era tardo pomeriggio in casa di amici. Antonio stava giocando a bridge, una delle sue più recenti passioni che aveva affrontato con impegno, ma senza prendersi troppo sul serio, com'era suo stile.

Era diventato veramente bravo, concordano i suoi abituali compagni di carte: nel bridge ci vuole intelligenza, razionalità, fantasia, eleganza. Inutile è stata la corsa al Policlinico Umberto I: il cuore gli ha giocato l'ultimo e fatale dispetto, dopo tante, troppe prove cui l'aveva costretto a sottoporsi. Ma anche in questo, Antonio era sempre riuscito a conservare l'ironia di sé. Compresa la scelta di smettere di fumare che, in qualche modo, toglieva qualcosa alla sua aria di gentiluomo del Sud. E questo, Antonio, lo sapeva bene, ma sapeva conservare il suo stile inconfondibile, nel tempo libero con gli amici, come nella concretezza puntigliosa della professione.

"Scapolone impenitente", amava frequentare donne , splendide, interessanti, realizzate professionalmente. Soltanto di recente confidava il suo dubbio alle persone più care: "È vera vita quella che, dopo, non lascia nessuno?". Antonio ha lasciato un fratello e l'anziana madre che, fino all'ultimo, ha seguito con profondo affetto.

Nato a Reggio Calabria il 31 gennaio 1930, come molti figli della borghesia meridionale s'era lasciato attrarre dall'effervescenza della cultura napoletana: dopo gli studi di Giurisprudenza, della metropoli partenopea aveva assorbito eleganza e sensibilità, che aveva trasferite, giovanissimo, nell'impegno civile, nel credo politico, nella professione. Prima cronista per l'Agenzia Italia, poi per il Mattino. Una volta raggiunta Roma, dopo un periodo presso la redazione romana del quotidiano napoletano, era passato all'agenzia AdnKronos come caposervizio politico, per poi diventarne caporedattore centrale. Furono anni molto importanti, questi, per Antonio - e per chi aveva la fortuna di frequentarlo - sempre in grado di discernere il bene dal male, sempre alla ricerca della trasparenza, del meglio: furono gli anni di Astrolabio, deglLstudi politici, dell'impegno sindacale.

Raggiunta l'età della pensione, Antonio non volle abbandonare la sua scrivania di cronista parlamentare nella sala stampa di Montecitono, di cui era ormai uno dei decani, sempre rispettato, consultato, apprezzato. E poi, Antonio non sapeva dire di no a nessuno: così fu-

rono numerose le iniziative editoriali che prosperarono grazie all'esperienza e alla generosità del "vecchio Chizzoniti" e, soprattutto, fu "l'ultimo" Paese Sera, avventura cui si dedicò veramente anima e corpo, nonostante la salute cominciasse a lanciargli i primi avvertimenti. E furono anche gli anni di queste istituzioni, dove Antonio seppe portare in dote la memoria storica del politico di razza e del giornalista a trecentosessantagradi, e dove trovò lo spazio per scrivere, finalmente, articoli lunghi. E dove trovò, come sempre, tante persone che gli vollero subito bene.

Etnobarometro:scienze sociali e conflitti etnici di Sergio Ristuccia Intervento al Seminario "Europa: la sfida etnica ' organizzato a Torino, il 12 luglio 1999, dalla Compagnia di San Paolo.

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opo i relatori che mi hanno preceduto - che hanno appassionatamente posto l'accento sui drammatici problemi che sorgono nei Paesi dove le diverse etnie sono in tensione o conflitto - spetta a me illustrare, e nello stesso momento commentare, alcune parti del primo rapporto di Etnobarometro. Non senza precisare che il mio personale contributo al progetto, quale presidente del Consiglio italiano per le Scienze Sociali, è stato quello di impegnare il Consiglio stesso sui tema dei conflitti etnici. A questo riguardo, devo esprimere tutto il mio ringraziamento alle Fondazioni che hanno sostenuto l'iniziativa: alla fondazione che ha avuto il mrito di avviare if progetto all'inizio, cioè la Fondazione Un progetto Europea della Cultura di Amsterdam (all'eppca Raymond Georis ne delle era Segretario Generale) e alla Fondazione che ha poi assunto in Fondazioni maniera molto convinta il compitò di portare avanti il progetto, cioè la Compagnia di San Paolo. A questa, si sono affiancate in Italia la Fondazione CARIPLO e la Fondazione Adriano Olivetti. E devo, con l'occasione, ricordare quanto del progetto fosse convinto l'amico Gianni Merlini che non è più fra noi. Alla sua memoria vorrei dedicare queste mie parole.

Direi, come prima osservazione, che il progetto Etnobaromtro rappresenta un esempio di quel che può essere il giusto contributo degli scienziati sociali all'elaborazione ed attuazione di buone politiche pubbliche.

Il tema dei rapporti interetnici ha assunto quella centralità e drammaticità che è già stata sottolineata ed è ormai uno dei temi fondamentali di attenzione per i decision makers di varie istituzioni e livel- La centralità li di governo. Il contributo degli scienziati sociali mi pare di assolu- del tema ta importanza. Il complesso delle ragioni in campo e delle percezio- rapporti ni dei fenomeni che la scienza sociale può alimentare rispetto alla enteretnici 4

varierà delle situazioni devono essere colte e interpretate con grande tempestività e scrupolo analitico. Ne deriva, per gli scienziati spciali, una particolare responsabilità: non solo per la diagnosi e la rico gnizione dei fenomeni, ma anche per i suggerimenti in ordine alla soluzione dei conflitti.

Veniamo ad un rapido schizzo del progetto.

Etnobarometro è partito un anno e mezzo fa a seguito di una precedente iniziativa, (che appunto aveva visto nella European Cultural Foundation il suo promotore e poi nella Commissione di Bruxelles il co-finanziatore), volta a fare una accurata ricognizione di tutti i principali centri di studio e degli studiosi di maggior spicco che in Europa (questa intesa come Europa "larga") si occupano di conflitti etnici.

Furono a quel punto creati dei collegamenti importanti che hanno fruttato la nascita di un net'work di grande rilievo che - oggi possiamo dirlo - ha un buon affiatamento nello svolgimento dei lavori in cantiere. Da tale network è nata la proposta di un insieme di ricerche in continuo e costante aggiornamento sullo stato delle tensioni Tensioni sociali e dei conflitti interetnici, nel Continente Europeo: conflitti sociali e che nascono a seguito dei flussi di immigrazione così come di pii conflitti sedimentate e storiche tensioni, determinate dal confronto irrisolto, etnici entro un medesimo territorio, di etnie diverse.

Il primo Rapporto presentato è il frutto del primo anno, anno pilota, anche se in realtà i mesi di lavoro sono stati almeno 18; Un lavoro che non sarebbe stato realizzato senza l'apporto convinto e 'fondamentale di quello che uso chiamare spesso "volontariato cultura-, le". Le risorse, per quanto generose, sono ammontate a circa 300 mila Euro: certo non tali da consentire un'operazione che non si fosse anche avvantaggiata di convincimenti profondi anche di tipo personale. Ma è questo il carattere "etico", che mi piace sottolineare in Etnobarometro, qualità importantissima nelle imprese di ricerca e di studio di questo tipo.

Non sono stato fra gli autori del Rapporto. Posso, quindi, fare alcune considerazioni suggerite dalla sua lettura. Innanzitutto, alcune considerazioni sull'analisi e il metodo diagnostico.

A questo riguardo mi pare notevole il tentativo di una interpretazione generale del fenomeno dei conflitti etnici, - certamente ricchi di sfaccettature e con radici storiche complesse -, come conflitti so-

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ciali. Una volta che sono venuti meno, o comunque non sono pRi qualificabili come tipici delle società contemporanea, i conflitti di classe, il conflitto sociale nell'epoca della "globalizzazione" trova nel conflitto delle identità etniche una sua nuova incarnazione. Poderosa ma frammentata.

Rispetto all'interpretazione complessiva del fenomeno, il Rapporto non esita ad essere severo con le proprie "origini", cioè con le stesse scienze sociali. Che sono, sostanzialmente, afone. Si parla di una rilevante povertà delle scienze sociali per quanto riguarda l'analisi complessiva del fenomeno. A proposito di tale questione, ritengo, così come gli autori del Rapporto, che solo una costante, reiterata indagine quale è quella che il progetto Etnobarometro propone, può consentire un approfondimento reale delle trasformazioni in atto. Siamo di fronte ad un complesso di fenomeni che non consente salti verso una costruzione teorica, se si prescinde da una lettura attenta e costante dei dati e delle realtà colte nel loro sviluppo.

Rimane l'evidenza, in prima approssimazione, di un ritorno al nazionalismo. Ma mi sembra nel giusto, il Rapporto, quando parla di internalizzazione delle identita etniche come fondamento concettuale non tanto di "Stati etnici", ma di "feudi etnici": che sono qualcosa di profondamente lontano dalle conquisce della democrazia contemporanea.

In relazione a questo "nazionalismo", rimane l'erompere evidente dei sedimenti della storia nel vissuto sociale. Un erompere che non sembrerebbe in linea con quella memoria corta della società attuale governata dall'informazione mediatica. Il che sorprende, e convince ad una multidisciplinarietà, che includa ampiamente anche i contributi d'ordine storiografico. Come giustamente ha ricordato Lorenzo Caselli aprendo questo seminario -' siamo forse di fronte ad una vittoria della lezione braudelliana sull'importanza della storia di lungo periodo.

Ilruolo delle scienze sociali

Ma veniamo al tema dei contributi del Rapporto sul piano propositivo. Ecco, qui partirei da un'osservazione, che a me pare felice, delle prime pagine del Rapporto: si osserva che il governo di società multietniche è oggi al primo posto nell'agenda di molti Stati, che pure si sono considerati fino ad oggi fuori da conflitti del genere, perché sostanzialmente, cioè culturalmente e storicamente, omogenei.

Ebbene, tutte le situazioni sociali e statuali apparentemente com-

Cosa ha rilevato il Rapporto

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patte cominciano aincrinarsi. Si pone, per tutti, il problema del governo della multiculturalità e della multiernicità.

Una corretta definizione dei conflitti etnici abbraccia in sé tutte quelle tensioni sorte da rivendicazioni, comunque percepite e contrastate, che creano dispute sociali e vengono fatte in nome dei gruppi etichettati e acquisiti come "differenti" nei confronti di quegli altri contro cui le rivendicazioni sono fatte.

Allora, ciò precisato, quali logiche di intervento vengono suggerite da questa prima ricognizione del fenomeno compiuta dal primo Rapporto di Etnobarometro?

Gli interventi Si tratta, ovviamente, di indicazioni di amplissimo spettro. Lette in chiave di politiche da impostare, al di là delle premesse fondamen- pròposti tali del recupero di valori etico-morali irrinunciabili (recupero al quale, personalmente, sono estremamente sensibile e che condivido), c'è,. a mio giudizio, un'indicazione precisa: essendo diffuso il problema sociale dei rapporti etnici, questo andrà affrontato, sulla base del principio di sussidiarietà a tutti i livelli di governo dove sia possibile ricercare concrete soluzioni. Innanzitutto, il livello comunitario. C'è, al riguardo, il ruolo internazionale complessivo dell'Unione Europea: un tema su cui si rifletterà parecchio, a seguito della recente guerra per il Kossovo. C'è il tema connesso, ma anche più specifico, dell'allargamento dell'Utiione, un allargamento destinato in qualche modo a rafforzare il peso dei conflitti e delle tensioni etniche come conflitti e tensioni che possono diventare "interne", direttamente recepite nell'Unione.

Ma si tratta soprattutto di tensioni e conflitti a cui, probabilmente, una politica di allargamento può dare una giusta risposta, un giusto sbocco, attenuandone la portata.

C'è la questione ancora a livello di Unione - ed è questione centrale - della cittadinanza europea. Tema che è stato sottolineato dal Trattato di Amsterdam, con sviluppi significativi, e che per alcuni aspetti contrastanti, sarà centrale in una politica relativa alle migrazioni, con gli effetti e i rischi di internalizzazione dei conflitti.

Fin qui il livello comunitario. Ma c'è anche il livello nazionale, che al momento risulta il più vissuto, dato che ie politiche di controllogoverno dell'immigrazione sono appunto diventate, per le ragioni che prima abbiamo ricordato, prioritarie nell'agenda politica.

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C'è infine un terzo livello, che io credo assolutamente importante, proprio all'interno delle valutazioni da fare in base al principio della sussidiarietà: e che direi non è ancora ben percepito e avvertito. Il livello locale e metropolitano. Ritengo che fra i meriti del primo rapporto di Etnobarometro ci sia quello di aver segnalato il tema dei conflitti etnici come fenomeno urbano, come problema cruciale dello sviluppo delle città euròpee. Direi anzi che, in prospettiva, è di granderilievo che questo tema sia sempre più approfondito perché sono del tutto convinto che qui, nell'ambito delle politiche urbane, si ponga in realtà il problema vero delle risposte giuste e concrete ai conflitti etnici.

Oggi, a dir la verità, al di là dei temi che si usano chiamare dell'accoglienza o della sicurezza urbana, che sono veri ma normalmente condizionati dall'emergenza, cioè dallo scoppiare improvviso di problemi di difficile convivenza urbana, non si può proprio dire che esistano negli Enti locali, (anche quando si tratti di grandi aree metropolitane), una riflessione sufficiente ed una messa a punto adeguata di interventi.

Insomma, il problema delle conseguenze dei conflitti etnici è solo in parte un problema di politiche internazionali, lo è anche di politiche locali nella misura in cui essi provocano imigrazione. Oggi che, per esempio, i Comuni, (parlo di quelli italiani ma la situazione si ripropone in maniera egualmente severa in tutta Europa), sono chiamati a rivedere le loro politiche di "welfare municipale" come si usa dire, e cioè di tutti gli interventi di tipo sociale sul territorio; credo che il tema delle tensioni sociali entri a pieno titolo nelle priorità dell'agenda locale e metropolitana.

Posso, quindi, ricavare una facile conclusione: il progetto di Etnobarometro richiede un lungo, ulteriore e faticoso lavoro. Sono molti i decision makers coinvolti che hanno bisogno di informazioni di questo tipo (non solo quelli pubblici ai vari livelli di governo ma anche i decision makers del mondo delle imprese). Immagino, perciò, che Etnobarometro possa dare il suo contributo nella collaborazione con le istituzioni che a questo stesso tema sono dedicate e con il supporto rinnovato delle principali Fondazioni europee.

Due in uno: un connubio tra Università e Impresa di Daniela Mazzoli

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1 potere è sempre teleologico: tende, cioè ad un fine. E ciascuna impresa costruisce le basi e la struttura del proprio edificio popolare o grattacielo che sia - in previsione delle mete da raggiungere, dei tempi e dello "stile" di chi vi collabora. Esistono, infatti, e convivono, imprese di diversa natura: quelle senza scopo di lucro e quelle che puntano ai più alti guadagni, imprese il cui unico intendimento è di apportare benefici ai propri clienti, e imprese che trovano nel potere, concepito già di per sé come valore assoluto, l'unico obiettivo e premio alla fatica compiuta. In ogni caso, da Lo stile del qualunque angolazione si voglia analizzare la questione, resta il fatto potere che attorno al potere, in tutte le fasi e gli aspetti più o meno conosciuti, possono ruotare, e di fatto ruotano, i movimenti economici, sociali e culturali della società contemporanea. Esso ha moventi e intenzioni precise, alcune contemporanee allo spirito di antagonismo da sempre vivo nell'indole degli umani, altre relative alle circostanze e alle occasioni che le generano.

Con questa realtà, più pratica che teorica, deve fare i conti chiun- Università e que intraprenda la via dell'iniziativa privata dando vita a piccole e Impresa medie società di servizio. Le difficoltà, che sono già molte quando lo scopo a cui tendere sia tutto chiuso nella specificità di un preciso settore, si moltiplicano con rapidità esemplare se il campo d'azione predilige ambiti del potere formalmente distanti, come quelli della produzione economica e dell'educazione dell'anima. Trovare punti di raccordo e di reciproca assistenza tra sistemi diversi per struttura e per fini è stato il cruccio di molti intellettuali, filosofi e politici.

Lo è stato anche per uomini intuitivi e coraggiosi che hanno rischiato per anni di prendere parte al fallimento di un progetto in grado di sintetizzare un dualismo così schiacciante. A queste e ad altre considerazioni conducono le pagine di Antonio Sàenz de Miera, che titolano con "Lafabrica del saber", volume edito dalla Fondazione Universidad-Empresa, una serie di puntuali e accattivanti testimonianze in proposito.

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Tutto sta, sembra voler suggerire il saggio - nato per la commemorazione dei primi venticinque anni di attività della Fondaciòn Universidad-Empresa della quale Sàenz de Miera è fondatore e presidente - nell'individuare i movimenti economici e culturali determinati dalla storia e dagli eventi che il potere stesso provoca o subisce.

Questo, che è più di un resoconto, serve all'autore come promemoria e sintesi delle accumulate memorie e acquisite esperienze sul terreno di una iniziativa che ha visto, appunto, collaborare in Spagna, con mezzi diversi ma su fronti di comuni interessi l'Università e l'Impresa. Oltre alle note inevitabilmente biografiche, "La fabrica del saber" propone al lettore gli orizzonti e le osservazioni di uno sguardo attento alle trasformazioni sociali e istituzionali, che danno modo di riflettere e di interrogarsi su quali siano stati e quali potrebbero essere, proiettati al futuro, i pretesti o più fondati e sinceri motivi di collaborazione tra i produttori di beni e quelli di cultura.

Una Fondazione "ad hoc"

Lavventura di una collaborazione su territorio spagnolo tra l'università e il mondo dell'impresa nasce nel 1965, in occasione di un viaggio e di un'esperienza, per molti versi fondamentale, che Sàenz de Miera compì negli Stati Uniti, durante il quale ebbe modo di constatare come il lavoro reciproco di mutuo soccorso tra questi due momenti istituzionali della vita pubblica fossero dati quasi per scontati, senza che nessuna delle parti in causa sentisse negli interventi dell'altra la pur minima illegittima invasione. Negli Stati Uniti, Sàenz de Miera si rese conto che l'integrazione fra il ruolo di chi educa e quello di chi produce non solo non era impossibile ma si rivelava addirittura vantaggiosa e benefica per la crescita della società nei suoi molteplici e diversificati aspetti. Quindi, una volta tornato in Spagna il primo passo fu naturalmente compiuto nel tentativo di poter riprodurre anche lì quella fruttuosa armonia statunitense, adeguando il bel meccanismo di cui aveva visto e apprezzato il funzionamento ai mezzi e alle possibilità reali del proprio Paese.

Il racconto del percorso effettuato alla ricerca di una formula giusta per la nascita e la crescita della Fondazione, a tratti aneddotico e possibilmente fruibile in una piacevolissima lettura serale, serve, forse anche meglio dei libri addetti cui manca l'occasione di essere personali, a immaginare quale potesse essere la situazione sociale e culturale del Paese negli anni Settanta. Erano quelli, dice l'autore, "tiempos de convulsiòn y de reajustes". E non solo in Spagna.

C'era una volta.., in America

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Gli ostacoli li Limpegno di mettere l'Università e l'Impresa l'una a servizio dell'alsupera la tra trovò nel cammino pii di un ostacolo, sia perché le istituzioni, come spesso capita, si mostrarono impreparate ai mutamenti e poco storia disponibili alle innovazioni, sia perché il clima, anche all'interno della stessa università, viveva momenti di grande tensione e difficoltà, chiusa come si trovava nella rete di dibattiti ideologici e di natura politica.

Sta di fatto che la storia portò inevitabilmente, e senza che lo si potesse arrestare, a un processo di apertura e modernizzazione tecnologica in base al quale molte delle cose che a fatica si sarebbero immaginate trasformabili in effetti, invece, si trasformarono. L'impresa europea si preparava a vivere uno dei momenti pii difficili ma anche dei pii felici del secolo. Si vide, intanto, in qualche modo costretta a giocare d'anticipo rispetto alle richieste e ai tempi serratissimi del mercato. L'evoluzione e il progresso della macchina produttiva, dal boom degli anni Sessanta in poi, ma specialmente in tempi pRi recenti, fece sì che oltre ai mezzi e agli strumenti tecnici subissero un processo di innovazione e miglioramento anche gli elementi realmente "vivi" dell'intero ingranaggio.

La novità, forse la pRi importante insieme a quelle di carattere "tecnico", fu nella diversificata necessità di materiale umano. Il fattore primo di ogni bene prodotto, cioè, veniva man mano e inevitabili mente cni iamato aai una partecipazione aai eguata aiii»imponente lavoro di modernizzazione del lavoro sociale, e a modificare, quindi, i propri ritmi produttivi e le proprie competenze rispetto all epoca precedente, in cui l'impresa non aveva ancora formulato le promesse che coraggiosamente poi cercò di mantenere. Si andò verificando, in un processo che dura e si affina tuttora, secondo le testimonianze ricavate da alcune indagini sull'argomento, un calo fortissimo della domanda di lavoro manuale; il che pare assai ragionevole se si pensa che gran parte della produzione in fabbrica è stata progressivamente integrata, quando non del tutto sostituita, con l'introduzione di macchinari meno costosi degli uomini e quantitativamente più efficaci. In altre parole, il tipo di opera richiesta a livello d'impresa è risultata essere sempre.più orientata a un impegno di tip0 mentale, intellettuale.

Oggi, la società industriale sta fragorosamente cedendo il passo a

L'homo novus

usa la testa e 1 operaio perde ie mani

il

quella informatica e telematica, e l'immagine dell'operaio, sollecitato soprattutto ad una resa in termini di forza fisica, sta cambiando.

Il fatto che si cerchino sempre più frequentemente prestazioni garantite da una preparazione non occasionale, da un'attenzione costante, continua e aggiornata, non è solo il riflesso di una modernizzazione che consenta di pensare più realisticamente al futuro: esso presuppone e implica evoluzioni sul piano della cultura, oltre che su quello economico.

Si capisce bene allora perché, nell'ottica di una società che si va trasformando nel senso di una produzione e di un consumo ininterrotto di notizie e nozioni, l'Università occupi un posto privilegiato.

Essa, infatti, ha per sua natura e vocazione il compito di formare le menti cui spetta il funzionamento e la crescita della società prossima attuale; dispensa - quando può e quando sa - elementi della cultura per via ereditaria, empirica e teorica. Il supporto delle idee ma anche lo stile di una preparazione che non sia semplicemente una questione di forma, ma insieme di contenuti, fa sperare che alla vita "perfetta" del millennio che stiamo aspettando collaborino non unicamente le reti informatiche, e la comoda rapidità di ogni mezzo che serva ad alleviare distanze e separazioni, ma il valore di un'autentica alternativa umana.

L'Università, come Pigma!ione, plasma la sua musa

In questo senso, dopo aver percorso l'analisi attenta e affezionata che Sàenz de Miera propone, ci si convince che all'istituzione universitaria, "la fabbrica del sapere" appunto, che detiene in Spagna, ma anche nel resto dei Paesi europei, il primato dell'informazione culturale, della preparazione professionale nel campo della ricerca e in quello della sperimentazione, tocchi l'onere di aspettative mirate e non poco ambiziose. In vista di simili progetti, la collaborazione tra Università e Impresa, che non ha sempre goduto la chiarezza necessaria ad essere gestita, assume forza e prospettive nuove. Lambiguità che spesso, nei venticinque anni della Fondazione, il suo presidente ha potuto più volte toccare con mano, a scapito delle migliori intenzioni, lasciando confusi i margini del chi producesse cose per chi, oggi sembra gradualmente cedere il passo ad una intesa meglio definita.

Sommare i pregi, correggere gli ambigui confini

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La fusione di due anime in un corpo » senza che l'espressione faccia Il tempo è pensare a miracolose epifanie, sembra, una volta giunti all'Epilogo, nostro alleato possibilità sincera e ragionevole al miglioramento qualitativo della vita collettiva, e realtà a tratti tangibile nelle opere realizzate da menti ostinate e felici. Giocano, poi, a vantaggio di un tale connubio il fatto che l'Impresa abbia iniziato - burocrazia a parte - a fruire la consulenza preziosa del pensiero e dell'indagine, che l'Università sia capace di produrre "beni di mercato" come qualsiasi altra attività e che - per chiudere con parole di Althusser diligentemente citate dall'autore - "il futuro dura molto tempo".

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I risultati di un "Patto" di Federico Pica, Nicola Giudicepietro, Pierluigi Ropolo

Il presente articolo analizza i risultati del cosiddetto "Patto di stabilità" sul quale presentiamo un approfondimento in uno dei dossier che seguono.

art. 26 del disegno di legge finanziaria 2000 approvato dal Senato conferma, salvo specificazioni sia pure rilevanti, l'impianto dell'an. 28 della legge 448/98 (finanziaria L'oggetto è il "patto" di stabilità interno, con il quale è stato 1999). stabilito che gli enti del decentramento istituzionale concorrano alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica che il Paese ha accettato con l'adesione all'Unione europea.

In questa nota intendiamo proporre alcuni primi riscontri relativi agli effetti 1999 del "patto". Essi confermano talune, sia pure minoritarie opinioni, quali erano state manifestate allorché il disegno di legge finanziaria 1999 era divenuto noto. Allora, il "patto" di stabilità interno, anche per chi era del tutto persuaso della plausibilità dell'impegno richiesto agli Enti locali di "ridurre progressivamente il finanziamento in disavanzo delle proprie spese", oltre che di.ridurre il proprio debito, parve come un esercizio estemporaneo di alta tecnica contabile, dai connotati alquanto astrusi, ma dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.

Le varie circolari emesse di concerto tra il Ministero dei Tesoro e Una norma quello dell'Interno nei primi mesi del 1999, se da una parte acuiro- sottovalutata no l'impressione di fantasiosa eccentricità nel calcolo dei finanziamento in disavanzo (che in alcuni enti si rivelò utilizzo di avanzo), dall'altra parte tranquillizzarono fortemente i soggetti interessati.

Era in particolare modo rassicurante l'avvertenza che "il patto impone oneri e non obblighi" e che "le indicazioni contenute nell'art.

28 non costituiscono requisito di legittimità dei documenti di bilancio". Si era voluto dare, con la norma in oggetto, l'indicazione di una tendenza, senza che ciò comportasse uno specifico contenuto precettivo. La manovra di bilancio 1999 era dunque salva dall'attacco dei Comitati Regionali di Controllo.

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Di qui a sottovalutare colpevolmente la portata della norma il passo è stato breve. A poco sono valsi, evidentemente, i richiami contenuti nelle medesime circolari al fatto che le prescrizioni dello stesso articolo "sono rilevanti dal punto di vista della responsabilità finanziaria in cui gli enti possono incorrere in caso di mancato raggiungimento dei risultati desiderati". La verifica sull'andamento dei conti operata dal Ministero dei Tesoro al 30 settembre 1999 evidenzia, infatti, uno scostamento di circa 1.100 miliardi di lire rispetto ai risultati attesi.

Le difficoltà per gli enti, ed in particolare modo per quelli di mino-. ri dimensioni, in ultima analisi consistono nel punto che il saldo finanziario - determinato ai sensi dei comma i dell'art. 28, come meglio specificato nella circolare del 12 marzo 1999 e come appassionatamente e brillantemente illustrato nella nota illustrativa diramata dal sottosegretario prof. Piero Giarda -, non convince. Ai più la definizione del saldo appare addirittura stravagante.

Nel Nord d'Itali viene accettato il riferimento ai dati di cassa, che Risultati deriva dagli impegni assunti in sede comunitaria; viene compreso, inappropriati altresì, dai più l'inserimento nel calcolo dei proventi delle entrate a Nord iii r i.

1 correnti, ancne ai netto aei contrlDuti statali ea ii ioro conrronto eaSud con i pagamenti per spese correnti, assunte al netto degli oneri per interessi. In assenza dei movimenti in conto capitale sui lato della spesa (ovvero degli investimenti) proprio non si riesce a comprendere, invece, quale significato possa avere l'inserimento tra le entrate finali dei movimenti in conto capitale, sia pure al netto dei trasferimenti dello Stato, della riscossione dei crediti e dei proventi della vendita di attività finanziarie.

Nel Sud d'Italia, non persuade il riferimento ad una nozione di disavanzo in cui non sono presi in conto, sul lato delle entrate correnti, i trasferimenti erariali. Per come è scritta la norma (e cioè prescindendo dalla "lettura" di essa proposta nelle circolari), il criterio determina rischi éd oneri relativamente maggiori per gli enti che in maggiore misura finanziano le loro spese con risorse trasferite. Si noti che parte sostanziale di queste risorse è collegata all'istituzione, nel 1993, dell'Ici e alla contestuale abolizione dell'ILOR. Questa operazione ha prodotto, in talune zone, un minore gettito Ici che è stato compensato da maggiori trasferimenti. La progressività sul 15

territorio dei tributi aboliti (ILOR ed INVIM) e di quello introdotto comporta l'attuale distribuzione dei potere tributario tra gli enti, senza che vi sia particolare "colpa" di alcuno che oggi abbia senso sanzionare.

La situazione di fatto, per il caso concreto di un Comune meridio- Un caso nale, il cui nome non viene qui indicato per evidenti ragioni di ri- concreto servatezza, è mostrata nelle Tabb. 1 e 2. I dati concernenti l'ente meridiònale sono emblematici. Risulta, anzitutto, la cruenta decurtazione, per cassa, dei trasferimenti 1997, che sono pari a 105 milioni di lire. Essa determina un disavanzo, calcolato come saldo contabile tra entrate finali e spese correnti complessive, superiore a 10 miliardi, e cioè al 30% delle spese correnti. Il livello fisiologico dei trasferimenti, come risulta dal dato 1998, è appunto uguale a 10 miliardi.

Evidentemente, l'operazione del 1997 non è bastata, tant'è che si prefigurano vincoli per il 2000 e che, a partire dal 1999, è stato introdotto il "patto di stabilità". Dal raffronto, di cui alla Tab. 2, tra il 1998 e il 1999 risulta che il Comune di cui si tratta non è nelle condizioni, nel 1999, di ottemperare alla norma di cui all'art. 28 della legge 488198: il "disavanzo", definito secondo i parametri del "patto", cresce di circa il 15%.

L'ente dell'Italia meridionale, in realtà, ha un beneficio visto che il riferimento stabilito nel comma 4 dell'art. 28 della legge 448/1998 è al dato 1998. Infatti, fortunatamente, il 1998 chiude assai peggio del 1997 (saldo negativo, secondo il "patto", di 9.346 milioni nel 1998 contro un saldo negativo di 7.764 milioni del 1997). Abbiamo proposto il dato 1997 non per mero esercizio, ma per mostrare la casualità, che è ancora più evidente per l'ente dell'Italia settentrionale, del punto di partenza della "manovra" e, perciò, l'arbitrarietà nella misura dell'impegno che viene richiesto agli enti.

La Tab. 2 mostra, per l'ente meridionale, i risultati del primo semestre 1999: il "disavanzo", calcolato escludendo dalle entrate i trasferimenti, passa da 4.025 milioni nel I semestre del 1998 a 4.619 milioni nel corrispondente periodo del 1999.

Si tratta di un Comune attrezzato, consapevole e che ha fatto ogni sforzo. Esso è, secondo le regole della contabilità locale (e cioè senza fare ricorso ai particolari "ritrovati" del "patto") tutt'altro che in sof16

Tabella i - Ente dell'Italia meridionale.' saldi 1997 e 1998 e saldi programmatici 1998 e 1999 (gestione di cassa)

A B C D E F

G H I L M N O

ENTRATE Entrate finali (Titoli 1, Il, III, e IV) Trasferimenti ordinari, perequativi e consolidati (parte Titolo Il: Categ. 1) Trasferimenti in conto capitale dallo Stato (Titolu IV: Categ. 2) Proventi della vendita di attività finanziarie (parte Titolo IV: Categ. 1) Riscossione di crediti (Titolo IV: Categ. 6) Totale entrate (A-B-C-D-E) SPESE Spese correnti (Titolo 1) Interessi passivi Totale spese (G-H) SALDO 1997 e 1998 (F-l) Saldo tendenziale stimato per il 1998 e per il 1999 (a) Intervento correttivo richiesto (b) SALDO PROGRAMMATICO (M + N) per il 1998 e il 1999

Anno 1997 (milioni di lire)

Anno 1998 (milioni di lire)

21.500

36.800

105

9.281

19

959

0 0 21.376

0 .0 26.560

31.465 2.325 29.140 -7.764 -8.044 321

38.728 2.822 35.906 -9.346 -9.682 395

-7.723

-9.287

(a) Importo di cui alla riga L moltiplicato per 1,036. (b) Importo di cui alla riga I moltiplicato per 0,011

Tabella 2— Ente dell'Italia meridionale: saldo di cassa ai secondo trimestre 1998 e 1999 (in milioni di lire) A tutto il 20 trimestre 1998

A B C D E F

G H i

L

ENTRATE Entrate finali (Titoli I, Il, III e IV) 16.432 Trasferimenti ordinari, perequativi e consolidati (parte Titolo Il: Categ. 1) 4.750 Trasferimenti in conto capitale dallo Stato (Titolo IV: Categ. 2) Proventi della vendita di attività finanziarie . (parte dei Titolo IV: Categ. 1) Riscossione di crediti (Titolo IV: Categ. 6) 11.682 Totale entrate (A-B-C-D-E) SPESE Spese correnti (Titolo 1) Interessi passivi Totale spese (G-H) SALDO (F-I)

.

17.137 1.430 15.707 -4.025

A tutto il 2° trimestre 1999

23.391 7.448 147 86 15.710

21.036 707 20.329 -4.619

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ferenza finanziaria. Ciò nonostante, l'ente meridionale non riceverà benefici; esso rischia, anzi, di essere penalizzato secondo le regole del comma 8 dell'art. 28 della legge 448/98.

Nel caso (emblematico) dell'ente meridionale è, perciò, posto un vincolo con la finanziaria 1999 che fortemente discrimina a sfavore di esso, imponendo senza rimedio regole cui l'ente non è in grado di adempiere. Vi è, per di più, la beffa di chiamare tutto ciò "patto".

La situazione, sia pure per motivi diversi, è la medesima nel Nord Un caso del d'Italia. Nel caso proposto nelle Tabb. 3-4 la difficoltà risulta dal Nord fatto che tra le entrate prese in conto ai fini della determinazione dell'avanzo 1998 (e, quindi, dell'impegno cui, forse, gli enti hanno l'onere di fare fronte nel 1999) viene contabilizzato l'importo del titolo IV. La variabilità dei trasferimenti di capitali da parte di enti diversi dallo Stato (Regione d'appartenenza), trasferimenti per di più determinati in termini di flussi di cassa piuttosto che di risultanze degli accertamenti di competenza e valutati con riferimento ad ogni singolo ente, determina variazioni estreme degli importi, che risultano assolutamente non governabili. L'accredito di un contributo in conto capitale effettuato negli ultimi giorni di un esercizio in luogo dei primi giorni dell'esercizio successivo può produrre oscillazioni nel saldo finanziario tra esercizi consecutivi di entità ragguardevole.

In ogni caso, i dati proposti in tabella mostrano escursioni davvero allarmanti. In particolare, nel Comune settentrionale di cui si tratta, ad una spesa corrente media inferiore ai 20 miliardi l'anno corrisponde un saldo finanziario 1997 (definito secondo i "patto") negativo per 967 milioni ed un saldo 1998 positivo per 2.060 milioni. Si tratta di una differenza di oltre tre miliardi, pari a circa il 17% della spesa corrente.

In queste condizioni, pur nella presunta eccezionalità del caso (ma nei Comuni più piccoli il rischio di situazioni anche più eclatanti è palesemente alto), l'ente si trova completamente disarmato. Nell'ente settentrionale il saldo programmatico (calcolato sulla base delle percentuali contenuti in circolari del ministero del Tesoro), per il 1999, esige un intervento correttivo pari a 172 milioni, fino ad attestarsi a quota 2.158 milioni, somma assolutamente irraggiungibile se non al verificarsi, per altro assolutamente improbabile, 18

Tabella 3 - Ente dell'italia settentrionale: saldi 1997 e 1998 e saldi programmatici 1998 e 1999 (gestione di cassa) Voci

A B C D E F

G H I L M N O

Anno 1997 (milioni di lire)

Anno 1998 (milioni di lire)

18.635

19.231

3.849

1.352

ENTRATE Entrate finali (Titoli I, Il, III e IV) Trasferimenti ordinari, perequativi e consolidati (parte Titolo TI: Categ. 1) Trasferimenti in conto capitale dallo Stato (Titolo IV: Categ. 2) Proventi dalla vendita di attività finanziarie (parte del Titolo IV: Categ. 1) Riscossione di crediti (Titolo IV: Categ. 6) Totale entrate (A-B-C-D-E)

191

SPESE Spese correnti (Titolo 1) Interessi passivi Totale spese (G-H) Saldo 1997 e 1998 (F-l) Saldo tendenziale stimato per il 1998 e per il 1999 (a) Intervento correttivo richiesto (b) SALDO PROGRAMMATICO (M+ N) per il 1998eperil 1999

14.786

17.688

16.519 766 15.753 -967 -1.002 173

16.323 695 15.628 2.060 1.986 172

-829

2.158

Rispettivamente, per i due anni, importo di cui alla riga L (1997) moltiplicato per 1,036 ed importo della medesima riga L (1998) moltiplicato per 0,964.

Importo di cui alla riga I moltiplicato per 0,011.

Tabella 4 - Ente dell'Italia settentrionale: saldo di cassa al secondo trimestre1998 e 1999 (in milioni di lire) A tutto il 2° trimestre 1998

Voci

E F

ENTRATE 8.712 Entrate finali (Titoli I, Il, III e IV) Trasferimenti ordinari, perequativi e consolidati (parte Titolo Il: Categ. 1) Trasferimenti in conto capitale dallo Stato (Titolo IV: Categ. 2) Proventi della vendita di attività finanziarie (parte del Titolo IV: Categ. 1) Riscossione di crediti (Titolo IV: Categ. 6) 8.712 Totale entrate (A-B-C-D-E)

G H I L

SPESE Spose correnti (Titolo 1) Interessi passivi Totale spese (G-H) SALDO (F-1)

A B C D

.

8.307 348 7.959 753

A tutto il 2° trimestre 1999

9.804 537

9.267

8.002 318 7.684 1.583

19

della condizione di straordinarietà dei flussi di cassa del titolo IV dell'entrata (per altro non derivanti da dismissioni di patrimonio disponibile) del 1998. Per capacitarsene, basta raffrontare le Tabb.

3 e 4. Il saldo 1998, positivo per 2.060 milioni, deriva per 1.300 milioni dalla seconda metà dell'esercizio, cioè da partite straordinarie verificatesi nel corso di essa. Poiché su queste partite non vi è da fare conto per il 1999, il risultato già positivo del primo semestre non sarà ulteriormente migliorato nella misura che appare necessaria secondo il "patto". In questo modo, un Comune secondo ogni ragionevole criterio "virtuoso" sarà iscritto tra i "cattivi".

Il disegno di legge finanziaria.per il 2000 rafforza fortemente l'mci- Un'incidenza denza del patto di stabilità, andando a gratificare gli enti che realiz- riconfermata zano una riduzione del disavanzo calcolata in misura tale da consentire un miglioramento del disavanzo relativo all'intero comparto degli enti territoriali dell'ordine dello 0,1% annuo rispetto al PIL. Esso conferma altresì gli stessi elementi di determinazione del saldo e, quel che è peggio, assume l'esercizio 1998 ad anno di riferimento, senza alcuna possibilità di acquisire ulteriori elementi o di rimuovere palesi elementi distorsivi.

L'ulteriore ampliamento delle azioni di compressione della spesa corrente, al netto degli indebitamenti per investimenti, espressamente inserito nello stesso disegno di legge, rischia di restare una mera indicazione di buone intenzioni se non si collocano gli enti nella condizione di poter efficacemente operare e di poter effettivamente governare il saldo finanziario. Fin tanto che gli enti stessi restano in balia dei movimenti di capitale, o delle frustrazioni che sono effetto di una situazione di deficit non sanabile (e peraltro irreale), difficilmente troveranno lo stimolo, pur sotto la comminatoria delle sanzioni o della mancata partecipazione al riparto dei premi , per attivare quel percorso così irto di difficoltà che passa attraverso la riduzione del personale, la limitazione delle consulenze esterne, la razionalizzazione della spesa, il potenziamento dell'attività di accertamento delle entrate tributarie, l'aumento delle tariffe dei servizi pubblici.

In queste condizioni, sarebbe a nostro avviso migliore cosa che lo Una Stato indicasse in un certo importo il miglioramento voluto nei "divagazione" conti degli Enti locali ed esprimesse questo importo nei termini che inefficace 20

sono quelli propri della contabilità (e della logica) degli enti medesimi. Vale al riguardo il dato della situazione economica (entrate correnti dei primi tre titoli meno spese correnti incrementate della quota capitale di ammortamento dei mutui). Un miglioramento di questo saldo (ad esempio, un importo positivo dell'ordine del 2 per cento della spesa corrente), stabilito sia in termini di competenza che di cassa, ha un effetto positivo sul particolare "conto" che lo Stato italiano, per effetto dei vincoli assunti in sede internazionale, ha l'onere di presentare. L'impegno richiesto agli enti, in tal modo, risulta chiaro nel suo contenuto e plausibile rispetto all'obiettivo che è stato prefissato. Tutto il resto e inutile (pericolosa) divagazione, che rischia per pii di essere inefficace.

Già pubblicato in «Informazioni SvIMEz», n. 8-10, agosto-settembre 1999.

21

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dossier

-

Contro i "cinque giganti" ancora il Welfare State?

Da tempo, il termine Welfare State appare sulle cronache della stampa anche nella sua versione abbreviata di welfare ("per gli amici"), ma è molto probabile che il grande pubblico non sappia ancora a cosa esattamente ci si rifirisca. In qualsiasi modo se ne parli, la parola chiave quando si discute di riforma del Welfare Sate appare, comunque, quella a connotazione negativa di "smantellamento' Cos'è che si vuole smantellare?

Cosa si designa con la definizione di Welfare State? Guardando alla storia del concetto è difficile dare una interpretazione univoca; sostanzialmente, il termine è stato sempre associato ad una forma di intervento pubblico, finalizzato alla promozione e al miglioramento del benessere di un Paese. Fu così che la definiz/one venne utilizzata per la prima volta negli anni Trenta, dall'arcivescovo di Canterbury, per evidenziare il contrasto fra il "welfare" inglese con il "warfare" nazista. Ed è ancora un'inglese, Sir William Beveridge che, nel 1942, dopo aver identificato i "cinque mali giganti." (Want, Discase, Ignorànce, Squalor, Idleness) propose misure concrete al governo britannico per combatterli.

Ma tralasciamo subito di ripercorrere la storia del concetto nei diversi decenni, poiché ne presenta un interessante sintesi Francesca Rossi nel suo articolo, e puntiamo ai nostri 23

anni. Ricordiamo soltanto che è a partire dagli anni Ottanta che diviene chiaro che di Welfare State si può parlare soltanto "evolutivamente' in ogni caso, senza ricondurre la definizione ad un "paniere di bisogni" o a specifici programmi statali. Per definirlo affermano gli studiosi - bisogna usare, un approccio induttivo, che parta dall'analisi della società che ne ha determinato lo sviluppo. L'italiano Ferrera suggerisce la seguente definizione di Welfare State: "insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza, assicurazione, sicurezza sociale, introducendo fra l'altro specifici diritti sociali nel caso di eventi prestabiliti, nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria' Il contesto generale, caratterizzato da una serie di fenomeni (sviluppo del capitalismo, transizione demografi ca, industrializzazione, ecc...) hanno "spinto" verso un maggiore intervento pubblico nella sfera individuale. Tale definizione di Welfare State è quella che appare oggi quella più accreditata.

Per approfondire il tema dell'evoluzione dello Stato sociale, della sua crisi e delle strategie di riforma, nelle pagine che seguono presentiamo due articoli che trattano, rispettivamente, della storia del Welfare State in Italia (il saggio di Francesca Rossi) e dell'evoluzione normativa delle politi che sociali (il saggio di Gianni Lima).

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Storia del Welfare State in Italia.

Dalla crisi ai tentativi di riforma. di Francesca Rossi*

Se all'approvazione della legge, che sanciva nel 1908 il diritto ad una pensione di anzianità per tutti i cittadini britannici con più di settant'anni e con bassi redditi, la gente comune accolse la notizia con comprensibile ed entusiastico stupore, tanto che nelle campagne le vecchiette raccoglievano mazzi di fiori e riempivano ceste di mele per contraccambiare quella che, allora, sembrava frutto della generosità del locale funzionario delle poste, oggi ben diversa è l'accoglienza riservata alle politiche sociali e, soprattutto, agli stessi impiegati degli uffici postali.

A questa pittoresca e curiosa immagine di gi.ubilo, che rappresenta uno degli esordi più o meno felici del futuro sistema di protezione sociale, corrisponde l'ondata di proteste che hanno accompagnato nell'ultimo decennio le riforme sociali nei diversi Paesi occidentali: dalla donazione di frutta si è passati molto spesso ai lanci di uova, a cortei di migliaia di persone che scendono in piazza per sfilare contro i funzionari fautori di nuovi, iniqui, inefficienti provvedimen-

*stag

ista presso i! 'Centro Studi e Iniziative per I'Associazionismo e il Volontariato", Roma.

ti legislativi. Le società avanzate si trovano, nell'epoca attuale, ad affrontare dilemmi di difficile soluzione, il più emblematico dei quali appare proprio il declino del welfare e la riprogettazione del suo assetto istituzionale. La questione è pertanto, a livello internazionale, al centro di un intenso dibattito che si presenta sicuramente affascinante da ricostruire. La dimensione del problema è tale da mettere in gioco ogni ragionevole convinzione maturata nel corso degli anni, da spingere studiosi di discipline differenti ad avventurarsi e confrontarsi vicendevolmente nello scavo esplorativo di questa crisalide "politica" divenuta ormai farfalla in modo frammentato e, per molti aspetti, traumatico.

Discutere animatamente di riforma dello Stato sociale è divenuto l'oggetto di riflessioni varie, nate appunto con l'intento di stemperare i toni polemici, attenuare le divergenze e chiarire gli equivoci. Si evoca lo Stato sociale ovunque, come efficace assunto demagogico, destinato a farcire il contenuto di dichiarazioni retoriche all'interno di dibattiti televisivi, ad occupare intere pagine dei giornali più autorevoli, protagonista di dossier o inchieste che facciano un poco 25

luce su una questione tanto dibattuta, quanto trattata spesso in modo superficiale, senza cognizione di causa, trascinandosi dietro diatribe ideologiche ritenute ormai superate. Di certo, è evidenziabile come negli ultimi venti anni lo "Stato" sia stato fatto oggetto di pesanti accuse e recriminazioni, per non essere riuscito a rispettare quei principi fondativi che avrebbero dato origine al moderno Welfare State, una tra le maggiori realizzazioni politiche delle democrazie avanzate nell'ultimo secolo, struttura cardine e stabile garanzia dell'ordine sociale nazionale, sorto per mantenere una minima soglia di benessere.

In apparenza, la situazione attuale non è dissimile da quella creatasi alle origini del welfare, entrato in crisi proprio perché, sostanzialmente, il suo proclamato universalismo avrebbe perso la connotazione di interesse generale, frantumatosi in mille rivoli e conflitti insanabili. Lattuale fase critica è originata - come, d'altronde, quelle che l'hanno preceduta in passato - dalla crescente inadeguatezza delle vecchie soluzioni di fronte alle "nuove" problematiche emergenti.

Alla disoccupazione, alle disuguaglianze, all'esclusione non si è ancora risposto con il lavoro, le pari opportunità e la promozione sociale. In realtà, nato come sistema di diritti di cittadinanza, in seguito, il Welfare State avrebbe ostacolato la libera iniziativa individuale e minacciato seriamente la stessa prosperità economica. Se, nelle epoche passate, fenomeni come quello della disoccu26

pazione di massa potevano essere di natura ciclica, oggi essa è destinata a vedere inesorabilmente aumentare la sua durata media, acquisendo il carattere di cronicità, nella palese difficoltà di creare opportunità lavorative di lungo periodo, nonostante l'intensificarsi della crescita economica (jobless g;9wth).

Il processo evolutivo che ha accompagnato l'introduzione del Welfare State non ha percorso ovunque il medesimo cammino: nonostante le grandi diversità esistenti fra i sistemi di protezione sociale, ciò che ha accomunato le diverse esperienze nazionali è stato un decollo contrastato ed il successivo consolidamento, verificatosi per piccoli passi dopo il secondo conflitto mondiale, fi no al sopraggiungere del declino, che ha generato il necessario processo di revisione avviatosi alla fine degli anni Settanta. Una produzione scientifica di straordinarie dimensioni caratterizza gli studi pRi recenti intorno ai Welfare State. Nell'ultimo ventennio si è affermata una straordinaria fioritura di indagini socioeconomiche e politologiche, che hanno stimolato l'apertura di uno dei filoni piui vivaci e produttivi della ricerca sociale internazionale. La nascita, l'evoluzione e le caratteristiche prettamente istituzionali dei principali welfare occidentali sono divenute le protagoniste di approfondite analisi, sia sul piano dell'indagine nazionale, che su quello comparativo. Per dipanare l'intricato groviglio dei problemi, legati in parte alle contingenze del presente, ma riferi-

bili a matrici lontane, è necessario infatti ripercorrere le tappe salienti di uno sviluppo tanto fondamentale quanto contrastato.

Questo lo spunto del seguente approfondimento "conoscitivo", rintracciare le origini, le implicazioni e le singole sfaccettature che hanno scandito l'evoluzione del welfare, i grandi cambiamenti strutturali, le tendenze comuni, i fondamenti ideologici, che hanno contraddistinto le politiche sociali elaborate in questi ultimi anni, per tornare infine, a delineare la situazione attuale.

DALLA CARITÀ Al POVERI ALL'ASSICURAZIONE SOCIALE

In passato, la necessità della tutela dei bisognosi è sempre stata fortemente sentita da ogni comunità organizzata.

Se con l'affermarsi di istituzioni della Chiesa medievale, la carità era diventata una prerogativa prevalentemente religiosa, è in seguito alla Riforma e in pieno Settecento 'che si svilupparono forme di beneficenza laica, ispirata dal Lilantropismo illuministico, le quali posero le premesse per svincolare completamente l'assistenza ai bisognosi da ogni presupposto religioso e trasferirla agli Stati sotto forma di assistenza pubblica come dovere di interesse collettivo.

Nell'avviare il proprio processo di modernizzazione politica, ogni Paese si trovò ad affrontare quattro grandi sfide, espressione di conflittualità radicate, realizzando dei programmi di protezio-

ne sociale che lasciarono tracce influenti e profonde sulle decisioni politiche prese qualche secolo dopo. In breve, si può sostenere d'accordo con l'ideatore di tale modello teorico-interpretativo, il noto sociologo norvegese Stein Rokkan (1972), che dopo l'unfìcazione nazionale di un dato territorio, si realizzò la nascita dello Stato moderno, interessato a creare le basi per una forte legittimazione dell'autorità costituita, seguita in un secondo momento, dall'avvento della democrazia di massa, in cui si riconosceva e si formalizzava la cittadinanza politica, caratterizzata da una piuii larga partecipazione politica dei partiti, dell'estensione uniformante dei diritti civili e politici. Dalla fine del secolo alla seconda guerra mondiale, si registrò l'impatto della crisi degli Stati liberali instauratisi, sollecitati a trasformarsi in democrazie di massa, ma incapaci di assorbire l'emergente sovraccarico di domande crescenti e tensioni istituzionali.

Le sperimentazioni degli anni Trenta approdarono, infine, all'edificazione di sistemi compiuti di welfare, attraverso il riconoscimento della cittadinanza sociale, a netta impronta universalistica.

Ma quando ebbe inizio i intero processo, qui brevemente riassunto? E come si spiegano i differenti tragitti seguiti, quali dinamiche ha plasmato ciascun meccanismo redistributivo adottato?

Il modello di assistenza pubblica si affermò in un periodo storico, nell'ultimo decennio di fine Ottocento, in cui la generalità dei Paesi europei aveva esteso 27

il diritto di voto alla popolazione adulta maschile e i partiti di massa stavano divenendo i protagonisti principali della scena politica, in rappresentanza delle singole parti sociali. Fu allora che l'assistito passò dalla posizione di antico suddito beneficiato a moderno soggetto di diritto.

I due modelli. universalistico e occupazionale Alla fine del XVIII secolo, si instaurarono i due distinti modelli di copertura sociale, rispettivamente quello universalistico e quello occupazionale. Il primo, la cui copertura viene concessa a tutta la cittadinanza, secondo l'istanza presentata da Beveridge, si diffuse nell'area anglo-scandinava; il secondo, con prestazioni differenziate per categoria lavorativa, d'origine tedesco-bismarckiana, si sviluppò nell'Europa continentale. La divaricazione originaria tra i due sistemi di protezione sociale si verificò alla fine del secolo scorso, con l'adozione del pionieristico modello occupazionale in Germania, attraverso le riforme promosse da Bismarck tra il 1883 e il 1889 e del modello universalistico in Danimarca nel 1891. In proposito, occorre sottolineare come tra gli svariati fattori economici e politici che segnarono l'introduzione dell'assicurazione sociale vi fosse il contesto ideologico prevalente, laddove una forte tradizione liberale, fondata sul principio del laisserfaire, ne ritardò lo sviluppo.

Non c'è ombra di dubbio che le ideolo-

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gie, legate a un determinato ambiente politico, condizionarono le scelte di coloro che tracciarono le rotte dei primi viaggi verso il moderno welfare. L'egemonia culturale individualista e il riconoscimento della supremazia statale, propri delle dottrine sociali luterane in Scandinavia e anglicane in Gran Bretagna spianarono la strada a forme di paternalismo secolare e, successivamente, a formule di protezione sociale minime. Il liberalismo costituì un robusto ostacolo all'intervento pubblico e soltanto le crisi di politica pubblica sollecitarono nell'ultimo quarto di secolo, un complessivo ripensamento degli antichi principi. Le riforme attuate vennero però circoscritte a particolari modalità di intervento, che non disincentivassero l'impegno a meritare di più attraverso il lavoro e il risparmio, senza violare il principio della responsabilità civile, dell' uguaglianza di opportunità e della libera concorrenza. Per altro, è da notare che le preferenze per la formula universalistica, basata su prestazioni minime a somma fissa, collimavano con gli stessi orientamenti di una componente assai rilevante del movimento operaio inglese, quella del "fabianesimo" Sul versante continentale, in territorio tedesco, il sostrato culturale del secolo X\TII, composto dal rigorismo morale del movimento riformatore "pietistico" alimentò la concezione di uno Stato, fautore e garante del benessere collettivo dei suoi sudditi, favorendo il ruolo precorritore svolto dalla Germania nel-

l'introduzione dell'assicurazione sociale.

Accanto all'obbligo sussidiario statale, teso a promuovere una via generale alla sussistenza delle categorie sociali più disagiate, si garantiva la libertà di assistenza alle associazioni beneficiali private.

La dottrina pubblicistica del XIX secolo dedicò una grande attenzione alle problematiche emergenti con l'industrializzazione, cercando di trovare le terapie più efficaci per la cura dei mali sociali diagnosticati e per il necessario ridimensionamento dei conflitti tra classi abbienti e proletariato nullatenente, creando una solida base per un Stato sociale interventista. Questo attivo centralismo "dall'alto" da parte delle autorità statali doveva essere ulteriormente decentrato, verso le economie periferiche dei Comuni, incoraggiando l'autogestione e la formazione di organizzazioni caritative di tipo sussidiario.

Mentre in Germania si era rifiutato uno Stato di benessere interventista ma pa•ternalistico, come quello inglese, nella Francia rivoluzionaria si era invece affermata una corrispondenza fra le articolazioni della società civile e le politiche sociali pubbliche. Tra gli articoli presentÌ nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, compresa nella Costituzione del 1793, si proclamava il carattere sacro dell'impegno pubblico a fornire soccorso ai cittadini bisognosi.

Fino agli ultimi decenni del XIX secolo, pertanto, nell'area anglosassone, prevalse l'orientamento repressivo-stigmatiz-

zante delle restrittive leggi sui poveri, basate su prestazioni erogate a categorie sotto protette, e sulla predominanza di ampie categorie lavorative, con analoghi interessi previdenziali, sostituito successivamente dalla pubblica assistenza. In quella continentale, al contrario, si diffuse un atteggiamento caritativo-assistenziale, dovuto all'eterogenea frammentazione tra i settori occupazionali, imperniato su una molteplicità di strutture e iniziative ecclesiastiche, private e mutualistiche, sorrette all'occorrenza da sostegni statali, consolidante l'affermazione della assicurazione sociale e del pluralismo assistenziale. La concessione di diritti sociali fu sicuramente sfruttata nella contesa per il potere, o a fini "emancipatori", come nel caso poc'anzi descritto delle democrazie parlamentari societarie: la precoce fusione tra Stato e Chiesa, un più stretto controllo delle periferie da parte del centro, portarono alla marcata penetrazione pubblica nei Paesi anglosassoni, o a scopi "stabilizzatori", all'interno delle monarchie dualistiche accentratrici. Il prsistente conflitto tra forze laiche ed ecclesiastiche promosse la coesistenza tra programmi pubblici e non (come, accadrà ad esempio, in Italia, apportando effetti deleteri duraturi).

Il moderno Welfare L'evento cardinale per la promozione dello sviluppo del moderno Welfare State fu essenzialmente la Rivoluzione Industriale, insieme ad altri grandi av29

venimenti che l'accompagnarono, tra il 1870 e il 1915, periodo in cui vennero introdotte le prime forme di protezione pubblica. In effetti, le differenze di rilievo emerso quando le sfide poste dal processo dell'industrializzazione, in termini di tutela e di integrazione sociale, diedero vita a soluzioni divergenti, nei differenti contesti nazionali. Con l'avvio del processo di proletarizzazione, la frantumazione della famiglia patriarcale, la crisi della solidarietà all'interno dei gruppi di assistenza primaria, i rischi di disordine sociale e l'impoverimento delle masse, resero necessari interventi correttivi per preservare gli equilibri esistenti.

L'assistenza alle fasce più deboli era affidata, fin dal medioevo, principalmente alla famiglia o alla carità privata ecclesiastica, mentre chi apparteneva a corporazioni poteva beneficiare delle attività delle loro istituzioni mutualistiche. È a partire dal X\TII secolo, che con la graduale transizione dal feudalesimo al capitalismo, la miseria estrema, da fenomeno di massa minaccioso e terribile, divenne una vera calamità, un grave pericolo sociale. Nella fase embrionale del welfare, fu la pressione dei problemi sociali generati dalle dinamiche della modernizzazione, il pericolo imminente di rivolgimenti politici, che spinsero le autorità ad attivare nuove modalità di intervento. In tale frangente, le sacche di manodopera eccedente, prive della tutela familiare, cominciarono a riversarsi nelle città formando schiere di mendicanti girovaghi.

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Ben si comprende, dunque, la strategia liberale inglese che giunse ad approvare nel 1834 il Poor Law Amendment Act, il quale poneva fine in modo netto al tentativo di ampliare l'intervento pubblico in direzione dei sussidi in denaro, tramite il prelievo di apposite imposte a carico dei Comuni, e del sostegno elargito alle famiglie impossibilitate all'auto-sussistenza, inasprendo ulteriormente le condizioni delle case di lavoro correttive come deterrente per i poveri "non meritevoli" di soccorso e ritardando l'estensione delle garanzie di welfare.

Anche in Francia, con il passaggio all'industrializzazione verso il XIX secolo, le condizioni dei poveri peggiorarono notevolmente. Essi dipendevano completamente da enti di assistenza volontaria privata, e soprattutto dalla solidarietà di vicinato, tipiche delle comunità agricole locali. Una decisa riorganizzazione del sistema di assistenza iniziò durante il periodo della Restaurazione e venne razionalizzata da Napoleone III tra il 1852 e il 1856. Egli mirò ad introdurre sovvenzioni pubbliche che futono però di portata limitata, a favore di uffici decentrati, chiamati Bureaux de bienfaisance, per sostenere i sistemi di assicurazione volontaria cooperativa, di carattere secondario e residuale.

Rispetto alle politiche sociali attuate in Inghilterra, in Germania si pensava meno al di fuori dello Stato: dottrine assistenziali e statalistiche crebbero in stretta simbiosi. Al centro dei fondamenti dottrinari dell'assolutismo illuminato,

che influenzarono l'attività amministrativa tedesca, in particolare dal XVII secolo, c'era il topos della felicità collettiva.

Nei Paesi dell'area anglosassone, molti servizi sociosanitari ed educativi vennero garantiti in epoca industriale da organizzazioni private non di profitto, che si interessarono di debellare determinate problematiche sociali. Fu soprattutto nella Prussia di Bismarck che venne accentuata l'idea di uno Stato sociale autoritario, pluralistico, fondato sul consenso delle masse e sull'autorità carismatica dello statista: un'istituzione benefica alla base di una monarchia sociale ad elevata penetrazione statale, espressione ultima della volontà popolare. Al posto della politica repressiva anglosassone, che aveva privilegiato l'umiliante internamento coatto nelle case di lavoro, pur accelerando la democratizzazione dell'assetto istituzionale dello Stato e garantendo, in secondo tempo, il riconoscimento del "diritto di esistere" all'intera popolazione, subentrò l'emendazione morale e il recupero educativo dei bisognosi, secondo una logica auto referenziale ed espansiva, fondata sulla fede generale nel progresso verso un'umanità razionale.

In definitiva, le situazioni di particolare emergenza, fino ad allora isolate, acquistarono dimensione sempre pit'i nazionale e divennero gradualmente di dominio pubblico, per cui esse non potevano pii essere delegate e rinviate alla carità beneficiale.

Con l'esaurirsi dei grandi conflitti inter-

nazionali, si aprì dal 1870 un quarantennio di relativa pace, durato fino allo scoppio della Grande Guerra, che avrebbe assistito all'intensa sperimentazione del moderno welfare, sollecitata sia dall'inasprirsi della conflittualità operaia, sia da una percezione diversa di insicurezza a livello popolare: la radice del disagio non era pRi l'annata cattiva, ma la garanzia del reddito individuale, di fronte a qualsiasi congiuntura economica.

Il primo Paese ad introdurre gli schemi assicurativi obbligatori fu la Germania di Bismarck, con l'intento di assecondare uno sviluppo industriale pacifico, che perseguisse l'integrazione nazionale e subalterna dei lavoratori, limitando la loro possibile spinta rivendicativa. Le assicurazioni sociali, appoggiate finanziariamente dai contributi dei datori di lavoro, dalla partecipazione dello Stato e degli assicurati, legate in un certo qual modo dalle pratiche di j1rev1denza collettiva e del soccorso mutualistico precedenti, vennero regolamentate in modo centralizzato dalla legislazione nazionale.

Se si deve alla Germania bismarckiana la diffusione dell'assicurazione sociale obbligatoria, l'impulso decisivo per l'affermazione di quella nazionale fu dato dagli schemi introdotti tra il 1905 e il 1914, sotto il patrocinio del ministro inglese Llyod George, che introdusse la prima forma di assicurazione nazionale, volta a salvaguardare la garanzia del minimo necessario per condurre una vita 31

dignitosa, assegnando così una maggiore responsabilità finanziaria allo Stato.

Durante il periodo tra le due guerre, si era passati progressivamente alla concezione pii ampia di "assicurazione naziona1e' con una cospicua espansione delle politiche sociali, anche se le sfide degli anni Trenta alterarono profondamente il cammino percorso. Il potenziamento dei sistemi generali di protezione e sicurezza sociale dipese, allora, dalla decisiva pressione della mobilitazione politica e popolare, come reazione al primo, inevitabilmente difficile, periodo del dopoguerra.

TENDENZE EVOLUTIVE TRA LE DUE GUERRE E IL DECLINO DEGLI ANNI SETTANTA.

Durante i primi anni della ricostruzione postbellica, in ogni Paese si rese necessario riordirare i sistemi assistenziali. I governanti valorizzarono maggiormente l'azione sociale come fondamentale fattore di coesione e di identità nazionale, ma innanzitutto, come ammortizzatore della disoccupazione dilagante. Nel contesto nordamericano, ad esempio, si concretizzò l'idea dello Stato protagonista fondamentale nel campo delle politiche assistenziali, trovando compiuta espressione nella dottrina americana della "sicurezza sociale' inaugurata sotto la presidenza di Franklin D. Roosvelt, di chiara ispirazione keynesiana, secondo la quale, spettava alle autorità pubbliche pianifìcare e regolare efficace32

mente le dinamiche dello sviluppo economico.

La Grande Depressione e la conclusione del secondo conflitto, con le distruzioni materiali, le gravi perdite umane, la lacerazione del tessuto socioeconomico, l'erosione del risparmio, furono gli eventi cruciali che sollecitarono ovunque forti rivendicazioni riformistiche. L'opzione universalistica venne accolta nei dibattiti politici di quasi tutti i Paesi europei, come una formula magica, capace di riempire in modo appropriato i vuoti di solidarietà lasciati dalla guerra.

Nel clima di attese per l'avvento di un'epoca migliore e meno tragica, per lo spirito di solidarietà che la durezza degli eventi sollecitava, furono elaborati quéi principi di Welfare State, che poi guidarono la realizzazione del programma di sicurezza sociale inglese, con grande risonanza a livello internazionale.

Il progetto di riordino del sistema di sicurezza sociale era stato presentato alla fine del 1942 da Lord W. Beveridge.

Egli si riproponeva di estendere l'assicurazione sociale alla maggioranza dei cittadini, garantendo un reddito minimo unitario, finanziato per via fiscale, con l'intento dichiarato di contrastare il bisogno, l'ignoranza, lo squallore morale, l'inoperosità, la malattia. Le prestazioni dell'assistenza sociale erano previste soltanto per quei gruppi bisognosi minoritari, che non potevano usufruire di forme assicurative derivanti dal lavoro salanato proprio o di altri familiari. Alla base del programma c'era la certezza della

piena occupazione, la creazione di un servizio sanitario nazionale, privo del pilastro assicurativo contro le malattie, e la concessione degli assegni familiari alle famiglie numerose. Le organizzazioni private volontarie proliferavano, intanto, in tutti i campi, dal settore sanitario a quello dell'istruzione, per cui, esse diedero avvio ad una gestione mista dei servizi sociali: dopo aver tracciato per secoli percorsi paralleli rispetto all'intervento statale, esse si riversarono infine in un unico fiume (Kramer, 1987).

Da quanto osservato, si evidenzia come alla fine degli anni Sessanta, nei contesti politici dei Paesi capitalistici occidentali, giungesse a maturazione un sistema pubblico di sicurezza sociale, che esprimeva sia l'esigenza avvertita da particolari gruppi di difendersi dalle imprevedibilità del mercato che la necessità della società intera, di costruire rinnovati vincoli di solidarietà, avvalendosi di una crescente ricchezza nazionale. La politica sociale si allargò dall'attività localistica e "dispensatrice" della ottocentesca "Poor Law' riguardante la tutela di gruppi marginali, o la tutela dei soli lavoratori, agli obiettivi più ambiziosi, comprendenti l'intera popolazione nelle sue prospettive e condizioni vitali. Si iniziarono a fondere fra loro, i principi assicurativi enunciati da Bismarck, basati sulle differenze di reddito, con l'idea beveridgiana della distribuzione collettiva ed egualitaria verso tutte le classi.

Entrambi i due modelli di solidarietà

pubblica si erano, tuttavia, poggiati su premesse basilari destinate a dissolversi, in conseguenza della profonda crisi strutturale, che si inasprirà un decennio più tardi: l'incessante incremento della spesa sociale, generatrice di pesanti deficit nei bilanci nazionali, l'insufficiente differenziazione dell'offerta, le limitazioni nella possibilità di scelta del consumatore-utente, la distorsione nella redistribuzione di redditi e opportunità ne furono le cause principali. L'interruzione imprevista della crescita comportò il continuo indebitamento pubblico, una pressione fiscale sempre più insostenibile per molte categorie sociali.

La cosiddetta "crescita sterile" delle economie avanzate, legata all'insorgenza di una nuova e più estesa domanda nel campo dei servizi sociali, ad elevati tassi di inflazione, richiese dei cambiamenti di rotta in quella che era stata la "tranquilla navigazione" dello Stato sociale.

In tal senso, fu infatti necessario avventurarsi nell'esplorazione di mari sconosciuti o limitatamente "solcati", penetrando più a fondo nella realtà sociali del cosiddetto settore non profit (senza scopo di lucro) o rivolgendosi al mercato. La produzione industriale in serie, la diffusione dei consumi di massa, l'espansione dell'occupazione si "tenevano" insieme come i pezzi di un mosaico, la caduta dell'uno provocò inevitabilmente quella degli altri. Il decennio dell'opulenza, di quella che venite anche chiamata la società del benessere, si chiuse repentinamente con la crisi energetica del 33

1973, il brusco calo della produzione mondiale e la conseguente instabilità finanziaria a livello internazionale.

Inoltre, alla fine degli anni Settanta, veniva alla luce un ulteriore aspetto dell'inefficienza dello Stato sociale: la sua incapacità di eliminare le cause dei bisogni e delle contingenze degli individui, soprattutto, lo scarto palese tra domanda potenziale (cura dei bambini, valorizzazione anziani, protezione ambientale) e offerta reale. Sembrò verificarsi un ritorno indietro, come se Bismarck stesse avendo la sua "rivincita", quando molti Paesi decisero di indirizzarsi verso il recupero di schemi contributivi occupazionali, volti ad integrare i benefici a somma fissa erogati dalla, sicurezza sociale con delle prestazioni collegate alla retribuzione selettiva. Considerato un tempo un meccanismo fondamentale per alleviare la miseria, il welfare iniziò ad essere duramente criticato sia dai partiti di destra che da quelli di sinistra.

All'affannosa ricerca di antidoti, si andava dall'approccio socialdemocratico incentrato sul ruolo pubblico diretto, a cui corrispose una certa critica portata avanti da alcuni ideologi di sinistra, ancorata all'inefficacia delle politiche assistenziali, alle ricette proposte dai neoliberisti, fautori del libero mercato, in quanto, essi ritenevano che la dissipazione di risorse e la disuguaglianza nell'allocazione dei costi, in termini di tassazione, gravassero in particolare sui ceti medi. Questa comune insoddisfazione si tramutò, spesso, in atteggia34

menti di resistenza e opposizione nei confronti di aumenti continui dell'imposizione fiscale e di spese governative fallimentari (Fano et al., 1983).

Come verrà esposto nella parte conclusiva, ogni possibile scenario comparso negli anni Novanta, ha tenuto conto che il finanziamento pubblico dei servizi non doveva essere soppresso, pur nella sua difficoltà a garantire la pace e la giustizia sociale alleviando le forme più estreme di miseria, che lo Stato sociale fosse semplicemente emendato e non pertanto smantellato in modo definitivo!

IL CASO ITALIANO. DALLA BENEFICENZA LEGALE ALL'INTERVENTO STATALE

Dopo aver preso in considerazione la lunga e travagliata vicenda legata all'avvento del Welfare State, si può passare a descrivere le fasi essenziali di sviluppo delle politiche pubbliche nel settore socio-assistenziale e sanitario italiano, con la raccomandazione di tirare un sospiro di sollievo prima di addeitrarsi in questo tortuoso itinerario di lento e ritardato ritmo di sviluppo sociale.

Secondo quanto osservato dallo storico Zaninelli (1996), dal 1862 agli inizi degli anni Venti, nel contesto italiano, si passò dalla concezione ottocentesca dello stato di "bisogno", puramente passiva, sotto l'egemonica tutela privata delle organizzazioni caritative ecclesiastiche, alla piena protezione giuridica dello Stato. La cura dell'indigente venne individuata nelle sue specifiche manifestazioni

e riconosciuta come "debito sacro" della società, l'attesa di soccorso come "diritto" del cittadino ad essere assistito dalle istituzioni: lo Stato cominciava, essenzialmente, a trasformarsi da soggetto erogatore di beneficenza, in ente promotore di assistenza sociale e sanitaria.

Tale percorso si può dividere in due periodi sostanziali: carità legale e beneficenza legale, corrispondenti rispettivamente al clima complessivo, conseguente alle leggi sociali nella fase liberale, (18611922) e agli obiettivi della politica sociale attuata durante il fascismo, (19221943), a cui si può aggiungere, quello dell'assistenzz sociale, legato alle riforme realizzate dal dopoguerra. Caratteristica predominante del controverso sistema italiano, sempre ampiamente sottolineata dagli studiosi, è il suo consolidarsi sulla base di una logica centralizzatrice, che ritardò il pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza sociale e del principio universalistico, secondo cui i servizi garantiti dallo Stato dovevano essere forniti ad ogni cittadino come diritto politico e non come residuale prodotto di beneficenza. L'origine ditale modello risale quindi alla costruzione dello Stato italiano, non predisposto a rompere l'ordine assistenziale ereditato dalla società tradizionale, in cui la politica sociale era divenuta monopolio quasi esclusivo della Chiesa cattolica. Per un Paese che non aveva conosciuto la Riforma protestante, sperimentando piuttosto l'ostinata azione di contrasto condotta della Controriforma, che aveva accettato da sem-

pre la mediazione di una Chiesa interessata a neutralizzare le valenze politicamente perniciose del processo di secolarizzazione, era inevitabile sottoporsi, in ambito assistenziale, ad una lunga convivenza con il privato-religioso.

Nella metà dell'Ottocento, l'Italia conobbe una intensa fioritura di opere sociali, si pensi alle banche popolari, nate per l'impegno delle forze laiche; o alle Casse rurali, espressione dell'operosità cattolica, sostenuta dalla singolare capacità organizzativa di una fitta rete di istituri benefici: l'oggetto preposto di molte congregazioni religiose fu l'impegno a favore dell'educazione giovanile, l'assistenza ai bisognosi portatori di infermità un tempo assolutamente trascurate, l'istruzione professionale. Lo Stato unitario dovette ripetutamente scontrarsi con la Chiesa, per ridurne le potenzialità assistenziali e sforzarsi di integrare il movimento socialista, allora agli esordi, nelle strutture politiche nazionali. La fase della carità legale coincise con l'atteggiamento in base al quale le autorità governative, pur disinteressandosi in senso lato degli indigenti, si preoccuparono che le istituzioni di carità preposte alla cura dei loro bisogni operassero secondo una corretta amministrazione. Accanto all'assistenza di matrice cattolica, fornita principalmente dagli enti denominati Opere Pie, il secolo XIX vide il fiorire di altre esperienze mutualistiche, come la nascita di strutture ospedaliere, società di mutuo soccorso e Casse di risparmio, per lavoratori legati sia al mondo agrico35

lo che industriale. Data la capillare presenza di istituzioni cattoliche e di quelle organizzate dal nascente movimento socialista, la politica nazionale si orientò inizialmente verso interventi "sussidiari" integrativi, rispetto alle iniziative ideate spontaneamente dalla società civile. Soltanto più tardi, essa cercò di limitare il potere e l'influenza della gerarchia ecclesiastica, impegnandosi inoltre ad affievolire la conflittualità latente della classe operaia..

Quando il Parlamento giunse a promulgare la Grande Legge, del 3 agosto 1862, n. 753, il primo vero provvedimento che disciplinava la materia giuridica delle Opere Pie, nulla sembrava essere mutato rispetto ai precedenti legislativi, emanati in passato. Essa garantiva una certa libertà di azione per tali fondazioni caritative e sanciva, ancora una volta, il disimpegno statale, limitando l'ingerenza governativa nei loro assetti amministrativi. Questa presa di posizione metteva praticamente d'accordo tutte le forze politiche: da un lato, teneva conto della borghesia liberale, che seppure in parte preoccupata dell'autonomia conquistata dalle Opere Pie e dal loro patrimonio finanziario in continuo aumento, restava sostanzialmente fedele ai principi teorici del liberismo; dall'altro, non contrastava gli interessi dei cattolici che, chiaramente, osteggiavano qualsiasi intromissione pubblica, in un canipo di loro consuetudinaria competenza, quello della previdenza, frutto di sforzi individuali per36

vasi dallo filantropia cristiana. Infine, essa non tralasciava le ispirazioni del neonato movimento mutualistico operaio, il quale esprimeva un netto rifiuto, verso il possibile incorporamento in un regime assicurativo di tipo pubblico (Santuari, 1996).

Fu negli ultimi decenni del secolo che la 'cJuestione sociale" si portò gradualmente al centro dell'attenzione della classe politica dominante, con l'esigenza di un attivismo statale più incisivo, per la complessità delle relazioni sociali e dei rapporti produttivi, emergenti dall'industrializzazione in atto, per la consapevolezza che il malcontento rischiava di tramutarsi in un conflitto senza soluzione.

In un quadro politico, fortemente permeato del riformismo autoritario di chiara influenza bismarckiana, Crispi decise di intervenire drasticamente contro le clientele clericaleggianti e le forze retrive che si annidavano indisturbate intorno alle istituzioni caritative (Lepre, 1988).

Il passaggio dalla concezione liberista di uno Stato meramente assistenziale, al sistema di previdenza sociale, si determinò attraverso la chiara.consapevo!ezza che il malcontento diffuso in ambiente operaio - culminato con la costituzione del Partito Socialista neI 1895 rischiava di trasformarsi in un conflitto permanente senza soluzione. Chiunque può ben comprendere che si trattava di un momento particolarmente critico della storia socioeconomica del Paese: fenomeni quali l'incipiente decollo industriale, l'urbanizzazione e la proleta-

rizzazione; la grande ondata migratoria oltreoceano; le minacce di guerra commerciale con la Francia; i latenti scandali bancari; stavano lentamente disgregando il tradizionale tessuto sociale.

Come reagiva, intanto, il movimento cattolico? Di certo, esso non restò a guardare il precipitare degli eventi ed iniziò ad aprirsi ufficialmente verso il problema operaio, con la memorabile enciclica leonina Rerum Novarum, che riconosceva nel principio della sussidiarietà un canone fondamentale della dottrina sociale ecclesiastica, lasciando ampi margini di libera e creativa socialità alle articolazioni associative intermedie di inspirazione cristiana.

Giunta al potere la Sinistra, a partire dagli anni Ottanta, prese vigore la teoria pluralista del libero associazionismo a scopo solidaristico e assistenziale, anche se successivamente, sarebbe comunque prevalsa la rigida burocratizzazione dei servizi, che esonerava di fatto i poteri pubblici dal predisporre interventi finalizzati al rafforzamento delle organizzazioni caritative. In conseguenza dell'inasprimento della spinta rivendicativa e sindacale della classe operaia, si mossero i primi passi per il miglioramento delle condizioni lavorative e per la tutela anti-infortunistica, attraverso l'introduzione dei programmi di assicurazione obbligatoria. Nel 1883 veniva promulgata la legge che istituiva la Cassa nazionale per gli infortuni sul lavoro, a cui seguiva nel 1898, quella di previdenza, per la vecchiaia e l'invalidità, a base facoltati-

va. A questo tipo di assicurazione potevano accedere coloro che erano in grado di versare i contributi necessari. Tali provvedimenti furono in larga misura delle concessioni dall'alto, varati con molte difficoltà dal regime liberale. Proprio come in Germania, la "carota" della legislazione previdenziale fu accompagnata dal "bastone" della repressione: anche il governo italiano scelse la pacificazione autoritaria nei confronti delle crescenti tensioni sociali. Ricordiamo, in proposito, che il 1898 fu l'anno delle cannonate di Bava Beccaris, sparate sulla folla per reprimere duramente la protesta popolare, esplosa a Milano, contro il rincaro del prezzo del pane. Occorre riconoscere come, non in modo molto malcelato, il riformismo sociale di fine secolo fu dunque il prodotto di una "logica politica" precisa, che favorì il graduale allargamento sociale verso le masse popolari organizzate, senza ledere eccessivamente gli interessi accumulati dalla previdenza privata cattolica in campo assicurativo, restando vincolata dallo stesso mutualismo operaio socialista, propenso al separatismo previdenziale. Fin da allora, trovava fertile terreno per il suo futuro attecchimento, l'albero particolaristico-clientelare su cui si sarebbe innestato il sistema assistenziale italiano (Ferrara, 1984).

L'equilibrio fra i divergenti orientamenti politici nei confronti della risistemazione assistenziale venne raggiunto con l'approvazione della legge 17 luglio 1890, n. 6972, nota come Legge Crispi, 37

dal nome del presidente del Consiglio allora in carica. Questo provvedimento soddisfaceva le richieste degli appartenenti alla classe borghese dirigente di stampo conservatore, che sostenevano un controllo statale più severo e penetrante di tali enti ecclesiali. La laicizzazione dell'assistenza rispondeva a due particolari esigenze: da una parte, quella derivante dal rafforzamento della classe borghese e dall'altra, quella di un ridimensionamento del potere della Chiesa.

Con tale provvedimento legislativo, alle Opere Pie si imponeva una natura giuridica pubblica, acquisendo la qualifica di Ipab, "Istituzioni pubbliche di assistenza e beneJìcenza' Inoltre, venivano distinti due tipi di soggetti statali, organi decentrati e periferici di beneficenza legale, le Ipab e gli enti territoriali, Comuni e Province: sostanzialmente, tutta la beneficenza doveva divenire di pubblica emanazione e competenza. In campo sanitario, nel frattempo, si erano superati i difformi tentativi di legislazione preunitaria con una prima legge del 1865, che fissava il concetto della tutela sanitaria spettante al ministero dell'Interno, tramite il direttore della Sanità. I risultati - neanche a dirlo non furono di certo brillanti, in quanto nell'organizzazione sanitaria così creata, prevaleva l'elemento amministrativo, su quello tecnico: la sua inadeguatezza profilattica emerse, in maniera esemplare, quando si trattò di fronteggiare le malattie epidemiche, propagatesi pericolosamente negli anni successivi. Nel 38

ventennio 1900-1920 la legislazione sociale italiana entrò in una seconda fase di rapida e decisa estensione, con l'esordio del giolittismo, mirante a sostituire le velleità restauratrici precedenti tramite la mediazione continua tra le parti sociali e i gruppi politici. Nel 1910 veniva approvato il primo stanziamento pubblico a favore dei disoccupati, introdotta l'assicurazione obbligatoria di maternità per le operaie ed, infine, nazionalizzato il settore delle assicurazioni sulla vita. Se si riconosce nella svolta del riformismo liberale, attuata dal governo Giolitti, una fase espansiva dell'intervento statale a fini sociali e civili, si deve ricordare che essa acquistò un'importante valenza soprattutto nell'ambito della competizione partitica. Con l'estensione del suffragio, avvenuta nel 1912, il mercato dello scambio politico, basato sulla cattura del consenso attraverso il voto elettorale, era un'occasione troppo allettante per non venire sfruttata sapientemente. Il welfare aveva dunque intrapreso la strada democraticoparlamentare, rispondendo agli stimoli provenienti dal "basso", dalle aspettative concernenti l'allargamento dei diritti sociali all'elettorato cittadino. Tuttavia, emersero, in modo più o meno visibile, alcuni tratti peculiari dell'odierno Stato sociale, in particolare, l'uso indiscriminato degli istituti previdenziali, imperniato sulla contrattazione clientelare tra centro e periferia, fu indispensabile attendere la fine del primo conflitto perché si presentasse un'altra occasione

concreta per l'effettiva espansione della copertura onni-incluSiva.

Conclusosi il primo conflitto, si era diffusa un'acuta insicurezza sociale, dovuta al biòcco dei fitti, alla pesante ondata inflazionistica, al dissesto dei circuiti distributivi. La possibilità di passare dalla circoscritta e ristretta copertura occupazionale dell'esordio liberale, a un progredito sistema di assicurazioni sociali, divenne sempre pRi attuabile ed esigibile. Il deterioramento dell'igiene sanitaria portò a un incremento generalizzato della morbilità: le strutture mutualistiche o caritative tradizionali non disponevano delle risorse finanziarie e di mezzi atti a fronteggiare tali emergenze.

Il sistema previdenziale restava drammaticamente limitato ai lacunosi schemi introdotti alla fine del secolo. Il dibattito serrato,. intorno all'obbligatorietà dell'assicurazione pensionistica e contro la disoccupazione, infiammò le aule e i convegni parlamentari di quegli anni. Liberali, popolari e socialisti presentarono le proprie rispettive proposte.

Verso la metà del 1919, vennero discussi due progetti di riforma da un'apposita commissione di studio, presieduta da Luigi Rva. Il turbolento clima sociale postbellico spinse, in effetti, al varo di due fondamentali provvedimenti: la creazione della Cassa nazionale di previdenza su base obbligatoria, per i lavoratori dipendenti e l'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione per i salariati dell'industria. Con l'apertura della successiva "paralisi parlamentare"

nel 1920, sfumò nell'arco di pochi mesi il progetto di edificazione di uno Stato sociale progredito. Il disegno di una consociazione tripartita, fondata sulla coalizione liberai-cattolico-socialista e favorevole alle riforme sociali falli nell'intento di attuare un sistema assicurativo globale.

Lavvento del fascismo arrestò lo sviluppo in senso liberale del ie1fare italiano: la sicurezza sociale fu subordinata alla lealtà deferente verso il regime. Soltanto verso la fine degli anni Venti, si ricominciò a dare impulso ad una legislazione previdenziale, volta alla cattura del consenso politico e basata ancora sulla frantumazione occupazionale delle categorie protette. Durante il ventennio 1922-1943, l'intervento pubblico sembrò prevalere sulle iniziative private dirette all'utilità collettiva, nella copertura degli stati di bisogno, dopo averli previsti e giuridicamente codificati. La formula dell'ente parastatale, scelta abilmente in epoca fascista, portò all'instaurazione di macchine amministrative mastodontiche, fortemente centralizzate ma burocraticamerite innervate nel territorio, da gestire secondo logiche clientelari - durc a morirc - a favore delle classi medie, sostenitrici fedeli del regime. La burocrazia degli enti pubblici, le logiche dello Stato assistenziale, la politica favorevole ai ceti medi e impiegatizi sarebbero sopravvissuti ai loro creatori, con una deprecabile longevità oltre i primi anni del secondo dopoguerra!

Contro l'imperante disoccupazione di 39

massa a poco serviva l'attività generica, operante soio in via sussidiaria, dagli Enti comunali di assistenza (ECA), che nel 1937 ereditarono i compiti, ed anche la stessa logica elemosiniera, della ottocentesca Congregazione di carità, nel soddisfare sia i bisogni delle famiglie povere, sia quelli nuovi connessi a temporanee difficoltà economiche. Anche in campo sanitario la tutela pubblica venne riorganizzata, ma a livello territoriale lo sviluppo delle strutture ospedaliere avvenne in modo squilibrato e frammentato. L'amministrazione previdenziale venne sostanzialmente distribuita in tre grandi enti autarchici, l'INPS (per la vecchiaia, l'invalidità la disoccupazione, gli assegni familiari), INJv1 (per le malattie e la maternità) e INAIL (per gli infortuni e le malattie professionali).

Allo stesso tempo, la fornitura di servizi assistenziali sanitari ed educativi all'infanzia venne garantita invece dall'ONMI, Opera Nazionale per la Maternità e l'Infanzia, sorta nel 1925. A tale masprimento del controllo statale, corrispose la soppressione delle iniziative di autogestione e delle forme di tutela operaia mutualistica.

La politica sociale si fondò notevolmente sulla creazione di un'opinione pubblica favorevole al regime. Il tramite privilegiato tra lo Stato e le famiglie fu costituito dalle strutture pubbliche dette "opere sociali". L'ONB (poi GIL), assunse il monopolio nel campo dell'educazione fisica e morale di fanciulli e adolescenti. Agli adulti, invece, provve40

deva dal 1925 l'Opera Nazionale del Dopolavoro (OND), ente di rilevante importanza propagandistica, indirizzato ad occupare il tempo libero dei lavoratori. È evidente, come dopo il fallimento del tentativo giolittiano di integrazione sociale mediata, contrattata con le opposizioni socialiste, si aprisse sotto il fascismo la strada per un'integrazione autoritaria, basata sul raggiungimento di una cooptazione con i cattolici, gerarchicamente controllata dall'alto. Lautonomia delle élites religiose e l'influenza sulla società civile si accrebbero ulteriormente con la firma del Concordato siglato nel 1929 tra lo Stato e la Santa Sede, sotto il pontificato di papa Pio XI. Pii tardi, quando la retorica fascista accentuò, i suoi caratteri di nazionalismo esasperato, di imperialismo e di razzismo, la Chiesa ebbe la preoccupazione di distanziarsene ideologicamente, ancorata al movimento dell'Azione cattolica, in seno a cui si venne rafforzando il gruppo dirigente della futura democrazia cristiana (Ginsborg, 1989).

Un quindicennio dopo, durante l'ennesima ricostruzione postbellica, la sofferenza come rischio collettivo di grandi masse, la compressione dei consumi, le esperienze di disoccupazione massiccia, la fame e la miseria, la penuria di alloggi, fornirono una spinta decisiva per una ulteriore interpretazione in senso innovativo dello Stato sociale. Il clima culturale europeo si sensibilizzò maggiormente ai problemi dell'assistenza previdenziale e sanitaria, riconoscendo,

a chiunque avesse bisogno di sostegno morale e materiale, un diritto soggettivo alla prestazione, garantito dal suo essere cittadino di una nazione. Alla caduta del fascismo, tra le molte gravi problematiche da affrontare, quella sociale emerse con tutta la sua gravità.

LE POLITICHE SOCIALI DELL'ITALIA REPUBBLICANA

Un dibattito italiano serio e proficuo sulle riforme della previdenza sociale cominciò ad articolarsi in seno alla Costituzione, dove trovarono ampio riscontro i principi riformatori contenuti nella relazione della Commissione D'Aragona, istituita nell'aprile del 1947. Se le formule legislative proposte dalla Commissione vennero complessivamente disattese dai governi che si successero alla guida del Paese, c'è da aggiungere che a suscitare perpiessità era proprio l'incoerenza indirizzi di intervento espressi dal legislatore costituzionale. Se si prende in considerazione la formulazione dell'articolo 38, che afferma il "diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività" - nonché il - "diritto al mantenimento e all'assistenza sociale per ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere; agli inabili e minorati il diritto all'educazione e all'avviamento professionale" - pur prevedendo che - "l'assistenza privata è libera, si è attribuita allo Stato la funzione di predisporre o integrare gli organi ed istituti che provvedono ai

compiti di protezione indicati dal medesimo articolo" risulta chiaro come fosse lacunosa sia per la mancata ed esplicita demarcazione dei confini, riguardanti le forme di intervento pubblico, sia per la definizione dei bisogni socialmente rilevanti e dei criteri relativi alla loro soddisfazione. Si riconfermava la tradizionale distinzione funzionale tra assistenza residuale per i cittadini e previdenza dei lavoratori. Inoltre, la concezione largamente ispirata alle autonomie sociali, in virt1 del personalismo comunitario, che accanto al principio democratico dell'auto-organizzazione della società, costituiva uno dei pilastri basilari della Costituzione, non si tradusse in prassi nella realtà dei fatti.

Nell'art. 3 si raccomandava di rimuovere quegli ostacoli che potessero limitare la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana e la sua partecipazione effettiva all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Liberare il bisogno interiore esprimeva una rilevanza di interesse pubblico, al quale gli interessi privati risultavano necessariamente subordinati, significava coinvolgere l'intera collettività: il mantenimento di un livello di vita dignitoso, restava comunque un compito spettante a una miriade di forme protettive volontarie, preesistenti e di tipo compensativo. In questo principio, si condensava inconfutabilmente una concezione aperta della personalità umana, per cui il cittadino da assistito e semplice fruitore, di41

veniva erogatore attivo e responsabile del welfare, sviluppando contemporaneamente il suo bisogno di socialità: i diritti sociali non sarebbero più discesi quindi da uno Stato sovrano, dispensatore totale di protezione pubblica e unico produttore del benessere collettivo.

Tutti proponimenti rimasti sulla carta, troppo spesso disattesi o irrealizzati. Lo Stato non smise di percepire le strutture organizzative, che si prefiggevano volontariamente un fine altruistico di pubblica utilità, come potenzialmente pericolose per la completezza del suo essere e, se possibile, da subordinare a sé (Donati, 1997).

In sintesi, si può sostenere che da una parte, per quel che riguarda la sicurezza sociale, la sanità e l'educazione, esse continuavano ad essere fornite prevalentemente dalla pubblica amministrazione, secondo una tendenza sostenuta dalle stesse organizzazioni della classe operaia. Dall'altra, la maggior parte dei servizi sociali, finanziati in gran parte dai fondi statali, erano erogati da enti caritativi vicini alla Chiesa cattolica, con veste pubblica o semi-pubblica, sottomessi a un controllo costante in funzione della generosa assistenza economica, messa a loro disposizione. Lo sviluppo di una legislazione di tipo concessivo, fondata sui poteri di controllo e autorizzazione dello Stato, come se le organizzazioni private, prive di scopo di lucro, fossero sue dirette emanazioni da assorbire, partiva da una nozione giuridica in cui interesse collettivo e compe42

tenze statali coincidevano pienamente.

Non tutti i principi costituzionali trovarono dunque pratica applicazione, se, come ribadito concordemente da studiosi di discipline diverse (Ranci, 1996; Rei, 1997; Santuari, 1997), lo Stato costrinse le articolazioni periferiche entro un sistema giuridico vessatorio di norme limitative e penalizzanti, identificando erroneamente pubblica utilità con interferenza statale. È evidente che la predominanza del centralismo paternalistico era apparsa, fin dall'Unificazione, lo strumento più consono, la strada più semplice da percorrere se si volevano ridurre le aspre e marcate differenziazioni territoriali del Paese, vigilando contemporaneamente sull'ampia costellazione di organizzazioni collegate alla Chiesa cattolica e all'associazionismo sindacale.

Il suddetto assetto istituzionale, derivante dal regime repubblicano, comprendeva sei schemi assicurativi principali, amministrati da una pletora di enti separati, a seconda del settore occupazionale di riferimento. L'appannaggio dei servizi sanitari rima, ancora una volta, largamente affidato al settore privato e caritativo, attraverso il meccanismo delle convenzioni tra le singole casse mutue e le associazioni dei medici, mentre gli ospedali restarono formaImente delle Ipab. Questo quadro istituzionale non mutò fino alla fine degli anni Sessanta, mentre si allargava nel frattempo, il grado di copertura della popolazione, con un'estensione dell'u-

tenza che poteva usufruire dei servizi assistenziali. Tuttavia, i cittadini dovevano abituarsi a fare i conti con burocrazie sovrapposte e inefficienti, con quotidiane file interminabili agli sportelli locali degli istituti previdenziali, con estenuanti rinvii e lunghi ritardi per l'ottenimento di certificati o documentazioni relativi alla propria situazione sociale personale. Un bel ricordo lontano restavano le ceste di frutta e i mazzi di fiori, come sottolineato più volte da Ferrera (1993) o Paci (1984).

In seguito, durante gli anni Cinquanta, il controllo dell'assistenza sociale venne suddiviso prevalentemente tra le due culture politiche dominanti allora nel Paese, quella della Democrazia cristiana e del Partito comunista. Per decenni, le autorità ecclesiastiche avevano costruito un'imponente rete di ospedali, case di cura, case di riposo per anziani. Queste forme di carità erano state elargite pei ricavarne una solida ricompensa politica, particolarmente evidente durante le campagne elettorali. Il voto di preferenza fu parte integrante del sistema democristiano: attraverso la garanzia di fedeltà al momento del voto, si distribuivano faziosamente vari privilegi assistenziali, con l'intento di proteggere i gruppi parassitari al potere, soprattutto nel Meridione (Zincone, 1992).

Nello stesso periodo, anche il mutualismo del Partito comunista sviluppò una fitta rete di organismi ed attività per i propri iscritti. Punto nevralgico della vita comunitaria, soprattutto nell'Italia

centrale, nelle città più piccole e nelle campagne, furono le Case del Popolo, in cui collaboravano accanto comunisti e socialisti. L'esodo dalle campagne e l'accelerazione dell'urbanizzazione cominciarono a preoccupare considerevolmente sia i custodi dell'ortodossia cattolica, sia quelli del dogma comunista, per il graduale declino della loro influenza su una società civile, ricca di relazioni comunitarie ed associative, sempre più minacciata dal rischio di atomizzazione, generato all'inevitabile isolamento familiare. Il processo di modernizzazione, avviatosi dagli anni Sessanta, contribuì infatti a far prevalere la sfera del privato e della soggettività individuale, come conseguenza di un progressivo distacco dalle ideologie tradizionali: i partiti democratici di massa e il grande sindacato confederale iniziarono a perdere la loro rappresentatività a livello popolare.

L'intervento pubblico sociosanitario e assistenziale, sorto in notevole ritardo, aveva dovuto fare i conti con una situazione caratterizzata, da un lato, dalla presenza di organismi privati altamente specializzati, di diversa identità politica, dall'altro, dalla difficoltà di elaborare obiettivi strategici e criteri di valutazione che fossero omogenei e coordinati fra loro. L'azione dello Stato unitario si era dapprima indirizzata verso il sostegno finanziario delle iniziative private, e in un secondo tempo, nella lenta e graduale costruzione di un sistema che le potesse integrare. La variante specifica 43

del welfare italiano fu caratterizzata da enti privati in competizione tra loro e con lo Stato per assicurarsi la permanenza di proprie forme di solidarietà collettiva, profondamente articolata e divisa dagli steccati ideologici e dalle stratificazioni occupazionali (le Ipab o le mutue), in contrasto col diffondersi del concetto di appartenenza comune, con l'idea di una cittadinanza sociale universalistica, surclassata da quella di cittadinanza "lavoristica".

Il "boom economico" degli anni Sessanta ingenerò in tutti i gruppi sociali crescenti aspirazioni di welfare, grazie al discreto livello di opulenza raggiunto. La piena occupazione e il cospicuo gettito contributivo nelle casse dello Stato, consentirono di realizzare fiduciosamente nuovi progetti di espansione assicurativa. Lavvento della coalizione del centro sinistra poggiò sull'impegno riformistico ad operare una profonda modernizzazione del Paese. Con la Nota aggiuntiva, presentata nel 1962 dal ministro del Bilancio, Ugo la Malfa, la riforma del sistema di sicurezza sociale divenne un obiettivo prioritario nella programmazione degli interventi statali. Il repubblicano La Malfa sosteneva che bisognava correggere le distorsioni dello sviluppo capitalistico italiano, così intenso e accelerato negli anni del miracolo economico, riducendo i marcati squilibri tra consumi privati e consumi sociali, integrando definitivamente le classi disagiate entro lo Stato nazionale. A questo scopo occorreva rendere realmente effi-

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ciente la burocrazia, liberandola dalla corruttela della mediazione clientelare, dalla spirale di sprechi, disfunzioni e abusi del cosiddetto meccanismo del voto di scambio, utilizzato dalla leadership politica per profondere favoritismi assistenziali, in cambio della fedeltà elettorale. La costituzione di uno Stato sociale, equamente distribuito, rappresentava un programma ambizioso e seducente, ma era scontato che i possibili esiti venissero giudicati incerti, inattuabili, se non addirittura, utopistici.

Verso la fine del decennio precedente, erano comparsi sulla scena sanitaria agguerriti nemici delle mutue categoriali, in grado di offrire una protezione forte e completa soltanto a quote marginali della forza lavoro: le Regioni a statuto speciale e il Ministero della Sanità, affiancate nelle loro rivendicazioni dal Pci e dalla CGIL. Questi due organi reclamavano, insistentemente, l'istituzione di un sistema sanitario nazionale di cittadinanza, sulla base dell'obbligo implicito nell'art. 32 ad una copertura universalistica di diritto. Se le Regioni avevano iniziato ad erodere con proprie iniziative la giurisdizione delle mutue nel loro territorio, il neonato Ministero, diretto dagli anni Sessanta dal Psi, ingaggiò una battaglia contro l'INAM, controllata invece dalla Democrazia cristiana, per sottrarre prestazioni e competenze. L'esito legislativo di tale controversia fu l'impostazione occupazionale data alla previdenza pensionistica in base ai meriti lavorativi, dunque, ai con-

tributi versati dai lavoratori attivi, e l'estensione graduale dell'assistenza ospedaliera e sanitaria, a tutti i cittadini, in base ai reali bisogni.

Nel 1963, il CNEL redasse un piano di riordino complessivo che trovò soltanto una pallida eco sul piano riformatorio, perseguente una linea espansiva dell'offerta di prestazioni pubbliche. Non si ebbe, infatti, una maggiore democratizzazione rispetto al bisogno. L'accresciuta prosperità materiale, una attrattiva sempre più esclusiva verso i prodotti di consumo, uno spiccato individualismo, diminuirono il reale interesse per la partecipazione politica e per le forme di aggregazione collettiva. A tale proposito, si ritiene indispensabile accennare come, ad esempio, nei piccoli centri del Meridione predominasse imperterrita la cultura solidaristica del cosiddetto familismo, dove l'azione pubblica era quasi assente e le reti informali, fondate esclusivamente sui legami di parentela allargata, risultavano più estese (Livolsi, 1993). La dimensione del vicinato conservava una importanza preziosa, come primo elemento di aggregazione: dalla vita sociale nei caseggiati e quartieri dei Paesi, lontani dai ritmi metropolitani anonimi, convulsi e affannosi, affiorava spontaneamente una "politica del buon vicinato", fatta di scambi di semplici piaceri, come un'occhiata fiduciosa data a bambini o anziani soli. Spesso, però, questo concetto di reciproca collaborazione non si traduceva in un arricchimento potenziale della comunità citta-

dma, ma restava relegato entro cerchie sociali ristrette. La tipologia del radicato "familismo amorale" si rivolgeva proprio a tali forme di mutuo aiuto verso i propri parenti e conoscenti ma alla mancanza di senso civico e di dovere collettivo.

Nuovi attori sulla scena: gli Enti locali e il volontariato Se si torna alla periodizzazione cronologica degli avvenimenti, tra il 1954 al 1967, la spesa sanitaria media cresceva, nel frattempo, più di tre volte, - rispetto al settore pensionistico -, in conseguenza dell'aumento degli assistiti, dei consumi sanitari, dei costi unitari per prestazione, soprattutto dei ricoveri ospedalieri, dovuti ai continui progressi medici. Nel 1965, le mutue avevano accumulato un'esposizione debitoria nei confronti degli ospedali pari a 250 miliardi: questa fu una delle principali componenti di quel deficit pubblico italiano destinato ad espandersi irreparabilmente nei decenni seguenti. Con gli inizi degli anni Settanta, il welfare vide crescere notevolmente il suo peso simbolico e istituzionale, soprattutto sulla scia della grande ondata di conflittualità sociale del biennio 1968-1970.

Questa caotica spinta rivendicativa, innovativa ed ugualitaria, che preparò la stagione emergente del volontariato degli anni Ottanta, rivestì molti settori del sistema di protezione sociale: la casa, la salute, la scuola e l'assistenza. Il Governo si rese conto che non si potevano 45

piiei privilegiare determinate categorie, discriminandone altre. I pii concreti provvedimenti toccarono gli ospedali (1968), il settore pensionistico (1969), la maternità, la disoccupazione, le abitazioni, gli asili nido (1971), i consultori (1975), la liquidazione del sistema mutualistico e la soppressione degli enti nazionali assistenziali, i cui compiti passarono a Regioni e Comuni (19751977). Il legislatore ordinario si inspirò maggiormente ai principi di uguaglianza e solidarietà, per favorire la transizione all'universalismo: si impose, pertanto, l'idea di servizio sociale territoriale decentrato. Ciò si rese evidente con l'attuazione del Servizio Sanitario Nazionale (1974-1978), che unificava i settori della sanità ed assistenza, precedentemente separati e dispersi. Nonostante la Dc avesse cercato di rallentare la nazionalizzazione del sistema sanitario, per non perdere importanti e abbondanti risorse, l'istituzione di tale servizio nazionale venne posta come condizione dai comunisti, per il mantenimento del loro sostegno politico al governo.

Con l'avviamento del processo di regionalizzazione amministrativa, si trasferirono in modo definitivo le competenze in materia sanitaria alle Regioni, abolendo l'incontrastato potere delle mutue, tradizionalmente vicine al partito cattolico. Il vecchio impianto venne sostituito da una complessa ed articolata architettura, che fece espandere in modo "spettacolare" le responsabilità statali di welfare. Parallelamente all'aumento 46

della spesa sociale, che passò dal 16,8% del PIL nel 1960, al 20,1% nel 1980 (OcsE, 1984), venne realizzato un timido processo di rilevante distinzione tra attività del settore pubblico e privato.

In seguito all'entrata in vigore della legge 132 del 1978, gli enti ospedalieri privati vennero assorbiti progressivamente nel servizio pubblico nazionale, affidando la gestione delle IPAB alle Regioni. Gli enti di protezione sociale, che tutelavano gli interessi corporativi di specifiche categorie protette, con il decreto 616 del 1977 assunsero la personalità giuridica di diritto privato. Inòltre, si inaugurò l'attività svolta dalle USL, Unità Sanitarie Locali, organismi responsabili dell'assistenza sanitaria, con sedi distaccate in ogni singolo Comune delle principali città. Nonostante esse potessero contare su una riserva sostanziosa di fondi pubblici, non furono in grado di spenderla sempre razionalmente. Negli stessi anni venivano introdotti altri provvedimenti, come quello per il miglioramento della tutela a favore dei disoccupati e delle lavoratrici madri, tramite l'assegnazione della "pensione sociale", ma i servizi creati, iiumerosi e imponenti, furono in genere (o, come sempre) amministrati in modo squilibrato dagli enti pubblici. Di conseguenza, tale illecita manipolazione della protezione sociale provocò un inesorabile deterioramento, sia sul lato delle marcate sperequazioni del finanziamento dei contribuenti, sia su quello della insoddisfacente crescita dei risulta-

ti raggiunti. Dagli anni Settanta, il riconoscimento dell'importanza di avviare una strategia di cambiamento e di progettazione strutturale, orientata verso il decentramento, era culminato nella costituzione dei servizi diramati sul territorio, altamente differenti dagli strumenti sino a quel momento utilizzati, come la monetizzazione del bisogno e l'istituto di ricovero: ma questa entusiasmarite fase innovativa era destinata a spegnersi alle soglie della decade seguente. Oltre all'aggravarsi del deficit pubblico, fu il mutato clima politico a condizionare pesantemente le successive scelte nel campo assistenziale, tornato nuovamente sotto l'egida del particolarismo clientelare, mai scomparso.

In definitiva, lo sviluppo della legislazione sociale, dalla fine della seconda guerra alle soglie.degli anni Ottanta, mantenne le caratteristiche che gli aveva impresso il periodo corporativo precedente, carente di un intervento riformatore unitario, sistematico e integrato. Si registrò, invece, proprio a partire dallo scorso decennio, l'assunto che con la diretta partecipazione comunitaria si poteva far corrispondere l'intervento sociale ai bisogni reali, dando un forte impulso al volonariato organizzato, trascurato dalle precedenti tendenze iegislative, o considerato semplicemente, un surrogato compensativo per sopperire alle inadempienze delle politiche pubbliche. Dopo un lungo primato della mobilitazione politica, l'incipiente sgretolarsi degli apparati ideologici e la

fine della priorità del collettivo sull'individuale fecero emergere gradualmente la ricerca di un differente protagonismo sociale e di impegno civile "dal basso".

La perdita di fiducia nelle istituzioni e nella rappresentanza partitica, l'insicurezza economica, le crescenti e preoccupanti minacce sociali (le guerre, le centrali nucleari, lo sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale) incentivarono la disponibilità a prendere parte a nuove forme associative. La novità del fenomeno consisteva nel rifiuto da parte ditale azione volontaria del ruolo ancillare e subalterno nei confronti delle canalizzazioni partitiche. Gli organismi costituitisi negli anni Ottanta sorsero per una accresciuta sensibilità solidaristica, come risposta al disagio sociale e alla devianza giovanile, come aiuto e sostegno alle persone in difficoltà, come atto di denuncia contro il silenzio dell'indifferenza e la complicità corporativa delle istituzioni.

I gruppi di volontariato avvertirono l'esigenza di sostituire alla protesta e alla partecipazione puramente formale, un impegno operativo nel quotidiano, collegandosi fra loro e con gli Enti locali in modo permanente, per raggiungerc una certa visibilità pubblica. Nella pratica, essi ambivano a tappare le falle di un sistema dei servizi che perdeva acqua da tutte le parti, costituendo le prime comunità alloggio, i centri di accoglienza, le case-famiglia, le cooperative agricole integrate. Il loro intento era di promuovete una solidarietà umana pRi vicina ai 47

bisogni e di coinvolgere direttamente il cittadino nella produzione del proprio benessere, indebolendo la mediazione offerta fino ad allora dai partiti e dalla Chiesa. Certo, - come dicevamo -, in ambito italiano non si era mai raggiunto un reale equilibrio tra partiti, associazioni volontarie, vita privata e Stato, per l'assenza di una cultura civica nazionale. I governi succedutisi alla guida del Paese non avevano migliorato ie cose, continuando irresponsabilmente a drenare bisogno sociale più conclamato attraverso prestazioni monetarie o tramite la delega alle istituzioni ecclesiastiche, producendo la peculiare commistione di universalismo nei finanziamenti e selettività nei benefici (Fano ed al., 1983).

Di conseguenza, si comprende perché l'associazionismo popolare fu soggetto non solo ad una forte regolamentazione statale, ma anche ad intromissioni corrosive e degenerative di natura prettamente politica. Anche se furono diverse le esperienze che tentavano di non sottostare a tale logica.

Se si vuole trovare un punto di svolta emblematico, di grande interesse appare la vicenda che accompagnò la soppressione degli istituti psichiatrici, in conseguenza della cosidetta legge Basaglia, con la quale i malati di mente venivano considerati non più individui da recludere in spazi angusti, ma esseri umani alla ricerca di una integrazione possibile. In molti avevano cominciato a battersi per tutelare i pazienti dimessi dagli 48

ospedali psichiatrici o i portatori di handicap, fornendo loro alternative al segregante e opprimente ricovero in istituto, all'esclusione dalla scuola e da un possibile inserimento lavorativo: alcuni genitori decisero di fondare l'ANPAS, a favore di fanciulli e adulti subnormali e molti giovani si dedicarono attivamente alla autogestione dei centri so : ciali nel "movimento 1977", con l'intento di salvaguardare i più svantaggiati dall'emarginazione. Qualche anno dopo, si iniziarono ad attuare forme di pressione politica, per ottenere agevolazioni specifiche (come l'abbattimento delle barriere architettoniche), il riconoscimento di diritti "antichi" che non erano adeguatamente garantiti, oppure risposte a problematiche emergenti (come ad esempio, la necessità di cure gratuite per ammalati di svariate gravi patologie). Questo nuovo associazionismo possedeva, dunque, una straordinaria carica di denuncia e polemica, riuscendo a trasformare la famiglia stessa da "pilastro del privato" in soggetto attivo del welfare. Dagli studi compiuti da Giovanna Turnaturi (che parlerà più tardi di associati per amore, nel 1991), alla fine degli anni Ottanta, emerse proprio quella particolare effervescenza solidaristica, che la porta a coniare il termine ottimista di 'amilismo mora1e' contrapposto al familismo amorale degli anni Cinquanta. La sociologa sottolinea la straordinaria predisposizione a fondare associazioni di familiari colpiti da eventi tragici come attentati terrori-

stici o gravi malattie, per affrontare insieme esperienze dolorose di natura privata. Quando le vittime di ingiustizie, o di malattie incurabili, si attivavano per il loro caso personale, facevano della propria sofferenza una ragione di mobilitazione comunitaria. Nel momento in cui la famiglia rivendicava un diritto dimenticato o esigeva la soddisfazione di una domanda legittima e latente, rifiutava di affidarsi alle forme consuete di legittimazione politica dei partiti.

Il settore assistenziale aveva avuto le sue buone ragioni per privilegiare una politica di trasferimenti monetari alle famiglie e per appoggiarsi agli enti ecclesiastici di beneficenza, delegando la protezione sociale ad autorità pubbliche preposte, che si erano dimostrate spesso estranee e latitanti, scarsamente rappresentative dell'utenza. Ma, finalmente, non si era più orfani di sentimenti condivisibili, dotati di scarsa coscienza civile, destinati a sopravvivere al silenzio della propria nicchia privata. La probabilità che la strada intrapresa verso la crescita civile dell'Italia, manchevole per molti aspetti di una reale identità nazionale e deficitaria di una diffusa etica pubblica, contro i labirinti delle competenze burocratiche comunque impenetrabili, potesse portare a importanti traguardi, andava misurata sulla consapevolezza del ritardo storico che aveva contrassegnato il punto di partenza del Welfare State nel nostro Paese.

Solo a partire dalla crisi del 1992, in un contesto di elevata turbolenza ambien-

tale e di radicale trasformazione dello scenario politico, di carenze strutturali congenite, la riforma sociale è tornata ad essere uno dei obiettivi prioritari nell'agenda programmatica del governo.

Gli anni Novanta rappresentano un ulteriore banco di prova, se si tiene conto che dal 1991, si prepara una regolazione diversa dei rapporti tra ente statale e terzo settore, nelle sue espressioni essenziali del volontariato (1.266/9 1) e della cooperazione sociale (1.381/91); dal 1990 si legifera in materia di tossicodipendenza (1. 162); dal 1992 (legge quadro 104) si riconosce il pieno rispetto della dignità umana del portatore di handicap e si legifera a favore di una maggiore tutela degli anziani.

L'attuale crisi del welfare italiano non deve essere identificata con il solo problema - di cui si fa un gran parlare delle pensioni di anzianità. Senza sottovalutare l'enorme incidenza della spesa previdenziale e degli oneri pensionistici, e la necessità di intervenire a favore di una sostanziale perequazione dei trattamenti erogati, si deve tenere conto delle più recenti misure declinate, ad esempio, in termini di reddito minimo di inserimento sociale e di mutualità integrativa, tramite l'assegnazione di buoni di servizio (trasferimenti di reddito integrati da misure di accompagnamento) e il meccanismo delle detrazioni fiscali, come per la cura domiciliare dei soggetti non autosufficienti: meno tasse, risparmi indolori, più investimenti nel sociale, con il dichiarato intento di non prosciu-

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gare ulteriormente le tasche dei contribuenti e di promuovere un'inclusione generalizzata (Girotti, 1998). Lo Stato sociale italiano "eppur si muove" verso il cambiamento, favorendo la crescita occupazionale e la ripresa economica.

DALLA CRISI ALLE PIU RECENTI STRATEGIE DI RIFORMA

Varcata definitivamente la soglia degli anni Ottanta, le misure di contenimento della spesa sociale, i tagli a quella sanitaria ed educativa, l'incremento degli oneri finanziari, tramite il pagamento di ticket a carico degli utenti, si tradussero in molti casi, in una dilatazione dell'esclusione sociale. L'impostazione teorica della strategia macroeconomica keynesiana, fino ad allora perseguita, fu messa pesantemente sotto accusa, nel momento in cui si negò la validità a un diritto fondamentale della cittadinanza sociale, quello al lavoro. All'esplodere dei tassi di disoccupazione insostenibile ci si è resi conto che l'assioma "sviluppo economico uguale aumento dell'occupazione" era forse troppo meccanicistico. Le grandi trasformazioni nel campo tecnologico, nell'organizzazione economica e nella produzione globale, hanno messo in evidenza le difficoltà strutturali incontrate dal mercato e dalle istituzioni statali, nell'affrontare adeguatamente le problematiche emergenti come quelle - appunto - della disoccupazione dilagante e delle aspettative sociali crescenti. Feconomia non cresce pi1 ac50

canto all'integrazione sociale, poiché venendo meno una buona parte dei posti di lavoro disponibili si produce maggiore impoverimento. La dirompente introduzione delle moderne tecnologie legate al mercato globalizzato, sviluppatosi soprattutto nell'ultimo decennio, ha ridotto - infatti - l'apporto di lavoro umano, modificando profondamente la struttura sociale ed economica nei vari contesti nazionali. Al risparmio di lavoro nel settore secondario corrisponde una espansione multilaterale di un terziario dinamico, mobile e flessibile, dovuta all'incremento dei redditi individuali e a una maggiore competitività internazionale dei mercati, talora saturi a livello locale. Una parabola storica, durata circa duecento anni, sembra avviata alla sua conclusione: quella relativa alla società industriale. Da creature fordiste, i Welfare State si stanno tramutando in welfare societies (dal ben-essere allo star bene), pluraliste, personalizzate e diversificate: lo Stato è destinato a passare da erogatore esclusivo ad un'aperta comunità solidale. In pratica, in conseguenza degli effetti deleteri di politiche sbagliate - pesanti deficit e debiti nazionali si sono avute pressanti richieste di significativi tagli alla spesa pubblica e spinte verso la privatizzazione di numerosi servizi assistenziali.

Come si risponde, quindi, al tentativo di smantellamento dello Stato sociale, in questo periodo storico caratterizzato dalla transizione verso una società. p0stindustriale? Una transizione di note-

vole portata se si considera quello che comporta in termini di repentini mutamenti nei processi produttivi, di stratificazione sociale e di nuove figure lavorative; di rallentamento della crescita economica, unitamente a una disoccupazione sempre più persistente; di modificazioni della struttura tradizionale della famiglia, con una diminuzione percettibile delle sue capacità solidaristiche; di rottura degli equilibri demografici con la netta avanzata delle classi più anziane nella composizione della popolazione e la flessione delle nascite, con una crisi delatto generazionale' in virtù del quale si può ipotizzare che i giovani dovranno sostenere il carico delle future pensioni, concesse più tardivamente; di poderoso ingresso delle donne, spesso prive di adeguate tutele, nel mercato; di permanenza di gravi sacche di esclusione, quelle dei cosiddetti "nuovi poveri"; ed infine, di difficile confronto integrativo con i continui flussi migratori di manodopera a basso costo, provenienti da culture lontane; di aumento dal disagio sociale e del crimine violento.

Nell'ultimo biennio, commentatori appartenenti alle più diverse discipline si domandano come dovrebbe configurarsi il sistema pensionistico, l'ambito sanitario e la rete dei servizi sociali in modo da bilanciare efficacemente intervento statale, mutualità volontaria e aiuto solidale. Messa da parte l'ipotesi di un ritorno alle logiche stataliste, in risposta al deterioramento di un welfare ammi-

nistrato per via burocratica, o di un'assistenza esclusivamente privata, l'attenzione si volge - dunque - alla proficua attuazione del cosiddetto e tanto auspicato welfare mix.

Se la proposta neoliberista, favorevole ad un restringimento della spesa sociale muove, come noto, da un'analisi impetuosa della crisi fiscale, considerata effetto pernicioso della crescita di costi palesemente incompatibili con una pressione tributaria intollerabile, i fervidi assertori della gestione mista dei servizi guardano alle reali potenzialità offerte dal Terzo settore. Proprio le conseguenze nefaste dell'indiscriminata espansione dell'intervento pubblico hanno contribuito a far riscoprire le azioni di rilevanza collettiva, presenti nella sfera privata, orientate verso fini altruistici di utilità sociale (Ascoli, 1993).

Se si osserva la storia della politica sociale dal punto di vista dei destinatari, attualmente, l'individuo beneficiano non può più essere considerato né in astratto, come membro di una collettività senza distinzioni di status (modello universalistico), né esclusivamente come categoria lavorativa (modello occupazionale), ma deve essere riconosciuto per suoi bisogni reali contemporanei. Si apre la prospettiva di una nuova welfare society, in cui conta più la gestione dei servizi che l'idea di appartenenza, in cui il Terzo settore diviene protagonista di primo piano, concorrente a pari titolo con le istituzioni pubbliche, nella erogazione dei servizi di cittadinanza socia51

le postindustriale, senza cadere nell'errore di enfatizzare oltre misura le sue reali opportunità. La carenza di beni materiali o relazionali, di strutture abitative accessibili per chiunque e di adeguati itinerari formativi, la dissipazione dei legami comunitari, l'insufficienza delle reti di servizio e di sostegno sociale, la crescita senza occupazione hanno trascinato alla deriva la nave del we1fare la ricchezza nazionale, la libertà politica e la coesione sociale non camminano più su strade parallele. Una mina vagante pronta ad esplodere.

In questo momento, una qualche Commissione parlamentare o governativa, preso atto della situazione esistente, sta lavorando intorno al problema. È prevedibile che ancora per un certo tempo (ci si augura non troppo lungo) l'attenzione delle istituzioni, degli "addetti ai lavori" e dell'opinione pubblica più vasta sarà occupata dalle riforme sociali. Dibattiti, incontri e confronti si sono susseguiti serrati, soprattutto in occasione dell'insorgere delle difficoltà relative al raggiungimento dei parametri imposti da Maastricht. Le esigenze dell'integrazione hanno avuto il merito di imprimere un'accelerazione verso una definitiva risoluzione, che si auspica positiva, affinché il welfare torni a funzionare come robusto argine contro l'insicurezza, la

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precarietà e come equo strumento redistributivo. Per quel che riguarda l'impatto del processo di integrazione europea, si può ipotizzare che in futuro ci sarà, da un lato, l'attenuazione di ispirazioni centraliste, con copertura volta ad istituzionalizzare un'erogazione di prestazioni di base, perseguendo la tendenza limitativa e sovranazionale voluta dalla Comunità, e dall'altro, un ampio ventaglio di servizi più specifici, rivolti a fasce particolari, gestite in maggioranza da imprese private, di profitto e non, prefiggendosi obiettivi di solidarietà ridefinita a livello regionale o locale.

Far corrispondere un'efficace risposta pubblica alle speranze dei cittadini, coniugando l'universalità delle prestazioni con la diversità dei bisogni, scongiurando il pericolo che si rompano definitivamente le ormai fragili barriere innalzate a difesa dell'inclusione "per tutti", ricordando che la conquista della cittadinanza sociale ha significato l'abbandono di prerogative caritatevoli di difesa verso i poveri e la fine dei privilegi delle classi più abbienti, esigendo i corrispettivi doveri di contribuzione e partecipazione -, è indispensabile per non fare di questa straordinaria invenzione sociale una vuota formula magica: affinché i cittadini tornino a porre fiori e frutta nei propri cesti!

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Dalla beneficenza alle politiche sociali.

Gli strumenti di lotta alla povertà di Gianni Li ma *

Povertà è una parola di uso corrente e riguardo al suo significato non sembra prestarsi ad equivoci. Tuttavia, ad una prima approfondita analisi l'univocità del termine non appare così assoluta.

Occorre, in primo luogo, rendersi conto che dietro a tale termine si cela un fenomeno sociale di vasta portata, intimamente legato alle trasformazioni della società intera, colta nei suoi processi di sviluppo squilibrati settorialmente e territorialmente: la povertà non deve essere considerata una "situazione individuale" che caratterizza un certo numero di persone viventi in una collettività in un certo periodo storico, ma come un "processo sociale" particolare che trova la sua origine ed esplica i suoi effetti nella dinamica sociale complessival. È facile rendersi conto di ciò, allorché si considerino le condizioni di vita del secolo scorso, nel periodo in cui la rivoluzione industriale ed il capitalismo avevano già prodotto i loro primi effetti: sia artigiani, operai che contadini traevano dal proprio lavoro mezzi appena sufficienti per sopravvivere; era una condizione, si direbbe oggi, di povertà di massa.

* Consulente presso il Comune di Tivoli (Roma).

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L'atteggiamento' della pubblica autorità nei confronti del problema si è trasformato molto lentamente nel tempo, a causa di retaggi ideologici ancora oggi riconoscibili. Se si torna a considerare per un inomento la condizione sociale del secolo scorso, si nota che alla coscienza di allora erano presenti due categorie di poveri: i "poveri" propriamente detti e gli "indigenti"; la discriminante è l'appartenenza al mondo del lavoro.

L'essere esclusi dal sistema produttivo, in senso lato, attira alla fine un giudizio negativo ed innesca un processo di "emarginazione per colpa" al quale è quasi impossibile sottrarsi. Ma prima ancora di giungere a questa conclusione, occorre rilevare la diversa evoluzione che i due tipi di concetto di povertà hanno realizzato nell'ultimo secolo di storia. I "poveri" propriamente detti, grazie alla loro posizione nel processo produttivo, hanno potuto modificare la loro condizione trasformandosi in classe lavoratrice, nuovo e sempre maggiore soggetto di potere. La classe lavoratrice attuale si è talmente allargata in termini quantitativi ed ha talmente migliorato il proprio tenore di vita, da provocare in molti il convincimento (non corrispondente alla

realtà) che la povertà sia scomparsa nel nostro Paese. Tutto ciò ha portato, inoltre, ad una ulteriore convinzione: chi si sottrae al dovere del lavoro è da ritenere responsabile della propria misera condizione. Questo, infatti, è il significato della seconda linea evolutiva: l'indigente merita di essere giudicato negativamente ed assume la figura sociale del mendicante o dell'assistito dalla beneficenza privata o pubblica.

Mentre nella prima concezione della povertà ciò che maggiormente è messo in evidenza è il processo causale che la genera, nel secondo caso è invece presa in considerazione la manifestazione del fenomeno. L'oggetto dell'interesse non è più la povertà, ma i poveri con i loro problemi di reddito, di casa, istruzione e salute. Quando non si fa risalire al povero stesso la responsabilità della propria situazione, è la disgrazia che si chiama in causa per giustificare una situazione che altrimenti coinvolgerebbe una responsabilità collettiva che si cerca, invece, di evitare accuratamente.

Il povero per sua colpa o per disgrazia è, infatti, compatibile con il mantenimento dei rapporti sociali stabiliti e richiede di essere assistito per impedirgli di diventare socialmente pericoloso. Questa concezione dell'assistenza come strumento dell'ordine pubblico ha radici lontane (si veda la I. n. 2248 del 1865, all. B, che rubrica i poveri mendichi sotto il titolo dei soggetti pericolosi) e molto faticosamente ha ceduto il passo ad un nuovo tipo di intervento sociale

collegato con la realizzazione di sistemi di sicurezza sociale generalizzata: il cosiddetto "Welfare State".

La parte seguente del presente lavoro accennerà l'evoluzione normativa in materia di assistenza e beneficenza a partire dall'unità d'Italia, e in generale le politiche sociali, ispirate da motivazioni di fondo diverse, che si sono susseguite in più di un secolo di storia, evidenziando pure le difficoltà, le carenze, i ritardi in ordine alla costruzione di un sistema di protezione sociale nel nostro Paese, in grado di rendere marginale una "piaga" quale è quella della povertà che, alle soglie del terzo millennio, appare invece un fenomeno in espansione.

DALLA CARITÀ LEGALE ALLA BENEFICENZA LEGALE

Il senso della beneficenza, intesa come attività umana diretta a dare sollievo ai miseri, si è manifestata fin dalle civiltà antiche. Inizialmente, l'ispirazione fu per la massima parte religiosa; ma altri sentimenti hanno, del pari, ispirate le destinazioni pie, quali il puro sentimento della filantropia, l'amore della cultura, la solidarietà. Tutto ciò ha spinto lo Stato ad intervenire dinttamente nell'ambito della beneficenza pubblica.

Quanto al modo di tale intervento si manifestano due sistemi opposti, fondati su diversi principi.

Secondoil primo di questi sistemi, lo Stato deve intervenire in tema di pubblica beneficenza, ma tale intervento non costituisce vero obbligo giuridico; 55

l'indigente non può esigere nulla, non esercita domandando soccorso nessun diritto positivo. Tale sistema è indicato con il nome di "carità legale".

Secondo l'altro sistema, che si può definire di "beneficenza legale", lo Stato considera la pubblica beneficenza come un dovere, che però non fa ancora sorgere un corrispondente diritto dei privati al pubblico soccorso: lo Stato concorre con la carità individuale nell'assistenza pubblica, sia con l'istituzione di speciali ricoveri sia dispensando soccorsi finanziati dalle entrate pubbliche; in ogni caso il soccorso, spesso spontaneo, è determinato dal libero apprezzamento delle convenienze 2 .

In Italia, il passaggio dalla fase della carità legale a quella della beneficenza legale (con l'assimilazione delle finalità delle istituzioni benefiche a fini pubblici) si è determinata con la I. n. 6972 del 1890 (cosiddetta legge Crispi). L'articolo i della legge assunse un valore strategico poiché cercò di dettare un regime giuridico unitario per istituzioni ed enti che svolgevano attività nei più diversi settori della vita civile.

Secondo tale articolo, venivano considerate istituzioni di assistenza e beneficenza le "Opere pie" ed ogni altro ente morale che avesse, in tutto o in parte, per fine l'assistenza ai poveri, tanto in stato di sanità quanto in malattia, nonché il procurare l'educazione, l'istruzione e comunque il miglioramento morale ed economico. La stessa disposizione stabiliva il confine del nuovo regime pubbli56

cistico, escludendo dal novero delle istituzioni di beneficenza ed assistenza sia i comitati di soccorso e le altre istituzioni temporanee, sia le fondazioni private destinate a favore di una o più famiglie determinate, nonché le società ed associazioni regolate dal codice civile.

Obiettivo primario della legge era quello di creare un sistema di beneficenza coordinato che agisse in raccordo con gli organi centrali e periferici dello Stato e con gli enti territoriali. Anche per questo, assieme alle competenze di controllo e di tutela che venivano demandate al ministero dell'Interno e ai prefetti, si consolidava in ogni Comune una Congregazione di carità che doveva fungere da centro propulsore dell'attività assistenziale su scala territoriale. Una fitta rete di norme generali prevedeva una "supervisione statale" sull'amministrazione delle istituzioni assistenziali, sulla loro "strutturazione tipica", e soprattutto prevedeva l'intervento pubblico nel campo della "riforma dell'amministrazione e della mutazione del fine" delle Opere pie, attraverso la possibilità di concentramento e trasformazione delle medesime 3 .

Un intervento pubblico, quindi; assai penetrante nell'incanalare le vecchie istituzioni di beneficenza nel nuovo sistema assistenziale.

VERSO LA FORMAZIONE DI UN SISTEMA DI PROTEZIONE SOCIALE

Nei primi anni del giolihismo fu compiuto il tentativo di rendere ancora più incisivo l'intervento statale.

Il progetto giolittiano si concretizzò nella I. n. 390 del 1904, che "specializzò" il sistema di controllo delle istituzioni di beneficenza.

Nel periodo immediatamente successivo, proseguì l'analisi delle istituzioni di beneficenza dell'apparato amministrativo centrale, mentre durante il fascismo furono emanati alcuni importanti provvedimenti legislativi tra i quali il RD n.

2841 del 1923, con il quale venne ripristinata la situazione normativa antecedente la legge giolittiana del 1904; inoltre, venne sostituita in ogni parte della I. n. 6972 del 1890 la originaria espressione "istituzioni pubbliche di beneficenza" con quella di "istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza" (come primo passo verso il concetto di sicurezza sociale, anche se oltre gli effettivi meriti ed intenzioni della legge fascista), e venne anche introdotto il concetto di "prevenzione" nell'attività assistenziale, che però conobbe soio pit tardi concreti sviluppi.

La I. n. 810 del 1929, avente per oggetto l'esecuzione del Concordato dello stesso anno tra l'Italia e la Santa Sede, introdusse altre novità significative, prima fra tutte il riconoscimento della persotialità giuridica ad una serie di enti ecclesiastici, e anzitutto agli ordini e istituti religiosi. In tal modo venne dilatato il campo di azione ditali enti che, in quanto persone giuridiche civili, potevano gestire attività di assistenza e beneficenza nonostante queste non integrassero veri e propri fini di religione e di culto.

Innovazioni sostanziali sono da addebitarsi, infine, all'altra legge fondamentale del periodo: la I. n. 847 del 1937 con la quale fu modificata l'organizzazione assistenziale periferica mediante la soppressione delle congregazioni di carità e la sostituzione ad esse, in ogni Comune, di Enti comunali di assistenza (EcA) 4.

Emerge chiaramente da quanto detto che, ferma restando la disciplina del 1890, la materia dell'assistenza non è stata oggetto, nel periodo liberale e in quello autoritario, di un vero monopolio pubblico.

Si può dire, invece, che mentre lo Stato ha dato vita ad un apparato istituzionale capace di perseguire il fine "sociale" dell'assistenza e beneficenza, spazi significativi sono stati riconosciuti, e progressivamente ampliati, alla chiesa cattolica e ad altre confessioni religiose (si veda il r.d. n. 1731 del 1930 che riconosce come corpi morali le comunità israelitiche) che hanno potuto svolgere attività assistenziali attraverso propri enti ed organismi anche cuori dei tradizionali strumenti privatistici consentiti dall'ordinamento.

Questa, in sostanza, era la situazione che in campo assistenziale ha trovato l'Assemblea Costituente al momento della sua elezione. Nulla era sostanzialmente mutato nell'intervento statale rispetto alla impostazione di fine secolo, in cui notevoli patrimoni servivano a beneficiare pochi mentre le necessità riguardavano una grande parte della popolazione. Lo Stato aveva scelto e man57

tenuto l'unico ruolo di arbitro della situazione, in quanto garante del rispetto della libertà.

L'Assemblea Costituente costruendo la nuova Costituzione si prefisse, in maniera incontrastabile, il ribaltamento di tale realtà, concependo uno Stato che facesse propri i grandi problemi dell'uomo quali il mantenimento di una vita dignitosa, la prevenzione della malattia e cura della salute, una garanzia per l'età della pensione.

La situazione della legislazione assistenziale (e di quella previdenziale con essa strettamente congiunta) in Europa, nel momento in cui la Costituzione repubblicana vide la luce, presentava i seguenti modelli: da una parte il sistema sovietico, caratterizzato dalla estensione a tutti i lavoratori, cioè alla quasi totalità dei cittadini, di un complesso di assicurazioni sociali e di provvedimenti assistenziali a carico dello Stato o di enti minori; dall'altra, il sistema inglese, fondato invece su prestazioni uniformi, per il quale l'intera popolazione, senza differenza di classe, sesso o occupazione, era assicurata, entro certi limiti, contro ogni perdita del potere di guadagno, da qualsiasi causa provenisse, mentre l'assistenza svolgeva una funzione subordinata, volta ad integrare le deficienze delle assicurazioni sociali; infine, vi erano i sistemi dei rimanenti Stati europei, in cui le forme della previdenza non si estendevano all'intera popolazione, né avevano carattere unitario, ma differivano secondo criteri geografici e di categoria, con58

servando pure alcune peculiarità dovute alla loro origine privatistica, e condizionando correlativamente l'attività assistenziale dei poteri pubblici, concepita prevalentemente come funzione discrezionale, cui non corrispondeva un vero e proprio diritto dei cittadini.

Caratteristica di questi ultimi sistemi era un'evoluzione intesa ad adeguarli o al modello sovietico o a quello britannico; cioè ad estendere l'ambito delle assicurazioni sociali obbligatorie, a dissociare il rapporto previdenziale dall'elemento del rischio, ad accrescere la partecipazione della collettività agli oneri ad esso relativi, ad ampliare i servizi assistenziali.

Per effetto di questo sviluppo, la previdenza sociale, prima nettamente distinta dall'assistenza, acquista degli aspetti che tendono ad assimilarla ad essa. Si potrebbe definire quasi un "ricorso storico": l'assistenza, concepita prima come unica funzione sociale, poi sostituita, per la sua inadeguatezza dalla previdenza, ritornerebbe in primo piano ma arricchita di un contributo di sostanjale importanza, derivante dalla fase previdenziale della legislazione sociale, consistente nella risoluzione del rapporto nello schema diritto-dovere. Previdenza ed assistenza tenderebbero a fondersi in un solo sistema di protezione o sicurezza sociale. È in questa evoluzione che si inseriscono le norme della Costituzione italiana che concernono la previdenza e l'assistenza. Fu subito ben chiara e precisa, infatti, la volontà di superare il concetto

di assistenza quale carità o aiuto occasionale nei momenti di necessità, per divenire scelta politica del nuovo Stato che si voleva costruire, il sostenere la vita del cittadino impossibilitato al lavoro per cause diverse. Tanto è vero che le norme sull'assistenza sociale vennero volutamente inserite nel capitolo dedicato al lavoro e legate strettamente al medesimo diritto che ogni cittadino aveva di lavorare e per il quale lo Stato si impegnava a promuoverne le cause.

Assistenza, quindi, come diritto del cittadino inabile e dovere della comunità statale; intendendosi così chiaramente superato il concetto elemosiniero che fino ad allora aveva dominato, attraverso la I. n. 6972 del 1890 e la istituzione degli ECA del 1937.

L'Assemblea Costituente si preoccupò anche delle strutture che potessero realizzare tale diritto, dichiarando espressamente di voler superare le mutualità così come Lino allora esplicate. Tutta la discussione sull'articolo 34 (divenuto 38 della Costituzione) fu imperniata, infatti, sul superamento del sistema degli enti dato il loro funzionamento ritenuto inefficace. E tale volontà divenne mequivocabile con l'approvazione dell'articolo 117 che demanda alle Regioni la competenza relativa alla beneficenza pubblica5 .

DALLA BENEFICENZA LEGALE ALL'ASSISTENZA SOCIALE

Nànostante le disposizioni. costituzionali (artt. 1, 3, 4, 24, 30, 31, 32, 34, 35, 38,

Cost.) configurino le linee di un ordinamento protettivo organico ed esauriente, numerose sono state le difficoltà in ordine alla costruzione di un sistema efficace di protezione sociale. Per citarne alcune: i problemi interpretativi riguardanti il valore esclusivamente programmatico o immediatamente prècertivo delle stesse norme costituzionali; le difficoltà sulla precisa collocazione dei concetti di "assistenza", "previdenza" e "beneficenza"; l'attuazione dell'ordinamento regionale ed i conseguenti problemi di ripartizione di funzioni tra Stato ed Ente locale; le difficoltà interpretative dovute alla vigenza della I. n. 6972 del 1890; le numerose pronunce della Corte Costituzionale, classificabili come interlocutorie; la problematica inerente il ruolo della beneficenza privata nel più generale quadro della solidarietà sociale (vicenda che ha avuto una svolta con la sent. n. 396 del 1988 della Corte Costituzionale, che ha colpito la necessaria pubblicizzazione imposta dalla legge Crispi), nonché la mancanza di una programmazione capace di identificare le finalità, i modi e i mezzi relativi per realizzare gli interessi di cui sono portatori soggetti distinti (che altrimenti sono portati a contrastarsi, facendo assumere, di conseguenza, carattere discrezionale alla prestazione assistenziale) 6 .

Naturalmente, vanno considerate pure le errate impostazioni politiche date al problema, se non la mancanza di una chiara volontà politica a dare attuazione al disegno costituzionale.

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I RAPPORTI SULLA POVERTÀ IN ITALIA A CURA DELLA COMMISSIONE DI INDAGINE SULLA POVERTÀ E L' EMARGJNAZIONE

Interessante, ai fini del presente discorso, è il contributo fornito dalla Commissione di indagine sulla povertà e l'emarginazione collocata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che dal 1985 al 1997, nelle sue diverse composizioni, ha fornito dati conoscitivi ed indicazioni operative attraverso una serie di rapporti, finalizzati a favorire le scelte politiche necessarie per combattere la povertà e l'emarginazione7.

La Commissione si è sempre impegnata, innanzitutto, a mettere in evidenza il fatto che le carenze personali, familiari, ambientali possono concorrere a determinare situazioni di povertà; ma peso preponderante deve essere attribuito alla diseguale distribuzione delle risorse fra gli individui, i gruppi sociali, le aree territoriali nonché all'inadeguatezza delle politiche e dei meccanismi redistributivi che dovrebbero correggere le diseguaglianze più inique e intollerabili.

Se è vero che la povertà si presenta come un fenomeno cumulativo e multidimensionale, nel senso cioè che alla insufficienza del reddito monetario si accompagnano carenze di altre risorse, dall'istruzione all'accesso ad altri servizi pubblici e privati, vi è tuttavia la necessità di dedicare prevalente attenzione a quelle situazioni di povertà, in atto o a rischio, che hanno come base l'insufficienza di reddito, poiché è quest'ultima che mette in moto il "circolo vizioso 60

della povertà": dalla povertà economica della famiglia di origine deriva minore possibilità di istruzione e formazione professionale; questa dà accesso a lavori meno qualificati e remunerati e, alla fine della vita lavorativa, a pensioni inadeguate; inoltre, la scarsità di reddito spesso influisce sulle condizioni abitative e ambientali e sul godimento delle altre risorse, compresi i servizi sociali, che concorrono a determinare la qualità della vita.

Il peso della condizione reddituale come fattore della povertà chiama in causa la centralità dell'occupazione lavorativa, dato che questa costituisce in genere la fonte primaria del reddito per la quasi totalità delle famiglie: centralità che riguarda l'accesso al lavoro, ma anche il tipo di occupazione, le garanzie di stabilità, la protezione normativa e sindacale effettivamente goduta.

In questo senso, la Commissione avverte che se si continuasse a concepire la povertà come una situazione affrontabile sui terreno della sola assistenza sarebbe logico affidarne la gestione esclusiva o primaria agli Enti locali. Al contrario, dato che la povertà non è in genere frutto di sfortunate vicende personali, ma è conseguenza di situazioni più generali, il problema va aggredito all'origine, sul terreno delle politiche dell'occupazione, della distribuzione del reddito e dell'impiego della spesa sociale. Per questi motivi, l'intervento contro la povertà deve articolarsi a due livelli: nazionale e locale.

Le direzioni verso le quali deve esplicarsi la politica da attuare a livello nazionale sono le seguenti: ridistribuzione e nequilibrio delle risorse fra le diverse aree territoriali; sviluppo dell'occupazione in funzione dell'accesso di tutti al lavoro, con priorità per chi versa in condizioni di maggior bisogno; adozione di misure atte a favorire la piena fruibilità dei servizi sociali da parte dei cittadini più svantaggiati: attuazione di interventi economici di base mediante la razionalizzazione delle agevolazioni fiscali e dei trasferimenti di reddito; formulazione di normative generali, a cui le politiche locali devono riferirsi.

Le politiche nazionali contro la povertà vanno integrate a livello locale. Ciò con un duplice scopo: per utilizzare indicatori della povertà meno approssimativi e meno grezzi di quelli disponibili a livello nazionale (quali i livelli di reddito dichiarati a fini fiscali o auto-accertati); per elaborare un sistema di interventi "tagliato", per così dire, su misura rispetto ai molteplici e peculiari aspetti che presenta ogni specifica situazione di povertà.

La personalizzazione degli interventi di competenza locale (elle può essere ottenuta utilizzando, accanto alle strutture pubbliche, il contributo integrativo delle strutture pnivate e del Terzo settore in genere) deve evitare il rischio di cadere nell'assistenza discrezionale, la quale se da un lato rischia di stigmatizzare i beneficiari, dall'altro, alimenta la permanenza dei poveri in una condizione, di

fatto ed anche psicologica, di dipendenza. Perciò, anche l'intervento sociale deve ispirarsi a normative che, definendo oggettivamente destinatari e prestazioni, pongono in essere precisi diritti dei destinatari stessi e forniscono loro strumenti per raggiungere una maggiore autonomia, aiutandoli così ad uscire dalla condizione di "questuanti".

Ancora a livello di considerazioni generali, la Commissione rileva come l'obiettivo di contrastare la povertà non sia mai stato in Italia oggetto di organica politica sociale, soprattutto quando si consideri la sfera dell'intervento pubblico gestito al livello dell'amministrazione centrale dello Stato. Ciò non significa che la povertà non sia stata affrontata: piuttosto che di essa non si sia tenuto conto, soprattutto in quanto associata ad ulteriori condizioni di bisogno per categorie di cittadini destinatane di diritti di protezione sociale.

In altri termini: il sistema delle politiche sociali non è risultato orientato a promuovere direttamente il superamento di condizioni di povertà attraverso una definizione di carattere universalistico della povertà stessa, e quindi predisponendo un sistema di interventi e prestazioni che procedesse per automatismi; piuttosto è risultato indirizzato ad affrontare, nel tentativo di nimuoverli, tutta una serie di fattori che possono essere associati secondo una relazione di causalità alla povertà stessa. Per altri versi, si è venuta strutturando una tradizione di interventi sulla povertà che si 61

attivano quando questa si manifesti in soggetti la cui posizione di debolezza sociale complessiva derivi dal concorso di cause ben determinate: l'anzianità, la disabilità, l'abbandono familiare, etc. In tal modo, gli interventi direttamente orientati al contrasto della povertà sono risultati ricadere, più che in un organico sistema di politica sociale, nell'ambito delle competenze delle amministrazioni locali che gestiscono gli interventi assistenziali.

Anche se taluni interventi di carattere previdenziale, quali le pensioni sociali (che vengono erogate direttamente dal livello centrale) hanno concorso in qualche misura a mitigare i disequilibri distributivi, l'importanza del livello locale nel contrasto della povertà, attraverso forme ridistributive, sia monetarie che di genere, è stata ancora più accentuata dalla mancanza di una legge-quadro che regolamentasse il settore dell'assistenza sociale. Ma c'è dell'altro.

La parzialità degli interventi, la stagnazione culturale dentro e intorno al settore, la mancanza di collegamenti sistematici e di momenti strutturali di confronto teorico ed operativo sui ruolo dell'ente Regione e sull' impostazione delle politiche socio-assistenziali sono tutti elementi di debolezza che finiscono per incidere anche sulle esperienze regionali più avanzate e che lasciano difficilmente intravedere nella sola emanazione di una legge-quadro nazionale le soluzioni dei problemi del settore. È importante, cioè, che cresca intorno alla 62

legge-quadro una cultura omogenea di settore sull'intero territorio nazionale, in grado di ribaltare le attuali logiche di subalternità e di marginalità del settore socio-assistenziale.

La Commissione, infine, ritiene pure necessario nell'ottica di una vasta revisione degli strumenti della politica sociale in Italia, l'introduzione di due misure distinte, ma complementari: "l'assegno per i figli" e il fninimo vitale".

Per quanto riguarda la prima misura, la Commissione propone di trasformare l'assegno al nucleo familiare in un assegno per i figli volto a compensare in parte le famiglie per il costo sostenuto per allevarli. In linea di principio, beneficiari dovrebbero essere tutti i minori a carico (inclusi coloro che sono in cerca di occupazione e gli studenti). Di fatto, il diritto all'assegno dovrebbe cessare al di sopra di una determinata soglia di reddito familiare, opportunamente definita sulla base di una scala di equivalenza che eguagli i redditi di famiglie di composizione diversa.

L'altra misura, il minimo vitale, si ispira a criteri universalistici poiché si rivolge alla generalità dei cittadini residenti con reddito insufficiente. Esso si compone di: un trasferimento monetario che lo Stato eroga anche come integrazione di altre prestazioni ai dttadini che hanno entrate inferiori alla soglia di reddito, convenzionalmente definito come minimo necessario per vivere; una serie di misure e progetti di integrazione e inserimento sociali adeguati ai bisogni, alle

capacità e alle condizioni dei diversi soggetti.

Il minimo vitale dovrebbe sostituire le due misure che attualmente, a livello nazionale, costituiscono una garanzia di reddito di tipo assistenziale: la pensione sociale e la pensione di invalidità civile (ma non l'indennità di accompagnamento), fermi restando i beneficiari.

La parte pRt interessante, comunque, di questa proposta è sicuramente la previsione di un "progetto negoziale di inserimento" al quale legare il trasferimento monetario: si è già sottolineato, infatti, che la migliore politica di lotta alla povertà è proprio quella volta a rafforzare o creare l'occupazione.

IL DECRETO LEGISLATIVO N. 237 DEL 1998 E IL SOSTEGNO DEI REDDITI FAMILIARI

Di recente è stato istituito, con il d.lgs. n. 237 del 1998, "l'istituto del reddito minimo di inserimento", che - benché non sia quello di cui la Commissione di indagine sulla povertà e l'emarginazione, sin dal 1985, ha sempre proposto ed auspicato l'adozione -' risulta assai interessante ai fini della presente riflessione, se .non altro per il fatto che rivela un impegno a livello di amministrazione centrale nella lotta alla povertà, e, comunque, si presenta come un possibile strumento per incidere sulle conseguenze negative del fenomeno.

Il d.lgs. n. 237 del 1998, emanato sulla base dell'articolo 59 della I. n. 449 del

1997, reca la "disciplina dell'introdu-

zione in via sperimentale, in talune aree, dell'istituto del reddito minimo di inserimento".

Il reddito minimo di inserimento è, come afferma l'articolo 1, una misura di contrasto della povertà e dell'esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli. Esso si risolve in interventi che mirano a perseguire l'integrazione sociale e l'autonomia economica dei soggetti e delle famiglie destinatari, attraverso programmi personalizzati, e da trasferimenti monetari integrativi del reddito.

I "programmi di integrazione sociale" di cui si parla sono orientati al recupero, alla promozione e allo sviluppo di capacità personali e alla ricostruzione di reti sociali; per i minori il programma include, in primo luogo, l'assolvimento dell'obbligo scolastico e successivamente la formazione professionale. Tali programmi, elaborati dal Comune anche in relazione agli interventi previsti nell'ambito delle politiche attive del lavoro, sono una condizione essenziale affinché l'integrazione del reddito sia corrisposta: l'articolo 10, infatti, considera un obbligo, per i soggetti destinatari, il rispetto degli impegni assunti con l'accettazione del programma di integrazione sociale, pena la sospensione o la riduzione delle prestazioni di reddito mi63

nimo di inserimento, mentre ai soggetti in età lavòrativa, non occupati ed abili al lavoro, esplicitamente si richiede la disponibilità a frequentare corsi di forinazione professionale e la disponibilità al lavoro. lì evidente, quindi, che ci si trc'.'a di fronte ad uno stntmerito di lotta alla povertà di tipo 'ausiiario": con esse cioì si voluto "tamponare" situazioni di niarginalità che investorto coloro che hanno grosse diffìcoh:à economiche, mirando nel frattempo' a integrare socialmente i soggetti in cluestione; ciò a cui lo Stato mita realmente è l'inserimento (o il reinserimento). nel inondo del lavoro, in posizione non dequalificata, dei soggetti poveri. Accogliendo, quindi, l'idea della Commissione d.i indagine sulla povertà e l'emarginazione, lo Stato cerca d.i impossaie ùiia polidca sociale nuova: gli strumenti di tipo assistnzia1e (fra i quali rientra il reddito minimo di iIseri!nnt:o) servono a 'creare le ccndizioni per un'hc.cnpazione lavorativa del singolo (come tale e all'interno 'delle 'famiglie) che si.gnifìca autonon'iia, libertà e sviluppò della personalità.

Per quanto riguar&I la titolarirà dell'attuazione della sperimentazione, essa è del Comune nel ciii territorio la sperimentaziorie 'stessa si svolge. L'ente territoriale acquista, così, un ruolo nòn più meramente esecutivo e cornunriue marginak, ma anche e' soprattutto p.roositivo nella trattazione dci più generali interessi di, carattere ocic-assistr:nzjaIe; 64

d'altra parte non poteva essere altrimenti, visto che è l'ente più vicino ai bisogni dei soggetti e come tale più sensibile.

Tornando ai soggetti destinai-ari, ai fini dell'accesso al reddito minimo di inserinicto essi debbono essere privi di reddito ovvero con' un reddito che, tenuto conto di qualsiasi ernotumento a qualunque titolo percepito e da chiunque erogato, non sia superiore alla soglia di povertà stabilita in L. 500.000 mensili per urta persona che vive sola; infatti, l'ammontare del trasferimento monetario integrativo del reddito previsto è pari alla differenza tra la soglia di L. 500.000 mensili per il 1998,. di L. 510.000 per l'anno 1999 e di L. 520.000 mensili per l'anno 2000, e il reddito mensile peicepito.

E wspi'cabile che la sperimentazione dell'isritito abbia successo e che, in tal mòdo, possa essere generalizzato nella stìa applicazione; ovviarriente la "soglia di povercìi"fissata nel Decreto è poco realisi:ica, nel senso che andrebbe aumentata almeno del 100%, , ma qui enti-ano in gioco cònsiderazioni sulla disponibilità delle risorse soprattutto in un periodo conte l'attuale, dove, in seguito alla crisi che ha attraversato il nosro Paese, i segnali della ripresa economica sono ancora timidi. Tuttavia, il quadro di riferimento non è così cupo.

Nl 1998 sono stite introdotte alcune innovazioni ailo scopo di ridistribuire i beitefìci 'erogari dallo' Stato sociale in modo più equo ed efficace. Ci si riferi-

sce, oltre al già ampiamente descritto d. lgs. n. 237 del 1998, all'Indicatore della Situazione Economica (IsE), e agli assegni familiari.

LISE, introdotto con il d. lgs. n. 109 del 1998 configura, in via sperimentale ma già sufficientemente articolata, quel sisterna generalizzato di "prova dei mezzi" suggerito dalla Commissione per l'analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale, come prerequisito di una più vasta riforma del welfare ialiano. LIsE verrà utilizzato per selezionare i beneficiari delle prestazioni sociali in base ad un indicatore che tiene conto del reddito e del patrimonio familiari. Il campo di applicazione del nuovo strumento di misura delle condizioni economiche è molto vasto, poiché riguarda tutte le prestazioni o i servizi sociali e assistenziali. Tuttavia, esso esciude l'integrazione al minimo e la maggiorazione sociale delle pensioni, gli assegni e le pensioni sociali, nonché le pensioni, gli assegni di invalidità civile e le indennità di accompagnamento.

Anche gli assegni familiari rientrano oggi in quelle misure che si muovono nella direzione del superamento del sistema di sussidi "categoriali", attraverso l'introduzione di sussidi generali e conimisurati al reddito. Nel 1998 gli assegni familiari sono stati estesi ai cosiddetti lavoratori parasubordinati e, con ,il decreto interministeriale 13 maggio 1998, sono stati incrementati in misura variabile a seconda del numero dei familiari presenti nel nucleo. Si può anche ricor

dare, inoltre, che il provvedimento collegato alla legge finanziaria per il 1999 (1. n. 448 del 1998) ha compreso tra le misure di politica sociale un assegno per le famiglie a basso reddito con tre o più figli e un assegno di maternità destinati a categorie prima non tutelate.

L'ASSISTENZA PRIVATA

Risulta utile, inoltre, considerare quale ruolo ha assunto ed assume in Italia l'assistenza privata.

Le istituzioni che svolgevano attività assistenziali prima dell'entrata in vigore della I. n. 6972 del 1890, erano private: nascevano da tavole di fondaìione, ed avevano per la massima parte ispirazione religiosa. Con la legge Crispi - come dicevamo -' lo Stato è subentrato nel settore "pubblicizzandolo" ed accentrando in tal modo il "sistema caritatevole". La Costituzione repubblicana del 1948 ha mantenuto e sviluppato l'assistenza, inserendola nel più vasto quadro di protezione sociale, prevedendo pure lo svolgersi di attività assistenziali nell'ambito privato (articolo 38, ultimo comma).

Tale principio costituzionale, ha sofferto molto la presenza della legge del 1890, almeno fino alla sent. n. 396 del 1988 della Corte costituzionale, che ha non solo fatto venire meno la necessaria appartenenza al "pubblico" delle istituzioni assistenziali ma ha, anche, tracciato la strada per il loro ritorno al "privato". In questa vicenda, come ha affermato qualcuno8 , vi è. l'esperienza di una sorta di 65

irriducibilità al pubblico di quanto nasce a seguito delle iniziative private di assistenza; vi è la consapevolezza che il processo di "privatizzazione" (o meglio la liberazione degli enti di assistenza da un regime di controlli non conformi alla loro natura) costituisce una conseguenza necessaria delle esigenze implicate dal fondamentale principio pluralistico che anima l'ordinamento italiano (si veda l'articolo 2 Cost.).

Quello che, peraltro, le forme private sono chiamate a garantire è un plurali-. smo dal quale scaturiscono iniziative che, come quelle di assistenza e beneficenza, vengono poste in essere nell'interesse generale; anzi, il ritorno all'ambito privato delle strutture di assistenza e beneficenza, restituendo a queste ultime un regime pit consono alla propria natura, acquista il valore di un'operazione destinata ad assicurare un pii efficace raggiungimento dell'interesse generale che quelle iniziative esprimono.

In un contesto del genere, la vicenda delle IPAB sembra, pertanto, rendere palese che quella privata costituisce una delle forme che può assumere il perseguimento dell'interesse generale, e, precisamente, la forma attraverso la quale l'interesse generale viene perseguito dai soggetti che nascono "dall'autonomia sociale". E interessante notare, anzi, che, secondo i dati ISTAT relativi al settore socio-assistenziale per il 1988, circà 2.200 strutture private senza fine di lucro operano con servizi residenziali, a fronte di 1.300 IPAB e di 850 istituti pubblici.

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Ciò che si vuole sottolineare è che il ruolo dell'autonomia privata nell'ambito delle attività assistenziali e, per quanto qui interessa, nella lotta alla povertà, è di fondamentale importanza, sia che si tratti di iniziative a carattere religioso o ideologico, sia di aggregazioni spontanee attorno a ideali non strettamente politici, sia semplicemente di manifestazioni dello spirito di iniziativa volto alla risoluzione di un problema della comunità9 .

LA PRESTAZIONE ASSISTENZIALE ATTRAVERSO UNA PROGRAMMAZIONE DI SETTORE

Rivolgersi con l'analisi alla prestazione assistenziale conduce ad alcune considerazioni. Le strutture e i soggetti attivi delle prestazioni devono assumere un carattere strumentale rispetto al servizio che si richiede loro.

L'attenzione ad essi rivolta a partire dalla legge Crispi fino ad arrivare alla Costituzione ed oltre, ha determinato l'attuazione di un'organizzazione di strutture, per enti, fondamentalmente verticistica che ha prodotto una prestazione essenzialmente discrezionale , sicuramente limitata alle disponibilità finanziarie e all'esistenza di una struttura (IPAB) adeguata al bisogno.

La preoccupazione di non togliere troppo alla competenza dello Stato in materia assistenziale e, dall'altra, - per effetto dell'inerzia del legislatore ordinario

(manca una legge-quadro) -, quella del legislatore regionale di occupare spazi a lui preclusi, ha condotto all'esistenza di normative regionali contrastanti tra loro e con l'ordinamento statale. Tale situazione ha di conseguenza accentrato l'attenzione di molti studiosi sul problema della identificazione delle strutture e dei loro limiti di azione, senza entrare nel merito della loro attività. E necessario studiare invece oltre che i soggetti e le strutture, anche il servizio che questi devono produrre.

Il modo più idoneo ai principi costituzionali di pluralismo (articolo 2) e di autonomia (articoli 5, 117 e 118) è costituito dalla programmazione'°.

La programmazione costituisce il tessuto connettivo degli interventi nell'assistenza, sia per quanto riguarda, l'individuazione delle "priorità", sia per quanto riguarda le conseguenti risorse da destinare alla loro realizzazione e la conseguente loro assegnazione ai soggetti erogatori di relativi servizi. Soltanto con la previsione e l'attuazione di queste modalità si può pensare di eliminare il carattere di "discrezionalità" della prestazione assistenziale. Il corretto modo di impostare la programmazione passa attraverso i soggetti che di esso sono sia parte attiva, sia parte passiva in quanto destinatari del servizio.

L'attenzione che deve essere rivolta ai soggetti attivi deve essere a sua volta finalizzata alla loro reale partecipazione alla programmazione, in qualità di soggetti portatori dj interessi, tutti ugual-

mente rilevanti e tutti doverosamente presenti per identificare le finalità, i modi e i mezzi relativi per realizzarli.

Nella cosiddetta "programmazione concertata", perché è di questa che si sta parlando, un importante apporto sia come soggetto attivo di erogazione di servizi sia quale soggetto ricco di esperienza attuale e pratica di vita, è sicuramente quello degli enti assistenziali privati che svolgendo questa attività con mezzi e modalità diversi da quelli di un soggetto pubblico, debbono, non solo perché espressione di pluralismo, ma anche perché dotati di esperienza, essere considerati portatori di interessi. D'altra parte, è innegabile il tatto che l'assistenza privata costituisce una possibilità di intervento più tempestivo e più efficace proprio per la natura dell'organizzazione degli enti privati.

A livello di organizzazione, in ottica propositiva, si potrebbe prevedere in capo ai soggetti privati di assistenza, come qualcuno ha giustamente affermato 11 la possibilità di costituire strutture di primo, pronto intervento, coordinate quindi con strutture pubbliche di intervento successivo, che potrebbe protrarsi nel tempo ed avere bisogno di mezzi e di interventi specialistici. In questo senso, sarebbe importante in fase di programmazione prevedere per l'organizzazione (sia per il pubblico che per il privato) la possibilità di avere strutture con moduli polivalenti, cioè facilmente adattabili al mutare dei bisogni e, di conseguenza, al necessario mutare delle prestazioni. ,

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Evidenziate le coordinate sulle quali sviluppare il discorso sui pluralismo (che sono: pluralità di soggetti portatori di interessi che configurano altrettanti "poteri", quali lo Stato, gli enti pubblici, le società intermedie, i soggetti privati), resta da determinare l'interesse generale attraverso l'azione combinata di tutti gli interessi presenti ed emergenti.

Ciò che costituisce il momento essenziale della determinazione dell'interesse generale è, sicuramente, la "procedimentalizzazione delle decisioni con partecipazione ampliata al maggior numero possibile di pubblici poteri" 2 La composizione dialettica del maggior numero possibile di interessi, relativamente ad un determinato settore della vita della società civile, costituisce il suo interesse generale " . I supporti necessari sui quali tale composizione deve attuarsi sono: il principio del pluralismo (articolo 2 Cost.); il principio di uguaglianza, o!treché formale soprattutto sostanziale, inteso quale fondamento dello Stato di diritto e sociale (articolo 3 Cost.); il principio di imparzialità (articolo 97 Cost.).

Relativamente a questo ultimo, che si riferisce alla pubblica amministrazione, occorre osservare che deve essere inteso nel senso prevalentemente organizzativo.

Cioè il rispetto del suddetto articolo può essere realizzato solo nel senso di consentire, attraverso modelli organizzativi adeguati, la presenza e la valenza di tutti gli interessi, anche nel senso di migliorare i procedimenti per acquisire dati e tenden.

"

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ze, da coordinare secondo indirizzi politici e regole tecniche.

A livello di considerazioni generali, è evidente che l'ampliarsi dei compiti dello Stato sociale corrispondente all'ampliarsi della sfera degli interessi riferibili ad esso in quanto anche "Stato di benessere", fa sì che si modifichino sia quantitativamente che qualitativamente i cosiddetti "moduli organizzativi " della i, ubblica amministrazione. Contestualmente, si creano due tendenze uguali e contrarie: da un lato, la sfera degli interessi pubblici si amplia e, di conseguenza, gli interventi pubblici si moltiplicano; dall'altro, sempre più si evidenzia la necessità di fare fronte alla realizzazione di questi interessi sempre nuovi e sempre più importanti attraverso strumenti diversi da quelli tradizionali dell'organizzazione di pubblici poteri. Il continuo affermarsi e il concreto realizzarsi del principio pluralistico accentua ancora di più la tendenza ad utilizzare mezzi e strumenti in modo alternativo alla consueta, e spesso non adeguata in quanto "rigida", struttura pubblica.

L'assistenza sociale, in senso ampio, può essere considerata un settore "campione", da un punto di vista organizzativo, nel senso appena chiarito, in quanto comprensiva di pubblico e di privato, e in quanto sicuramente fatta di "interessi pubblici", cioè afferenti la società, che richiedono ormai interventi adeguati quanto urgenti. E allora, l'immediatezza, la personalizzazione e l'identificazione del bisogno con il conseguente ido-

neo intervento, che sono propri dell'assistenza privata (considerato, in tale ambito, anche il contributo di enti nonprofit), diventano un "prezioso bagaglio" di interessi da portare in sede di programmazione prima e di convenzione poi, e svolgono così un'importantissima funzione di integrazione tra pubblico e privato. La successiva, conseguente funzionalizzazione degli interessi, relativamente alla finalità pubblica da perseguire, costituisce la legittimazione di tutti i soggetti che, indipendentemente dall'essere pubblici o privati, si attivano coordinandosi ed integrandosi.

Lo

STATO SOCIALE NEL TERZO MILLENNIO

Come si è potuto desumere dalle pagine precedenti, l'Italia, sia nel periodo pre-costituzionale che nel periodo postcostituzionale, ha sempre posto un'attenzione particolare ai problemi di natura sociale.

Dal 1948 soprattutto, lo Stato si è caratterizzato per l'avere assunto una funzione preminente nella ridistribuzione delle risorse finalizzata al contenirnento della disuguaglianza, almeno in via di principio. Se si considera pure l'apporto positivo delle istituzioni religiose in termini di beneficenza ed assistenza, nonché il contributo, altrettanto importante delle istituzioni filantropiche prima, del mondo del volontariato poi, in linea teorica l'Italia dovrebbe essere caratterizzata dall'avere una certa omogeneità

sociale, almeno dal punto di vista economico; le conseguenze negative propr.ie di un'accentramento delle risorse, che rappresenta il costo pii alto (ma che ne è l'anima stessa) dei sistemi di mercato, dovrebbero essere ridotte al minimo. In realtà non è così. I principi fondamentali contenuti nella Costituzione italiana non hanno avuto applicazione se non in parte. Lo Stato sociale è apparso inefficace ed inefficiente. Ma vi è di più I corporativismi settoriali nel mondo del lavoro e i localismi culturali, sociali e politici che mettono in crisi l'idea di comunità nazionale, hanno abbattuto i pilastri sui quali poggia la legittimazione del we1fare- l'interesse (convenienza), e'l'adesione ad un valore (solidarietà verticale).

Oggi la riflessione sulla riforma dello Statosociale è aperta. Le ricette per il superamento della sua crisi sono diverse: alcuni sostengono la necessità di una drastica riduzione delle risorse messe a disposizione, giustificandosi con un richiamo all'inefficacia (basti pensare alla permanenza della povertà); altri, pur riconoscendo un'inefficacia parziale, puntano sull'eliminazione delle inefficienze che conducono agli sprechi. La strada da seguire è sicuramente quest'ultima. Non si può eliminare il welfare in Italia: lo Stato sociale è elemento portaiite di Costituzione materiale. Ciò che va fatto è sia migliorare l'operatività dei servizi in uscita (output), sia fornire un sostentamento a livello economico a chi ne ha veramente bisogno, riedificando, nel 69

contempo, la giustificazione culturale (legittimazione) venuta meno. Natura!mente, questo comporta un incremento

delle risorse economiche messe a disposizione 1 3, anche se resta inteso che il loro utilizzo debba essere quanto mai oculato.

Si veda SARPELLON G., a cura di, La povertà in Italia, I-Il, Angeli, Milano 1982; COMMISSIONE DI IN-

Si veda COMMISSIONE POVERTÀ, a cura della, Lapovertà in Italia, lpzs, Roma 1985; COMMISSIONE DI

DAGINE SULLA POVERTÀ E L'EMARGINAZIONE, a cura della, Secondo rapporto sul/a povertà in Italia, Angeli, Milano 1992, nonché, GALBRAITH J.K., La natura della povertà di massa, Angeli, Milano 1975.

2 Si veda CAPITANI G., Beneficenzà pubblica, in Digesto italiano, V, Utet, Torino 1888; CHERUBINI G.,

Dottrine e metodi assistenziali dal 1789 al 1848, Giuffrè, Milano 1958, nonché D'AMELIO 5., La beneficenza ne/diritto italiano, Jovene, Napoli 1909.

3 Si veda BALOCCHI E., La qualfìcazione di povertà nel diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 1967, nonché, dello stesso autore, Poveri, in Enciclopedia giuridica, )O(III, Treccani, Roma 1989; CARDIA C., Assistenza e beneficenza, in Enciclopedia giuridica, III, Treccani, Roma 1988; DE SIEIWO U., Le trasformazioni della legislazione in tema di Ipab, in «Giurisprudenza costituzionale», Giuffrè, Milano 1985.

Si veda SANDULLI A., La letteratura in materia di assistenza e beneficenza: percorsi e tendenze, in »Riv. Trim. pubbl.», Giuffrè, Milano 1992.

5 Si veda LICHERI G., Costituzione e assistenza sociale, Ed. Ragno, Roma 1978, nonché, MAZZIOITI M., Assistenza (e/sr. cost.) in »Enciclopedia del diritto», Giuffrè, Milano 1958.

6 Si veda CRISAFULLI V., Costituzione e protezione sociale, in AA. VV., La Costituzione e ie sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano 1952; GIANNINI MS., Pro-

fili costituzionali della protezione sociale delle categorie lavoratrici, in »Riv. giur. lav.», Giuffrè, Milano 1953; PAJNO A., Assistenza e beneficenza fra pubblico epri voto nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in »Dir. proc. Amm.», Giuffrè, Milano 1993; GASPARR1NI PIANESI D., Assistenza oggi, Giuffrè, Milano 1990.

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INDAGINE SULLA POVERTÀ E L'EMARGINAZIONE, a cura della, Secondo rapporto sulla povertà in italia, Angeli,.

Milano 1992; C0MSSIS5I0NE DI INDAGINE SULLA PoVERTÀ E L'EMARGINAZIONE, a cura della, Terzo rapporto sulla povertà in Italia, lpzs, Roma 1994; COMMISSIONE DI INDAGINE SULLA POVERTÀ E L'EMARGINAZIONE, a cura della, Verso una politica di lotta alla po-

vertà. L 'assegno per i figli e il min;no vitale, lpzs, Roma 1995; COMMISSIONE DI INDAGINE SULLA POVERTÀ E L'EMARGINAZIONE, a cura della, La povertà in Italia.

1980-1994, Ipzs, Roma 1996; COMMISSIONE DI INDAGINE SULLA POVERTÀ E L'EMARGINAZIONE, a cura della, La povertà in Italia. 1995, Ipzs, Roma 1996.

8 PAJNO A., Assistenza e beneficenza fra pubblico e privato nella giurisprudenza e/ella Corte costituzionale, in »Dir. proc. Ammin.», Giuffrè, Milano 1993.

9 Si veda RISTUCCIA S., Volontariato t'fondazioni, Maggioli, Rimini 1996.

IO Si veda GASPARRINI PIANESI D., Assistenza oggi, Giuffrè, Milano 1990, nonché DE SIERVO U., Le trasformazioni della. legislazione in tema di mAo, in »Giur. costit.», Giuffrè, Milano 1985.

GASPARRINI PIANESI D., Assistenza oggi, Giuffrè, Milano 1990.

12 Si veda GIANNINI MS., Il pubblico potere, Il Mulino, Bologna 1986.

3 Nel 1998 la spesa per la protezione sociale ha raggiunto il livello di 519.838 miliaiti di lire, registrando un lncremento dcl 2,9% rispetto all'anno precedente (+ 6,5% nel 1997 rispetto al 1996) ed una incidenza sul PIL pari al 25,7% (26,1% nel 1997); il 92,8% di tale spesa è stata effettuata dalle istituzioni delle amministrazioni pubbliche. Fonte: Istat.

dossier

Fondazioni per la comunità

Gli articoli che seguono presentano due casi di creazione di Fondazioni delle comunità in Europa: l'esempio italiano e quello della Repubblica Ceca.

Le "communityfoundations" sono un modello di fondazione erogativa che negli ultimi anni sta avendo un notevole sviluppo anche fuori del loro Paese di origine, gli Stati Uniti. Si tratta di un tipo di fondazione che, come sottolinea il loro stesso nome, ha lo scopo proritario di rispondere ai bisogni di una determinata comunità per migliorarne la qualità della vita. Sebbene il modello sia stato adattato ai vari con testi deiPaesi in cui sono sorte queste fondazioni e, quindi, esse sono strutturàte efinanziate in modi diversi, hanno tutte delle caratteristiche comuni: a) cercano di costruire un patrimonio consistente per assicurare la propria durata ed indipendenza a lungo termine, b) sono governate da un consiglio di amministrazione indipendente, che cerca di rappresentare la comunità nei suoi diversi segmenti, c) danno l'opportunità, a molti grandi e piccoli donatori di contribuire al miglioramento della loro comunità, d) mettono a disposizione della filantropia servizi e personale qualificato.

Proprio il loro essere istituzioni radicate e influenti su di un territorio determinato è ciò, che rende tale modello di fondazioni particolarmente adatto alle fondazioni delle 71

ex Casse di risparmio italiane, soprattutto ora che la recente legislazione in materia chiama le fondazioni di origine bancaria a definire meglio il loro ruolo di enti a scopo non di lucro. Ma di ciò argomenta in modo approfondito Bernardino Casadei nella sua descrizione dell'esperienza portata avanti dalla Fondazione Cariplo, un progetto che ha lo scopo di sostenere la nascita di fondazioni delle comunità locali in Lombardia e nella provincia di Novara.

La stessa biografia diJulia E. Santon, l'autrice dell'articolo sull'esperienza ceca delle fondazioni comunitarie è significatica del ruolo che questo tipo di fondazioni possono avere in un Paese, come la Repubblica Ceca, che ha conosciuto negli ultimi anni notevoli trasformazioni se non veri e propri stravolgimenti. La Szanton, infatti, ha lavorato per il Movimento Civico, uno dei due principali partiti politi ci nati dopo la scissione del Forum Civico (il gruppo diretto da Vdclav Havel, che guidò la Rivoluzione di Velluto in Cecoslovacchia nel 1989). Fin dall'inizio del 1995, l'autrice ha gestito importanti programmi di assistenza esteri per il settore delle organizzazioni non profit, e ha partecipato allistituzione della Fondazione VIA, una fondazione ceca impegnata a sostenere le iniziative di cui si discute nel suo articolo. Nella sua attuale posizione di Responsabile del Programma per lo Sviluppo del Terzo Settore presso la Fondazione VIA, la Szanton è responsabile della programmazione del sostegno al settore non profit della Repubblica Ceca. Inoltre, collabora a una iniziativa congiunta con The Open Society Fund, The Partnership Foundation, e la Community Foundation Usti nad Labem denominata Community Partnership Support Initiative (CPSI). Quest'ultimo è un importante programma di assistenza, una delle primarie fonti di informazione sui progetti a sostegno della comunità e le iniziative benefi che cui l'autrice discute nel suo articolo.

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Fondazioni di origine bancaria e società civile.

Un progetto sulle fondazioni delle comunità locali di Bernardino Casadei*

Oggi, anche in seguito all'approvazione della legge 461/98 e del successivo decreto delegato, le fondazioni di origine bancaria sono chiamate a ripensare profondamente la loro identità. Esse, infatti, non possono limitarsi ad adempiere gli obblighi imposti dalla nuova normativa, ma devono elaborare una strategia in positivo. Questa strategia deve consentire loro di generare legittimazione sociale e, quindi, di promuovere prassi concrete che permettano di superare le ambiguità presenti nella legge. Quest'ultima, infatti, è il risultato di un difficile compromesso volto a disciplinare una realtà dai contorni ancora molto nebulosi.

Il pericolo principale a cui queste fondazioni vanno incontro è quello di trasformarsi, nell'immaginario collettivo, in torte che pochi privilegiati possono spartirsi. Una volta tagliato il cordone ombelicale che le lega alle banche, esse rischiano di diventare dei patrimoni a cui molti cercheranno di attingere per soddisfare le proprie esigenze particolari. A meno di non elaborare una visione

* Consulente per il Progetto Fondazioni Comunitane della Fondazione Cariplo, Milano.

in grado di suscitare entusiasmo, impegno, fierezza, senso di appartenenza, le stesse strutture gestionali ed operative di questi enti non saranno in grado di resistere alle pressioni e finiranno per subordinarsi a tale mentalità.

SOLIDARIETÀ E SUSSIDIARIETÀ

In una società come la nostra, che appare spesso dominata dal cinismo e dallo scetticismo generati dal fallimento delle grandi ideologie, l'elaborazione di una prospettiva che sappia suscitare l'entusiasmo e la speranza necessari per raggiungere tali fini, appare problematica.

I "maestri del sospetto", Marx, Nietzsche, Freud, ci hanno insegnato come dietro ad ogni ideale, anche il più purò, si nascondano sempre esigenze molto meno nobili e confessabili. Non ci si domanda più se una frase sia vera o falsa, ma quale interesse essa nasconda. I proclami e i principi appaiono ai più vuoti e sterili esercizi retorici. Il consenso non sembra più basarsi sulla condivisione di comuni valori, ma sulla composizione, più o meno clientelare, degli interessi particolari.

Un'analisi meno cinica della realtà in 73

cui viviamo, ci mostra però che esistono almeno due idee forti, che sono ancora in grado di generare impegno e abnegazione: la solidarietà e la sussidiarietà.

Migliaia di individui, infatti, sono disposti a donare tempo e denaro in nome di questi due principi. Ogni idea che riesce a presentarsi come incarnazione pratica di questi due valori acquista immediatamente consenso e legittimazione sociale. Parallelamente, il modo migliore per far naufragare un progetto è dimostrare come esso sia incompatibile con questi due ideali. Anche coloro che in tempi passati hanno ostacolato il loro affermarsi: le imprese volte al solo conseguimento del profitto e la pubblica amministrazione, oggi sentono la necessità di favorirne la crescita.

Qualora le fondazioni d'origine bancaria riuscissero ad apparire nell'immaginario collettivo quali i paladini della solidarietà e della sussidiarietà, esse raggiungerebbero immediatamente quella legittimazione sociale di cui oggi hanno un così evidente bisogno. L'approfondimento di tali principi permetterebbe inoltre l'elaborazione di modelli comportamentali propri, in grado di opporre una valida resistenza ai tentativi di strumentalizzazione da parte di interessi particolari e, nel contempo, di offrire al legislatore indicazioni concrete su come disciplinare un settore, di cui tutti riconoscono il valore strategico, ma i cui confini appaiono ancora magmatici e confusi.

Decidere di farsi paladini della solida-

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rietà e della sussidiarietà significa avere il coraggio di scommettere sulla società civile, sulla sua capacità di organizzarsi e di mobilitarsi per il perseguimento di un ideale superiore. Significa aiutare i singoli, sia singolarmente sia nelle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità, nei loro sforzi volti a definire e realizzare il bene comune, senza cadere nella tentazione di sostituirsi ad essi in nome di una presunta maggiore capacità organizzativa.

Le fondazioni d'origine bancaria sono forse nelle condizioni migliori per svolgere tale funzione. Da un lato, le risorse di cui dispongono permettono di mettere al servizio della società mezzi in grado di mobilitare le energie che spesso rimangono inutilizzate per mancanza di adeguati catalizzatori. Dall'altro lato, prive come sono di potestà sovrana e di elevate competenze specifiche nei settori in cui sono oggi chiamate ad operare, è per loro molto pii facile svolgere una funzione di ente di erogazione,piuttosto che gestire in proprio singoli progetti. Del resto, una simile mansione può sfruttare l'esperienza acquisita nella gestione di quelle attività di beneficenza che hanno, sin dalla loro origine, caratterizzato l'impegno sociale delle Casse di risparmio.

Un cambiamento culturale Per raggiungere tale scopo, le fondazioni devono operare un vero e proprio salto culturale. Occorre, infatti, saper sostituire le strutture gerarchiche carat-

terizzanti le nostra mentalità amministrativa con la creazione di network autonomi e indipendenti. È poi necessario abbandonare la cultura del sospetto di chi cerca di prevedere e prevenire ogni possibile abuso, ed avere il coraggio di puntare sul senso di responsabilità che è presente in ogni individuo. L'esperienza di questi decenni ha mostrato come i tentativi di porre paletti finisca quasi sempre per l'ostacolare chi cerca di operare con serietà ed onestà, mentre i furbi trovano sempre una scappatoia per eludere la norma. Questo non significa che i paletti non siano necessari, ma essi devono avere come fine quello di aiutare la comunità nel conseguimento del fine stabilito, piuttosto che quello di impedire eventuali abusi.

IL PROGETTO CARIPLO

Il progetto Fondazioni delle comunità locali promosso dalla Fondazione Cariplo è un esempio concreto di come tale mentalità possa essere utilizzata con successo per risolvere i problemi specifici di una fondazione d'origine bancaria.

Attraverso di esso, infatti, la fondazione lombarda si sta dando un'innovativa ed efficace articolazione territoriale e nel contempo sta dimostrando una concreta capacità progettuale, che le permette di acquisire una funzione che va ben al di là della semplice erogazione di contributi.

Dopo la costituzione di Banca Intesa e la conseguente separazione dalle strut-

ture della banca, la Fondazione Cariplo si è trovata senza una propria articolazione territoriale. Mentre prima coloro che volevano accedere ai contributi della Fondazione potevano utilizzare le filiali della banca, da quel momento dovevano dirigersi direttamente agli uffici centrali. Parallelamente, la Fondazione non poteva pi1 contare sulla conoscenza del territorio e delle esigenze specifiche delle singole comunità che i direttori delle agenzie potevano fornirle.

Dato che è impossibile poter pensare di servire centralmente con i soli uffici milanesi una realtà così grande e complessa, quale è quella composta da tutte le province lombarde, oltre che da quella di Novara, si è rivelata necessaria l'elaborazione una nuova articolazione territoriale. Gli uffici milanesi possono tutt'al pRi offrire un controllo di legittimità, garantendo che i beneficiari godano dei requisiti formali necessari per ottenere i contributi, ma ben difficilmente sono in grado di realizzare un vero e proprio controllo di merito, se non a costi molto elevati. Solo un'approfondita conoscenza della realtà locale può infatti permettere di immaginare il reale impatto che un determinato progetto potrà avere, stabilire priorità, individuare i soggetti veramente in grado di operare sul terreno da quelli che invece si sono specializzati nella preparazione di richieste di contributi, ma che non hanno una reale esperienza operativa.

Vi è poi un'altra ragione che impone la creazione di strutture decentrate. Tradi75

zionalmente, nella sua attività di beneficenza, la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde ha sempre erogato una gran quantità di contributi di modesta entità. Ora, gestire tale attività a livello centrale si sta rivelando fortemente antieconomica. I costi per analizzare e processare una singola domanda finiscono, a volte, per essere superiori al contributo erogato. Ne consegue che è impossibile elaborare una valutazione dell'impatto ambientale di tali contributi, dato che il costo di tale analisi sarebbe troppo elevato.

Naturalmente, la Fondazione potrebbe anche decidere di non distribuire più contributi di modesta entità per concentrarsi solo sui grandi progetti. Una simile decisione troverebbe senz'altro il plauso di tutti coloro che condannano i tanti vituperati contributi a pioggia quale fonte di ogni spreco, ma non certamente di tutti quelli che invece sono i beneficiari ditale attività. A parte la difficoltà politica di prendere una decisione così drastica e in radicale rottura con una tradizione più che secolare, è opportuno chiedersi se le critiche nei confronti dei contributi di modesta entità siano tutte condivisibili.

In realtà, analisi più attente e meno astratte hanno rivelato come i contributi modesti siano spesso proporzionalmente più efficaci rispetto a progetti di dimensioni più consistenti. Questi ultimi infatti, proprio per la loro complessità, devono essere gestiti da strutture professionali e ben raramente possono 76

far leva sul senso di responsabilità e sulla generosità dei singoli individui, che, il più delle volte, vengono considerati alla stregua di beneficiari passivi dell'attività promossa. Al contrario, i piccoli progetti possono comporsi con i circuiti di solidarietà informale presenti nelle nostre comunità e così, spesso con risorse molto ridotte, possono mobilitare energie consistenti. Sono i piccoli progetti a permettere la crescita morale e civile delle nostre comunità e a far sì che i cittadini possano veramente sentirsi tali e non dei semplici consumatori di beni e servizi che altri mettono a loro disposizione.

Il vero limite dei contributi di modesta entità non deve essere cercato nel loro ammontare, ma nel fatto che la loro gestione è molto più complessa e delicata.

Occorre, infatti, una struttura che abbia una profonda conoscenza della realtà locale e che sia dotata della necessaria flessibilità per potersi rapportare con entità spesso scarsamente strutturate, quali sono quelle che caratterizzano i circuiti di solidarietà informale. Senza la presenza di una simile organizzazione, tali contributi vengono spesso distribuiti alla cieca e, invece di favorire la crescita gestionale ed operativa dei beneficiari, finiscono per generare fenomeni di dipendenza.

Come la ricerca sociologica più moderna ha dimostrato, accanto ad un capitale economico e infrastrutturale, esiste anche un capitale sociale, fatto di rapporti umani, di legami di solidarietà, di

disponibilità all'impegno comune. Ora è sempre più evidente come in una società postmoderna tale capitale sia strategicamente importante per la crescita non solo sociale, ma anche economica e politica delle nostre comunità. La linfa vitale di una società non deve essere cercata semplicemente in un funzionante sistema di servizi ed infrastrutture, ma nell'esistenza di una miriade di iniziative, spesso di modesta se non modestissima entità, che siano il frutto dell'impegno volontario di singoli cittadini e che spesso sono possibili solo grazie ai tanto vituperati contributi a pioggia.

La soluzione più naturale ed immediata a questi problemi poteva senz'altro essere la realizzazione di una struttura decentrata, di un sistema di filiali della Fondazione da affiancarsi a quelle della banca. La consapevolezza che tale strada avrebbe necessariamente finito con l'appesantire la struttura burocratica della Fondazione Cariplo, rischiando poi di generare maggiori problemi di quelli che avrebbe risolto, hanno suggerito l'opportunità di verificare preventivamente l'esistenza di eventuali alternative. Ciò è stato possibile attraverso lo snidio di come avessero affrontato analoghi problemi le grandi fondazioni americane.

IL MODELLO AMERICANO

Lo studio della realtà americana è stato. illuminante. Si è, infatti, scoperto che tutte le grandi fondazioni di quel Paese

avevano finanziato progetti volti a promuovere la costituzione e la crescita di communityfoundations e che, alla base ditale decisione, vi erano esigenze moito simili a quelle che angustiavano la Fondazione Cariplo. Tutte sentivano la necessità di darsi "occhi ed orecchie" sul territorio, che fossero veramente in grado di cogliere le esigenze e i bisogni delle singole comunità locali; tutti avevano l'esigenza di avere partner che fossero capaci di stabilire rappèrti con le piccole organizzazioni; tutti volevano essere sicuri che i programmi da loro finanziati fossero ben radicati nella coscienza civile e non si rivelassero mere astrazioni partorite nella mente di qualche brillante professore, ma incapaci di suscitare vero interesse da parte dei cittadini.

Le community foundations si sono, infatti, rivelate dei partner ideali per le grandi fondazioni americane. Esse sono degli ottimi intermediari fra queste ultime e le singole comunità. Da un lato, il loro essere strutturate come fondazioni di erogazione consente di condividere un linguaggio comune, dall'altro, la conoscenza del territorio, dei suoi bisogni e potenzialità, delle organizzazioni nonprofit che vi operano, li trasforma in partner ideali e quasi indispensabili per ogni ente di erogazione che intende operare a livello regionale, nazionale ed internazionale. Inoltre, le community foundations si stanno rivelando un fantastico catalizzatore di energie, capace di mobilitare risorse oltremodo ingenti.

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Patrimonio delle Community Foundations statunitensi miliardi di dollari 1400 1200 1000 800 600 400 200 O 1988

1990

1992

1994

1996

1997

Erogazioni delle Community Foundations statunitensi in milioni di dollari 25

21,3

20

17,1

-

15 8,9

10,4

1992

1994

10-11,

1988

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1990

1996

1997

Erogazioni effettuate da parte di Community Foundation statunitensi in milioni di dollari Come è possibile verificare dai due grafici, le community foundations sono cresciute in questo ultimo decennio ad un ritmo quasi esponenziale e sono considerate il settore in più rapida crescita di tutta la Lilantropia americana.

Non deve, dunque, sorprendere il fatto che le fondazioni americane considerino in modo unanime i progetti a favore di tali istituzioni fra i loro più importanti successi. Inoltre è opportuno considerare che, soprattutto in questi ultimi anni, tali fondazioni hanno saputo adattarsi a svilupparsi anche in realtà diverse da quella statunitense. In primo luogo in tutto il mondo anglosassone: Canada, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, ma anche a Porto Rico, in Messico, Costarica, Slovacchia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Polonia, Kenya, Giappone, Germania. Si tratta di una crescita, e questo non è affatto casuale, che coincide proprio con la crisi dello Stato sociale e la riscoperta dei principi della solidarietà e della sussidiarietà quali fondamenti irrinunciabili dello sviluppo delle nostre comunità.

Le community foundations non sono, infatti, un semplice intermediario fra i grandi enti di erogazione e le organizzazioni non lucrative che operano sul territorio, esse sono un catalizzatore delle risorse locali pronte a mobilitarsi per il perseguimento di finalità sociali. Ciò ha permesso loro di far emergere una nuo-

va tipologia di servizi: i servizi ai donatori. Si è così potuto empiricamente verificare come esista un numero consistente di persone disponibili a donare, a contribuire al perseguimento del bene comune, se solo si offre loro uno strumento adeguato.

Lo scopo delle community foundations non è, infatti, quello di finanziare la propria attività e neppure quello di incrementare il loro patrimonio, anche se naturalmente un aumento in quest'ultimo è un chiaro indice di successo e consente di finanziare un numero crescente di progetti, ma piuttosto quello di aiutare i singoli a perseguire i loro ideali più nobili e puri. Esse operano per promuovere una cultura della donazione e per rimuovere tutti quegli ostacoli di natura burocratica, gestionàle, operativa che impediscono alla generosità dei singoli di manifestarsi compiutamente. In primo luogo, esse si fanno carico di tutti gli oneri legali e amministrativi collegati ad ogni donazione, permettendo al singolo di godere del massimo dei benefici fiscali previsti dalla normativa vigente senza doversi preoccupare di nulla. Quindi, grazie alla conoscenza che hanno del proprio territorio, queste fondazioni aiutano il donatore ad individuare l'impiego più efficace del proprio contributo, suggerendogli gli ambiti di intervento, i progetti, le organizzazioni che meglio di altri possono realizzare i suoi valori. Poi si impegnano a monitorare il beneficiano dell'erogazione al fine di garantire che 79

esso la utilizzi per gli scopi stabiliti. Infine, a seconda delle esigenze, possono garantire l'anonimato o il massimo della pubblicità a favore del donatore.

Una community foundation permette poi ai singoli di costituirsi una propria fondazione privata senza sobbarcarsi dei costi e degli oneri che una simile operazione impone. Il singolo donatore può infatti costituire un fondo che, per massimizzare il reddito, verrà gestito assieme al resto del patrimonio della fondazione, ma i cui frutti verranno destinati in perpetuo in base alla sua volontà.

Egli potrà infatti decidere che il reddito sia genericamente utilizzato per perseguire il benessere della comunità, o che sia gestito per scopi più precisi. È anche possibile costituire un fondo a favore di un'organizzazione specifica e addirittura individuare la o le persone che potranno di volta in volta suggerire al consiglio d'amministrazione l'utilizzo della rendita. Tali indicazioni non sono legalmente vincolanti, ma, a meno che non siano contrarie alla normativa vigente e non mettano in pericolo lo status fiscale privilegiato della fondazione, vengono di norma rispettate. È, infatti, interesse della fondazione servire i propri donatori.

Gli elementi caratterizzanti Gli elementi che distinguono una community foundation dalla maggior parte delle altre fondazioni di erogazione esistenti negli Stati Uniti sono sostanzialmente tre: un consiglio d'amministra80

zione indipendente, una vocazione generalista, l'attiva ricerca di nuovi donatori.

Per quel che riguarda il primo elemento, è importante considerare come la fondazione deve essere ed apparire quale uno strumento costituito dalla comunità per perseguire il proprio benessere.

Non esistono fondatori con particolari privilegi. Una community foundation è da questo punto di vista profondamente diversa da una fondazione di partecipazione, da un ente cioè in cui i soci fondatori o i donatori più importanti hanno il diritto di nominare un membro del consiglio d'amministrazione. Al contrario, bisogna ad ogni modo evitare che sia possibile acquistare il diritto di sedere in tale consiglio. Quest'ultimo deve essere espressione dell'intera comunità e deve essere in grado di rifletterne le differenze e le sensibilità. Per questo nessuno può avere il diritto di nominarne la maggioranza dei membri. Inoltre, è necessario che le eventuali autorità di nomina non individuirio propri rappresentanti, ma piuttosto cittadini la cui spiccata onesta, le cui competenze professionali e la cui conoscenza della comunità possano dare un valido contributo alla crescita della fondazione.

Un'altra caratteristica che contraddistingue una community foundation dalle altre fondazioni di erogazione è che essa ha come scopo il miglioramento della qclalità della vita di una determinata comunità. Il suo ambito d'intervento non è determinato da un punto

di vista tematico: sia esso la cultura', piuttosto che la salute o l'istruzione, ma secondo criteri geografici. Questo significa che la fondazione, invece di specializzarsi in un settore definito, cerca di elaborare una visione complessiva dei bisogni e delle potenzialità di lungo periodo dell'intera comunità. Ciò le permette di svolgere una funzione come punto di contatto fra le singole organizzazioni che perseguono, in campi più specifici, fini d'utilità sociale. Questa sua caratteristica, assieme alla neutralità e indipendenza a cui si è già accennato, le permette di svolgere una funzione che trascende la più tradizionale attività di erogazione. Non è infatti raro che la fondazione sia in grado di coinvolgere ad uno stesso tavolo diversi soggetti che, benché tutti interessati alla soluzione di un problema comune, a volte non riescono a comunicare e a dialogare gli uni con gli altri.

Infine, la caratteristica più innovativa di questo modello di f6ndazione è quella di offrire servizi ai donatori e, quindi, di incrementare il proprio patrimonio.

Si tratta di un elemento molto importante. Proprio perché sono alla continua ricerca di sempre nuovi donatori, le community foundations si rinchiudono meno facilmente nella loro torre d'avorio. Errore in cui non di rado cadono le altre fondazioni. Esse hanno, infatti, un indice facilmente misurabile che è in grado di stabilire con una certa approssimazione il grado di consenso raggiunto, nella propria comunità: le donazioni.

È evidente che qualora la fondazione dovesse'dar vita a comportamenti settari e poco trasparenti, ben difficilmente troverebbe delle persone disposte ad afT fidarle la gestione delle proprie donazioni. Al contrario, un comportamento corretto ed efficace si trasforma di norma in sempre nuovi contributi. Questo meccanismo ingenera un circolo virtuoso che, almeno in parte, spiega l'enorme crescita registrata nei patrimoni di tali istituti.

L'APPLICAZIONE DEL MODELLO

Sulla base di tale esperienza, confortata fra l'altro dal fatto che non si trattava di un fenomeno esclusivam ente americano, la Fondazione Cariplo ha deciso di dar vita ad un progetto volto a favorire la costituzione di fondazioni delle comunità locali - così è stato tradotto il termine community foundation - in Lombardia e in provincia di Novara.

L'obiettivo era, in ultima analisi, quello di dar vita ad una rete di istituzioni tutte autonome e indipendenti rispetto alla Fondazione Cariplo, ma che potessero esserne dei partner naturali. Il fine ultimo era quello di verificare la possibilità di soddisfare i bisogni precedentemente indicati, senza appesantire la struttura organizzativa della Fondazione e, nel contempo, mobilitare le e1ergie locali.

Per ragioni di praticità si è dèciso di operare a livello provinciale. Tale scelta non ha nulla di definitivo, del resto, nella provincia di Milano nasceranno una 81

pluralità di fondazioni locali, ma risponde, da un lato, alla struttura organizzativa della Fondazione Cariplo, ogni Provincia ha un proprio rappresentante nel consiglio d'amministrazione della Fondazione -, dall'altro, all'esigenza pratica di individuare con chiarezza i singoli territori. Nulla esclude che, soprattutto nelle province più grandi, si possa in un futuro promuovere una pluralità di fondazioni. Ciò si rivelerà con ogni probabilità indispensabile quando, all'interno del territorio provinciale, esistono diverse comunità con una forte identità e senso di indipendenza. Si pensi, per fare un esempio, alla rivalità esistente fra Crema e Cremona, per cui è spesso difficile che gli abitanti di una città collaborino ad un'iniziativa promossa dai cittadini dell'altra.

Le costituende fondazioni hanno tre funzioni fondamentali. Esse devono: I. sviluppare un'ampia e approfondita conoscenza delle esigenze e delle potenzialità della società civile operante nel proprio territorio; dotarsi di una struttura operativa in grado di distribuire e monitorare contributi di modesta entità destinati ad enti che, senza scopi di lucro, perseguono fini d'utilità sociale; offrire vari ed articolati servizi ai potenziali donatori.

In realtà, il terzo obiettivo, quello riguardante i servizi ai donatori, ha suscitato un certo scetticismo. Le profonde differenze che caratterizzano la nostra società rispetto a quella statunitense, 82

l'assenza di adeguati incentivi fiscali, la novità stessa dell'idea, sembravano escludere la possibilità che qualcosa di analogo a quanto avvenuto alle community foundations statunitensi potesse accadere anche nel nostro Paese. Per questo, il progetto è stato originariamente pensato affinché i primi due obiettivi potessero comunque essere raggiunti, anche in assenza del terzo.

Caratteristica prima del progetto è poi quella di presentarsi come sfida. La Fondazione Cariplo offre un'opportunità, non impone nulla. Spetta alle singole comunità decidere se il progetto può in qualche modo interessarle e, quindi, mobilitare le risorse necessarie per realizzarlo, nella consapevolezza che la nuova fondazione non sarebbe una filiale della Fondazione Cariplo, ma un ente assolutamente autonomo e indipendente.

Per partecipare a tale progetto, la comunità deve presentare alla Fondazione Cariplo un progetto avente i seguenti elementi: uno statuto che permetta di costituire una fondazione della còmunità locale di diritto regionale avente le caratteristiche onlus; un piano strategico triennale comprensivo di bilancio operativo; un consiglio d'amministrazione autorevole, rappresentativo e disinteressato; un proprio personale volontario o retribuito in grado di realizzare gli obiettivi stabiliti dal piano; una sede adeguatamente arredata ed attrezzata.

Inoltre, la comunità locale deve assumersi tutti i costi relativi alla gestione .della struttura. Questo elemento è stato considerato qualificante onde evitare la costituzione di strutture burocratiche e, nel contempo, permettere alle realtà locali di mostrare concretamente e, non solo a parole, il proprio interesse per l'iniziativa. La fondazione potrà diventare un patrimonio che le comunità locali sentiranno come proprio, solo se esse saranno disposte ad investire in essa tempo e denaro.

Una volta approvato il progetto presentato, la Fondazione Cariplo dona un primo contributo di 100 milioni necessari per ottenere il riconoscimento di parte della Regione e, nel contempo, costituisce un fondo di 9 miliardi e 900 milioni il cui reddito è semestralmente conferito alla fondazione locale affinché essa possa usarlo per finanziare progetti di utilità sociale. Anche quest'ultimo fondo diventerà proprietà della fondazione locale se quest'ultima, dopo tre anni, si dimostrerà in grado di raggiungere gli obiettivi da lei stessa stabiliti nel proprio piano strategico.

La presenza di tale fondo avrebbe, comunque, potuto garantire l'esistenza della fondazione anche qualora si fosse rivelato impossibile raccogliere contributi locali. Nella malaugurata ipotesi che si fosse rivelato impossibile dar vita ad una fondazione della comunità locale secondo il modello che un così impressionante successo ha avuto negli Stati Uniti, l'operazione avrebbe co-

munque permesso di soddisfare le due esigenze fondamentali della Fondazione Cariplo: lo sviluppo della conoscenza del territorio e la gestione delle piccole erogazioni. A tal proposito, può essere interessante notare come la Fondazione Cariplo stia considerando con attenzione l'ipotesi di far transitare attraverso le fondazioni locali i cosiddetti fondi territoriali, i fondi cioè che annualmente essa destina per contributi di modesta entità, in ogni caso non superiori ai 50 milioni, in ogni territorio provinciale.

Inoltre, l'approvazione del piano strategico permette alla fondazione locale di partecipare a due "erogazioni sfida". La prima consente alla fondazione locale di ottenere un ulteriore contributo di 200 milioni da destinare, durante il primo anno di attività, quando ancora i frutti del patrimonio non sono ancora maturati, in progetti d'utilità sociale, qualora essa riesca a raccoglierne altri 200 còn analoghe finalità. La seconda ha come fine quello di incrementare il patrimonio della fondazione locale di altri 15 miliardi. Infatti, la Fondazione Cariplo raddoppierà ogni contributo destinato ad aumentare il patrimonio della fondazione locale, fino ad un esborso massimo di 10 miliardi. Per cui la fondazione locale, una volta completata l'erogazione sfida potrà contare su un patrimonio di 25 miliardi: 10 + 10 da parte della Fondazione Cariplo e 5. da raccogliersi sul territorio.

Infine, nella consapevolezza che si tratta di un'operazione difficile e complessa, 83

la Fondazione Cariplo ha messo a disposizione dei comitati promotori la consulenza gratuita dei propri esperti, la possibilità di utilizzare i propri canali privilegiati per l'investimento del patrimonio, momenti di formazione, una struttura centralizzata per l'elaborazione dei bilanci e un collegamento telematico così da garantire un rapido scambio di informazioni e di suggerimenti, anche fra le singole costituende fondazioni delle comunità locali.

Il progetto è stato presentato pubblicamente con un convegno internazionale il 24 aprile 1998 a Milano ed è poi stato avviato, in fase sperimentale, in quattro province: Bergamo, Lecco, Mantova e Sondrio. In ognuna di esse si è operato seguendo modalità diverse, ciò ha permesso di meglio comprendere la strada più efficace. L'obiettivo è infatti quello di replicare l'esperienza maturata anche negli altri territori. Questa sperimentazione, che si è conclusa agli inizi del 1999, ha permesso di raccogliere alcune interessanti indicazioni.

L'elemento più strategicamente importante per il successo dell'intero progetto è la presenza di una persona che si faccia promotore dell'iniziativa e che sia disposto ad impegnarsi in prima persona per il conseguimento del risultato.

Senza un impegno costante, soprattutto nei primi mesi, l'iniziativa rischia di arenarsi o comunque di passare in secondo piano rispetto ad altre priorità. È poi necessario che il promotore abbia buoni rapporti con i rappresentanti del84

le principali istituzioni operanti nel territorio servito. Se tale fiducia manca, sorgono inevitabilmente veti incrociati e la disponibilità anche pubblicamente manifestata da parte di importanti ed autorevoli rappresentanti della società, finisce col cadere nel vuoto.

Un altro errore da evitare è quello di affidare la realizzazione del progetto all'amministrazione provinciale. È indispensabile stabilire buoni rapporti con le istituzioni politiche, ma è anche necessario assicurare l'indipendenza della fondazione da ogni ingerenza da parte dei partiti. La fondazione non deve in alcun modo apparire come uno strumento operativo al servizio di una qualsiasi amministrazione pubblica. È molto importante che queste istituzioni nascano dal diretto impegno da parte della società civile, per cui il ruolo dell'amministrazione provinciale dovrebbe forse essere più quello di un valido ed indispensabile appoggio che quello di principale promotrice, così da dare concreta applicazione ai principi di sussidiarietà. Il rischio di dar vita ad una fondazione di partecipazione, piuttosto che ad una fondazione della comunità locale, diventa in questo caso abbastanza concreto. Non bisogna dimenticare come proprio l'entità, non certo irrilevante, delle somme messe a disposizione da parte della Fondazione Cariplo, potrebbe generare un'attitudine strumentale, da parte di chi è più interessato ad accaparrarsi tali fondi, piuttosto che a costituire una fondazione della

comunità locale. Il rischio che si crei un accordo di vertice, piuttosto che un'iniziativa in grado di coinvolgere la società, è quindi reale.

Un altro fattore che può notevolmente rallentare la costituzione di una fondazione della comunità locale, può essere conseguenza del desiderio di coinvolgere nella costituzione del comitato promotore personaggi molto autorevoli e rappresentativi, ma che proprio per questo possono dedicare poco tempo ad un'iniziativa peraltro così nuova e di cui non è sempre facile cogliere i contorni.

Una simile scelta rischia di generare ritardi, sia perché convincere tali persone non è impresa facile, sia perché, una volta costituito il comitato, riuscire ad organizzare le riunioni necessarie per l'elaborazione del piano strategico diventa oltremodo complicato.

La modalità più efficace è stata quella seguita a Lecco, la quale ha permesso di arrivare alla costituzione della Fondazione il 18 febbraio 1999.

LA PRIMA FONDAZIONE COMUNITARIA ITALIANA

Il primo passo è stato quello di costituire un sorta di comitato d'onore. Proprio per cercare di superare in qualche modo lo scetticismo che normalmente accompagna la presentazione di un nuovo progetto, soprattutto quando questo non è ancora stato sperimentato nel nostro Paese, è parso opportuno individuare un gruppo di persone parti-

colarmente autorevole e rappresentativo in grado di farsi garante di fronte all'opinione pubblica circa l'importanza e la serietà dell'iniziativa.

Questo Comitato è stato composto dai rappresentanti di alcune fra le istituzioni più importanti operanti nel territorio. E risultato abbastanza facile coinvolgere in questa operazione il Prefetto, il Presidente dell'amministrazione provinciale, il Vicario episcopale, il Sindaco del capoluogo, il Presidente della locale Camera di Commercio in rappresentanza anche dell'Università. A queste persone si è naturalmente aggiunto il Commissario della Fondazione Cariplo, ossia il rappresentante della provincia di Lecco in seno al consiglio d'amministrazione della Fondazione lombarda, vero e proprio gestore dell'intera iniziativa.

Questo comitato si è ufficialmente insediato nei locali della Prefettura alla fine di aprile ed ha avuto come primo obiettivo quello di individuare i componenti di un comitato promotore. In realtà, si era ben consapevoli che i membri del comitato d'onore ben difficilmente avrebbero trovato il tempo necessario per gestire tutte le attività necessarie alla preparazione del progetto da presentare alla Fondazione Cariplo. Occorreva, dunque, affiancare a questo comitato una struttura più operativa.

A seguito di alcuni incontri individuali fra i còmponenti del comitato d'onore, il Commissario della Fondazione Caripio e i consulenti il cui compito doveva essere quello di offrire la necessaria assi85

stenza tecnica, è stato possibile indivi.duare, prima della pausa estiva, i bri del comitato promotore.

E inutile indicare quanto tale comitato sia importante per il successo dell'intera operazione. Spetta, infatti, ad esso la preparazione del piano strategico che dovrà indirizzare l'attività della Fondazione per almeno i primi tre anni di vita, quelli per certi versi più delicati per il futuro dell'ente. Si tratta infatti del soggetto operativo, l'unico in grado di dare concretezza al progetto e di mobilitare le energie necessarie alla realizzazione dello stesso.

Nell'individuazione ditale comitato, le autorità preposte alla nomina sono state particolarmente attente ad evitare che le loro scelte fossero, in qualche modo, condizionate da ragioni politiche. I criteri che sono serviti per scegliere le persone deputate alla preparazione del piano strategico sono stati essenzialmente due: la provenienza geografica e le competenze professionali. Si è stati attenti a far sì che ci fosse almeno una persona residente nelle diverse comunità in cui è possibile dividere la provincia. Da un punto di vista professionale, oltre al Commissario della Fondazione Cariplo, un imprenditore appassionato d'arte, sono stati coinvolti uno dei notai più prestigiosi di Lecco, il direttore sociale della locale ASL, il primario del reparto di anestesia e rianimazione che è anche presidente della Società Italiana di Cure Palliative, oltre ad essere membro fondatore di un'associazione per la cura dei 86

malati terminali; un imprenditore particolarmente sensibile alla conservazione del patrimonio storico e culturale del territorio; un avvocato a lungo impegnato nel sociale, il vicedirettore della Caritas Ambrosiana e un farmacista, nonché sindaco di un Comune del territorio. Tale comitato si è poi trasformato nel consiglio d'amministrazione con la sola eccezione del farmacista che è stato sostituito da un architetto oltre che docente universitario e da una signora che è stata, fra l'altro, riconosciuta come una delle prime 50 donne imprenditrici al mondo.

Il compito ditale comitato non è stato semplicemente quello di pensare un piano operativo che fosse rigoroso, coerente, fattibile ed in grado di integrarsi con le esigenze e gli interessi della comunità locale, ma anche quello di individuare le vie per coinvolgere attivamente un numero consistente di cittadini nella vita della fondazione. Essa, infatti, deve avere fra i suoi scopi quello di attirare tutti coloro che si sono allontanati dalla vita pubblica e dall'impegno sociale, non per scarso senso civico, ma per un diffuso sentimento di impotenza davanti a istituzioni che pretendono di gestire tutto e che spesso riducono il singolo a semplice consumatore di beni e servizi.

A Lecco si è però deciso di rimandare il coinvolgimento dei cittadini ad un secondo momento, dando perciò vita ad una strategia alquanto riservata in cui il confronto con le diverse realtà che compongono la comunità è stato rimandato

a dopo la costituzione della fondazione.

Questa scelta è stata consigliata sia dalle difficoltà oggettive per un comitato di volontari di gestire un simile dibattito, sia dal desiderio di evitare eventuali pressioni politiche che avrebbero potuto generare veti incrociati e, quindi, ostacolare la stessa costituzione della fondazione locale. Inoltre, si voleva dare la chiara impressione di serietà ed efficienza, anche per meglio rispettare la mentalità del posto, la quale preferisce i fatti concreti alle parole e ai proclami.

Al fine di evitare ogni possibile diffidenza, da parte di chi può temere che dietro questa iniziativa si nasconda un'operazione di potere, i membri del comitato promotore hanno creduto loro dovere quello di dare il buon esempio. Non soio hanno prestato la loro opera gratuitamente, ma hanno anche deciso di contribuire in prima persona alle spese di gestione della Fondazione stessa. Sono stati, così, raccolti pRi di 20 milioni.

Dopo l'insediamento avvenuto subito prima della pausa estiva, sono bastati soio sei ulteriori incontri per la preparazione del piano da presentare alla Fondazione Cariplo. Queste riunioni, che sono state ospitate nei locali della prefettura, hanno permesso di elaborare uno statuto e di individuare le linee programmatiche che dovranno caratterizzare le attività della fondazione locale nei prossimi tre anni. Se si pensa che il primo incontro, dopo la pausa estiva, è avvenuto il 22 ottobre e che la costituzione è stata formalizzata il 18 di feb-

braio, non si potrà non rimanere sorpresi dalla rapidità con la quale è stato possibile dar vita alla prima fondazione della comunità locale italiana.

Particolarmente innovativo è stato il progetto volto a raccogliere le risorse necessarie per completare la sfida di 200 milioni promossa dalla Fondazione Cariplo. È stato, infatti, predisposto un bando il cui obiettivo e: «suscitare ed accrescere donazioni provenienti da soggetti privati a favore di progetti di utilità sociale promossi da organizzazioni non lucrative operanti nel territorio della provincia di Lecco". Scopo della fondazione locale non è dunque semplicemente quello di finanziare progetti di utilità sociale, ma quello di promuovere una cultura della donazione.

Probabilmente, è stata proprio l'elaborazione di questo progetto ad aiutare il comitato promotore ad individuare la missione della nuova fondazione. Il suo scopo dichiarato è infatti quello di accrescere le donazioni a favore delle organizzazioni non lucrative che operano sul territorio lecchese. Essa non vuole attirare risorse che comunque sono destinate a fini d'utilità sociale, come, ad esempio, i contributi pubblici, ma suscitare nuovi apporti da parte di privati cittadini. Per raggiungere tale fine, la. fondazione stimola l'elaborazione di nuovi progetti da parte delle organizzazioni non profit operanti sul territorio, realizza una prima anaiisi qualitativa degli stessi, garantisce tutti i vantaggi fiscali permessi dalla legislazione vigente, WA

si assicura che i contributi vengano destinati nella loro integrità ai beneficiari individuati e che vengano effettivamente utilizzati per conseguire l'obiettivo dichiarato, offre ai donatori ritorni di immagine o l'anonimato così da meglio soddisfare le loro esigenze, e quindi raddoppia i contributi che vengono destinati al finanziamento ditali progetti.

D'altro canto, l'introduzione di un bando ampiamente pubblicizzato e diffuso con largo anticipo fra tutti i potenziali interessati ha offerto alla fondazione locale un efficace strumento per perseguire la seconda delle sue finalità principali: quella di favorire la crescita del settore non profit, stimolandone le capacità progettuali. Per ottenere un contributo da parte della Fondazione della provincia di Lecco non è necessario conoscere i componenti del consiglio d'amministrazione della stessa, ma occorre presentare un progetto rigoroso ed accattivante che possa, non solo essere approvato dagli organi della Fondazione, ma anche suscitare il concreto sostegno da parte della comunità.

Il lancio di questo progetto si è rivelato particolarmente utile anche per stabilire un buon rapporto con le organizzazioni non profit operanti sul territorio. Queste ultime hanno potuto verificare con mano come la fondazione non sia affatto un possibile concorrente, ma al contrario uno strumento per aumentare le risorse a loro disposizione. Tale bando è, dunque, servito per dare concretezza al motto che forse meglio di ogni altro 88

descrive la funzione di una fondazione della comunità locale: "non si dona alla fondazione, ma attraverso di essa".

La sfida da 200 milioni sta quindi permettendo alla Fondazione della provincia di Lecco, non solo di offrire, attraverso le primi erogazioni, il contributo che una simile istituzione può dare per il miglioramento della qualità della vita della propria comunità, ma anche di impostare su una base di reciproca stima e fiducia il rapporto con le organizzazioni non profit operanti sul territorio. Essa, inoltre, permette di esplorare una funzione che di noima non viene svolta dalle community foundations americane, ma che potrebbe rivelarsi di grande efficacia nella realtà italiana dove i vantaggi fiscali per donazioni a scopi patrimoniali sono praticamente mesistenti: la raccolta di contributi per il finanziamento di progetti. Negli USA tale funzione viene di norma svolta da un'altra istituzione: il community chest, ed è infatti comune descrivere questo come il conto corrente della comunità e l'altra come il suo libretto di risparmio.

Nel nostro Paese, entrambe queste funzioni potrebbero essere svolte dalle fondazioni delle comunità locali. Non è improbabile che già nel primo anno di vita, e senza contare il reddito del patrimonio, la Fondazione della provincia di Lecco possa erogare pii'j di un miliardo e mezzo per il finanziamento di progetti di utilità sociale.

Una persona ha, infatti, già donato 100 milioni per sostenere un progetto di te-

lesoccorso in un Comune della Provincia e entro la fine dell'estate si dovrebbe formalizzare una seconda donazione di 500 milioni per l'acquisto di sofisticate attrezzature sanitarie. Una similè opportunità potrebbe rivelarsi particolarmente interessante per le imprese. Queste ultime potrebbero, infatti, utilizzare la fondazione della comunità locale per canalizzare i propri investimenti sociali, renderli più efficaci e nel contempo meglio usufruire dei benefici fiscali previsti dalla normativa vigente.

Anche la sfida da 10 miliardi si è rivelata più facile del previsto. Nel giro di pochi mesi è stato possibile costituire un primo fondo da i miliardo e mezzo da parte di un donatore che ha desiderato rimanere anonimo. La seconda donazione, di due miliardi, è invece avvenuta nel modo più impreedibile e plateale. Un anziano medico, proprio durante la presentazione ufficiale della fondazione alla cittadinanza, si è alzato, si è procurato carta e penna e, prima di uscire, ha lasciato una lettera indirizzata al Presidente della Fondazione in cui formalizzava la sua donazione. Si è trattato di un vero e proprio coup de thétre che è stato ampiamente riportato sulla stampa locale. La pagina della Lombardia del "Corriere della Sera" dedicava sette colonne per descrivere l'evento.

A queste due donazioni più consistenti se ne è aggiunta un'altra di 50 milioni, da parte dell'Unione Industriali che spera di coinvolgere i propri soci nella costituzione di un fondo più consisten-

te e una quarta di 300 milioni, da parte di un altro privato cittadino. Non è dunque impossibile immaginare che, prima della fine dell'anno, la fondazione possa raccogliere 5 miliardi e, quindi, grazie al contributo previsto da parte della Fondazione Cariplo, portare il proprio patrimonio a 25 miliardi.

Un bilancio positivo Il. bilancio di questo primo esperimento non può che dirsi positivo. Innanzitutto, la facilità attraverso la quale sono state raccolte somme così imponenti è una chiara dimostrazione di come la società civile italiana sia forse più matura e pronta a prendersi le proprie responsabilità di quanto si è forse disposti a credere: Il vecchio luogo comune che vede nell'assenza di una tradizione protestante la causa del ritardo nello sviluppo sociale del nostro Paese, trova proprio in "quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno", reso famoso dal Manzoni, una prima evidente confutazione. La nostra comunità è generosa e disponibile, occorre solamente avere il coraggio di mostrare concreta fiducia nelle sue capacità.

Accanto a queste donazioni, è opportuno considerare come la Fondazione della provincia di Lecco può contare su una sede prestigiosa, messa a disposizione in comodato gratuito da parte dell'amministrazione provinciale; che tale sede è stata arredata e fornita di computer e delle altre apparecchiature elettroniche gratuitamente, grazie alla genero-

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sità di due imprese locali; che è stato possibile stampare carta intestata, bandi, pieghevoli sempre senza spendere una lira e che infine il segretario generale, assistito da un consistente numero di qualificati volontari, gestisce la Fondazione senza percepire compenso alcuno.

Naturalmente, se la Fondazione Cariplo avesse deciso di costituire una propria agenzia, invece di promuovere la nascita di una struttura indipendente, nessuna di queste risorse si sarebbe resa disponibile. Se poi si considera come ogni erogazione finisca per costare alla Fondazione Cariplo diversi milioni solo in spese amministrative, apparirà evidente come solo da questo ultimo punto di vista, le attività della fondazione locale rappresentino un ulteriore risparmio per pRi di 100 milioni.

Il progetto si sta rivelando un vero successo per la Fondazione Cariplo anche sul piano meramente economico. I 20 miliardi e 200 milioni che quest'ultima ha messo a disposizione della Fondazione della provincia di Lecco finiranno, comunque, per essere destinati alla loro finalità originaria: il finanziamento di progetti di utilità sociale, e che ciò avverrà senza costi amministrativi per la Fondazione Cariplo. Inoltre, con ogni probabilità, saranno distribuiti sulla base di una piii approfondita conoscenza del territorio e, attraverso l'utilizzo del meccanismo dell'erogazione sfida, serviranno a mobilitare altre risorse. L'unica spesa reale in cui la Fondazione è incorsa da quando, nel 1997, si è iniziato a 90

riflettere su una simile ipotesi, è stata quella necessaria a finanziare le ricerche negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la progettazione e l'assistenza tecnica offerta alle singole comunità impegnate nel progetto. Si è trattato di poche centinaia di milioni (meno di 300 per 2 anni di lavoro), un investimento certamente modesto se a tutti i vantaggi descritti precedentemente si aggiungono i benefici in termini di immagine (decine sono gli articoli che sono stati pubblicati a Lecco per descrive l'iniziativa) e il fatto che il progetto potrà facilmente essere replicato.

Prossime iniziative analoghe Infatti, il successo ottenuto a Lecco ha spinto la Commissione Centrale di Beneficenza, praticamente il consiglio d'amministrazione della Fondazione Cariplo, ad estendere l'iniziativa a tutte le altre province, con l'esclusione di quella di Milano, per la quale è in corso di elaborazione un progetto ad hoc in grado di tenere conto delle peculiarità della grande metropoli lombarda. Già nel prossimo autunno dovrebbero essere costituite le fondazioni di Varese, Bergamo e Brescia, mentre entro la fine del 1999 o, al pRi tardi, all'inizio del 2000 dovrebbe essere la volta di Novara e Como.

Il progetto sta suscitando interesse anche al di là dei confini lombardi. La Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia ha deciso di promuovere la costituzione di una fondazione della comunità locale a Portogruaro, nella Venezia

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orientale, mentre la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia sta considerando l'eventualità di dar vita ad una iniziativa analoga nell'Umbria. L'interesse ha anche valicato le Alpi, tant'è che la principale fondazione belga, la Fondazione Re Baldovino sta considerando con grande serietà di festeggiare il proprio venticinquesimo anniversario dando vita ad un'iniziativa analoga nel proprio Paese. Numerose poi sono le nazioni aventi una tradizione neolatina che guardano con notevole interesse ed attenzione a questo progetto, in quanto rappresenta la pratica dimostrazione di come le fondazioni delle comunità locali possano sorgere e crescere, anche in contesti culturali diversi da quello anglosassone. A tutto ciò si deve aggiungere l'attenzione dimostrata dalla World Bank per un'iniziativa che potrebbe forse essere utilizzata per promuovere lo maturazione del capitale sociale dei Paesi in via di sviluppo.

UN RITORNO ALLE ORIGINI

Il progetto fondazioni delle comunità locali rappresenta, quindi, un'interessante modalità attraverso la quale una fondazione di origine bancaria può ridefinire il proprio ruolo e la propria identità in stretto contatto con la so-

cietà civile. Attraverso di esso, la Fondazione Cariplo non solo sta risolvendo alcuni problemi operativi e gestionali, ma sta concretamente dimostrando di essere in grado di dotarsi di una propria capacità progettuale e dunque di essere qualcosa di più di una torta da spartire.

Ci si può forse anche chiedere se, per certi versi, attraverso questa operazione, la Fondazione Cariplo non stia riscoprendo la propria vocazione originaria.

Nel secolo scorso, infatti, la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, grazie all'impegno di cittadini consapevoli delle loro responsabilità sociali, ha favorito la cultura del risparmio e attivato il circuito virtuoso del credito produttivo per quelle attività economiche che le banche commerciali non erano pronte a sostenere. Ciò, nel tempo, ha generato il patrimonio che tutti conosciamo. Oggi, alle soglie del nuovo millennio, attraverso il progetto delle fondazioni delle comunità locali, essa offre un'opportunità ai cittadini consapevoli delle proprie responsabilità sociali di costituire un grande salvadanaio per il bene dell'intera comunità e, nel contempo, di finanziare quelle imprese sociali di cui tutti sentono la necessità per lo sviluppo morale e cive della nostra società.

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Iniziative a beneficio delle comunità.

Il caso della Repubblica Ceca di Julia E. Szanton *

Negli ultimi anni, i governi e i responsabili delle politiche esteri, gli accademici e gli attivisti hanno sottolineato l'importanza della nascita, nell'Europa centrale e orientale, delle istituzioni della "società civile" che agiscono come intermediarie tra Io Stato e i singoli cittadini per la fornitura di servizi sociali, per la creazione delle comunità e il rafforzamento dei processi democratici e della partecipazione pubblica. Lo scopo principale di questo documento è quello di presentare la situazione, i problemi e le opportunità attuali delle due tipologie emergenti, e spesso collegate tra loro, di istituzioni della società civile nella Repubblica Ceca: le ONG impegnate a beneficio della comunità e le ONG con finalità filantropiche. Prima di iniziare, tuttavia, è necessario descrivere alcune tendenze generali e alcuni sviluppi recenti che hanno influito sul climacomplessivo nell'ambito del quale stanno emergendo le organizzazioni non governative nonprofit impegnate nei settori delle attività a beneficio della comunità e delle iniziative filantropiche.

* Responsabile del Programma per lo Sviluppo del Terzo Settore presso la Fondazione VIA, Praga.

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IL RUOLO DELLO STATO CECO Il primo governo dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989, composto prevalentemente da dissidenti guidati dal Presidente V.clav Havel, comprese sia dal punto di vista intellettuale sia attraverso l'esperienza personale delle limitazioni dei diritti civili di base, l'importanza di creare le condizioni adeguate per la nascita delle istituzioni della società civile nella Repubblica Ceca. Il periodo compreso tra il 1990 e il 1992 ha, quindi, visto il varo di modifiche costituzionali finalizzate aconsentire la libertà di associazione per tutti i cittadini e l'entrata in vigore di una legislazione che consente la costituzione di organizzazioni non governative nonprofit 1 . Successivamente, nel 1993, fu approvato un disegno di legge che assegnava l'i per cento dei profitti derivanti dalla seconda ondata di privatizzazioni con emissione di certificati (l'asse portante del processo di privatizzazione della Repubblica Ceca) al Fondo Nazionale delle Proprietà, che avrebbe poi dovuto distribuire queste somme alle fondazioni ceche. Fatte alcune piccole eccezioni, tuttavia, questi furono i primi e gli ultimi passi compiuti

a sostegno del settore delle ONG per un lungo periodo di tempo.

Tra la metà del 1992 e il 1998, il governo è stato dominato dal Partito Democratico Civile, guidato dal Primo Ministro Vklav Klaus. Durante questo periodo, è stata posta l'enfasi sulla privatizzazione delle aziende di proprietà statale, sulla restituzione delle proprietà ai proprietari del periodo precedente il 1948, e sulla creazione delle strutture di base di una economia di mercato. Tuttavia, questa particolare enfasi sulla liberalizzazione dell'economia ha portato a trascurare altri settori di importanza critica, come l'assistenza sanitaria e l'agricoltura, una situazione che ancora oggi rappresenta un problema molto grave per la Repubblica Ceca. Questo periodo, inoltre, è stato caratterizzato da una certa ambiguità nei confronti della maggior parte delle tipologie di associaziòni formali e informali, e dal mancato riconoscimento del ruolo delle istituzioni della società civile. Il Primo Ministrò Klaus non ha mai nascosto la propria avversione per le organizzazioni non governative e il loro ruolo in qualità di intermediari tra lo Stato e il cittadino. A suo parere tali intermediari sono inutili, inefficaci o utili solo a loro stessi (in particolare perché si tratta di operatori del settore pubblico "autoeletti", e non eletti), rappresentano un onere aggiuntivo su una società già sovraccarica, o una conseguenza negativa degli attuali orientamenti di sinistra registrati nella nazione ceca.

Le organizzazioni non-profit, secondo Klaus, "non hanno nulla di civico (...) ma non hanno il controllo democratico di base che caratterizza il nostro sistema politico parlamentare, non esiste un Parlamento che dica: ... Lei signor IVlinistro, sta svolgendo il suo compito in maniera inadeguata.., cioè, si tratta cli istituzioni che si allontanano da questo, e credo che questo sia un grande errore concettuale. . " 2, Fu solo nel 1997 e nel 1998, con l'indebolimento del partito di Klaus, che il governo tornò a dedicare nuova attenzione al settore delle organizzazioni non governative non-profit. Durante questo periodo, il Parlamento approvò due importanti leggi che contribuirono a definire ulteriormente il settore delle ONG: una legge sulle organizzazioni impegnate a sostegno della collettività, le entità non-profit che forniscono servizi, e una legge sulle fondazioni e i Fondi organizzati come Fondazioni che ha riaperto la possibilità di distribuire il Fondo Nazionale degli Investimenti.

In termini più generali, durante gli ultimi due anni abbiamo riscontrato un rinnovato interesse per il settore nonprofit tra alcuni partiti politici, l'Ufficio del Governo ceco (ufficialmente responsabile del settore delle ONG) e i singoli membri del Parlamento. Nel 1998 l'attenzione del governo è aumentata sia a seguito di uno scandalo internazionale imperniato sulla comunità nomade ceca3, sia delle crescenti pressioni esercitate dall'Unione europea sul93

la Repubblica Ceca perché il Paese si adegui agli standard europei in materia di società civile, di decentramento del potere a vantaggio delle autorità regionali e locali, e di un maggiore accesso all'informazione per i cittadini cechi.

Malgrado questi sviluppi positivi, sarebbe un'esagerazione sostenere che il ruolo del settore non profit sia ben compreso o riconosciuto dai componenti del governo e dai rappresentanti eletti (a tutti i livelli di governo), dai mezzi di comunicazione e dalla società ceca nel suo complesso. Infatti, le continue incomprensioni e i sospetti sui settore delle organizzazioni non governative e non-profit sono tra i problemi più persistenti e più gravi per il settore, che limitano la capacità del settore stesso di raccogliere fondi per le proprie attività dai singoli cittadini e dal settore privato per garantire la propria autonomia.

IL SETTORE NON PROFIT NELLA REPUBBLICA CECA

Il settore non profit ceco è caratterizzato da numerose e importanti scollature.

La prima deriva dal periodo in cui le organizzazioni furono fondate. Naturalmente, alcune organizzazioni non profit esistevano anche prima del 1989, anche se interamente Finanziate dallo Stato e controllate dal Partito Comunista.

Questo è stato il caso di numerose organizzazioni culturali, femminili, giovanili e sportive4 . Alcune di queste organizzazioni hanno continuato ad operare in 94

forma modificata dopo il 1989. Ma durante questo periodo abbiamo assistito anche all'istituzione di numerose nuove organizzazioni civiche non profit. In questa sede, discuteremo principalmente di queste nuove organizzazioni.

La seconda importante scollatura nel settore non profit è quella tra le organizzazioni genericamente al servizio del bene della collettività e le organizzazioni di forma simile ai circoli privati, prevalentemente al servizio degli interessi dei propri soci. Queste distinzioni non sono sempre molto semplici da fare, comunque questo documento sarà principalmente incentrato sulle esperienze della prima tipologia di organizzazioni, caratterizzate da un orientamento più marcato a favore degli interessi della collettività.

Tuttavia, un'ulteriore importante distinzione interessa le organizzazioni più grandi, con sede a Praga (spesso al servizio dell'intero Paese o di un bacino di utenza specifico) e le organizzazioni a carattere locale o regionale, che non hanno sede nella capitale. In questo contesto, è importante notare che, in generale, il lavoro più innovativo nel settore della costruzione delle comunità e del settore non profit attualmente si svolge in località diverse da Praga.

Questo è vero malgrado, o forse in parte a seguito del fatto che durante i dieci anni trascorsi dal 1989 ad oggi, la Repubblica Ceca è rimasta divisa su questioni che oppongono il centro alla periferia del Paese, attribuibili alla man-

canza di iniziative dei vari governi per decentralizzare i processi decisionali e le capacità finanziarie alle singole regioni, città e piccoli centri urbani. Le distorsioni in economia sono particolarmente evidenti se si confronta l'enorme crescita economica e il ridotto tasso di disoccupazione di Praga con la stagnazione economica e l'elevata disoccupazione sia nei centri industriali in fase di declino (come Ostrava o Most) sia nelle aree rurali. La società ceca nel suo complesso e, di conseguenza, il settore non profit, sono profondamente segnati da questa divisione.

Attualmente, vi sono quattro' principali tipologie di organizzazioni non profit riconosciute dal sistema legale ceco; fondazioni o fondi organizzati come fondazioni, associazioni civiche, società impegnate nelle attività filantropiche 5 ed enti di beneficenza sostenuti dalla Chiesa. Queste organizzazioni sono impegnate in tutti i campi, dall'assistenza sanitaria alla cultura, e in tutte le parti del Paese. Queste strutture conducono una vasta gamma di attività, dal settore dell'istruzione all'organizzazione di manifestazioni di protesta.

Il numero relativamente grande e la diversa tipologia delle organizzazioni 6 , tuttavia, ancora non trovano riscontro nel ruolo delle organizzazioni stesse nella società. Il settore non profit e il suo ruolo nella società ceca trova ancora scarsa comprensione tra le autorità e il grande pubblico. Numerosi scandali riguardanti l'abuso di fondi destinati a fi-

ni di beneficenza e l'abuso dello status di organizzazione non profit per attività a fini di lucro hanno rafforzato uno scetticismo nei confronti delle cosiddette "attività a beneficio della collettività" che è da tempo radicato nel popolo ceco e che deriva dalle esperienze dirette con la retorica e la pratica comunista del "volontariato obbligatorio" in nome del bene comune. L'era comunista ha lasciato anche un altro marchio negativo sul popolo ceco, rafforzando una marcata sfiducia negli altri e nelle loro motivazioni. Entrambi questi pregiudizi influenzano ancora la visione delle attività del settore non governativo e non profit da parte del pubblico.

IL SOSTEGNO AL SETTORE NON PROFIT

Considerato il forte ruolo storico dello Stato e l'iniziale assenza totale (ancora oggi, molto significativa) di accumulo di capitali privati nella Repubblica Ceca, lo Stato ha svolto un ruolo chiave nel finanziate i componenti del settore non profit. Questo sostegno è stato caratterizzato da due forme principali: sussidi o stanziamenti annuali alle organizzazioni non profit istituite dallo Stato, per esempio, teatri, ospedali, etc. 7, e i finanziamenti forniti direttamente alle organizzazioni non profir attraverso i programmi di finanziamento dei singoli ministeri.

Fino alla metà degli anni Novanta, un notevole sostegno per il settore non profit ceco fu fornito da programmi 95

pubblici esteri (per esempio, il Pronizzazioni di strumenti di base come ligramma PHARE - il programma dell'Ubri, computer, fotocopiatrici e simili, finione europea finalizzato allo sviluppo nanziamenti per le spese di viaggio e sodella società civile nell'Europa centrale stegno progettuale per tutte le tipologie e orientale, e l'Agenzia statunitense per di organizzazione (con particolare riferilo Sviluppo Internazionale) e grandi mento a quelle con sede a Praga). In fondazioni private come la C.S. Mott una seconda fase, pii orientata alla proFoundation, Pew Charitable Trusts, e grammazione (all'incirca, il periodo altre. A partire dal 1995, tuttavia, in ricompreso tra il 1994 e il 1996), i finansposta alle affermazioni del governo ceziatori esteri hanno concentrato la proco secondo le quali l'assistenza estera pria attenzione sulle organizzazioni che non era pii necessaria e in consideratentano di introdurre approcci innovazione dei problemi registrati altrove nel tivi in settori quali quello dell'assistenza mondo, molti dei principali programmi sanitaria e delle iniziative a favore delle pubblici e delle fondazioni private esteri minoranze, e in quelle che tentano di hanno eliminato, ridotto in maniera siaffrontare problemi ambientali spesso gnificativa o riorientato i propri finangravi e impellenti. Il sostegno per le orziamenti per la Repubblica Ceca verso ganizzazioni aventi sede in località diaree altamente specifiche, come la queverse dalla capitale è aumentato, anche stione dei nomadi. I dati esatti sono di se durante questa fase la maggior parte difficile reperimento, e variano da settodei finanziamenti è stata destinata a re a settore, tuttavia queste riduzioni piccoli progetti portati avanti da singole ammontano probabilmente a una perorganizzazioni. dita complessiva del 30-50 per cento Il settore non profit ceco sta ora attraper i finanziamenti annuali al settore versando una terza "fase di consolidadelle non profit 8. Per comprendere l'immento" (ca. dal 1997) caratterizzata da patto complessivo e la successiva riduun netto calo dei finanziamenti, ma anzione dei .finanziamenti esteri al settore che da una crescente enfasi dei finanzianon profit ceco, può essere utile passare tori sul sostegno delle iniziative di collain rassegna le diverse tipologie di assiborazione tra settori diversi, sull'austenza fornite da queste fonti. mento del coirivolgimento del pubblico Subito dopo i cambiamenti del 1989, nelle attività delle organizzazioni, sull'euna attenzione maggiore fu dedicata al mergere di risorse nazionali per il settosostegno della creazione e delle capacità re e, più di recente, sui meccanismi di tecniche delle nuove organizzazioni. autofinanziamento delle organizzazioni, Questa "fase di avviamento" iniziale tutti finalizzati alla sostenibilità del set(all'incirca tra il 1990 e il 1993) impotore nel lungo termine. Numerosi dei neva principalmente di dotare le orgaprincipali programmi per le fondazioni 96

(per esempio, il VIA Foundation's UNDP Support for Local Initiatives Program, l'Open Society Fund's Community Projects e i finanziamenti PI-IARE della Civil Society Development Foundation) oggi sono specificamente finalizzati a sostenere i progetti che soddisfano questi criteri. Il termine "comunità" appare spesso nei titoli o nelle descrizioni di questi programmi e nei dibattiti sulle necessità attuali del settore non profit.

Di recente, un numero crescente di organizzazioni non profit ceche ha presentato domanda per questi programmi sia a seguito dei cambiamenti delle politiche dei finanziamenti da parte di numerosi ministeri (che hanno improvvisamente ridotto quelli che venivano considerati come sussidi regolari alle organizzazioni fornitrici di servizi) sia a seguito del blocco o dei nuovi orientamenti dei finanziamenti esteri. Per molte di queste organizzazioni, tuttavia, la richiesta di maggiore interazione con gli altri settori e con il pubblico appare ancora come una minaccia e viene, quindi, affrontata in maniera molto superficiale. Spesso si sente affermare che la collaborazione non è possibile perché "loro" non comprendono o non vogliono interagire con "noi", o che sarebbe inutile rivolgersi a un pubblico più ampio perché la maggior parte dei cechi è "notoriamente passiva". Se, da un lato, questi ostacoli non dovrebbero essere sottovalutati, dall'altro, solo un numero ridotto di organizzazioni ha riflettuto

strategicamente su come le barriere che ostacolano una maggiore interazione con i diversi segmenti della società ceca potrebbero essere superate per consentire alle organizzazioni di radicare più profondamente le proprie attività in una determinata area geografica o in uno specifico bacino di utenza.

Malgrado le loro rispettive competenze, risorse e motivazioni varino considerevolmente, un piccolo ma crescente gruppo di organizzazioni non profit ha comunque riconosciuto l'importanza di molti di questi obiettivi. Alcune di queste, per esempio, impegnate nel campo dell'assistenza sociale e sanitaria, si sono spostate dalla fornitura pura di servizi a una ricerca di cambiamenti più sistemici nelle rispettive aree di specializzazione.

A tale scopo, queste organizzazioni stanno tentando di mettere a punto una legislazione più favorevole o di costruire legami più solidi, oltre a competenze specifiche in materia di identificazione delle necessità e capacità di pianificazione, tra i fornitori di servizi statali e non governativi. Altre organizzazioni, spesso nel settore ambientale, hanno scoperto che senza maggiore interazione e sostegno da parte delle comunità nell'ambito delle quali operano, non possono sperare di raggiungere i rispettivi obiettivi di lungo termine, spesso piuttosto onerosi. Tuttavia, altre organizzazioni sono spinte prevalentemente dalle riduzioni dei finanziamenti, dalla convinzione che la situazione dei finanziamenti potrà solo peggiorare nel medio ter97

mine e dalla speranza che rivolgendosi a nuovi gruppi della società si potranno creare nuove opportunità di finanziamento.

IL SIGNIFICATO DEGLI APPROCCI DI "ASSITENZA ALLE COMUNITÀ" E DI "RADICAMENTO NELLE COMUNITÀ"

Il concetto di "assistenza alla comunità" come approccio all'assistenza per le disabilità mentali o fisiche e per le malattie mentali è stato proposto e messo in pratica fin dai primi anni Novanta da parte di un piccolo gruppo di organizzazioni ceche. Tuttavia, nell'arco degli ultimi due anni, l'uso del termine "cemunità"si è diffuso in maniera piii ampia tra i finanziatori e le organizzazioni non profit ceche. Questo sviluppo è la conseguenza della necessità di ampliare la base economica per le singole organizzazioni, ma anche di una crescente percezione della "scarsa efficacia" del lavoro di molte di esse, e cioè, la necessità di impegnare un numero maggiore di persone per le attività e gli obiettivi delle singole organizzazioni. Il crescente uso del termine "comunità" è inoltre stato accompagnato e amplificato da sempre pii energici solleciti da Bruxelles per l'istituzione di unità regionali e, anche se in misura minore, da un'accresciuta partecipazione civile nella Repubblica Ceca in previsione del suo ingresso nelle strutture europee.

Ma anche l'analisi di tali questioni risulta problematica, in quanto nella Im02

gua ceca manca un termine che possa abbracciare il complesso significato del termine "comunità " nella sua accezione angloamericana9. Il termine "comunità" non è sconosciuto nell'ambito della lingua ceca, tuttavia, esso evoca forti associazioni con gruppi utopistici o religiosi e sette i quali, essenzialmente, presuppongono una omogeneità di approccio e spesso un isolamento dagli altri che è contrario all'òbiettivo di "aprire" verso l'esterno il settore delle organizzazioni non profit ceche, o di attivare i cittadini perché si impegnino maggiormente nella vita della società. Tra le altre espressioni attinenti della lingua ceca troviamo il termine "obec" che descrive una unità territoriale formalmente designata alla quale si può appartenere solo grazie alla residenza ufficiale, spolenost, che si riferisce alla società nel senso pit'J generale, e spole enstvi che si riferisce a un gruppo di persone associate tra loro senza vincoli particolari. I problemi derivano dal fatto che tutti questi termini sono impregnati della tradizione ceca del forte dominio dello Stato e delle sue istituzioni nella vita pubblica, e questo attribuisce a questi termini dei connotati istituzionali che non necessariamente esistono (o che possono addirittura risultare antitetici) rispetto ai significati del termine "comunità" nell'accezione anglomericana.

Malgrado le imperfette accezioni linguistiche e storiche, sembra esserci un crescente riconoscimento da parte delle organizzazioni non profit e dei rispettivi

finanziatori, del fatto che il termine "comuniti?1" si riferisce a un approccio pil'.1 complesso, interattivo e reattivo tra le organizzazioni nei confronti dei singoli e dei gruppi al servizio dei quali esse operano e alla necessità di integrare più direttamente le loro attività nella vita e nei processi di pianificazione dei piccoli centri, delle città e delle regioni. Come prevedibile, i dibattiti si incentrano sui metodi migliori per il raggiungimento di questi obiettivi, e quella che segue è una breve descrizione dei diversi modelli e approcci attualmente in fase di sviluppo nella Repubblica Ceca.

UNA PANORAMICA SULLE ATTIVITÀ ORIENTATE AL SERVIZIO DELLA COMUNITÀ NELLA REPUBBLICA CECA

Il lavoro accademico sul settore delle organizzazioni non profit è stato generalmente limitato a indagini comparative sulla legislazione o lo sviluppo del settore da parte di istituzioni estere (come la Johns Hopkins University o l'International Center for Not-for-Profit Law), e sondaggi di opinione su piccola scala e questionari sulle ONG e altri operatori del settore condotti dalle organizzazionni stesse, in collaborazione con le università nazionali. A tutt'oggi, sono poche le iniziative incentrate sui rapporti tra le organizzazioni non profit, le organizzazioni statali e del settore privato ei cittadini nelle comunità ceche. I pochi autori che hanno analizzato il settore non profit in relazione alla

"comunità", tendono a finalizzare la propria analisi a sostegno dell'approccio da loro adottato, spesso nel campo dei servizi sociali (lavoro per la comunità o assistenza alla comunità) o nel campo ambientale (in riferimento alla partecipazione pubblica e alle iniziative Local autori hanno Agenda 20Questi 10 . spesso una visione e un'interpretazione idiosincratica del termine "comunità", il che rende spesso la terminologia di difficile comprensione per chi non operi nei settori specifici di loro competenza, e rende difficile generalizzare le loro conclusioni al settore delle ONG nel suo complesso.

Fino ad oggi, lo sforzo più concertato per incoraggiare la discussione su espressioni come "comunità" in relazione al lavoro delle istituzioni della società civile nella Repubblica Ceca è rappresentato dall'Iniziativa Community Partnership Support Initiative (CI5I), un programma triennale finanziato dalla C.S. Mott Foundation e dall'Open Society Fund-Prague e messa a punto e gestita da OSF-Prague, VIA Foundation, Partnership Foundation e Community Foundation Usti nad Labem. Durante il suo primo anno di attività (1998-99), il programma CPSI ha avviato un dibattito sull'accezione di concetti come costruzione della comunità, costruzione delle partnershzp e attività benejìche tra le organizzazioni non profit ceche indicendo una riunione di circa 100 organizzazioni che si identificano come "organizzazioni radicate nelle comunità", 99

mediante un incontro con i responsabili della formazione e i consulenti che lavorano con il settore non profit, attraverso testi e una conferenza e-mail incentrata su questi temi. Anche la mappatura iniziale delle attività al servizio della comunità è stata creata in base a questi eventi, e in base aJle circa 50 proposte presentate per la partecipazione alla componente di assistenza intensiva del programma. Il programma ha inoltre iniziato ad analizzare le diverse tipologie di organizzazioni impegnate al servizio della comunità e di attività delle organizzazioni attualmente impegnate nella Repubb!ica Ceca. Ormai al suo secondo anno di attività, il programma sta portando avanti queste iniziative e sta iniziando a fornire assistenza tecnica intensiva e su misura a 12 organizzazioni, per aiutarle a potenziare il loro ruolo nel!'ambito della comunità e a interagire in modo ravvicinato con altre 18 organizzazioni.

Il Programma Csi ha definito la "Comunità" come una entità geografica !ocale composta da individui e istituzioni che interagiscono, e quindi entrano in relazione gli uni con gli altrui. In un documento pre!iminare, il Programma Csi ha tentato di riassumere la sua accezione del rapporto tra !e organizzazioni e la comunità secondo le seguenti modalità: "Si può affermare che una organizzazione è al servizio della comunità, indipendentemente dal fatto che si tratti di un fornitore di servizi sociali, un museo locale o un'associazione di Boy Scout, 100

se l'organizzazione contribuisce ad avviare e catalizzare varie attività che si riferiscono alla comunità nel suo complesso, che riuniscono diverse tzpologie di istituzioni e soggetti attorno ad attività comuni e, così facendo, creano processi che vanno al di là della portata limitata di ciascuna delle singole strutture della comunità in oggettò" 2 . Ma il modo esatto in cui questo possa essere messo in re!azione con le accezioni e le esperienze reali delle organizzazioni non profit ceche non risulta ancora chiaro. Durante i prossimi due anni, pertanto, il programma Csi spera di riuscire a stimolare un vivace dibattito finalizzato a una maggiore comprensione del significato del termine comunità e del ruolo delle organizzazioni non profit nelle comunità ceche, unitamente a un aumento delle esperienze e dei successi pratici in questo settore.

Durante questa fase, sembrerebbe uti!e individuare alcune distinzioni prelimiìari tra le organizzazioni che tra !e proprie attività hanno una componente orientata al servizio della comunità 1 3.

Questa ampia categoria, pur essendo !ontana dall'essere perfetta, può contribuire a distinguere i diversi scopi e !e diverse attività di queste organizzazioni rispetto a!la comunità, o!tre a definire gli strumenti e i metodi specifici che queste strutture potranno usare (o di cui potranno avere bisogno) per raggiungere i rispettivi obiettivi. In genera!e, nella Repubb!ica Ceca operano quattro tipologie di base di organizzazioni

non profit orientate al servizio della comunità: confederazioni e centri di informazione al servizio delle comunità; strutture di pianificazione al servizio delle comunità (ad esempio, per il coordinamento dei servizi sociali, i lavori socialmente utili, le iniziative Local Agenda 21, ecc.); strutture incentrate su progetti ipecifici che affrontano problematiche locali con il coinvolgimento diretto di istituzioni e residenti locali; fondazioni al servizio delle comunità e altre organizzazioni fllantropichel 4.

Confederazioni e centri di informazione al servizio delle comunità Le confederazioni rappresentano un fenomeno molto recente, e sembrano essere una caratteristica unica della Repubblica Ceca. Le confederazioni sono di norma articolazioni locali o regionali di organizzazioni non profit riunite tra loro per creare delle reti di base e per rafforzare la loro posizione nell'ambito delle comunità. In alcuni casi, queste coalizioni si sono limitate ad assolvere il compito di facilitare una maggiore comunicazione e condivisione delle informazioni tra i membri delle organizzazioni e tra i membri e gli altri settori delle comunità. Tali strutture rappresentano un primo passo per affrontare due vecchi problemi del settore non profit ceco: 1) la carenza di informazioni delle organizzazioni sulle attività delle altre (anche nelle singole comunità) e

la conseguente carenza di coordinamento delle rispettive attività; 2) la scarsa informazione sulle attività e sul settore non profit tra gli altri operatori e le istituzioni della comunità.

In alcuni casi, le confederazioni hanno scelto di concentrare i propri sforzi sulle richieste di maggiori finanziamenti per le organizzazioni locali basati sui bilanci comunali o sulle iniziative di lobby a sostegno di questioni specifiche di interesse dei componenti delle confederazioni stesse. In questi casi, nel settore si è diffusa la preoccupazione che la "forza numerica" e un approccio di contrapposizione che a volte sono alla base di queste attività possano creare antagonismi piuttosto che rafforzare il ruòlo delle organizzazioni non profit in una data comunità o ampliare le opportunità di collaborazione con altre istituzioni locali. Questa argomentazione è sostenuta dal fatto che molte organizzazioni coinvolte in queste confederazioni sembrano non avere grosso sostegno o significative interazioni con la comunità nella quale, e presumibilmente per conto della quale, operano.

Strutture di pianificazione al servizio delle comunità L'ampia categoria delle iniziative di pianificazione basate sulla comunità comprende organizzazioni non profit caratterizzate da finalità molto diverse tra loro, come l'introduzione di pratiche di assistenza perla comunità all'interno dei sistemi di assistenza sociale e sanita101

ria, il coinvolgimento della collettività nella pianificazione urbanistica in località specifiche, e l'istituzione di approcci allo sviluppo equilibrati e sostenibili (Local Agenda 21). Il tratto comune delle organizzazioni è rappresentato da un impegno per i processi di pianificazione e per l'avvio di una collaborazione tra i rappresentanti dei settori pubblico e privato attraverso meccanismi di interazione permanenti nell'ambito di tali processi.

Forse le sfide più grandi per questo tipo di iniziative sono rappresentate dal superamento della iniziale riluttanza delle amministrazioni locali nei confronti della creazione di una più ampia piattaforma di istituzioni, comprese le orgànizzazioni non profit, destinata a essere coinvolta nei dibattiti, e dal reperimento delle risorse per sostenere non solo il loro coinvolgimento nell'ambito di questi processi di lungo termine, ma spesso anche i processi stessi (per effetto delle rigide limitazioni delle risorse delle autorità municipali).

Organizzazioni incentrate sullo sviluppo di una località specfìca Si tratta di organizzazioni non profit che hanno come finalità principale quella di rivitalizzare in senso ampio una determinata città, regione, microregione o regione ravvivando le tradizioni o costruendo nuovi rapporti tra le istituzioni e i residenti. Spesso non si tratta di unità territoriali ufficiali, ma di aree specifiche identificate storicamente o 102

geograficamente. Queste organizzazioni di norma sono impegnate in progetti specifici finalizzati allo sviluppo che hanno, come obiettivo primario, la stimolazione nei residenti di un senso di comunità e il loro coinvolgimento nella vita di una determinata area. Molte di queste iniziative vengono avviate da, o coinvolgono in modo attivo, rappresentanti delle amministrazioni locali eletti o di nomina.

Fondazioni radicate nelle comunità e altre organizzazioni benefiche Questa categoria di organizzazioni concentra le proprie attività sulla raccolta di risorse sia all'interno sia all'esterno di una determinata comunità allo scopo di sostenere le necessità specifiche della comunità in oggetto. Nell'Europa centrale e orientale, queste istituzioni sono considerate come dotate di potenzialità che consentono loro di soddisfare svariate ed importanti esigenze, tra cui quelle di contribuire a creare le comunità (e cioè, i collegamenti tra i membri di una comunità), rafforzare la consuetudine della donazione e costruire risorse interne per la soluzione di problemi e il rinnovamento della vita civica nelle comunità. In considerazione di queste potenzialità diversificate, nei prossimi paragrafi sarà dedicara maggiore attenzione a questo gruppo e alle sfide che esso deve affrontare.

Molte delle sfide affrontate da queste organizzazioni, tuttavia, sono le stesse che si trovano ad affrontare le altre tipologie di iniziative emergenti basate sulle co-

munità alle quali si è fatto riferimento in precedenza.

STORIA E PROSPETTIVE DELLE ORGANIZZAZIONI FILANTROPICHE PER LE COMUNITÀ NELLA REPUBBLICA CECA

Come già visto per il termine "comunità", l'espressione 791antropia" è stata rilanciata solo recentemente nella lingua ceca, non è diffusamente compresa e, quando viene utilizzata, di norma ha un significato limitato alla donazione di denaro a fini caritatevoli. Il termine composto ìlantropia a beneficio della comunità" pertanto, risulta avere un significato molto limitato per la maggior parte dei cittadini cechi. Questo non significa, tuttavia, che la filantropia a beneficio della comunità, nella sua pii ampia accezione di sostegno sia finanziario sia in natura, oltre ad altre forme di coinvolgimento nelle istituzioni delle comunità, risulti poco radicata nella storia o nelle tradizioni ceche. Negli anni Quaranta (prima che i comunisti prendessero il potere in Cecoslovacchia, nel 1948), un forte impegno a beneficio della comunità, in particolare tra i cittadini pii importanti delle diverse categorie professionali, era un fenomeno molto diffuso. Un esempio di questo impegno per il miglioramento delle comunità prese la forma delle zkra'ilovaci spolky (associazioni locali dedite al miglioramento della qualità della vita nelle comunità mediante svariate tipologie di progetti pubblici di miglioramento su

piccola scala). Anche oggi, nella Repubblica Ceca, non si può affermare che la filantropia a beneficio delle comunità non esista. Una recente ricerca di imprenditori e aziende impegnati nella fornitura di sostegno finanziario o in natura a organizzazioni non profit ha messo in evidenza 205 casi. Circa trenta tra questi possono essere identificati come significativi esempi di filantropia a beneficio della comunità 15 .

Ancora una volta, la fonte per la definizione iniziale del termine è stata il programma Cpsi. La filantropia è "assistenza sotto forma di denaro, beni, tempo, competenze ecc,.. senza alcuna aspettativa di profitto personale" 6 . Questa analisi prosegue suggerendo che: "La filantropia è prima di tutto un rapporto, un'espressione di interesse per qualcosa che è positivo, che reca beneficio a una comunità. Si tratta di un rapporto univoco, che non prevede un compenso, che non èfinalizzato al profitto" 7 . La filantropia a beneficio delle comunità, quindi, a sua volta, è associata a donazioni finanziarie e in natura, oltre ad attività di volontanato di varia natura (per esempio, partecipazione a comitati di gestione o servizi professionali gratuiti, ecc.) foriite ad attività locali a beneficio dei residenti di una comunità 18

Le condizioni attuali delle iniziative filantropiche a beneficio delle comunità I finanziatoni esteri e nazionali del settore non profit ceco hanno incoraggiato per molti anni determinate espressioni 103

della filantropia a beneficio delle comunità favorendo le organizzazioni che ricercano contributi dei settori pubblico e privato per i propri progetti e bilanci, e la collaborazione degli operatori locali, e anche assegnando un premio annuale agli imprenditori e alle aziende impegnati attivamente a sostegno delle proprie comunità. Gradualmente, le organizzazioni stanno individuando le modalità per raccogliere fondi dal settore privato, anche se prevalentemente ancora su piccola scala, a complemento dei finanziamenti delle fondazioni o dei ministeri. Pertanto, malgrado le iniziative filantropiche a beneficio delle comunità già esistano, si tratta ancora di un settore nel quale le organizzazioni non profit hanno competenze ed esperienza limitate. Inoltre, di norma, questo settore è limitato alle donazioni da parte delle aziende, piuttosto che da parte dei singoli cittadini.

Una delle maggiori sfide per lo sviluppo della filantropia a beneficio della comunità e per una più diffusa attitudine alla donazione, è tuttora rappresentata dall'immagine sempre molto ambigua delle organizzazioni non profìt nell'ambito della società. Una indagine condotta sulla popolazione ceca ha rivelato che "l'opinione pubblica ceca non riconosce l'importanza delle organizzazioni non proflt per lo sviluppo dei singoli e della società. Questo è dimostrato dalfatto che il sostegno per il settore non proflt viene considerato come l'area meno importante tra le 17 aree principali di cui dovrebbe occuparsi la politi104

ca' Solo il 24 per cento degli intervistati ha dichiarato di ritenere importante il sostegno di questo settore 19 Ma forse ancora più problematica per lo sviluppo della filantropia a beneficio delle comunità (e più in generale per gli approcci alle comunità da parte delle organizzazioni non profit ceche) è l'indifferenza dei cittadini, una situazione evidenziata da una indagine del 1996 su 1.052 intervistati, nell'ambito della quale solo il 43 per cento espresse il proprio interesse per la possibilità di influire personalmente sulla soluzione di questioni pubbliche, con un 22 per cento di insicuri e il 37 per cento di non interessati (il 7 per cento dichiarò di non sapere cosa rispondere) 20. Questa passività, spesso descritta come un senso di impotenza in riferimento ai processi decisionali, inoltre, inevitabilmente indebolisce la motivazione pubblica a donare a sostegno delle attività delle organizzazioni non profit. Da un altro punto di vista, "Durante gli ultimi decenni, l'ideologia dello Stato paterna/istico ha creato una situazione nella quale la maggior parte delle persone hanno mostrato di non avere un senso di responsabilità nei confronti degli altri e di rifiutare il richiamo morale della carità"21 . La creazione di una atmosfera di fiducia e di rapporti reciproci espressi attraverso la donazione e l'apprezzamento morale per. coloro che donano sono stati identificati dal programma Csi come gli strumenti fondamentali per affrontare queste problematiche 22 .

.

Forme istituzionalizzate difilantropia a beneficio delle comunita Come già accennato in precedenza, alcune organizzazioni hanno di recente riconosciuto la necessità di un orientamento più lungimirante delle comunità per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Indubbiamente anche la situazione finanziaria difficile ha contribuito ad accrescere l'interesse tra i donatori, le organizzazioni non profit e altri soggetti verso approcci più ampi e istituzionalizzati allo sviluppo di risorse e attività filantropiche a beneficio delle comunità, come evidenziato dal modello emergente delle fondazioni impegnate a beneficio delle comunità.

La Repubblica Ceca è già caratterizzata da alcuni esempi di filantropia istituzionale e .carnpagne annuali per la raccolta di fondi, ma si tratta quasi esclusivamente di iniziative di portata nazionale. La più antica e nota tra queste iniziative è la Konto Barriery nazionale (Conto Barriere), che si avvale di contribuzioni volontarie tratte dagli stipendi per aiutare i disabili a partecipare alla vita sociale. Un altro esempio è rappresentato dalla recente campagna annuale Pomoc Ditem (Aiutiamo i bambini) e dalla campagna telethon ispirate alla campagna britannica "Aiutiamo i bambini", organizzate in collaborazione con la televisione ceca.

Un altro tipo di esempio che dimostra l'interesse dei cittadini cechi a donare per cause umanitarie è emerso in risposta alle gravi alluvioni che colpirono la Moravia nel 1998. Durante e dopo le alluvio-

ni, la Fondazione "People in Need", una organizzazione impegnata nel campo dell'assistenza umanitaria e dotata di forti contatti con la televisione pubblica ceca, raccolse grandi volumi di donazioni estemporanee da parte del pubblico e ridistribuì i fondi raccolti a famiglie bisognose e centri urbani poveri. La medesima organizzazione, in seguito, riuscì a raccogliere oltre 23 milioni di corone ceche (circa 700.000 dollari) attraverso piccole donazioni individuali a sostegno dei profughi del Kosovo.

Facendo un confronto, risultano esservi scarse attività di filantropia a beneficio delle comunità, e quelle che esistono sono poco conosciute. Alcuni distretti e municipalità hanno creato fondi speciali per sostenere una o più attività locali.

Tuttavia, considerato che queste attività sono di norma interamente finahziate mediante i bilanci comunali, esse non rappresentano attività filantropiche a beneficio delle comunità, né fonti di finanziamento indipendenti per il settore non profit. Oggi, un numero ridotto di fondazioni private o aziendali agiscono come finanziatori a livello locale o regionale, una tendenza che sarà probabilmente rafforzata con la distribuzione dei fondi del Fondo di Investimento Nazionale a numerose di queste entità regionali. Inoltre, una nuova legislazione (in vigore dal mese di gennaio del 1999) ha creato una entità non profit, un "fondo organizzato come una fondazione", e cioè un fondo con una finalità specifica da utilizzare durante un 105

determinato periodo di tempo a sostegno di determinate attività. Questa nuova opzione nel quadro legislativo potrebbe realmente incoraggiare l'emergere di più fondi impegnati a beneficio delle comunità.

Malgrado queste limitazioni e la partenza rallentata, le fondazioni impegnate a beneficio delle comunità rappresentano il modello più conosciuto di iniziative filantropiche istituzionalizzate e a beneficio delle comunità tra le organizzazioni non profit ceche. Il modello fu introdotto nel 1996 dal Programma Ceco per la creazione di una Rete Democratica, un programma finanziato dall'UsMD finalizzato a sostenere il settore non profit, e malgrado si sia rivelato un modello attraente, i suoi adattamenti e le forme più adeguate al contesto ceco sono ancora in fase di sviluppo. Una fondazione nella città di Usti nad Labem, nella Boemia settentrionale, è già attiva2 3. Numerose altre fondazioni sono in fase di creazione in Moravia e, in altri casi, le fondazioni esistenti stanno valutando la possibilità, nel lungo termine, di istituire fondazioni impegnate a beneficio delle comunità.

Le fondazioni impegnate a beneficio delle comunità: la capacità di attrazione nel contesto ceco Il modello delle fondazioni impegnate a beneficio delle comunità fu introdotto nel periodo durante il quale iniziavano i dibattiti su come rendere le organizzazioni non profit più sostenibili e come 106

incoraggiare le donazioni dal settore aziendale.

Le attrattive del modello delle fondazioni impegnate a beneficio delle comunità per i donatori, le organizzazioni e altri soggetti sono svariate. Il modello, nella sua forma riscontrata negli Stati Uniti e nel Regno Unito, risultava attraente in quanto il suo obiettivo primario era quello di sviluppare le donazioni individuali e aziendali per sostenere i finanziamenti ai gruppi civici in località specifiche. Questo elemento sembra essere di particolare importanza nella Repubblica Ceca perché si affida alle attività delle organizzazioni non profìt (in questo caso, le fondazioni) in una comunità specifica, enfatizzando il loro ruolo nel contribuire a sviluppare un più profondo senso della comunità.

Pertanto, le fondazioni impegnate a beneficio delle comunità non solo rispondono all'impulso filantropico, ma forse, cosa questa più importante, lo incoraggiano. E, nei casi migliori, esse possono attivamente creare meccanismi finalizzati a sostenere le comunità. Nel lungo termine, quindi, i sostenitori del settore sperano che l'emergere delle fondazioni creerà le necessarie risorse locali di finanziamento indipendente per le organizzazioni non profit in località e regioni specifiche. Il rispetto e la fiducia sviluppati altrove da numerose fondazioni tra una grande varietà di. donatori suggerisce, inoltre, che queste tipologie di organizzazioni potrebbero risultare di grande beneficio per la costruzione di

un'immagine più positiva per il settore non profit ceco.

Come prevedibile, il modello è risultato di immediato interesse per numerosi leader di organizzazioni non profit ceche come veicolo per la raccolta di fondi nell'ambito della comunità, da destinarsi ad attività locali. Purtroppo, alcune organizzazioni hanno ritenuto che semplicemente proclamandosi fondazioni impegnate a beneficio delle comunità avrebbero potuto, senza sforzo, soddisfare contemporaneamente due esigenze urgenti, quella di trovare soluzioni rapide per il persistente problema del finanziamento, e quello di coinvolgere in maniera più attiva le comunità nelle proprie attività. In realtà, il modello delle fondazioni impegnate a beneficio delle comunità si è rivelato più complesso di quanto previsto da introdurre nel contesto economico, politico e sociale ceco. Ormai è evidente che perché questo modello possa attecchire nella mentalità della popolazione ceca sono necessari radicali cambiamenti degli atteggiamenti.

Ostacoli all'istituzione delle fondazioni impegnate a beneficio delle comunità e delle altre organizzazioni filantropiche Come per tutte le altre organizzazioni non profit ceche interessate a diventare soggetti più attivi nell'ambito delle comunità, le fondazioni impegnate a beneficio dalle comunità si trovano ad affrontare il problema di come descrivere con chiarezza le proprie finalità a un

pubblico diversificato in località o regioni specifiche senza un utilizzo eccessivo di traduzioni da termini stranieri che per molti sono - come dicevamo ancora privi di significato come «'comunità" e "filantropia a beneficio delle comunità ' Queste organizzazioni, pertanto, dovranno cercare di concretizzare questi concetti per i propri diversi bacini di utenza. Un sistema potrebbe essere quello di edificare sulle esperienze e le espressioni storiche della comunità, e forse questo risulterebbe più facile nelle comunità caratterizzate da insediamenti più antichi (per esempio, la Moravia) rispetto alle aree che hanno registrato nuovi affiussi di popolazione, come nelle regioni più industrializzate della ex regione dei Sudet1 24 Un ulteriore ostacolo per le fondazioni e le altre organizzazioni impegnate nella costruzione di un senso della comunità è la diffusa convinzione che le questioni pubbliche dovrebbero essere di competenza del settore pubblico e che il ruolo delle istituzioni private dovrebbe essere limitato. Mentre sono diffusi i timori che improprie attività di lobby da parte delle irnprse private influenzino troppo spesso le autorità municipali dotate di risorse limitate, ancora non viene fatta una chiara distinzione tra queste pratiche e le iniziative finalizzate al bene delle comunità. E molti dei rappresentanti del settore non profit che sostenevano l'importanza di influire sulle questioni di natura pubblica hanno dovuto soccombere di fronte alle competenze .

107

limitate nel settore pubblico, a una carenza di collaboratori e a esperienze iniziali negative.

Una ulteriore e importante sfida che si trovano ad affrontare tutte le organizzazioni non profit impegnate a beneficio delle comunità è rappresentata dall'identificazione di una nuova leadership nelle comunità e dal suo coinvolgimento nelle relative attività e organi di governo. Naturalmente, questo è un fattore essenziale per le fondazioni che intendono affermarsi come istituzioni affidabili nell'ambito di una comunità, e spesso dipende dalla loro capacità di coinvolgere i pi1 importanti componenti della comunità nelle proprie attività. Ma a parte le figure politiche elette e di nomina, i leader locali sono pochi, e la maggior parte della popolazione è passiva o sospettosa nei riguardi di coloro che tentano di assumere un ruolo pubblico attivo nella comunità.

Un'altra sfida importante per queste organizzazioni si riferisce al processo di creazione di un ruolo legittimo per loro stesse nelle rispettive comunità. Perché un'organizzazione possa essere considerata come un partner, essa dovrà esercitare un interesse nei confronti di nuovi e diversificati bacini di utenza e identificare con precisione il proprio ruolo. In particolare è necessario evitare che, da un lato, la struttura possa essere percepita come eccessivamente radicale dall'amministrazione locale e, dall'altro, evitare che possa essere accusata di atteggiamenti elitari dalle altre organizzazio108

ni non profit (per il fatto di essersi associata a rappresentanti dell'amministrazione locale o del settore privato). Spesso a queste ultime accuse si sommano i timori di concorrenza nella ricerca di visibilità e di risorse.

Anche il ruolo delle fondazioni impegnate a beneficio delle comunità, come nel caso dei fondi o delle fondazioni con finalità specifiche, nella loro veste di accumulatori di risorse finanziarie, presenta problemi specifici. Uno di questi è il sospetto sulle motivazioni delle organizzazioni e sull'eventuale impiego delle risorse. In considerazione dei numerosi esempi di frodi per conto di società di investimento e altre aziende, oltre ai numerosi e ampiamente pubblicizzati esempi di frodi perpetrate tra le fondazioni negli scorsi anni, le fondazioni impegnate a beneficio delle comunità dovranno sconfiggere i timori che esse possano rappresentare semplicemente un ulteriore tentativo di raggirare le persone per convincerle a donare il proprio denaro. La nuova legge sulle fondazioni• e sui fondi organizzati come fondazioni impone una maggiore trasparenza sul loro funzionamento, ma considerate le novità di questa legge, i suoi benefici saranno avvertiti solo negli anni a venire.

Un problema correlato è rappresentato dal fatto che nell'opinione pubblica ceca il concetto della donazione per ragioni diverse dalle necessità immediate, e al servizio delle necessità futtfre di una comunità, è ancora piuttosto alieno anche tra le organizzazioni stesse e i loro

più forti sostenitori. La nuova legge suile fondazioni incoraggia le donazioni dirette al mondo delle fondazioni ceche, tuttavia soio un numero ridotto di fondazioni ha tentato di raccogliere donazioni da fonti nazionali.

Questo problema può essere messo in relazione con un ulteriore importante ostacolo all'istituzione di fondazioni impegnate a beneficio delle comunità nella Repubblica Ceca: la relativa carenza di capitali. Negli Stati Uniti, le fondazioni impegnate a beneficio delle comunità e le altre iniziative filantropiche ricevono la maggior parte dei propri finanziamenti da fondazioni, lasciti e vitalizi da parte di privati. Al contrario, nella Repubblica Ceca i capitali privati sono molto più limitati. Inoltre, a seguito della difficile. situazione economica, i fondi del settore privato, che non sono mai stati disponibili in grandi quantità per il settore non profit (eccetto alcune organizzazioni di piccole dimensioni impegnate nei campi culturale e di assistenza ai minori) sembrano attualmente in via di diminuzione ulteriore. I bassi livelli di donazione da parte delle imprese private sono in parte dovuti ai limitati incentivi fiscali. Le aziende, per esempio, possono dedurre solo fino al 2 per cento dal proprio reddito imponibile per le donazioni a terzi, e nonvi sono segnali di cambiamenti imminenti in questo settore.

Si prevede che la situazione delle donazioni dal settore delle imprese private peggiorerà durante i prossimi anni per

effetto degli attuali andamenti negativi dell'economia mondiale e dell'economia ceca, che si aggiunge al fallimento di numerose aziende ceche di grandi dimensioni. Pertanto, fino alla prima metà del 1999, la dichiarazione più frequente da parte delle aziende si riferiva alla mancanza di profitti da donare. Inoltre, vi sono dubbi in merito alla opportunità che le aziende di proprietà o a controllo statale donino i propri profitti.

L'attuale livello di sostegno alle attività a beneficio delle comunità e alle attività filantropiche Il programma Csi descritto nelle pagine precedenti rappresenta, da molti punti di vista, sia la prima iniziativa per l'avvio di un complesso dibattito sul ruolo delle organizzazioni non profit nelle rispettive comunità sia la prima iniziativa per garantire un insieme di strumenti completo, dagli elementi concettuali sui temi in discussione, alle consultazioni dirette su argomenti specifici, per sostenere le organizzazioni che desiderino intraprendere questa strada. Comunque, appare chiaro che questo programma triennale è solo un primo passo verso il rafforzamento della comprensione delle organizzazioni impegnate a beneficio delle comunità tra i diversi potenziali bacini di utenza. Ma il programma Ci'si ha già incoraggiato la comunità dei donatori esteri e nazionali a riflettere sui mezzi e i metodi necessari per svilupparsi allo scopo di sostenere l'emergere di un numero mag109

giore di organizzazioni non profit impegnate a beneficio delle comunità. Queste organizzazioni potranno avere come fine la raccolta di risorse finanziarie o l'attuazione di progetti attraverso un maggiore coinvolgimento dei residenti, delle amministrazioni locali e del settore privato locale. Inoltre, il programma, considerata la natura problematica di espressioni quali "comunità" e "iniziative benefiche a beneficio delle comunità', ha evidenziato un numero maggiore di aspetti di ciò che rende possibile l'esistenza delle comunità e delle iniziative filantropiche a beneficio delle comunità che sono, forse, di più facile comprensione, e cioè i rapporti basati sulla collaborazione e le iniziative congiunte.

Forse la maggiore necessità attuale è quella di ridare vita alla pratica della donazione individuale, sia tramite donazioni regolari sia tramite lasciti a fini benefici, anche se questo aspetto indubbiamente dipenderà da miglioramenti generali dell'economia ceca e da un aumento degli incentivi fiscali.

CONCLUSIONE

È piuttosto comprensibile che gli Stati non siano in grado di garantire l'entusiasmo, l'interesse e la celebrazione delle istituzioni della società civile come fonti di partecipazione democratica e di benefici sociali. In ogni caso, come evidenziato dall'esperienza ceca descritta nelle pagine precedenti, la costruzione di istituzioni della società civile non è 110

né rapida né facile. Convinzioni radicate in merito al ruolo dei singoliittadini e alle ideologie e aspettative riguardanti lo Stato e i servizi che "dovrebbe" fornire, rappresentano spesso un ostacolo. Analogamente, anche gli accordi politici e le soluzioni strutturali possono ostacolare seriamente i cambiamenti.

Pertanto, la costruzione delle istituzioni della società civile richiede notevoli livelli di flessibilità, sperimentazione, immaginazione, creatività e una disponibilità a lavorare in situazioni difficili contro potenti forze di opposizione per prolungati periodi di tempo.

In maniera più specifica, la crescente diffusione dell'uso del termine "comunità" nella Repubblica Ceca è, in gran parte, una conseguenza delle iniziative intraprese dai donatori nazionali ed esteri per motivare le organizzazioni non profit ceche a coinvolgere in maniera più attiva e costante l'opinione pubblica e a costruire collegamenti attraverso la società, ed è collegata all'evidente necessità di diminuire la loro dipendenza, per i finanziamenti, dai ministeri e dalle fonti di finanziamento estere. Tuttavia, è anche sempre più evidente che vincere queste sfide richiederà importanti passi in avanti concettuali e cambiamenti attitudinali tra la popolazione ceca e le organizzazioni stesse, e quindi richiederà un impegno di lungo termine. Malgrado i dibattiti e le indagini sulle organizzazioni impegnate a beneficio delle comunità siano state fino ad oggi limitate nella Repubblica Ceca, alcuni degli ostacoli e delle

opportunità per costruire un pii forte ruolo della comunità tra le organizzazioni non profit ceche diventano gradualmente pit evidenti, e sono stati descritti brevemente in questo documento.

Rimangono, comunque, degli interrogativi irrisolti sulle forme che il riemergere dell'impegno nei confronti della comunità assurnerà nella Repubblica Ceca, in particolar modo in considerazione della sua storia, del diffuso scetticismo nei confronti dell'assunzione di un ruolo attivo negli affari della comunità, e delle difficoltà economiche che ancora si profilano. Analogamente, la fattibilità dei modelli filantropici in un Paese nel quale l'accumulo delle ricchezze private (e, in qualche misura, dei profitti delle imprese) è stata tradizionalmente limitata è ancora oggetto di sperimentazione e, per alcuni, è molto

dubbia. In questo contesto, si direbbe che le sfide pRi grandi per il futuro siano rappresentate dallo sviluppo di sistemi per incoraggiare tutte le tipologie di donazioni individuali e dall'aumento della fiducia nelle attività delle organizzazioni non profit impegnate a beneficio delle comunità unitamente agli altri soggetti.

Lapertura di un dialogo sui significati delle espressioni comunità, partnership e Jìlantropia a livello locale e la promozione di esempi di successo sarà senza dubbio di grande importanza per questo processo, tuttavia i cambiamenti non avverranno con facilità. Coloro che sono impegnati nell'ambito e a sostegno della società civile e delle sue istituzioni dovranno essere preparati a garantire l'impegno proprio e delle rispettive istituzioni a lungo termine.

I Durante questa fase, vi erano tre tipologie principali di ONG private: fondazioni, associazioni civiche e organizzazioni benefiche affiliate alla Chiesa.

media internazionali hanno portato in primo piano la questione del razzismo e della discriminazione nei confronti della comunità nomade (e di altri gruppi) e hanno aumentato l'attenzione dedicata al ruolo delle istituzioni della società civile impegnate nel campo dci diritti umani e della tutela delle minoranze.

4 È possibile fare una distinzione ulteriore tra organizzazioni finanziate mediante stanziamenti di fondi e sussidi, prevalentemente ospedali e centri culturali, che dipendono dai sussidi statali, e le organizzazioni della categoria dei circoli ricreativi, nel settore dello sport e delle attività giovanili.

5 Organizzazioni impegnate nella fornitura di servizi, e cioè prevalentemente assistenza domiciliare agli anziani

2

P. Fiur, inu.e-h,wd Analy.iit af the Nnn-projìt Sector in the Czech Republic, Bozza, Novembre 1998, pg. 10

3 L'emigrazione di un grande gruppo di nomadi in

Canada e nel Regno Unito ha creato tensioni internazionali con entrambi i Paesi e ha costrétto il governo ecco a riconoscere l'esistenza del problema della comunità gitana e a iniziare ad affrontarlo più attivamente. Le famiglie gitane hanno richiesto lo status di rifugiati nel Regno Unito e in Canada basando le richieste sulla presenza di situazioni di razzismo e di discriminazione nella Repubblica Ceca. Le dimensioni diplomatiche e lo spazio dedicato alla vicenda sui

111

6 35.000 nel caso delle associazioni civiche, circa 300 fondazioni e fondi organizzati come fondazioni, e 250 organizzazioni di beneficienza nel mese di febbraio del 1999, in un Paese con 10 milioni di abitanti.

A queste organizzazioni si fa spesso riferimento come a organizzazioni finanziate mediante stanziamento di fondi o sussidi.

8 Un caso molto esemplificativo è quello della riduzione dei finanziamenti NROS (The Civil Society Development Foundation, fìnanziamenti del programma PHARE per le istituzioni della società civile).

aggiunto che nessuna organizzazione non profit ricade in una sola di queste categorie, e che molte di esse presentano caratteristiche di numerose categorie diverse.

4 Si tratta di una versione semplificata delle 7 tipologie identificate tra le 50 iscritte al programma Cpsi, che saranno discusse qui di seguito. Le sette categorie sono: fondazioni impegnate a beneficio delle comunità e organizzazioni impegnate in attività filantropiche, confederazioni impegnate a beneficio delle comunità e organizzazioni impegnate nell'organizzazione comunitaria del settore non profìt, organi7.zazioni specializzate nel campo dci servizi sociali, organizzazioni impegnate ad aumentare la partecipazione pubblica alla preparazione dei piani di sviluppo e allo sviluppo locale, organizzazioni impegnate nella protezione dell'ambiente e nell'attuazione delle iniziative Local Agenda 21, centri di informazione e

Nel 1998, questo programma, il più importante tra i programmi di finanziamento per il settore delle ONG, ha distribuito 80 milioni di corone ceche alle organizzazioni impegnate in tutti i settori. Dal lato opposto, nel 1999 l'importo totale disponibile per le organizzazioni è stato pari a 22 milioni di corone, con finanziamenti per ulteriori 30 milioni allocati specificamente a progetti finalizzati alla minoranza nomade.

9 Questa accezione della comunità è, fondamental-

centri culturali, e organizzazioni impegnate in progetti specifici finalizzati allo sviluppo delle rispettive comunità. A fini di brevità, alcune categorie sono state combinate in categorie singole, e le categorie

mente, basata sulle interrelazioni tra i singoli individui, le associazioni e le istituzioni pubbliche e private in una località specifica e si basa su un interesse

meno rilevanti per questa analisi, e cioè i centri di informazione e i centri culturali non sono state comprese.

comune alla soluzione dei problemi e alla comunicazione.

IS Queste informazioni sono state ottenute nell'am-

bito della procedura di selezione per il premio 1998

0 Locai Agenda 21 è un elemento della risoluzione

VIA BONA per le donazioni alle comunità, gestito

Agenda 21 approvata dalla maggioranza dei Paesi del

dalla Fondazione VIA.

mondo in occasione della Conferenza sull'Ambiente tenutasi nel 1992 a Rio de Janeiro. Questo elemento dell'impegno per arrestare la distruzione dell'am-

16 JOSEF STOGR,

op. cit., p. 19 7 JOSEF STOG, op. cit., p. 20 8 Cps, Management Team, Principi e approcci di base del programma Ci'si, gennaio 1999.

9 PAVOL FRIE, Public Policy and ]ts Actors in PURKRÀ-

biente a livello mondiale enfatizza i'importanza dello sviluppo sostenibilc a livello locale, che tenga conto delle necessità economiche unitamente a quelle sociali, ambientali e culturali della generazione presente e di quelle future. ° JO5EF T0GR, Il Programma Cpsi e il sostegno a/le or-

20 M. PURKRABEK,

ganizzazioni non profit nella Repubblica ceca, gennaio

21 JOSEF TOGR,

1999, p. 15,.

2 JOSEF TOGR, Il Programma C'psi e il sostegno alle organizzazioni non profit nella Repubblica Ceca, gen-

naio 1999, p 34. Mentre questa definizione non limita tali organizzazioni alle organizzazioni non governative e non-profit, la loro indipendenza relativa rispetto ad altri soggetti locali potrebbe farne le strutture più adeguate per ricoprire questo ruolo.

3 Si tratta solo di distinzioni preliminari destinate a essere ulteriormente discusse e modificate. Va anche 112

BEK et. al., The Non-Profit Sector, Institute for Sociological Studies, Faculty of Social Sciences of Charles

University, I996,p. 110.

op. cie., p. 30 op. cit., p. 20.

22 JOSEF STOGR, op. cit., p. 5, 23 Questa fondazione, con il sostegno della C.S.

Mott Foundation, è stata trasformata in organizzazione impegnata nella fornitura di servizi sociali nella città di Usti nad Labem, la fondazione già aveva forti rapporti con le aziende e le amministrazioni locali.

24 Infatti, il programma CI'sI ha ricevuto la maggior

parte delle richieste di partecipazione dalle organizzazioni aventi sede nella Moravia.

dossier

Un mondo di rifiuti

L'impegno ecologico è stato per anni (ed in qualche caso è ancora così) etichettato come un fermento anti-capitalista e, quindi, di chiara derivazione "sovversiva" rispetto ai principi politici e sociali che governano i Paesi industrializzati. Ed, in effetti, spesso l'ecologia si è mostrata "contro" i tentativi di sfruttamento incondizionato delle risorse perpetrato in un'acritica adesione alle logiche del "mercato libero". Eppure, teorici di derivazione liberale quali Rawls e Dahrendorf dimostrarono proprio come una razionale gestione delle risorse fosse alla base di un concetto "sano" di produzione capitalistica, fino a mostrare i ritorni, in termini di economie esterne positive e nella diminuzione dei costi di immagini, di una sana politica aziendale per le aziende.

Il tragico incidente nucleare di Cernobyl, in Unione Sovietica, cominciò a mostrare che la salvaguardia ambientale non era un tema "di destra" o di "sinistra". Era ed è un tema dell'umanità.

Così come quello dei rifiuti. Gli articoli che presentiamo mostrano come, al di là delle implicazioni economiche, da tenere sempre presenti, una corretta ed evoluta gestione dei rifiuti si debba oggi configurare come uno dei principali impegni dell'agenda politica.

Ma non solo. Nei contributi pubblicati si intravede un segno comune: se si vuole parlare 113

di tutela ambientale, di ecologia, prima di inserire nel discorso strategie politiche, visioni e patti internzzionali, impegni amministrativi locali, è necessario un approccio soggettivo che preveda cambiamenti di abitudini personali.

"Il verde è tuo: df'ndilo' recitava una campagna promozionale di alcuni annifa. L'attuazione di una politica ambientale passa, quindi, più che dagli interminabili discorsi dei consessi internazionali, dagli atteggiamenti della popolazione. Una maggiore attenzione al riutilizzo dei materiali, (in relazione al quale il passato potrebbe insegnarci tecniche "all'avanguardia'), al minor spreco ed alla selezione dei rifiuti, promossa per grandi numeri è in grado di realizzare politiche di 'viluppo sostenibile" più efficaci di molte affermazioni di principio contenute nella legislazione specifica. È comunque chiaro che una visione comune da parte degli Enti locali, quindi una strategia di gestione consorziata, è necessaria per non sprecare risorse ed usufruire delle economie di scala che un settore quale la gestione dei rifiuti presenta. Così come è necessario un efficiente impianto preventivo e repressivo delle condotte abusive e criminali in tema di discariche. Eppure, la comparazione che offiiamo con la situazione finlandese non offre soltanto qualche interessante innovaione istituzionale è/o organizzativa. L'atmosfera che si respira, (sia detto senza ironia, visto che di rifiuti si tratta) è quella di una collaborazione, di uno spirito civico che non si può istituire per decreto, ma che il nuovo profilo di competenze e responsabilità disegnato dall'attuazione di un autentico decen tramento amministrativo in Italia, potrà contribuire a formare. E senza quel senso di gestione comune, soprattutto in un campo quale la tutela ambientale, non è possibile raggiungere alcun risultato definito.

114

Una società "usa e getta" La situazione in Italia di Simona La R ossa *

In un provocatorio libro dal titolo "Un mondo usa e getta", pubblicato qualche anno fa, l'autore, Guido Viale, considerava la tendenza, insita nella società contemporanea, a comprare per poi trasformare tutto in rifiuto.

In natura non esistono rifiuti, né inquinamento: tutto nasce, muore, si trasforma in qualcos'altro in una serie di processi ciclici, biologici e chimici, in cui la materia e l'energia passano attraverso una serie di organismi interagenti. Vivi o morti, tutti gli animali e le piante e i loro prodotti di scarto costituiscono cibo per un altro organismo vivente. I microrganismi consumano, si decompongono e a loro volta, diventano nutrimento per altri organismi più grandi, e così via lungo la catena alimentare.

Con la rivoluzione industriale quest'equilibrio è stato spezzato da operazioni che violentano continuamente la natura: abbattimento di alberi ed estrazione sempre maggiore di materie prime non rinnovabili si trasformano in prodotti che divengono presto rifiuti. Il rifiuto, quindi, è "un'invenzione" dell'uomo di cui non ci si è preoccupati fino allo

* Progettista educazione allo sviluppo.

scorso decennio; fino a quando, cioè, le discariche stracolme e le conseguenti difficoltà di smaltimento hanno fatto gridare all'emergenza. La discarica è stato il primo e più diffuso modo di "risolvere" il problema dei rifiuti. Le prime discariche sorsero tra l'800 ed il '900, nelle cave, presso corsi d'acqua, in zone spopolate ma di facile accesso; vi si scaricavano i rifiuti senza regole né consapevolezza del carico inquinante e nocivo. Soltanto negli ultimi anni, infatti, ci si è resi conto che l'incremento economico, da non confondere con il concetto di sviluppo, perseguito finora ha prodotto danni incalcolabili forse irrimediabili all'ecosistema ambiente e, quindi, anche alla salute dell'uomo.

Nel Rapporto dell'UNDP 2, del 1998, si afferma che "l'inquinamento e i rifiuti superano la capacità del pianeta di assorbirli e trasformarli". Tale constatazione e presa di coscienza si è avuta anche a livello di Unione Europea e si è concretizzata in una serie di iniziative legislative.

DIMENSIONE EUROPEA

La gestione delle centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti prodotti ogni anno

115

nell'Unione europea3 risulta sempre più difficile e costituisce una fonte di inquinamento sempre più preoccupante.

Con l'Atto unico europe0 4 la Comunità stabilisce gli obiettivi in materia di tutela ambientale che si concretizzano nella: salvaguardia, protezione, miglioramento della qualità dell'ambiente, ma anche nell'utilizzazione accorta delle risorse e nella tutela della salute umana.

Questi obiettivi devono essere perseguiti attraverso una serie di azioni che mirano alla prevenzione e correzione alla fonte del fenomeno inquinante; importante ruolo in questi casi viene svolto dal principio "chi inquina paga" 5 La tutela ambientale in ambito comunitario oggi è tutelata nell'ambito del V Programma d'azione, varato il 15 dicembre 1992, nel quale si parla di "responsabilità condivisa" per la protezione dell'ambiente e finalizza le attività di tutti gli attori sociali (pubblica amministrazione, imprese e cittadini) al raggiungimento dello sviluppo sostenibile.

Il V Piano d'azione sull'ambiente dell'Unione Europea si muove in coerenza con gli obiettivi dell'Agenda 216 e prevede nel campo dei rifiuti una gerarchia di azioni che vanno dalla prevenzione, al riutilizzo, al recupero, allo smaltimento in sicurezza. Queste indicazioni sono state recepite dalla Direttiva-quadro 91/156/CEE sui rifiuti, dalla Direttiva 911689/CE sui rifiuti pericolosi e dalla Direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti da imballaggio. Altra importante tappa nella gestione dei rifiuti .

116

a livello comunitario si è avuta con la Comunicazione della Commissione europea nel 1996 7 che contemplava una nuova strategia di gestione dei rifiuti basata sul principio di precauzione 8. In essa i rifiuti sono riconosciuti come il maggior fattore d'impatto di origine antropica sul territorio, inoltre, si sottolinea che la legislazione sui rifiuti deve coniugare due opposte esigenze: elevata protezione ambientale e corretto funzionamento del mercato interno basandosi, a tal proposito, sugli articoli 100 A9 e 130 S'O del Trattato.

La Comunicazione del 1996 è molto importante in quanto delinea i principi e le azioni che ritroviamo nell'attuale legislazione italiana in materia di rifiuti.

Nella Comunicazione viene fatta una distinzione fondamentale fra "prodotti" e "rifiuti", stabilendo che i rifiuti sono: oggetti materiali che ricadono nel campo di applicazione dell'articolo 30 del Trattato" a prescindere dal fatto che siano destinati a riutilizzo, recupero o smaltimento; oggetti materiali con carattere specifico, che possono comportare rischi per l'ambiente, pertanto la loro circolazione può essere soggetta a restrizioni 12 , derogando in questo modo, all'art. 30 del Trattato sulla libera circolazione dei prodotti. Questa deroga è dovuta al fatto che vi è una lacuna nella definizione comunitaria dell'art. i della direttiva 9 1/156/CEE, che non consente sempre di individuare tutte le distinzione fra prodotti e rifiut1 13 Riguardo alla "gerarchia dei metodi di .

gestione", nella Comunicazione era stabilito che obiettivo fondamentale di ogni strategia doveva essere la "prevenzione", questo nel rispetto del principio di eliminare l'inquinamento alla fonte, mentre in subordine si consideravano: il "recupero" (riutilizzo, riciclaggio, incenerimento con recupero energetico) e "lo smaltimento" (incenerimento senza recupero energetico e messa in discarica). La prevenzione può essere fatta soltanto attraverso lo sviluppo di tecnologie pulite e di specifiche azioni sui prodotti (vietando la commercializzazione di determinate sostanze e incentivando la produzione di prodotti che generano una minore quantità di rifiuti).

La Comunità ha adottato, a tal proposito, misure specifiche per il riciclaggio della carta, degli oli e delle pile usati.

Per quanto riguarda, invece, i rifiuti tossici e pericolosi: sono state imposte norme di emissione per gli inceneritori che bruciano da 25 a 30 milioni di tonnellate ogni anno; è stata adottata una direttiva che migliora la sorveglianza dei trasferimenti transfrontalieri (importexport) di rifiuti pericolosi sul territorio dell'Unione, provvedimento ulteriormente rinforzato da una direttiva del 1986 riveduta alla luce della convenzione internazionale sui trasferimenti di rifiuti pericolosi firmata dalla Comunità e dagli Stati membri nel marzo 1989 a Basilea.

Tale direttiva riguarda anche il controllo delle esportazioni e dei rifiuti pericolosi verso i Paesi OscE ed il divieto totale

della loro esportazione verso i Paesi non OSCE, a partire dal l gennaio 1998.

DIMENSIONE ITALIANA

Il problema rifiuti costituisce, oggi, una delle più gravi emergenze ambientali del nostro Paese. In Italia, la quantità di rifiuti solidi urbani prodotta è raddoppiata tra il 1979 ed il 1996, passando da 13 a circa 26 milioni di tonnellate annue con una media di 1,23 chili al giorno per abitante e 2.000 discariche attive sul territorio nazionale 14 . Ogni anno, un italiano butta in media 465 chilogrammi d'immondizia, la maggior parte di questi rifiuti è costituita da imballagg1 1 5, mentre fino agli anni Cinquanta la produzione pro capite era di circa 140 chilogrammi di rifiuti solidi urbani (Rsu), per lo più composti da materiale riciclabile con una grande percentuale di frazione umida organica compostabile. Si registra, inoltre, una dicotomia esistente tra le zone geografiche del Paese: al Nord la percentuale di raccolta differenziata è del 12,7%, nel Centro del 5,6% e al Sud dell'l,l% con una concentrazione di discariche censite del 63,8%16. In relazione alla produzione di rifiuti non vi è stata un'inversione di tendenza; rispetto al passato, la crescita appare costante con ritmi di circa 3-4% l'anno. La raccolta differenziata non è ° ancora a livello degli altri Paesi europei e non è l'unico elemento da considerare al fine della riduzione dello smaltimento in discarica.

117

A tal proposito, dall'inchiesta emerge una grave carenza di impianti di recupero che rende molto difficile l'azione differenziata dei rifiuti. Infine, per quanto riguarda le discariche 17 queste risultano essere, purtroppo, ancora la meta finale di 21.623.467 tonnellate di rifiuti prodotti 0'83,2% di ciò che viene prodotto a livello nazionale), dimostrando ancora una volta la lontananza del nostro Paese dagli altri partner europei dove la percentuale smaltita si attesta su una media del 60%.

I problemi legati ai rifiuti non sono certo una prerogativa dell'Italia. L'altissima produzione di rifiuti urbani ed industriali, le difficoltà di un loro corretto e sicuro smaltimento costituiscono, piuttosto, uno dei grandi capitoli della crisi ambientale contemporanea, legato a doppio filo con i modelli di produzione e consumo consumistici. Quello che caratterizza la situazione del nostro Paese è il notevole ritardo rispetto agli altri partner europei. Questa situazione è dovuta al fatto che fino a poco tempo fa il problema dei rifiuti nel nostro Paese non è stato affrontato ma soltanto rimandato: il quadro normativo estremamente frammentario, la poca chiarezza, a volte, le eccessive competenze in materia o la totale deresponsabilizzazione dei ruoli guida hanno impedito che si tentasse di risolvere l'emergenza rifiuti.

In Italia, la prima regolamentazione in materia di rifiuti si è avuta con la legge n. 366/1941 18 seguita dal d.PR n.

915/1982 19 che ha regolamentato il set118

tore fino al Decreto Ronchi. Ad esso, sono seguiti molti altri interventi normativi che hanno dato delle risposte parziali e frammentarie, in quanto facevano riferimento a situazioni d'emergenza, non affrontando così, la questione in modo pii organico. Proprio la mancanza di una strategia politica e l'incertezza normativa hanno favorito, in un certo senso, attività illecite in materia di rifiuti.

Finalmente si è posto fine ad una grave lacuna con il decreto legislativo n. 22/97, la nuova legge-quadro sulla gestione dei rifiuti emanata il 5 febbraio 1997, n.

2220, con la quale si recepiscono tre direttive comunitarie: 91/156/CEE 21 sui rifiuti, 91/689/CEE22 sui rifiuti pericolosi e 94/62/CEE23 sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio. Il successivo decreto legislativo 8 novembre 1997, n. 389, reca una serie di modifiche ed integrazioni al decreto legislativo del 5 febbraio 1997, n. 2224 . "Riduzione, riutilizzo, riciclo" è questa la linea direttiva del Decreto Ronchi.

L'organizzazione e la gestione degli interventi per l'adeguamento dei sistemi di gestione dei rifiuti urbani ed industriali ai moderni criteri di tutela ambientale sono ripresi dal d.l. n. 22 del 5/2/97, che si pone come obiettivi centrali a brevemedio termine, oltre all'uscita dall'emergenza rifiuti di vaste zone del Paese: l'incremento del riciclaggio e del recupero dei rifiuti, l'attenuazione degli impatti ambientali negativi dell'attuale sistema incentrato sullo smaltimento in discarica

ed il conseguimento, in accordo alla ratifica del protocollo di Kyoto ed agli impegni già assunti a livello comunitario, di un rilevante contributo alla riduzione delle emissioni di gas serra.

Con il cosiddetto "decreto Ronchi" si vuole allineate l'ordinamento nazionale a quello comunitario, definendo un quadro normativo unitario e omogeneo. Il Decreto costituisce il recepimento di tre direttive europee, ne consegue, che esso non rappresenta un'innovazione italiana ma un'armonizzazione al sistema europeo esistente.

L'obiettivo prioritario del nuovo provvedimento, un testo unificato atteso da anni, è la prevenzione (art. 3), come stabilito a livello comunitario, intervenendo cioè nella riduzione della produzione di rifiuti e nel loro recupero e riducendo il ricorso allo smaltimento (art.5) in discarica. Il nuovo provvedimento consta di cinque Titoli, dalle norme generali sulla gestione dei rifiuti alle sanzioni per le violazioni dei divieti e degli obblighi previsti dal decreto e detta alcune disposizioni transitorie e finali. Alla base della normativa che regola il problema dei rifiuti è il rispetto dell'ambiente con un esplicito richiamo al principio della responsabilità e della cooperazione di tutti i soggetti coinvolti, dalla produzione al consumo e allo smaltimento dei beni.

Tra le misure pii importanti, l'obiettivo della raccolta differenziata viene fissato al 15, 25 e 35%. Si stabilisce un sistema per il recupero dei rifiuti da imballag-

gio, si introducono misure per il mercato dei prodotti e dei materiali recuperati dalla raccolta differenziata e per le attività di recupero. Sono, inoltre, previste norme di maggiore sicurezza ambientale per il recupero energetico da rifiuti. Vi sono: nuove definizioni e classificazioni dei rifiuti; è stata apportata una revisione degli adempimenti amministrativi ed è stato stabilito un nuovo regime di controllo preventivo ed abilitativo; l'introduzione della gestione degli imballaggi e relativi rifiuti e del sistema tariffario.

Nel Decreto vi è un ribaltamento molto interessante del rapporto tra rifiuti e smaltimento. In passato, oggetto della legislazione era lo smaltimento dei rifiuti; oggi, invece, è la loro gestione che si articola in: raecolta, trasporto, recupero e smaltimento, a cui si aggiunge il controllo anche delle discariche e degli impianti di sm'altimento.

Il provvedimento delinea alcuni specifici accordi di programma tra la pubblica amministrazione e gli operatori economici interessati, uno strumento che per esempio potrà favorite la costruzione e la gestione di impianti di recupero all' interno di insediamenti industriali.

Lo smaltimento deve essere realizzato attraverso una rete adeguata ed efficiente di impianti e deve essere effettuato sempre nel rispetto del principio di autosufficienza e prossimità, principi questi che si applicano però soltanto ai rifiuti urbani e a quelli assimilatL(art. 22, comma 3).

119

La suddivisione delle competenze tra Stato, Regioni, Province e Comuni può essere ravvisata negli artt. 18, 19, 20 e 21 del D.lg 22 del 1997. Sono state valorizzate le competenze ambientali degli Enti locali, riconoscendo il ruolo centrale delle Province dei Comuni e attribuendo allo Stato solo compiti di indirizzo e coordinamento, di fissazione dei criteri generali e di determinazione delle norme tecniche. Saranno infatti le Province, sentiti i Comuni, a dover individuare le zone idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti urbani.

Per quanto riguarda gli imballaggi, essi sono disciplinati dagli artt. 34 al 43 del Decreto Ronchi e dalle successive modifiche, collocati nell'ambito del Titolo Il "Gestione degli imballaggi". Anche in questo caso si parla di "gestione" e soprattutto di "recupero alla fonte", infatti, gli imballaggi costituis'cono il 50% in volume ed il 30% in peso del totale dei rifiuti. In tale ambito, molto importante è la responsabilizzazione degli operatori economici realizzata attraverso l'applicazione del principio "chi inquina paga", nonché della cooperazione degli stessi secondo il principio della "responsabilità condivisa" (art. 36, comma 2). Le disposizioni legislative sono completate da due allegati (E ed F) che prevedono, rispettivamente, gli obiettivi di recupero e riciclaggio che si dovranno raggiungere nei prossimi cinque anni nel primo; i requisiti essenziali di fabbricazione, composizione e recuperabilità nel secondo.

120

Gli obiettivi di recupero e di riciclaggio sono previsti nell'art. 37, mentre nell'art. 40 si afferma che "al fine di razionalizzare ed organizzare la ripresa degli imballaggi usati, la raccolta dei rifiuti [ ... ] nonché il riciclaggio ed il recupero dei rifiuti di imballaggio secondo criteri di efficacia, efficienza ed economicità, i produttori [ ... ] costituiscono un consorzio per ciascuna tipologia di materiale di imballaggi". Nell'art. 41 è, invece, disciplinato il consorzio nazionale imballaggi (C0NAI) con le sue caratteristiche e funzioni.

Interessante è, infine, l'istituzione della Tarsu (Titolo IV, art. 49) la tariffa per la gestione dei rifiuti urbani: si noti come non si parli più di tassa ma di tariffa2 5.

Molti, dunque, gli aspetti positivi apportati dal Decreto Ronchi, e successive modifiche, alla legislazione italiana in tema di rifiuti; l'arretratezza della situazione lascia, tuttavia, supporre che il processo di adeguamento non avrà tempi brevi. L'attuazione del Decreto comporta la disponibilità di notevoli capacità organizzative e, data la complessità degli obiettivi che si pone, il problema appare per molti aspetti politico-amministrativo più che tecnico-economico.

L'EcoIVIAFIA L'ultimo spinoso problema inerente i rifiuti è sicuramente, la cosiddetta ecomafia. Negli ultimi anni si è assistito ad un fenomeno dagli aspetti sempre più preoccupanti: la gestione dei rifiuti da

parte della criminalità organizzata. Per anni, un fiume di veleni è stato la "moneta di scambio" tra i Paesi del Nord e quelli del Sud: i primi, prelevavano le materie prime dai secondi ed in cambio depositavano le loro scori, per lo più tossiche e pericolose. Questo scambio "equo" si è protratto sino a circa la metà degli anni Ottanta; a quell'epoca, alcuni Paesi destinatari dei rifiuti sbarrano le frontiere o alzano il prezzo ed il fenomeno viene man mano portato alla luce: comincia il periodo delle cosiddette navi dei veleni 26 Oggi, le spedizioni transfrontaliere sono disciplinate dal regolamento CEE n.

259193 del Consiglio del lo febbraio 1993 relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territori0 27. Nel Decreto Ronchi, le spedizioni transfontaliere vengono disciplinate nell'art. 16.

Il fenomeno dell'ecomafia, però, non riguarda soltanto il traffico di rifiuti tra il Nord ed il Sud del mondo; il commercio di rifiuti, talvolta anche radioattivi, è stato ed è tuttora, al centro di un traffico che interessa anche l'Italia. Il business dell'ecomafia è molto vario e va dai capitali provenienti dai traffici dei rifiuti all'abusivismo edilizio, fino al traffico di scorie tossiche e pericolose.

Una situazione allarmante emerse già qualche anno fa: le numerose denuncie da parte dei cittadini, degli ambientalisti ed i lavori della Commissione antimafia, infatti, portarono, nel giugno 1995, la .

Camera ad approvare all'unanimità una Commissione d'inchiesta parlamentare sulle attività di smaltimento dei rifiuti e sui traffici illeciti ad essa collegat1 28. La Commissione era presieduta dal Deputato Massimo Scalia ed il suo obiettivo era quello di indagare sullo stato di coinvolgimento delle organizzazioni criminali nell'attività di smaltimento dei rifiuti in Italia e all'estero. La Commis sione Scalia, composta da 20 Deputati, svolse indagini tra gli operatori nel settore dello smaltimento dei rifiuti ed effettuò numerosi sopralluoghi nei luoghi più danneggiati dal fenomeno. I lavori si conclusero con l'approvazione di una relazione approvata nella seduta dell'il marzo 199629 . La Commissione mise in evidenza una serie di elementi molto importanti per valutare l'estensione e la dimensione dell'ecomafia. In primo luogo, è stato sottolineato il ritardo con cui si è affrontato il problema rifiuti; inoltre, che il fenomeno ha riguardato ben tredici Regioni 30 È stato poi rilevato che i dan mafiosi svolgevano le loro attività nel settore dei rifiuti sia in maniera diretta che attraverso società di intermediazione. Si sottolineò, infine, l'insufficienza della normativa troppo frammentaria. In tal senso, si propose una revisione globale della tematica dei controlli, l'individuazione di precise responsabilità e l'inasprimento delle misure sanzionatorie.

Nel luglio del 1996 alla VIII Commissione permanente della Camera vennero presentate due distinte iniziative, .

121

IL

volte alla costituzione di una Commissione d'inchiesta parlamentare sulle attività di smaltimento dei rifiuti e sui connessi traffici illeciti. Il Parlamento, recepì le proposte, ed approvò la legge 10 aprile 1997, n. 9731 per l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività ad esso connesso.

Il fenomeno dell'ecomafia non è stato oggetto di studio soltanto da parte del Parlamento ma anche da parte delle forze dell'ordine32 e dai gruppi ecologisti che per primi, attraverso le denuncie, hanno fatto emergere il fenomeno. Ricordiamo, a tal proposito, quanto evidenziato da un'importante ricerca di Legambiente 33, dove si considerava anche un altro aspetto dell'ecomafia e cioè quello di provocare gravi distorsioni all'economia del nostro Paese, soprattutto nelle Regioni meridionali. Una porzione considerevole di questo fenomeno è rappresentato dal traffico e dallo smaltimento dei rifiuti; finora ciò è stato reso possibile soprattutto da una lacuna legislativa che ha facilitato certe pratiche "poco lecite" ed ha avuto come risultato quello di trasformare molte parti d'Italia, a volte anche parchi naturali, in vere e proprie discariche abusive 34 .

Nel recente Rapporto di Legambiente35, il totale delle illegalità ambientali accertate equivale a 30.957, le persone denunciate o arrestate sono 9.392, gli illeciti nel ciclo dei rifiuti in Italia nel 1998 sono 1.685, il business dei rifiuti a rischio (pericolosi e tossico-nocivi) ha 122

un giro d'affari valutato attorno ai 4 mld. Questi dati sono molto importanti perché attraverso di essi si può valutare, anche se purtroppo per difetto, la portata di un fenomeno che meriterebbe di avere più attenzione anche da parte dell'opinione pubblica perché direttamente o indirettamente, presto o tardi, lo smaltimento illegale dei rifiuti, soprattutto quando si tratta di rifiuti pericolosi e nocivi, quando non radioattivi, danneggiano la nostra salute.

Quindi, dovremmo essere noi cittadini, i primi ad esigere una maggiore attenzione verso attività che sono potenzialmente pericolose per l'uomo; infatti, non dobbiamo dimenticare che la Terra è un ecosistema unico ed insostituibile.

Iiaria, l'acqua ed il suolo fanno parte di quest'unico sistema; l'abbandono delle scorie radioattive o dei rifiuti provoca gravi danni non soltanto al suolo ma anche all'acqua e all'aria che respiriamo.

Da molti anni la ricerca scientifica ha documentato, attraverso studi epidemiologici, gli effetti nocivi dovuti a sostanze inquinanti3 6. Questa constatazione sembra essere stata recepita dal Decreto Ronchi, laddove si afferma tra le finalità (art. 2, comrua 2) che "i rifiuti devono essere recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente e, in particolare: a) senza determinare rischi per l'acqua, l'aria, il suolo e per la fauna e la flora".

Dal modo in cui saremo capaci di af-

frontare le complesse e articolate problematiche ambientali nell'immediato futuro dipenderà il nostro livello di vita di domani e le nostre prospettive di un futuro migliore ove si operi per la soluzione dei problemi e non per il loro continuo rinvio, come purtroppo, è stato fanno finora. È ormai sempre più

evidente che i sistemi naturali presentano una forte complessità ed interazione per cui non è possibile risolvere un problema come quello dell'inquinamento ambientale pensando in termini di Paese o di settore. La tutela e la prevenzione ambientale è efficace se pensata e realizzata in termini globali.

i Guito VIALE, Un mondo usa e getta. La civiltà dei

1 Adottato il 16, 17 dicembre 1985 è entrato in vigore il 10 luglio 1987.

5 Il principio si rinviene nel Primo programma d'azione ambientale della Comunità (1973-1977), dove si sottolinea la necessità di prevenire ed evitare il prodursi di effetti dannosi all'ambiente. Nella Raccomandazione dcl Consiglio d'Europa del marzo 1975 concernente i poteri in materia d'ambiente (75, 436, Ejratom, Ceca, Cee), si affermava che tutti coloro, pérsone fisiche o giuridiche, pubbli9h'e o private, responsabili di inquinamento devono sostenere i costi delle misure necessarie per.s4a1lo o ridurlo, alfine di rispettare le norme e l iiisure equivalenti che consentono di raggiungere obiettivi di qualità. In questo modo, la protezione dell'ambiente è assicurata mediante l'imputazione agli inquinatori dei costi dovuti all'inquinamento da essi causato.

Con l'Atto Unico europeo, il principio "chi inquina paga" è stato ufficialmente riconosciuto come obiettivo primario della politica comunitaria dell'ambiente (art. 130 R), come ribadito nel 1992, dal Trattato di Maastricht. Il principio "chi inquina paga" si è definitivamente consolidato nella Conferenza di Rio, in particolare nella Dichiarazione all'art. 16.

6 L'Agenda 21, documento di 800 pagine contenente il programma d'azione e gli obiettivi per realizzarlo messo a punto nell'ambito della Conferenza delle Nazioni Unite sull'Ambiente e lo Sviluppo (UNCED) svoltasi a Rio nel giugno del 1992. L'Agenda 21 considera per i rifiuti quattro aree programmatiche di azione: minimizzazionc dei rifiuti, massimizzazio-

rifiuti e i rifiuti della civiltà, Milano, Feltrinelli, 19952 Programma delle Nazioni Unite sullo Sviluppo.

3 Nei primi anni della costruzione europea l'ecologia non aveva carattere prioritario per i poteri pubblici e per il sistema economico. Negli anni Settanta le preoccupazioni per l'ambiente acquistano risonanza nella Comunità c suscitano le prime iniziative in campo ambientale. Al vertice di Parigi del luglio 1972, i capi di Stato e di governo riconobbero che, nel contesto dell'espansione economica e del miglioramento della qualità di vita, all'ambiente doveva essere prestata particolare attenzione. Fu questo il segnale di avvio: venne lanciato il primo programma d'azione (1973-1976) che fissava il quadro della politica comunitaria dell'ambiente seguito da altri programmi analoghi. Da questi programmi nacquero una serie di direttive relative alla tutela delle risorse naturali (aria, acqua), alla lotta contro le emissioni sonore, alla conservazione della natura e alla gestione dei rifiuti. Fondamentale tappa per la tutela dell'ambiente in ambito comunitario fu l'Atto unico europeo entrato in vigore nel 1987, che inseriva un titolo specifico nel trattato CE. Meritano inoltre di essere ricordati anche il trattato sull'Unione che introdusse per la prima volta il principio dello sviluppo sostenibile o meglio "crescita compatibile con l'ambiente"; ed infine, il trattato di Amsterdam che apporta delle esemplificazioni molto importanti riguardo alle procedure decisionali.

123

ne del riuso e del recupero, smaltimento ambientalmente compatibile, incremento di qualità dei servizi di gestione.

7 La Comunicazione (C0M 961399), alla quale è stata data ampia difFusione indirizzandola a vari enti e associazioni (Parlamento Europeo, Consiglio, Comitato Economico e Sociale, Comitato delle Regioni, autorità nazionali, operatori economici oltre che alle organizzazioni ambientaliste e dei consumatori), segue la Comunicazione del 1989 "Strategia comunitaria in materia di rifiuti", adottata dal Consiglio e dal Parlamento europeo.

8 Secondo il quale gli Stati non devono invocare l'assenza di certezza scientifica come motivo per rinviare misure effettive di prevenzione, quando si delinea una minaccia di danno serio e irreversibile all'ambiente. Questo principio, che si è affermato soltanto negli ultimi anni, prevede l'inversione dell'onere della prova, richiede cioè che si dimostri in anticipo che l'azione proposta non causerà danni all'ambiente. Il principio precauzionale è stato enunciato per la prima volta dall'OScE nel 1987, da allora viene frequentemente utilizzato nei vari contesti ambientali: inquinamento marino, cambiamenti climatici, e produzioni pericolose. Il Trattato di Maastricht lo prevede espressamente nell'art. 130R ed è ravvisabile anche nella Dichiarazione di Rio del 1992 nell'art.

15.

9 Considera l'armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri che abbiano incidenza sul Mercato comune. Nel caso in cui l'armonizzazione riguardi settori quali la sanità, la sicurezza, la protezione dell'ambiente e dei consumatori il comma 3 dello stesso articolo, prevede un livello di protezione elevato. Le misure ambientali possono essere adottate in base a tale articolo quando le stesse influenzino gli scambi e quindi il Mercato comune. In tal senso anche la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha confermato che non deriva pregiudizio alla portata ambientale delle norme dal fatto che le stesse siano adottate in base all'art. 100 A (Serit. C-300189 dell'il giugno in Raccolta 1991, p. 112867).

IO Considera tematiche relative alla salvaguardia ambientale, delle risorse naturali e consente agli Stati membri di adottare misure di Trasposizione più restrittive.

Il Articolo relativo alla libera circolazione dei prodotti.

2 Tale principio si è concretizzato nell'art. 5, com124

ma 2, della direttiva 911156/CEE sui rifiuti, quando stabilisce che i rifiuti devono esscre smaltiti "in uno degli impianti appropriati più vicini", si realizza in questo modo il "principio di prossimità".

13 Una definizione più chiara del concetto di rifiuto ancora non è stata ravvisata né in sede comunitaria, né a livello nazionale ciò costituisce una delle lacune della legislazione in materia di rifiuti che si auspica sia colmata al più presto. Sulla definizione di questo concetto sono in corso anche lavori dell'OScE che ha istituito un apposito Gruppo di politica di gestione di rifiuti: WMPG. 4 Articolo di MASSIMO SCALIA (Commissione parlamentare d'inchiesta sul riciclo dei rifiuti) in Ricicla '98 - Atti dei Seminari della Fiera di Rimini, LUCIANO MORSELLI (a cura di), Maggioli Editore, Dogana 1998, p. 11 e seguenti.

5 Gli imballaggi sono una realtà diventata problematica nel mondo delle merci. Oggi in Italia gli imballaggi costituiscono più del 40% del volume dei RSU, un record europeo negativo. L'industria del packaging è diventata un colosso del settore produttivo italiano con circa 80.000 addetti ed un fatturato attorno ai 30.000 miliardi di lire. Ogni anno si producono milioni di tonnellate di imballati, ed oggi siamo arrivati ad oltre 15.000.000 di tonnellate di imballaggi prodotti in Italia. In JACOMELLI A., Il rifiuto de/problema, Documento del WWF sulla gestione dei rifiuti, Roma 1996.

6

La situazione dci rifiuti in Italia è stata oggetto di studio congiunto da parte della Commissione Parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti (indagine realizzata attraverso la somministrazione di un questionano inviato a tutti i Comuni italiani e che ha preso in considerazione l'aspetto gestionale del problema) e dall'Osservatorio Nazionale sui rifiuti (in collaborazione con l'Agenzia Nazionale di Protezione dell'Ambiente l'indagine è stata realizzata sulla base delle dichiarazioni dei Modelli Unici di Dichiarazione (Mud) per il 1996. Questo studio congiunto è di notevole importanza in quanto offre un quadro globale dello situazione dei rifiuti nel nostro Paese. Vedi SCALIA M., op.cit., p.l 1; IvoI I., Rfìuti Oggi, settembre 1998, p. 19, 20.

17 Le discariche sono fonte di infiltrazioni che, se non controllate, possono contaminare le acque del sottosuolo con metalli pesanti e composti organici.

Sono, inoltre, foiìte di emissione di metano nell'atmosfera, un gas che contribuisce all'effetto serra. Per

questo la politica attuale di salvaguardia ambientale e la moderna gestione dei rifiuti puntano alla riduzione alla Fonte come obiettivo primario e si favoriscono altre misure quali il compostaggio, la termovalorizzazione. Per approfondimenti vedi: CAMPANELLI M., Il riciclaggio dei rifiuti organici, in Le Scienze, aprile 1998, n. 356, pI2 e seguenti; VALLINI G., La protezione dell'ambiente in Italia, Società Chimica Italiana, 1995; FRIGERIO A., Il nuovo testo unico in materia di rifiuti. Strategie innovative di recupero e smaltimento, Gruppo Scientifico Italiano Studi e Ricerche, 1996; VOLPI G., Incenerimento dei rfìuti urbani risorsa preziosa ma inutilizzata, in Il Sole 24 ore - Rapporti, 18 marzo 1996, p. 9.

8 Prima legge in Italia sulle discariche dei rifiuti solidi urbani (Rsu).

9 Con essa si ha una regolamentazione dello smaltimento di tutti i rifiuti, compresi quelli industriali.

Pur con tutti i suoi limiti questo è stato il primo passo concreto per affrontare il problema rifiuti. In seguito si è intervenuti nel settore dei rifiuti industriali (RI), Il Ministero dell'ambiente ha promulgato la legge n. 475 del 9 novembre 1988, riguardante "l'attuazione di un programma di emergenza per lo smaltimento dei rifiuti industriali".

20 Pubblicato sul supplemento ordinario n. 33 della GU 15Febbraio 1997, n. 38 ed entrato in vigore il successivo 2 marzo , salvo le disposizioni contenute nel Titolo relativo alla "gestione degli imballaggi" (Titolo Il) che sono entrate in vigore il 1° maggio

il concetto di "rifiuto" in quanto nella sua definizione l'art. I inserisce un elemento soggettivo dato dalla volontà di disfarsene da parte del detentore. Questa lacuna rende estremamente difficile tracciare una netta demarcazione tra rifiuto recuperabile e sottoprodotto o materia prima secondaria. Tale aspetto è stato sottolineato ed approfondito in AA.Vv., La gestione dei rifiuti. Il nuovo sistema dopo il "Decreto Ronchi' Edizioni Ambiente, Milano 1999, terza edizione, pp 37, 45.

22 Ha abrogato e sostituito la direttiva 781319/CEE sui rifiuti tossici e nocivi, anch'essa a suo tempo attuata con il d.PR n. 915182. Questa direttiva è molto attenta agli aspetti operativi che vengono precisati dettagliatamente. Ciò deriva dalla stessa "natura" della direttiva; riguardando i rifiuti pericolosi la Commissione ha ritenuto che il grado di severità considerata dovesse essere più alto. Questa direttiva è stata seguita dalla decisione 941904/CE che ha istituito l'elenco europeo dei rifiuti pericolosi, ciò non significa che la lista sia esaustiva come viene precisato nell'introduzione al punto 2 "L'inclusione nell'elenco non significa che il materiale o l'oggetto siano da considerarsi rifiuti in tutti i casi". L'elenco previsto dalla decisione 941904/CE ha carattere positivo: è pericoloso soltanto il rifiuto in esso indicato, a prescindere dalle concentrazioni e dalle sostanze. L'inclusione o non nell'elenco viene stabilita dai criteri introdotti con i tre allegati (allegati I, lI e III) alla direttiva

199721 La direttiva 911156/CEE ha quasi completamente sostituito la direttiva 751442/CEE sui rifiuti, attuata con il d.l'R n. 915182. La 911156 ha il merito di prevedere una politica di gestione dei rifiuti più avanzata e basata sulla priorità della prevenzione (minimiz-

911689/CEE. Il d.lgs. N. 22197, nel dare attuazione alle direttive citate, si conforma a,che alle altre decisioni comunitarie collegate: il catalogo europeo dei rifiuti (ripreso nell'allegato A); l'elenco europeo dei rifiuti pericolosi (riprodotto nell'allegato D).

23 Questa direttiva ha abrogato la direttiva 851339/CEE sugli imballaggi per liquidi. Il suo campo di applica.

zare produzione dei rifiuti) e del recupero rispetto allo smaltimento obiettivo perseguito con l'introduzione di un regime meno vincolante previsto per le operazioni di recupero (allegato lI B, allegato C al Decreto Ronchi) rispetto a quelle di smaltimento (allegato hA, allegato B al Decreto Ronchi) previsto negli artt. 10 e 11 mediante i quali si vuole favorire la diffusione di operazioni di riduzione dei rifiuti da avviare alla discarica. La direttiva fissa il principio della prossimità e dell'autosufficienza nelle operazioni di smaltimento ed è stata seguita dalla decisione 94/3/CE che ha istituito il CER (Catalogo europeo dei rifiuti). In questo contesto appare fondamentale

zione è molto vasto in quanto disciplina tutti gli imballaggi e i rifiuti di imballaggio immessi sul mercato europeo e tutti i rifiuti di imballaggio, di qualsiasi tipo, utilizzati o prodotti da industrie, esercizi commerciali, uffici, negozi e nuclei domestici. La direttiva fissa al 30 giugno del 2001 gli obiettivi: per quanto riguarda il recupero la percentuale fissata è il 5065% in peso dei rifiuti di imballaggio; per il riciclaggio l'obiettivo è del 25-45% con un minimo del 15% per ogni materiale di imballaggio. È da notare come sia stata fissata anche la percentuale massima, ciò è stato fatto nel tentativo di armonizzare le politiche economiche degli Stati membri cercando di 125

evitare delle distorsioni nel mercato per quanto riguarda i materiali recuperati; un esempio di distor-

sione si ha con il il Deutsch System Dual (D5D) tedesco che incapace di riciclare tutti i materiali recuperati all'interno del proprio paese ha dovuto esportarli verso altri Paesi dell'Unione provocando il crollo dei prezzi dei materiali di recupero con una conseguente distorsione nel mercato danneggiando la stessa raccolta differenziata.

24

Per approfondimenti circa le modifiche apportate

dei Deputati Scalia ed altri, A.C. 1524 ; PdL di iniziativa dei Deputati Gerardini ed altri, A.C. 1748; PdL dei Deputati Formenti cd altri. Doc. XXII, n.16.

29 30

Doc. XXI 1-bis, n. 2 Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna,

Toscana, Marche, Abruzzo, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia. Per approfondimenti vcdi

Aa.Vv, La gestione dei rfìuti, il nuovo sistema dopo il "Decreto Ronchi' Edizioni Ambiente, Milano 1999 terza ed., p. 203-2 14.

al D.lgs 5febbraio 1997, n. 22 vedi A.Vv., Lage-

31

stione dei rifiuti, il nuovo sistema dopo il "Decreto

32

Ronchi' cit., p. 71.

Ecologico dell'Arma dei carabinieri (N0E), dalla Guardia di Finanza, dal Corpo Forestale dello Stato e dalla Polizia di Stato.

25

Per approfondimenti: GIACOMELLI C., Il passaggio dalla tassa alla tarffis nel rispetto delle vigenti disposizioni di legge, in AA.Vv. (a cura di Luciano Morselli), Ricicla '98, cit, p. 74 e seguenti.

26 Per approfondimenti: AA.Vv., Ecomafla. I predoni dell'ambiente, Editori Riuniti, Roma 1995; MENGOZZI E., Ambiente e rifiuti, Sperling & Kupfer, Milano 1995.

27

GUCE, serie L , n. 30 del 6/2/93. Successivamente

è stato adeguato con decisione 941721/CE del 21/10/94 e con decisione 961660/CE del 14111196 ed è stato modificato con regolamento n. 120197 del 20/1/97.

28

Erano state presentate al riguardo tre proposte: PdL

126

33

GU 15aprile 1997 n. 87.

Ricordiamo l'opera svolta dal Nucleo Operativo

Legambientc, Le nuove frontiere dell'ecomafla, gen-

naio 1997.

34

Per approfondimenti vedi: Convenzione nazionale

"Dalle Ecomafie all'Ecosviluppo". Napoli, 13114 ottobre 1995; Rfìuti S.p.A. 2 - Secondo libro bianco di Legambiente contro i traffici di rifiuti, marzo 1995. Per i dati circa la rilevanza del fenomeno vedi AA.Vv., La gestione dei rifiuti, il nuovo sistema dopo il

"Decreto Ronchi' cit., pp. 209-214.

Legambiente, Rapporto Ecomafia '99, 199936 MUGGIA 5., Inquinamento e mortalita, in Le Scienze, n. 326, 1995, p. 292 seguenti.

35

La gestione dei rifiuti urbani in Finlandia.

Il caso della regione di JyvàskyIi di Karil. Hànninen*e Simoi S uoja **

In base alla nuova legge sui rifiuti, i residenti dei principali Comuni della Finlandia sono tenuti a selezionare tutti i rifiuti, e le amministrazioni municipali devono organizzarne la raccolta e il trattamento.

La Finlandia si sta muovendo rapida mente verso una gestione dei rifiuti compatibile con l'ambiente, e la Regione di Jyviskyl, in questo campo, è all'avanguardia. Qui, infatti, gli esperimenti di separazione dei rifiuti hanno portato all'individuazione di un modello di separazione alla fonte realizzabile a condizioni commerciali. Dopo un'attenta valutazione, l'ordinanza del Comune di Jyvàslcyhi è stata trasformata nella più esigente ordinanza dell'intera Finlandia: a tutte le famiglie residenti è stato richiesto di separare i propri rifiuti alla fonte. Per garantire il successo dell'iniziativa, attraverso campagne informative, è stata posta una forte enfasi sulla motivazione dei residenti a effettuare, già in casa, la separazione dei loro rifiuti.

I residenti di Jyvàskylà separano i rifiuti *Di part imento di Scienze Biologiche ed Ambientali, Università di Jyvàsky1 **Di part i mento Servizi Tecnici, Comune di Jyvàskylà

in otto frazioni: (i) rifiuti biologici, (ii) rifiuti secchi, (iii) carta e cartone; (iv) vetro, (v) metallo, (vi) prodotti tessili, (vii) rifiuti pericolosi e (viii) contenitori usati di latte e succhi.

La raccolta organizzata dei rifiuti coinvolge la totalità dei 75.500 residenti di Jyvàskylà. Di questi, 11.500 residenti (rappresentanti oltre il 50% dei residenti delle unità abitative indipendenti) hanno scelto di effettuare il compostaggio dei propri rifiuti biologici in piccoli impianti di compostaggio presso le proprie residenze, ottenendo una riduzione della tariffa per lo smaltimento dei rifiuti.

La comprovata disponibilità dei cittadini a partecipare alla selezione e alla gestione dei rifiuti è lodevole e molto incoraggiante. Grazie a questo, le efficienze nella raccolta e la purezza delle frazioni dei rifiuti si sono rivelate buone. Per esempio, l'efficienza della raccolta del rifiuti biologici supera il 75%, mentre l'efficienza "normale" in altre città finiandesi impegnate in programmi di separazione alla fonte è pari ad appena il 50%. Le ordinanze emesse in queste altre città richiedono la separazione alla fonte solo per gli edifici costituiti da un minimo di Otto O dieci appartamenti.

127

La Finlandia è un Paese caratterizzato da una bassa densità di popolazione. Per fare un raffronto, la densità della popolazione è pari ad appena 1/16 di quella tedesca, eppure l'efficienza della raccolta della carta e dei rifiuti biologici è altrettanto buona. Le iniziative finalizzate a ottenere una efficienza ancora maggiore nel campo della gestione dei rifiuti comporteranno distanze di trasporto maggiori e prezzi unitari più elevati per le frazioni dei rifiuti.

La carta e il cartone, compreso il cartone per l'imballaggio di prodotti liquidi (CIL), vengono riciclati come cartone e carta da imballaggio. Il vetro viene utilizzato come materia prima per i prodotti isolanti, e il metallo viene riciclato assieme ai flussi principali di rifiuti metallici. I rifiuti biologici vengono compostati in cumuli all'aria aperta presso la discarica di Jyvskyla, a sei chilometri dal centro cittadino. Il trasporto e il trattamento dei rifiuti non creano caratteristiche ambientali inaccettabili come i cattivi odori o l'inquinamento dell'ambiente. Attualmente, la frazione secca viene smaltita in discarica, ma si prevede che in futuro verrà trasformata in combustibile a base di rifiuti, destinato ad alimentare una centrale elettrica locale.

Nell'ambito dell'iniziativa di Jyvskyla, la cooperazione regionale rappresenta un elemento importante. Un punto fondamentale della cooperazione a livello regionale è rappresentato dall'impiego regionale della discarica comunale di Mustankorkea. A tal fine, è stata istituita una 128

società responsabile dello smaltimento dei rifiuti di quattro municipalità, e ciascuna municipalità è responsabile dell'organizzazione della propria campagna informativa, dei controlli, della raccolta, del trasporto e della determinazione delle tariffe. Un importante risultato ottenuto fino ad ora attraverso questo tipo di smaltimento dei rifiuti è la marcata riduzione del ricorso alla discarica.

Nella Regione di Jamsà-Jamsankoski, la società di smaltimento rifiuti Erkki Salminen Ltd gestisce i rifiuti di 30.000 residenti di sei diverse municipalità. La partecipazione dei residenti alla selezione è volontaria. La società presenta delle offerte ai residenti, alle industrie e alle istituzioni, riguardanti il trasporto e il trattamento dei rifiuti, consentendo ai clienti di scegliere tra una serie di alternative che vanno dalla selezione completa alla non selezione. A seconda dell'accuratezza della selezione, il tempo di raccolta per una unità abitativa indipendente potrà variare da 2, 4 o 6 settimane, e la tariffa di raccolta dei rifiuti varierà in proporzione. Utilizzando i rifiuti legnosi e gli imballaggi usati, la società produce un combustibile che viene venduto a una cartiera locale. Considerato che la cartiera non è soggetta ad alcun obbligo di acquisto del combustibile, il prodotto dovrà essere concorrenziale rispetto ad altri combustibili commerciali.

INTRODUZIONE

Prima degli anni Cinquanta, la selezione dei rifiuti era un'operazione alquanto

naturale. I rifiuti biologici, per esempio, venivano separati dagli altri rifiuti e utilizzati per l'alimentazione animale. L'arrivo degli imballi alimentari monouso, in carta e plastica, modificò la composizione del flusso dei rifiuti. La selezione dei rifiuti biologici non risultava più conveniente, pertanto questa frazione restava all'interno dei rifiuti misti. Al tempo stesso, si registrò un aumento del tenore di vita e dell'urbanizzazione, con il conseguente enorme aumento di accumulo dei rifiuti. Per rispondere a questo stato di cose, furono messi a punto i camion compattatori e i bidoni ermetici.

I problemi nel campo della gestione dei rifiuti, comunque, continuavano ad aumentare. La richiesta di terreni da destinare allo smaltimento dei rifiuti crebbe rapidamente. La creazione di nuove discariche si fece sempre più difficile, e la conservazione delle aree di discarica esistenti acquistò un'importanza critica. Iniziò la selezione di carta, vetro e metallo, ma questo non contribuì in maniera sufficiente a ridurre la necessità di discariche.

Lo sviluppo più importante nel campo delle tecniche di riciclaggio moderne fu rappresentato dall'iniziativa studentesca di Witzenhausen, in Germania, nel 1982, per la separazione dei rifiuti biologici alla fonte. In Finlandia, l'esempio tedesco fu seguito inizialmente nell'area metropolitana di Helsinki. La selezione dei rifiuti biologici dagli altri rifiuti domestici iniziò volontariamente a Helsinki nel 1993 (in aggiunta al riciclaggio di carta e cartone, vetro e metallo).

Da parte sua, il Comune di Jyvsky1à avviò due sperimentazioni pratiche di riciclaggio dei rifiuti su larga scala mediante il frazionamento dei rifiuti biologici, sviluppando modalità di raccolta sia parziale che completa, durante il periodo 19941995. Circa 500 famiglie e piccoli esercizi commerciali parteciparono all'esperimento di selezione utilizzando bidoni per la raccolta (Ekholm 1994) mentre i residenti di 16 condomini parteciparono all'esperimento di raccolta completa a Keltinmàki (Hietanen e Hanninen 1996). In base ai riscontri provenienti dai residenti, la necessità della raccolta selezionata è stata immediatamente compresa, e la selezione era risultata di facile attuazione. Gli esperimenti dimostrarono con chiarezza che la maggior parte delle persone era realmente intenzionata a partecipare alla gestione dei rifiuti.

In base a uno studio del 1994, curato dal Centro Ambientale Finlandese, i rifiuti urbani smaltiti in discarica risultavano composti per un terzo da rifiuti biologici (33%), per un quarto da carta (25%) e per circa un quinto (20%) da cartone. Il volume del vetro risultava pari a circa il 5%, quello del metallo al 4%, i tessili al 2% e il legno dall'i al 6%. La Nuova Legge sui Rifiuti, entrata in vigore nel 1994, armonizzò le normative finlandesi con quelle dell'Unione Europea. Da allora, la Finlandia si è gradualmente orientata verso la raccolta differenziata. Nella maggior parte delle municipalità, i rifiuti biologici sono stati 129

la prima frazione a essere oggetto di raccolta differenziata.

I fini generali della Legge sui Rifiuti sono quelli di promuovere uno sviluppo sostenibile, incoraggiando i'uso razionale delle risorse naturali attraverso la riduzione della formazione di rifiuti, per prevenire le conseguenze negative, sanitarie e ambientali, derivanti dai rifiuti, e per intensificare il riciclaggio dei rifiuti stessi. In futuro, la responsabilità dei produttori sarà aumentata, in quanto a loro sarà richiesto di. tenere conto dell'intero ciclo vitale dei rispettivi prodotti, e di introdurre tecnologie nuove "pulite".

In Finlandia, circa 1.000 aziende operano nel settore dei rifiuti. Per la maggior parte si tratta di piccole imprese private operanti in una regione geografica specifica e in un settore specifico della gestione dei rifiuti (per esempio, la raccolta di rifiuti pericolosi in un territorio comunale e il trasporto degli stessi presso l'impianto di trattamento dei rifiuti pericolosi finlandese, Ekokem). Nell'ambito di questo documento, ci occuperemo prevalentemente della gestione dei rifiuti urbani presso gli impianti municipali di trattamento dei rifiuti, con un breve esame di una azienda operante in un settore privato.

ASPETTI AMMINISTRATIW

Amministrazione giuridica della gestione dei rfiuti.

Il Ministero dell'Ambiente verifica la conformità con le disposizioni e le nor130

mative emesse nell'ambito della Legge sui rifiuti. Il Ministero della Sanità e degli Affari Sociali garantisce che le normative siano conformi ai principi di tutela della salute pubblica.

Il Comitato di Consulenza sulla Gestione dei Rifiuti, agendo in collaborazione con il Ministero dell'Ambiente, cura l'informazione delle varie parti e dei gruppi di interesse in relazione agli obiettivi e ai metodi di gestione dei rifiuti. Il Comitato ha pubblicato obiettivi nazionali specifici, qualitativi e quantitativi, per la gestione dei rifiuti: prevenire alla fonte la formazione dei rifiuti, ove possibile, e ridurre la formazione dei rifiuti almeno al livello registrato nel 1990, ridurre gli effetti collaterali negativi dei rifiuti ' riutilizzare i rifiuti urbani, in modo che il livello di riciclaggio dei rifiuti possa raggiungere il 70-80% entro il 2005; in particolare, dovrebbe essere aumentato il riciclaggio degli imballaggi e dei prodotti da imballaggio, aumentare il livello della gestione dei rifiuti urbani. Il numero delle discariche per i rifiuti urbani dovrebbe essere ridotto, e le discariche attualmente in uso dovrebbero essere ridotte nelle loro dimensioni, in conformità con le nuove normative, Organizzare la supervisione e i servizi di consulenza per la gestione dei rifiuti, e irrigidire le misure di controllo.

Le autorità amministrative saranno libere di varare ulteriori normative finalizzate a migliorare l'efficacia della gestione dei rifiuti. Per esempio, una recente delibera definisce i requisiti qualitativi per le discariche, allo scopo di aumentare la protezione del terreno, dell'aria e delle

acque superficiali e sotterranee. Per il proprietario della discarica, queste nuove normative potrebbero comportare costi aggiuntivi, che imporrebbero l'aumento delle tariffe.

L'amministrazione della contea, subordinata al Ministero degli Affari Interni, dirige e supervisiona la gestione dei rifiuti, e delibera in merito al rilascio delle autorizzazioni ambientali.

I Centri Ambientali Regionali, subordinati al Ministero dell'Ambiente, sono responsabili dello sviluppo della politica di gestione dei rifiuti a livello regionale. I centri garantiscono la conformità con le disposizioni e le normative della Legge sui Rifiuti. Il Centro Ambientale Regionale è l'autorità competente per le questioni riguardanti la concessione dei permessi per le discariche e gli impianti di smaltimento dei rifiuti, e per la valutazione degli impatti ambientali. I Centri Ambientali Regionali, e la loro organizzazione centrale, l'Istituto Ambientale Finlandese, svolgono inoltre ricerche indzipendenti, prevalentemente con il sostegno del Ministero dell'Ambiente. Le decisioni dei Centri Ambientali hanno forza di legge, e sono vincolanti per le amministrazioni municipali e le aziende impegnate nel settore dello smakimento dei rifiuti. Ciononostante, le amministrazioni municipali hanno il diritto di appello contro eventuali delibere. I Centri Ambientali regionali, grazie al possesso di diritti giuridici e di vaste competenze, sono straordinariamente potenti.

Nelle amministrazioni municipali, l'or-

gano di supervisione è il comitato muni cipale per la tutela dell'ambiente. Le amministrazioni municipali hanno il potere di supervisionare e controllare lo smaltimento dei rifiuti e di prelevare e analizare campioni, riferendo i risultati al Centro Ambientale Regionale e all'ufficio tecnico dell'amministrazione municipale.

Àmministrazione operativa della gestione dei rifiuti La Legge sui Rifiuti impone il trattamento e il riciclaggio dei rifiuti. La prima priorità nell'ambito dell'obbligo di trattamento dei r/iuti è quella del riutilizzo o riciclaggio delle materie prime che compongono i rifiuti. Lutilizzo del contenuto energetico dei rifiuti è la seconda priorità, mentre la combustione dei rifiuti senza recupero energetico e lo smaltimento dei rifiuti in discarica sono da considerarsi come alternative di ultima istanza. Inoltre, la Legge sui Rifiuti impone ricorso alle migliori e commercialmente realizzabili tecnologie per la gestione dei rifiuti.

L'obbligo di utilizzare i rifiuti impone l'utilizzo dei rifiuti, ove questo sia tecnicamente possibile, e ove i costi conseguenti non risultino irragionevoli rispetto allo smaltimento basato su altri metodi.

Fino ad ora, questi obblighi sono stati applicati principalmente ai rifiuti urbani e ai rifiuti che possano essere assimilati a questa categoria. Oggi, nuove normative governative hanno esteso questi obblighi 131

a tutte le discariche della Finlandia, a tutti i rifiuti prodotti da attività edili e ai prodotti da imballaggio.

L'amministrazione operativa e le soluzioni pratiche per la gestione dei rifiuti sono di competenza degli uffici tecnici delle amministrazioni municipali. In mole parti della Finlandia, le amministrazioni municipali si sono riunite tra loro per conferire a un gruppo di aziende impegnate nella gestione o nel trattamento dei rifiuti la responsabilità di attuare le misure pratiche previste dalla legge. Questo dovrebbe avere come conseguenza l'uniformità delle ordinanze per lo smaltimento dei rifiuti e dei principi di selezione, e il trattamento e lo smaltimento in discariche cooperative.

Per quanto riguarda le aziende impegnate nel trattamento dei rifiuti, la distribuzione delle informazioni, la supervisione e le tariffe di raccolta e trasporto dei rifiuti sono curati dalle amministrazioni municipali partecipanti. Nelle aziende impegnate nel trattamento dei rifiuti tutte le attività sono svolte dalle aziende stesse.

Le aziende, che possono essere private o parzialmente o interamente di proprietà delle amministrazioni municipali, operano in base a principi commerciali e di responsabilità dei costi.

In Finlandia sono state create circa 20 aziende municipali impegnate nella gestione dei rifiuti, per la gestione dei rifiuti del settore pubblico e di quello residenziale. La metà circa di queste aziende è già operativa, mentre la parte rimanente deve ancora avviare la propria attività.

132

Solo due aziende di trattamento dei rifiuti sono già in attività (Regione di Vaasa e Regione di Jyvaskyla). Tutte le aziende di gestione e trattamento dei rifiuti sono localizzate nelle aree meridionali e centrali del Paese. Le loro attività coprono circa 150 municipalità e oltre 3 dei 5 milioni di abitanti della Finlandia.

Le rimanenti 300 municipalità di piccole dimensioni non hanno ancora dato una'forma aziendale alla propria attività di gstione dei rifiuti.

Strumenti economici per la promozione della gestione dei rifiuti Lo trumento economico primario che le amministrazioni municipali hanno a propria disposizione per promuovere la gestione dei rifiuti è la tassa di trattamento dei rifiuti prevista dalla Legge sui Rifiuti. L'amministrazione municipale ha il diritto di tassare i residenti, le industrie e le istituzioni per tutte le attività riguardanti la gestione dei rifiuti che vengono organizzate dall'amministrazione stessa. La tassa sul trattamento dei rifiuti è obbligatoria, e deve essere sufficiente per coprire almeno i costi sostenuti per la creazione, l'uso, la chiusura e la dismissione degli impianti di• trattamento. La Legge sui Rifiuti fa riferimento alle politiche di imposizione basate su incentivi come un valido strumento per il raggiungimento degli obiettivi specificati. La tassa di trattamento dei rifiuti dovrà essere tale da incoraggiare la riduzione della generazio-

ne dei rifiuti, e una migliore qualità e impiego dei rifiuti stessi.

La tassa non dovrà necessariamente coprire il costo effettivo di una determinata frazione dei rifiuti; per esempio, il costo effettivo dello svuotamento di un contenitore per la raccolta di rifiuti biologici potrà essere, per ipotesi, di 20 marchi finlandesi, la municipalità ha il diritto di addebitare agli utenti solo 10 marchi finlandesi, e dovrà coprire la differenza attraverso un'altra frazione (per esempio, la frazione smaltita in discarica). In tutti i casi, dovranno essere coperti interamente i costi della gestione dei rifiuti.

Le direttive nazionali sono ancora in via di sviluppo, tuttavia, una delle norme primarie, al momento, prevede che i costi derivanti dalla gestione dei rifiuti debbano essere addebitati ai detentori dei rifiuti stessi. In alcuni casi, tuttavia, è giustificato imporre i costi direttamente al produttore dei rifiuti, in base al principio del ciclo vitale. Nelle recenti decisioni, è stato enfatizzato il modello basato sulla responsabilità del produttore.

Gli obiettivi della tutela ambientale, unitamente a quelli della gestione dei rifiuti, sono inoltre promossi attraverso sussidi e incentivi fiscali. Inoltre, le attività indesiderabili dal punto di vista ambientale possono essere scoraggiate attraverso diverse tasse sui prodotti, depositi cauzionali e altre tipologie di imposizione.

Il Ministero dell'Ambiente può inoltre finanziare progetti di sviluppo e progetti

sperimentali in materia di protezione dell'ambiente. Sovvenzioni e prestiti sono disponibili per la promozione dello sviluppo di nuove tecnologie di gestione dei rifiuti.

Potranno essere accantonati fondi nell'ambito del bilancio pubblico nazionale per consentire al governo di partecipare alla bonifica di aree inquinate. Per queste attività, un prerequisitO essenziale dovrà essere quello di non addossare costi irragionevoli alla municipalità interessate. Attualmente, è in corso di valutazione l'ipotesi dell'adozione di una tassa nazionale sui rifiuti.

Distribuzione di informazioni e atti vitt di consulenza Alle amministrazioni municipali sono affidate le attività di consulenza, divulgazione delle informazioni e formazione nel settore dei rifiuti e della gestione dei rifiuti. L'obiettivo generale della divulgazione di informazioni e delle attività di consulenza è quello di portare l'economia umana più in linea con le necessità della natura, per fare in modo che i consumi umani di risorse e i rifiuti generati non danneggino l'ambiente. Per quanto riguarda le attività di consulenza, la questione più essenziale è quella degli obiettivi della gestione dei rifiuti.

Le attività di consulenza dovranno rispondere in maniera flessibile alle modifiche delle politiche di gestione dei rifiuti e alle modifiche della Legge sui Rifiuti e delle altre normative sulla gestione dei rifiuti.

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LA GESTIONE DEI RIFIUTI NELLA REGIONE DI JYvÀsKYLÀ Cooperazione regionale Jyvaskyla si trova nella Finlandia Centrale, una provincia che ospita 257.000 abitanti su una superficie di 18.800 km 2. Il piano per i rifiuti per la provincia fu messo a punto con, approvazione generale nella prima metà degli anni Novanta (Yli-Kauppila, 1997). L'obiettivo generale del piano è in linea con gli obiettivi definiti dalla Legge sui Rifiuti.

Gli obiettivi particolari per la Finlandia Centrale prevedevano la centralizzazione della gestione dei rifiuti attorno a cinque o sei centri regionali, e la riduzione del numero delle discariche dalle 35 del 1990 ad appena sei entro il 2005.

Nella Finlandia centrale sono stati avviati sette progetti intermunicipali riferiti alla gestione dei rifiuti, e tutte le amministrazioni municipali sono direttamente o indirettamente coinvolte in uno o pRi di tali progetti. Le amministrazioni municipali localizzate nelle aree settentrionali della provincia, scarsamente popolate, non sono molto inclini a prendere l'iniziativa. I principali progetti di cooperazione sono quelli delle aree di Jyvàskylà di Jàmsà-Jamsànkoski. La Regione di Jyvàskylà comprende le municipalità di Jyvaskyla, Zona Rurale di Jyvàskylà, Laukaa e Muurame. Circa 125.000 persone risiedono nella Regione. Il volume di rifiuti destinati alle discariche è pari a 58.000 tonnellate l'anno. La Regione di Jàmsà e Jàmsikoski comprende, oltre a 134

queste due municipalità, le municipalità rurali di Kuhmalahti, Kuhmoinen, Kuorevesi e Langelmald. La regione di Jamsà-Jamsankoski ospita urta popolazione di circa 30.000 persone.

Gli obiettivi della gestione dei rifiuti nella Regione di Jyvaskyla sono i seguenti: ordinanza generale per la gestione dei rifiuti emessa dal Comune di Jyviskylii rappresenterà la struttura di base per le ordinanze uniformi per la gestione dei rifiuti e i principi di selezioné nel distretto Jyvàskyl Un impianto di lavorazione e discariche comuni per i rifiuti solidi urbani saranno istituiti per le municipalità partecipanti, consentendo così la riduzione del numero delle discariche, in conformità con i piani di sviluppo regionali Le principali attività saranno concentrate nell'impianto di trattamento dei rifiuti di Mustankorkea, a Jyvàskylii, per ridurie al minimo i costi di trasporto Almeno per la gestione dei rifiuti, la cooperazione sarà estesa al di fuori della regione di Jyvàskylii, se le amministrazioni municipali si dichiareranno interessate all'idea e pronte a impegnarsi in un progetto di cooperazione a lungo termine.

Le amministrazioni municipali della Regione di Jyvàskylà hanno agito in base a direttive stabilite in collaborazione con i responsabili ambientali del Centro Arnbientale Regionale della Finlandia centrale. I piani regionali sono stati messi a punto ipotizzando che l'altezza della discarica di Mustankorkea potesse essere aumentata di 237 metri rispetto al livello di base. Questo avrebbe garantito alla discarica una vita utile di 50 anni, un periodo di lùnghezza tale da consentire che l'area di discarica di riserva di Ton-

tunvuori, fortemente contestata a livello locale (20 km ad ovest di Jyva.skyla) potesse essere esclusa dal piano.

Jyvàskyla e le amministrazioni municipali confinanti (l'Area Rurale di Jyvàskyla, Laukaa e Muurame) hanno di recente stipulato una intesa con Vapo Oy Biotech riguardante la cooperazione nell'ambito della gestione dei rifiuti. Ai fini del trattamento dei rifiuti, alla fine del 1997, fu istituito l'impianto di Mustankorkea Oy. Le discariche situate nell'area Rurale di Jyvàskylà e nella municipalità di Laukaa cesseranno le attività, e tutte le attività di discarica saranno concentrate a Mustankorkea, impianto della cui cura sarà responsabile l'azienda. Inoltre, l'azienda si occuperà del trattamento dei rifiuti biologici separati alla fonte e dei fanghi di depurazione digeriti, della Regione di Jyvaskyla, all'interno di un impianto di compostaggio, e riceverà i rifiuti secchi presso il proprio impianto di selezione meccanica, dove la frazione secca sarà riciclata con la produzione di combustibile. Indirettamente, le amministrazioni municipali di Hankasalmi, Toivakka e Korpilahti sono anch'esse coinvolte nel progetto Jyviskyld. In futuro, la cooperazione potrà essere estesa fino a comprendere le comunità di Petàjàvesi, Uurainen, Leivonmalci e Joutsa.

Selezione e raccolta dei rifiuti aJyvaskyla In base a quanto disposto dalla Legge sui Rifiuti, le amministrazioni municipali sono tenute a organizzare la raccolta e il

trasporto dei rifiuti. Tra gli obiettivi specifici che dovranno essere raggiunti entro il 2005 nella città di Jyvaskylà vi sono l'aumento del livello di riciclaggio di carta e cartone fino al 75%, di vetro e metallo fino al 60%, dei prodotti tessili fino al 50%, dei rifiuti biologici fino al 75% e dei rifiuti legnosi puliti fino al 90%.

No rmati ve di selezione. In base alla Legge sui Rifiuti e all'ordinanza generale sulla gestione dei rifiuti emessa dal comune di Jyvàskylii, il produttore dei rifiuti è tenuto a selezionare i rifiuti.

Dopo una attenta valutazione dei risultati ottenuti attraverso gli esperimenti pratici, l'ordinanza del Comune di Jyviiskylà sulla gestione dei rifiuti è diventata la pii severa di tutta la Finlandia: tutti i residenti sono tenuti a separare alla fonte i propri rifiuti. Per garantire il rispetto dell'ordinanza, una forte enfasi è stata posta sulla motivazione dei residenti alla separazione dei rifiuti attraverso campagne pubbliche di informazione. Oggi i residenti separano i rifiuti in Otto frazioni: a) rifiuti biologici, b) rifiuti secchi, c) carta e cartone, d) vetro, e) metallo, O prodotti tessili, g) rifiuti pericolosi e h) contenitori usati di latte e succhi.

Nell'ambito del Comune di Jyviskylii, il Dipartimento Gestione Rifiuti dell'Ufficio Servizi Tecnici organizza la raccolta di rifiuti riciclabili per i condomini residenziali, per le unirà abitative indipendenti, e per i punti di raccolta locali.

Gli edifici residenziali sono tenuti a dotarsi di bidoni separati per le diverse frazioni dei rifiuti, e il numero dei bidoni dipende dal numero di unità abitative del complesso e dal volume di rifiuti prodotto. Le frazioni dei rifiuti vengono prevalentemente raccolte mediante bidoni da 240 e 600 litri. I bidoni possono essere di proprietà del complesso residenziale o possono essere noleggiati. A Jyvaskylii, i bidoni sono venduti nei negozi di ferramenta e di giardinaggio, 135

e dalle aziende appaltatrici dei servizi di trasporto, che inoltre noleggiano i bidoni.

Punti di raccolta locali. Il Dipartimento Gestione Rifiuti dell'Ufficio Servizi Tecnici ha istituito una rete urbana di punti di raccolta dei rifluti riciclabili. La rete comprende 96 punti di raccolta, la metà circa dei quali è coperta da una tettoia e 19 dci quali circondati da una recitizione. Questa rete di punti di raccolta è la oiù articolata del paese: si contano appena 800 residenti per ciascun punto. Per garantire l'effìcienza della separazione alla fonte, è importante che i puliti di raccolta siano localizzati nel moda di più facile fruizionc.

I punti di raccolta sono destinati ai residenti delle unità abitative indipendenti e dei condomini residenziali più piccoli. Presso ciascun punto si trovano bidoni per carta, vetro, roctallo, batterie e prodotti tessili. i bidoni vengano svuotati una volta alla settimana. il lavoro di svuotarncnto e di selezione dci bidoni per i prodotti tessili e le batterie viene svolto in appalto dal Laboratorio Giovani. Le informazioni su j yviskylá sono disponibili presso il consulente comunale in materia di rifiuti, sulla Guida ai rifiuti di Jyvsky1, su Internet e presso l'EkoCentre.

Trasporto dei rfìuti aJyviis/e'yld Il trasporto dei rifiuti può essere organizzato in due modi: o l'intera muniCipalirà (la legge assegna la priorità alla municipalità) o i residenti, scpararamcri te (qualora la municipalità d;avesse dccidere in tal senso), stipulano conrratri con la società di trasporto. In entrambi i casi, la municipalità p«otta iidluirc sulle tariffe, i materiali raccolti e l'area di raccolta. A Jyvskyl, il traspbno di tutti i rifiuti viene organizzato dalla città; nella quasi totalità delle altre i iunicipa!ità della Finlandia centrale il trasorro viene:.

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garantito sulla base di contratti tra i residenti e le società di trasporto.

Nell'ambito del trasporto dei rifiuti organizzato dall'amministrazione municipale, il trasporto viene appaltalo attraverso gare distinte in base alle aree di raccolta. A Jyviiskylà, le dimensioni dell'area di raccolta sono state definite come quelle di un'area che possa essere servita da almeno un camion per la raccolta dei rifiuti. Le singole frazioni dei rifiuti, sono stare divise, ai fini della gara d'appalto, in due categorie: frazioni riciclabili come carta, cartone, vetro e metallo, che vengono immagazzinate in un deposito intermedio a Jyviiskyliii e quindi trasportate altrove, e i rifiuti municipali come i rifiuti biologici e i rifiuti secchi, che vengono trasportati a I\4ustankorkea, dove vengono trattati. Sia il trasporto a Musrankorkea sia il trasporto al deposito intermedio sia l'ulteriore trasporto per il trattamento sono stati appaltati tramite gara nel 1996.

Iii base alle condizioni contrattuali, la società di trasporto selezionata (la WMEnvi ron rnental Services) è responsabile del ricevimento dei rifiuti riciclabili, dello stoccaggio intermedio e dcl trasporto verso gli impianti di lavorazione.

I ijfiutj riciclùbili raccolti vengono immagazzinati dalla sociei 't appai rarrice scparatùmente e vengono imballati secondo k istruzioni prima di essere inviati agli impianti di lavorazione, dove saranno utilizzati com'e ir.aterie prime o come fonti energetiche. I rifiuti destinati allo smairimento in cliscarica vengono

diretti verso l'impianto di Mustankorkea, e i rifiuti pericolosi verso l'impianto di trattamento dei rifiuti pericolosi Ekokem, a Riihimiiki.

Nel 1997, è stato realizzato un confronto dei sistemi di trasporto basato sui costi di svuotamento per i bidoni dei rifiuti secchi. Il confronto comprendeva Jyvàskyla, altre due municipalità finlandesi, dove il trasporto era organizzato dall'amministrazione municipale e una municipalità dove la raccolta era affidata a ditte appaltatrici. In tutti i casi, i residenti delle unità abitative indipendenti avevano scelto di effettuare autonomamente il compostaggio dei propri rifiuti biologici, e quelli degli edifici con pi appartamenti avevano scelto di selezionare i rifiuti prodotti nelle frazioni dei rifiuti biologici e dei rifiuti secchi, ed entrambe le frazioni venivano trasportate verso gli impianti di lavorazione. Le Tabelle i e 2 dimostrano chiaramente la superiorità del sistema di trasporto adottato a Jyvàskyla.

Recupero e utilizzo dei rifiuti La discarica di Mustankorkea, a Jyvaskylà, fu inaugurata nel 1963. Laccumulo annuo dei rifiuti viene illustrato nella Tabella 3. La discarica si trova ad appena sei chilometri dal centro di Jyvaskyla, e a un chilometro da un'area residenziale attualmente in costruzione. La vicinanza al centro urbano impone determinati vincoli alle attività. Per esempio, gli odori eccessivi non possono essere tollerati, e il compattamento dei rifiuti deve essere

tale da impedire la sopravvivenza di ratti all'interno della discarica.

La quantità di rifiuti urbani smaltiti in discarica, tra il 1980 e il 1985, è stata di circa 21.000-25000 tonnellate. In seguito, le quantità hanno iniziato a crescere, raggiungendo le 30.900 tonnellate già nel 1987, circa 32.800 tonnellate nel 1988 e circa 34.300 tonnellate nel 1989.

Lanno in cui si è registr"to il massimo livello di rifiuti smaltiti in discarica è stato il 1990.

Nel 1996, lo smaltimento di rifiuti urbani provenienti dal comune di Jyvàskylà si ridusse a 19.900 tonnellate, per poi scendere ancora a 17.000 tonnellate nel 1997. La città di Korpilahti iniziò a smaltire i propri rifiuti nella discarica di Mustankorkea nel 1995, e le città di Leivonmàki e Joutsa nel 1997, pertanto la quantità totale dei rifiuti urbani smaltiti in discarica nel 1996 e nel 1997 rimase ferma a circa 23.000 tonnellate.

a) Riutilizzo di prodotti tessili e altri materiali Attraverso il riciclaggio, i materiali vengono riutilizzati prima dello smaltimento definitivo in discarica, aumentando così il loro ciclo di vita. Il riciclaggio, inoltre, è in linea con l'obiettivo primario della riduzione delle quantità di rifiuti smaltiti in discarica. È stato istituito un rapporto di collaborazione tra il Dipartimento gestione rifiuti dell'Ufficio Servizi Tecnici di Jyvaskylà e il Laboratorio Giovani del comune, nell'ambito del quale il Laborato137

Tabella i - Prezzi di svuotamenro (5,5 marchiflnlandesi = $ usa 1) per i bidoni dei rfiuri secchi per dimensione dei bidoni e tipologia di raccolta, aJyvdskylli e nel resto della Finlandia nel 1997.

Raccolta organizzata dall'amministrazione municipale

Raccolta concessa in appalto

Jyviskylii

Finlandia

Finlandia

13 13 21

14,75 16,45 26,48

17,33 19,23 31,79

Sacco rifiuti da 240 I Bidone 240 I Bidone 6001

Tabella 2 - Costi di svuotamento annuali (espressi in marchi Jìnlandesi) per bidoni dei rifiuti secchi di edifici residenziali apiù appartamenti e unitiì abitati ve in4endenti aJyvàskyl/i e nel resto della Finlandia nel 1996.

Jyváskyiá Resto della Finlandia

Condomini

Unità indipendenti

2.840 4.349

338 408

Tabella 3 - Accumulo di rifiuti (tonnellate) nella discarica di Mustankorkea negli anni 1980-1 997 Anno

Rifiuti urbani

Rifiuti edili e industriali

Rifiuti speciali

Terra di riporto

Totale

1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997

22.785 23.821 25.278 22.760 22.373 21.269 24.907 30.886 32.848 34.282 41.562 37.830 29.061 27.547 26.374 26.987 22.916 22.842

37.344 36.806 37.865 31.982 38.126 42.905 50.115 49.464 47.654 54.830 75.961 49.460 28.792 27.022 23.389 22.909 20.889 15.991

3.112 3.682 4.550 3.686 4.125 6.015 8.523 8.126 7.703 8.677 3.542 3.019 2.582 2.426 2.217 2.419 2.526 1.980

124.286 64.302 52.883 46.258 51.597 42.889 45.420 66.648 72.881 64.875 52.445 37.416 16.329 18.003 23.529 41.814 40.937 27.818

187.527 128.611 120.576 104.686 116.221 113.078 128.965 155.124 161.086 162.664 173.510 127.725 76.764 74.998 75.509 94.129 87.268 63.631

473.486

675.513

76.930

862.751

2.088.680

Totale

.

terra di rzporto, terra contaminata da prodotti petroliferi e altre sostanze inquinanti

138

rio Giovani si impegna, a condizioni di cottimo, a svuotare i bidoni dei prodotti tessili e delle batterie situati presso i condomini di proprietà statale, e a distribuire opuscoli informativi e altri materiali riguardanti la gestione dei rifiuti. I prodotti tessili raccolti vengono trasportati presso il Laboratorio Giovani, dove vengono selezionati. I prodotti tessili di qualità migliore vengono inviati presso l'EkoCenter per la rivendita, mentre i materiali di scarsa qualità vengono ridotti in trucioli per essere utilizzati come materie prime secondarie nella fabbrica di tappeti.

LEkoCenter è un centro di riciclaggio rivolto ai consumatori, gestito dal Centro Servizi Tecnici di Jyvaskylà con personale del Laboratorio Giovani. Le responsabilità del Laboratorio Giovani presso l'EkoCenter sono le seguenti: Ricevere prodotti tessili puliti, mobili idonei per la rivendita, attrezzature sportive, giocattoli, libri e altro materiale riciclabile, e vendere i materiali e i prodotti tessili idonei per essere riutilizzati. Ai clienti residenti nell'area urbana viene fornito un servizio gratuito di trasporto; informare e consigliare i residenti sul riutilizzo e il riciclaggio dei diversi materiali con seminari per gruppi sul riciclaggio e il compostaggio. L'EkoCenter, inoltre, divulga informazioni riguardanti la gestione dei rifiuti in generale.

I prodotti tessili e gli altri prodotti usati vengono, inoltre, venduti e scambiati in numerosi negozi per articoli di seconda mano, mercati di atiquariato e mercatini

delle pulci. In alcuni condomini di grandi dimensioni, è presente una sala di riciclaggio, o degli scaffali di riciclaggio installati nel locale per i rifiuti, che svolgono la funzione di punti di riciclaggio locali: Prodotti e vestiti usati possono inoltre essere riciclati tra amici e parenti.

Tra i prodotti di "antiquariato" vi sono prevalentemente dischi, cassette, libri e riviste, tuttavia, la gamma di prodotti reperibili nei negozi di articoli di seconda mano e nei mercatini delle pulci è molto più ampia.

Numerose organizzazioni effettuano raccolte una-tantum. Per esempio, a Natale, la Croce Rossa raccoglie vestiti, scarpe e altri prodotti in buono stato.

Metodi per aumentare la raccolta di prodotti tessili a Jyvàskylà: I. aumentare il numero di bidoni per la raccolta di prodotti tessili presso i punti di raccolta; Informare gli utenti, attraverso i giornali e i volantini, sui vecchi e nuovi punti di raccolta e sul centro di riciclaggio EkoCenter; incoraggiare le famiglie, e in particolare le famiglie con bambini, a riutilizzare i prodotti tessili e a visitare i mercatini delle pulci attraverso articoli sui giornali rivolti alle famiglie con fìgli.

Nel 1997, i prodotti tessili riciclati attraverso i punti di raccolta di jyváskyiá rappresentavano il 7% (o 26 tonnellate) del totale dei prodotti tessili riciclati. Il percorso principale dei prodotti passava attraverso l'EkoCenter.

b)Utilizzo di carta e cartone Ogni anno in Finlandia vengono raccolte circa 500.000 tonnellate di carta e cartone. Questa quantità è pari alla produzione di una grande cartiera. Il tasso di raccolta è oggi pari al 61%, ma si pre139

vede che, attraverso sforzi maggiori, potranno essere raccolte ulteriori 100.000 tonnellate, portando così il tasso a circa il 75%. In Germania e in Austria, l'indice della raccolta di carta e del cartone è pari al 71%. Considerato che la densità di popolazione della Finlandia è pari a circa un sedicesimo di quella tedesca, il livello di raccolta raggiunto in Finlandia deve essere considerato eccellente. La raccolta di carta è già realizzabile a condizioni commerciali.

A Jyvàskylà, la carta e il cartone vengono raccolti separatamente nei flussi dei rifiuti industriali e istituzionali, e congiuntamente nella raccolta dei rifiuti residenziali. WM Environmental Services gestisce un impianto di trattamento per carta e cartone, nell'ambito del quale i rifiuti, e in particolare i rifiuti residenziali, vengono selezionati manualmente e suddivisi nelle frazioni di carta e cartone.

La quantità di carta e cartone raccolta tra i rifiuti residenziali è stimata tra le 4.000 e le 5.000 tonnellate annue, e la quantità raccolta tra i rifiuti istituzionali e industriali è grossomodo identica (vd.

Figura 1). Inoltre, WM-ES cura il trattamento dei rifiuti cartacei provenienti dalle case editrici, pertanto la quantità totale di carta e cartone trattati da WMSE è pari a circa 13.000 tonnellate. Le due frazioni vengono utilizzate come materie prime secondarie come segue: 1. la carta raccoltaviene trasportata presso una cartiera a Jamsa, dove viene trasformata in carta per giornali e carta igienica; 140

2. il cartone che viene separato dalla carta viene inviato presso un impianto per la fabbricazione di cartone a Pori, che lo trasforma in cartone e carta da imballaggio.

Modi per aumentare la raccolta di carta e cartone aJyuiiskylii I. Aumentare il tasso di recupero della carta negli insediamenti più isolati, istituendo un numero maggiore di punti di raccolta per i rifiuti cartacei utilizzabili in posizioni facilmente raggiungibili.

Mettere a punto un programma di sensibilizzazione rivolto alle famiglie, riguardante la raccolta e selezione della carta e i punti di raccolta.

Rendere più efficace la raccolta della carta per le unità abitative più piccole e indipendenti, aumentando il numero dei bidoni per la carta.

Incoraggiare gli esercizi commerciali e l'industria (con particolare riguardo alle piccole e medie imprese) attraverso iniziative di consulenza e informazione a rendere più efficace la raccolta di carta e cartone, in conformità con la direttiva UE sugli imballaggi usati. Dovrebbero essere distribuite le istruzioni per la selezione di carta e cartone.

Aumentare l'efficienza della raccolta della carta nelle municipalità nelle quali il tasso di recupero risulti inferiore alla media nazionale.

c) Utilizzo del vetro In Finlandia, la quantità annua di rifiuti vetrosi provenienti da barattoli e bottiglie è pari a 52.000 tonnellate. La maggior parte dei rifiuti vetrosi viene generata dalle famiglie, dagli ospedali e dalle aziende di imbottigliamento. Nel 1994, il tasso di recupero risultava pari al 53%, ma solo il 38% del totale veniva riutilizzato o reintrodotto nella produzione come materia prima. La parte eccedente

viene ora immagazzinata presso i depositi intermedi delle aziende responsabili della gestione dei rifiuti, e in altri luoghi.

Si prevede che entro il 2001 le industrie produttrici di imballaggi in vetro e lana di vetro saranno in grado di innalzare i propri livelli complessivi di utilizzo del vetro riciclato di 10.000 tonnellate, un dato che porterebbe al 48% il tasso di riutilizzo. Potenzialmente, dal 69% al 97% di tutto il vetro usato in Finlandia potrebbe essere utilizzato come materia prima secondaria nelle industrie produttrici di imballaggi in vetro e lana di vetro.

In Finlandia, i sistemi di riciclaggio del vetro stanno funzionando bene, e sono divisi in due tipologie principali: sistemi con vuoto a rendere e sistemi di raccolta.

I sistemi con vuoto a rendere coprono la maggior parte delle bottiglie in vetro (bevande alcoliche, bevande gassate) in circolazione. Il tasso di recupero delle bottiglie di birra e di bevande gassate è risultato particolarmente elevato, con una media del 96-98%. A livello nazionale, il recupero di altre tipologie di bottiglie e barattoli in vetro attraverso la raccolta è risultato compreso tra il 5 e il 37%.

I costi fissi del riciclaggio del vetro comprendono i costi degli investimenti, della manutenzione per i bidoni per la raccolta e degli altri servizi (sistema con vuoto a rendere), il trasporto ai depositi intermedi e la selezione. Attualmente, il vetro proveniente dal sistema di raccolta viene consegnato all'impianto di lavorazione

del vetro di Stenberg, a Jokioinen, per la selezione o la riselezione, automatica, in due frazioni, il vetro bianco e il vetro colorato. Il vetro viene quindi consegnato alla locale fabbrica di vetro, dove viene fuso e trasformato in vetro per imballaggi o in lana di vetro.

I costi del sistema con vuoto a rendere sono pari a 800-1.200 marchi finlandesi per tonnellata. I costi per la manutenzione dei bidoni per la raccolta del vetro sono stimati attorno a 700-1.300 marchi finlandesi per tonnellata, e il costo della raccolta presso le abitazioni e le istituzioni è di 1300-1700 marchi per tonnellata (Vuoksimaa 1996). A Jyvaskyla, il costo di trasporto e la tariffa per l'impianto di lavorazione del vetro di Stenberg, complessivamente, sono pari a circa 300 marchi finiandesi per tonnellata.

Fino ad oggi, le amministrazioni municipali hanno coperto la maggior parte dei costi di riciclaggio. Tuttavia, le aziende responsabili della gestione dei rifiuti, alle quali la responsabilità è già stata assegnata o lo sarà presto, devono operare in base a criteri commerciali e di responsabilità dei costi. In futuro, il riciclaggio del vetro sarà coordinato in base al principio della responsabilità del produttore, e i costi dovranno essere coperti attravers 9 l'imposizione di una tassa di riciclaggio sugli imballaggi in vetro.

Secondo i dati di Vuoksimaa (1996), i rifiuti vetrosi rappresentano solo il 2% circa dei rifiuti urbani, ed appena il 34% dei rifiuti delle zone residenziali. Di fatto, quindi, i rifiuti vetrosi non rappre141

sentano un problema significativo dal punto di vista delle discariche, e il loro riutilizzo diretto non genera grandi risparmi nella gestione dei rifiuti. L'importanza è piuttosto indiretta: la frazione secca dei rifiuti rimanente è pRi idonea per la combustione ad alte temperature quando la frazione vetrosa è stata rimossa. Pertanto, la separazione del vetro dal flusso dei rifiuti è un'operazione sensata (Vuoksimaa 1996).

Nei sistemi di raccolta di Jyvàskylà (escludendo il vetro del sistema con vuoto a rendere), il tasso stimato di recupero è compreso tra il 26 e il 46%. I dati sono i seguenti: I. nel 1997 la quantità di vetro raccolto è stata pari a 292 tonnellate; nel 1997 circa 16.962 tonnellate di rifiuti solidi urbani sono state smaltite in discarica a Jyvaskylà; stando a una ricerca del 1994, effettuata dal Centro Ambientale Finlandese, il vetro rappresenta circa il 5% dei rifiuti urbani smaltiti in discarica; ipotizzando che questa percentuale valga anche per Jyvskylai, nel 1997 la quantità di vetro tra i rifiuti urbani smaltiti in discarica era pari a 0,05% 16.962 t = 848 t, e la quantità totale di rifiuti vetrosi risultava pari a 292 t + 848 t = 1.140 t, con un tasso di recupero del 26%; Vuoksimaa stima che il vetro rappresenti appena il 2% dei rifiuti urbani smaltiti in discarica, e utilizzando invece i suoi dati, l'efficienza del riciclaggio del vetro a Jyvàskylà salirebbe al 46%. L'andamento delle quantità di vetro ricevute 142

a Jyvaskylà negli anni compresi tra il 1990-1997 è illustrato nella Figura 3.

IVietodi per aumentare il recupero del vetro a Jyviiskyld I. Aumentare il numero dei bidoni per la raccolta del vetro nelle aree meno abitate e nelle municipalità confinanti di dimensioni minori. fornire informazioni e conulenza alle famiglie e alle piccole e medie imprese in maniera più efficace; studiare la fattibilità dell'istituzione di depositi intermedi e punti di raccolta più grandi, e dell'organizzazione economica di un sistema di trasporto cooperativo dai diversi distretti all'impianto di ricevimento del vetro; trovare nuovi utilizzi per il vetro riciclato (per esempio, come materiale da costruzione).

ci) Utilizzo del metallo In Finlandia, i rifiuti metallici vengono innanzitutto consegnati a una società, la Kuusakoski Oy, che li ridistribuisce agli impianti di riciclaggio del metallo. Qui i metalli vengono fusi e trasformati in componenti per auto e telefoni. Le stime indicano che ben il 95-98% del metallo industriale viene riutilizzato. Pertanto, i metalli smaltiti in discarica derivano principalmente dal settore residenziale, da quello dei servizi (piccoli esercizi commerciali, uffici), e dall'agricoltura.

L'andamento delle quantità di rifiuti metallici ricevute a Jyvaskylà negli anni 1990-1997 è illustrato nella Figura 4. ivletodi per aumentare il recupero dei metalli a Jyvdsky& I. Organizzare, in primavera e in autunno, sessioni di raccolta speciali, almeno nelle aree me-

no densamente popolate. Queste attività potrebbero essere condotte congiuntamente alla raccolta dei rifiuti pericolosi.

Rendere la rete di punti di raccolta esistente più efficace, aumentando il numero dei bidoni di raccolta e, se necessario, posizionandoli in maniera più strategica.

Modificare l'ordinanza comunale per la gestione dei rifiuti, imponendo che i bidoni per la raccolta dei metalli siano obbligatori per tutti gli edifici residenziali formati da cinque o più appartamenti.

Istituire un sistema per la raccolta separata del metallo nelle municipalità confinanti.

Sviluppare macchinari di compattazione per le lattine metalliche, per ridurre i problemi di stoccaggio, gli spazi necessari per la raccolta e i costi di trasporto. Le apparecchiature di compattazione dovrebbero essere sperimentare presso uno o più punti di raccolta.

e) Lavorazione e utilizzo dei rfìuti biologici Attualmente, tutti i 75.500 residenti di Jyvàskylà stanno partecipando alla raccolta organizzata dei rifiuti biologici.

Circa 11.500 residenti hanno deciso di effettuare il compostaggio dei propri rifiuti biologici in piccoli impianti di compostaggio, e pagano una tassa ridotta per lo smaltimento dei rifiuti, mentre la parte rimanente partecipa alla raccolta centralizzata dei rifiuti biologici.

Durante il primo anno della separazione alla fonte, si sono registrate tre sorprese positive: 1) i residenti di circa il 50% delle unità abitative indipendenti della città optarono per il compostaggio; 2) i rifiuti biologici si rivelarono sorprendentemente puri, con un contenuto stimato di materiale non idoneo al compostag-

gio inferiore allo 0,1% in termini di peso; 3) l'efficienza media della raccolta dei rifiuti biologici è stata de! 75%.

Attualmente, l'efficienza "normale" in altre città finlandesi è del 50%. Le ordinanze, in questi altri centri urbani, richiedono la separazione alla fonte solo per gli edifici formati da un minimo di 8-10 appartamenti. L'attuale efficienza della raccolta dei rifiuti biologici è del 50% anche in Germania. Nel 1995, in Germania, la raccolta è stata di 2,0 milioni di tonnellate, ma si prevede che aumenterà a 4,0 milioni di tonnellate entro il 2000, a 5,7 milioni di tonnellate entro il 2005 e a 6,7 milioni di tonnellate entro il 2010 .(Unswelt Magazine, 1998).

I rifiuti biologici vengono trasportati all'impianto di Mustankorkea e compostati in cumuli all'aria aperta. La prossimità con il centro urbano impone l'assenza di cattivi odori. L'adeguata aerazione dei cumuli era inizialmente garantita mediante l'uso di grandi quantitativi di agenti di rigonfiamento. In media, in estate e in autunno, le temperature di compostaggio di 55-65°C vengono raggiunte entro due settimane; in inverno, il compostaggio attivo ha inizio entro 45 settimane. Nella primavera e nell'estate del 1998, sono state spesso raggiunte temperature superiori agli 85°C. Per la maggior parte del tempo i livelli degli odori presso i campi di compostaggio sono stati soddisfacenti, e le aree residenziali circostanti non hanno registrato alcun problema legato a cattivi odori.

143

Metodi per aumentare l'efficienza della selezione dei rfìuti biologici aJyviiskylii In collaborazione con il personale dell'impianto di Mustankorkea, organizzare una giornata nella quale i rifiuti dei giardini e i rifiuti verdi vengano ritirati gratuitamente presso l'impianto.

Promuovere il compostaggio in sede su piccola scala, in particolare presso gli edifici residenziali formati da più appartamenti e le unità abitative monofamiliari distribuendo informazioni sui dispositivi di compostaggio idonei alle necessità specifiche, unitamente a informazioni sui rivenditori, le aziende di noleggio e l'utilizzo dei dispositivi di compostaggio. Questo potrebbe essere realizzato attraverso i giornali e le radio.

Incoraggiare il compostaggio, fissando le tariffe per i rifiuti contenenti rifiuti biologici a livelli più elevati rispetto a quelle dei rifiuti privi di rifiuti biologici.

Incoraggiare i residenti delle unità abitative indipendenti a dotarsi di bidoni per la raccolta del rifiuti biologici.

Programmi di informazione mirati specificamente ai diversi gruppi di destinazione, con la fornitura permanente di informazioni attraverso un servizio telefonico, articoli di giornali e bollettini acclusi alle bollette.

dei rifiuti della Finlandia centrale, nel 1994 il tasso stimato di utilizzo del legname di scarto è stato pari a circa il 40%. A Jyvàskyla, la quantità di legname pulito all'interno dei rifiuti smaltiti in discarica è del 6% circa, pari a 1.000 tonnellate. Facendo riferimento a questi dati, a Jyvàskylà, nel 1997, circa il 60% dei rifiuti legnosi puliti è stato utilizzato.

I rifiuti legnosi vengono smaltiti in discarica non solo con i rifiuti urbani, ma anche con i rifiuti edili, pertanto il tasso effettivo di utilizzo è stato stimato come pari ad appena il 50%. Le quantità di rifiuti legnosi puliti raccolte a Jyvàskyla negli anni 1990-1997 sono evidenziate nella Figura 6. In aggiunta a queste quantità, circa 5.000 tonnellate di rifiuti legnosi provenienti dal settore delle costruzioni vengono trasformate da WM Environmental Services in combustibile, che viene utilizzato nelle centrali di Tikkakoski (nel Distretto Rurale di Jyvskylà) e Keuruu (60 km a ovest di Jyvàskyl).

f) Lavorazione e utilizzo dei rifiuti edili•

Metodi per aumentare il recupero dei rifiuti legnosi puliti aJyviiskyla

Fino ad oggi, i rifiuti edili sono costituiti dá rfluti legnosi puliti, che vengono consegnati alla ditta di trasporto (WM Environmental Services) o direttamente all'impianto di Mustankorkea da parte dei detentori dei rifiuti. Presso l'impianto di Mustankorkea, i rifiuti legnosi vengono ridotti in trucioli da utilizzare come agente di rigonfiamento nel compostaggio.

In base al piano regionale per la gestione

I. Istituire un servizio per la fornitura di consulenze e informazioni agli operatori del settore edile.

Organizzare sessioni generali di formazione riguardanti la gestione dei rifiuti edili.

Aumentare le tariffe di discarica per i rifiuti edili non selezionati.

Controllare meglio la selezione dei rifiuti edili.

I metodi più efficaci per aumentare la quantità e la qualità del recupero dei riauti legnosi, e di fatto anche il recupero di tutti i rifiuti edili, passano attraverso le normative nazionali in

144

materia di criteri adeguati di selezione. Entro il 2000, una media del 50% dei rifiuti edili dovrà essere utilizzata. Nuove normative regoleranno i progetti edili nell'ambito dei quali la quantità di rifiuti superi le 5 tonnellate o la quantità di rifiuti terrosi, pietrosi e provenienti da operazioni di drenaggio superi le 800 tonnellate. Le frazioni dei rifiuti definite dalle nuove normarive sono: 1) cemento, mattoni, ceramiche e rifiuti gessosi, 2) rifiuti legnosi impregnati, 3) rifiuti metallici, e 4) rifiuti terrosi, pietrosi e provenienti da attività di drenaggio. Queste frazioni di rifiuti dovranno essere mantenute separate tra loro e dagli altri rifiuti. La collaborazione tra le varie parti coinvolte in un progetto edile nella pianificazione ed esecuzione del progetto stesso dovrà essere intensificata, allo scopo di ridurre le quantità di rifiuti.

g) lavorazione e utilizzo della frazione secca dei rifiuti Attualmente, la Finlandia è dotata di circa 40 impianti con caldaie a griglia e a letto fluido (con insuffiazione d'aria o a gorgogliamento) nei quali il REF (recycled energy fuel, combustibile riciclato) viene bruciato come combustibile secondario. L'efficienza energetica delle caldaie a letto fluido (con insufflazione d'aria o a gorgogliamento) è pari aI 90% in caso di cogenerazione di calore, vapore ed elettricità per il distretto.

Non si prevede che la qualità del combustibile a base di rifiuti possa rappresentare un problema in relazione agli impianti di produzione di energia distrettuali e regionali, tuttavia, la richiesta di qualità risulterà piie1 forte nelle grandi centrali che producono vapore ed elettricità.

Recenti esperimenti hanno dimostrato l'idoneità delle caldaie a letto fluido per la combustione del REF. Considerato che numerose centrali elettriche in Finlandia sono dotate di queste caldaie, la necessità di investimenti ulteriori dovrebbe rivelarsi molto contenuta. I materiali combustibili rappresentano circa il 50% del volume dei rifiuti smaltiti in discarica, ma in una centrale di grandi dimensioni la proporzione di REF come combustibile secondario non può superare il 3-7% circa nell'alimentazione simultanea con il combustibile principale. Pertanto, il REF avrebbe scarsa importanza per le centrali, ma grande importanza per la discarica. Comunque, un impianto che utilizzi il REF goderebbe di un significativo vantaggio in termini di immagine.

Le autorità e l'opinione pubblica dovranno approvare l'uso del REF. Dovranno essere convinte che le emissioni di composti organici volatili sono basse. I proprietari e il personale della centrale saranno soddisfatti se il REF risulterà più economico del combustibile principale (torba o trucioli di legno), e se il suo impiego non comporterà un aumento dei rischi tecnici per l'impianto.

Il contenuto di cloro del combustibile è un fattore determinante nella combustione ad alta temperatura, a causa dei rischi di corrosione. Pertanto una presenza eccessiva di cloro nella frazione dei rifiuti secchi potrebbe rappresentare un problema. Il contenuto di cloro potrebbe essere ridotto durante la fase di separazione alla fonte, attraverso l'eliminazione dei materiali in Pvc, e durante la fase di trattamento presso l'impianto attraverso lo sviluppo e l'uso di dispositivi di frazionamento specifici.

I rischi e la necessità di nuovi investimenti non potranno mai essere eliminati completamente.

Le società elettriche, di certo, richiederanno che il fornitore del REF si assuma la responsabilità in relazione all'omogenekà e alla sicurezza del combustibile. Per evitare rischi, e per aumentare la sicurezza del REF, sono attualmente in via di sperimentazione delle metodologie per l'isti145

500 420

436

400

300

200

100

I_._I

O -I--a 1990

1991

1992

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1995

1996

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Figura i - Raccolta di carta e cartone riciclati (tonnellate) aJyvàsky//i negli anni 1990-1997

500

400

300

300

292

1996

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90191

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o 1990

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1993

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1995

Figura 2— Andamento delle quantità ricevute di rifiuti vetrosi (tonnellate) a Jyv/iskyl/i negli anni 1990-1997.

146

500

400

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MIVI

100

0 1990

1991

1992

1993

1994

1995

1996

1997

Figura 3—Andamento delle quantità ricevute di rifiuti metallici (tonnellate) aJyv/iskyld negli anni 1990-1997.

2000

1600

1200

800

400

o 1990

1991

1992

1993

1994

1995

1996

1997

Figura 4— Quantità di rfluti legnosi puliti ('tannellate) raccolti aJyvàs/eylt negli anni 1990-1 997.

147

tuzione di criteri standard finiandesi per le frazioni di combustibile da rifiuti.

La frazione secca dei rifiuti corrisponde ai rifiuti residui dopo la separazione dei prodotti tessili, di carta e cartone, dei rifiuti biologici, del vetro, del metallo e dei rifiuti legnosi puliti. Questa frazione consiste prevalentemente di prodotti da imballaggio usati. Attualmente, questa frazione viene smaltita in discarica, tuttavia il suo utilizzo come fonte energetica è uno degli obiettivi principali per la gestione dei rifiuti nella regione di JyvaskylaT. Tutti gli esperimenti di selezione e di raccolta effettuati a Jyvaskyla hanno incluso la combustione della frazione dei rifiuti secchi. Sia negli esperimenti di raccolta parziale, sia in quelli di raccolta completa, la frazione di combustibile prodotta si è mostrata relativamente pura. Le indesiderate frazioni a formazione di ceneri, come il metallo e il vetro, risultavano pari, complessivamente, ad appena il 10-15%.

I rifiuti organici (zolle di terra, pane secco, frutta e verdure) rappresentavano una percentuale trascurabile. I rifiuti pericolosi risultavano del tutto assenti, e il contenuto di materiali plastici in Pvc risultava talmente basso da non avere alcun effetto sulla combustione.

L'esperimento di combustione effettuato in collegamento con l'esperimento di raccolta parziale fu effettuato nel maggio del 1994 presso la centrale elettrica a torba di Rauhalahti, situata nell'area urbana. L'esperimento era finalizzato a verificare la fattibilità pratica dell'incenerimento della frazione dei rifiuti seccl)i. Il rapporto ottimale tra combustibile secondario (il REF) e combustibile principale (torba) risultò essere del 5 - 7%. Furono misurate le emissioni e, dal punto di vista della centrale, il livello delle emissioni di Voc e di tracce di metalli risultò soddisfacentemente basso.

Nella Regione di Jyvaskylà, la produzione stimata annua della frazione dei rifiuti secchi (imballaggi combustibili) è pari a circa 20.000 tonnellate. Di queste, la metà è di origine residenziale, e la parte rimanente proviene dal settore

148

commerciale e da quello istituzionale. L'azienda responsabile del trattamento dei rifiuti della municipalità ha il dovere (e il privilegio) di raccogliere e utilizzare le frazioni dei rifiuti del settore residenziale, ma le frazioni dei rifiuti secchi del settore commerciale e di quello istituzionale sono a disposizione della libera concorrenza.

Attualmente, l'impianto di trattamento dei rifiuti WM Jatekyyti trasforma la maggior parte dei rifiuti secchi dei settori commerciale e istituzionale.

Ciononostante, vi sono progetti per la costruzione di un secondo impianto per il trattamento dei rifiuti presso la discarica di Mustankorkea nell'autunno del 1999, finalizzato alla produzione di REF con la frazione dei rifiuti secchi.

I camion consegneranno i rifiuti presso il punto di ricevimento dell'impianto, dove i rifiuti verranno ispezionati e approvati. Quindi, i rifiuti saranno immessi nel processo, passando prima attraverso un tamburo cernitore, per separare le particelle più piccole. La parte rimanente sarà sottoposta a una prima fase di frantumazione, e i materiali ferrosi saranno separati mediante una prima procedura di separazione magnetica.

Seguirà una seconda fase di setacciatura, frantumazione e separazione magnetica. Infine, il materiale residuo, il REF, sarà imballato in contenitori e inviato presso gli impianti di Rauhalahti (caldaia a letto fluido) o Savelà (caldaia a griglia) per il processo di combustione. Entrambe le centrali sono di proprietà della Società di Produzione dei servizi Elettrici di JyvTskylà, che è sua volta di proprietà di Ivo (60%) e del Comune di Jyvàskyla (40%).

h) Lavorazione e utilizzo del cartone per l'imballaggio di liquidi La Germania genera circa 60.000 tonnellate l'anno di contenitori in cartone per imballaggio di liquidi (CIL). In base alle direttive CEE, questo materiale di

scarto deve essere riciclato. Parte del materiale raccolto in Germania (circa 70.000 tonnellate) viene portata in Finlandia per essere sottoposta a ulteriori lavorazioni da Corenso, una società affiliata di Enso, il maggior produttore di CIL vergine in Europa. Con l'obiettivo pre valente di coprire le importazioni dalla Germania, nel 1995 Corenso costruì una nuova cartiera a Varkaus, con una capacità di circa 70.000 tonnellate annue. La cartiera di Varkaus utilizza contenitori in CIL, assieme ad altri rifiuti in cartone plastificato e rifiuti di carta e cartone corrugato, come materie prime secondarie.

Il Cii. viene inoltre separato per essere riutilizzato nei principali centri urbani della Finlandia e raccolto separatamente attraverso punti di raccolta locali per rifiuti riciclabili. La generazione annua di CIL Jyvaskylà è pari a 30 tonnellate, e tutto il materiale viene trasportato a Varkaus per la lavorazione.

La fibra dei contenitori in CIL è di buona qualità, e dopo il recupero può essere trasformata in prodotti di alta qualità come carta igienica, carta per imballaggio e cartone. Inizialmente, i rifiuti di plastica venivano bruciati nella centrale elettrica di Varkaus, ma l'accumulo di alluminio nella fornace imponeva numerose chiusure annuali. Un nuovo metodo di impiego dei rifiuti plastici è attualmente in via di sperimentazione: la pirolisi ad alta temperatura, che dovrebbe tra l'altro consentire anche l'impiego dell'alluminio.

In Finlandia, sono state pubblicate istruzioni dettagliate sull'adeguata selezione degli imballaggi usati, per aumentare il livello di riutilizzo e di riciclaggio (e così ridurre la necessità di smaltimento in discarica. La responsabilità della selezione dovrà essere suddivisa tra le varie parti coinvolte. Le industrie produttrici degli imballaggi saranno considerate responsabili della formazione di rifiuti superflui.

Le aziende produttrici degli imballaggi dovranno organizzare la raccolta, e saranno responsabili del riutilizzo degli imballaggi usati. Per garantire il riciclaggio, i produttori saranno soggetti a una tassa sui rifiuti pari a 0,02 marchi finiandesi per ciascun imballaggio in CIL. In Finlandia, la raccolta del CIL sarà estesa per comprendere imballaggi usati come le scatole dei fiocchi di avena e di biscotti, questi rifiuti saranno depositati nei contenitori di raccolta CIL gialli e inviati a Varkaus.

Se questo ampliamento della raccolta del CIL sarà effettuato in maniera completa, il valore, come combustibile, della frazione dei rifiuti secchi trasformati per la combustione risulterà ridotto, e la riduzione potrà essere tale da mettere in discussione l'investimento relativo all'impianto di trasformazione dei rifiuti secchi. L'adeguato equilibrio tra il riciclaggio e la combustione degli imballaggi usati dipenderà dalle procedure predominanti di produzione energetica e dalle procedure di valutazione degli impatti ambientali.

149

Quantità complessi ve delle frazioni di rifiuti riciclabili recuperate

indipendenti. Un importante contributo, inoltre, fu rappresentato dall'intensificazione degli sforzi del Dipartimento Gestione Rifiuti dell'Ufficio Servizi Tecnici del Comune. Il bilancio annuale per il riciclaggio dei rifiuti (manutenzione di EkoCenter, manutenzione della rete dei punti di raccolta locali, costi della manodopera per la raccolta dei materiali riciclabili e delle attività di consulenza), nel 1997, ammontava a 1,7 milioni di marchi finlandesi. Le proporzioni relative delle frazioni di rifiuti riciclabili recuperate a Jyvàskylà nel 1997 sono illustrate nella Figura 5.

A Jyvaskyla, la quantità totale di rifiuti riciclabili recuperati si è rivelata più o meno stabile tra il 1990 e il 1995, attorno alle 8.000 tonnellate annue. Nel 1996, la quantità dei rifiuti recuperati aumentò fino a 14.183 tonnellate, e nel 1997 aveva già raggiunto le 17.193 tonnellate (Tabella 4).Questo aumento era in gran parte dovuto ai rifiuti biologici selezionati alla fonte, la cui raccolta iniziò nel giugno del 1996 nei condomini multifamiliari e nelle unità abitative

Tabella 4—. Quantità (tonnellate) delle frazioni di rifiuti riciclabili a Jyuiisley/ii. 1990-1997

Carta e cartone Vetro Metallo Prodotti tessili Legno Rifìuti biologici Totale utilizzato

1990

1991

1992

1993

1994

1995

1996

1997

8.200 89 70

7.700 94 35

7.670 121 153

7.600 139 153

7.300 135 198

7.330 160 207

41

58

285

135

186

280

8.400

7.887

8.229

8.027

7.819

7.977

8.650 300 420 17 1750 3.046 14.183

9.050 292 436 26 1509 5.880 17.193

Legno

Tessili 0.2%

Cfl. 52,6% Rif.Biol.

34,2%

Figura 5—Proporzioni relative delle frazioni di rifiuti riciclabili aJyv/iskyl& nel 1997

150

LA GESTIONE DEI RIFIUTI DELL'AZIENDA ERKKI SALMINEN O

La società di gestione dei rifiuti Erkki Salminen Oy è un'azienda interamente privata che opera in sei diverse municipalità. L'azienda ha iniziato la propria attività come società di trasporto (compreso il trasporto di rifiuti) a Jamsankoski nel 1956 e, a partire da allora, ha gradualmente concentrato la propria attenzione sulla gestione dei rifiuti. All'inizio degli anni Settanta, l'azienda ha iniziato la raccolta di frazioni di rifiuti come carta, cartone, vetro e metallo, per poi gradualmente espandersi. Le pressioni esercitate per la riduzione del numero delle discariche nella Regione di Jamsa-Jamsànkoski hanno spinto le municipalità, nel 1995, ad assegnare alla società Salminen la responsabilità dell'individuazione dei volumi di tutti i rifiuti generati a Jamsa e Jamsankoski e in quattro municipalità confinanti (Kuhmalahti, Kuhmoinen, Kuorevesi e Lngelmki) nella discarica di Jàmsnkoski.

La Erkki Salminen Oy opera in base a principi commerciali e di responsabilità dei costi. La partecipazione dei residenti alla selezione dei rifiuti è volontaria. L'azienda presenta offerte di servizi di raccolta ai singoli residenti, alle imprese e alle istituzioni (i "clienti"). Il cliente non è soggetto ad alcun obbligo di separare i rifiuti, ma potrà scegliere, volontariamente, tra numerose opzioni, dall'assenza di selezione alla selezione totale. Nel caso dell'assenza di selezione, tutti i rifiuti vengono trasportati alla discarica, e la tassa di gestione dei rifiuti è elevata. L'intervallo di svuotamento dipende dal grado di selezione e, nel caso di unità abitative indipendenti, può essere di 2, 4 o addirittura 6 settimane. La tassa di gestione dei rifiuti viene fissata di conseguenza.

Attualmente, la società raccoglie e separa undici frazioni di rifiuti: 1) imballaggi usati per la produzione di energia, 2) carta usata proveniente ad abitazioni e uffici, 3) rifiuti metallici, 4) vetro, trasparente e colorato, 5) legno, 6) rifiuti adatti al compostaggio (compresi i rifiuti biolo-

gici), 7) rifiuti pericolosi, 8) prodotti tessili, 9) pneumatici usati, 10) olio da cucina usato e 11) rifiuti destinati allo smaltimento in discarica. I camion di raccolta rifiuti della società sono dotati di scomparti di yarie dimensioni, per consentire la raccolta di diverse frazioni di rifiuti in un unico viaggio. I camion seguono percorsi diversi per i periodi di svuotamento da 2, 4 e 6 settimane.

La selezione delle frazioni di rifiuti raccolti dall'azienda non è definita in maniera rigida.

Questa potrà decidere la raccolta di una nuova frazione di rifiuti ove la generazione dovesse risultare sufficientemente significativa, e in pre'senza di domanda per un particolare tipo di rifiuti. Le nuove frazioni tendono a essere generate prima presso le imprese. Per esempio, la raccolta di olio da cucina presso i ristoranti iniziò quando una società scoprì che l'olio poteva essere utilizzato per la fabbricazione di candele per esterni.

Presso l'impianto di trattamento dei rifiuti di Salminen, i rifiuti vengono inizialmente selezionati a mano dai residenti che li consegnano o dal personale dell'impianto. Una grossa enfasi viene posta sulla selezione del vetro bianco da quello colorato, in quanto questa procedura riduce i costi di lavorazione (per esempio, la tariffa di ingresso presso l'impianto di selezione di Stenberg). Analogamente, gli imballaggi usati vengono selezionati, prevalentemente in modo manuale, in frazioni di rifiuti riciclabili e residuali.

Negli anni Ottanta, l'azienda iniziò a sviluppare un combustibile a base di rifiuti (Rer). Gli imballaggi usati e i rifiuti legnosi selezionati manualmente vengono frantumati e mescolati in base a una formula prefissata. Negli ultimi anni, l'azienda ha investito fondi considerevoli in attività di ricerca e sviluppo sulla frantumazione dei rifiuti secchi e le apparecchiature per la selezione automatizzata. Il risultato è un combustibile che viene venduto alla vicina cartiera. Considerato che la cartiera non è soggetta ad alcun obbligo per l'acquisto del combustibile, il pro151

dotto dovrà avere un prezzo competitivo e livel-

ULTERIORE APPROFONDIMENTO

li di qualità confrontabili con quelli di altri combustibili commerciali come il petrolio, il carbone, la torba e i trucioli di legno. Questo combustibile a base di rifiuti è attualmente il prodotto più importante realizzato dall'azienda.

La Erkki Salminen trasforma i rifiuti biologici mediante compostaggio in cumuli all'aperto.

L'azienda ha in programma attività di ricerca sull'impiego del terriccio prodotto, e l'avvio di campagne di marketing per commercializzarlo.

Fino ad oggi, le attività dell'azienda hanno avuto risultati positivi. I risultati di bilancio sono soddisfacenti e la riduzione dei rifiuti smaltiti in discarica è stata significativa. Durante il primo anno, il tasso di smaltimento in discarica è raddoppiato, raggiungendo le 14.000 tonnellate circa. Ma nel 1997, l'azienda trasformò circa 10.000 tonnellate di rifiuti in 8.700 tonnellate di frazioni riciclabili, e la parte rimanente (1.300 tonnellate) fu smaltita in discarica. Inoltre, 5.400 tonnellate di rifiuti furono inviate direttamente in discarica.

A giudizio dell'azienda, le normative alle quali sono soggette le aziende impegnate nella gestione dei rifiuti sono troppe e troppo rigide. Norme troppo rigide sui modi di procedere o agire in determinate questioni legate alla gestione dei rifiuti potrebbero facilmente portare a prodotti non richiesti dal mercato. Alcune operazioni sono imposte dalla legge, e conducono a un prodotto invendibile. Il risultato è una strada senza uscita, e l'accumulo di rifiuti a valore aggiunto.

Nessuno può occuparsi della gestione dei rifiuti individualmente, la collaborazione è essenziale.

Lo spirito della libera impresa dovrebbe giocare un ruolo più importante sui mercati dei rifiuti.

I fornitori, i produttori e gli utenti dei prodotti a base di rifiuti dovrebbero avere un peso maggiore nella messa a punto di leggi e normativc.

Anche i modelli di gestione dei rifiuti dovrebbero essere più adeguati alle necessità delle singole Regioni.

152

La comprovata disponibilità degli utenti a partecipare alla selezione dei rifiuti è lodevole e molto incoraggiante. La Finlandia si sta muovendo rapidamente ed efficacemente verso una gestione dei rifiuti compatibile coti l'ambiente, e la Regione di Jyvaskylà è all'avanguardia da questo punto di vista. Attraverso sperimenti di selezione volontari, è stato individuato un modello fattibile per la selezione dei rifiuti nel centro urbano, che oggi viene esteso all'intera Regione. I rifiuti riciclabili vengono ora raccolti sul posto, e vengono efficacemente diretti verso i trattamenti idonei per prepararli per un nuovo uso. Circa il 50% delle famiglie residenti in unità abitative indipendenti ha scelto di avvalersi di piccoli impianti di compostaggio. Il trasporto e il trattamento dei rifiuti non creano odori o contaminazioni dell'ambiente.

L'importanza di adeguatI dispositivi di selezione nelle cucine, ai fini dell'efficienza della separazione alla fonte, è chiaramente dimostrata dall'esperimento Keltinmaki ed è ampiamente diffusa in Finlandia. Secchi per rifiuti di colori diversi, montati su un elegante carrello sono sempre piui diffusi nelle cucine delle nuove abitazioni.

La Finlandia è un Paese poco popolato, con una densità di popolazione pari ad appena un sedicesimo di quella della Germania. Ciononostante, l'efficienza della raccolta della carta e dei rifiuti biologici è allo stesso livello di quella tedesca. Gli sforzi finalizzati al raggiungi-

mento di un'efficienza ancora superiore nella gestione dei rifiuti comporteranno distanze di trasporto superiori e prezzi unitari piui elevati per le frazioni dei rifiuti. Una stima approssimativa indica che oltre il 50% del costo totale della gestione dei rifiuti è dovuto al trasporto, anche se, grazie a svariate sovvenzioni, la proporzione del trasporto incide per meno del 50% sulla tassa di gestione dei rifiuti pagata dai residenti.

Le autorità responsabili dell'ambiente giocano un ruolo importante nello stimolare i progressi. La riduzione del numero delle discariche ha rappresentato uno degli obiettivi specifici, e i risultati appaiono buoni. Ancora pochi anni or sono in Finlandia vi erano oltre 1.000 discariche. Ora il numero è pari a 600, ed entro il 2002 si ridurrà a poco pii di 100.

Nella parte meridionale della Provincia della Finlandia Centrale, questo obiettivo è stato di fatto raggiunto. Nella Regione di Jyvskyl, presto sarà in funzione solo la discarica di Mustankorkea, e nella Regione Jamsa, solo la discarica di Jamsnkoski. Altre discariche sono già state chiuse, o saranno chiuse entro un paio d'anni. Le amministrazioni municipali della parte settentrionale della Finlandia Centrale sono evidentemente meno inclini a concentrare le operazioni di smaltimento in discarica in un numero ridotto di impianti.

Come già evidenziato in precedenza, le autorità responsabili della gestione dei rifiuti nella Regione di Jyvàskyla hanno

ipotizzato una vita utile di 50 anni per la discarica di Mustankorkea. Successivamente, a sorpresa, il Centro Ambientale della Finlandia Centrale ha stabilito, in relazione all'autorizzazione dell'impianto di Mustankorkea, che l'altezza della discarica sarebbe stata ridotta dai 237 metri richiesti a 227 metri sul livello del mare. Il Centro ha sostenuto, a sostegno della propria decisione, che con una altezza di 237 metri la discarica sarebbe risultata visibile dal ponte di Kuokkala, nel centro di Jyvskyla.

La valutazione della gestione dei rifiuti e delle iniziative di tutela dell'ambiente è sempre difficile. Tuttavia, in questo caso il Centro Ambientale ha evidentemente posto un'enfasi eccessiva sulle potenziali conseguenze per il paesaggio nell'arco dei prossimi 3 5-50 anni. Per la gestione dei rifiuti nel Comune di Jyvskylà, le conseguenze di questa decisione sono gravi: la riduzione delle potenzialità della discarica in termini di volume è di circa 1.4 milioni di metri cubi, il che significa che la vita utile della discarica si ridurrà da 50 a 15-20 anni. Se la decisione resterà valida, dopo tale periodo la Regione di Jyvskylà sarà priva di discariche, perché 15 anni rappresentano un periodo troppo breve per l'avviamento di una nuova discarica. Ora, ciascun metro cubo aggiuntivo di rifiuti proveniente da aree esterne ai confini del Comune risulterebbe in eccesso dal punto di vista del Comune e dei cittadini. Naturalmente, il Comune ha protestato contro la decisione, ma nel frattempo la pianifi153

cazione di lungo periodo della città e dell'interno distretto si trova di fronte a ostacoli molto difficili da superare.

Tra le altre questioni meno importanti rispetto al destino della discarica, ma comunque di grande importanza nella valutazione della gestione dei rifiuti e delle iniziative ambientali, elenchiamo le seguenti: 1) Le attività pratiche svolte nell'ambito della società di gestione dei rifiuti Erkki Salminen, e gli esperimenti fatti a Jyv skylà, hanno dimostrato che, attraverso la selezione dei rifiuti, è possibile produrre materiali sufficientemente puliti da essere utilizzati come combustibile secondario in un impianto di combustione. I rischi derivanti dall'alimentazione permanente con combustibile a base di rifiuti saranno evitati attraverso la costruzione di un impianto per il trattamento dei rifiuti secchi. Pertanto, la frazione secca sarà selezionata prima di venire utilizzata come combustibile in una o in entrambe le centrali elettriche ad alta efficienza situate nell'area della città.

Attualmente, entrambi gli impianti utilizzano il biocombustibile come combustibile principale e combustibili fossili (carbone e petrolio), come combustibile secondario.

Al tempo stesso, in tutta la Finlandia è previsto un ampliamento della raccolta del Cii. (cartone per imballaggio di liquidi). Se tale ampliamento sarà realizzato nella massima misura possibile, il valore come combustibile della frazione dei rifiuti secchi trasformata per la combu154

stione risulterebbe ridotto, al punto tale che potrebbe essere messo in dubbio l'investimento nell'impianto di trattamento per la frazione secca. Un giusto equilibrio tra il riciclaggio e la combustione degli imballaggi usati dipenderà dalle metodologie predominanti per la produzione dell'energia e dalla procedura di stima degli impatti ambientali. Se la combustione dei rifiuti riduce la necessità di combustibili fossili, allora la combustione dei rifiuti potrà essere accettata come la soluzione migliore. Ma se i rifiuti entrano in competizione con i biocombustibili. allora si potrà considerare preferibile il riciclaggio.

2) Di recente, il New Scientist ha recensito un lavoro di M. Leach (Pearce, 1997) che suggeriva, in base a un'analisi dei cicli vitali, che sarebbe stato più opportuno utilizzare la carta come combustibile piuttosto che come materia prima. Come si può notare, l'analisi dei cicli vitali è tuttora un metodo altamente inesatto.

In Finlandia, le esportazioni dei prodotti in legno superano il consumo nazionale di dodici volte, riguardo alla produzione di carta, la quantità di carta riciclabile in Finlandia non è significativamente grande. Attualmente, la quasi totalità della carta usata viene raccolta e trasformata.

Gli esperti forestali finlandesi sottolineano che se in Finlandia si dovesse ridurre il riciclaggio della carta, sarebbe necessario abbattere un numero maggiore di alberi. E questo, naturalmente, si scontrerebbe con i desideri della maggior parte degli ambientalisti. In Finlandia, inoltre,

abbiamo a disposizione grandi quantitativi di legname da combustione, che non viene sottoposto a lavorazioni complesse come nel caso dei rifiuti cartacei.

Questi aspetti di grande importanza sono stati esclusi dall'analisi britannica sui cicli vitali.

In Finlandia, siamo convinti che purtroppo grandi quantità di cartone ancora vengano smaltite nelle discariche. In base a uno studio svolto dal Centro Ambientale Finlandese, nel 1994 il cartone rappresentava circa il 18% di tutti i rifiuti smaltiti in discarica. Oggi la necessità di aumentare il riciclaggio della carta e del cartone è ampiamente riconosciuta.

3) Lutilizzo del vetro dovrà essere riconsiderato, con l'obiettivo di ridurre i costi netti. Dovranno essere sviluppate nuove forme di impiego per il vetro riciclato, che si sta rivelando così costoso per le società responsabili della gestione dei rifiuti e, di riflesso, per i residenti. I costi si ridurranno se si ridurrà la necessità del trasporto; pertanto, una soluzione potrebbe essere rappresentata dall'impiego dei rifiuti vetrosi direttamente presso le discariche, oggi in numero sempre più ridotto e concentrate in prossimità dei grandi centri urbani. I rifiuti vetrosi frantumati potrebbero essere utilizzati nelle discariche come materiale di riempimento altamente inerte, idoneo alla creazione di canali per il metano e altri gas prodotti nelle discariche. Una soluzione simile richiederebbe ricerche approfondite. Inoltre, il vetro ha sempre

rappresentato un simbolo per i sostenitori del riciclaggio, e una soluzione di questo tipo sarebbe certamente destinata a incontrare forti resistenze dell'opinione pubblica, e risulterebbe di difficile attuazione nonostante le sue vantaggiose caratteristiche economiche.

4) L'attuale compostaggio in cumuli all'aperto presso la discarica di Mustankorkea funziona senza problemi; il fastidio causato dagli odori è limitato alle fasi di rovesciamento, e all'area della discarica. Nel corso di questa estate, la temperatura di compostaggio ha raggiunto spontaneamente gli 80-90 °C a poche settimane dall'avvio del processo.

Tuttavia, non si è registrato alcuno sviluppo di fiamma. A queste temperature. il processo di compostaggio procede rapidamente. I lavoratori impegnati presso l'impianto di Mustankorkea hanno dichiarato che i rifiuti biologici sembrano letteralmente sparire, lasciando visibile solo l'agente di rigonfiamento.

Intuitivamente, la spiegazione sembra essere nel fatto che il processo di reazione aumènta con la temperatura. Tuttavia, è diffusa la convinzione che la temperatura ottimale di compostaggio sia di 55 °C o inferiore. Le elevate misurazioni di temperatura presso l'impianto di Mustankorkea dimostrano il contrario.

La temperatura ottimale di compostaggio viene di norma determinata misurando la quantità di ossigeno atmosferico consumata dai microbi. Si ritiene che una volta raggiunta la temperatura, la quantità di ossigeno assorbita dall'ester155

no diminuisca. Tuttavia, si potrebbe suggerire un'altra spiegazione. Oltre i 55 °C, la reazione di compostaggio accelera in modo talmente rapido che i microbi si procurano l'ossigeno di cui hanno bisogno direttamente tramite l'ossigeno chimicamente legato ai rifiuti e all'agente di rigonfiamento. Secondo questa interpretazione, il compostaggio non sarebbe diverso da altre reazioni naturali.

Con l'aumento della temperatura, aumenta anche la velocità della reazione.

Naturalmente, a mano a mano che la temperatura si avvicina ai 100 °C, il rischio di sviluppo di fiamma aumenta.

Per l'impianto di trattamento dei rifiuti di Mustankorkea, un obiettivo importante è quello di completare un impianto di compostaggio per rifiuti biologici entro la fine del mese di agosto del 1998.

In questo impianto, la temperatura di compostaggio sarà mantenuta vicina i 55°C mediante aerazione meccanica, e si prevede che i tempi di compostaggio risulteranno pertanto ridotti rispetto al

compostaggio in cumuli all'aperto. Inoltre si prevede che la qualità del prodotto finale e la sua commerciabilità risulteranno superiori, e che questa garantirà un incentivo per la separazione alla fonte.

Solo il primo stadio del compostaggio dei rifiuti biologici si svolgerà presso l'impianto. La massa pre-compostata presso l'impianto verrà ulteriormente lavorata mediante compostaggio in cumuli all'aperto, e l'humus così prodotto verrà successivamente mescolato con sabbia.

Alla luce dell'analisi precedente, potremmo chiederci, tuttavia, se davvero è necessario a Jyvskylà passare dal collaudato sistema di compostaggio in cumuli all'aria aperta al compostaggio al chiuso.

Due impianti per il cornpostaggio al chiuso dei rifiuti biologici sono già attivi: uno nella zona di Helsinki e uno in quella di Hyvinkaa. Nel giro di un paio di anni sarà possibile contare su approfondite conoscenze sperimentali riguardanti questi impianti, che potranno guidare le ulteriori decisioni in materia.

Desideriamo ringraziare Jukka Salminen, Direttore della Erkki Salminen Waste Management Company per il suo contributo e il Dr. Kay Abonen per la revisione della versione del documento in lingua inglese.

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dossier Frri

Enti locali ed economia pubblica

Con l'intesa tra Stato e autonomie lotali, di cui si fornisce, negli articoli che seguono, ampia epuntuale analisi, per la prima volta Regioni, Province e Comuni non sono più considerati centri di spesa perifi'rici ma soggetti attivi della politica economica nazionale, da coinvolgere nel risanamento della finanza pubblica. È questa la portata del cosiddetto "patto cli stabilità interno" tra Stato centrale ed Enti territoriali. Non vi è dubbio che l'introduzione di questa modalità di regolazione rappresenta una novità di grande rilievo, sia sotto il profilo del metodo che per i contenuti decisamente innovativi, nella definizione dei rapportifinanziari tra Stato e sistema delle autonomie locali. Per la prima volta, infatti, le politiche di convergenza europea, imposte dall'ingresso nella moneta unica, non sono impostate considerando gli Enti locali come soggetti passivi, da allineare forzosamente alla finanza statale con la scure dei tagli indiscriminati dei trasferimenti erariali, ma come soggetti attivi della politica economica nazionale, che vanno incentivati a comportamènti virtuosi e omogenei allo sforzo di risanamento finanziario compiuto dal Paese.

I comportamenti virtuosi individuati per realizzare tale finalità sono: a) ilperseguimento di obiettivi di efficienza, di aumento della produttività e di riduzione dei costi nella gestione di servizi pubblici e delle altre attività gestite; b) il contenimento della crescita 157

della spesa corrente rispetto ai valori degli anni precedenti; c) il potenziamento delle attività di accertamento dei tn buti propri aifini di aumentare la base imponibile; d) l'aumento del finanziamento di origine tariffaria dei costi dei servizi a domanda individuale; e) le dismissioni di proprietà immobiliari non strategiche aifini delle politiche di sviluppo degli Enti.

Appare evidente, in linea di fatto, che le misure indicate dal "collegato "possono, di certo, produrre un effetto significativo sulla riduzione dell'indebitamento netto annuo, ossia possono contribuire a limitare il ricorso al nuovo indebitamento, ma non riusciranno a incidere sullo stock di debito cumulato dalle amministrazioni, con l'eccezione delle dismissioni immobiliari che, se realizzate in misura massiccia, potrebbero in effetti provocare una riduzione del debito.

Aifini della riduzione del rapporto tra debito pubblico e PiI, si propone pertanto, in aggiunta alle misure elencate in precedenza, la dismissione di partecipazioni mobiliari, ossia la privatizzazione dei pacchetti azionari detenuti dagli Enti locali in società di gestione dei servizi pubblici locali.

Ma vediamo ora l'articolazione del sistema di premi e sanzioni correlato al raggiungimento dell'obiettivo di riduzione dell'indebitamento: nel caso in cui i risultati previsti dal Patto di stabilità europeo non vengano raggiunti, e al nostro Paese vengano comminate le conseguenti sanzionifinanziarie, il Tesoro potrà rivalersi in proporzione sugli enti inadempienti, secondo modalità che verranno successivamente determinate dalla Conferenza Stato-Regioni e dalla Conferenza Stato-città e autonomie locali.

Sul versante degli incentivi va, invece, segnalato che agli Enti che presenteranno piani finanziari di progressiva e continuati va riduzione del rapporto tra ilproprio stock di debito e il Pilproiettati su un orizzonte temporale di almeno cinque anni, sarà consentito il rimborso anticiipato dei prestiti contratti con la Cassa depositi eprestiti senza oneri aggiuntivi, oltre a quelli del rimborso del residuo debito. Si tratta di una disposizione importante, che rappresenta una forte spinta all'accelerazione dei processi di privatizzazione delle imprese pubbliche locali eprospetta un beneficio di rilievo per i disastrati bilanci comunali.

Il tutto però, come i Presidenti delle Regioni hanno da tempo affermato, deve muoversi in due direzioni. Nell 4'rmazione di un vero e proprio fede ralismo fiscale, inteso come mutamento di rotta rispetto al precede nte accentramento della gestione delle entrate. Parliamo di un criterio, di una serie di competenze e di procedure decentralizzate, in grado di rispondere meglio alle nuove esigenze gestionali dell'Ente locale. Poi si deve pensare ai necessari contributi allo sviluppo, all'occupazione e agli interventi a sostegno delle popolazioni meno abbienti.

In questa chiave di intervento articolato può avere realmente un senso una gestione condivisa delle strategie finanziarie della comunità nazionale.

158

Il Patto di stabilità interno.

Un'intesa tra Stato ed Enti locali di Pasquale Ferro e Giancarlo Salvem ini*

I cambiamenti che negli ultimi decenni hanno caratterizzato lo scenario economico internazionale e la società civile hanno posto la necessità di adeguare l'azione dello Stato che, nel contesto di globalizzazione dei sistemi economici e finanziari, diventa fattore importante nella sfida concorrenziale tra i Paesi.

Come dimostrano anche i pii recenti studi condotti in sede OCSE', la maggior parte dei Paesi industrializzati ha anche puntato sulla razionalizzazione dell'attività amministrativa, sulla modernizzazione dell'apparato pubblico e sul suo snellimento (grazie ai processi di privatizzazione), sui risanamento della finanza pubblica per ridare slancio e sostegno duraturo allo sviluppo economico.

In Italia, la riforma della pubblica amministrazione è stata resa urgente dalla distanza che si registrava tra la qualità dei servizi pubblici e i bisogni delle imprese e dei cittadini; hanno agito da stimolo sia l'esigenza di controllo dell'an-

* Banca d'Italia. Le. opinioni espresse dagli autori non impegnano la responsabilità dell'istituzione di appartenenza. Una versione sintetica di questo lavoro è stata presentata alla "Quinta conferenza nazionale sulla misurazione dell'azione amministrativa", svoltasi presso il CNEL il 12 e 13 luglio 1999.

damento dei conti pubblici, finalizzata prima al rispetto dei criteri di convergenza del Trattato di Maastricht e ora alla "sostenibilità" dell'adesione all'Unione economica e monetaria europea, sia il confronto con altre nazioni che hanno conseguito importanti risultati nel processo di riforma del settore pubblico.

Nella prima parte di questo lavoro saranno brevemente richiamati i principi fondamentali e le linee di indirizzo su cui si basa la riforma amministrativa in corso nel nostro Paese, con particolare riferimento al decentramento amministratiyo e al sistema dei controlli; quest'ultimo tema è apparso determinante fin dall'avvio della riforma per le sue implicazioni sia a livello microeconomico (la gestione efficiente ed efficace delle attività amministrative e dei servizi pubblici) sia a livello macroeconomico (i possibili riflessi su! ridimensionamento delle grandezze di bilancio e sulla controllabilità dell'andamento della spesa pubblica) 2 . L'idea di fondo è che la riforma dei controlli trovi ora un ulteriore stimolo per la completa realizzazione nella necessità che il nostro Paese ha di garantire il rispetto del Patto di 159

stabilità che impegna tutte le amministrazioni pubbliche.

Nella seconda parte del lavoro, l'attenzione sarà portata sulla normativa emanata dall'Unione europea e sui vincoli che ne derivano in termini di controllo dei disavanzi eccessivi; sarà, quindi, dedicata attenzione all'attuazione interna del Patto di stabilità e alle sue implicazioni economiche. Nella terza e conclusiva parte, saranno poste alcune questioni che riguardano la rilevazione delle informazioni e la costruzione della "rete" dei controlli necessaria per garantire il rispetto del "Patto".

RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, DECENTRAMENTO AMMINISTRATIVO, FEDERALISMO FISCALE E SISTEMA DEI CONTROLLI

La riforma della pubblica amministrazione, negli anni Novanta, è stata avviata, anche sotto la spinta di una persistente situazione di squilibrio del bilancio pubblico, con l'approvazione di alcuni provvedimenti legislativi che hanno introdotto significative innovazioni negli ordinamenti, nei modelli di organizzazione, nell'allocazione delle risorse, nelle procedure di bilancio e nei sistemi di contro1103 . La stessa attenzione della pubblica amministrazione si va gradualmente spostando, e non senza incertezze e ritardi, dal rispetto formale delle norme e delle procedure alla verifica dei risultati. Sullo sfondo resta l'esigenza primaria della riqualificazione della spe160

sa pubblica, del riequilibrio della sua composizione tra spesa corrente e spesa per investimenti, della maggiore rispondenza della stessa ai criteri di efficienza ed economicità. Spesso esiste un tradeoff tra osservanza minuziosa delle norme (la legalità formale) e il rispetto dei principi di efficienza, efficacia ed economicità dell'azione pubblica. La transizione dalla pubblica amministrazioneburocrazia, come siamo abituati a percepirla nella qualità di cittadini-utenti, alla pubblica amministrazione intesa come centro fornitore di servizi efficienti alla collettività sarà indubbiamente non breve, ma la rotta è segnata.

Lo scenario , concorrenziale creache si è to con I adesione aii area aeii euro impone a tutte le amministrazioni pubbliche dei Paesi partecipanti un percorso basato sulla concreta applicazione dei principi di semplificazione, liberalizzazione, deregolamentazione, decentramento delle decisioni e dei compiti, sussidiarietà e responsabilità, efficienza nell'uso delle risorse e controllo dei risultati. Lo sviluppo economico dipenderà ancor più che in passato dal funzionamento della pubblica amministrazione, il cui compito fondamentale è quello di creare e garantire le condizioni affinché le imprese italiane, liberate da vincoli impropri, occulti o palesi, di diversa natura (fiscale, normativa, burocratica, per carenza di infrastrutture, ecc.), possano competere alla pari con quelle estere sul mercato globale 4 .

Le conseguenze di un fallimento, anche i

I

II

parziale, della riforma amministrativa avrebbero una rilevanza non soio interna, ma anche esterna, sotto il profilo dell'immagine e della credibilità del Paese nei riguardi dei partner europei.

Ne deriverebbe, infatti, una incontrollabilità dell'andamento dei conti pubblici per i quali, come vedremo, gli accordi europei disegnano uno scenario caratterizzato da parziale perdita di sovranità.

Il decentramento amministrativo Gli aspetti principali della riforma della pubblica amministrazione che qui interessano riguardano, in particolare, le problematiche del decentramento (o federalismo) amministrativo, che persegue l'obiettivo di realizzare la massima autonomia regionale e locale possibile a Costituzione invariata. Con la riforma si è impostato: un ampio progetto di decentramento di funzioni e compiti statali alle Regioni e agli Enti locali 5 ; la riorganizzazione dello Stato e dei grandi enti pubblici; l'accelerazione del processo di delegificazione e semplificazione delle procedure amministrative, con riferimento specifico a quelle legate all'attività delle imprese (cfr. riquadro 1). In particolare, sono da sottolineare i principi con i quali avverrà il riordino dell'amministrazione centrale dello Stato: questa dovrà possedere maggiori capacità di indirizzare e coordinare l'azione amministrativa, di dettare le "regole" necessarie, dismettendo una parte dei compiti di mera gestione. La ridefinizione del ruolo delle amministrazioni

dovrà essere coerente con la riforma del bilancio dello Stato, che ha cercato di istituire un razionale collegamento tra gestione finanziaria e azione amministrativa, organizzando le strutture per funzioni omogenee e per centri di imputazione delle responsabilitàC. Alla costruzione di un nuovo ruolo per gli Enti locali si è accompagnato lo snellimento dell'esercizio delle funzioni e dell'attività amministrativa e il deciso ridimensionamento dei controlli di legittimità su questi Enti, cui è corrisposta l'introduzione di controlli di risultato.

Il decentramento e il federalismo hanno posto in primo piano la gestione, a livello locale, di un considerevole numero di funzioni pubbliche. Per effetto della "crescita funzionale", gli Enti locali saranno chiamati a rispondere, in prima battuta, a gran parte delle domande di intervento amministrativo, gestendo in misura altrettanto diretta le implicazioni finanziarie del trasferimento di funzioni e compiti. Il nuovo ruolo e le nuove opportunità che il disegno riformatore ha costruito per le Regioni e per gli Enti locali appare strettamente legato al sistema di vincoli di finanza pubblica posti dalle politiche di convergenza europea e dall'unificazione monetaria. In questa prospettiva, assume rilievo il concorso delle Regioni e degli Enti locali alla politica di risanamento dei conti pubblici, secondo le previsioni dell'articolo 28 della legge n. 448198, che ha definito il "patto di stabilità interno".

161

Riquadro i Alcune tappe importanti nella rforma della pubblica amministrazione I primi significativi segnali dell'evoluzione legislativa verso un modello di amministrazione agente per funzioni e per programmi e dotata di meccanismi di "autocontrollo", volti a consentire la verifica dei risultati, dei costi e del rendimento complessivo dell'azione pubblica, hanno trovato espressione nelle leggi nn. 142 e 241 del 1990, riguardanti, rispettivamente, il nuovo ordinamento delle autonomie locali e la disciplina del procedimento amministrativo. Successivamente, le spinte evolutive fondamentali sono state impresse dalle "maxi-deleghe" poste dalla legge n.

421192, per la razionalizzazione e la revisione della disciplina in materia di sanità, previdenza, finanza locale e pubblico impiego e dalla legge n. 537193, per la riforma dell'apparato amministrativo dello Stato, che hanno avviato un complesso disegno di riforma della pubblica amministrazione.

Il biennio 1997198 ha segnato il momento cruciale di tale processo evolutivo. Infatti, anche per ragioni di riequilibrio di medio periodo della finanza pubblica, si è registrata un'accelerazione della produzione di norme di riforma, culminata nelle leggi n. 59/97, recante delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed Enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa, n. 94/97, di riforma del bilancio dello Stato, n. 127/97, recante misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo, e nei successivi decreti legislativi di attuazione.

A fondamento degli interventi di riforma sono stati posti i principi della separazione tra politica e amministrazione, della liberalizzazione, della delegificazione, della semplificazione (normativa e procedimentale), della contrattualizzazione del rapporto di lavoro con i dirigenti pubblici e della piena responsabilizzazione di questi ultimi per i risultati conseguiti nella gestione. Tali istanze sono state inserite nel quadro di un programma di ridistribuzione di poteri e responsabilità tra centro e periferia, mediante il conferimento di funzioni a Regioni ed Enti locali e con una particolare attenzione ai "nuovi modelli organizzativi", basati su un insieme di strutture (ministeri, dipartimenti, agenzie) che consentano di ridurre la dimensione delle amministrazioni centrali e di accorpare per aree omogenee le funzioni.

La legge delega n. 59/97 e il successivo d.lgs. n. 112/98, infatti, hanno realizzato, a Costituzione invariata, il decentramento verso le Regioni e gli altri Enti locali di un ampio numero di funzioni amministrative prima gestite a livello centrale 7. Ha trovato, in tal modo, ingresso nel nostro ordinamento il principio di sussidiarietà, secondo cui allo Stato spettano (in base ad un criterio di residualità) solo le competenze nelle materie che necessitano, per la tutela di interessi pubblici primari, di una disciplina unitaria e uniforme sull'intero territorio nazionale, mentre vengono decentrati tutti i poteri fl cui esercizio a livello locale si rivela più coerente con le finalità poste dall'ordinamento. In altre parole, la sussidiarietà implica che la generalità delle funzioni pubbliche sia esercitata al livello delle strutture amministrative più prossime ai cittadini, secondo la logica propria del federalism0 8 .

162

La norma rende partecipi le Regioni e gli Enti locali dei vincoli derivanti dall'adesione dell'Italia al Patto di stabilità e crescita, impegnando detti enti a ridurre progressivamente il finanziamento in disavanzo delle proprie spese e a ridurre il rapporto tra il proprio ammontare di debito e il PIL. Le Regioni e gli Enti locali non sono pRi considerati centri di spesa periferici, ma soggetti attivi della politica economica nazionale, da coinvolgere nel risanamento della finanza pubblica.

Per realizzare le finalità della riduzione progressiva del ricorso all'indebitamento per il finanziamento delle proprie spese e del rapporto tra il proprio stock di debito e il prodotto interno lordo, l'art. 28 ha individuato, tra i comportamenti "virtuosi" che ciascun ente è chiamato a porre in essere, il perseguimento di obiettivi di efficienza, di aumento della produttività e di riduzione dei costi nella gestione dei servizi pubblici e delle altre attività gestite. È dunque significativo il legame che si delinea tra assunzione, da parte degli Enti locali, di un ruolo preminente nella gestione di un numero crescente di funzioni pubbliche, e capacità, degli stessi enti, di informare tale gestione a criteri di efficienza, efficacia ed economicità, non solo ai fini di una migliore rispondenza dell'azione amministrativa alle esigenze della collettività, ma anche ai fini del mantenimento di condizioni di equilibrio di finanza pubblica. Se il primo obiettivo è proprio di ciascuna

amministrazione pubblica e mira a qualificare e rendere funzionale l'attività amministrativa nei confronti dei suoi destinatari diretti, il secondo costituisce un precetto condiviso dal Governo centrale e dall'intero sistema delle autonomie, in funzione del rispetto di parametri di convergenza definiti a livello europeo, responsabilizzando ciascun ente locale rispetto alla definizione e al mantenimento di un uniforme quadro di risanamento finanziario nazionale.

L'assunzione di un numero crescente di funzioni pubbliche da parte di Regioni ed Enti locali e il coinvolgimento di tali amministrazioni nel Patto europeo di stabilità e crescita rappresentano due elementi di un medesimo disegno di ridistribuzione dei poteri e delle responsabilità e di razionalizzazione amministrativa e finanziaria in atto nel nostro Paese.

Tuttavia, sono da mettere in luce i seguenti elementi: La restituzione agli Enti locali di un ruolo di primo piano nella gestione amministrativa pone il problema della loro adeguatezza sotto i profili organizzativo, strutturale e finanziario. Si profila cioè il rischio che la concreta assunzione e l'esercizio effettivo delle funzioni trasferite siano ritardate o impedite a motivo dell'impreparazione di molti Enti locali, soprattutto minori.

La crescente autonomia delle Regioni e degli Enti locali in ordine al peso da dare allo svolgimento di alcune funzioni rispetto ad altre permetterà di ca163

librare gli interventi in base all'effettiva domanda emergente dalla collettività amministrata, ma pone anche un problema di complessiva coerenza e di coordinamento finanziario dell'azione locale con il patto di stabilità.

L'azione amministrativa locale potrebbe essere disorientata dal trade-off tra vincoli di finanza pubblica posti dal patto di stabilità e ampliamento delle funzioni da svolgere a livello locale, rivelando iniziative incoerenti, slegate tra loro o parziali.

Vi è il rischio che i vincoli del patto siano sentiti dagli Enti locali come un alibi per non assumere il concreto svolgimento di alcune funzioni.

Inoltre gli obiettivi di decentramento sono per il momento solo enunciati con grande enfasi, ma non ancora concretamente realizzati. Sembra opportuno, nel momento attuale, procedere con cautela nella strada di ulteriori sviluppi a livello normativo, per intraprendere uno sforzo di sistemazione concettuale e, soprattutto, promuovere una maggiore incisività nell'applicazione pratica.

Anche per le amministrazioni locali un ulteriore ed importante aspetto della riforma è legato al potenziamento delle attività di valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell'attività svolta. A livello centrale, la costruzione della contabilità economica, collegata alla riforma della struttura del bilancio dello Stato per centri di responsabilità, è stata oggetto di una recente circolare applicativa da parte della Ragioneria Generale 164

dello Stato 9 . In tale ambito, ciascuna amministrazione dovrà organizzare un sistema informativo di supporto al controllo interno di gestione, alimentato da rilevazioni dei costi, delle attività e dei prodotti, elaborare specifici indicatori di efficacia, efficienza ed economicità e valutare comparativamente i costi, i rendimenti e i risultati 10 . Tale attività ha un rilievo notevole sul ciclo di bilancio, poiché ai risultati è legata l'allocazione annuale delle risorse.

In merito al processo di attuazione del decentramento amministrativo, così come disegnato dalla legge n. 59197 e dal D.lgs. n. 112/98, è da osservare che un aspetto rilevante è costituito dalle modalità con la quali verrà attuato quel contestuale» trasferimento di beni e risorse che, nelle intenzioni del legislatore, è strumento idoneo a rendere "effettiva" l'assegnazione delle funzioni decentrate a Regioni ed Enti locali. Secondo le indicazioni legislative, tale trasferimento dovrà essere congruo rispetto alle competenze trasferite.

D'altra parte, è proprio la "questione finanziaria" a sollevare maggiori riserve da parte dei destinatari delle funzioni decentrate. Infatti, l'assegnazione di beni e risorse, così come è impostata nel D. lgs. n. 112, ipotizza un meccanismo di trasferimento per singoli capitoli di bilancio giudicato inappropriato da Regioni ed Enti locali, i quali ravvisano nella norma il mantenimento della logica dei trasferimenti vincolati di spesa, che comporta una ulteriore "ingessatu-

ra" dei bilanci, già fin troppo rigidi, degli enti decentrati. Inoltre, si nutrono dubbi sul fatto che si possa effettuare un calcolo adeguato delle risorse da trasferir& I. I timori espressi sono legati al fatto che le norme non indicano in modo chiaro né come né quanto dovrà essere trasferito alle autonornie e che i meccanismi di individuazione delle risorse necessarie per gestire i nuovi compiti attribuiti sembrano comportare una sostanziale sottostima delle risorse necessarie. La soluzione preferita (e prospettata in piii sedi) dalle Regioni è quella in parte realizzata con la legge collegata alla finanziaria per il 1999, ossia la compartecipazione al gettito di un "grande" tributo erariale (Irpefo I va )12.

Problemi si sono verificati in precedenti esperienze italiane di delega o decentramento di funzioni e/o competenze, concorrendo a delineare quel fenomeno definito "federalismo per abbandono" 3 .

Diversamente, il governo francese, nel1 ambito della decentralization , ha effettuato una parallela devoluzione di risorse fiscali non solo pienamente capienti fin dagli inizi, ma anche suscettibili di dinamiche di crescita proprie, adeguate a quelle della spesa.

Il federalismo fiscale Il tema del decentramento di funzioni o federalismo amministrativo ha ricevuto nuovo impulso con la presentazione del disegno di legge costituzionale da parte del Ministro Amato (Atto Camera n.

5830) che si pone l'obiettivo pii generale della trasformazione in senso federale dell'ordinamento dello Stato. Ad esso si accompagna il tema del federalismo fiscale. Questo, avviato in Italia con il decreto legislativo n. 504 del 1992 1 , mira ad ottenere una maggiore responsabilizzazione ed autonomia delle amministrazioni pubbliche locali sulle decisioni di spesa (quale livello e qualità di servizi pubblici assicurare alla collettività locale) e di finanziamento (il giusto mix tra trasferimenti erariali e tributi accertati e riscossi a livello locale).

Il progetto di legge Amato, che si muove nella linea indicata dalla Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali (cfr. riquadro 2), agisce nella direzione di conferire a Regioni, Province e Comuni risorse autonome per esercitare le loro funzioni; detti enti dovrebbero godere della piena autonomia finanziaria, potendo stabilire ed applicare tributi, disporre addizionali su tributi erariali, partecipare al gettito di detti tributi con riferimento al territorio di competenza e ricevere contributi straordinari dallo Stato. È chiaro che questo trasferimento di competenze in materia finanziaria è condizione necessaria, ma non sufficiente, per rendere davvero efficace il trasferimento di funzioni dal centro alla periferia; infatti, le autonomie territoriali dovranno accompagnare questo processo con una complessa trasformazione degli attuali modelli organizzativi, rendendosi, nel contempo, garanti del 165

Riquadro 2 Ilfederalismo nelP2potesi delLi Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali La Bicamerale, nel suo progetto, che peraltro per le note vicende politiche non è stato approvato, configura lo Stato quale ordinamento federale, concretizzando, in particolare, la propria proposta: a) nell'affermazione del principio della pariordinazione, pur nella diversità delle rispettive potestà normative, dei Comuni, delle Provincie 1 5 e delle Regioni, enti costitutivi della Repubblica al pari dello Stato; b) nell'esplicita indicazione del ricorso ad una legge costituzionale per conferire alle diverse Regioni condizioni particolari di autonomia (a complemento della decisione di mantenere l'attuale individuazione delle Regioni a Statuto speciale).

La configurazione della Repubblica così delineata appare non conforme ad altri modelli esistenti di tipo federale, basati sull'aggregazione di Stati, od altre ripartizioni territoriali aialoghe alle nostre Regioni, e caratterizzati da una maggiore differenziazione ordinameritale di ciascuna di esse.

Tuttavia, nell'ambito di una considerazione unitaria del testo costituzionale, tale scelta è stata ritenuta un "coerente sviluppo dei principi fondamentali stabiliti dall'articolo 5 della Costituzione", che sancisce il primato delle autonomie, senza fare tra esse differenze, e prevede che la Repubblica attui il più ampio decentramento amministrativo e adegui il metodo della legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.

L'articolo 56, cardine del nuovo impianto federale, detta i criteri di ripartizione tra gli enti pubblici delle funzioni ad essi attribuite, soffermandosi in particolare su quelle amministrative e regolamentari. Sulla base del principio di sussidiarietà, la ripartizione delle funzioni amministrative e regolamentari privilegia l'ente territoriale minore, individuando l'intervento di quello più esteso come sussidiario e necessario solo nella misura in cui gli obiettivi non possono essere sufficientemente realizzati dall'ente minore, a motivo delle sue dimensioni, dei suoi poteri e delle sue risorse.

L'articolo 62, che esplicita il principio della pariordinazione tra Comuni, Province e Regioni, prevede una forma omogenea di autonomia finanziaria regolata dalla legge, basata sulla previsione che tali enti possano stabilire e applicare tributi e entrate proprie nonchè partecipare ad una quota di entrate erariali, che complessivamente non può essere inferiore al cinquanta per cento (quota che andrebbe calcolata dopo aver sottratto le risorse destinate al servizio del debito, allo sviluppo economico equilibrato, al "Fondo perequativo", alle calamità naturali e alla sicurezza del Paese).

La stessa norma, inoltre, contiene una precisa delìnizione del principio di perequam.ione con riferimento ai parametri connessi alla capacità fiscale pc'r abitantee l'indicazione di adeguati strumenti per realizzare una redistribuzione delle risorse in tutto il territorio nazionale, in particolare tramite la costituzionalizzazione di un "Fondo perequativo" (comma 5) e, in materia di finanza derivata, introduce alcune novità rispetto alla disciplina vigente, ovvero: - l'estensione a Comuni e Province della partecipazione ai tributi erariali; - il collegamento di tale partecipazione al gettito tributario riferibile al territorio regionale (si crea cioè una corrispondenza tra le risorse trasferite e il contributo dato dai cittadini di ogni Regione all'erario); - la previsione che le Regioni con maggiore capacità fiscale per abitante possano rendersi indipendenti dai contributi statali (la loro partecipazione ai tributi erariali è destinata, quindi, a cessare nel momento in cui le stesse si rendano autosufficienti dal punto di vista finanziario); - la previsione di una quota minima garantita di risorse erariali che deve, comunque, essere trasferita agli enti territoriali. Il problema della quota minima e della sua quantificazione è stato oggetto di ampio dibattito in Commissione.

166

rispetto delle compatibilità finanziarie e dell'equilibrio tra entrate e spese, anche ai fini del rispetto del Patto di stabilità europeo.

In proposito, è da osservare come proprio l'ampio trasferimento di funzioni e compiti agli enti territoriali, per il quale non si ha ancora una stima dell'impatto sulla spesa né si conosce il sistema di assegnazione delle risorse (che naturalmente condiziona l'intera operazione), potrebbe entrare in contraddizione con i vincoli del Patto di stabilità e come diventi pertanto utile apprestare tutti i controlli necessari affinché siano rispettati gli impegni che ciascun ente si è assunto per tale finalità.

Le scelte da compiere, sia per attuare il D.lgs. n. 112 del 1998 su1 decentramento delle funzioni sia per passare, in prospettiva, ad una struttura federale dello Stato, sono complesse e rilevanti e chiedono di ricercare un nuovo equilibrio tra le esigenze dello Stato centrale e quelle delle collettività locali, che aspirano a vedere pienamente riconosciuta la loro autonomia statutaria, organizzativa e finanziarial 6 Nella direzione di un incremento delle risorse finanziarie necessarie agli enti territoriali per sostenere gli oneri conseguenti alle nuove funzioni si muovono, in attesa che il disegno di riforma costituzionale si concretizzi, recenti provvedimenti approvati dal Parlamento. In particolare, con la legge n. 133 del 13 maggio 1999, è stata realizzata un'articolata operazione di riforma delle mo.

dalità di finanziamento degli enti territoriali, che consente di dotare gli stessi di una autonomia finanziaria che, per diversi aspetti, è paragonabile a quella degli Enti locali di altri Paesi europei; il provvedimento, seguendo una linea che appare coerente anche con le prospettive del federalismo fiscale, sopprime la gran parte dei trasferimenti statali alle Regioni, sostituendoli con quote di compartecipazione a tributi eraria11 17 Lattuazione del federalismo fiscale, implicando un sostanziale ripensamento della gestione del sistema dei pagamenti pubblici, comporta la ridefinizione del ruolo della tesoreria statale. In prospettiva, infatti, il graduale trasferimento dell'attività imposta agli Enti locali dovrebbe consentire al bilancio dello Stato di attenuare la sua caratteristica di "bilancio di trasferimento". Questo, anche in connessione con la maggiore responsabilizzazione degli enti decentrati di spesa nella gestione delle entrate proprie, comporterà la diminuzione dei flussi di tesoreria statale e un sostanziale ridimensionamento del ruolo della stessa nella gestione delle giacenze.

Il federalismo fiscale, ma anche la fattispecie del "decentramento amministrativo" come si sta realizzando, richiede, tuttavia, il miglioramento dei rapporti di comunicazione tra centro e periferia.

Inoltre, le problematiche connesse al Patto di stabilità e sviluppo rendono sempre più necessaria la conoscenza dei flussi finanziari degli enti decentrati 18 .

.

167

IL PATTO DI STABILITÀ E CRESCITA

I regolamenti comunitari. Come è oramai a tutti noto, il Consiglio Europeo, riunito ad Amsterdam nel giugno 1997, ha adottato un Patto di stabilità e crescita (cfr. riquadro 3). Con il Patto, i Paesi partecipanti all'UE si impegnano a rispettare l'obiettivo di una situazione di bilancio a medio termine comportante un saldo vicino al pareggio o positivo e a porre in atto gli interventi correttivi necessari per conseguire tale obiettivo. Il combinato disposto di questa rigorosa regola con quella, già prevista nell'art. 3 del Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, secondo la quale i Governi degli Stati membri sono responsabili dei disavanzi della pubblica amministrazione e assicurano che le procedure di bilancio consentano di rispettare gli obblighi in materia de-

rivanti dal Trattato, ha posto in primo piano in Italia, ma non solo nel nostro Paese, il problema del coordinamento del bilancio statale e di quello delle altre amministrazioni pubblichel 9 . Ciò non solo al fine del rispetto dei valori di riferimento fissati a Maastricht nel 1992, ma anche di quelli che sono stati e saranno indicati come obiettivi dei programmi di stabilità comunicati annualmente al Consiglio e alla Commissione UE.

La strada prescelta per arrivare a tale coordinamento è stata quella di coinvolgere le Regioni e gli Enti locali in un patto di stabilità interno, definito dal Parlamento con l'approvazione dell'art.

28 della legge collegata alla finanziaria per il 1999, al controllo del quale partecipano le stesse amministrazioni nella sede istituzionale delle Conferenze Stato-Regioni e Stato-Città.

Riquadro 3 Il Patto di stabilità e crescita europeo Il Patto è costituito da tre documenti: 1) la Risoluzione del Consiglio europeo sul patto di stabilità e crescita (17 giugno 1997); 2) il Regolamento n. 1466/97 del Consiglio del 7 luglio 1997 per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche; 3) il Regolamento n. 1467/97 del Consiglio del 7 luglio 1997 per l'accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi.

Il Patto fornisce un'interpretazione precisa delle condizioni di eccezionalità e di temporaneità dei disavanzi (Reg. 1467, art. 2 e Risoluzione); stabilisce i limiti temporali per i vari livelli di intervento per i disavanzi eccessivi (Reg. 1467, art. 3-10); definisce le condizioni per l'applicabilità delle sanzioni e la loro entità (Reg. 1467, àrtt. 11-16); definisce le caratteristiche dei programmi di stabilità e dei programmi di convergenza presentati, rispettivamente, dai Paesi partecipanti e da quelli non partecipanti alla terza fase (Reg. 1466, art. 3-6 e Risoluzione).

168

Alcuni dati sui conti delle Amministrazioni pubbliche Prima di passare all'esame del Patto (ovvero della relativa normativa) conviene ricordare, per inquadrare anche numericamente i problemi da affrontare, le grandezze di bilancio relative ai vari sottosettori componenti l'aggregato delle amministrazioni pubbliche.

La ripartizione effettuata nei conti nazionali dell'indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche sembra at-

tribuire gran parte dell'origine di questo alle Amministrazioni centrali e solo un ruolo marginale a quelle locali e agli Enti di previdenza. Ciò sembra valido sia in Italia sia nei principali Paesi europei (tav. 1), a prescindere dall'esistenza o mèno di una forma federale di, organizzazione dello Stato. Nel tempo, il saldo degli enti decentrati di spesa sembra spostarsi da una situazione relativamente vicina al pareggio a quella di un lieve surplus.

Tabella i - Indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche nei principali Paesi europei (in percentuale del Pii) Italia 1995 1998 Amministrazioni Pubbliche amministrazioni centrali amministrazioni locali enti di previdenza

-7,7 -7,5

-2,7 -2,6

..

..

-0,2

-0,1

Francia 1995 1998 -4,9 -4,0 -0,2 -0,7

-2,9 -2,9 -0,2 -0,2

Germania 1995 1998 -3,3 -2,7 -0,2 -0,3

-2,1 -2,7 0,3 0,3

Regno Unito 1995 1998 -5,7 -5,7 -0,3

0,6 0,6 ..

*

*

Spagna 1998 1995 -7,1 -6,2 -0,6 03

-1,8 -1,4 -0,2 -0,1

Fonte: Commissione Europea (Prima comunicazione dei Paesi membri per il 1999).

I dati non raggiungono la cifra significativa dell'ordine minimo considerato. * Per il Regno Unito, i dati per i fondi della sicurezza sociale sono inclusi in quelli delle amministrazioni centrali

Tuttavia, se si prescinde dai trasferimenti tra i vari livelli di governo, la situazione cambia drasticamente, almeno per l'Italia (parte seconda della tav. 2).

Le amministrazioni centrali, presso le quali si accentrano gli introiti delle principali imposte e delle operazioni di indebitamento, e che quindi di conseguenza operano ampi trasferimenti verso gli altri enti pubblici, passano ad una situazione di pareggio, e anzi nel corso dell'ultimo quinquennio, con il procedere del risanamento finanziario, ad una situazione di elevato surplus (intor-

no ai 7 punti di PIL nell'ultimo biennio). Le amministrazioni locali, per le quali le misure degli ultimi anni hanno determinato una drastica riduzione dei trasferimenti in entrata, mostrano un alto disavanzo (sopra i 7 punti percentuali del PIL20).

Questa situazione di avanzo delle amministrazioni centrali è ulteriormente accentuata, se si guarda al saldo primario, in quanto la spesa per interessi, come il debito, si concentra presso lo Stato e la Cassa DD.PP. (cfr. terza parte della tav. 2), e al saldo primario dal 169

Tabella 2 - Disavanzo dei sottosettori delle ammnistrazioni pubbliche (in percentuale del PIL)

=

=

=

1990

1995

1996

1997

1998

INDEBITAMENTO NETFO Amministrazioni centrali Amministrazioni locali Enti di previdenza TOTALE

-10,0 -1,3 0,3 -11,0

-7,5

-2,5 -0,3 0,2 -2,7

-2,6

-0,2 -7,7

-6,4 -0,1 -0,1 -6,6

-0,1 -2,7

1) - TRASFERIMENTI PUBBLICI Amministrazioni centrali Amministrazioni locali Enti di previdenza TOTALE

0,9 -11,6 -0,3 -11,0

1,9 -8,4 -1,3 -7,7

3,0 -8,3 -1,3 -6,6

7,6 -8,8 -1,4 -2,7

6,9 -6,2 -3,4 -2,7

2) - INTERESSI Amministrazioni centrali Amministrazioni locali Enti di previdenza TOTALE

9,5 -11,0 -0,6 -2,2

12,5 -7,9 -1,5 3,2

13,1 -7,8 -1,6 3,7

16,2 -8,3 -1,6 6,2

14,0 -5,8 -3,6 4,6

12,0 -8,2 -0,4 3,4

15,0 -5,8 -1,4 7,8

14,7 -5,6 -1,4 7,7

17,3 -6,0 -1,6 9,7

15,3 -3,3 -3,5 8,4

3) - SPESE IN C/CAPITALE Amministrazioni centrali Amministrazioni locali Enti di previdenza TOTALE

I dati non ragigungono la cifra significativa dell'ordine minimo considerato

quale siano esclusi anche gli investimenti (ultima parte della tav. 2), possibile proxy, secondo i dati di contabilità nazionale, dell'aggregato a cui fa riferimento, come vedremo, la normativa attualmente in vigore sui Patto di stabilità interno.

Per gli enti territoriali (chiamati al rispetto del Patto anche per la loro valenza politica, espressa con una scelta elettorale da parte delle comunità locali, mentre per gli altri enti pubblici, centrali e periferici, ad iniziare dagli enti di previdenza, si può parlare solo di una scelta di decentramento di gestione), si riporta, nella fig. 1, l'andamento delle diverse forme di copertura delle spese 170

nel periodo 1980-1998. Si può notare la crescita delle entrate proprie di tali enti (passata dal 6% delle spese nel 1980 al 44% ne! 1998: essenzialmente dal 1993 per l'introduzione dell'Io e nel 1998 per quella dell'IRAP), ma, nello stesso tempo, come essi sono ancora tributari di elevati.trasferimenti statali, pari al 45% della spesa nel 1998. Giustamente questi trasferimenti, sui quali ovviamente le autorità locali non possono esercitare la propria potestà e che comunque sono consolidati nei conti complessivi delle Amministrazioni pubbliche, sono stati esclusi dal calcolo del Patto di stabilità interno, che si passa ad esaminare.

ndeC.tamwto netto (I) 100.

.100

83sIonmond pubb8d o comun. op(Ovince 80

•..._•

-.

. — -. — .80

60l 1

60

A

9Onle,b,onb pobb*O a 40,

20

• 20

01110 001,910

O

,o

.n'p0to

L________- _____ _____________________ 80

81

82

83

84

85

86

87

88

Il Patto di stabilità interno Le disposizioni contenute nell'art. 28 della legge n. 448 del 1998, riguardanti il Patto di stabilità interno, prevedono che le Regioni e gli Enti locali riducano gradualmente il disavanzo finanziario e lo stock di debito (cfr. riquadro 4).

L'impegno delle autonomie per il 1999 è pari a 2.200 mld. (0,1% del PIL stimato per il 1999, e almeno 1,1% della spesa corrente al netto degli interessi del comparto, importo corrispondente a 1.380 mld. per le Regioni e 820 per i Comuni, le comunità montane e le Province).

Il primo parametro di riferimento è costituito dal disavanzo, che è calcolato quale differenza tra le entrate finali effettivamente riscosse, inclusive dei proventi delle dismissioni di beni immobiliari, e le uscite finali di parte corrente al netto degli interessi (tra le entrate non sono considerati i trasferimenti

89

90

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94

o 95

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88

dallo Stato). Di conseguenza, le spese per investimenti e per interessi non sono soggette ai vincolo del Patto, come invece era disposto nella stesura originaria del disegno di legge collegato (che aveva assunto a parametro la nozione di indebitamento netto).

Si è scelto di fare riferimento ad un aggregato finanziario di cassa, probabilmente più per poter monitorare l'andamento dell'aggregato in corso d'anno e correlarlo facilmente ai trasferimenti statali, che, secondo quanto pure indicato nelle relative circolari ministeriali, per adeguarlo ai "principi generali che valgono nella Comunita europea (infatti, il criterio della competenza economica nei conti SEC 95 tenderà ad avere un maggior peso ed esso è attualmente adottato dall'IsTAT per rilevare la spesa sanitaria, che rappresenta un ampia quota della spesa regionale). D'altra parte, un conto mensile, o anche trime171

Riquadro 4 Il Patto di stabi1iti interno Il raggiungimento degli obiettivi del Patto dovrà essere ottenuto attraverso il combinarsi delle seguenti azioni: l'aumento dell'efficienza dei servizi pubblici forniti e la diminuzione dei loro costi di gestione; la riduzione della spesa corrente di ciascun ente attraverso la fissazione di un obiettivo di crescita annuale inferiore a quello degli anni precedenti; il potenziamento dell'attività di accertamento dei tributi propri; la ridefìnizione della politica tariffaria dei servizi pubblici a domanda individuale; le dismissioni immobiliari 21 In particolare, per il 1999 1 il Patto dispone che la riduzione del disavanzo annuo dovrà essere pari almeno all'O,l% del PIL e, per i due anni successivi, la percentuale sul PIL del disavanzo annuo dovrà rimanere costante. In sede di riduzione del disavanzo annuo, è stabilito, comunque, che venga mantenuto il rapporto tra funzioni e risorse, per garantire l'efficienza e l'efficacia dell'attività amministrativa. Le regioni e gli enti locali verificheranno tale rapporto mediante l'utilizzo di forme di controllo di gestione.

Il Patto prevede, inoltre, che il Ministero del Tesoro effettui apposite azioni di monitoraggio, con cadenza mensile, nei riguardi delle regioni, delle province autonome, delle province con più di 400 mila abitanti e dei comuni con più di 60 mila abitanti.

La Conferenza Stato-Regioni e la Conferenza Stato-Città devono individuare le misure che ciascuno degli enti interessati deve attivare per il raggiungimento di tali finalità. In caso di mancata realizzazione degli obiettivi del piano, è previsto il pagamento di una penale nell'arco di tre anni, anche mediante riduzione dei trasferimenti erariali.

In caso di avvenuta attribuzione della sanzione da parte del Consiglio UE dovuta all'accertamento di un deficit eccessivo, essa sarà posta a carico degli enti che non hanno realizzato gli obiettivi sopracitati, in base alle modalità da definire sempre in sede di Conferenza Stato-Regioni e di Conferenza Stato-Città.

Infine, per realizzare gli obiettivi di finanza pubblica previsti dal Patto anche presso le Regioni a statuto speciale e le Province autonome, tra Governo e Presidenti delle giunte regionali o provinciali sono stabilite intese sui criteri per le procedure di monitoraggio. .

strale, non esiste per i sottosettori delle Amministrazioni pubbliche di contabilità nazionale.

Sono stati esclusi i trasferimenti statali, che come ricordato risultano indifferenti per il calcolo dei parametri fissati dalle procedure europee di controllo dei disavanzi eccessivi, in quanto consolidati nell'ambito del conto complessivo

172

delle Amministrazioni pubbliche. Analogamente, sono escluse le partite finanziarie che non rilevano nel parametro dell'indebitamento netto.

Sono stati esclusi gli interessi, forse per non far ricadere sui governanti locali attuali eventuali "colpe" dei predecessori, oppure perché si prende atto che il deficit pubblico, e quindi la spesa per inte-

ressi, è accentrata presso le amministrazioni statali (la remunerazione dei mutui degli Enti locali presso la Cassa DD.PP. sarebbe comunque consolidata nel conto delle Amministrazioni pubbliche). Comunque, in questo contesto, poiché l'aggregato di riferimento di Maastricht è l'indebitamento netto, un eventuale crescita dei tassi di interesse dovrebbe trovare compensazione in minori spese delle amministrazioni centrali.

Sono state escluse le spese in conto capitale in quanto il Parlamento ha ritenuto di non penalizzare gli investimenti pubblici degli enti decentrati22. Non si può non concordare sulla necessità di rilanciare gli investimenti in infrastrutture, specialmente nel Mezzogiorno 23 ; tuttavia, anche in questo caso, spese in conto capitale degli enti territoriali, superiori a quelle implicitamente previste nel programma di stabilità concordato in sede UE, dovrebbero trovare compensazione in minori spese correnti dell'altra parte contraente del Patto, ossia dello Stato (una riduzione degli investimenti statali in questo contesto sarebbe alquanto assurda, poiché in genere questi ultimi hanno una valenza superiore, almeno per dimensione, di quelli decisi in ambito locale).

In conclusione, il collegamento tra l'aggregato scelto nell'ambito del Patto di stabilità interno e quello accolto nel Patto di stabilità e crescita europeo richiede un conto di raccordo tecnicamente difficile da realizzare con tempe-

stività. L'attuale Patto di stabilità interno è certamente d'ausilio al rispetto dei vincoli europei, ma esso non ne garantisce il soddisfacimento per la parte imputabile ai conti degli enti territoriali. A regime, sarebbe opportuno avvicinarsi nuovamente al concetto di indebitamento iietto, proposto inizialmente dal Governo.

La verifica dell'andamento dei conti ai fini del rispetto del Patto riguarda, con diversa cadenza temporale, tutti gli enti territoriali ed implica la trasmissione al Tesoro di un apposito prospetto sui dati di cassa effettivamente realizzati (su base mensile per le Regioni e per le Province e i Comuni monitorati , trimestrale o annuale per gli enti di minore dimensione).

Sull'argomento, deve osservarsi che nell'attuale momento di transizione, gli enti territoriali sono chiamati a contribuire al rispetto dei vincoli proprio in concomitanza con l'assegnazione delle nuove funzioni che comporteranno ulteriori oneri che dovrebbero essere coperti con le risorse assegnate dallo Stato. Considerato che il rispetto del Patto di stabilità o di vincoli ai conti pubblici comunque denominati non è un obiettivo transitorio ma perdurerà nei prossimi anni, è necessario apprestare per tempo tutti gli strumenti per rendere efficace il controllo della finanza pubblica centrale e locale, tenendo presente che la complessa attività di trasferimento dei compiti dai centro alla periferia potrebbe interferire con l'esigenza di di173

sporre di tempestive ed attendibili informazioni suiio "stato di salute" dei conti della finanza locale che sono invece essenziali per ricomporre il "mosaico" dei conti pubblici nazionali. È opportuno, quindi, continuare a riflettere sulle modalità con le quali dovrà essere realizzato il coordinamento delle informazioni tra uno Stato centrale, che abbia ceduto gran parte delle proprie funzioni agli enti decentrali, e questi ultimi, che aggiungono alle attuali difficoltà di controllo dei propri conti incertezze sulle modalità con le quali organizzare in maniera efficiente, e senza_ contraccolpi sull'utenza, i servizi ceduti dallo Stato e sulla eventuale inadeguatezza delle risorse necessarie a sostenere i nuovi compiti. È per queste ragioni che si intende sottolineare l'importanza del sistema dei controlli nel fornire il supporto adeguato anche alla rilevazione e analisi delle informazioni finanziarie e contabili necessarie per costruire una "rete" che consenta il costante monitoraggio dell'andamento delle entrate, delle uscite e dell'indebitamento di questi numerosi enti.

La riduzione delle verifiche di legittimità e il contestuale ampliamento delle forme di riscontro della funzionalità complessiva dell'azione amministrativa, oltre ad essere coerente con un sistema amministrativo che non agisce piii "per atti", ma per obiettivi e risultati, è indispensabile per avere informazioni "certificate" che dimostrino il rispetto dei 174

vincoli del patto di stabilità e ottenere così il pieno coinvolgimento degli Enti locali nel Patto.

Occorre, quindi, dare ulteriore stimolo alla costruzione di un sistema di controlli integrato (monitoraggio dei flussi di cassa, controllo interno di gestione, controlli dei revisori, controllo esterno della Corte dei conti) che sia in grado di seguire l'andamento del fabbisogno degli enti. Esso sarà utile per prevenire situazioni come quella recentemente portata all'attenzione del Parlamento dal Sottosegretario al Tesoro Giarda il quale, nell'ambito del monitoraggio dei flussi di cassa degli enti territoriali e del controllo del loro fabbisogno 24, ha rilevato, nei primi cinque mesi del 1999, un incremento delle spese di questi enti di oltre 5.000 mld., con un aumento del fabbisogno (inclusa la spesa sanitaria) dell'8,6% per le Regioni e addirittura del 35,6% per i Comuni con popolazione superiore a 60.000 abitanti 25 con la conseguenza che, se questa tendenza continuerà nella restante parte dell'anno, potrebbe essere seriamente compromesso il buon esito del patto di stabilità interno dal quale, secondo le regole approvate con la legge finanziaria per il 1999, ci si attendono risparmi per 2.200 mld.

Pur con la tempestività con cui questi dati sono presentati, la situazione evidenzia un deficit informativo. In particolare, gli sconfinamenti dagli obiettivi concordati dovrebbero essere resi pii controllabili acquisendo, ex ante, i dati ,

di consuntivo degli anni precedenti e le previsioni sull'andamento mensile delle entrate, delle uscite e dell'indebitamento degli enti, in modo da costruire un "indicatore di fabbisogno" rispetto al quale valutare, ex post, l'effettivo andamento della situazione finanziaria degli enti. Questo early warning system potrebbe consentire al Governo di apprestare tempestivi interventi di salvaguardia dei conti complessivi della finanza pubblica e alle Conferenze Stato-Autonomie locali di pròporre eventuali anticipi nelle penalizzazioni (minori trasferimenti) a carico degli enti e, nel caso di incompletezza dei dati forniti, dei tesorieri (questi ultimi in quanto organi di esecuzione degli incassi e pagamenti per conto degli enti).

A questo punto è necessario chiedersi come predisporre questo sistema informativo in un'ottica di medio periodo.

Prima di fornire qualche indicazione su questo argomento, è necessario fare un passo indietro e trattare delle problematiche relative al monitoraggio dei flussi di cassa e al sistema di tesoreria unica per gli enti del settore pubblico.

LE INFORMAZIONI PER IL RISPETTO DEL PATTO DI STABILITÀ INTERNO

Per diversi aspetti, la disciplina sul monitoraggio dei flussi di cassa e le norme riguardanti il sistema di Tesoreria unica per gli enti del settore pubblico tendono al medesimo fine di rendere più prevedibile l'andamento dei conti delle

amministrazioni centrali e locali. Tuttavia, mentre la disciplina sul monitoraggio è stata prorogata fino al 2001 (e sarà presumibilmente rinnovata), proprio dall'anno successivo la legge n. 94 e il D.lgs. n. 279 del 1997 hanno stabilito, sebbene con gradualità, il superamento del sistema di tesoreria unica, salvo che non intervengano fatti, al momento non prevedibili, che modifichino sostanzialmente tale linea di indirizzo.

Le attualiJùnzioni di monitoraggio I trasferimenti statali in favore di enti decentrati obbligati a detenere in tesoreria le proprie disponibilità liquide sono risultati, in passato, generalmente superiori all'effettiva capacità di spesa di tali enti, con ciò determinando una progressiva crescita dei fondi giacenti presso la tesoreria. Lesistenza di elevate giacenze presso là tesoreria è stata spesso di ostacolo alla corretta previsione e al controllo dei flussi di spesa pubblica ed ha anche creato i presupposti per sconfinamenti rispetto agli obiettivi di finanza pubblica: la completa autonomia decisionale di spesa degli enti e l'elevatezza dei fondi disponibili hanno infatti limitato i possibili effetti di restrizioni operate sulle erogazioni della sola gestione del bilancio statale.

A partire dalla manovra di finanza pubblica per il 1997, pertanto, sono state introdotte norme tendenti a ridurre le citate disponibilità liquide, limitando nello stesso tempo i prelevamenti degli enti dalla tesoreria e le erogazioni di 175

cassa e gli impegni a carico del bilancio dello Stato 26 Con la manovra relativa al 1998, per le autonomie regionali e locali si è in gran parte abbandonato il sistema che prevedeva vincoli rigidi alla spesa a favore di un meccanism0 27 (financial planning programmato) che rivolge l'attenzione al rispetto di un obiettivo di fabbisogno 28 garantendo così un maggior grado di partecipazione delle autonomie locali e ponendo in capo ad esse parte dell'onere del monitoraggio 29 Infine, in seno alla manovra per il 1999, si è delineato il pieno concorso delle stesse al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica per il tramite del patto di stabilità interno.

In tale ambito, riveste un'importanza primaria la funzione di monitoraggio che il Ministero del Tesoro effettua, con cadenza mensile, nei riguardi delle Regioni, delle Province autonome, delle Province con più di 400 mila abitanti e dei Comuni con più di 60 mila abitanti, per verificare la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica.

Il complesso di queste norme è stato giudicato importante ai fini del rispetto dei parametri di disavanzo stabiliti per l'adesione all'UE30; allo stesso tempo, l'esperienza del monitoraggio da parte del Tesoro ha costituito una fonte informativa sull'andamento dei conti pubblici che dovrebbe essere migliorata, con il ricorso a procedure informatiche, ai fini della verifica del Patto di stabilità interno. .

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La rrma della Tesoreria Unica L'istituto della Tesoreria Unica (la cui struttura è brevemente descritta nel riquadro 5) è al centro di un disegno evolutivo i cui principi fondamentali sono espressi nel D.lgs. n. 279/97 attuativo della delega contenuta nell'art. 5 della legge n. 94/97 (ove si assegnava al Governo il compito di "ridefinire il sistema di Tesoreria Unica in modo da prevederne, per le Regioni e gli Enti locali, il graduale superamento in connessione con il progressivo conferimento di ulteriori funzioni ed entrate proprie 31 I motivi della scelta di graduale eliminazione del sistema di tesoreria unica, mai espressi compiutamente, possono ricondursi al desiderio di ridurre il ruolo della gestione di tesoreria nell'ambito della finanza statale (ma se non si sono eliminate le cause che hanno portato a questa abnorme crescita delle giacenze di tesoreria, il problema non è certamente risolto portando tali disponibilità al di fuori del circuito pubblico); alla insoddisfazione sul grado di conoscenza. dei fenomeni che interessano la tesoreria, spesso considerata come una incomprensibile "scatola nera" (ma i problemi della specie usualmente si risolvono costruendo un efficiente sistema informativo, non cancellando la stessa informazione); al desiderio di autonomia nella gestione delle proprie risorse da parte delle autorità locali (ma il problema starebbe in questo caso in una eventuale politica di tesoreria del Tesoro33 , non nello strumento tecnico ").

Riquadro 5 La struttura attuale della tesoreria unica Al fine di evitare l'accumularsi di fondi presso il sistema bancario in concomitanza con un ricorso al debito da parte dello Stato per efFettuare i trasferimenti non immediatamente utilizzati dagli enti, è stato introdotto, con la legge n. 720 del 29 ottobre 1984, l'accentramento della gestione monetaria degli Enti pubblici nel sistema di tesoreria unica. L'assoggettamento al regime interessa la quasi totalità degli enti del settore pubblico (con legge n. 662 del 1996 è stato esteso anche agli Enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti).

La Tesoreria Unica è stata progettata e realizzata come possibile soluzione alla necessità di assicurare un corretto utilizzo dei trasferimenti statali e soprattutto al fine di neutralizzare gli effetti di questi sulla creazione di base monetaria, pur in assenza di spese effettive da parte dei destinatari.

Essa è il risultato di un lungo processo normativo caratterizzato dal progressivo accentramento delle disponibilità liquide degli enti pubblici presso il servizio di tesoreria dello Stato, avviato già con la legge n. 468 del 1978 di riforma del bilancio dello Stato.

Attualmente presso le Sezioni di tesoreria dello Stato sono aperti circa 12.300 conti 'di tesoreria unica intestati agli enti pubblici individuati nella tabella A annessa alla legge n. 720/84 (Enti locali, ASL, Università, ecc.) 32 I conti sono articolati in sottoconti ftuttiferi e infruttiferi: nei primi affluiscono le entrate proprie degli enti e nei secondi i trasferimenti dal bilancio dello Stato e da altri enti pubblici, i mutui, ecc.

La movimentazione di questi conti avviene, generalmente, su disposizione del tesoriere dell'ente (nella quasi totalità un soggetto bancario), il quale regola, per saldo, gli incassi e i pagamenti effettuati nei tre giorni precedenti.

La normativa prevede che il tesoriere effettui i pagamenti utilizzando le somme riscosse ovvero, nel caso queste siano insufficienti, anticipando quelle necessarie. Il rimborso delle somme anticipate dal tesoriere avviene addebitando, presso la tesoreria dello Stato, prioritariamente il sortoconto fruttifero dell'ente e solo successivamente l'infruttifero. .

della tesoreria unica, che potrebbe essere una struttura servente proprio dei detentori dei conti) 34 Il D.lgs. n. 279/97, stabiliti i principi regolatori di un periodo per così dire "transitorio", in cui coesistono Tesoreria Unica e gestione in proprio di risorse da parte delle Regioni, Enti locali e Università (queste ultime inserite nel novero dalla legge n. 449/97), dispone che, entro il 31 dicembre 2001, si proceda, attraverso l'estensione graduale di un .

programma di sperimentazione 35 e tenuto conto dell'esito della stessa, all'applicazione di modalità di assegnazione dei trasferimenti statali idonee a realizzare l'obiettivo del superamento totale della Tesoreria Unica per le Regioni, gli Enti locali e le Università.

Mentre sono stati rispettati i tempi per l'avvio (dal 10 gennaio 1999) del c.d. regime di tesoreria mista (che prevede l'eliminazione dell'obbligo di riversare sui conti di tesoreria unica le "entrate pro177

prie" degli enti, salvo prevederne il loro prioritario utilizzo da parte dei tesorieri) disposto dall'articolo 7 del D.lgs. n. 279/97, e successive integrazioni ai sensi della legge n. 449/97, ed attuato secondo quelle modalità graduali sancite dal successivo art. 8 (esclusione dal regime di tesoreria unica delle entrate proprie per i Comuni fino a 5.000 abitanti36 e le Università, nuovo regime per l'assegnazione della quota di spettanza regionale delle accise sulla benzina), la sperimentazione di cui all'art. 9 del citato D.lgs. n. 279, che doveva consentire di avviare il processo di superamento totale della tesoreria unica, nella sostanza non ha avuto attuazione.

I decreti che individuano le Regioni e le Università da sottoporre al regime di cui al predetto articolo, infatti, a causa "delle attuali difficoltà di carattere informatico" (come scritto nelle relazioni d'accompagnamento ai decreti) prevedono per le stesse non già il regime di cui all'art. 9 (riversamento ai tesorieri bancari sia delle entrate proprie che dei trasferimenti da bilancio), bensì l'applicazione di quanto esposto all'art. 7 (ovvero la fuoriuscita dalla tesoreria unica solo delle prime).

Verso una nuova rete di monitoraggio Obiettivo dichiarato della riforma attuata con il D.lgs. n. 279/97 è il superamento del sistema di tesoreria unica; tuttavia, sin tanto che non si realizzi un reale federalismo fiscale, la componente derivante dal trasferimento di risorse 178

dal bilancio statale permarrà di dimensioni ragguardevoli.

Anche per questi motivi, le nuove modalità di trasferimento da bilancio dello Stato dovranno essere coerenti con l'obiettivo di evitare il ripetersi di quei fenomeni patologici di gestione della liquidità nonché di crescita del fabbisogno e dei depositi bancari degli enti decentrati di spesa che fu all'origine della disciplina restrittiva37. È ipotizzabile, quindi, che i "nuovi meccanismi" debbano prevedere che l'assegnazione dei trasferimenti direttamente ai tesorieri bancari degli enti decentrati di spesa possa avvenire solo al raggiungimento di soglie predeterminata (e comunque esigue) di giacenze sui conti di questi ultimi e che, allo scopo, il Tesoro si debba servire di un'apposita "rete di monitoraggio".

La rete di monitoraggio potrebbe essere costruita, alternativamente, utilizzando i canali usati già attualmente dalla Ragioneria Generale dello Stato per il controllo del patto di stabilità interno (con informazioni pRi ampie), utilizzando la costituenda Rete unitaria della pubblica amministrazione, ovvero attraverso i tesorieri bancari degli enti e la Rete nazionale interbancaria 8 . Comunque, si deve mirare alla sincronizzazione tra le operazioni di entrata e di uscita degli enti e i trasferimenti dal bilancio dello Stato39 .

Una siffatta rete di monitoraggio dovrebbe rilevare, con cadenza sufficientemente ravvicinata (5/7 giorni), oltre alla situazione delle giacenze in tesoreria,

anche presso le banche, le esigenze di spesa (e le previsioni di entrata) per il breve periodo degli enti destinatari dei trasferimenti statali. Il suo utilizzo per le finalità sopra indicate sarà ancora più necessario quando sarà superato il sistema di tesoreria unica.

Ultimissima notazione, il monitoraggio dei flussi di cassa di un ente autonomo, come sempre più tenderanno ad essere gli enti territoriali, non può non essere

una procedura consensuale volta ad un obiettivo e a un coordinamento comune, nell'ambito di un sistema di pagamenti efficiente; si ritiene che essa tenderà a fallire non solo in presenza di una eventuale volontà di non rispettare i patti, ma anche se essa fosse surrettiziamente utilizzata per una gestione centralizzata dei modi e dei tempi delle spese ormai di competenza delle autorità locali.

Ad esempio, cfr. OECD, Public management reform and economic and social development, PUMA/SBO,

do in risalto l'autonomia e la responsabilità dcl dirigente e istituendo i servizi di controllo interno; 5) L. 20 del 1994, che ha riformato l'ordinamento della Corte dei conti; 6) D.lgs. n. 77 del 1995, con il quale è stato introdotto il nuovo ordinamento contabile degli enti locali e disciplinato il controllo di gestione; 7) L. 59 e L. 127 del 1997, recanti norme sulla semplificazione dei procedimenti, sul trasferimento di funzioni e compiti agli enti territoriali e riforma della pubblica amministrazione centrale; 8) L. 94 del 1997, che ha modificato la struttura del bilancio dello Stato ed introdotto le unità previsionali di base.

4 Cfr. P. FERRO, S. Lo FASO, G. SALVEMINI, L'azione

aprile 1998.

211 tema della riforma della pubblica amministrazione e del sistema dei controlli è di grande rilevanza anche per la banca centrale, in quanto il maggior grado di efficacia ed efficienza della spesa pubblica si riflette positivamente sulla conduzione della politica monetaria, anche nel nuovo scenario costituito dall'Unione economica europea e dalla partecipaziòne al Sistema Europeo di Banche Centrali (Sebc).

Inoltre, l'interesse della Banca d'italia deriva anche dalla costante dialettica tra le stessa e la pubblica amministrazione in ragione dell'esercizio del servizio di tesoreria per conto dello Stato (cfr. Banca d'Italia, Atti del Convegno sul Nuovo sistema di controlli sulla spesa pubblica, Perugia, giugno 1994).

3 11 riferimento è ai seguenti provvedimenti: 1) L. 142 del 1990, riguardante l'ordinamento delle autonomie loali; 2) L. 241 del 1990, sulla trasparenza e lo snellimento delle procedure amministrative; 3) L. 421 del 1992 la quale, con l'intento di contenere strutturalmente l'evoluzione di lungo periodo della spesa di importanti comparti della finanza pubblica, ha tracciato linee di riforma per il settore pensionistico, per il servizio sanitario nazionale, per il pubblico impiego e per la finanza locale; 4) D.lgs. 29 del 1993, che ha previsto norme per la razionalizzazione dell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni e una nuova disciplina del pubblico impiego, ponen-

della pubblica amministrazione per la competitività internazionale in presenza di vincoli di finanza pubblica, in Concorrenza fiscale in un economia internazionale integrata, a cura di M. BORDIGNON e D. DA EMPOLI, F. Angeli Editore 1999.

5 Alcuni studiosi hanno manifestato perplessità con

riferimento ad una eventuale penalizzazione del meridione del Paese, dove tra gli enti destinatari delle funzioni trasferite ve ne sono alcuni che potrebbero non essere in grado di gestire autonomamente una "macchina burocratica efficiente" (ad esempio, S. CASSESE, il Sole-24 Ore del 28 marzo 1998).

6 Non meno importante, ma finora trascurata, è l'esigenza di snellire il sistema di produzione normativa che determina costi occulti per il sistema delle imprese e per i cittadini mentre dovrebbe essere improntato al rispetto dei principi di chiarezza e sem179

plicità di consultazione delle fonti; a tal fine sarebbe necessario dare nuovo impulso al processo di delegificazione, che dovrebbe essere obbligatoriamente accompagnato dalla redazione di testi unici delle disposizioni riguardanti i settori riformati, evitando di emanare norme in deroga (come, ad esempio, avviene di frequente nella materia della contabilità pubblica). Il problema della deregolamentazione assume una valenza importante se si considera il numero degli atti con valore di legge e degli atti regolamentari vigenti in Italia (circa 30.000, secondo una stima prudenziale effettuata dall'Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati); con questa situazione si può facilmente immaginare come il «'reticolo" delle norme rappresenti un ostacolo per gli stessi operatori del diritto, e comporti pesanti ricadute in termini di costi sia per le imprese sia per i cittadini.

L'opera di snellimento dovrà riguardare, sulla base di quanto previsto dalle "leggi Bassanini", anche le procedure contabili e di spesa (con positivi riflessi anche sulla Banca d'italia nella qualità di ente gestore del servizio di tesoreria statale). Seguendo tali indicazioni, la nuova produzione normativa dovrebbe essere accompagnata dall'analisi di impatto (valutazione economica e misurazione degli effetti delle regole in termini di costi sopportati dai privati e dalle stesse amministrazioni).

7 Il decentramento è finalizzato anche alla riorganizzazione dell'amministrazione centrale dello Stato. In attuazione della delega disposta con l'art. 11 della legge n. 59 del 1997, modificato dall'art. 1 della legge n. 191 del 1998 e dall'art. 9 della legge n. 50 del 1999, il decreto legislativo n. 300199 attualmente in discussione al Parlamento punta: ad eliminare le duplicazioni organizzative e funzionali, trasferendo o riallocando funzioni e uffici esistenti e istituendo dipartimenti per assicurare l'esercizio organico ed integrato delle funzioni dei Ministeri (a questi sono attribuiti compiti finali concernenti grandi aree di materie omogenee e i relativi compiti strumentali, ivi compresi quelli di indirizzo, coordinamento, di organizzazione e di gestione delle risorse umane e finanziarie ad essi attribuite); ad istituire apposite agenzie, che svolgeranno attività a carattere tecnicooperativo di interesse nazionale, operando al servizio delle amministrazioni pubbliche (comprese quelle regionali e locali); a disciplinare gli uffici posti alle dirette dipendenze del Ministro (ai quali viene tra l'altro attribuito il compito di valutare i costi della 180

regolazione, la qualità del linguaggio normativo, l'applicabilità delle norme introdotte, lo snellimento e la semplificazione della normativa, nonchi l'organizzazione degli uffici preposti al controllo interno).

Sulla base del citato decreto legislativo, a partire dalla prossima legislatura, i ministeri dovrebbero essere i seguenti: Interni, Affari Esteri, Giustizia, Difesa, Economia e Finanze, Attività produttive, Ambiente e tutela del territorio, Jnfrastrutture e trasporti, Diritti sociali, istruzione, Università e ricerca, Attività e beni culturali).

8 Il decreto legislativo n. 112 si caratterizza per una rilevante novità (già contenuta nella legge n. 59197), che consiste nell'inversione del princpio di enumerazione, ove la c.d. clausola residua/e opera a favore degli organi periferici e non dello Stato. Ossia, in sede di individuazione delle materie oggetto di conferimento, il decreto prevede che tutto quanto non esplicitamente mantenuto al centro è da considerarsi di competenza della periferia. In ciò si evidenzia il mutamento di angolo prospettico che connota la disciplina: si passa da un interpretazione di stampo centralistico all'adesione ad un criterio di riparto di competenze in linea con gli ordinamenti di tipo federato.

9 La legge n. 94 e il decreto legislativo n. 272 del 1997 hanno previsto l'introduzione per i servizi e le attività amministrative di un sistema di contabilità analitica per centri di costo. In attuazione ditali disposizioni, il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato ha diffuso la circolare n. 32 del 26 maggio 1999 con la quale le amministrazioni centrali e quelle autonome dello Stato sono invitate a predisporre il budget economico per ciascun centro di costo, identificato, in questa fase, con i centri di responsabilità amministrativa contenuti nel disegno di legge di bilancio per il 2000. Con una nota tecnica il Dipartimento ha individuato le prime regole per la definizione del budget economico e i tempi di presentazione dello stesso all'ispettorato Generale per le Politiche di Bilancio, il quale ne cura l'armonizzazione ed il raccordo con il bilancio finanziario. Solo per le finalità conoscitive del Parlamento, verrà predisposto uno specifico documento contenente analisi e valutazioni sull'andamento della gestione economica; i budget definiti dopo l'approvazione del bilancio verranno comunicati alle amministrazioni e costituiranno la base per l'emanazione delle direttive ministeriali e l'assegnazione delle risorse.

IO Si inserisce in questo contesto lo schema di decreto legislativo sul riordino dei controlli interni che, pur non essendo stato ancora approvato in via definitiva, ha già suscitato un acceso dibattito tra coloro che ne esaltano gli elementi di chiarezza e di ulteriore stimolo all'attuazione dei controlli e coloro invece che sottolineano elementi di confusione e di sovrapposizione di diversi organismi (si potrebbe così perpetuare la fase di stalio dei controlli interni o accentuare i costi dei controlli).

Il In un convegno tenutosi presso il CNEL nella primavera del 1998, è stato presentato uno studio (a cura del Consorzio Sudgest) che affronta il tema dell'equilibrio tra le spese per l'esercizio delle funzioni pubbliche e le risorse fiscali disponibili nelle diverse Regioni, caratterizzato, come noto, da forti dislivelli di sviluppo economico. La "questione finanziaria" viene riassunta in due elementi: quantificazione dei nuovi fabbisogni di risorse derivanti dal conferimento delle funzioni, ai due livelli (Regioni ed Enti locali) e, parallelamente, disegno di un sistema complementare di nuovi trasferimenti di risorse, dallo Stato alle Regioni e dalle Regioni agli Enti Locali.

Lo studio individua due strade alternative: 1) prevedere il finanziamento delle funzioni conferite in blocco dallo Stato alle Regioni tramite una compartecipazione delle Regioni al gettito dei tributi erariali; 2) oppure prevedere un meccanismo di finanza derivata per cui lo Stato continua a raccogliere le risorse necessarie con tributi erariali e provvede ad alimentare i bilanci regionali con trasferimenti aggiuntivi rispetto a quelli attuali, e le Regioni poi, a loro volta, trasferiscono agli enti locali le risorse necessarie per le funzioni delegate. Per il citato studio, solo la prima alternativa è in linea con una prospettiva di riforma in senso federale dello Stato italiano (ma richiederebbe un adeguato meccanismo di perequazione fiscale).

2 Invero, non si può non rilevare che ogni volta che si decentralizzano competenze e Funzioni, si presentano due tipi di problemi: 1) il livello di governo che decentra tende a sottostimare il "costo effettivo" della funzione ceduta e quindi a risparmiare sulle dotazioni finanziarie trasferite, ponendo l'altro livello di governo in situazione di "stress fiscale" fin dall'inizio; 2) ovvero, il costo viene correttamente identificato, ma poiché viene pagato con trasferimenti "centellinati", questi finiscono per gravare sul bilancio generale dell'ente ricevente.

3

ln precedenti esperienze di decentramento io Stato aveva trasferito attività ponendo l'onere della loro effettuazione a carico del sistema delle autonomie locali; così facendo, si dava alle stesse l'impressione di s'oler effettuare una mera dismissione di attività onerose disinteressandosi della fase concreta di attuazione.

4 Le riforme fiscali, negli ultimi anni, hanno interessato prima i Comuni, con l'introduzione (1993) dell'lo (contestualmente vi è stato un ridimensionamento dell'Ilor, escludendo dalla sua base imponibile i redditi da fabbricati e terreni). Inoltre, dal 1999 affluiranno a detti enti anche le imposte di registro, ipotecaria e catastale sui trasferimenti di immobili situati nel territorio di competenza. Per le Regioni, la maggiore autonomia si è concretizzata, nel corso dell'ultimo quinquennio, con l'attribuzione delle tasse automobilistiche, di una quota dell'imposta di fabbricazione sugli oli minerali e dei contributi sanitari. Dall'anno scorso il sistema è mutato in maniera significativa con l'introduzione dell'lir (imposta regionale sulle attività produttive) che ha sostituito i contributi sanitari, Ilor, l'imposta sul patrimonio delle imprese, l'IcIAp, le tasse di concessione comunale e la tassa di concessione governativa sulla partita IVA. Inoltre, sempre dal 1998, sono state adottate anche addizionali Irpef per finanziare i Comuni e le Regioni.

5 Nonostante alcuni progetti discussi nel passato, non si è avuto il coraggio di eliminare l'ente Provincia. In realtà, con la creazione degli Uffici territoriali del Governo, previsti dall'art. 11 (ma chiamati in causa anche dagli articoli 31, 37, 43 e 47) del decreto legislativo n. 300199, sembrerebbe possibile una più chiara distribuzione di competenze e responsabilità sul territorio tra Stato centrale e autonomie locali, definendo la sede provinciale come chiara espressione del ruolo dello Stato centrale, e quella regionale e comunale per la realizzazione delle scelte espresse dagli elettori locali.

6 La gamma delle soluzioni possibili per il finanziamento delle autonomie territoriali è abbastanza ampia. I modelli principali fanno riferimento a trasferimenti centrali concordati con le autonomie e garantiti, a compartecipazioni a grandi tributi statali o a tributi incassati dallo Stato nell'ambito del territorio dell'ente destinatario delle risorse, a tributi propri, disciplinati ed applicati con piena responsabilità dell'ente. Nei sistemi federali prevalgono generalmente soluzioni miste. Ad esempio, in Germania, la 181

Costituzione assegna tributi o quote di tributi ai tre livelli di governo (Bund, Lndcr e Comuni). Una parte delle entrate fiscali (imposte dirette e ritenute sugli interessi) è ripartita tra Bund, L'nder e, in misura minore, Comuni. I primi due soggetti si dividono equamente l'imposta sulle società, l'imposta sui redditi da capitale e l'IvA. Sono inoltre previste imposte federali come i dazi doganali, il prelievo sulle assicurazioni, le accise su alcol, tabacchi e oli minerali. I L'nder si finanziano inoltre con le imposte di successione, l'imposizione sui trasferimenti dei diritti reali di proprietà, con le tasse sui giochi e le lotterie.

Le tasse comunali sono rappresentate da quelle sul commercio e sui cani.

17 L'articolo 10 della legge 133 del 14 maggio 1999 delega il Governo ad emanare, entro nove mesi dall'entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi aventi per oggetto il finanziamento delle Regioni a statuto ordinario e l'adozione di meccanismi perequativi interregionali, basandosi sui seguenti principi e criteri direttivi: 1) abolizione dei trasferimenti erariali a favore delle regioni a statuto ordinario (ad eccezione di quelli destinati alle calamità naturali e per le materie di rilevante interesse nazionale); 2) sostituzione dei trasferimenti di cui al punto precedente e di quelli destinati al finanziamento delle funzioni trasferite mediante compartecipazione al gettito Irpef (comunque non inferiore a 1,5% punti percentuali), all'IvA (in misura non inferiore al 20% del gettito complessivo) e all'accisa sulla benzina (in misura non superiore a 450 lire al litro); 3) previsione di un fondo perequativo interregionale, finanziato attingendo alla compartecipazione all'IvA ed eventualmente anche destinando quota parte dell'accisa sulla benzina; 4) introduzione di meccanismi perequativi interregionali in funzione della capacità fiscale e dello sforzo fiscale ponderati sull'entità della rispettiva popolazione (tuttavia la norma non esclude l'adozione di un periodo transitorio, non superiore ai tre anni, nel quale la perequazione venga effettuata in base alla spesa storica).

8 La peculiare posizione della tesoreria statale potrebbe permettere la conoscenza cd il monitoraggio delle situazioni di cassa degli enti territoriali, consentendo la predisposizione di flussi informativi tali da ottenere, in prospettiva, sia la "sincronizzazione" dei trasferimenti pubblici con le effettive necessità dci destinatari, sia la verifica costante del rispetto del Patto di stabilità interno.

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L'esigenza di istituire forme di coordinamento tra i diversi livelli di governo, anche nella prospettiva delle riforme costituzionali è stata auspicata in F. FORTE (a cura di), Le regole della costituzione fiscale in "Notizie di Politeia", n. 49150, 1998. Sugli argomenti ivi affrontati si vedano anche le considerazioni di P. FERRO e G. SALVEMINI, Le rforme dell'amministrazione, del bilancio statale e dei controlli.' nuove regole di costituzione fiscale, in «Economia Pubblica» n.

5, 199920 Il dato dell'ultimo anno risente dell'introduzione dell'Iitp che ha sostituito soprattutto i contributi sanitari attribuiti, in prima istanza, alle entrate degli enti previdenziali.

21 Infine, sarà possibile, per gli enti che presenteranno i relativi piani quinquennali al Ministero del Tesoro in linea con questi obiettivi, ottenere il rimborso anticipato dei prestiti contratti con la Cassa depositi e prestiti senza oneri aggiuntivi.

22 A questa giustificazione, il Sottosegretario al Tesoro Giarda in una nota intitolata Il Tesoro: interventi correttivi e vincoli per essere protagonisti del risanamento (riportata nella «Guida agli Enti locali» del Sole 24-Ore del 27 marzo 1999), aggiunge il riferimento "in attuazione della politica del Governo di rilancio degli investimenti pubblici".

23 Cfr. P. FERRO, S. Lo FAso, G. SALVEMINI, op. cit.

24 Si noti che per questa procedura di monitoraggio vengono acquisite informazioni e dati diversi da quelli richiesti per il patto di stabilità interno.

25 L'andamento mensile potrebbe però essere in parte inficiato da contabilizzazioni particolari.

26 Al fine di ridurre la consistenza dei fondi depositati in tesoreria sui conti dei citati enti, si è stabilito che i pagamenti di bilancio in loro favore fossero accreditati in tesoreria solo dopo che le relative disponibilità si fossero ridotte al 20 per cento di quelle esistenti all'inizio del 1997, modificando, se del caso, anche la cadcnza temporale dell'erogazione dci trasferimenti di bilancio. Il Governo ha anche richiesto agli enti di limitare i prelevamenti dalla tesoreria entro limiti prefissati.

27 La manovra prevedeva che il sistema delle autonomie regionali e locali concorresse alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 1998-2000, garantendo che il fabbisogno finanziario da esso complessivamente generato nel 1998, non considerando la spesa sanitaria, noti eccedesse quello definitivamente rilevato per il 1997 e che per gli an9

ni 1999 e 2000 non fosse superiore a quello dell'anno precedente maggiorato in misura pari al tasso programmato di inflazione.

28

Nella nozione che comprende, oltre ai prelevamenti a valere sulle giacenze dei conti di tesoreria, anche i trasferimenti statali e le risorse acquisite a titolo di prestito.

29 Disponendo che, ove dal moniroraggio mensile degli andamenti del settore delle autonomie regionali e locali dovessero emergere scostamenti rispetto all'obiettivo di fabbisogno come sopra descritto, la Conferenza Stato-Regioni e la Conferenza StatoCittà devono farsi carico di proporre le iniziative da assumere per ricondurre i flussi di spesa entro i limiti programmati.

30 Sul punto cfr. Il controllo dei flussi di cassa della tesoreria dello Stato, in «Bollettino Economico della Banca d'italia», n. 29, ottobre 1997.

3' Previsto dalla legge n. 59197, più volte richiamata nel testo.

32 Nella tesoreria dello Stato, gestita dalla Banca d'Italia, oltre al sistema di tesoreria unica, esistono contabilità speciali (in gran parte intestate ad amministrazioni statali decentrate) e i conti di tesoreria centrale (tra i quali sono da ricordare quelli istituiti per la Cassa DDPP, le Regioni e l'UE).

33 Negata, o perlomeno giudicata irrilevante, da MT. SALVEMINI, Il ruolo della tesoreria in un sistema finanziario complesso, in Trasparenza dei Conti pubblici e controllo della spesa (a cura di G. RAGAZzI) F. Angeli, 1997.

34 Un motivo aggiuntivo potrebbe trovarsi nel desiderio di pervenire alla scissione di un collegamento tra gestione delle occorrenze del Tesoro e creazione di base monetaria. Su questo argomento, cfr. F. MARCUCCI e M. MARTELLA, Gli effetti della variabilità della liquidità derivante dal canale Tesoro nell'ambito della politica monetaria europea, mimeo, 1999.

35 All'art. 9 il D. Lgs. prevede l'avvio, dal 1999, di un biennio di sperimentazione, per una Regione e per gli Enti locali di una Provincia (individuati dal Tesoro dopo aver sentito gli organismi di rappresentanza degli enti territoriali), volta a valutare gli effetti del totale superamento del sistema di tesoreria unica: per tali enti tutti i trasferimenti statali e le entrate

proprie aftluiranno direttamente ai tesorieri ad avvenuto esaurimento delle disponibilità esistenti nei conti di tesoreria unica. La norma è stata successivamente modificata dal collegato alla finanziaria 1998 (legge n. 449197) che ha previsto l'avvio anticipato della sperimentazione al 1 luglio 1998 e l'estensione della stessa anche alle Università.

36 Con legge n. 449 del 1997 è stata anticipata al 10 luglio 1998 l'esclusione per i comuni con popolazione inferiore a 1000 abitanti.

37 In direzione opposta a tale esigenza sembrerebbe muoversi il decreto del 3 giugno 1999 con il quale il Ministro del Tesoro, nel proseguire ed ampliare la sperimentazione avviata nel mese di settembre 1998 per alcune Università, stabilisce che i trasferimenti disposti dal Ministero dell'Università siano effettuati, a decorrere dal 2001, su base bimestrale anticipata, in relazione all'assegnazione di competenza relativa all'anno precedente e dei residui passivi spettanti agli enti stessi (i trasferimenti per l'anno 2000 saranno effettuati solo quando le disponibilità finanziarie esistenti presso i tesorieri avranno raggiunto il limite del 15% delle assegnazioni di competenza dell'esercizio precedente). Ove il sistema di assegnazione dei trasferimenti sopra indicato dovesse essere generalizzato, diventerebbe concreto il rischio paventato nel testo di riprodurre una situazione di crescita dei depositi bancari di questi enti, alimentata dalle somme trasferite dal bilancio senza una stretta relazione con le effettive esigenze di spesa degli enti.

38 Questa rete costituisce l'infrastruttura del sistema dei pagamenti italiano ed è gestita dalla SIA (Società Interbancaria per l'Automazione). Della rete si avvalgono, tra l'altro, le procedure di bonifico e quelle riguardanti i sistemi di compensazione e di regolamento gestiti direttamente dalla Banca d'italia ovvero dalla SIA. 39 Il Tesoro degli Stati Uniti utilizza un sistema, definito con apposita convenzione, per cui se l'autorità locale (Stato o altro ente) preleva fondi con troppo anticipo rispetto al momento della spesa effettiva, subisce una penalizzazione finanziaria; analogamente succede al Tesoro se ritarda i pagamenti per cui l'ente deve fare ricorso a proprie disponibilità esistenti o procurate con debiti a breve.

183

Pareggio di bilancio e Patto di stabilità.

Un'analisi della normativa di Gherardo Magnin i*

Il complesso di disposizioni concernenti l'Unione Economica e Monetaria (UEM) contenute nel Trattato sull'Unione Europea (TUE), nel Trattato sulla Comunità Europea (CE) e nel più recente Patto di stabilità e crescita si configura come corpus di norme giuridiche aventi come oggetto principale parametri, indici e lato sensu regole di politica economica da analizzare al di fuori di un'impostazione meramente formalistica, privilegiando invece l'aspetto di governo dell'economia in essa contenuto. Il coordinamento delle politiche fiscali già previsto nel Piano Werner del 1970, primo progetto di unificazione economica, viene interpretato alla luce del Maastricht-pensiero in chiave restrittiva. La disciplina di bilancio, la parte "fiscale" dei cosiddetti parametri di convergenza, trova la sua regolamentazione soprattutto nella procedura sui disavanzi eccessivi.

I DISAVANZI ECCESSIVI: UN'INTRODUZIONE L'art. 104C CE in combinato disposto con il Protocollo n. 5 allegato al Trattato * Collaboratore presso la cattedra "Diritto Amministrativo Corso permanente Jean Monnet", Facoltà di Scienze Politiche, Università di Firenze.

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di Maastricht definisce il quadro e i criteri entro il quale opera la vigilanza sulle situazioni di bilancio. Questo articolo, in vigore dall'inizio della seconda fase dell'unificazione (10 gennaio 1994), costituisce il substrato• cui far riferimento anche per la fase finale, a partire dalla quale entrano in vigore alcune disposizioni che rendono più rigidi gli impegni per gli Stati Membri'. Dall'inizio della fase intermedia dell'UEM, gli Stati membri cercano di evitare disavanzi pubblici eccessivi. A questo fine, la Commissione è tenuta (a norma dell'articolo 104C CE, paragrafo 2) a sorvegliare l'evoluzione della situazione di bilancio e dell'entità del debito pubblico negli Stati membri, al fine di individuare errori rilevanti. Essa esamina, in particolare, se la disciplina di bilancio viene rispettata sulla base dei due criteri seguenti: a) il rapporto tra il disavanzo pubblico, e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato non deve superare il 3%, a meno che: - il rapporto non sia diminuito in modo sostanziale e continuo e abbia raggiunto un livello che si avvicina al valore di riferimento oppure, in alternativa, il superamento del limite del 3% sia so-

lo eccezionale e temporaneo e il rapporto resti vicino al valore di riferimento; b) il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo ai prezzi di mercato non deve superare il 60%, a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato.

Se uno Stato membro non rispetta i requisiti inerenti ad uno o ad entrambi i criteri menzionati, la Commissione prepara una relazione. La relazione della Commissione prende in considerazione anche se il disavanzo pubblico ecceda o meno la spesa pubblica per gli investimenti nonché tutti gli altri fattori significativi, compresa la posizione economica e di bilancio a medio termine dello Stato membro (art.104C CE par. 3). Le fasi successive della procedura includono la formulazione di un parere in merito alla relazione della Commissione da parte del Comitato monetario (par. 4); la trasmissione al Consiglio di un parere da parte della Commissione, circa l'esistenza di un disavanzo eccessivo (par.

5); quindi una decisione del Consiglio, dopo una valutazione globale, in merito all'esistenza di un disavanzo eccessivo (par. 6). Il Consiglio formula infine raccomandazioni, che non vengono rese pubbliche, allo Stato membro il cui bilancio è caratterizzato da un disavanzo eccessivo, al fine di far cessare tale situazione entro un determinato periodo (par. 7). Successivamente il Consiglio, qualora determini che nel periodo stabilito non è stato dato seguito effettivo

alle sue raccomandazioni, può rendere pubbliche dette raccomandazioni (par.

8). Quando ritiene che il disavanzo eccessivo nello Stato membro in questione sia stato corretto, il Consiglio abroga la sua decisione (par. 12).

Per quanto riguarda il criterio disavanzo/PIL, esso è rispettato naturalmente sia quando detto rapporto non supera la cifra del 3%2, sia quando si è di fronte alle fattispecie previste dai due "correttivi" (previsti dall'art. arti 04C CE, par. 2), alternativi tra loro, ovvero una dinamica di sostanziale e continua riduzione dello stesso che lo avvicini al 3%, oppure uno scarto eccezionale e temporaneo del rapporto che, comunque, rimanga vicino al valore di riferimento.

Le locuzioni adottate per qualificare questi "correttivi" non brillano certo per precisione, determinatezza ed incontrovertibilità e vengono affidate alla discrezionale valutazione della Commissione.

Queste eccezioni "giustificano" la possibilità che il rapporto deficit/PIL ecceda il valore di riferimento e sono formulate in maniera tale che è virtualmente escluso che possano verificarsi contemporaneamente e, comunque, entrambe presuppongono che il rapporto sia almeno "vicino" al valore di riferimento lasciando al dominio della Commissione l'interpretazione di questa condizione.

Mentre nella seconda fase dell'UEM, gli Stati Membri a norma dell'art. 109E CE "cercano di evitare disavanzi pubblici eccessivi , nella fase finale devono , cioe 185

sono giuridicamente obbligati ad evitarli. Per quanto riguarda le sanzioni durante la terza fase, in caso di persistente inottemperanza alle intimazioni del Consiglio Ecofin (art. 104C CE par. 9) rivolte allo Stato membro che presenta un disavanzo eccessivo in via preliminare e generale, il Consiglio, ai sensi del dell'art. 104C CE par. 11, può decidere di applicare o, a seconda dei casi, di intensificare una o pii delle seguenti misure: - chiedere che lo Stato membro interessato pubblichi informazioni supplementari, che saranno specificate dal Consiglio, prima dell'emissione di obbligazioni o altri titoli; - invitare la Banca europea per gli investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso lo Stato membro in questione; - richiedere che lo Stato membro in questione costituisca un deposito infruttifero di importo adeguato presso la Comunità, fino a quando, a parere del Consiglio, il disavanzo eccessivo non sia stato corretto; - infliggere ammende di entità adeguata.

Formulata nei termini esposti la disciplina di bilancio per la fase finale dell'unificazione presentava una debolezza intrinseca difficilmente conciliabile con la necessità di rigore finanziario di un'area monetaria nascente. La facoltà di operare pressioni, e in ultimo di applicare sanzioni, non solo veniva attribuita unicamente al Consiglio Ecofin (e tale peraltro rimarrà) escludendo così la Com186

missione, guardiana del Trattato, dalla fase conclusiva e politicamente piui incisiva della procedura sui disavanzi eccessivi ma si presentava totalmente priva di qualsiasi automaticità in caso di superamento dei limiti previsti, rimettendo così nelle mani del Consiglio ogni discrezionale decisione in merito. La possibilità di vedere create, all'interno del Consiglio, maggioranze di Paesi virtuosi propensi ad una rigida applicazione dei parametri o, al contrario, blocchi di Paesi inclini ad una politica di bilancio "rilassata" portarono alla rivisitazione della normativa in questione.

LA PROPOSTA DI WEIGEL

Con l'inizio della terza fase dell'UEM, la disciplina di bilancio già prevista nelle norme del Trattato di Maastricht attraverso la procedura sui disavanzi eccessivi trova una nuova e pit profonda regolamentazione nel Patto di Stabilità e Crescita. Sebbene il 1 gennaio 1999 segni per l'opinione pubblica lo spartiacque, anche psicologico, verso l'abbandono della valute nazionali prestando dunque attenzione, soprattutto, al lato monetario dell'Unificazione, la gestione della finanza pubblica rimane il Kern del dibattito economico e politico.

L'avvento della fase finale segna anche la definizione di un nuovo assetto politico-istituzionale afferente alla funzione di indirizzo economico nell'Euro-area, dovendo adesso basarsi sulla condotta di una politica monetaria accentrata

nelle mani della Banca Centrale Europea (BcE) mentre la politica fiscale "decentrata", vedremo in quale misura, viene lasciata alla competenza degli Stati membri partecipanti all'UEM. L'originaria proposta per un Patto di Stabilità tramite il quale assicurare una rigorosa disciplina di bilancio anche dopo l'introduzione della moneta unica viene sottomessa all'attenzione dei Governi dei Paesi dell'Unione Europea, nel novembre del 1995, dall'allora Ministro delle Finanze tedesco Theo Weigel e concerne il rafforzamento dei criteri di controllo relativi alla finanza pubblica.

Tra i sostenitori di questa nuova regolamentazione, a fianco del mondo germanico, figurano anche le Banche centrali europee interpreti di quella corrente di opinione per la quale la forza costrittiva imposta dalla disciplina di bilancio, nella fase di transizione all'unificazione monetaria, poteva venire meno dopo l'adozione della moneta unica, dando luogo ad un comportamento da parte degli Stati membri pii indulgente nella gestione e sorveglianza delle proprie situazioni di bilancio, considerate difatti anche le difficoltà riscontrate dalla maggior parte dei Paesi candidati alla moneta unica nel rispettare il criterio del 3% rispetto al PIL. Nonostante l'apparato di disposizioni dell'art. i 04C CE riguardanti le sanzioni in caso di indisciplina di bilancio4 , il timore di Weigel sull'inadeguatezza5 delle stesse ad operare un rafforzamento

della disciplina fiscale contribuì a creare un background culturale adatto per la proposta avanzata dal Bundesfinanzininister6 . Le posizioni della dottrina giuridica tedesca, sensibile alla questione, apparivano polarizzate tra chi propendeva per una ferma e decisa svalutazione delle preoccupazioni palesate dalle istituzioni economiche (considerate come rappresentazioni di scenari estremi ed impossibili), assicurando dunque spazio sufficiente per una "tenuta" meramente giuridica delle norme dell'art, 104C CE e chi, invece, optava per una valutazione prudente della (allora) situazione normativa vigente, in considerazione della presenza di un relativo margine di discrezionalità (dell'Ecofin) nella scelta delle sanzioni in caso di superamento del limite del 3%. L'impostazione critica del mondo germanico, verso l'apparato normativo dell'art.

104C CE, minò l'attendibilità della promessa secondo la quale la moneta europea avrebbe goduto della solidità e della stabilità del marco tedesco. Chi riteneva il Trattato sulla Comunità Europea capace di assicurare all'Unione monetaria il carattere di Stabilitiitsgemeinschafi avrebbe visto nella mancata osservanza della stabilità stessa una rovinosa caduta del fondamento giuridico dell'Unione monetaria, tanto da non poter opporre e far valere, in tale situazione, la forza del Trattato di fronte alla fine dell'appartenenza ad una comunità della stabilità fallita.

C'è da dire che questa visione è congrua 187

alla lettera del Trattato di Maastricht che contrassegna la stabilità monetaria come meta prioritaria, non solo del Sistema Europeo delle Banche Centrali e della stessa Banca Centrale Europea ma anche degli Stati membri e della Comunità 8 In considerazione di questi timori fu ritenuta, dunque, politicamente opportuna l'iniziativa di Weigel che consisteva nei seguenti punti: - fissazione a medio termine, del deficit all'l% del PIL in "condizioni economiche normali", prevedendo dunque un margine di sicurezza del 2% del PIL sopra questo obiettivo, cosicché il limite del 3% non sarebbe stato oltrepassato anche in periodi economicamente sfavorevoli; - il superamento del valore di riferimento del 3% sarebbe stato consentito solo in casi estremi ed eccezionali e disposto con un accordo a maggioranza qualificata dei partecipanti alla terza fase dell'UEM, ovvero in presenza di una caduta annuale del PIL reale di almeno il 2%; - l'impegno alla riduzione dell'indebitamento pubblico sotto il limite del 60% del PIL; - monitoraggio dell'osservanza del 3%, sulla base dei dati forniti dalla Commissione in primavera e autunno di ogni anno; - limitazione dell'intervento pubblico nell'economia, mantenendo il tasso di crescita della spesa pubblica sotto quello del PIL nominale; - obbligo degli Stati membri di corri.

188

spondere un deposito infruttifero pari allo 0.25% del PIL per ogni punto o frazione percentuale sopra il valore di riferimento del 3%, prevedendo così l'automaticità delle sanzioni pecuniarie.

Questo deposito si sarebbe trasformato in ammenda se dopo due anni il deficit fosse rimasto ancora al di sopra del 3%.

GLI ASPETTI PROBLEMATICI DELLA CONVERGENZA NELLA PROPOSTA TEDESCA L'iniziativa tedesca, seppur allo stato embrionale, presenta già nel 1995 una serie di problematiche attinenti alla percorribilità politica del progetto, la sua sostenibilità economica nonché la forma giuridica da adottare.

Alcune delle proposte iniziali non saranno accettate 9, sebbene fosse stata largamente condivisa la necessità di assicurare la disciplina di bilancio non solo come mero criterio di accesso bensì come caratteristica permanente dell'UEM, sottolineandosi così l'aspetto di convergenza durevole dell'intero processo di integrazione. La riduzione della quota di settore pubblico nell'economia, seppur desiderabile sotto il profilo della pura efficienza, non fu accettata come regola generale. Questa scelta fu dovuta anche al fatto che l'imposizione di un limite alla libertà degli Stati di scegliere il mix tra pubblico e privato avrebbe intaccato una sensibile manifestazione della sovranità statuale ancora tutelata dal principio di sussidiarietà'°.

Del resto, su questo punto nel paragrafo 3 dell'art. 3 A CE, viene stabilito

il rispetto, in relazione alle azioni di politica economica, solo di alcuni "principi direttivi" come: "prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile," senza prevedere modalità specifiche di implementazione" di tali direttive. Al di là delle disposizioni legislative riguardanti l'armonizzazione della fiscalità indiretta (art. 99 CE) e il funzionamento del mercato comune (art. 100 CE) il Trattato non entra nel merito di "come" allocare le risorse, non volendo dunque insidiare quella parte di sovranità economica ancora spettante agli Stati Membri 12 . Risulta chiaramente l'importanza attribuita, nel quadro dell'Unione economica, alle singole politiche economiche degli Stati membri, in conformità al principio di sussidiarietà, non essendo richiesto agli Stati membri di perseguire, se non nel rispetto del principio di "un'economia aperta e in libera concorrenza", specifiche azioni di politica economica, lasciando libera in tal modo la scelta degli strumenti a questo fine necessari.

Ancora, i limiti all'indebitamento complessivo non furono considerati necessari, in quanto un bilancio con un deficit sotto il 3% del PIL avrebbe automaticamente implicato una caduta del debito pubblico ben sotto il limite del 60% del PIL. L'obiettivo uniforme di deficit dell'l% del PIL non teneva in giusta considerazione le specificità nazionali e fu reputato né necessario né sufficiente per garantire il rispetto della soglia del

3%. La mancanza di qualsiasi flessibilità sulla clausola dell'eccezionalità concernente la severità delle recessioni parve troppo rigorosa e l'automaticità delle sanzioni, giudicate eccessivamente onerose, andava oltre le previsioni del Trattato di Maastricht che lasciavano un grado di discrezione in questo ambito al Consiglio Ecofin. Dal lato prettamente formale la proposta di emendare il Trattato di Maastricht seguendo l'art. N TUE al fine di concretizzare giuridicamente l'iniziativa di 'Weigel non si rivelò desiderabile, dato che ciò avrebbe comportato la necessità della ratifica da parte di tutti gli Stati membri con relativa approvazione dei singoli Parlamenti nazionali, né tantomeno il ricorso all'art. 235 CE era attuabile, non potendo esso permettere, in via di principio, una deroga alle disposizioni contenute nelle fonti primarie 13 . La previsione di un non meglio definito Consiglio per la Stabilità, non dotato però di poteri sull'inflizione delle sanzioni, da un lato, e l'automatismo della sanzioni stesse in caso di superamento del limite del 3%, dall'altro, presentavano dunque la proposta di Weigel come una oscillazione poco chiara tra una sorta di gentlemen's aggreement che fosse capace di implementare una generica situazione di Selbtsbindung ed un trattato di diritto internazionale (anche se non espressamente esplicitato).

Oltre al dibattito sulla procedura da adottare per la statuizione giuridica della proposta tedesca, si consideri che esso 189

fece sorgere delle divergenze fondamentali sia in ordine alla gerarchia degli obiettivi dell'Unione, sia in relazione alle modalità concrete per risponderv1 14 Per quanto riguarda il concetto stesso di stabilità si sottolineava come esso non potesse avere un significato univoco potendo far riferimento alla stabilità o alla regolarità del ritmo di crescita o pii in generale, seguendo la lettera dell'art. 2 CE, intenderlo come uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nella Comunità 15 che dovesse comunque tenere in considerazione il principio di coesione. .

I PRINCIPI GENERALI Nella sua forma definitiva il Patto di Stabilità fu pensato ed elaborato come normazione secondaria e trovò poi compiuta estrinsecazione al Consiglio Europeo di Amsterdam. Quello che verrà poi in breve denominato Patto di Stabilità è l'insieme composto: - dalla Risoluzione del Coi%siglio Europeo di Amsterdam del 17 giugno 1997 relativa al Patto di stabilità 16 - dalla Risoluzione del CE su crescita e occupazione del 16 giunge 1997 1 - dal Regolamento del Consiglio (CE) n. 1466197 del 7 luglio 1997, per il rafforzamento della sorveglianza della posizione di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economichelS, - dal Regolamento del Consiglio (CE) n. 1467/97 del 7 luglio 1997, per l'accelerazione e il chiarimento delle moda,

,

190

lità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi 19 .

Consideriamo i principi generali del Patto. I membri dell'UEM devono raggiungere una posizione di bilancio sana per affrontare le conseguenze di bilancio dovute a condizioni economiche avverse, senza dover ricorrere a politiche procicliche come chiaramente indica la Risoluzione del Consiglio Europeo sul Patto di Stabilità e crescita: "Il perseguimento dell'obiettivo concernente l'equilibrio del bilancio, con un saldo prossimo al pareggio o positivo, consentirà agli Stati membri di far fronte alle normali fluttuazioni cicliche, mantenendo il disavanzo pubblico entro il valore di riferimento del 3% del PIL"20. Viene richiesta una rigorosa disciplina di bilancio che prolunga i considerevoli sforzi operati per raggiungere i parametri di Maastricht.

In relazione a ciò, la Relazione della Commissione sulla convergenza qualifica queste performance come "generally soundly based", considerate non come effimere manifestazioni contingenti in vista di un traguardo ben preciso e imminente, bensì come facenti parte di un processo di risanamento finanziario dalle solide basi e dunque difficilmente reversibile nel futuro. A dispetto di ciò, il raggiungimento di una disciplina di bilancio dovrà essere continuata negli anni futuri ed ulteriori aggiustamenti saranno necessari per rispettare gli obblighi del patto.

In relazione al Regolamento 1466/97, che viene considerato l'arma preventiva del Patto si prevede la presentazione da parte degli Stati membri partecipanti di un programma di stabilità che deve contenere l'obiettivo, a medio termine, di una situazione di bilancio della pubblica amministrazione, con un saldo prossimo al pareggio o in attivo e il sentiero di avvicinamento a tale obiettivo, indicante anche l'andamento previsto del rapporto debito pubblico/PIL; le principali ipotesi sull'andamento di alcune grandezze macroeconomiche rilevanti per il programma di stabilità, come le spese per investimenti pubblici, crescita reale del Pi, i dati sull'occupazione e l'inflazione, l'esame dei provvedimenti di bilancio ed in genere delle misure di politica economica adottate o proposte per il conseguimento degli obiettivi inseriti nel programma di stabilità con relative stime degli effetti quantitativi sui conti pubblici. A questo deve essere affiancata, infine, l'analisi delle ripercussioni delle eventuali modifiche delle ipotesi economiche sulla posizione di bilancio e sul debito.

Si prevede un meccanismo di sorveglianza, che include la Commissione, il Comitato economico e finanziario e naturalmente il Consiglio, il quale nell'ambito della sorveglianza multilaterale prevista dall'art. 103 CE esamina se l'obiettivo di bilancio a medio termine del programma di stabilità preveda un margine di manovra per evitare il determinarsi di un disavanzo eccessivo, se le

ipotesi sulle quali il programma è basato siano realistiche e se le misure susseguenti siano congrue alla realizzazione del percorso che viene tracciato per l'avvicinamento all'obiettivo di bilancio a medio termine21 .

Il programma di stabilità non deve però limitarsi ad una angusta visione del singolo Paese in questione, bensì deve permettere un pii stretto coordinamento delle politiche economiche, a norma quindi, dell'art. 103 par. 3, e una coerenza con gli indirizzi di massima per le politiche economiche adottati dal Consiglio, secondo la procedura consueta dell'art. 103 CE par. 2.

Il Regolamento del Consiglio 1467/97 costituisce, invece, l'arma dissuasiva. Il Regolamento afferma, e deve esserne sottolineata la rilevanza giuridica, che le disposizioni in esso contenute, insieme al protocollo n. 5 allegato al Trattato costituiscono "un nuovo sistema integrato di norme" per l'applicazione dell'art.

104C CE.

LA PROCEDURA PER I DISAVANZI ECCESSIVI

Sono anche stabiliti dei termini per l'attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, al fine di assicurare così l'efficace e tempestivo funzionamento, nonché le modalità di attuazione delle sanzioni di cui all'art. 104C par. 1122. La raccomandazione del Consiglio per la correzione del disavanzo eccessivo o comunque gli stadi ulteriori della procedura dovrebbero essere anticipati dallo Stato 191

membro interessato che avrà, a questo riguardo, ricevuto un avvertimento nel quadro della procedura di allarme preventivo, in quanto si considera il determinarsi di un disavanzo eccessivo nella terza fase dell'unione monetaria un "fatto grave" al quale si pretende che gli interessati reagiscano in maniera tempestiva 23.

Questo Regolamento include, oltre a quello che può essere considerato il cere del Patto stabilità, ovvero il perseguimento dell'obiettivo a medio termine di una posizione di bilancio vicino al pareggio o in avanzo, anche alcune chiarificazioni e specifiche riguardanti l'art. 104C CE tentando così di colmarne le lacune.

Si dà una definizione della condizione di eccezionalità nel superamento del limite del 3% per il disavanzo pubblico. Il superamento è eccezionale qualora sia determinato da un evento inconsueto non soggetto al controllo dello Stato Membro interessato e abbia rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione oppure quando, in presenza di una recessione dura e persistente, la possibilità di manovrare il bilancio tra la posizione di vicinanza al pareggio e il limite del 3% del PIL può non essere sufficiente per ammortizzare gli effetti negativi della stessa. In particolare, ci si può richiamare a ciò se il superamento del deficit ha luogo in presenza di una recessione severa.

Questa è considerata tale e dunque "eccezionale" se vi è una caduta annuale del PIL reale di almeno il 2%. Una caduta annuale del PIL meno del 2% po192

trebbe, comunque, essere considerata eccezionale dalla Commissione nella sua relazione di cui all'art. 104C par. 2 alla luce di accertata evidenza, come la severità della recessione o la perdita accumulata di produzione relativamente alle tendenze passate. In ogni caso, la diminuzione annua del PIL in termini reali deve essere almeno dello 0.75%24, a questa cifra dovrebbero, in linea di principio, far riferimento gli Stati membri allorché invochino la fattispecie prevista dal Regolamento 25 .

Questo limite minimo, lo 0.75%, preso in seria considerazione da parte degli economisti per classificare una recessione come severa, caduta del PIL di almeno il 2% oppure semi-severa, con perdita di produzione tra lo 0.75 e il 2%, non trova collocazione in un atto legislativo dotato di forza giuridica, come lo è il Reg. 1467/97 bensì nella Risoluzione del Consiglio Europeo sul Patto di Stabilità, che è invece un atto di indirizzo politico. Per quanto riguarda la definizione del significato di temporaneo, il deficit oltre il 3% del PIL verrà considerato tale nella misura in cui è anche presente l'eccezionalità, per cui il deficit deve tornare sòtto la soglia del 3% nell'anno seguente alla avvenuta circostanza di eccezionalità.

LE SANZIONI È stata operata, inoltre, una specifica delle sanzioni nel caso di deficit eccessivi persistenti. Lammontare del deposito

infruttifero nel primo anno delle sanzioni applicate è composto da una componente fissa pari allo 0.2% del PIL e da una componente variabile pari ad un i / 10 della differenza tra il deficit e i limite del 3%. La soglia massima di questa sanzione è stabilita allo 0.5% del PIL. La componente fissa mira a non incorrere nel deficit eccessivo, mentre quella variabile rappresenta un incentivo a limitare l'eccesso sopra la soglia del 3%. In ogni anno successivo alla inflizione della sanzione viene applicata solo la componente variabile. In principio, il deposito infruttifero viene convertito in ammenda se il deficit eccessivo persiste dopo due ann1 26 .

Le sanzioni specificate nel Patto si riferiscono alla non ottemperanza del criterio del deficit, nulla viene detto in relazione al criterio del debito.

Diniziale proposta della Commissione 27 prevedeva le sanzioni anche per la mancata osservanza del criterio relativo al rapporto tra debito pubblico e PIL, che però fu espunta già dalla proposta modificata dalla Commissione 28 . Questa scelta, che non scaturisce da disposizioni imperative, mostra il margine di discrezionalità di cui hanno goduto gli estensori in sede di normazione 29 .

Il valore di riferimento del 60% relativo al debito pubblico rimane, dunque, soggetto alle prescrizioni contenute nell'art. 104C CE assieme alla specifica contenuta nel Protocollo sui disavanzi eccessivi che, a norma dell'art. 239 CE, costituisce parte integrante del Trattato.

L'ASIMMETRIA DI VALUTAZIONE DEL DEBITO PUBBLICO (CONFRONTO AL DEFICIT) Alla luce di quanto esposto, si rileva un'asimmetria di valutazione sia politica sia giuridica tra il criterio del deficit e quello del debito30. Da sottolineare, comunque, che la prassi del Consiglio nell'applicazione dell'art. 104C CE prende in dovuta considerazione l'entità del debito pubblico, considerato non in maniera isolata, rilevandone l'importanza indiretta e mediata nella valutazione sull'esistenza di un disavanzo eccessivo. Questa attenzione esclusiva al deficit suscitò perplessità, nella considerazione che il rischio dell'instabilità nell'UEM fosse maggiormente collegata agli alti livelli di debito rispetto al superamento della soglia del 3% per I. disavanzi pubblici. Rinnovate pressioni sono state operate allora sui Paesi altamente indebitati per ridurre velocemente il rapporto debito/Pi. Questo implica che il criterio del debito potrebbe essere rinforzato in maniera pis rigorosa rispetto a quanto fatto in passato. Su questo aspetto è intervenuta la dichiarazione informale dell'ECOFIN del l maggio 1998, che chiude il pacchetto di disposizioni del patto di stabilità: "Se le condizioni economiche si sviluppano meglio di quanto previsto, gli Stati membri ne approfltteranno per rafforzare il risanamento del bilancio in modo da raggiungere l'obiettivo a medio termine di una posizione della finanza pubblica prossima al pareggio o pòsitiva, come previsto dagli impegni sottoscritti nel Patto di 193

stabilita e crescita. Quanto più elevati sono i rapporti tra debito pubblico e PIL degli Stati membri parteczanti tanto maggiori dovranno essere i loro sforzi per ridurli rapidamente. A tal Jìne oltre al mantenimento dell'avanzo primario a livelli adeguati, conformemente agli impegni e obiettivi previsti dal Patto di stabilita e di crescita dovrebbero essere varate altre misure per ridurre l'indebitamento lordo. Strategie di gestione dell'indebitamento dovrebbero, inoltre, ridurre la vulnerabilità dei bilanci."

IN CONCLUSIONE: IL PAREGGIO E UN PRINCIPIO SENZA VINCOLI E SANZIONI

L'obiettivo a medio termine di un saldo di bilancio prossimo al pareggio o in avanzo così come viene enunciato nei Regolamenti che costituiscono parte del Patto di Stabilità si caratterizza, allo stato attuale, come "norma programmatica", norma di principio. A differenza della normazione inserita nel Regolamento (CE) 1467/97 risultante essere la specifica sostanziale di talune norme riguardanti la procedura sui disavanzi eccessivi, "costituzionalizzate" nel Trattato di Maastricht, il principio del pareggio di bilancio, che non ha nel Trattato riferimenti espficiti (finanza sana non significa pareggio di bilancio ma rispetto delle disposizioni dell'art. 104C CE), non trova nel Regolamento 1466/97 altrettanto compiuta estrinsecazione e chiarificazione.

Se l'obbligo di evitare disavanzi pubblici eccessivi nella terza fase dell'unificazione 194

economica e monetaria impone agli Stati aderenti alla moneta unica la sua portata giuridica vincolante nel momento in cui appronta un sistema sanzionatorio in caso di comportamento indisciplinato, tanto non si può affermare per l'obiettivo a medio termine di una situazione di equilibrio delle finanze pubbliche, per la quale la mancanza di un apposito meccanismo di sanzioni (che tantomeno la Risoluzione poteva prevedere) in caso di scostamento dallo scopo prefissato vanifica e svuota di contenuti il principio stesso. Del resto, le indicazioni concernenti questo obiettivo contenute nella Risoluzione del Consiglio Europeo relativa al Patto di Stabilità rivelano il carattere esortativo dello stesso, pensato al fine di contrastare le normali fluttuazioni cicliche mantenendo, comunque, il disavanzo pubblico entro il valore di riferimento del 3% del PIL. Lo stesso si deve dire per i riferimenti contenuti nella normazione secondaria riguardante sia la presentazione dei programmi di stabilità o convergenza sia le modalità di attuazione della procedura sui disavanzi eccessivi dove l'equilibrio delle finanze pubbliche è pensato come principio guida, "faro" della politica di bilancio degli Stati membri per il quale si richiede l'indicazione del sentiero di avvicinamento allo stesso. Manca, però, la "condizione": mentre per il passaggio alla moneta unica una situazione non caratterizzata dalla presenza di disavanzi eccessivi era una delle "condizioni" per l'ammissione alla terza fase, una situa-

zione di saldo di bilancio prossimo al pareggio o in avanzo non è al momento "condizione" per il verificarsi di qualcosa. Il venire meno di questa situazione non comporta al momento né esclusioni, né sanzioni di sorta. Arduo sarebbe, dunque, rintracciare un vincolo giuridico esplicito e imperativo che vietasse disavanzi di bilancio tout court, quando si apprestano le sanzioni in caso di deficit eccessivi ammettendo dunque l'esistenza dei disavanzi stessi. Del resto, i presupposti teorici del Patto di stabilità devono essere ricercati, comunque, nei vincoli quantitativi già stabiliti nel Trattato. Questi vincoli che sono stati ampiamente esaminati ed anche criticati dalla teoria economica hanno, e non poteva essere altrimenti, una origine prettamente economica che come vedremo risente in maniera molto incisiva della situazione tedesca di quegli anni.

Superate le "colonne d'Ercole" per il passaggio alla terza fase de!l'UEM manca un obiettivo in prospettiva, una sorta di "quarta fase" da raggiungere per la quale approntare disposizioni e procedure tanto ove si consideri il carattere irreversibile dell'unificazione monetaria che non prevede l'espulsione di uno Stato partecipante. L'avere immesso, in maniera generica e introduttiva, l'esigenza del pareggio di bilancio come nuovo obiettivo dopo quelli richiesti per il passaggio alla terza fase sottolinea, ancora una volta, l'approccio gradualistico tipico dall'UEM, ovvero l'affermarsi "progressivo" di certi principi, ai quali il carattere obbligatorio

viene conferito per via normativa dopo l'esaurirsi di un processo di avvicinamento operato, all'inizio, tramite strumenti non obbliganti.

Il procedere per gradi, per stadi è carattere precipuo dell'architettura dell'UEM e questo metodo viene poi seguito nelle fattispecie particolari. Si pone, allora, il quesito se l'affermare il principio del pareggio di bilancio come obiettivo a medio termine nel Patto di stabilità conferisca ad esso un'autonomia di contenuto, contrassgnandolo come una scelta di valori effettuata nel dominio della teoria della politica economica, oppure, al contrario, se pretendere da parte degli Stati membri il rispetto di questa "nuova" regola sia strumento necessario per l'affermarsi di altri principi o necessità nella fase finale dell'unificazione monetaria.

IL VERO OBIETTIVO: LA STABILITÀ DEI PREZZI

Di primo acchito si potrebbe protendere per la prima opzione, e quindi considerare l'introduzione del principio del pareggio di bilancio come l'esaltazione di una visione di politica economica fortemente improntata ad una rigorosa disciplina di bilancio e, dunque, politicamente marcata. in realtà, l'analisi del contesto culturale e politico durante il quale matura l'originaria proposta tedesca per il Patto di stabilità, nonché nello specifico i principi e le norme affermati nei due Regolamenti e nella Risoluzio195

ne del Consiglio Europeo di Amsterdam spostano l'asse della riflessione maggiormente sul piano economico. Si può rilevare che il fulcro della questione ruota intorno al problema della stabilità dei prezzi, particolarmente sentita in Germania, e che obiettivi e principi più o meno dettagliatamente regolati, ivi compreso il pareggio di bilancio, dal Patto di Stabilità siano concepiti e finalizzati per la salvaguardia della stabilità dei prezzi, considerata in questi termini come un "bene comune," strumer'to della Stabilitàtsgemeinschafr, al qdale tutto sacrificare. Partendo dalla proposta tedesca di Weigel, "incensata" dalla letteratura giuridica tedesca e arrivando sino alla versione definitiva concepita ad Amsterdam nel giugno 1997, non si può non sottolineare l'ossessiva richiesta da parte del mondo germanico di strumenti adatti a garantire, una volta entrata a regime la moneta unica, la stabilità dei prezzi nell'Europa comunitaria o meglio nel sistema economico tedesco riscontrandosi in questo atteggiamento la conseguenza del peso che sul legislatore tedesco ha avuto il ricordo della svalutazione degli anni Venti.

Ulteriori problematiche riguardano il

lato formale del Pa!tto. Difatti, l'abbinamento di due strLimenti legali con la massima esortaziofae politica del Consiglio Europeo poggiò sull'idea che la combinazione di queste due differenti manifestazioni della maggiore autorità decisionale che adotti atti legali e dell'istituzione politica di maggior peso avrebbe prodotto lo stesso effetto dell'automatica imposizione di sanzioni così come prevista dall'originaria proposta tedesca 31 . Se così fosse, e la prassi confermerà o meno, il Consiglio Europeo ne uscirebbe rafforzato, potendo così emanare direttamente atti di natura giuridica esclusi'normalmente dal suo campo di attribuzioni 32 .

Più in generale, si nota in dottrina che l'UEM è il solo settore in cui dopo Amsterdam, sopravvive la procedura di cooperazione di cui all'art. 189C CE e che nonostante sulle disposizioni del Trattato riguardanti l'Unione economica e monetaria vi sia stato un "immobilismo assoluto", per quanto riguarda invece il Patto di stabilità, siano state effettuate "delicate operazioni volte ad interpretare e ad integrare disposizioni di rango primario in sede di Consiglio Europeo o con atti di diritto derivato" 33 .

Prima che fosse raggiunto l'accordo sul Patto di stabilità con conseguenti regolamenti attuativi, le disposizioni riguardanti i disavanzi eccessivi nella terza fase (in particolare il divieto degli stessi e le relative sanzioni per gli inadempienti) erano inserite esclusivamente nell'art. 104C, e sarebbero difatti entrate in vigore con l'inizio della terza fase, in altre parole, dal

10 gennaio 1999. In realtà, l'emanazione di norme secondarie facenti seguito al Consiglio Europeo di Amsterdam ha impedito l'entrata in vigore delle norme del citato art. 104C regolanti la fase finale dell'unificazione, così come erano state pensate a Maasrricht, ampliandone di fatto la portata.

2 Almeno in via generale, in quanto l'art. 104C par.

196

3 c. 2 prevede che la Commissione possa preparare una relazione se ritiene che in un determinato Stato membro, malgrado i criteri siano rispettati, sussista il rischio di un disavanzo eccessivo per il periodo seguente quello sotto esame. Questo potrebbe originare sia da fattori meramente economici sia, in casi estremi, da una moditìca di situazioni giuridiche soggettive ad opera di organi giurisdizionali, tesa ad estendere a certe categorie di cittadini il godimento di diritti a spiccato contenuto economico con conseguente aggravio sul bilancio pubblico.

mente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario.»

Il Essendo possibile,da un punto di vista di teoria economica, raggiungere gli stessi risultati con differenti strumenti.

2 S. CAFARO, Moneta unica europea e criteri di con-

Art.104C pari.

Vedi par. 9 e 11 art. 104 C. 5 Cfr. U. HADE, Ein Stabilitàtspaktfiir Europa? Zur

nali», 1996, n. 3, p. 475 13 H&HN, op. cit, p. 1135.

4 P. MAILLET, Le pacte de stabilité e de croissance: portée et limites du compromis de Dublin, in «Revue du Marché commun et de l'Union européenne», n.

404, gennaio 1997, p. 5 ed anche D. STASAVAGE, Le pacte de stabilité de l'UEM: crédible et efficace? in «Politique étrangère», n. 4, 1997 p. 567-58 1.

5 MAILLET, op. cit., p. 6 6 Vedi GUcE C236 del 2.8.1997 p. 1-2.

17 Ibidem, p. 3-4.

IO Vedi GiJcE L 209 del 2.8.1997 p. 1-5.

19 Ibidem, p. 6-10.

3

Zuldssigkeit viilkerrechtlicher Vertr&ge zwischen den Mitgliedtaaten der EU, in «Europàische Zeitschrift fiir Wirtschaftsrecht», n. 5, 1996, p139.

6 Cfr. H.J. HAHN, Der Stabilitàtspaktfiir die Luropiiische Wiihrungsunion, in «J uristen Zeitung», 1997, n. 23, p. 1134 e segg., ed anche B. MARTENC-

ZIJCK, Der Europiische Rat und die Wirtschafis- und Wàhrungsunion, in «Europarecht», n. 2, 1998 spec. p. 160-166, U. HARTMANN, Offentliche Finanzpolitik

in der LU, rechtlicher Rahmen und dessen Diskussion im Vorfeld der Regierungskonferenz 1996, in «Europische Zeitschrift ftir Wirtschaftsrecht», n. 5, 1996, p. 136-137. Sulla proposta tedesca per un Patto di stabilità si veda anche R. SMITS, The European Central Bank-Institutionals Apects, The Hague, Kluwer Law International, 1997, p. 84-90.

P. Kiv.cHoi, Die Mitwirkung Deutschlands an der Wirtschafi- und Wihrungsunion, in FS Franz K]ein, 1994, p. 61. Contrario a questa visione A. PREDIERI,

Non di solo euro. Appunti sul trasferimento di poteri al Sistema europeo delle banche centrali e alla Banca centrale europea, in «Il Diritto dell'Unione Europea», n.1 1998, p. 29.

8 Cfr. art. 3A CE. 9 Cfr. M. BUTI, D. FiNco, H. ONGENA,

Fiscal Discipline and Fiexibility in Emu: The Implementation of the Stability and Growth Pact, in «Oxford Review ofEconomic Policy», voI. 14, n. 3, 1998, p. 84 e ss. iO Art. 3 B CE: «La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere suffìciente-

vergenza. Una valutazione giuridica delle norme del Trattato in materia di politica economica e monetaria, in «Diritto Comunitario e degli scambi internazio-

20 GucE C 236 del 2.08.1997 21 Vedi art. 5 par.1 22 Vedi (13) considerando.

23 Vedi (16) considerando.

24 Cfr. Risoluzione del Consiglio Europeo relativa al patto di stabilità del 17 giugno 1997, p. 2.

25 Vedi Regolamento (CE) 1467197 art. 2 e. 3.

26 Sulle sanzioni previste dal Regolamento 1467197 si veda M. L!ENEMEYER, Die Sanktionen des Stabilitiitspaktes und ihre Vereinnahmung, in «Europlisches Wirtschafs & Steuerrecht», n. 8, 1997, p. 257-263 spec. 260-263 27 GUCE, C 368/1996, p. 12.

28 GucEC13011997,p. 12.

29 Di Bucci, op. cit., p. 374 30 HAF1N, op. cit., p. 1133-1134.

3' HAHN, op. cit., p. 1137.

32 Marca il carattere di sofi law della Risoluzione del Consiglio Europeo diAmsterdam V. Di Bucci,

La Corte di Giustizia, l'Unione Economica e Monetaria ed il passaggio alla moneta unica, in Scritti in onore di Giuseppe Federico Mancini, Vol. lI - Diritto dell'Unione Europa, Milano, Giuffrè, 1998, p. 324.

33 Di Bucci, op.

cit., p.

315.

197

dossier

,,

l'er un Lutopla possibile ,

In un numero della Rivista che si presenta come l'unico di un'annata, non poteva mancare un dossier dedicato all'Europa. Con esso facciamo il punto sulle questioni che piĂš sono dibattute in questo percorso verso l'unificazione. A partire dalla presentazione del documento del Comitato presieduto da Jean-Luc Dehaene, il gruppo di autorevoli esponenti del dibattito sulle istituzioni europee chiamato, da Romano Prodi, ad esprimere opinioni sui problemi dell'allargamento dell'Unione, da discutere alla prossima Con terenza Intergovernativa.

Il nostro Massimo Ribaudo, anche sulla base di quanto espresso dal gruppo di saggi, presenta alcuni brevi "esercizi di utopIa" sui possi bili flâ‚Źturi dello Stato sovranazionale europeo. Insieme, ripubblichiamo due interventi apparsi sul Sole 24 Ore, rispettivamente di Stefano Micossi e di Gianni Vattimo. Il primo abbastanza critico nei confronti dello stesso documento del Comitato Dehaene, il secondo - data l'esperienza del suo autore come eurodeputato - svolge, invece, una parziale difesa delle istituzioni sulla burocrazia europea, in particolare del Parlamento.

199

Implicazioni istituzionali dell'allargamento.

Un rapporto alla Commissione europea a cura del Comitato Dehaene

1110 settembre 1999, il presidente designato della Commissione europea, Prof.

Romano Prodi, ha invitato Jean-Luc Dehaene, ex-primo ministro del Belgio, Richard von Weizsacker, ex-presidente della Repubblica federale di Germania, e Lord Simon of Highbury, ex-presidente di British Petroleum e ex-ministro, a presentare in tutta indipendenza, entro metà ottobre, le loro opinioni sulle implicazioni istituzionali dell'allargamento, in vista della prossima Conferenza Intergovernativa.

Il gruppo ha ricevuto il mandato di individuare i problemi istituzionali da affrontare e di enunciare i motivi che rendevano necessario discuterne in sede di CIG. Non si trattava di formulare proposte specifiche, dato che questo compito spetterà agli Stati membri e alle istituzioni, prima della conferenza e nel corso dei suoi lavori.

Il gruppo si è riunito più volte nei mesi di settembre e ottobre sotto la presidenza del Sig. Dehaene ed ha presentato il proprio rapporto il 18 ottobre scorso.

OssERvAzIoNI INTRODUTTIVE: LA SFIDA CHE ABBIAMO DI FRONTE

Urge una rforma. La struttura istituzionale dell'Unione europea è stata definita

negli anni Cinquanta per una Comunità di sei Stati membri. Si trattava di una costruzione molto originale, che ha reso ottimi servizi all'Europa. È in gran parte merito delle istituzioni se le relazioni sociali ed economiche tra i Paesi e le società dell'Europa occidentale sono state trasformate profondamente, ma al tempo stesso in modo equilibrato e pacifico. Gli elementi basilari di questa struttura vanno ovviamente mantenuti.

Oggi appare però chiaramente che il sistema non funziona più a dovere in un'Unione con quindici membri. È, quindi, inevitabile chiedersi se le istituzioni, come erano state concepite inizialmente, saranno in grado di servire in modo efficiente un'Unione che in un futuro prevedibile potrebbe estendersi a 25-30 o più partecipanti. Dagli anni Cinquanta in poi, vari trattati successivi hanno introdotto alcuni adeguamenti del quadro istituzionale, ma non vi è stato alcuno sforzo per procedere a una riforma globale. Questa è una sfida che prima o poi occorrerà affrontare. È un punto sul quale gli Stati membri concordano. Nel firmare il trattato di Amsterdam, essi hanno accettato che, a tempo debito, sarebbe stato necessario 201

procedere a una riforma istituzionale complessiva, per mettere in grado una Comunità ampliata di funzionare efficientemente. Laccordo su questa esigenza è sancito in un protocollo che ad Amsterdam è stato allegato ai trattati europei.

Questo protocollo prevede un'impostazione in due tempi: una riforma limitata prima di procedere al primo allargamento, una riforma più globale prima che gli Stati membri superino il numero di venti.

Sviluppi positivi, intervenuti dopo la firma del trattato di Amsterdam, hanno svuotato di senso questa distinzione. Si stanno conducendo trattative con sei Paesi candidati, e probabilmente il Consiglio europeo di Helsinki deciderà di intavolare negoziati con un ulteriore gruppo. Ciò significa che già il primo allargamento potrebbe far superare all'Unione il numero di venti membri, e in ogni caso il lasso di tempo tra il primo allargamento e il secondo risulterebbe più breve di quanto previsto in un primo tempo. Tenuto conto di questa evoluzione, che nei prossimi mesi potrebbe registrare un'accelerazione, il gruppo è giunto alla conclusione che lo spirito del protocollo di Amsterdam, le esigenze del sistema istituzionale dell'Unione e le difficoltà insite in una frammentazione del programma di lavori consigliassero di avviare fin d'ora uno sforzo per procedere a una riforma complessiva. Può darsi che in futuro non si presenti un'occasione migliore.

202

L'allargamento è imperativo. Gli Stati membri concordano altresì nel ritenere che l'allargamento costituisca un obiettivo ditale rilevanza politica e storica, per l'Unione non meno che per i Paesi candidati, da non permettere che esso venga ritardato o posticipato per il fatto che la riforma istituzionale non è completata. L'attuale generazione di leader europei non può non centrare l'obiettivo fondamentale dell'allargamento, ma deve trovare nel contempo una soluzione a uno dei suoi presupposti, vale a dire l'esigenza di una riforma in grado di permettere il funzionamento efficiente di un'Unione ampliata.

Il Consiglio europeo di Colonia ha ritenuto che, per non ritardare l'allargamento, fosse necessario che i lavori della futura CIG si concludessero entro il 2000. Il gruppo è del parere che questa scadenza sia tassativa.

La sfida. La sfida che abbiamo di fronte consiste, pertanto, nell'individuare le riforme necessarie e nell'indicare i mezzi per realizzarle entro il 2000. Sul primo aspetto - gli elementi della riforma - il gruppo ha rilevato che i tre problemi individuati a Colonia presentano implicazioni o conseguenze che vanno ben al di là dell'apparente semplicità della loro formulazione. Esso è del parere che occorra allargare la problematica, e includervi un riassetto dei testi del trattato per evitare continue revisioni.

Sul secondo aspetto - i mezzi per realizzare la riforma - il gruppo ritiene che la CIG dovrebbe accelerare la procedura di

negoziato, alla luce degli insegnamenti ricavati dalla discussione del trattato di Amsterdam, e che in tal modo, se vi sarà una volontà politica sufficiente, dovrebbe essere possibile elaborare un pacchetto di riforme più incisive entro il termine prescritto.

Rendere partecipe la popolazione. Nel corso del suo lavoro il gruppo ha discusso dell'esigenza di semplificare la gestione degli affari europei, e di rendere il funzionamento delle istituzioni più trasparente, più flessibile e più responsabile. Il fatto che una larghissima parte della popolazione europea non comprenda il funzionamento delle nostre istituzioni è certamente un problema su cui i governi dovrebbero riflettere. Non si tratta di una questione connessa direttamente con l'allargamento, ma ovviamente per i cittadini dei nuovi Stati membri le perplessità risulteranno ancora maggiori che per quelli di Stati membri che vivono ormai da mezzo secolo il processo di integrazione europea. Dobbiamo trovare i mezzi per rendere partecipe o per coinvolgere nuovamente la popolazione: bisogna spiegare il funzionamento delle istituzioni e le loro responsabilità nei confronti dell'opinione pubblica.

La trasparenza presuppone chiarezza sui mezzi e sugli obiettivi, nonché l'adesione dell'opinione pubblica. In questa prospettiva la "Dichiarazione del millennio" che la presidenza finlandese sta preparando per il Consiglio europeo di Helsinki assume tutto il suo significato.

Sarebbe opportuno riecheggiare lo spiri-

to di quella dichiarazione in un preambolo al futuro trattato.

Analogamente, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, caldeggiata nelle conclusioni del Consiglio europeo di Colonia, accrescerebbe presso l'opinione pubblica la legittimità e l'autorevolezza delle istituzioni. Come indicato dal Consiglio europeo, occorrerà valutare l'opportunità di integrare la Carta nei trattati, ed eventualmente precisare secondo quali modalità.

La riorganizzazione dei trattati proposta nel presente rapporto potrebbe contribuire alla limpidezza e alla semplificazione necessarie per rendere l'intera costruzione più comprensibile. Sforzi analoghi andrebbero compiuti per rendere più trasparente l'elaborazione del diritto derivato e del bilancio. Durante l'intero processo di riforma istituzionale, i negoziatori non dovrebbero mai perdere di vista gli obiettivi essenziali della chiarezza, della semplicità e della trasparenza.

La chiarezza e la comprensione da parte del pubblico presuppongono anche, nel lungo periodo, che gli Stati membri dovranno prendere posizione sull'estensione geografica finale dell'Unione. Il gruppo non propone di pronunciarsi ora su questo aspetto, ma il problema non va perso di vista.

EFFICIENZA DELLE ISTITUZIONI

Motivi che rendono necessario un cambiamento. È indubbio che negli ultimi anni l'assetto istituzionale dell'Unione ha 203

mostrato segni di logoramento. Chiunque si rende conto che il funzionamento del Consiglio non è soddisfacente: lentezza del processo decisionale, dibattiti estenuanti, mancanza di coordinamento tra un numero eccessivo di formazioni del Consiglio, troppi problemi operativi e legislativi rinviati a una decisione dei capi di Stato e di governo, il cui ruolo di definire le scelte strategiche viene in tal modo sminuito.

L'efficienza del processo istituzionale è stata ostacolata chiaramente anche dal funzionamento insoddisfacente della Commissione. Certe debolezze nella gestione, analizzate in un rapporto controverso da esperti indipendenti, sono state riconosciute dalla stessa Commissione.

Il Parlamento europeo, da parte sua, si è visto conferire maggiori poteri dai vari trattati che si sono succeduti, ma il suo impatto sull'opinione pubblica non è proporzionato a quello che dovrebbe avere un'assemblea eletta dal popolo.

Lequilibrio fra le istituzioni, che costituisce un elemento essenziale della stabilità e dell'efficienza del sistema, è esposto a sua volta a forti sollecitazioni.

Un incremento significativo del numero di partecipanti automaticamente accresce i problemi di gestione e le difficoltà del processo decisionale. Gli interessi divergono maggiormente, i tempi di discussione si allungano, le decisioni risultano più problematiche, la decisione diventa più complessa. i problemi nel funzionamento delle istituzioni europee sono manifesti già al giorno d'oggi, e in204

cidono sull'operativftà del triangolo istituzionale di base: Commissione, Consiglio e Parlamento. Si tratta di problemi destinati ad aumentare, per ovviare ai quali è indispensabile una riforma istituzionale.

Lesigenza di procedere a una riforma, sancita dal trattato di Amsterdam, ha condotto il Consiglio europeo di Colonia a indicare tre problemi che è indispensabile affrontare: la dimensione e la composizione della Commissione; la ponderazione dei voti nel Consiglio (che richiede un riesame, non solo della ponderazione, ma anche della doppia maggioranza e della soglia della maggioranza qualificata); il maggiore ricorso alle votazioni a maggioranza. Il gruppo è del parere che questi problemi non possano essere discussi separatamente. In primo luogo, perché investono problematiche più ampie di quanto non appaia a prima vista. Sul piano democratico, ad esempio, un maggiore ricorso alle votazioni a maggioranza dovrebbe portare a estendere la procedura di codecisione con il Parlamento. In secondo luogo, questo tipo di problemi si ripresenta anche in altri casi. Per fare un esempio, chiaramente la Commissione non è l'unica istituzione il cui numero di membri va riesaminato.

Le questioni individuate dal Consiglio europeo sono bensì di estremo rilievo, ma vanno esaminate nel contesto di una riforma istituzionale più ampia.

In una Unione più estesa e più diversificata, la flessibilità del quadro istituzio-

nale risulterà ancora più importante di quanto non lo sia attualmente. Lallargamento accrescerà la diversità. Ciò nbn significa che gli Stati membri debbano avere la facoltà di non aderire all'una o all'altra politica: l'Unione europea non riuscirebbe a sopravvivere se si permettesse ai Paesi membri di scegliere a quali obblighi dell'Unione siano disposti a conformarsi. Ma sembra inevitabile che, in un aggregato eterogeneo di Stati membri, alcuni possano desiderare di procedere più speditamente di altri. I primi vorranno consolidare le politiche comuni concordate a livello dell'Unione e i risultati raggiunti, e perseguire obiettivi più ambiziosi. Di conseguenza, aspireranno a intensificare la cooperazione tra loro. Si tratta di un'evoluzione legittima e indispensabile al tempo stesso.

In mancanza di una possibilità del genere, gli Stati membri tenderanno a cooperare al di fuori dell'Unione (Schengen) o al di fuori del quadro istituzionale dell'Unione (Euro 11). Soluzioni di questo tipo incidono sull'equilibrio istituzionale dell'Unione e privano gli Stati membri, oltre ai loro cittadini, delle garanzie democratiche e giudiziarie offerte da un quadro istituzionale.

In nessun caso, la flessibilità è rivolta contro i Paesi candidati e può costituire un ostacolo alla loro adesione. Al contrario, i negoziati di adesione potranno procedere più speditamente se su alcune delle questioni più spinose si istituirà concretamente una maggiore cooperazione. Il principio secondo cui le inizia-

tive in materia di flessibilità sono aperte a tutti gli Stati membri che soddisfano i requisiti necessari è sempre stata la norma nell'Unione europea. Se necessario, questo principio andrà ribadito.

Occorre vagliare la rappresentatività delle istituzioni europee nelle relazioni esterne e adoperarsi per migliorarla. Per vari decenni la capacità di figurare fra i massimi protagonisti sulla scena mondiale è stata uno dei fattori trainanti dell'integrazione europea. La spinta alla globalizzazione accresce questa aspirazione. Una Unione europea allargata avrà più di oggi la capacità - e si spera che ne avrà anche la volontà - di attestarsi trai principali protagonisti dell'economia mondializzata. Essa dovrebbe veramente impegnarsi nel perseguimento di questo obiettivo prioritario.

PROPOSTE

La Commissione. Dalla conclusione dei negoziati per il trattato di Amsterdam, è stato raggiunto un consenso implicito sul fatto che il numero di commissari europei crescerà a mano a mano che nuovi Paesi aderiranno. Per motivi comprensibili, la massima parte degli Stati membri non accetta l'ipotesi di una Commissione nella quale il loro Paese non sia rappresentato. La Commissione, però, non è e non deve diventare un'assemblea di delegati nazionali. Si tratta di un'istituzione europea di grande originalità, cui spetta il compito cruciale di avviare il processo decisionale e di gesti205

re le politiche adottate. Essa ha quindi bisogno di continuare a essere efficiente, operativa e soprattutto rispettata. Il gruppo è del parere che per salvaguardare queste caratteristiche in un organo numeroso, sia fondamentale rafforzare l'autorità del presidente e definire in modo più incisivo la responsabilità individuale dei singoli commissari. La CIG dovrebbe affrontare questi due aspetti, oltre a definire le dimensioni e la composizione della Commissione, conformemente alle richieste del Consiglio europeo.

L'autorità del presidente della Commissione è stata accresciuta dal trattato di Amsterdam. Il gruppo ritiene che, per permettere al presidente di dirigere efficacemente un numero maggiore di commissari, sarebbe opportuno estendere ulteriormente i suoi poteri. Egli dovrebbe avere la possibilità di incidere più concretamente sulla nomina e sulla selezione dei commissari. Dovrebbe inoltre disporre dell'autorità esplicita di organizzare, coordinare e guidare il lavoro dell'istituzione.

Avvenimenti recenti hanno sollevato il problema della responsabilità individuale dei commissari e del modo in cui questa possa conciliarsi con la responsabilità collettiva della Commissione. Il presidente Prodi ha affrontato la questione in modo informale, chiedendo in anticipo ai commissari l'impegno a dimettersi qualora egli lo reputi necessario. Il gruppo è del parere che questa intesa informale andrebbe formalizzata nel 206

trattato, per corroborare l'autorità del presidente, pur nel rispetto del carattere collegiale della Commissione. Ciò contribuirebbe a fare chiarezza sui poteri rispettivi del Parlamento e del presidente della Commissione, per quel che riguarda il modo in cui i commissari svolgono la loro funzione e il loro mantenimento in carica.

Votazione a maggioranza qualificata. Va da sé che per salvaguardare l'efficienza del processo decisionale, la votazione a maggioranza qualificata dovrà essere la norma in un'Unione allargata. Se si chiede l'unanimità, il rischio di bloccaggio aumenta proporzionalmente al numero e alla diversità dei partecipanti.

D'altro canto, la stessa esperienza della Comunità mostra che la votazione a maggioranza qualificata imprime dinamismo al processo decisionale e permette di raggiungere un consenso, anche se solo di rado si procede a una votazione.

Il ricorso alle votazioni q maggioranza andrebbe naturalmente generalizzato per le questioni comunitarie, ovvero per il primo pilastro, ma esso è rilevante anche per gli altri due pilastri.

I tre aspetti evidenziati nelle conclusioni del Consiglio europeo (maggiore ricorso alle votazioni a maggioranza, ridefinizione della ponderazione dei voti, soglia della maggioranza qualificata) sono legati tra loro. Qualsiasi soluzione dovrà essere calcolata e dosata opportunamente, per migliorare la capacità decisionale dell'Unione.

Nei casi in cui si vota a maggioranza qualificata su questioni legislative nell'ambito del primo pilastro, il gruppo è del parere che il Parlamento dovrebbe disporre del potere di codecisione. Il maggiore ricorso alle votazioni a maggioranza qualificata in questo campo dovrebbe, quindi, comportare contestualmente un'estensione della procedura di codecisione. Si tratta di una garanzia di democraticità, che si addice in modo particolare a un'Unione più allargata e, quindi, potenzialmente più remota. In tal modo si contribuirebbe anche all'auspicabile semplificazione e trasparenza delle procedure decisionali.

Ridefinizione della ponderazione dei voti.

Il gruppo riconosce che il prossimo allargamento a un gran numero di Paesi piccoli o medi richiede che la ponderazione dei voti degli Stati membri nel processo decisionale venga riveduta. La questione assume una rilevanza politica non meno che simbolica, ma il gruppo ritiene che non gli sia stato conferito un mandato per formulare proposte specifiche al riguardo.

Il Consiglio. Il Consiglio è al centro del processo decisionale dell'Unione. Praticamente, tutti i governi e gli osservatori esterni riconoscono che il suo funzionamento non è soddisfacente, e che, se non intervengono cambiamenti, l'aumento del numero di Paesi membri è destinato a minare ulteriormente l'efficienza dell'istituzione. Sono state formulate molte proposte di riforma, com-

presa una importante presentata dal segretario generale del Consiglio (rapporto Trumpf-Piris). La maggior parte di queste proposte, come quella di procedere a una riduzione significativa del numero di formazioni del Consiglio o quella di istituire un efficace meccanismo di coordinamento tra i vari Consigli, non richiedono alcuna modifica dei trattati e il gruppo è persuaso che bisognerebbe cercare attivamente di realizzarle contestualmente allo svolgimento della CIG. Tuttavia, col tempo potrebbe risultare necessario modificare i trattati per ridefinire ad esempio il ruolo della presidenza, o per chiarire la distinzione tra le funzioni legislative e quelle esecutive del Consiglio. Modifiche del genere potrebbero contribuire a rendere il funzionamento del Consiglio più efficiente e più comprensibile per l'opinione pubblica. La possibilità di introdurre cambiamenti di questo tipo dovrebbe restare aperta.

Il Parlamento. Larticolo 189 del trattato che istituisce la Comunità europea limita a 700 il numero di membri del Parlamento europeo. Questa disposizione mette effettivamente il Parlamento al riparo da un'inflazione numerica in seguito all'allargamento. Sarebbe però opportuno stabilire un regola - prima che il problema diventi troppo complesso sul modo di ripartire i seggi tra gli Stati membri quando il limite massimo sarà raggiunto.

Proposte formulate in altra parte del presente rapporto suggeriscono di po207

tenziare la funzione legislativa del Parlamento estendendo il ricorso alla procedura di codecisione.

Da parte sua, al pari delle altre istituzioni, il Parlamento dovrebbe riesaminare i propri metodi di lavoro, per ottimizzarne la trasparenza.

Pertanto, il problema della rappresentanza esterna dell'Unione, in settori quali il commercio di servizi o le questioni monetarie internazionali, va riesaminata nell'ambito della CIG, che dovrà discutere anche della personalità giuridica dell'Unione.

Altre istituzioni. Un incremento del nu-

Flessibilità. Il trattato di Amsterdam ha incorporato nel diritto comunitario il concetto di cooperazione rafforzata. Il gruppo è consapevole del fatto .che finora sono mancati sia il tempo che le occa-' sioni per un'attuazione concreta delle disposizioni corrispondenti, ed è probabilmente troppo presto per formulare un giudizio sul loro funzionamento. Il gruppo si rende però anche conto del fatto che molti osservatori, all'interno non meno che all'esterno delle istituzioni, considerano che le disposizioni del trattato siano così complesse e soggette a tali e tanti criteri e condizioni, da risultare inoperanti. Data la crescente rilevanza della flessibilità istituzionale in una Unione allargata, e dato che le disposizioni del trattato in questo campo possono contribuire direttamente ad agevolare l'allargamento, il gruppo è del parere che esse vadano riesaminare. Dovrebbe essere possibile decidere l'avvio di una cooperazione del genere a maggioranza qualificata - o superqualificata -' senza possibilità di veto da parte di alcuno Stato membro, nel rispetto tuttavia degli interessi dei Paesi che non partecipano. La politica estera e di sicurezza comune dovrebbe essere inclusa nell'am-

mero di Stati membri genera problemi di dimensione, organizzazione ed efficienza in varie istituzioni. Ciò vale ad esempio per la Corte di giustizia, la Corte dei conti e il Comitato delle regioni. Il gruppo non desidera esaminare distintamente il caso di ciascuna istituzione, ma ritiene che gli Stati membri dovrebbero tenere nel debito conto le proposte formulate dalle istituzioni medesime (come nel caso della Corte di giustizia) o da comitati indipendenti (per esempio dal Comitato di esperti indipendenti riguardo alla riforma della Commissione, il quale ha proposto di insediare un pubblico ministero europeo).

Relazioni esterne. Sotto il profilo giuridico, attualmente una rappresentanza specifica degli interessi europei in negoziati globali è garantita solo se le trattative vertono su scambi commerciali (come nel caso dell'Uruguay Round). La capacità giuridica della Comunità di agire in quanto soggetto unico in altre discussioni economiche e finanziarie a livello mondiale, resta da definire; si tratta di una logica conseguenza dell'integrazione economica e finanziaria.

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bito della cooperazione rafforzata. Questo processo dovrebbe restare aperto per tutti gli Stati membri che soddisfano i requisiti necessari. Il presupposto dovrebbe continuare a essere che la flessibilità è un modo per consolidare e rafforzare il patrimonio di realizzazioni dell'Unione, non per allentare i legami che vincolano gli Stati membri.

Attuazione. Dati i tempi ristretti a disposizione, l'Unione dovrebbe trarre insegnamento dalle esperienze precedenti e impegnarsi a fondo per accelerare il processo di negoziato. L'ultima CIG venne aperta dal Consiglio europeo di Torino il 29 marzo 1996, il primo progetto di proposta di modifiche del trattato è stato presentato ai delegati nove mesi dopo (5 dicembre 1996), e sono stati necessari altri sei mesi per raggiungere un accordo (17 giugno 1997).

Il gruppo è del parere che la CIG potrebbe avviare i lavori con un progetto di trattato sul tavolo. In base alle esperienze passate, ciò permetterebbe di dimezzare la durata della conferenza. In pratica, tutti i problemi evocati nella presente sezione sono stati discussi nel corso dei negoziati per il trattato di Amsterdam e da allora hanno continuato a suscitare numerosi contributi di esperti.

La Commissione, nella sua veste di rappresentante dell'interesse collettivo dell'Unione, ha sempre avuto il diritto di presentare proposte alle conferenze intergovernative. In passato, essa, si è generalmente avvalsa di questa facoltà

con una certa cautela. Date però l'urgenza e la portata delle riforme, e tenuto conto delle ampie discussioni già intervenute, il gruppo ritiene che la Commissione dovrebbe presentare proposte complete e complessive, sotto forma di progetto di trattato, all'atto dell'apertura della conferenza. Nelle circostanze attuali, la Commissione ha l'obbligo preciso di avvalersi interamente del suo diritto di sottoporre proposte alla conferenza intergovemativa. Va da sé che la Commissione dovrebbe lavorare in stretto contatto con le altre istituzioni dell'Unione prima di formulare queste proposte.

Come chiarito in precedenza, il gruppo è perfettamente consapevole del fatto che molti problemi che le istituzioni hanno di fronte possono essere risolti senza modifiche del trattato. Vi sono però problemi per i quali questa considerazione non vale e proprio su questi, alla luce del mandato ricevuto, il gruppo ha voluto concentrare il proprio rapporto. Gli adattamenti da introdurre nella prospettiva dell'allargamento sono estremamente importanti e andrebbero visti in un'ottica unitaria, a prescindere dal fatto che esso richieda o no modifiche del trattato. Sia presso il Consiglio che presso la Commissione sono in corso procedure di riforma interna, dettate in gran parte dalla prospettiva dell'allargamento. Il gruppo ritiene che le discussioni della Cic e le riforme che non richiedono modifiche del trattato andrebbero condotte in parallelo, quale parte

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di un medesimo sforzo e con le stesse scadenze. Esso rileva che molti cambiamenti contrastano con le pratiche consolidate da tempo e con interessi costituiti. Considerate queste difficoltà, il Consiglio europeo dovrebbe conferire un mandato esplicito e chiedere un pacchetto di riforme significative che non necessitino modifiche del trattato da approvare entro il prossimo anno, unitamente ai risultati della CIG, per rendere effettiva una riforma generale.

RIORGANIZZAZIONE DEI TESTI DEI II

I I'I UI

Motivi che rendono necessario un cambiamento. Il gruppo ritiene necessario cambiare in modo fondamentale la procedura che in futuro dovrà permettere di modificare i testi legislativi che attualmente si presentano sotto forma di trattato. Per permettere questo cambiamento occorrerà preventivamente distinguere la natura delle disposizioni nei trattati attuali.

Negli ultimi dieci-quindici anni, l'Unione ha vissuto un processo permanente di modifica dei trattati. Non vi è stato momento in cui non si stesse preparando, negoziando o ratificando l'una o l'altra modifica. Al riguardo, la situazione attuale è emblematica: il trattato di Amsterdam è entrato in vigore il l maggio, e il 4 giugno il consiglio europeo di Colonia ha deciso la convocazione di una nuova Conferenza intergovernativa.

Un processo permanente di revisione dei trattati è fonte di difficoltà politiche 210

in molti degli attuali Stati membri. Esso contribuisce ad alimentare un senso di ihcertezza del diritto, nonché il timore di continui nuovi interventi e di un progressivo accentramento; timore che, a torto o a ragione, è diffuso in settori rilevanti della pubblica opinione. Non è possibile continuare su questa via in un'Unione allargata e aspettare che ogni modifica dei trattati passi per le procedure di ratifica di 25 o più sistemi parlamentari, con prevedibili ritardi e frustrazioni, oltre ai rischi di completa paralisi.

Proposte. Il gruppo suggerisce che i testi dei trattati attuali vengano divisi in due parti distinte.

La parte fondamentale del trattato enuncerà soio le finalità, i principi e gli orientamenti di politica generale, i diritti dei cittadini e il quadro istituzionale.

Queste disposizioni, come avviene attualmente, potrebbero essere modificate solo all'unanimità, mediante una CIG e previa ratifica da parte di ciascuno Stato membro. È probabile che modifiche del genere sarebbero poco frequenti.

In un testo distinto (o in vari testi) figurerebbero le altre disposizioni degli attuali trattati, comprese quelle relative a politiche specifiche. Queste disposizioni potrebbero essere modificate con una decisione del Consiglio (che delibererebbe a una nuova maggioranza superqualificata o all'unanimità, a seconda degli argomenti) e con l'assenso del Parlamento europeo (eventualmente con una maggioranza speciale.

Un cambiamento del genere presenterebbe vari vantaggi: ridurrebbe notevolmente l'attuale bisogno di modificare incessantemente i trattati europei; renderebbe la struttura istituzionale di base più perspicua, più comprensibile per l'opinione pubblica; introdurrebbe una procedura di revisione basata, almeno in parte, su una forma di votazione a maggioranza, con l'intervento del Parlamento europeo.

Attuazione. Su questo argomento è già stato condotto un lavoro preliminare rilevante, in particolare presso l'Istituto universitario europeo di Firenze. Esistono progetti che mostrano come si potrebbe procedere a una divisione del genere. L'impostazione suggerita dal presente rapporto non provocherebbe quindi indebiti ritardi. La Commissione potrebbe dare mandato all'Istituto europeo affinché ultimi il suo lavoro, in cooperazione con i servizi giuridici del Consiglio, della Commissione e del Parlamento. Ciò permetterebbe di chiarire i termini della discussione e di dimostrare la fattibilità e l'interesse di una riorganizzazione dei testi dei trattati. Fin dall'inizio dei suoi lavori la CIG potrebbe allora disporre di un progetto concreto quale base di negoziato se, conformemente alla proposta del gruppo, deciderà di procedere in questo modo.

DIFESA

Il mandato affidato al gruppo verteva chiaramente sulla riforma istituzionale,

motivo per cui esso si è astenuto dal formulare proposte di altra natura. È però pacifico che la prossima CIG non opererà in una situazione di vuoto politico.

La dichiarazione adottata dal Consiglio europeo di Colonia sul rafforzamento della politica comune europea in materia di sicurezza e di difesa raccomanda che vengano presi nuovi provvedimenti di rilievo. Essa chiede che al Consiglio venga conferito il potere di prendere decisioni su tutte le misure atte a prevenire un conflitto e a gestire una crisi. Ciò presuppone: che si sviluppi una capacità di azione autonoma, sostenuta da una forza militare credibile. Il Consiglio europeo vuole altresì che nell'Unione europea vengano integrate funzioni dell'UEo. Quest'ultima, in quanto organizzazione, a quel punto diventerebbe superflua. Si tratta di nuove iniziative di grande rilievo, che denotano un alto grado di ambizione da parte del Consiglio europeo e che presentano inoltre una elevata visibilità nei confronti dell'opinione pubblica.

La data fissata per completare l'attuazione di questa dichiarazione è la stessa impartita come termine per la CIG, vale a dire la fine del 2000. Tenuto conto di questa coincidenza temporale, del carattere di urgenza e dell'estrema importanza di una politica di difesa europea, il gruppo ritiene che tale questione non possa essere ignorata nella prossima CIG. Si tratta di una problem'tica di fondamentale rilievo per il futuro dell'Europa e per lo sviluppo dell'Unione europea.

211

Saranno necessarie nuove intese istituzionali; esse dovrebbero collimare con il quadro istituzionale unico dell'Unione e non portare alla creazione di un quarto pilastro. Uarticolo 17 del trattato sull'U nione europea.lascia un certo margine per integrare l'UEo nell'Unione stessa senza dover modificare il trattato. Nondimeno è possibile che delle modifiche siano necessarie e in tal caso dovrebbero essere discusse in sede di CIG. CONCLUSIONE

La prossima conferenza intergovernativa dovrebbe definire una strategia complessiva per la riforma istituzionale, che comprenda una riorganizzazione degli attuali trattati. Innanzi tutto, perché l'impostazione in due tmpi prevista dal protocollo allegato al trattato di Amsterdam è stata superata dal modo in cui il processo di adesione si è ampliato e accelerato. Secondariamente, perché le questioni individuate nelle conclusioni di Colonia presentano implicazioni che travalicano gli aspetti specifici enunciati.

In terzo luogo, perché in un futuro prevedibile non è dato scorgere un momento più propizio per procedere al tipo di riforma istituzionale che una Unione allargata manifestamente richiede.

Questa riforma può, e deve essere negoziata nel corso del prossimo anno e sfociare in un pacchetto di riforme fonda-

212

mentali e complessive da approvare durante la presidenza francese. Può sembrare una sfida formidabile, ma il gruppo è del parere che sia possibile fronteggiarla se il processo di negoziato verrà adeguato alla luce delle esperienze precedenti, in particolare facendo tesoro degli insegnamenti ricavati dal negoziato del trattato di Amsterdam.

Come indicato nel Rapporto, il gruppo ritiene che all'avvio dei negoziati sia possibile mettere sul tavolo un progetto di proposta di modifica dei trattati. Questo progetto dovrebbe tener conto delle discussioni intervenute nel corso dei negoziati di Amsterdam e delle riflessioni proseguite successivamente, sia all'interno delle istituzioni che negli ambienti accademici. Esso dovrebbe coniugare ambizione e realismo. Su questa base, un negoziato avviato all'inizio del 2000 e condotto con grande determinazione politica, potrebbe perfettamente approdare a una riforma complessiva entro la fine dell'anno.

Certo si tratta di un obie.ttivo ambizioso; l'allargamento costituisce però una sfida di portata storica e di fondamentale rilevanza, ma anche irta di difficoltà, sia per l'Unione sia per i Paesi candidati. In questa fase cruciale del proprio sviluppo, l'Unione europea dovrebbe mirare in alto e mostrarsi all'altezza della sfida, formulando ambizioni di ampio respiro.

,, Eutopia i nuovi compiti per l'Unione che verrà .

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Massimo Ribaudo ESERCIZI DI VISIONE

Quando si cercheranno di analizzare i fondamenti teorii della gestione politica del territorio in Occidente, in questo ultimo quarto di secolo, non sarà semplice utilizzare le consuete categorie dottrinarie del Diritto Pubblico.

Stiamo assistendo, infatti, ad una evoluzione procedurale delle forme di governo classiche e ad una modificazione de facto di quelle di Stato, da non poter individuare il loro punto di arrivo, ma per le quali è certamente necessario uno sforzo teorico al fine di definirne caratteristiche iniziali e stato di attuazione.

Come è natura della nostra rivista, non crediamo sia possibile abbozzare analisi senza fornirsi di strumenti multidisciplinari. Per provare a comprendere, bisogna mettere a lavoro tutti gli uffici del Dipartimento Scienze Umane, (come insegnava Ortega Y Gasset) e non incontrarsi semplicemente con gli esponenti delle altre discipline nel quarto d'ora accademico...

Nulla di male, allora, nel constatare inizialmente come l'Unione Europea si sta

confermando, innanzitutto, una costruzione finanziaria basata sull'assunto, non dimostrabile a priori, che sarà l'istituto della moneta unica a modificare comportamenti, abitudini e moti d'opinione all'interno delle popolazioni dei Paesi aderenti, in modo da costruire un nuovo modello di ordinamento non basato sullo Stato nazione. La teoria è interessante: contando e valutando ogni istante della mia e dell'altrui vita in "euri , mi abituero a consKleraml « europeo" e non pRi appartenente ad uno Stato che, tirando le somme, non influisce granché sull'esistenza personale.

La dimensione territoriale della stessa sarà assicurata dall'altro soggetto politico riemergent, il Comune: che anzi, così denominato continua a sapere troppo di corso di Diritto Amministrativo. È preferibile denotarne le caratteristiche di "rete di relazioni tra autorità politiche ed amministrative, cittadini, organizzazioni profit e non profit", inquadrandolo, così, nella categoria della comunità civicd, o comunità tout court.

I

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Esercizi di federalismo. Nella strutturazione di rapporti tra questi soggetti non sarà sempre possibile far riferimento a 213

formule consuete, di stampo statalistico. Lapproccio federale potrebbe fornire alcuni modelli interpretativi più interessanti e di maggior contenuto euristico.

Il federalismo europeo non si ispira soltanto all'analisi empirica dell'esperienza statunitense. La radice filosofica si fa risalire a Kant, o magari, e più recentemente, agli scritti di Lord Lothian. Il progresso storico si afferma seguendo un processo dialettico nel corso del quale la ragione si fa strada faticosamente, attraverso un cammino tortuoso lungo il quale la violenza, i conflitti e la guerra sono altrettanti veicoli che permettono alla pace di affermarsi, sconfiggendo la divisione politica dell'umanità, l'anarchia internazionale e la guerra. I due stadi di questo processo sono, secondo Kant, l'organizzazione del mondo in Stati sovrani e repubblicani e la loro unificazione federale. Attraverso il primo stadio, gli uomini superano lo stato di natura, attraverso il secondo, superano lo stato di guerra.

Lord Lothian ha analizzato più in profondità i meccanismi istituzionali che hanno reso possibile il processo di pacificazione tra i popoli, identificando tre stadi dello sviluppo della pace. Ogni stadio è il frutto della scoperta di un meccanismo istituzionale che ha permesso un allargamento delle dimensioni del governo democratico.

Per Lord Lothian, la democrazia assembleare nell'antica Grecia ha permesso di eliminare le guerre tra tribù e di costi214

tuire la città-Stato. Con questa prima forma di partecipazione popolare alla formazione delle decisioni politiche, la dimensione dello Stato democratico non poteva essere più ampia del numero di persone che potevano riunirsi in una piazza.

Per Lord Lothian, la democrazia rappresentativa, che si sviluppò in Inghilterra dopo la Rivoluzione, ha consentito di estendere il governo democratico su scala nazionale.

La democrazia federale, scoperta dagli Americani, ha reso possibile la formazione di un governo democratico di "dimensioni continentali, che potenzialmente si può allargare a tutto il mondo e permette di far cessare la guerra tra le nazioni e di estendere la pace su tutta la terra, fondandola su un ordine democratico universale.

Da questa concezione della storia ne consegue che il processo di realizzazione di un territorio sicuro per lo sviluppo del genere umano si fonda sull'invenzione di specifiche strutture politiche in grado di far partecipare (secondo diverse forme che qui non analizziamo nello specifico) alle scelte pubbliche il singolo membro delle comunità democratiche.

Queste forme sono: la democrazia assembleare in seno alla città-Stato, la democrazia rappresentativa in seno allo Stato nazionale e la democrazia federale in seno a un'unione di Stati. In definitiva, tra città-Stato, Stato nazionale e federazione non c'è solo una differenza di dimensioni. Si tratta anche di diverse

forme di governo. A mano a mano che lo Stato accresce le proprie dimensioni, aumentano anche l'articolazione, la differenziazione e la complessità delle funzioni di governo. Queste forme di governo non sono mere sovrastrutture di mutevoli situazioni storiche e sociali, ma sono il prodotto di liberi atti di innovazione politica e stadi della lotta della ragione per affermare forme sempepiù elevate di convivenza pubblica.

Il federalizing process, (esposto nei suoi scritti da Cari J. Friedrich), cominciato alla fine del )(VIII secolo con la Convenzione di Filadelfia, ha coinvolto le nazioni storiche dell'Europa dopo la seconda guerra mondiale. Per il moderno federalismo, tale processo è in aperta e convinta contrapposizione con l'esistenza degli Stati nazionali.

Come affermato alla voce Federalismo dell'Enciclopedia delle Scienze Sociali, "il federalismo europeo costituisce un tentativo deliberato e cosciente di superare il principio nazionale come base necessaria per l'organizzazione dello Statq.

Esso si presenta, da una parte, come negazione della società chiusa e omogenea, che elimina al suo interno ogni forma di pluralismo sociale, etnico e linguistico e, d'altra parte, come negazione della divisionedel genere umano in comunità ostili e bellicose, divise dall'odio nazionale. Il compito del federalismo, inteso come negazione del nazionalismo, è quello di smascherare la pretesa dello Stato nazionale di presentarsi come la forma più elevata di convivenza politica,

di metterne in luce i limiti, di chiarire che si tratta di una formazione politica storicamente transitoria, che ha esaurito il suo ruolo progressivo. La contraddizione di fondo della nostra epoca è quella tra la crescente interdipendenza tra i popoli dell'Europa e del mondo e la diménsione nazionale dello Stato. Lo Stato nazionale, non essendo più in grado di controllare le tendenze di fondo del corso storico (internazionalizzazione del processo produttivo, formazione del sistema mondiale degli Stati, dominato da Stati di dimensioni continentali), è diventato il principale ostacolo al rinnovamento della società e condanna al fallimento tutte le alternative nazionali, siano esse liberali, democratiche o socialiste. Il federalismo si presenta, dunque, come espressione della crisi dello Stato nazionale e della tendenza al suo superamento".

Due nuovi soggetti: la comuniti locale e l'unione. Non appaia retorica: è nei fatti che dal marzo del 2002 la leva monetaria sarà nella realtà quotidiana in mano alla Banca Centrale Europea, e per quanto riguarda l'Italia, che quella fiscale sarà sempre più gestita da Regioni e Comuni.

I programmi accademici non hanno colto ancora il mutamento: gli allevatori italiani (malvolentieri), si.

A fronte dell'attuale ordine di aspettative del cittadino, lo Stato nazionale è nello stesso tempo troppo piccolo e troppo grande. Da una parte, è troppo piccolo per far fronte ai problemi economici, ambientali e di sicurezza, che 215

hanno assunto una dimensione "globale" e derivano dalla sempre più stretta interdipendenza tra le popolazioni e dalla crescente integrazione tra le economie. D'altra parte, è troppo grande per risolvere i problemi locali, come quelli della cultura, della scuola e del territorio, e per consentire un'effettiva partecipazione e un reale controllo degli individui nei confronti delle collettività territoriali più piccole, dove si svolge la loro vita concreta e dove è possibile organizzare un autentico autogoverno locale.

Ecco che allora il nuovo federalismo si muove secondo due ordini spaziali fra di loro complementari: l'Unione e la Comunità locale.

La dicotomia risalente a Tònnies tra società e comunità si ripresenta con nuove valenze. L'individuo, reso anonimo e destrutturato da tempi e modalità di produzione sempre più astratta ritrova una sua identità storica e territoriale all'interno del vissuto locale. Le aspettative e le strategie dei soggetti su base territoriale, così come le relazioni di fiducia e di reciprocità, sono con più probabilità componenti del quadro sociale di una piccola comunità.

Non è un caso che, dall'inizio degli anni Novanta, specie in Inghilterra, ci si è interrogati sul rinnovamento degli studi di comunità e sul ritorno di interesse per lo studio empirico del vicinato, delle reti di relazione, delle relazioni di amicizia. Questo a livello antropologico, sociologico. Ed a livello giuridico, 216

come ben sappiamo, ha fatto irruzione quel principio di sussidiarietà del quale spesso abbiamo valutato le caratteristiche su questa rivista.

La sua continua proposizione (l'intero tentativo di riforma istituzionale, a costituzione data, è basato su di esse) mostra che il pendolo della scelta delle forme di amministrazione del territorio si è spostato verso la dimensione locale, con tutte le valenze positive, ma anche con le contraddizioni, che si sono spesso evidenziate.

Ricordando la doppia valenza del principio. Vi sono istanze, politiche, scelte strategiche, che vista la loro natura, non possono essere prese efficacemente dagli organi di livello locale. È necessario un organismo superiore, che, ad oggi, non sembra più poter essere lo Stato nazionale: una forma organizzativa che avrà ancora molto da dire, ma che successivamente agli anni Settanta ha visto tramontare l'ordine della sua necessità storica.

Quindi, l'Ente superiore non potrà che essere l'Unione Europea. Ma quale Unione Europea?

"Le nostre idee sono i nostri occhiali", ammoniva Max Weber nel tentativo di configurare un ambito proprio delle Scienze sociali che fosse consapevole delle necessarie caratteristiche valutative, (presenti, comunque, in qualunque sapere scientifico), che le stesse possedevano.

Non dobbiamo allora toglierci gli occhiali, senza i quali probabilmente non

riusciremmo a cogliere aspetti importanti del fluire contingente dei fatti, ma è consigliabile essere consapevoli che ci stanno sul naso, frapponendosi tra noi e ciò che accade.

Tre visioni dell'Europa. Tre sono fondamentalmente le tipologie di "occhiali"; lasciamo qui le visioni estremistiche, che gli analisti portano quando guardano al continente europeo. Per motivi sentimentali ricordiamo per primo il modello "federalista" classico prima descritto. È un'idea forte, che ha condotto ad importanti traguardi istituzionali ed il cui vigore ha permesso di emozionare opinioni pubbliche e uomini d'istituzioni al fine di superare l'impasse nella costruzione politica dell'Unione Europea. La sua fonte ideale si colloca nel rifiuto generalizzato per ogni elemento nazionalista che condusse alla guerra civile europea 1914-1944 e che, attraverso una valutazione abbastanza acritica del cammino costituzionale statunitense, vorrebbe riprodurne le caratteristiche nel continente europeo per scongiurare ogni possibilità di rigurgito di quei sentimenti nazionali forieri di guerre e devastazioni.

Vi. è poi chi guarda all'evoluzione comunitaria come ad un modello geopolitico. L'idea comunitaria, per molti, è nata dalla volontà francese di gestire la ricostruzione del continente nel dopoguerra e di legare a sé la Germania.

Questo modello interpretativo conduce oggi a guardare come fattore di crisi dell'evoluzione europea il "re-balancing"

nei rapporti Francia-Germania a seguito della crescita economica e dell'avvenuta riunificazione di quest'ultima.

DEuropa è, infine, un grande mercato.

Con meccanismi e funzioni regolati da norme che sembrano iper-specialistiche, incomprensibili, (se ne veda la lucida rappresentazione nell'articolo di Vattimo), ma che aiutano abilmente a creare mercati protetti, oligopoli informali e successi finanziari spesso basati più sull'abilità degli studi legali di supporto che sulle reali capacità imprenditoriali.

Una struttura economica e finanziaria rigidamente votata a criteri neomonetaristi per i quali l'unico obiettivo perseguibile da una politica economica razionale resta la lotta all'inflazione.

Certo. Le tre lenti (alle quali andrebbero aggiunte altre sfumature) andrebbero sovrapposte, ma il rischio sarebbe quello di sfocare ancor più l'immagine e di renderla maggiormente incomprensibile.

Le tre interpretazioni fin qui riassunte ci offrono interessanti considerazioni e possibilità di valutazione dell'esistente, ma da tempo non forniscono più elementi per costruire scenari.

Come detto all'inizio, la sensazione è che, una volta prevalso il senso economico nel sentire l'Europa e quindi organizzato attorno ad esso tutto il meccanismo della moneia unica, si aspetta che sia I'udlizzazione di quest'ultima a determinare modelli di vita europei.

Possibilità non trascurabile, che farebbe per sempre giustizia degli approcci politologici alla formazione di ordinamenti 217

giuridici territoriali, e dimostrerebbe quindi la possibilità di fondare quel che è "più di una confederazione, ma meno di uno Stato federale", attraverso l'istituzione di comportamenti produttivoeconomici comuni e la creazione di una moneta, un valore di scambio unico tra i consociati.

Ed il livello politico istituzionale sarebbe relegato a mero territorio di continui compromessi di piccolo cabotaggio.

Ciò che in definitiva ha rappresentato Amsterdam e, dalle premesse, questo sembra realizzarsi anche attraverso la prossima Conferenza Intergovernativa.

Dove starebbe conducendo tutto questo? La risposta, probabilmente è verso un modello organizzativo confederale nel quale la sovranità nazionale degli Stati membri continuerà a essere asserita in teoria, ma diverrà sempre meno facilmente esercitabile in pratica.

Un'Europa che non si vede come possa diventare attore politico ma che continuerà a rappresentare un grande mercato.

Certo, potrebbe esserci dell'altro.

Nell' evoluzione della prassi costituzionale europea degli ultimi anni abbiamo assistito ad un silenzioso ma continuo mutamento dei sistemi rappresentativi.

Senza delegittimare formalmente i Parlamenti si è cercato di ricondurli nelloro ambito specifico che prevede funzioni di controllo e di garanzia delle minoranze. Non vi è stato un vulnus democratico. Semplicemente si è permesso ai sistemi democratici occidentali di impe218

dire che un'applicazione "pura" del sistema parlamentare indebolisse le strategie di decisione politica. Listituzione Governo, senza ricercare riforme legislative che sarebbero state male interpretate ha quindi razionalizzato le sue strutture, rafforzato le procedure di decisione ed in definitiva ha assunto la funzione legislativa propriamente detta, lasciando invece ai Parlamenti l'approvazione delle leggi generali di bilancio e le classiche funzioni di controllo e di ispezione sull'attività del Governo.

Questo, come detto in modo del tutto informale.

Aggiustamenti istituzionali. Un' Europa che voglia presentarsi come soggetto politico deve risolvere almeno tre ordini di problemi, prima, o comunque a prescindere, da qualsiasi allargamento.

In primo luogo, di fronte all'autorevolezza di due istituzioni quali la Corte di Giustizia e la Banca Centrale dev'essere definito un organo in grado di affermare le posizioni della Comunità, le sue decisioni politiche. Si deve trovare il coraggio di dotare la Commissione di tale autorità, sottraendo competenze al Consiglio, riformulando procedure e soprattutto istituendo prassi che rendano "visibile" l'Esecutivo comunitario.

Le ampie competenze del Consiglio potevano avere una giustificazione in un'Europa a 11 membri, ma nell'attuale, e nella prossima a 20 e pil'1 soggetti, rischia di diventare, anche mediante il sistema delle maggioranze, un'istituzione immobile.

Un abile Presidente della Commissione Europea dovrebbe forzare la mano e prendere decisioni forti, addirittura in contrasto con la rigida lettera delle competenze. E così stimolare la Corte, la quale dovrebbe essere dotata di altrettanta ispirata incoscienza da lasciargli mano libera.

In questo modo, aldilà delle accademiche giustificazioni giuridiche ex post, si formò il diritto federale statunitense.

Così potrebbe svilupparsi un embrionale Stato federale europeo.

Dal punto di vista più strettamente giuridico è, quindi, necessario suddividere il Trattato in due parti (come un'autentica Costituzione): una componente di principi inderogabili, in linea di massima non mòdificabile se non con procedure speciali (come la convocazione ad hoc di una Conferenza intergovernativa e la ratifica di tutti gli Stati membri) ed una parte relativa alle politiche specifiche, con disposizioni modificabili dal Consiglio mediante procedure che prevedano maggioranze qualificate.

Il documento del Comitato Daheane, nel proporre temi alla Conferenza Intergovernativa convocata dal Consiglio di Colonia, ha affrontato, forse in modo troppo timido, anche il settore specifico delle misure atte a prevenire un conflitto ed a gestire una crisi.

Si parla di integrare le funzioni UEO all'interno dell'Unione e di prevedere il potere per il Consiglio di prendere strategie autonome, sostenute da forze militari dell'Unione.

Nel 2001 si aprirà un nuovo millennio per l'Europa: in un clima nel quale le più eccitanti novità sembrano rappresentate dall'entertaintment elettronico e dagli effetti di stimolanti sintetici, riteniamo sia un'avventura intellettuale maggiormente interessante il proporre creazioni istituzionali di più alto profilo, e non rimanere costantemente ancorati alle soluzioni di compromesso.

L'autorevole posizione di Stefano Micossi (che riportiamo di seguito) si muove in questa direzione. Ma noi pensiamo si debba andare oltre. La Difesa europea potrebbe essere organizzata mediante una serie di competenze affidate alla Commissione, prevedendo procedure di controllo formale sia da parte del Parlamento che della Corte di Giustizia.

Non è questa la sede per ricordare la debacle istituzionale, ed in termini d'immagine, dell'Europa nel corso del conflitto in Bosnia-Erzegovina. Ed il Consiglio era. "ristretto" a 15 membri... È opportuno invece ricordare, anche per non lasciare l'esclusiva alle forme di controinformazione anti-sistema, che nel rapporto A National Securiiy Strategyfor a New Century (ottobre 1998), si afferma: "come garante della sicurezza europea, la Nato deve svolgere un ruolo dirigente nel promuovere un'Europa più integrata e sicura... noi manterremo in Europa circa lOOmila militari per contribuire alla stabilità regionale, sostenere i nostri vitali legami transatlantici e conservare la leadership degli 219

Stati Uniti nella Nato". In altre parole: un'Europa libera e stabile sotto la Nato e una Nato stabilmente sotto gli Stati Uniti. Il tutto, nel quadro della "leadership globale che" - si sottolinea nello stesso rapporto - "gli Stati Uniti devono avere la dimostrata volontà e capacità di continuare ad esercitare". E, a dimostrazione che nessun risultato può essere raggiunto senza l'intervento degli Stati Uniti, l'accordo di pace per la situazione bosniaca, come si ricorderà, è stato firmato non in Europa ma nella base di Dayton nell'Ohio.

Eutople per il prossimo millennio. L'europeo, se esiste, ha una sua propria immagine simbolica: Prometeo.

Luomo che ha rubato agli dei i segreti della tecnica, ma che soprattuto riesce a vedere "prima del tempo", quindi a prevedere.

Ed è questa capacità, ben poco dimostrata nei documenti finali del Consiglio Europeo di Helsinki (10-11 dicembre), nonostante la rassicurante "Dichiarazione del Millennio", che si dovrebbe orientare l'operato degli statisti europei.

Anche perché proprio Helsinki ha confermato che, ai di là di un ottimismo di facciata e dello spirito autocelebrativo, gli unici passi in avanti che l'Europa ottiene sono sul profilo dell"allargamento" del mercato. Non certo su quello ," ,, del! approfondimento delle questioni esistenziali per la popolazione europea.

Un coraggioso esperimento di policymaking che veda l'organizzazione terri220

toriale europea suddivisa tra comunità locali ed istituzioni federali dell'Unione, andrebbe, seppure gradatamente, affermato se non si vuole lasciar ricordare agli interpreti futuri una quarta visione dell'Europa, che abbiamo volutamente non sottolineato fino ad adesso. È una visione buia, disperata, probabilmente miope e nichilista: non lasciamo, ancora una volta, che prenda il sopravvento nell'immaginario delle masse.

Non lasciamo che l'Europa risulti un abile simulacro giuridico-finanziario costruito ad hoc, e contro ogni propagandistica affermazione di principio contraria, per lasciare agli Stati Uniti la leadership occidentale e permettere soltanto ad essi di dare un futuro alle proprie generazioni attraverso disavanzi "reali" che farebbero impallidire qualsiasi banchiere di teutonica preparazione. Disavanzi che vengono colmati non certo attraverso ricette finanziarie ed economiche del Nobel di turno, e neppure con le decantate performance di produttività create da flessibilità "acrobati» i i,, r i i cne ciena rorza lavoro. I-uiii' interno aei più importanti istituti di ricerca finanziaria ben si conosce l'entità del potere di Washington di stampare moneta in quantità che aumenterebbe qualsiasi inflazione. Inflazione che gli altri Paesi satelliti assorbono con due operazioni principali: gestendo le transazioni commerciali maggiori in dollari ed applicando all'interno rigorosissime politiche finanziare che pareggiano i bilanci, certamente, ma lasciano le performance

produttive ed il numero degli occupati a livelli pericolosamente vicini a quelli degli anni precedenti la guerra civile europea 1915-44.

L'intuito politico dovrebbe comprendere che solo attraverso la creazione di uno Stato sopranazionale fortemente improntato sulla tutela economico-giuridica delle diversità e delle marginalità e sulla promozione delle energie comunitarie locali si potrà configurare un diverso modo di gestire e rispondere alle sfide future.

E questa sfida parte dagli sforzi istituzionali per rendere l'Unione in gradodi presentarsi non pii come gendarme economico del continente europeo, sotto la bandiera dell'illusoria crescita senza inflazione, ma come soggetto politico in grado di essere altra parte rispetto agli Stati Uniti d'America, e di obbligarli attraverso l'autorevolezza delle proprie scelte, al rispetto di obiettivi autenticamente liberali e democratici quali la definitiva messa al bando degli esperimenti nucleari, la creazione di una task force internazionale specializzata sul controllo e la repressione del traffico di armi, (così come esiste ed ottiene interessanti risultati quella sul traffico di stupefacenti), l'adesione ai trattati internazionali che prevedono l'abolizione della pena di morte.

Ne conveniamo: appaiono utopie care ai teorici sconfitti del "doppio-Stato".

Non siamo tra questi. Sappiamo benissimo che, nelle decisioni fondamentali, "necessicate", che pòi rappresentano pe-

culiarmente l'ambito della politica, di Stato ne è esistito uno soltanto.

E lo diciamo con ammirazione nei confronti di quell'atteggiamento "pragmatico", squisitamente americano, che oggi permea in completa solitudine il senso di vita dell'Occidente. Ma il monopolio della verità e del senso è pericoloso.

L'Europa potrebbe saper offrire altri paradigmi culturali e comportamentali, che non siano soltanto quelli del contenimento della spesa pubblica o, peggio, quelli esclusivamente mutuati da istituti peculiarmente statunitensi. Probabilmente ha ragione Vattimo, (riportiamo di seguito il suo articolo): Bruxelles non è stata soltanto una macchina burocratica, ma ha offerto modelli e standard procedurali e gestioniali innovativi. Ma bastano. questi per sentirci europei?

Al momento di andare in stampa, abbiamo notizia della posizione assunta dalla Presidenza del turno del Consiglio dell'Ue, la quale notifica all'Austria che i quattrodici partner dell'Unione hanno unanimemente deciso che "se sarà formato a Vienna un governo che dovesse includere il Fpoe (il 'partito delle libertà' di Joerg Haider), verranno adottati tre severi provvedimenti: non promuoveranno e non accetteranno nessun contatto ufficile bilaterale a livello politico; negheranno il loro appoggio ai candidati austriaci nelle organizzazioni internazionali; provvederanno affinché gli ambascia221

tori austriaci nelle capitali dell'Unione siano ricevuti soltanto a livello tecnico".

A prescindere da considerazioni di ordine giuridico che per aver luogo necessitano di più meditate valutazioni, ci sentiamo di plaudire ad una decisione di ordine politico che, in ogni caso, va nella direzione di conferire autorevolezza a decisioni sopranazionali per l'affermazione - finalmente - non soltanto di principi economici, ma per la difesa, anche con sanzioni gravi (le quali possono arrivare alla sospensione del diritto di voto nelle istituzioni comunitarie) del principio stabilito nell'art. 6 del Trattato, dove si dice che "l'Unione è fondata sui principi di libertà, della democrazia, del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nonché dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati Membri".

Stefano Mi cossi * EuRoDEclsIoNIsMo

Le proposte del comitato dei saggi nominati da Prodi in materia di riforme istituzionali dovranno essere esaminate in profondità. Intanto qualcosa si può già dire: non si può ripetere l'errore di convocare una Conferenza intergovernativa per la modifica del Trattato senza conoscerne l'esito, per poi mettere da

Articolo pubblicato su «Sole 24 Ore», il 19 ottobre 1999.

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parte le questioni rilevanti e affondare nel piccolo cabotaggio. Il metodo, anzitutto. La fissazione dell'agenda compete ai capi di Stato e di Governo. I lavori preparatori dovrebbero avere respiro e visione, come fu per Maastricht e per l'Atto Unico (ma, ahimé, non per Amsterdam). La scelta delle opzioni, gli aggiustamenti della direzione dovrebbero restare saldamente nelle mani del Consiglio europeo; la consultazione del Parlamento deve essere estesa e sistematica.

La Commissione può contribuire con le sue proposte se queste si elevano all'altezza delle sfide da affrontare.

Veniamo al merito. Vi è un obiettivo immediato, largamente condiviso, di ridare efficienza ai meccanismi decisionali. Si invoca l'allargamento come principale giustificazione. Eppure, vi è già qui il rischio di partire male, come fece la Commissione Santer.

L'efficienza è una considerazione importante, ma non è la principale. Lesigenza di fondo è di ritrovare legittimità e sostegno alla costruzione europea presso i cittadini. L'allargamento deve essere discusso per quello che è, cioè la scelta di condividere le istituzioni e le decisioni politiche con popoli di diverse culture, religioni e valori. Non si può dare per scontata la scelta, come si è fatto finora, e poi cercare di utilizzarla come leva per fare accettare i cambiamenti degli equilibri istituzionali che ne conseguono.

I problemi da risolvere nei meccanismi decisionali sono due, quello del peso

dei diversi Paesi nelle decisioni nel Consiglio e nella Commissione e quello delle procedure e delle forme delle decisioni. L'uno e l'altro non sono, al fondo, che diverse manifestazioni del problema del trasferimento di sovranità alle istituzioni comunitarie.

Laumento del numero dei Paesi membri rende non più rinviabile un problema già evidente negli equilibri attuali, che è quello del peso eccessivo dei piccoli Paesi in termini di voti per le maggioranze qualificate nel Consiglio, rispetto al peso delle popolazioni. La correzione a favore dei Paesi maggiori nei voti del Consiglio è accettabile se si accompagna a un rafforzamento del carattere comunitario dell'intera costruzione. Dunque, vanno rafforzati i poteri della Commissione e quelli deL Parlamento; probabilmente dovranno essere rese più esigenti le maggioranze richieste in Consiglio, anche se questo accresce il potere di blocco delle minoranze.

Il problema del numero dei commissari sembra meno importante (ma i posti dei grandi Paesi dovranno diminuire), se la Commissione rafforza le sue caratteristiche di indipendenza rispetto agli Stati, come Prodi sembra deciso a fare.

Ancora più complicato è il problema delle procedure decisionali: le soluzioni possibili impongono modifiche rilevanti negli equilibri istituzionali. Come è noto, il Trattato istitutivo della Comunità europea non contiene alcuna distinzione tra atti legislativi ed esecutivi, ne tra atti legislativi (normazione pri-

maria) e regolamenti attuativi (normazione secondaria). Tutto appartiene al Consiglio (cioè agli Stati membri), che si riserva di "conferire alla Commissione i poteri per l'attuazione delle norme decise dal Consiglio" (articolo 202).

I rappresentanti degli Stati membri siedono anche nei Comitati istituiti dalle Direttive, per le decisioni delegate alla Commissione. Esistono oltre venti procedure decisionali, ciascuna corrispondente a un diverso equilibrio tra il potere della Commissione di proporre e quello del Consiglio di rifiutare. Per completare il quadro, l'applicazione delle norme e l'attività amministrativa ricadono sui Paesi membLi (articolo 5 e 100 del Trattato).

Va detto chiaramente che questo garbuglio istituzionale ha ben servito la costruzione europea: avendo mantenuto tutti i poteri di decisione e di controllo, il Consiglio ha potuto accettare le decisioni a maggioranza. I Comitati sono divenuti il veicolo per il coinvolgimento di migliaia di funzionari nazionali nella vita della Comunità. L'amministrazione decentrata delle decisioni ha consentito questo sviluppo senza creare una nuova burocrazia. Tuttavia, così com'è la costruzione sembra spesso incapace di decidere, e non è compatibile con le esigenze di semplicità e trasparenza.

Bisognerebbe cambiare tre cose. La prima: introdurre nel Trattato la gerarchia delle norme, lasciando al Consiglio e al Parlamento la legislazione primaria, ma attribuendo alla Commissione la nor223

mazione secondaria (regolamenti attuativi) e l'esecuzione (laddove questa debba svolgersi a Bruxelles), naturalmente sotto il controllo degli organi legislativi (Consiglio e Parlamento). Le posizioni dei singoli Stati nelle deliberazioni legislative del Consiglio dovrebbero essere rese pubbliche.

La seconda: mantenere i Comitati delle Direttive, come elemento essenziale di raccordo con le Amministrazioni nazionali, riducendo però al minimo le procedure decisionali e rafforzando la presunzione di applicazione delle prope della Commissione.

La terza: scorporare dalla Commissione le decisioni amministrative, riguardanti gli interessi dei singoli (concorrenza, autorizzazioni sanitarie, accertamento dei rischi alimentari, eccetera), per attribuirle ad apposite Agenzie, operanti secondo i principi fissati dagli organi legislativi e sotto il suo controllo. Tali agenzie dovrebbero operare secondo il modello dell'amministrazione a rete, appoggiandosi alle strutture decentrate degli Stati membri.

lamento europeo non ispiri qualche perplessità, o addirittura la tentazione di non prenderla troppo sul serio. Il suo peccato originale, quello di essere una istituzione che dovrebbe realizzare l'unità politica del continente rispettando puntigliosamente le sovranità dei singoli Stati e perfino le loro minime idiosincrasie nazionalistiche, vi ha lasciato tracce vistose, a cui, per chi ci arriva o vi guarda dall'esterno, è assai dif- ficile abituarsi a cominciare dall'assurda divisione dei lavòri deF-Par-lamento in -_duedi, Bruxelles e Strasburgo.

Nella città alsaziana si svolgono le sessioni plenarie, in genere una volta al mese; a Bruxelles ha luogo tutto il resto del lavoro dei deputati: commissioni parlamentari, gruppi politici, comitati vari (c'è persino una commissione a cui è demandato il compito di studiare la "comitatologia"). Per la sessione mensile di Strasburgo, partono da Bruxelles, e vi ritornano pochi giorni dopo, intere camionate di documenti, oltre che tutti i funzionari, gli assistenti parlamentari, gli interpreti. Questi ultimi devono assicurare la traduzione di tutte le discussioni, non solo plenarie, e soprattutto Gianni Vattimo * dei documenti, in tutte e quindici le lingue dei Paesi dell'Unione.

QUOTE UMANE E DIRITTI DELLE MUCCHE Roba da vergognarsi? Sì e no. A parte l'assurdo delle due sedi, è difficile penD'accordo: anche a guardarla dall'intersare concretamente a procedure più no, dal punto di vista di chi ci lavora, è semplici. Nel caso delle lingue, per difficile che la grande macchina del Paresempio, saremmo davvero maturi per la scelta di una, o due, o anche tre lin* Articolo pubblicato su «La Stampa», il 19 ottobre gue "europee" ufficiali? Può ben darsi 1999.

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che si vada in quella direzione, già ora le discussioni informali nei gruppi di lavoro provvedono cosi, e tutti vi si adeguano; ma bisogna che l'unificazione linguistica avvenga secondo ritmi "naturali", non con decisioni di vertice (che del resto sarebbe impossibile prendere). Una decisione di vertice sarebbe anche che, almeno secondo molti, l'adozione dell'Esperanto, una lingua "artificiale" senza radici storiche, anche se utile. Allora meglio sarebbe tornare al latino, in fondo la Chiesa l'ha usato fino a pochi anni fa e, almeno sul piano linguistico, ha funzionato benissimo.

La questione della lingua, del resto, è una spia dell'altro aspetto, quello positivo, del peccato di origine dell'Europa: il fatto che la decisione di unificarsi è stata presa democraticamente, non sotto la pressione di una potenza imperiale. Gli Stati nazionali da cui tutti noi europei veniamo si sono costruiti fino ad oggi con azioni di unificazione violenta ancora oggi c'è chi rivendica le buone ragioni dello Stato pontificio, o esprime nostalgie per l'impero asburgico; e le guerre etniche che insanguinano il nostro continente sono anche conseguenza di queste unificazioni forzate.

Per questo, l'Europa - con tutti i suoi limiti - è un esperimento storico di portata davvero universale, e, se le riuscirà di diventare quello Stato federale sovranazionale che hanno sognato i suoi padri fondatori - Altiero Spinelli anzitutto - darà un senso nuovo e più pieno alla sua pretesa di essere la patria

della democrazia. Le lentezze e la macchinosità dei processi di decisione, che ci appaiono giustamente scandalose, sono il prezzo che dobbiamo pagare al proposito di modificare uno dei meccanismi più tradizionali nella storia dell'umanità, quello che ha sempre fatto nascere gli Stati dalla presa di potere di individui o gruppi più forti che sottomettevano i più deboli. È questo proposito, anche, quello che spiega un altro paradosso della politica delle istituzioni europee, la distanza quasi schizofrenica tra l'estrema concretezza di certe decisioni (pensiamo alle ricorrenti discussioni sulle quote latte e la politica agricola in genere) e gli interventi su vaste questioni di principio come quella intorno a cui si sta cominciando a lavorare dopo il Consiglio di Colonii del giugno scorso, la redazione di una Carta dei diritti dei cittadini europel. È fin troppo chiaro il perché di questa doppia faccia dell'europeismo: gli interventi sul concreto terreno dell'economia e della vita quotidiana dei cittadini europei sono destinati a fornire la base per la più vasta unificazione politica, culturale, legislativa. L'elemento di forza che nella tradizione degli Stati nazionali sono state le guerre di unificazione, dette anche di indipendenza ma spesso assai poco popolari, può essere oggi solo l'economia.

Fare dapprima la comunità del carbone e dell'acciaio e, negli ultimi anni, la moneta unica, è stato il modo realistico 225

di costruire la base "materiale" per l'unificazione ai livelli più alti. Per tante ragioni, noi italiani abbiamo motivo di essere tra i più convinti assertori del processo di unificazione europea, di là dalle differenze politiche dei vari partiti rappresentati nel Parlamento. Molto sommariamente, ci aspettiamo dall'Europa quello che sono stati i "parametri di Maastricht" per la nostra economia: una spinta a mettere in ordine tanti altri aspetti della nostra vita nazionale che ancora non funzionano. Pensiamo solo a che cosa potrebbe, e dovrebbe, succedere in Italia se l'Unione ci imponesse di rispettare certi tempi nella giustizia penale e civile, o certi criteri per garantire l'efficienza delle università, o il concreto riconoscimento di certi diritti (ad esempio, delle coppie di fatto) come condizioni per continuare a farne parte.

Siamo pronti a un'eventualità di questo genere, o la considereremmo ancora come una intollerabile violazione della

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nostra identità, e sovranità, nazionale?

Non si tratta di premere indebitamente da Strasburgo o Bruxelles sulle libere decisioni del Parlamento nazionale; ma di prender atto che partecipando a una unità politica più vasta, della quale per tante ragioni abbiamo capito di non poter fare a meno, dovremo anche rivedere, se non la nostra lingua, certo molti "usi e costumi", molti pregiudizi e disfunzioni, per realizzare forme sempre più complete di eguaglianza. Anche la Carta dei diritti dei cittadini europei a cui si sta pensando, se non vorrà essere un ennesimo testo di principio con funzione esclusivamente retorica, dovrà proprio valere come un riferimento a cui ogni cittadino potrà appellarsi contro violazioni che provengano dalle varie autorità "locali". E iii vista di esiti come questo che, ci sembra, vale la pena di complicarci un poco la vita con la macchina comunitaria, sopportandone anche i non pochi paradossi.

rubriche

Notizie da...

CENTRO GINO GERMANI Chi, dove e perché insanguinerà di violenza politica il )OU secolo? Questo l'interrogativo principale a cui ha cercato di rispondere il convegno da! titolo "Terrorismo e violenza politica nel XXI secolo", organizzato a Roma dalla Cattedra di Sociologia del Diritto dell'Università "La Sapienza" e dal "Centro Gino Germani". L'incontro, tenutosi dal 4 al 6 novembre presso la Sala Convegni della Facoltà di Sociologia dell'Università di Roma, ha visto alternarsi gli interventi di numerosi studiosi ed esperti giunti da tutto il mondo e di diversi esponenti delle istituzioni. Tra i tanti hanno partecipato il prof. Sergej Vasilevic Djakov, Capo dell'Ufficio Giuridico del FSB, il Servizio di Sicurezza Federale della Federazione Russa, il Gen. Carlo Alfiero, Direttore della DIA, il Gen. Carlo Jean, Rappresentante Personale del Presidente dell'OscE, il Gen. Fabio Mini dello Stato Maggiore dell'Esercito, il Col. Umberto Rapetto, Direttore del Progetto Sicurezza, Autorità per l'Informatica nella Pubblica Amministrazione, il Prof. Vincenzo Caianiello, Presidente Emerito della Corte Costituzionale e il Prof. Ansoino Andreassi, Direttore Centrale della Polizia di Prevenzione.

Occhi puntati su temi sempre diversi, ma ugualmente stimolanti in ognuna delle tre

giornate. Nel corso della prima, l'attenzione degli esperti si è indirizzata, soprattutto, verso la necessità di una stretta collaborazione tra scienze sociali e sfera istituzionale e sul ruolo dell'università nella formazione di un contrasto "critico" al terrorismo e alla violenza politica. A questo proposito, particolarmente seguiti sono risultati essere sia l'intervento dell'On. Franco Frattini, Presidente della Commissione Parlamentare per i Servizi di Informazione e Sicurezza e per il Segreto di Stato, che quello dei Dott. Piero Luigi Vigna, Procuratore Nazionale Antimafia.

L'On. Frattini ha tenuto, soprattutto, ad evidenziare i punti su cui i servizi di intelligence si dovrebbero muovere maggiormente per contrastare l'avanzata del terrorismo in tutte le sue forme, sia vecchie che nuove.

Questi ha sottolineato la necessità di una stretta collaborazione tra servizi di informazione e organi investigativi, quanto mai necessaria soprattutto in vista del Grande Giubileo dell'Anno 2000 e di tutte quelle manifestazioni ad esso collegate e, come quello, probabili obiettivi di attacchi terroristici.

Interessante anche l'intervento del Dott.

Piero Luigi Vigna che ha ipotizzato la realizzazione di una struttura singola in grado di raccogliere sotto un'unica procura speciale le indagini sulla mafia e quelle sul ter227

rorismo. Nel corso della tre giorni di convegno particolare riguardo è stato dato anche al cosiddetto "neoterrorismo", un termine sotto il quale vengono compresi la violenza di sette e movimenti religiosi, il terrorismo nucleare, chimico e biologico, l'ecoterrorismo e il narcoterrorismo. Anche all'approfondita analisi di tutti questi fenomeni è seguito il tentativo di evidenziare i giusti strumenti e le strategie normative ed operative in grado di porre efficace contrasto. Una necessità resa quanto mai impellente dal fatto che le ipotesi di possibili attacchi terroristici, soprattutto durante l'evento giubilare, sono più che verosimili. Lo sanno bene le autorità di controllo ed i servizi di sicurezza già da tempo, secondo quanto dimostrato da molti degli intervenuti al convegno, allertati e pronti nelle contromisure da adottare.

FONDAZIONE GIovNI AGNELLI Il programma di ricerca sulle popolazioni di origine italiana nel mondo è uno dei più antichi della Fondazione Giovanni Agnelli.

Risale infatti alla fine degli anni Settanta.

In questo lungo periodo è stato condotto a termine un numero molto ampio di ricerche negli Stati Uniti, in Canada, Argentina, Brasile, Cile, Uruguay, Venezuela, Australia e Perù. , La Fondazione si è impegnata, da un lato, a capire attraverso le varie ricerche quale sia stato il ruolo degli italiani nella costruzione delle nuove società nelle Americhe e in Australia, dall'altro, a costruire un dialogo, soprattutto a livello culturale, fra l'Italia e le popolazioni di origine italiana nel mondo.

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Anche in questo caso, sebbene una parte del programma sia diretta allo studio delle diverse storie dell'emigrazione italiana, l'orientamento al futuro tipico delle attività della Fondazione è rimasto, comunque, presente e riguarda segnatamente le prospettive presenti e future della presenza italiana nel mondo.

Con alcune ricerche recenti sull'Uruguay e il Brasile, il programma è giunto alla conclusione di una prima fase. In questi anni proseguirà il lavoro di pubblicazione in italiano delle ricerche, sovente già pubblicate in lingua originale. Presso la sede della Fondazione a Torino continua l'attività del

Centro di documentazione sulle popolazioni e le culture italiane nel mondo, che comprende un'ampia biblioteca specializzata e la banca dati informatica dell'emigrazione italiana negli Stati Uniti, in Argentina e in Brasile. Il Centro di documentazione ha lo scopo di favorire in italia l'ampliamento dell'interesse per questo tema da parte degli studiosi e dell'opinione pubblica.

Recentemente, l'esperienza culturale maturata in questo settore nel corso degli anni ha trovato espressione nella attivazione di un sito web della Fondazione sulla rete Internet. Tale sito si caratterizza per il fatto di mettere a disposizione degli italiani all'estero e dei cittadini stranieri interessati all'italia una ricca serie di strumenti culturali e informativi sull'Italia e gli italiani all'estero elaborati dalla Fondazione stessa.

"Popolazioni e culture italiane nel mondo" Il programma di ricerca sulle popolazioni di origine italiana nel mondo è uno dei più antichi della Fondazione Giovanni Agnelli: esso risale infatti al 1978. Ecco un elenco di alcune delle pubblicazione più recenti:

La presenza italiana in Venezuela, di Pedro Cunili Grau, 1996 Il contributo italiano allo sviluppo del Cile, di L. Favero, M. R. Stabili, R. Salinas Meza e altri, 1994 L'emigrazione italiana e la formazione dell'Uruguay moderno, di E J. Devoto, M. M. Camou, A. Pellegrino e altri, 1993 Italo-australiani. La popolazione di origine italiana in Australia, a cura di S. Castles, C. Alcorso, G. Rando ed E. Vasta, 1992 La letteratura dell'emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, a cura di Jean-Jacques Marchand, 1991 La presenza italiana nella storia e nella cultura del Brasile, a cura di Rovilio Costa e Luis Alberto De Boni, 1991 Euroamericani. vol. I, La popolazione di origine italiana negli Stati Uniti; voi. Il, Lapopolazione di origine italiana in Argentina; voi. IIL La popolazione di origine italiana in Brasile, 1987 L'apertura al dialogo internazionale è per la Fondazione Giovanni Agnelli uno strumento necessario e indispensabile per la realizzazione e lo sviluppo dei suoi programmi poiché essi hanno tutti, sebbene in forme diverse, una connotazione internazionale.

La distinzione di fondo delle relazioni culturali internazionali della Fondazione riguarda l'Europa e i Paesi non europei.

Nel primo caso, infatti, le relazioni sono usuali e quotidiane poiché tanto gli argomenti quanto gli interlocutori dei diversi programmi hanno come ambito di riferimento condiviso l'Europa. Sul piano delle aree di ricerca, le relazioni culturali con l'Europa sono particolarmente indispensabili per l'area Riforma dello Stato e plurali-

smo sociale in Italia; per le altre due aree di ricerca il dialogo con l'Europa è altrettanto importante per l'elaborazione progettuale e l'individuazione delle politiche.

Nel caso dei Paesi non europei, le relazioni culturali presentano una complessità di diverso tipo.

Oltre alla continuazione dei rapporti ormai storici con gli interlocutori delle Americhe, particolare attenzione viene dedicata al continente asiatico e alle sue molteplici realtà. In questo caso, da un lato il dialogo internazionale ha il compito pii'i generale di promuovere la cultura italiana e europea in questi Paesi; dall'altro lato, esso ha come proposito quello di svolgere in Italia un'opera di divulgazione e di approfondimento della loro cultura e della loro società. Questo duplice intento si manifesta sul piano operativo attraverso la collaborazione con istituti di ricerca pubblici e privati, la realizzazione di convenzioni culturali, la pubblicazione di studi, e ricerche nelle due direzioni. Sul piano delle aree di ricerca, tale tipo di relazioni risulta indispensabile per le aree Universi culturali e modernità e Nuova geoeconomia.

Sul piano editoriale le attività della Fondazione si esprimono attraverso la casa editrice Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli.

L'attività editoriale è organizzata per collane e comprende la pubblicazione di volumi, di testi di lavoro, di riviste. Tutte le pubblicazioni sono strettamente correlate con i programmi di ricerca e, salvo eccezioni ben definite come la collana "Cosmopolis", sono la diretta espressione di ricerche svolte dalla Fondazione. Questa correlazione tra programmi e pubblicazioni ha fatto si che in 229

tempi recenti, alle tradizionali collane editoriali come "Studi e ricerche" "Quaderni della Fondazione" si affiancassero collane specifiche come i "Dossier Mondo Islamico" e la serie "Nuova Geoeconomia".

"Studi e Ricerche" È la collana più antica e tradizionale. E sotto questo titolo che vengono pubblicati i risultati delle principali ricerche della Fondazione nei campi dell'economia e delle scienze sociali.

"Dossier Mondo Islamico" La collana si inserisce nell'area di ricerca Universi culturali e modernità, di cui esprime i risultati del programma specifico Islam e modernità. Le pubblicazioni si propongono di studiare e far conoscere le dinamiche culturali, sociali e politiche in corso nella vasta area afro-asiatica caratterizzata culturalmente dall'appartenenza musulmana maggioritaria attraverso la traduzione delle voci più autorevoli che animano il dibattito odierno.

sviluppo dei Paesi caratterizzati dai più rapidi processi di crescita geoeconomica e alle trasformazioni in atto nelle principali regioni geoeconomiche, come il Mediterraneo, i Paesi dell'Europa centrale e orientale, i Paesi Asean.

"Popolazioni e culture italiane nel mondo" In questa collana vengono pubblicate le ricerche legate al programma sulle popolazioni e le culture italiane nel mondo. Essa ospira saggi sull'emigrazione italiana e sul ruolo che le popolazioni di origine italiana hanno avuto sul piano economico, politico e culturale nella costruzione delle società nei Paesi d'insediamento.

"Contributi di ricerca" Non tutte le attività di ricerca si traducono, necessariamente, in un volume. Oltre alla produzione libraria, l'attività editoriale della Fondazione si è perciò arricchita recentemente di questa serie nella quale compaiono pubblicazioni scientifiche a circolazione mirata fra specialisti.

"Cosmopolis" Si collega all'area di ricerca sugli universi culturali, di cui sotto certi aspetti è stata l'anticipatrice. La collana no'n pubblica ricerche della Fondazione, ma vuole fare conoscere al pubblico italiano importanti testi sulla cultura e la società di Paesi appartenenti a civiltà diverse dall'universo euroamericano.

XX! secolo-

"Nuova geo economia" Raccoglie l'esito delle ricerche appartenenti all'area di ricerca omonima ed è costituita principalmente da rapporti dedicati a specifici Paesi e contesti geoeconomici. Particolare attenzione viene prestata ai modelli di

Altreitalie. Rivista internazionale di studi sulle popolazioni italiane nel mondo.

Nel corso degli anni la rivista, a cadenza semestrale, è diventata un punto di incontro virtuale per i contatti e le discussioni degli studiosi delle migrazioni italiane nelle due

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Un utile strumento di comunicazione e divulgazione scientifica è costituito dalla rivista XX! Secolo. Con le sue due edizioni in italiano e inglese la rivista ha la finalità di offrire al pubblico dei decisori politici ed economici, oltrechè ai media, sintesi monografiche dei principali risultati delle ricerche.

Americhe e in Australia. È in corso di realizzazione il progetto di rendere fruibile la rivista al pubblico italiano internazionale attraverso la sua "pubblicazione" sulla rete Internet, con la possibilità per gli utenti di prelevare direttamente i file dei vari articoli.

"The Giovanni Agnelli Foundation Series in Italian History' Realizzata in cooperazione con la Princeton University Press, è un'iniziativa unica per far conoscere agli studiosi e alle persone di cultura di tutto il mondo alcuni fra i testi chiave della storiografia contemporanea italiana, che vengono messi a disposizione per la prima volta in lingua inglese in una edizione appositamente concepita per il pubblico internazionale.

"International Forum" La collana, in lingua inglese o francese, raccoglie saggi di autori italiani e stranieri originati dalle ricerche, dai convegni e dai seminari della Fondazione Agnelli. "International Forum" ha la finalità di mettere a disposizione del dibattito internazionale alcuni significativi contributi di studio della Fondazione Agnelli e di arricchire gli strumenti e le occasioni di dialogo con le altre istituzioni culturali internazionali.

FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI

Via Giacosa, 38 - 10125 Torino Tel. 0111658666 - Fax 011/6502777

FONDAZIONE INTERNAZIONALE LELI0 BASSO

Da sempre l'impegno e la ricerca della Fondazione Internazionale Lelio Basso si carat-

terizzano per un percorso che scende alla radice dei problemi: dai fenomeni emergenti ai contesti vicini e lontani che li producono. Ne deriva un meno di visibilità e un più di approfondimento da cui emergono anche prospettive per il futuro. Basti l'esempio delle ricerche sul genocidio che approdarono nel 1993 al convegno e alla proposta dei Protocolli aggiuntivi alla Convenzione ONU del 9 dicembre 1948 sulla "Prevenzione e repressione del crimine di genocidio". Poco tempo dopo, di fronte alle tragedie del Rwarida e della ex-Iugoslavia, la Fondazione Internazionale Lelio Basso aveva già formulato i percorsi di analisi, denuncia, proposte.

Il lavoro svolto negli anni Novanta ha come metro di giudizio i programmi realizzati nei corsi di formazione, perché da lì partivano e là ritornavano arricchiti i temi caldi affrontati in sede di ricerca, di convegni, di pubblicazioni, di sessioni del Tribunale Permanente dei Popoli. Tra i più affrontati ed elaborati sono: le società plurietniche e il diritto d'asilo; economia, ambiente e diritti umani; libero mercato ed equità sociale; l'impunità e la crisi dell'ONu; la globalizzazione economica e le ricadute sulla società civile; soprattutto e da diversi punti di vista il dilemma irrisolto dei rapporti tra economia egemone e diritti umani e dei popoli.

Tutti questi temi sono stati affrontati dal punto di vista delle vittime che sono per la Fondazione Internazionale Lelio Basso soggetti privilegiati di storia e diritto.

Le prospettive di futuro a medio termine prevedono gli stessi strumenti di intervento e la continuità dello sguardo "dalla parte delle vittime". Sono in cantiere ricerche sulle nuove forme di schiavitù, sullo sfruttamento dei minori, sui danni ecologici e so231

ciali delle multinazionali dell'alimentazione e dell'energia, anche le battaglie contro ogni forma di impunità a tutti i livelli, la partecipazione e l'appoggio all'impegno etico e giuridico per il funzionamento concreto della Corte penale internazionale. La "logica di rete" della Fondazione Internazionale Leho Basso tende ad arricchirsi anche quantitativamente con strategie mirate attraverso l'ascolto delle fasce più deboli o dolenti del pianeta globalizzato, senza allontanarsi dal suo obiettivo specifico che si esprime in una cultura alternativa, che è la premessa di ogni serio cambiamento politico-sociale.

Il nostro lavoro per il 1999: le principali iniziative

I. Infanzia - Continua la ricerca su minori e narcotraffico che, dopo l'Italia, si estende all'area balcanica; - continua l'attività dei corsi di formazione per insegnanti della scuola italiana dell'obbligo sui diritti dei minori; - a San Paolo del Brasile il 16-18 marzo si conclude con la sentenza, il lungo percorso del sulle violazioni dei diritti dei bambini in quel Paese; - a seguito di quella sentenza, sempre a San Paolo del Brasile, verrà istituito un'osservatorio e un monitoraggio a livello latino-ainericano.

2 Popo/.azioni indigene - Il Gruppo di Ricerca Amerindiani (Gi) della Fondazione, che da tempo divide la sua attività fra ricerche sul campo, ricerche teoriche, seminari, interventi all'ONu (Ginevra) e formazione di giovani antropologi, sta avviando, in collaborazione con istituzioni ed organismi brasiliani, una nuova ricerca dal titolo "Il posto degli indios nella 232

società brasiliana. Orientamenti indigeni e indigenisti contemporanei nella cultura e nel diritto".

3. Minoranze e popoli trasversali - È rivolto agli studenti del corso romano per la formazione e il perfezionamento sui diritti umani e dei popoli un ciclo di 4 seminari, su "Il problema del popolo curdo fra storia e attualità", che verranno tenuti in maggio a Roma, secondo questa cadenza: il 7 maggio "Linee di storia del popolo curdo"; il 14 maggio "Il problema curdo in Iraq negli anni '90 - ruolo e responsabilità dell'Europa"; il 21 maggio "Il problema curdo in Turchia negli anni '90: ruolo e responsabilità dell'Europa"; il 28 maggio "L'analisi del diritto internazionale e umanitario: quali diritti per un popolo transnazionale?".

Lavoro servile - Coordinata da José de Souza Martins, professore di sociologia all'Università di San Paolo, è iniziata una ricerca internazionale biennale dal titolo "Relazioni servili e di assoggettamento nel mondo contemporaneo", per individuarne cause e possibili soluzioni. Lo studio del problenìa, che ha ormai dimensioni mondiali, partirà dall'indagine sulla situazione italiana.

Transnazionali - 14-16 aprile 1999 a Parigi, il Tpp si pronuncerà in una prima sessione sul ruolo delle transnazionali nel determinare di fatto la legislazione e le politiche dei singoli Paesi. Il caso che sarà esaminato a Parigi è quello della ELF Aquitanie in Africa.

- Giugno 1999, a Warwick, ci sarà una seconda sessione per valutare l'operato di rransnazionali che controllano le tecnologie

della produzione di alimenti con le conseguenti disastrose trasformazioni dell'ecosi-. stema.

6 I crimini contro l'umanità e il "nodo" dell'i mpunità - Questo è il titolo di un secondo ciclo di 4 seminari, (Roma aprile 1999), sempre rivolto agli studenti che ogni anno frequentano i corsi di formazione e perfezionamento sul diritto dei popoli: il 9 aprile "I crimini contro l'umanità"; il 16 aprile "La repressione dei crimini contro l'umanità ad opera dei tribunali interni e dei tribunali d'opinione; il 23 aprile "la repressione dei crimini contro l'umanità dal tribunale di Norimberga ai tribunali ad hoc dell'ONu: la difficile separazione dei crimini contro l'umanità dai crimini di guerra"; il 30 aprile "La repressione dei crimini contro l'umanità ad opera della Corte Penale Internazionale".

- La Fondazione prosegue la collaborazione con la "Coalizione Internazionale per la Corte Criminale" (Cicc) che, a New York, sta preparando una azione di sollecitazione dei parlamenti nazionali alla ratifica della convenzione sottoscritta a Roma da 75 governi (al momento ha ratificato solo il Senegal).

- È stata promossa una ricerca di ampio respiro sul principio di complementarietà che la Corte deve gestire rispetto ai codici penali degli Stati nazionali. La ricerca, condotta dai proff. Flavia Lattanzi e Luigi Ferrajoli sarà scandita da seminari che faranno il punto sui lavori via via che procedono.

7 Formazione - Sono ormai assai conosciuti i corsi attivati a Roma sui diritti umani e dei popoli. A partire da quest'anno, essi si svilupperanno

in modo continuativo dal prossimo anno da ottobre al giugno.

- A Napoli funziona dal 1995 la Scuola Napoletana del Diritto dei Popoli, in collaborazione con l'istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che prevede ogni anno, in settembre, 2 settimane di studi con la partecipazione di 30 vincitori di borse di studio provenienti dalle università europee. I temi scelti per il corso di quest'anno sono funzionali alle prospettive di fine millennio.

- Dall'ottobre 1999, saranno attivati corsi analoghi alla Università di Tunisi per gli studenti de! Maghreb, tenuti da professori maghrebini ed europei.

- A cominciare da quest'anno, un simile programma sarà attivato ad Haiti.

8. Informazione e comunicazione La Biblioteca e il Centro di documentazione della Fondazione Internazionale Lelio Basso, nel corso degli anni, hanno acquisito un patrimonio fondamentale per lo studio della storia, dell'evoluzione e della lotta dei Paesi del Sud del mondo. Oggi, con circa 10.000 volumi, 10.000 documenti e 300 periodici correnti, la Biblioteca della Fondazione costituisce un luogo di cultura quasi unico in italia per quanto riguarda lo studio dei diritti umani, dei diritti dei popoli, delle minoranze, delle popolazioni indigene.

- Sono in preparazione "pacchetti" per la diffusione della conoscenza dei diritti umani e dei popoli attraverso una rete programmata di Enti locali.

FONDAZIONE INTERNAZIONALE LELI0 BASSO Via della Dogana Vecchia, 5-00186 Roma Tel. 06/6879953 - Fax 06/683075 16 233

FONDATION DE FRANCE La Fondation de France è nata alla fine del 1969 allo scopo di contribuire allo sviluppo del mecenatismo e della fìlantropia in Francia, in tutti i campi di interesse generale: cultura, sanità, sociale, ambiente, , eccetera.

Strumenti diversi le sono stati forniti dalla sua creazione, fondamentali la possibilità di ricevere donazioni e di sostenere fondazioni. Trenta anni più tardi, l'istituzione si è sviluppata, i suoi campi di attività rispondono ai bisogni dei nostri tempi, senza dubbio ancora di piìi del 1969. La Fondazione sembra aver colto bene l'evoluzione della società, soprattutto nel sostenere piccole associazioni territoriali che svolgono un"azione di prossimità".

Dal 1961, sono state create più di 650 fondazioni sotto l'egida della Fondazione, 470 sono oggi in attività di cui una cinquantina create da imprese. Ciò ha contribuito, indubbiamente, a creare una vera cultura delle fondazioni in Francia. Uno degli obbiettivi prossimi della Fondation de France sarà quello di rafforzare il confronto con le imprese, in una logica di partenariato, l'istituzione si propone di offrire una gamma di strumenti al servizio del mecenatismo delle imprese.

Nel corso del 1999 svolti sette nuovi programmi. Due dei quali per rispondere a problemi emergenti: uno avrà io scopo di fare familiarizzare le persone anziarie e in difficoltà a usare Internet; l'altro, in partnership con la Cassa di Risparmio e diverse fondazioni europee, per l'uso dell'Euro.

Un recente studio che la Fondazione ha condotto sulle donazioni mostra che le imprese non utilizzano tutte le deduzioni fiscali che la legge consente loro. Fra le cau234

se, anche la complessità del dispositivo fiscale. Ma questo è destinato ad essere semplificato sempre di più. La Fondazione ha l'esperienza necessaria per sostenere le imprese che in numero crescente, vorranno svolgere attività di mecenatismo. Per quanto riguarda i donatori privati, questi sono, per la maggior parte, molto sensibili all'attualità, alle grandi cause portate alla ribalta dai mass inedia (quali l'iniziativa dei Telethon o quelle per la lotta all'AIDs). Anche per i privati, la Fondazione auspica una semplificazione della fiscalità. Nei prossimi anni, comunque, l'istituzione intende approfondire gli studi sul fenomeno da presentare sul futuro sito Internet dell'Osservatorio sulla generosità e il mecenatismo.

Nel suo trentesimo anniversario, la Fondation de France presenta chiaramente la sua mission: definire la sua immagine e rafforzare il suo ruolo in rapporto alle imprese e ai singoli al fine di sviluppare la fìiantropia in Francia. Per il 1999 sono state fatte alle imprese tre proposte: - una serata di gaia al Théatre des Champs-Elyse in cui la maggior parte del ricavato (il 75%) servirà a finanziare i programmi della Fondazione; - la creazione di una borsa lavoro, sul modello del prestito d'onore; - la creazione di operazioni sul modello di quanto realizzato con un impresa che ha organizzato un concorso pedagogico per bambini delle scuole elementari sui tema: "Meglio vivere il XXI secolo".

FONDATION DE FRANCE 40, avenue Hoche 75008 Paris, France Tel. 0144213100- Fax 0144213101 http.//www.fdf.org

ISTITUTO

GIMscI PIEMONTESE

In occasione del venticinquesimo anniversario della sua fondazione, l'Istituto Gramsci piemontese ha promosso una ricerca di particolare impegno e significato culturale su "Valori civili e società regionali in Italia", che ha ottenuto il sostegno del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali.

L'indagine ha avuto un finanziamento della Fondazione S. Paolo di Torino, che ha consentito l'avvio dei lavori. Il progetto di ricerca è stato elaborato da Loredana Sciolla, Arnaldo Bagnasco e Nicola Negri del Dipartimento di scienze sociali dell'Università di Torino.

La ricerca fa riferimento al quadro nazionale, in consonanza con studi internazionali.

I risultati ottenibili si prestano non solo a una discussione scientifica, ma ad alimentare la riflessione culturale e politica su temi oggi cruciali nel Paese.

Ipotesi e obiettivi della ricerca Le ipotesi su cui ci si muove nascono dall'insoddisfazione per l'uso eccessivamente semplificato con cui la teoria della "cultura civica" è stata applicata all'analisi della situazione italiana. Tale uso ha contribuito a consolidare lo stereotipo dell'esistenza nel nostro Paese di una "sindrome particolarista familistica" profondamente radicata nel carattere collettivo nazionale, che spiegherebbe la mancanza di "spirito civico", lo scarso impegno pubblico, il cattivo funzionamento della democrazia. In realtà, il concetto di cultura civica confonde dimensioni quali la morale, la fiducia, l'identità che, invece, devono essere mantenute analiticamente distinte e che possono combinarsi in modi non scontati sia fra di loro sia con

l'impegno pubblico e la partecipazione. Ne risulta la possibilità di pensare al caso italiano come caratterizzato da più percorsi, che portano a forme e gradi diversi di impegno pubblico, integrando civicness, fiducia, identità territoriale.

Nella fase di preparazione, si sono confron-. tati i modelli emersi nel caso italiano con quelli ottenibili dai dati della European Value Survey Study Group (EvssG) re,!ativi ad altri Paesi europei caratterizzati daontesti istituzionali diversi. Proprio questo lavoro di comparazione, a livello sovra-nazionale, ha messo in luce l'opporturjità di ultFri 6ni analisi a livello sub-nazionale che possono essere molto significative, anche dal punto di vista politico.

Per fare fronte a queste esigènze, si è resa necessaria una survey specifica su campioni di popolazione a livello locale. Il disegno della ricerca è stato, dunque, orientato alla individuazione di aree che rappresentino in modo significativo la variabilità dei contesti socio-economici cukurali italiani. Sono stati selezionati: - due casi tipici della "Terza Italia" (Vicenza e Modena), entrambi rappresentativi di un modello di sviluppo di piccola-media impresa, il primo nel Nord-Est storicamente integrato dal modello della cosiddetta "sub-cultura bianca" e il secondo, nel Centro, caratterizzato dalla "sub-cultura rossa"; - due casi tipici del Mezzogiorno (Teramo e Caltanissetta), uno relativo alle aree dinamiche di sviluppo manifatturiero e l'altro rappresentativo di una situazione di stagnazione.

Il questionario, da somministrare telefonicamente, è stato elaborato a partire da quello utilizzato nell'indagine dell'EvsSG: sono state introdotte integrazioni e specificazioni 235

in funzione degli obiettivi dell'indagine contestualizzata, mantenendo tuttavia lo schema originario del modello in modo da garantire la possibilità di comparazione.

Allo stato attuale, si è conclusa la somministrazione del questionario ai campioni pro.vinciali di popolazione, realizzando duemila interviste telefoniche; si è, quindi, proceduto alla costruzione di un system file Sss ed è in corso di svolgimento l'elaborazione statistica dei dati.

L'indagine sarà estesa nel 1999-2000 a due aree metropolitane del Nord: Milano e Torino, due contesti urbani che escono da un vecchio modello di sviluppo in direzioni l'una più terziaria, l'altra mantenendo importanti componenti industriali.

Un dispositivo come quello indicato permetterà di avere disponibile un rapporto in grado di attivare una discussione pubblica informata e organizzata su alcuni aspetti della società italiana tanto delicati quanto poco conosciuti al di là di stereotipi tradi'zionaji. Questa dicussione pubblica sarà promssa e organizzata dal Consiglio Italiano per\le Scienze Sociali.

FONDAZIONE IS1TUTO PIEMONTESE ANTONIO Gisci Via Vanchiglia, 3 10124 Torino Tel. 011/8395402 - Fax 01118395403

ISTITUTO DI STUDI E ANALISI EcONOMICA

L'ISAE a 100 giorni dalla sua nascita L'isAE - Istituto di Studi e Analisi Economica - nasce dalla fusione di due enti di ricerca pubblici, l'Isco, istituto Nazionale per lo Studio della Congiuntura, e l'ispE, 236

Istituto di Studi per la Programmazione Economica. Il campo di attività dell'IsAE è molto più ampio della semplice somma di quelli dei due cessati enti, che si limitavano allo studio l'uno della congiuntura economica, e l'altro di alcuni problemi strutturali della finanza pubblica. Partendo dall'esperienza accumulata, dall'Isco e dall'isPE, e grazie all'apporto di nuovi ricercatori, l'IsAE sta sviluppando una capacità di analisi teorica ed istituzionale, con l'obiettivo di fornire un significativo supporto tecnico alle decisioni di politica economica e sociale del Governo, del Parlamento e delle pubbliche amministrazioni, offrendo agli esperti e all'opinione pubblica, gli strumenti per valutare le alternative che si pongono e i risultati che si conseguono con vari interventi.

Le aree di interesse dell'JSAE L'ISAE svolge attività di previsione e di analisi di breve, medio e lungo periodo, sia nel campo della economia che in quelli della politica economica e della finanza pubblica.

L'istituto produce una serie di inchieste congiunturali, uniche nel loro genere in Italia, anche con disaggregazioni territoriali, che riguardano le imprese industriali, quelle di servizi, i consumatori, e sono armonizzate a livello europeo, grazie ad un processo di collaborazione tra istituti europei che si occupano di congiuntura. Le inchieste congiunturali permettono di ottenere indicazioni molto tempestive sulle aspettative e le previsioni degli operatori, ad esempio, misurando il cLma di fiducia e le attese di imprese e consumatori.

L'ISAE, inoltre,effettua studi di macro e microeconomia della finanza pubblica, avendo riguardo sia ai grandi aggregati delle

spese e delle entrate, del deficit e del debito, sia ai sottosettori principali, quali pensioni, sanità, assistenza, pubblico impiego, patrimonio storico-artistico-culturale.

L'IsAE non solo esamina ex-post gli effetti dei provvedimenti di finanza pubblica, ma cerca anche di valutarli ex-ante, ad esempio, attraverso modelli di simulazione. Nel campo della politica economica, tuttavia, il problema dell'applicazione concreta dei provvedimenti svolge un ruolo fondamentale. L'Is intende studiare anche regole e procedure, per cercare di comprendere se e perché provvedimenti che sembrano essere corretti in teoria, non riescono poi a raggiungere nella pratica le implicazioni desiderate.

Un altro settore estremamente importante di indagine dell'Istituto riguarda le politiche dello sviluppo e della coesione economica, sociale e territoriale. Vengono formulate, anche attraverso modelli di microsimulazione, proposte per sconfiggere la disoccupazione, ridurre i divari regionali, lottare contro la povertà e l'emarginazione.

Una notevole attenzione viene portata agli effetti sulla coesione sociale sia dell'andamento dell'economia, sia soprattutto dei provvedimenti di politica economica. A tale proposito, l'IsAE intende servirsi anche dello strumento dei coni intergenerazionali, per meglio valutare l'impatto redistributivo di interventi pubblici nel campo della sanità, delle pensioni, dell'istruzione e della formazione

L'internazionalizzazione dell'ISAE Un altro campo di attività riguarda l'econom\ia internazionale ed in particolare quella europea. Da un lato, infatti, l'istituto esamina l'andamento dell'economia mondiale e i

principali fenomeni che ne governano il cambiamento. Dall'altro, l'isAE intende contribuire, in particolare in sede europea, all'analisi economica internazionale Questo avviene sia partecipando ai lavori di organizzazioni internazionali come la Commissione Europea e l'OcsE, sia facendo parte di reti di istituti di ricerca europei. La costruzione europea comporta la necessità non solo di incrementare lo scambio di informazioni e di pubblicazioni, in modo da accrescere la conoscenza che altri Paesi europei hanno dell'economia italiana, ma anche di sviluppare una capacità di analisi che abbia l'Europa come dimensione di riferimento.

L'istituto partecipa a numerose reti internazionali, a livello sia istituzionale sia individuale. Esempio di questa seconda tipologia è la cooptazione in qualità di fellow del Presidente dell'IsAE al network internazionale CEPR di Londra. Esempi della prima tipologia sono i collegamenti dell'IsAE con il CEI'S di Bruxelles, con le associazioni internazionali che riuniscono gli istituti nazionali di congiuntura, come l'AIEcE ed il CIRET, le collaborazioni con la Fondazione tedesca Bertelsmann o con l'istituto francese OFCE. Linternazionalizzazione si sviluppa su pii livelli. Un primo è quello della raccoltadi informazioni su quanto accade negli altri Paesi, europei e internazionali, sia nel campo della ricerca che nella politica economica. Un secondo livello è quello della diffusione all'estero di dati ed analisi dell'economia italiana. Un terzo stadio è quello della partecipazione a lavori di ricerca e di analisi internazionali. Un quarto, infine, è quello della costruzione di reti, strutture e idee a livello europeo, che contribuiscano al crearsi e al diffondersi di una politica economica europea.

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Con chi lavora l'ISAE LIsAE lavora con molti Ministeri, enti ed organismi pubblici o privati, italiani o internazionali. in primo luogo, l'IsAE svolge attività di supporto e di consulenza tecnico-scientifica per il Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica, nonché per il Comitato interministeriale della Programmazione Economica (CIPE) e per la Cabina di Regia Nazionale. Ad esempio, l'Istituto contribuisce in maniera sostanziale alla redazione della Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese. L'IsAE collabora, inoltre, su richiesta della Presidenza dei Consiglio o di vari Ministeri, alle analisi dei problemi di economia e finanza pubblica, anche al fine della predisposizione di provvedimenti governativi in materia economica. Ad esempio, sono in corso in questo momento collaborazioni con il Ministro dei Trasporti e della Sanità.

Un altro interlocutore rilevante è il Parlamento, sia attraverso audizioni parlamentari che attraverso ricerche espressamente commissionate. Di particolare supporto all'attività parlamentare è l'uso di simulazioni sia macro che microeconomiche degli effetti prevedibili o osservabili dei provvedimenti di politica economica. Uno dei progetti in corso dell'Istituto riguarda l'esame delle manovre di finanza pubblica attraverso i conti intergerlerazionali, in modo da fornire al legislatore un quadro più completo dei loro effetti strutturali e di lungo periodo.

L'IsAE lavora a stretto contatto con altri organismi di ricerca, sia pubblici che privati, e con l'Università. Il Presidente dell'isAE è membro del Comitato di Settore degli enti di ricerca (insieme all'INFN, CNR, ISTAT, ISPEL, Istituto Superiore Sanità). infine, l'Istituto collabora con varie istituzioni pub238

bliche, quali alcuni Enti locali o il CNEL, e con istituzioni private, quali l'Aspen Italia..

Le attività dell'ISAE L'isAE promuove seminari e conferenze aperti ad un pubblico specializzato. I seminari sono inquadrati in cicli tematici. Ad esempio, quello di tre mesi attualmente in corso riguarda il conflitto tra generazioni, nelle sue molteplici accezioni, economiche, demografiche e di finanza pubblica. Ulstituto organizza anche conferenze su singoli argomenti, ospitando economisti o personalità di alto profilo, italiani o stranieri. A titolo di esempio, le prossime conferenze vedranno la presentazione da parte dell'economista Daniel Gros del Rapporto Annuale del CEPS sull'economia europea, l'esposizione da parte dell'ex-primo ministro russo Egor Gaidar dei problemi dell'economia russa in transizione, il dibattito sul servizio universale nelle telecomunicazioni con conclusioni di Sabino Cassese.

L'IsAE partecipa anche a incontri e convegni altrui su temi economici e sociali, anche perpresentare ad un pubblico più vasto le ricerche svolte dall'istituto; particolarmente frequenti sono i contatti con istituzioni internazionali quali l'Unione Europea, l'OcsE e il Fondo Monetario.

I prodotti dell'ISAE Il numero di prodotti preparati dall'Istituto è piuttosto vasto e comprende pubblicazioni, documenti a larga diffusione e documenti riservati. La lista dei prodotti e ancora incompleta dato che l'Istituto è nato da appena cento giorni.

Le pubblicazioni, a cadenza mensile o tnmestrale, sono 15AE Congiuntura" ("1sAE Surveys" nella versione inglese), "inchieste

ISAE", "Bollettino Mensile" e "Rapporto Trimestrale". Le prime comprendono le indagini campionarie di tipo qualitativo presso i consumatori, le imprese industriali e quelle di servizi, anche con indicatori territoriali. Confronti intraeuropei sono offerti grazie alla armonizzazione delle inchieste a livello europeo. L'obiettivo delle "inchieste 1SAE" è quello di fornire, ad una serie di utenti selezionati, i dati e le statistiche di base raccolti e organizzati dall'istituto. Il "Bollettino Mensile", invece, pubblica statistiche e previsioni di breve periodo sull'economia italiana e internazionale, nonché sulla finanza pubblica, il Rapporto Trimestrale, infine, sarà dedicato per due numeri all'anno a previsioni macroeconomiche e per gli altri due a previsioni ed analisi di microeconomia della finanza pubblica.

Larga diffusione possiedono i Documenti di Lavoro dell'Is (workingpapers), orientati prevalentemente verso il mondo accademico e curati sia da ricercatori interni, sia da esterni, di solito in coincidenza con seminari o conferenze. L'is, inoltre, distribuisce Documenti Ufficiali, come ad esempio i testi delle audizioni del Presidente in Parlamento.

Accanto a questi testi destinati al pubblico, l'IsAE offre una serie di altri prodotti a circolazione limitata, in taluni casi riservati alle autorità di governo.

nomica. In particolare, l'istituto dispone di una serie di borse di studio e di assegni di ricerca, che vengono allocati attraverso concorsi. Le borse di studio sono indirizzate a giovani laureati, mentre gli assegni di ricerca riguardano economisti .he abbiano un dottorato o una documentata attività equivalente. Le prime assegnazioni di borse di studio e di assegni di ricerca saranno realizzate a maggio 1999.

L'istituto è anche impegnato nel reclutamento di economisti italiani residenti all'estero. Si tratta non solo di far trovare loro uno spazio in cui svolgere attività di ricerca Linalizzata alla politica economica, ma soprattutto di portare nella politica economica italiana idee ed esperienze innovative, maturate altrove.

Fonti difinanziamento L'Istituto è finanziato principalmente da un contributo annuo dello Stato, ma riceve anche altre risorse da amministrazioni ed enti pubblici e privati, nonché da organizzazioni internazionali, grazie alle attività di consulenza e collaborazione con soggetti pubblici e privati, infine, l'Istituto si fìnanzia attraverso la diffusione delle proprie pubblicazioni.

STubi E ANALISI ECONOMICA Piazza dell'Indipendenza, 4 00185 Roma Tel. 06144482240 - Fax 06/44482244 ISTITUTO DI

Borse di studio e assegni di ricerca L'ISAE svolge anche un ruolo nella promozione dell'attività di studio e di ricerca eco-

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Segnalazioni

Burocrazia e mutamento. Pesuasione e retorica dell'innovazione amministrativa, Milano, Angeli 1998, pp.

266.

FABRIZIO BATTISTELLI,

Uscendo da una precedente condizione di marginalità, sul finire degli anni Novanta la conoscenza sociologica applicata alle amministrazioni pubbliche tende a svolgere un nuovo - e, per molti versi inedito - ruolo sociale, proponendosi quale new comer nella policy community delle politiche di cambiamento amministrativo. La nuova presenza della sociologia è caratterizzata dalla ambizione di interpretare non solo i fenomeni sociali che ne hanno tradizionalmente formato l'oggetto, ma anche i principali problemi che complicano i percorsi di cambiamento ispirati da approcci conoscitivi diversi - giuridico, economico e organizzativista-manageriale - sino ad ieri i soli legittimati a prendere parte a tali processi (e ad introdurre negli stessi risorse di legittimazione).

Una premessa fondamentale di tale attivazione è costituita dalla decisa ventata di innovazione che ha interessato teorie, concetti operativi e metodologie di indagine empirica dell'approccio sociologico. Il volume di F. Battistelli costituisce una valida testimonianza di questo cambiamento, maggiormente significativa perché tutt'altro che 240

isolata nel panorama dlle produzioni recenti. Le influenze di orientamenti teorici affermatisi contestualmente anche in approcci disciplinari contigui - come, in particolare, quello culturale e simbolista e quello neo-istituzionista, sviluppati in economia teoria organizzativa e policy analysis - dimostrano, anche in questo volume, che la possibilità di influenzare il cambiamento amministrativo richiede una disponibilità alla contaminazione teorica e una propensione all'innovazione, concettuale ed empirica.

Dopo un'introduzione dedicata al ruolo delle retoriche nel mutamento amministrativo, capitoli di approfondimento teorico sui temi della qualità e delle relazioni di servizio pubblico, delle metafore e delle risorse simboliche si alternano a rielaborazioni di ficerche empiriche che focalizzano, rispettivamente, i rapporti di clientela interna/esterna nei servizi pubblici, il problema della responsabilità organizzativa negli Enti locali e il rapporto fra professionalità e apprendimento organizzativo.

Il panorama del mutamento amministrativo ne esce tratteggiato con tonalità meno rassicuranti e più complesse del modo in cui viene comunemente rappresentato nell'ambito degli approcci - spesso più accentuatamete normativi che esplicativi - economico-aziendalistici di matrice utilitarista.

Infatti, la razionalità e la linearità dei processi attraverso i quali si persegue l'introduzione di soluzioni organizzative provenienti dal mercato e dall'impresa risultano, inevitabilmente limitate, a causa dell'ambiguità delle intenzioni - negoziate fra gli attori più di quanto non appaia - e di strategie del cambiamento che si servono di rappresentazioni spesso sfocate delle realtà amministrative concrete. Peraltro, le resistenze nei confronti delle strategie di cambiamento organizzativo sono tutt'altro che univoche - non sempre si prestano, cioè, ad essere "trattate" attraverso incentivazioni - e danno luogo a diverse logiche d'azione, che questo studio esplora aggiornando e integrando la tradizionale chiave interpretativa sociologica che distingue fra funzioni e comportamenti latenti e manifesti.

Anche attraverso la ricostruzione empirica di concrete relazioni di servizio, il volume dimostra come la retorica corrente della "marketizzazione" delle relazioni intra ed inter organizzative nel settore pubblico e dell'orientamento al cliente faccia ricorso a metafore per alcuni aspetti fuorvianti. In particolare, quando la stessa dà luogo ad aspettative generalizzate di miglioramento indipendentemente dalla tipologia di servizi erogata, ben diversi nel caso di destinatari individuali e di titoli di fruizione economico-sociali da un lato e, dall'altro, di fruitori collettivi a titolo "politico", di common goods. Di questa differenziazione - e il volume è ricco di esempi che segnalano anche l'importanza di ulteriori distinzioni, come la sistematica e convincente comparazione delle fisiologie e delle patologie organizzative nei campi di azione pubblico e private (p. 62-85) - non si può, però, tenere conto compiutamente limitandosi ad una dimen-

sione analitica "micro" e endoorganizzativa.

Su questa, invece, si attestano normalmente le analisi organizzative non sociologiche in particolare quelle con finalità consulenziale - applicate alle amministrazioni pubbliche. Chiamate a curare l"ottimizzazione" di aspetti gestionali, come se gli stessi fossero indifferenti al contesto ambientale ed alle finalità socialmente e istituzionalmente costruite dell'azione pubblica, esse finiscono spesso - e non a caso - per applicare o adattare ricette preconfezionate, preoccupandosi solo marginalmente delle differenze tra i settori di policy e tra i contesti organizzativi di volta in volta interessati. È facile capire perché alla radice di sviste talvolta grossolane - si pensi alla vicenda dei "carichi di lavoro" - e di aspettative deluse che sarebbe stato facile profetizzare (si pensi al limitato contributo al miglioramento gestionale di tanta formazione manageriale) vi sia la riproduzione speculare, nel processo e negli obiettivi, delle politiche di innovazione di quella separazione di compiti e ambiti fra "politica e amministrazione", fra decisione ed esecuzione, che appare la più fuorviante fra le metafore di cui fa uso la retorica politica (e "scientifica") più diffusa. Con essa sono pienamente coerenti logiche di innovazione top-down, che relegano gli attori amministrativi - quelli che agiscono in organizzazioni rappresentate come "macchine" o "strumenti" - in posizioni nelle quali le opportunità di apprendimento non vengono considerate strategiche o sono prevalentemente di tipo passivo.

Porre l'attore sociale al centro della riflessione e della ricerca - come si fa in questo contributo - costituisce, quindi, nei suoi risultati conoscitivi, una operazione tutt'altro che accademica. Essa, infatti, segnala la 241

praticabilità di percorsi diversi per l'innovazione permettendo di scoprire e attivare slack organizzativi e risorse annidate nel fattore umano e culturale utili per il governo del cambiamento e, indirettamente, per un miglioramento delle funzioni pubbliche.

L'importanza - anche ai fini dell'innovazione - di un'analisi della dimensione culturale e simbolica condotta mettendo al centro gli attori emerge non solo nella opposizione di "retorica" e "persuasione" (pp. 20 e ss.), ma anche nell'approfondimento del ruolo della metafora, un "meccanismo cruciale nella costruzione della realtà sociale rappresentata dall'organizzazione" (p. 192). Le stesse metafore di cui fa largo uso - in modo variamente consapevole e sulla base o meno di metodologie ad hoc e, perciò, in modo diversamente efficace - l'analisi scientifica sono, infatti, largamente debitrici nei confronti di quelle "metafore dal campo" (pp.

192 e ss.) che, opportunamente portate allo scoperto, rendono conto non solo dell'esperienza, di per sé non necessariamente consapevole degli attori e dei suoi significati, ma anche delle opportunità di ristrutturazione simbolica delle amministrazioni.

Il profilo simbolico e, più generalmente, cognitivo delle organizzazioni amministrative non esaurisce - questa è una delle conclusioni che si possono trarre dalla lettura dell'opera - le criticità della struttura e dell'azione amministrativa. Tuttavia, poiché la conoscenza - particolarmente quando intende fornire strumenti per l'azione - è utile quanto minori sono gli aspetti cruciali trascurati, una sociologia organizzativa dell'amministrazione e del suo mutamento deve produrre e aggiornare interpretazioni che focalizzino, oltre alla dimensione strutturale ed alle specifiche relazioni con i di-

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versi sottosistemi ambientali che definiscono la sfera pubblica, anche la natura politica e simbolica delle arene organizzative.

Anche gli spazi per le policies, generali e locali, di cambiamento possono essere di volta in volta ritrovati all'interno di una o più di tali dimensioni, e non è detto che a questo fine le virtù "razionali" del progetto politico siano sempre le più adeguate, soprattutto quando pretendono di ridurre le complessità ma, in realtà, non si accorgono della loro esistenza. In ultima analisi, queste sono sempre riconducibili a quel fattore umano che rappresenta sia un vincolo, sia una risorsa per l'innovazione. Che l'approccio sociologico contemporaneo costituisca, a sua volta, una risorsa insostituibile per interpretare questa ambiguità del fattore sociale e alimentare il processo di cambiamento può apparire intuitivo (ma, forse, non lo è abbastanza). Studi come questo permettono, però, di scavare all'interno dell'incertezza e della pluralità dei significati, rivelando il ruolo creativo di un attore il quale - in un contesto di "persuasione" che si contrappone alla "retorica" - rappresenta e progetta, cioè costruisce spontaneamente e insieme strategicamente la realtà" (p. 22).

Che le opportunità applicative e operative non manchino è evidente, se si pensa alle potenzialità di ristrutturazione "interna" delle organizzazioni amministrative. Un possibile ulteriore passo in avanti può consistere nell'affiancare all'analisi dell'ambiente interno e delle relazioni fra amministrazioni e "società", fondata sull'attore-dipendente pubblico, la ricostruzione delle relazioni interorganizzative nell'ambito delle quali prendono forma i significati e l'impatto effettivo dell'azione amministrativa. In altri termini, superata la storica contrapposizione

fra livelli "micro" e "macro" dell'analisi - e delle politiche d'innovazione - rimane da esplorare un livello "meso" che, anche per effetto dei processi di deconcentrazione istituzionale e di decentramento amministrativo in corso anche in Italia, si fa sempre più importante. Il mutamento dei sistemi amministrati vi conduce infatti alla formazione di reti di governance dalle cui regole, modalità di interazione, stili decisionali, culture e apparati simbolici non solo gli attori individuali, m anche le singole organizzazioni amministrative che ne fanno parte vengono alla lunga ristrutturate e plasmate, attraverso processi di isomorfismo spesso inconsapevoli e non governati.

(Ernesto d2llbergo)

(a cura di) Urbanistica efiscalità locale, Maggioli Editore, Rimini 1999, pp. 402 FAUSTO CURTI

e PIETRO CONDORELLI Guida ai patti territoriali, Maggioli Editore, Rimini 1999, pp. 220

ARTURO BIANCO

MARCO BORGHESI

L'ordinamento finanziario e contabile degli Enti locali, Maggioli Editore, Rimini 1999, pp. 267 Con la legge 15 marzo 1997, n; 59, recante "Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa", si è aperto un processo destinato ad incidere profondamente sull'assetto istituzionale del nostro Paese.

Gli obiettivi fondamentali che tale processo si prefigge sono essenzialmente due: da un lato la realizzazione del cosidetto "Federalismo amministrativo", dall'altro la necessaria e correlata riforma dell'amministrazione centrale e periferica dello Stato.

I cambiamenti istituzionali della fine degli anni Ottanta, il mutato e sempre più incisivo ruolo dell'Unione Europea, la necessità di indirizzare le politiche di bilancio verso strategie di contenimento della spesa imposti dall'adesione agli accordi di Maastricht, ed anche la necessità di porre luogo a quelle esigenze autonomistiche di chiara derivazione costituzionale, hanno condotto il legislatore degli anni Novanta ad un incisivo intervento di ridefinizione degli ambiti di competenza degli organi istituzionali (processo che possiamo identificare con il nome di federalismo amministrativo), e, anche se con notevole ritardo, ad un tentativo, comunque in atto, di conferire potestà impositive agli Enti locali al fine di permettere a questi un migliore e più efficiente reperimento di risorse in vista dei nuovi compiti loro affidati.

In questo senso, si può parlare in Italia di federalismo fiscale. Come mutamento di rotta rispetto al precedente accentramento della gestione delle entrate. Non ci troviamo, quindi, nell'ambito politico o squisitamente amministrativo della discussione sul "federalismo" tout court. Parliamo di un criterio, di una serie di competenze e di procedure decentralizzate, in grado di rispondere meglio alle nuove esigenze gestionali dell'Ente locale. Ne segue, quindi, un assetto delle competenze completamente nuovo, in cui le Regioni e gli Enti locali sono chiamati a svolgere non più un ruolo meramente esecutivo, ma un ruolo attivo, 243

di primo piano, nella gestione amministrativa della cosa pubblica.

Le collane Maggioli vogliono, quindi, offrire validi strumenti di interpretazione e gestione di questo complesso nuovo assetto istituzionale.

E così, proprio nella Collana Strumenti appare l'importante contributo comparativistico "Urbanistica e fiscalità locale", una raccolta di saggi, a cura di Fausto Curti, sulle prospettive che il nuovo sistema amministrativo apre al governo dell'ambiente costruito. Prospettive che prevedono, soprattutto, un miglior impiego delle risorse ed il conseguimento di più alti livelli di qualità della vita per il cittadino. Tutti obiettivi ai quali, come si è detto, tende la riforma in atto.

I saggi contenuti nel volume tendono a fornire una panoramica esaustiva delle pratiche e delle metodologie che possono risultare utili ad aumentare le competenze ed a migliorare le procedure per le scelte di Lìscalità territoriale, di politiche immobiliari pubbliche e private e per un quanto mai necessario aggiornamento del sistema di pianificazione fisica.

Sempre nell'ottica della promozione e lo sviluppo delle risorse e delle competenze in ambito locale, si muove l'altra collana, appunto chiamata "progetto ente locale", della quale abbiamo letto una "Guida ai patti territoriali", di Arturo Bianco e Pietro Condorelli, che fa finalmente chiarezza su uno strumento, l'accordo tra soggetti pubblici e privati per lo sviluppo economico di una determinata area geografica, ancora misconosciuto tra gli stessi operatori del settore della programmazione negoziata. Oltre alla descrizione sintetica ma completa della disciplina, abbiamo riscontrato particolar244

mente interessanti i riferimenti ai punti critici nell'applicabilità del nuovo strumento, e soprattutto quelli alle prospettive future, con l'opportuno aggiornamento alla L. 144/99 (collegato alla finanziaria in materia di lavoro).

Per completare il quadro dell'impegno editoriale della Maggioli sulle novità che il nuovo assetto istituzionale presenta, non possiamo tralasciare l'agile e aggiornato manuale "L'Ordinamento finanziario e contabile degli Enti Locali", di Marco Borghesi, che offre il quadro completo della riforma dell'ordinamento finanziario e contabile degli Enti locali. Un volume adatto a cultori della materia, ma soprattutto agli operatori amministrativi che quotidianamente si trovano a contatto con le opportunità, ma anche con le nuove contraddizioni, che ogni riforma, soprattutto se "continua" come la nostra, si porta con sé.

G. SIGNORIIl nodo gordiano. Criminalitì mafiosa e sviluppo nel Mezzogiorno, Laterza, RomaBari, 1999, pp. XJI-140.

M. CENTORRINO, A. LA SPINA, NO,

Il tema della mafia è uno di quelli maggiormente delicati e discussi della nostra storia più recente e soggetto a rilevanti approssimazioni dovute alla vulgata.

Invece, "Il nodo gordiano" è una importante riflessione per uscire dalla cronaca e per svolgere alcuni approfondimenti in base alle migliori e più aggiornate teorie economiche e sociologiche. Questo intendimento si articola su un paradigma iniziale con tre chiavi di lettura.

La prima di queste è costituita dalla politica, perché l'azione della mafia costituisce

un pericolo della democrazia dal momento che la svuota della sua effettività. In tal senso, l'esperienza dei Comuni, i cui consigli sono stati sciolti per l'infiltrazione o per il condizionamento delle criminalità mafìose, conferma, ad esempio, che l'Ente locale soggiogato diventa una "scatola vuota" (cfr.

Atti Commissione parlamentare antimafìa, XI legislatura).

La seconda chiave di lettura riguarda lo sviluppo economico, in quanto la mafia, da questo punto di osservazione, è considerata un freno allo sviluppo, perché scoraggia gli investimenti o, altrimenti, mortifica e sottomette l'artigiano, il commerciante e l'imprenditore. Ciò è ancora più rilevante poiché il "pizzo" e l'esercizio di un potere violento e occulto sono fattori determinanti nel rendere impossibile la crescita e il consolidamento di stabili valori antimafìosi, nonché di un ceto borghese, inteso nel seriso originario del concetto. Da questo contesto possono solo nascere eroi, e ne conosciamo tanti, senza un solido e organizzato tessuto.

Infine, la terza chiave di lettura considera lo sviluppo economico come indispensabile prerequisito per la sconfitta della criminalità organizzata. In questa ottica, si nota che le forze politiche e sindacali si sono lungamente impegnate con numerose iniziative, tuttavia gli esiti Anali non sono stati quelli sperati.

Nessuno di questi criteri di analisi è di per se esaustivo e in ciò consiste "il nodo gordiano", ovvero "una situazione difficile che si può risolvere con grande decisione". Partendo da questo insieme di premesse, gli Autori tentano di individuare i punti di contrasto al radicamento delle mafìe.

Uno di questi attiene alla espansione delle

criminalità mafiose e al ruolo dello Stato.

Sul punto mi sovviene l'insegnamento, appreso molti anni fa a Palermo da un mio Maestro, secondo cui "i corpi si espandono nel vuoto". Il vuoto della iniziativa dello Stato è storicamente accertato e documentato, in questo libro gli Autori si preoccupano di indicare alcune cifre sui posti vacanti negli uffici giudicanti e requircnti dei distretti di Corte d'appello, corredandole con autorevoli considerazioni. In parallelo, vengono riferiti dati e formulate osservazioni sulla economia mafiosa, i suoi fatturati e le sue metodologie (racket ed usura, in primo luogo). Vi è, pure, una particolare attenzione ai nuovi campi delle iniziative economiche criminali, tra cui: le aree dismesse dalle attività industriali; i trasporti aerei che, con la liberalizzazione delle linee, sono coinvolti in un accelerato e disordinato ampliamento; le attività finanziate con i fondi europei.

A fronte di ciò, viene tentata una tipizzazione dei soggetti imprenditoriali nelle figure dell'imprenditore "acquiescente", dell'imprenditore "resistente" e dell'imprenditore "conriivente", attraverso una serie di linee di condotta che portano dall'assoggettamento al ricatto Ano ad arrivare all'accettazione del padrinaggio. Da questi si differenzia l'imprenditore resistente perché mostra, in fin dei conti, di essere l'eroe, spesso solitario, capace di sopportare violenze fisiche e morali, anche a costo della propria incolumità e di quella dei suoi cari.

I2esperienza giudiziaria di questi ultimi anni offre, poi, numerosi spunti per confermare le descrizioni tipologiche e le metodologie analizzate dagli Autori, tenuto anche conto degli orientamenti che considerano le azioni criminali come un incremento del costo dell'impresa.

245

Questi temi coinvolgono pure il giudizio dei cittadini sull'attività dello Stato; lo dimostrano le statistiche dell'OcSE secondo cui è molto elevata (oltre il 55%) la percentuale degli imprenditori convinta della poco fruttuosa lotta alla criminalità organizzata e, conseguentemente, dell'insuccesso delle politiche pubbliche e dell'alto tasso di insicurezza per la conduzione degli affari.

Con queste premesse, è difficile spezzare "il nodo gordiano". Gli Autori non hanno l'obiettivo di indicare soluzioni, anche se, ad esempio, considerano decisamente innovativa l'ultima legge antiestorsioni. In effetti, il quadro è ancora frammentario e suscettibile di ulteriori evoluzioni, soprattutto sul piano giudiziario, in merito a temi rilevanti come quello dei collaboratori di giustizia o

246

come quello del reato associativo esterno.

Qui, però, appare opportuno segnalare anche i progetti, cofinanziati dall'Unione europea e dal Governo, sulla sicurezza nel Mezzogiorno, l'impegno dello Stato nel riportare a legalità le amministrazioni comunali con infiltrazioni o condizionamenti della criminalità organizzata e l'utilizzo a Lini sociali e pubblici dei beni confiscati. Si tratta di argomenti non ancora studiati a sufficienza.

Allora, con tutta probabilità, il contesto può risultare ancora più diversificato e questo libro piuttosto che essere una ricognizione, attenta e stimolante, delle tematiche costituisce un aggiornato punto di partenza.

(Ignazio Portelli)

I diritti dell'uomo cronache e battaglie organo dell'juuone forense per la tutela dei diritti dell'uomo direttore Mario Lana EDITORIALE

Mario Lana

INTERVISTE Con Staffan de Mistura, Direttore del Centro informazioni delle Nazioni Unite di Roma

SAGGI La nuova Corte nel sistema della Convenzione europea

Jean Paul Costa Un nuovo business: sfruttamento sessuale e

a cura di Mario Lana ArFUALITÀ

Ilfavor veritatis nel disconoscimento di paternità Maria Enrica Puos'i

del lavoro minorile. La legislazione in materia

Il ricorso della Jugoslavia davanti alla Corte internazionale di giustizia

Giuliano Pisapia

Andrea Saccucci

I mass-,nedia di fronte al problema dell'abuso

Pedofilia: le ragioni degli "altri"

sui minori

Giorgio Zanchini

Furio Colombo RUBRICHE

The Protection of Minors in International and European Community lnstruments

Consiglio d'Europa

Mehr Khan

a cura di Maurizio de Stefano

L'infanzia negata

Lo straniero e la Pubblica Amministrazione

Tina Lagostena Bassi

a cura di Mario Lana

Il ruolo del sindacato nella tutela del minore

Luigi Agostini

Anticronache delle nostre libertà

a cura di Vito Mazzarelli Minori

a cura di Sebastiano Ferliro L'INTERVENTO UMANITARIO NEL KOSOVO: GIORNALE A PIU VOCI Jugoslavia: una guerra contro i popoli e contro il diritto

Aldo Bernardini L'intervento umanitario della Nato in Kosovo

Maria Felicita Gennarelli La guerra del Kosovo, il diritto internazionale e i diritti umani

Fabio Marcelli Confessioni

Vito Mazzarelli Per chi suona la campana

Ennio Remondino Il Kosovo e il diritto internazionale

Maria Rita Saulle Per l'intervento nel Kosovo

Paolo Ungari

DOCUMENTI Estratto delle norme della Carta delle Nazioni Unite relative all'uso della forza Trattato dall 'Organizzazione dell' Atlantico del Nord (NATO) Principali decisioni assunte dalla NATO in relazione all'intervento militare in Jugoslavia Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite relative alla crisi del Kosovo Ricorso della Repubblica Federale di Jugoslavia alla Corte internazionale di giustizia Rapporto dell' Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) sul lavoro minorile Denuncia alla Commissione delle Comunità Europee sulla eccessiva durata dei processi in Italia Sentenza n. 170 del 14maggio 1999 della Corte Costituzionale sul disconoscimento di paternità

TI Kosovo fra Nazioni Unite e diritto internazionale

Claudio Zanghì

Indici 1998 - Indici degli Autori ISSN 1121-8754

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a cura di Giuseppe Cotturri

FrancoAngeli

Il triangolo dei servizi pubblici L'organizzazione economica dei servizi fra governi locali, imprese erogatrici e cittadini-utenti Daniele Archibugi, Giuseppe Ciccarone Mauro Marè, Bernardo Pizzetti, Flaminia Violati Advisory Commission on Intergovernmental Relations

MarSiliø

questo ìstìtuziunì queste istituzioni

La rivista

L'attuale programma di lavoro si incentra sull'analisi teorico-pratica relativa a tre grandi temi: • un'amministrazione che dialoghi con i cittadini e che ne raccolga necessità e progettualirà, che sia snella ma efficace nei campi dove il suo intervento è necessario; • una cultura delle professioni, intese come mezzi per trasmettere nella società conoscenze e competenze sempre aggiornate e criteri di qualità; • una cultura del non-profit, del dare libero e solidale, che assolva la sua funzione più genuina, che è quella di formare negli associati un senso dell'impegnocivile.

Sono temi che hanno per sfondo naturale, malgrado ogni possibile problema, l'Europa e la sua progressiva integrazione.

I contenuti —Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse.

—Il taccuino, uno spazio da dedicare a temi di attualità, con articoli più brevi e un taglio più "cronachistico".

—I dossier, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L"Istituzione Governo", la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. È stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione. —Le rubriche, con le notizie relative all'attività del Gruppo di Studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni, fondazioni e centri studi, e le recensioni di testi che trattano temi di nostro interesse.

—Gli opuscoli, La serie intende: riprendere in estratto dossier della rivista (è il caso del l numero con il dossier "Cultura della valutazione" estratto dal n.

99) o argomenti tra loro omogenei, per uso professionale o didattico (è il caso del 30 opuscolo dedicato a "L'informatica delle pubbliche amministrazioni"); presentare materiali complementari alla rivista (co:ne nel 2° opuscolo, che presenta un saggio su "I fondi strutturali. Un crocevia critico tra Unione Europea, Stato e Regioni").

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