Queste istituzioni 116

Anno XXVI - n. 116 - Trimestrale (ottobre-dicembre 1998)

queste ìstìtuzìunì

Fondazioni bancarie: e ora la riforma del Codice civile Taccuino Angela Di Gregorio, Bernardo Pizzetti, Sergio Ristuccia

Ministeri e riforma dello Stato Rosa Maiorino, Federico Spantigati

Migrazioni del diritto Pierre Legrand, W Van Gen'en

Esigenze strutturali delle organizzazioni non lucrative Giuliana Gemelli, Ugo Cantiello

queste istìtuziuni /

rivista del Gruppo di Studio Società e Istituzioni Anno )O(V1 n.

i 16 (ottobre-dicembre 1998)

Direttore: StzGIo RISTUCCIA condirettore: ANTONIO DI MAJO Vice Direttori: MASSIMO A. CONTE, FRANCESCO SIDOTI Comitato scientifico: MASSIMO DE FELICE, BRUNO DENTE, SERGIO LARICCIA, MARIA TERESA SALVEMINI, UMBERTO SERAFINI,

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14.847 (12 dicembre 1972)

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1121-3353

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Chiuso in tipografia il 30 aprile 1999 / In copertina: Foto di Enrico Natoli

Associato all'Uspi: Unione Stampa Periodica Italiana -

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N.116 1998

Indice

III

Fondazioni bancarie: e ora la riforma del Codice civile

Taccuino i

Russia: la crisi è inarrestabile Angela di Gregorio

16

Ancora sulle AutoritĂ indipendenti Bernardo Pizzetti

32

A proposito di globalizzazione e partiti politici Sergio Ristuccia

Ministeri e riforma dello Stato 39

Tesoro e Bilancio unificati Rosa Maiorino

60

Il banchetto di Attagino a Tebe Federico Spantigati

Migrazioni del diritto 75

90

I "trapianti giuridici" non sono possibili Pierre Legrand Come diritto pubblico e diritto privato si permeano W Van Gerven

Esigenze strutturali delle organizzazioni non lucrative 109

Strategie di formazione nel settore non profit Giuliana Gemelli

127

Le On!us tra profili fiscali e civilistici Ugo Cantieio

Rubriche 134

Notizie da...

142

Segnalazioni

I'

editoriale

Fondazioni bancarie: e ora la riforma del Codice civile

Il testo del decreto legislativo sulle fondazioni bancarie - come, del resto, era prevedibile - è stato accolto da alcuni forti dissensi. In realtà, la legge delega era stata approvata alla Camera sulla base dell'accoglimento da parte del Governo di alcuni ordini del giorno che, pur impedendo un ulteriore allungamento dell'iter parlamentare (o addirittura la sua interruzione), avevano al loro interno contrapposizioni mai superate. Fondamentalmente, la legge delega è nata in un contesto di riserve mentali. Appare inutile, comunque, discutere su cosa è stato compreso e cosa escluso dalla delega. Qualsiasi aggiustamento - ancora possibile - del decreto, difficilmente cviterà l'intervento della Corte Costituzionale in merito alla costituzionalità di qualche disposizione.

Più importante mi sembra rispondere alla domanda se la normativa di prossima emanazione può considerarsi quella definitiva in materia, portando compiutamente a regime le fondazioni di origine bancaria. Fondazioni che - è importante ribadirlo - sono fra le maggiori creazioni istituzionali degli ultimi anni, tali da aprire nel nostro Paese uno dei capitoli più importanti nella storia dell'istituto "fondazione".

A mio parere assai difficilmente tale normativa potrà considerarsi risolutiva. Ciò per due ragioni.

La prima è che il decreto è ancora fortemente condizionato dalla questione del rapporto fondazioni-banche. Importante ma transitorio.

La seconda è che, come già la legge delega, anche il decreto delegato contiene troppe disposizioni, quasi che si ritenesse di avere in mente un modello ormai ben delineato senza rendersi conto della forte natura sperimentale che non può non essere riconosciuta alle nuove fondazioni.

Modello prestabilito che è divenuto sempre più una necessità una volta che l'autorità di vigilanza è ministeriale, di per sé bisognosa di regole precise e dettagliate. Vale la pena ricordare, a quest'ultimo proposito, che la relazione governativa all'iniziale disegno di legge delega aveva enunciato un criterio che non è stato più preso in III

considerazione. Si diceva che occorresse "un organo che svolga un'attività di vigilanza da cui non siano esclusi compiti di stimolo, suggerimento e raccomandazione" e che operi con "interazione e spirito collaborativo con i vigilati". E ancora: "si tratta, in definitiva, di creare un'esperienza nuova, cultura e tecniche non ben conosciute, si tratta di contribuire a formare una classe dirigente con particolari capacità. Dunque, occorre un'autorità indipendente dedicata ad un compito sostanzialmente inedito e per il quale lo Stato amministrativo centrale non ha esperienza né predisposizione". Parole che oggi bisogna riconoscere esser state dette al vento fra chi ritiene che tutto va bene nelle fondazioni così come sono e chi ragiona soio in termini di grande diffidenza.

Ritengo, quindi, che il decreto da emanare entro il 22 maggio non possa costituire da solo il corpo delle norme sulle fondazioni. Occorrerà predisporsi, da una parte, a dare il massimo spazio possibile agli statuti per i quali non è da raccomandare alcuna uniformità e, dall'altra, a riformare al più presto il Libro primo del Codice civile.

Cioè quegli articoli del Codice a cui fa rinvio lo stesso decreto, per quanto esso non dispone. Solo nella riforma dl Libro primo le fondazioni di origine bancaria potranno trovare il loro vero assetto definitivo.

Fatta questa premessa mi preme fissare alcuni punti.

1. Laccumulazione che si è realizzata nel tempo nelle comunità locali ad opera di collettività di privati attraverso la costituzione e il successo di determinati tipi di banche si realizza, con la riforma del sistema bancario pubblico, in patrimoni destinati a perseguire fini di utilità sociale. Trattandosi di patrimoni costituiti nel tempo, al pari di una prolungata sottoscrizione fatta da tanti individui, è giusto che essi siano configurati e gestiti secondo regole di diritto civile.

La questione del sistema di governo è cruciale in ragione di quanto appena detto sull'origine e sulla natura dei patrimoni che sono stati consegnati alle fondazioni. Si tratta di patrimoni che hanno una loro storia ma che derivano la loro autonomia direttamente dalla creazione legislativa di "enti conferenti" e di "società conferitarie" e soprattutto dalla possibilità di sottrarli all'immobilizzazione costituita dalla proprietà delle banche. Concesse tutte le possibili continuità formali e storiche con i soggetti innanzi denominati "Casse di risparmio" o "Istituti di credito di diritto pubblico", rimane un fatto incontrovertibile: mai prima della legge Amato e dei provvedimenti della sua progressiva applicazione sono esistiti patrimoni autonomamente configurati e destinati alla migliore gestione per fini di utilità sociale come sono quelli oggi esistenti presso le fondazioni. In questo senso, essi sono patrimoni nuovi.

Iv

È in riferimento a tutto ciò che va letta la distinzione prevista dalla legge fra organo d'indirizzo e organo di amministrazione. Essa tenta di dare soluzione al problema seguente: come assicurare nella gestione di patrimoni collettivi una seria dialettica interna attraverso una netta separazione di compiti esercitati con continuità. L'organo di indirizzo deve essere tale da svolgere a pieno le proprie funzioni di proposta e di sorveglianza. Per esempio, dedicandovi tutto il tempo necessario. Dunque, un organo di una certa ampiezza ma non di dimensioni tali da rendere problematico lo stesso esercizio dei compiti.

Per applicare questi criteri alle fondazioni-associazioni una mia proposta era nel senso che "nelle fondazioni di origine associativa le assemblee dei soci possono assolvere alle funzioni dell'organo di indirizzo attraverso un'organizzazione interna che garantisca l'efficace esercizio delle funzioni medesime ovvero partecipano alla nomina dell'organo di indirizzo, a parte ogni altra funzione deliberativa o consultiva che gli statuti ad esse attribuiscano".

Intendevo dire che molto dovrebbe essere rimesso agli statuti, fonte primaria in un sistema di diritto civile, ad una condizione: che fosse assicurata l'effettività dei due livelli di governo, indirizzo e amministrazione, dalla legge ritenuti indispensabili data la natura, l'origine e le finalità delle fondazioni. Dire puramente e semplicemente che le assemblee sono l'organo di indirizzo, significa che in realtà - se non altro per la loro numerosa composizione - il livello di indirizzo e controllo di merito è eliminato. Tutto il potere sarebbe nelle mani dell'organo di amministrazione. Nulla da dire se i patrimoni delle fondazioni fossero stati creati da singoli grandi filantropi che così abbiano stabilito nelle tavole costitutive, molto da dire se i patrimoni hanno la caratteristica di un'accumulazione nel tempo di una collettività.

Gli statuti sono in ogni caso chiamati a definire molti aspetti del sistema di governo. Ricordo, fra tutte, la questione della figura del presidente. È tale in tutti gli organi di governo? Ricordo la delicata materia delle incompatibilità. Ricordo la questione della gestione patrimoniale. A questo riguardo, bisogna sottolineare che l'affidamento a gestori professionali dei patrimoni non elimina la necessità di organi assolutamente in grado di valutare e decidere le linee delle politiche di investimento, anche qui sulla base di una chiara distinzione di compiti fra organo di indirizzo e organo di amministrazione e senza deleghe in bianco a nessuno. Basta ricordare come recenti crisi di grandi gestori di patrimoni finanziari abbia messo in primo piano la questione dei mandati da conferire ai gestori e dei conseguenti controlli e verifiche da parte di chi ha dato tali mandati. In nessun modo si tratta di compe-

tenze (e di responsabilità) di cui gli organi di indirizzo e di amministrazione possono del tutto spogliarsi con deleghe a soggetti professionali esterni. Quanti pensano a ciò come alla migliore soluzione rischiano, in termini di foundation governance, di aprire la strada soltanto alla selezione di "esperti" del distribuire risorse (certamente numerosi). Viene in mente a questo proposito quello che diceva oltre un secolo fa Andrew Carnegie quando, scrivendo il Vangelo della Ricchezza, annunciò le sue grandi fondazioni filantropiche: ad esse si sarebbe personalmente dedicato perché la complessità del "fare fondazioni" vuole buone capacità professionali sia sul lato della gestione che su quello dell'erogazione.

4. Veniamo al tema fondazioni - banche. Dichiaro subito che non sono fra quelli che mai si sono molto accalorati su questo problema. Innanzitutto, perché l'eliminazione di ogni ruolo gestionale delle fondazioni nelle aziende bancarie è un dato costitutivo insito nella nascita stessa delle fondazioni e storicamente richiesto dalla necessità di ristrutturare il sistema bancario italiano. Si può dire inoltre che è bene, per ora, che le fondazioni imparino il loro mestiere senza fare insieme, malamente, quello di imprenditori. In secondo luogo, la forza delle cose (cioè il mercato, l'esigenza di accrescere i patrimoni per svolgere compiutamente le proprie funzioni e il regime delle incompatibilità) ridurrà di per sé ie posizioni di controllo detenute dalle fondazioni.

Tuttavia, la questione della presenza delle fondazioni in imprese (bancarie e non) come azionista anche di rilievo è questione completamente diversa. Rispetto a tale questione si possono avere, in linea di principio, idee diverse. Voglio dire che nella storia complessiva delle fondazioni, sia nei Paesi nordici che in. quelli anglosassoni, la presenza di fondazioni in qualche misura "titolari d'impresa" non è un capitolo minore. Anche se, probabilmente, nella fase attuale del sistema economico globale questo tipo di fondazioni è in regresso a fronte delle possibilità di valorizzazione patrimoniale che vengono òfferte da un'ampia flessibilità gestionale sul mercato mobiliare.

Sul punto mi pare giusto quanto era scritto nella relazione ministeriale all'iniziale disegno di legge: che, esclusa ogni responsabilità di gestione, tuttavia "spetterà alle fondazioni esercitare tutti i poteri di un azionista intenzionato a far valere il proprio investimento ai fini del maggior reddito". Al di la delle letture sospettose dei fondamentalisti del "fuori le fondazioni dalle banche", qui si delinea una linea di condotta quasi obbligata per un buon investitore. Alle fondazioni può ben essere vietato di gestire banche. Non può essere vietato di essere buoni investitori, al pari di tutti gli altri grandi investitori.

VT

5. Per quanto riguarda i processi di riaggregazione bancaria, le grandi fondazioni sono state i primi soggetti promotori già sulla base dei cosiddetti "decreti Dini". E nessuno ha avuto da ridire.

Altre fondazioni non hanno lo stesso potere di spinta che deriva da certe dimensioni. Non è questa una buona ragione perché le fondazioni di dimensioni medie o piccole debbano ritrovarsi nella ben diversa condizione di essere oggetto dello shopping altrui. Al di sotto di certe dimensioni si incontra una diversa realtà e, soprattutto, una diversa necessità di riorganizzazione del sistema bancario: quella delle banche locali. Prospettiva che non si può risolvere esclusivamente secondo la logica di una mera aggregazione ai grandi poli. Né si può ritenere che la questione banche locali riguardi d'ora innanzi solo le banche di credito cooperativo e quelle popolari sotto una certa dimensione.

Le fondazioni che detengono il controllo di Casse di risparmio spa devono sapere che esse sono i possibili protagonisti di questi diversi processi di ristrutturazione del sistema bancario. È un peccato che sia mancato un importante dibattito su questi problemi e che ad esso si siano sempre preferite battaglie di lesa maestà o lesa storia. È attesa sbagliata aspettare dal legislatore indicazioni sul "che fare", a parte quelle pii o meno rigide - di dismettere il controllo delle banche. Ma certo anche la normativa avrebbe potuto o potrebbe agevolare processi innovativi di ristrutturazione per vie che non facciano perdere identità e funzioni alle banche locali (attraverso, per esempio, forme di aggregazione federativa) solo che fossero pii evidenti e consistenti i progetti riorganizzativi. di questo tipo. Solo allora si tratterebbe di un problema al quale anche il legislatore non potrebbe sfuggire. Anche perché, già da tempo, il problema si pone a scala europea.

VI'

taccuino

Russia: la crisi è inarrestabile diAngela Di G regorio *

A

ualche mese dalla terribile crisi che ha investito l'economia, il sistema politico e di conseguenza la società russa, i ommenti e le analisi degli esperti si sono diradati e l'interesse per il destino di questo gigante in difficoltà, apparentemente lontano, sembra lasciare indifferenti, salvo poi a riscuotersi alla prossima tempesta finanziaria. L'ultima crisi ci ha però dimostrato che le sorti di questo Paese non ci sono del tutto estranee e che, volenti o nolenti, siamo coinvolti e quasi costretti ad interessarcene.

Non fosse altro che per la "globalizzazione dei mercati", gli avvenimenti dell'agosto scorso hanno fatto stare il mondo col fiato sospeso. Ma la tempesta dei mercati finanziari è solo un sintomo di un malessere che investe profondamente quel sistema.

Nello scorso aggiornamento sugli avvenimenti politico-istituzionali russi (v. queste istituzioni n. 110, aprile giugno 1997) abbiamo parlato di "transizione in evoluzione" ed in effetti fino a circa un anno fa, ad un esame esteriore, i segnali di ripresa sembravano indubbi.

Avevamo però avvertito dell'esistenza di un magma nascosto che premeva. Gli osservatori sono stati e sono tutti concordi nel sostenere che la crisi non è solo economica ma crisi di potere, istituzionale, sociale. Il binomio Russia-crisi è ormai divenuto uno slogan inevitabile, almeno nel linguaggio giornalistico e l'approccio puramente cronachistico sembrerebbe quello più consono al contesto, benché non certo il più benevolo.

* Dottoranda di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate, presso l'Università la Sapienza di Roma

Nel marzo del 1998 c'è già stata una crisi di governo, quando il I precursori Presidente Eltsin ha "licenziato" - a sorpresa - il premier Cer- della grande nomyrdin (alla testa del governo fin daI 1991) ed ha nominato Kj crisi renko, giovane tecnocrate, con la motivazione che il governo Cernomyrdin non riusciva a portare avanti le necessarie riforme socioeconomiche. Si tratta di un precedente da non sottovalutare e che, alla luce degli avvenimenti di qualche mese dopo, acquista un rilievo particolare. Nonostante la calma apparente, i problemi socioeconomici andavano acquistando una dimensione sempre più preoccupante.

Come già molti economisti avevano fatto notare, la situazione dell'economia era sull'orlo della crisi già da diversi mesi (peggiorando di pari passo con il crollo delle borse asiatiche) ma le misure artificiose di sostegno del rublo, portate avanti ad oltranza dalla Banca centrale in pieno accordo col Governo, hanno steso una patina di tranquillità sui mercati e buttato - probabilmente - fumo negli occhi dei finanziatori internazionali. Nel mese di luglio (pochi giorni prima della crisi) un'altra tranche del consistente prestito promesso dal Fondo Monetario Internazionale veniva concessa alla Russia, seppur dopo una serie di sofferte ed articolate trattative.

La situazione precipita a partire dal 17 agosto, data in cui il Governo e la Banca centrale annunciano di fatto la fluttuazione del corso del rublo e il congelamento del debito pubblico interno ed estero (nonché dei depositi bancari dei cittadini). Le conseguenze ditale decisione (probabilmente ormai indifferibile) sono state evidenti a tutti: svalutazione galoppante del rublo, aumento vertiginoso dei prezzi, paralisi del sistema bancario, perdita della fiducia da parte di potenziali creditori ed investitori, sensibile diminuzione sul mercato delle merci sia d'importazione che di produzione russa.

La situazione ha fatto ricordare con terrore quella del 1991, quando Il crac di in seguito alla caduta dell'Uiss, la Russia si è trovata in uno stato di agosto profondo malessere con svalutazione vertiginosa del rublo, deficit e dollarizzazione dell'economia.

La crisi economica ha provocato la caduta del governo Kirenko, il governo dei "giovani tecnocrati". Il 23 agosto il Presidente Eltsin ha proposto come nuovo presidente del Governo il vecchio premier Cernomyrdin.

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La crisi di agosto è divenuta così crisi globale del sistema, attraversando giorni di fibrillazione e di effettivo vuoto di potere. In entrambi i casi (marzo ed agosto) troviamo confermata la tesi per cui risulta evidente (in base alle norme ed alla prassi costituzionale) l'assoluta discrezionalità del Presidente nella costituzione (e destituzione) dei "suoi" governi. Questa volta però la posizione del Presidente è risultata indebolita rispetto al mese di marzo, quando, nonostante l'opposizione della Duma egli era riuscito, pendente lo spauracchio perenne dello scioglimento della Camera bassa, a far nominare il propriò candidato. Nelle tre settimane intercorse tra la destituzione di Kirenko e la nomina dell'attuale premier Primakov, il Presidente ha perso molto potere, non essendo la Duma più disposta a farsi ricattare dalla minaccia dello scioglimento, non temendolo più e non temendo più a tal punto Eltsin da richiederne a gran voce le dimissioni, proseguendo anzi attivamente nella procedura di impeachment'.

La duma sfida il Presidente

Come è stato giustamente notato, la crisi economica stava maturando già da tempo ed è stata da molti vista come il frutto degli errori del corso economico dei "ragazzi di Harvard" che si sono dedicati fin dal 1992 alla costruzione di un'economia speculativa ma non reale, condita da terapie shock, soprattutto nel settore delle privatizzazioni. Certamente, il crac dell'agosto scorso è dovuto anche alla crisi globale dei mercati finanziari internazionali ma il vero detonatore della crisi va ricercato all'interno del Paese, nella sua incapacità a trovare una via russa al capitalismo, nel suo costruire un "capitalismo senza capitale". Molti sono inclini, anche tra gli osservatori occidentali, ad attribuire le colpe del disastro ai consiglieri occidentali che hanno imposto alla Russia modelli economici inadeguati: si tratti del modello tedesco, dove lo Stato non si ingerisce nei processi del mercato o di quello argentino con il suo approccio severo nei confronti della valuta nazionale, del bilancio e delle entrate fiscali.

Il modello economico liberale di stampo occidentale è dunque fallito in Russia. Le riforme vanno fatte tenendo conto delle condizioni locali, delle peculiarità nazionali e persino dell'imperscrutabile anima slava. Per potere aver successo esse devono essere più graduali, acquisendo un carattere più misto, essere insomma più "russe".

Le colpe dei ragazzi di Harvard

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L'esperienza russa ha dimostrato, inoltre, che se non si tiene conto del fattore umano, i modelli preconfezionati non servono a nulla. Sia in Germania che in Argentina essi si erano imposti su una coscienza di mercato già predisposta. In Russia, invece, per 70 anni di potere sovietico tale coscienza del mercato è stata compressa e il popolo è stato educato nello spirito del consumo essenziale e della passività produttiva.

Una delle componenti essenziali del "capitalismo senza capitale" russo è il gruppo dei "nuovi oligarchi" e dell'economia gestita da gangster mafiosi. L'essenza della criminalizzaziorie dell'economia è evidente a tutti: vendita dei beni dello Stato alla propria "burocrazia" a prezzi inferiori a quelli di mercato, economia sommersa che utilizza denaro sporco, evasione fiscale, violazione dei diritti dei piccoli azionisti, tangenti e corruzione nell'apparato statale. La corruzione è forse una delle cause principali dell'attuale crisi, in quanto rappresenta la più grande minaccia al processo di stabilizzazione e democratizzazione nonché all'elevazione del livello di vita della popolazione. I "padrini" dell'economia illegale sfruttano la debolezza dello Stato, creano per se stessi ingenti fortune e non si preoccupano dei bisogni del Paese. Di essi è pieno l'apparato dello Stato (o è comunque connivente).

Il capitalismo senza capital dei nuovi oligarchi

Come è stato recentemente scritto dal nuovo Governo Primakov nel documento intitolato "Misure del Governo della Federazione Russa e della Banca centrale russa per la stabilizzazione della situazione socio-economica nel Paese", negli ultimi anni l'economia russa si è venuta a trovare in una profonda crisi sistemica. Essa è dovuta non solo ad errori di politica economica che hanno portato a sproporzioni strutturali nel sistema della produzione, alla diminuzione della sua efficienza e della competitività della produzione, alla crescita massiccia del debito interno ed estero, ma anche all'indebolimento del sistema dell'amministrazione statale. Le tendenze negative si sono accentuate a causa della caduta dei prezzi mondiali delle fonti di energia e delle altre materie prime, la cui esportazione permetteva di coprire buona parte della domanda interna di prodotti alimentari e merci finite, ed anche a causa della crisi finanziaria internazionale.

Nel 1998 si è avuto un peggioramento della situazione socio-economica. Già nei primi sei mesi c'è stato un sensibile aumento dell'omis-

Problemi interni e nati esterno

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I Il

sione dei pagamenti pubblici (di stipendi, salari, pensioni), hanno iniziato a diminuire le entrate dovute alle esportazioni, si è acuito il deficit di bilancio, si sono destabilizzati tutti i segmenti del mercato finanziario. La caduta della produzione, notata nei mesi di aprilemaggio, ha assunto nella seconda metà dell'anno un carattere minaccioso. Catalizzatore di tali processi negativi è stata la decisione del 17 agosto, le cui conseguenze catastrofiche non erano state previste.

La nomina del nuovo Governo Primakov è seguita quindi ad un La lotta nei braccio di ferro tra Duma e Presidente che stavolta, a differenza del- palazzi del la precedente crisi di Governo del marzo, ha visto la "vittoria" della potere Duma (dato lo scenario, prima assente, di gravissima crisi economica e finanziaria anche internazionale). Tale vittoria ha fatto gridare gli occidentali al "ritorno dei comunisti al potere" in Russia.

Lacuta crisi finanziaria sullo sfondo dei precedenti irrisolti problemi sociali, le dimissioni del Governo dei "giovani tecnocrati", la nomina di un nuovo premier da parte della Presidente, tutto ciò ha posto il potere esecutivo e quello legislativo dinanzi alla necessità di adottare decisioni estreme e gravide di responsabilità. Il confronto è stato acutissimo, con scenari preoccupanti: mancanza di un Governo nel periodo della crisi più acuta; rifiuto della Duma di accettare le proposte di Eltsin e pressante richiesta di sue dimissioni o destituzione (in tale caso i poteri presidenziali, fino a nuove elezioni sarebbero passati al capo del Governo, cioè a chi?); intransigenza di Eltsin e scioglimento della Duma (con assenza, fino a nuove elezioni, di potere legislativo di modo che si sarebbe andati avanti còn editti del Presidente in una sorta di stato d'eccezione provvisorio); prospettive di una gestione del potere di tipo esclusivamente personalistico mascherato da beghe pseudo-ideologiche. Ed, inoltre, un pericolo di separatismo locale sempre incombente che si è acuito nella fase della crisi (molti "soggetti" componenti la Federazione hanno proclamato lo stato d'emergenza, rompendo qualunque contatto con Mosca). Era indispensabile trovare un compromesso tra i sostenitori del partito del potere e l'opposizione.

I sostenitori del Presidente hanno addossato alla Duma l'esclusiva Un responsabilità del peggioramento della situazione del Paese, accu- Presidente sandola di aver tardato nell'approvare l'urgente pacchetto di riforme sempre più socio-economiche proposte dal Governo già dall'anno precedente e in difficoltà

di tardare nella formazione del nuovo Governo, e di conseguenza nell'adozione delle indispensabili misure anti-crisi. I comunisti (la maggioranza alla Duma2 , ma l'opposizione secondo il modello russo di potere governativo-presidenziale) hanno accusato il Presidente e i suoi fedelissimi di avere svenduto il Paese agli occidentali, di non avere saputo creare un governo di coalizione, sostenuto da tutti i partiti rappresentati alla Duma e che godesse della fiducia popolare, di aver creato - al posto dei milioni di proprietari promessi - milioni di risparmiatori ingannati, di avere dimostrato scarso potere decisionale e di essersi screditato, impoverendo il suo popolo.

Commentando gli ultimi avvenimenti, il quotidiano "Russia sovie- Ritorno al tica" ha paragonato la situazione in atto in Russia tra fine agosto e 1917 inizi di settembre a quella dell'inizio del 1917. Ci sarebbero stati gli stessi elementi: un monarca cocciuto, attaccato al potere, pronto a convocare nella capitale l'esercito, un Governo che non sa se deve lavorare o preparare le valigie, una Duma alla ricerca di fette più ampie di potere, un Governo in fieri di maggioranza parlamentare che potrebbe essere paragonato all'allora Governo provvisorio, e all'orizzonte il profilarsi della figura del comandante capo Kornilov.

Mancava solo un Consiglio dei deputati del popolo.

Nel corso della discussione della candidatura di Cernomyrdin, quasi tutti gli esponenti dei gruppi parlamentari hanno convenuto su1 fatto che la società russa attraversa una profondissima crisi non solo finanziaria e di Governo ma anche politica, gravida di imprescindi-. bili conseguenze socio-economiche. La responsabilità risiede non tanto nel Governo Kirenko quanto in quello precedente, capeggiato per circa 6 anni da Cernomyrdin. Proprio a seguito delle sue azioni irresponsabili nell'ambito delle cosiddette riforme liberali, che hanno legato la Russia alle organizzazioni finanziarie internazionali, si è creata una situazione che ha portato un Paese con le possibilità di una delle più grandi potenze mondiali al crollo economico e politico. I deputati hanno rilevato anche l'estrema inefficienza del modello di sviluppo economico realizzato negli ultimi anni che ha portato alla pauperizzazione del popolo, allo sviluppo della corruzione e della criminalità, nonché all'atrofia della produzione nazionale a favore dell'invasione delle merci d'importazione (tuttavia, neanche l'opposizione ha saputo finora proporre un efficace programma al6

ternativo). Di conseguenza, essi non potevano rinominare Cernomyrdin a capo del Governo, considerandolo uno dei principali colpevoli del disastro economico e sociale, immeritevole di fiducia agli occhi della società ed incapace, nelle attuali condizioni, di portare il Paese fuori dalla crisi.

Una delle condizioni più importanti per superare la gravissima con- Sbarrare la dizione di crisi del Paese è stata individuata nella necessità di con- strada cordare le posizioni del potere legislativo ed esecutivo su alcune presidenziale questioni cruciali: quale nuovo premier, definizione del corso poliCernomyrdin tico e composizione del nuovo Governo, sostenuto dalla maggioranza parlamentare. A nulla era quindi servito l'Accordo politico (una sorta di atto di non belligeranza) sottoscritto tra Presidente, premier incaricato (Cernomyrdin) e le due Camere del Parlamento, qualche giorno prima.

In realtà, i motivi del rifiuto di Cernomyrdin non sarebbero così "ideali" e moralizzatori come sembra. Eltsin, proponendo Cernomyrdin, aveva dato un chiaro segnale per il futuro, designandolo in pratica a suo successore allo scranno presidenziale. Ciò non poteva essere accettato dai leader dei partiti rappresentanti alla Duma, quasi tutti aspiranti alla massima carica dello Stato nelle future elezioni presidenziali. Zjuganov e Javlinskj, in primis.

Al momento della resa dei conti si è avuta la conferma del contrasto Riequiibrare permanente tra Parlamento e Governo presidenziale: una costante il potere presidenziale nella storia politica russa degli ultimi anni. Qualche colpa va attribuita anche alla Costituzione, che non contiene procedure di conciliazione per simili situazioni, di potere "diviso ma non condiviso", che è troppo sbilanciata a favore del potere presidenziale ma che non tiene conto delle difficoltà che il Presidente incontra qualora la maggioranza alla Duma sia di segno a lui contrario (in teoria potrebbe governare ugualmente ma in pratica - come si è visto - non è in grado di farlo; altro che la coabitazione alla francese!). Ci vuole un modello russo che tenga conto di tutte le peculiarità del Paese e non solo per il periodo di transizione ma anche in generale, un testo più compromissorio, più flessibile, più facile da emendare per certi versi e più garantista per altri.

Il cedimento del Presidente indica, quindi, un rafforzamento di fatto della Duma, la quale cerca adesso di renderlo anche di diritto. Lo 7

scontro tra Presidente e Duma avrebbe, quindi, dimostrato che il modello di potere contenuto nella Costituzione del 1993 è alquanto instabile e troppo sbilanciato a favore della figura presidenziale.

A meno di governare per editti, atrofizzando l'attività legislativa del Parlamento (ma che tipo di democrazia sarebbe questa?), il Presidente deve fare sempre più i conti con una Camera bassa la cui maggioranza non coincide con quella che lo sostiene.

Certamente, però, la semplicistica contrapposizione Presidente "li- Primakov: berale" - Duma "comunista" non corrisponde alla realtà russa (mol- un Governo • • . , • i. .. della Duma" to plu Dizantina ai quanto noi occiaentaiii.siamo ciisposti a riconoscere), ciò nondimeno, la lotta per il potere si fa sempre più cruenta.

La situazione adesso sembrerebbe alquanto paradossale, rispetto solo a qualche mese fa: un Governo "della Duma" e un Presidente che dà il proprio consenso ai deputati (mentre la Costituzione parla di premier nominato dal Presidente col consenso della Duma). La Russia si sarebbe trasformata da repubblica presidenziale in repubblica parlamentare (come scrive il quotidiano Kommercant daily il 12 settembre 98). Di fatto, si sarebbe avuto un colpo di Stato e l'opposizione sarebbe riuscita ad ottenere ciò che chiedeva a gran voce da anni, estromettendo Eltsin dalla vita politica.

In realtà, tale presunta svolta radicale a sinistra non si è verificata. I "comunisti" al Governo non sono la maggioranza, ed in realtà non si tratta di uomini con velleità nostalgiche. Lo dimostra il fatto che Zjuganov, non contento evidentemente del risultato raggiunto (che rappresenta un vero e proprio compromesso e pertanto una resa parziale da entrambe le parti), continua a chiedere a gran voce la destituzione di Eltsin, la formazione di un Governo di fiducia popolare, il mutamento del corso socio-economico e, soprattutto, la modifica della Costituzione.

A tale proposito i comunisti non sono soli. E il processo va avanti ormai molto speditamente, dal momento che nel febbraio del '98 è stata definitivamente approvata la legge che disciplina le modalità di introduzione delle modifiche alla Costituzione. Progetti di revisione sono in giacenza alla Duma fin dal 1995 (per lo più presentati dai comunisti) ma sembra che adesso si possa procedere più speditamente, superata la pregiudiziale presidenziale (cioè l'opposizione ad oltranza di Eltsin a qualunque modifica costituzionale).

Ei

Il punto fondamentale su cui ruotano i vari progetti riguarda il Alla ricerca rafforzamento dei poteri del Parlamento (della Duma soprattutto) a di pesi e contrappesi scapito di quelli del Presidente e ciò in una serie di situazioni, soprattutto nella formazione e nella destituzione del Governo. Il Governo dovrebbe pertanto assumere una maggiore connotazione parlamentare ed essere, di conseguenza, maggiormente responsabile dinanzi alla Duma, aumentando anche i poteri di controllo di quest'ultima (istituzione di commissioni d'inchiesta). In effetti, come da molti studiosi è stato osservato, attualmente la Russia ha bisogno di un potere forte e monocratico sia per governare il passaggio alla democrazia con mano decisa sia per evitare di ritornare agli eccessi dell'assemblearismo di matrice sovietica. Pertanto, il potere presidenziale andrebbe conservato ma è necessario prevedere precisi pesi e contrappesi e un maggiore controllo, affinché gli stessi poteri costituzionali non vengano usati in maniera dittatoriale (come non è stato fatto finora ma come in mano ad altri potrebbe avvenire), svuotando di significato tutte ie garanzie costituzionali. A tale proposito alcuni deputati chiedono, più che la limitazione dei poteri presidenziali, il rafforzamento di quelli parlamentari ed una maggiore autonomia per il potere giudiziario.

Non ci sono dubbi: le questioni sociali e quelle economiche sono fatalmente intrecciate, soprattutto in questa fase. Non si può procedere ad una ristrutturazione globale dell economia (soprattutto riavviando la produzione interna) senza edificare un sistema di contrappesi e di possibile "tenuta" sociale.

L'impatto e i costi sociali del crac dell'agosto scorso sono stati pesantissimi. La popolazione ha subito un peggioramento notevole ed ulteriore delle proprie condizioni di vita (soprattutto le fasce più deboli della popolazione, già duramente provate). In pochi giorni sono scomparse 1e merci dai negozi, con il riapparire delle file di sovietica memoria; si è ridato inoltre vita al baratto, come unica forma di mercato di sopravvivenza; ci si è messi a coltivare di tutto in ogni luogo possibile, come in un'economia di guerra.

Stando alle dichiarazioni ufficiali (ed ai proclami di un Presidente malato, stanco e sempre meno in grado di sopravvivere a se stesso) la Russia si starebbe pian piano riprendendo dal duro colpo. Ma i dati forniti dallo stesso Governo, a qualche mese dalla crisi, risulta-

Il futuro delle riforme debolezza della società civile

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no impressionanti: nel periodo agosto-novembre '98 i prezzi al consumo sono cresciuti di 1,5 volte, i redditi reali della popolazione erano in ottobre il 73% rispetto all'anno precedente e il salario medio il 65%, il numero di persone al disotto del minimo di sopravvivenza è aumentato di 10 milioni, rappresentando circa il 30% di tutta la popolazione russa.

Il problema più grave è, senz'altro, la moratoria del pagamento di salari e stipendi a carico del bilancio dello Stato (cioè di tutti i pensionati e gli impiegati pubblici compresi medici, insegnanti, dipendenti di industrie pubbliche, ecc.). Inoltre, la consistenza del debito estero (che aumenta ogni giorno di più) ammonta a circa il 120% del PIL (gli esperti sostengono che fino al 2005 la Russia dovrà pagare annualmente all'occidente almeno 13,5 miliardi di dollari). Per non parlare della disoccupazione.

Gli scenari prospettati sono stati catastrofici, il Paese veniva dipinto all'orlo della catastrofe alimentare, nucleare, etnica, sociale. Come abbiamo rilevato, molti hanno paragonato i giorni di agosto '98 a quelli del 1991 ed alcuni addirittura ai giorni del 1917, precedenti la rivoluzione d'òttobre. Lo spettro del comunismo è stato da chi invocato, da chi temuto e da altri, semplicemente, accettato. Le parole d'ordine sono state: caos, vuoto di potere, svendita della Russia. agli occidentali, deflagrazione nazionalista, depauperizzazione totale della popolazione, guerra civile, dittatura.

Il fallimento della politica sociale

Ma la guerra civile, i disordini di massa, l'intervento dell'esercito non si sono avuti, nonostante i timori (e i velati proclami dei comunisti). Perché? Come già detto la società è estremamente atomizzata, destrutturata, nonché stanca di lotte e disgustata dal comportamento della stessa opposizione comunista. Manca l'energia necessaria ad una vera mobilitazione di massa. Paradossalmente, proprio adesso che le condizioni sarebbero propizie (stante la debolezza e la scarsa capacità di reazione dell'apparato dello Stato), la gente è troppo presa nella lotta quotidiana per la sopravvivenza (doppio, triplo lavoro, baratto, ricerca di ogni possibile mezzo di sostentamento) - condotta, più che altro, individualmente o a livello familiare - per interessarsi di cose distanti e deludenti come la politica.

La grande mobilitazione organizzata dai sindacati e dal partito co-

Una società stanca che non può mobilitarsi

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munista il 7 ottobre (nei giorni acuti della fame e con lo spettro del terribile inverno russo in avvicinamento) ha visto una partecipazione irrisoria, l'assenteismo elettorale (periodicamente si svolgono elezioni a livello locale o dei "soggetti", le unità componenti la Federazione Russia) è elevatissimo, e così via.

Dopo decenni di mobilitazione e di indottrinamento politico-comunista, la società russa appare oggi profondamente depoliticizzata, quasi apatica e incapace di ristrutturarsi, coagulando intorno ad un sistema di partiti "maturo" le proprie rivendicazioni. I motivi sono diversi: gestione personalistica del potere e fortissima lobbizzazione della politica, intolleranza della popolazione per la stessa parola "partito", opposizione comunista ben organizzata a livello strutturale ma incapace di programmi seri e costruttivi. Manca, insomma, una vera "cultura" della politica. Ma ci può essere vera democrazia senza partiti, sindacati e movimenti d'opinione forti?

In questo contesto si profilano all'orizzonte due importantissimi La fine appuntamenti elettorali: nel dicembre del 1999 il rinnovo della Ca- dell'era mera elettiva, la Duma, e nel giugno del 2000 le elezioni presiden- Eltsin ziali. Questo se si rispettano le scadenze naturali degli organi in questione, come si è fatto finora, anche se - almeno per quanto riguarda il Presidente - le incognite sono molteplici. Innanzitutto, la scadenza è più differita rispetto a quella della Duma e poi né le condizioni di salute di Eltsin né la belligeranza dei comunisti che sostengono attivamente la destituzione del Presidente, lasciano sperare bene. In ogni caso, la fine dell'era Eltsin è già avvenuta. Il monarca è sempre più debole.

Come sostiene Moshe Lewin "lo stato di salute di Eksin simbolizza il disastro generale, al quale il suo potere ha largamente contribuito". Ha cominciato ad ammettere di poter rinunciare ad alcuni poteri, ha accettato suo malgrado il processo di modifiche alla Costituzione, la Duma chiede sempre più spesso il suo allontanamento, sia volontario che intraprendendo la procedura di impeachment (per aver condotto il Paese all'orlo della crisi). Anche la Corte costituzionale, interrompendo una tradizione di sostegno al Presidente, già in due occasioni ha inciso sfavorevolmente sui poteri presidenziali, una volta imponendogli la firma di una legge e l'altra vietandogli ufficialmente di ricandidarsi per la terza volta.

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Come dice chiaramente la Costituzione (e come confermato ap- Il toto punto dalla Cotte costituzionale) Eltsin non potrà essere rieletto presidente per la terza volta (neanche ci teneva, né potrebbe farcela fisicamente). Ma l'era di Eltsin è finita già prima ancora che egli lasci di fatto la propria poltrona. E finita con la crisi di agosto, o forse ancora prima. A questo punto, si apre già il toto-presidente, con l'inizio di fatto della campagna per le presidenziali. Ma chi gli succederà? I nomi che già circolano (a prescindere dalle probabilità) sono quelli di Zjuganov, di Luzhkov (attuale sindaco di Mosca, molto popolare e di cui si faceva il nome anche come probabile Presidente del Governo al posto di Primakov e che ha recentemente formato un proprio movimento politico dal nome "Patria"), Javlinskij (l'eterno secondo), Lebedev (attualmente potentissimo governatore di Krasnojarsk, già in lizza nelle precedenti elezioni presidenziali), Cernomyrdin (ma le sue azioni sono precipitate dopo la mancata conferma a capo del Governo). Fare delle previsioni, sia di breve che di lungo periodo è affare estremamente rischioso nel caso russo. Tutto può rimescolarsi all'ultimo momento. L'esito di questo voto è veramente dubbiosissimo e come hanno dimostrato le precedenti elezioni (in cui Eltsin ha vinto quasi a sorpresa e pare, grazie alla sapiente campagna elettorale orchestrata dai consiglieri americani) non tutto dipende dalla effettiva "volontà popolare". È difficile credere che il FMI o chi per esso accetterebbero di vedere alla testa della Russia un personaggio come Zjuganov, a meno di non ridimensionare pesantemente i poteri che l'attuale Costituzione concede al Presidente (a questo punto non è detto che a Zjuganov convenga insistere troppo sulle riforme .... ).

Per quanto riguarda invece le elezioni politiche, alla Duma, altre in- Le elezioni cognite gravano su tale competizione. La principale è la debolezza politiche del sistema partitico russo e soprattutto l'impossibilità di comprendere quali partiti siano di "governo" e quali di "opposizione". Alle precedenti elezioni del 1995 si sono presentati ben 43 tra partiti, movimenti, unioni elettorali (benché grazie allo sbarramento del 5% solo 7 siano presenti in parlamento). E, nel frattempo, sono nati anche nuovi attori e movimenti In realtà, si presume che la prossima competizione sarà più seria, date le modifiche alla legge sulle associazioni secondo le quali un partito deve registrarsi almeno un 12

anno prima delle elezioni per potervi partecipare (in tale caso, però, se ci fossero elezioni anticipate, cioè prima del dicembre 1999, riuscirebbero a concorrere soio alcuni partiti minori).

Adesso sono certamente necessarie misure straordinarie (e di straor- Le lezioni dinaria severità) oer far uscire il Paese dalla fase acuta della crisi3 ma della storia: lo'Stato che e evidente che, nel brevissimo periodo, bisognera passare a riforme non c e.> strutturali e sistematiche (finora assenti) che permettano di intraprendere una politica economica e sociale di riforme serie, in cui il ruolo dello Stato, senza paventare preoccupanti nazionalizzazioni e ritorni al passato, sia però maggiore, più efficace ed in grado di risanare e rimettere in piedi il sistema minato da anni di personalismo della politica e dell'economia, corruzione, nepotismo, collusioni tra mafia e potere, svendita dei beni dello Stato, ecc.

Il governo Primakov (al quale va il sicuro merito di non essere sospettato di corruzione, di interessi personalistici e quindi di godere di sostanziale onestà, oltre che di credibilità internazionale) intende rimettere in piedi un'economia devastata dalle terapie shock. Ma dovrà, soprattutto, ristabilire l'autorità dello Stato (morale e politica).

Certo al governo Primakov è necessario del tempo per attuare le riforme (questa volta à la russe, si spera). Le priorità sono: ristrutturare il debito estero, restituire i risparmi ai cittadini (scongelamento e rivalutazione dei depositi bancari), e stabilire un severo controllo sui soggetti dell'economia, favorire la ripresa della produzione 4 e far si che la. Russia, anche se ha bisogno dell'aiuto occidentale (da cui si continua a non poter prescindere 5), trovi una propria via e un proprio equilibrio tra mercato e democrazia.

Ciò è impossibile senza rafforzare il ruolo dello Stato, di modo che Uno Stato sia più indipendente dall'oligarchia perversa, e più responsabile di- meno nanzi alla società. Non bisogna temere lo spettro del ritorno del co- dipendente munismo perché mercato e democrazia non significano necessaria- dalloligarchia mente caos e anarchia e non ingerenza assoluta dello Stato. Tutti sono concordi nell'affermare che, per uscire dalla crisi, è necessario il consenso nazionale. Esso inizia ne1 momento in cui il Governo diventa garante della difesa degli interessi della popolazione. Tale consenso non va confuso con la dignità popolare, mai conosciuta in Russia e che implica aumento del livello di benessere della popola13

zione, uguaglianza sociale, fine del divario tra ricchissimi e poverissimi. Il passaggio della Russia alla democrazia di mercato è una delle finalità che caratterizzano la fine del XX secolo e ciò che accadrà in Russia determina in grande misura il carattere dell'economia globale del )O(I secolo.

Un mercato senza regole, quale quello che si è visto finora, non è più proponibile. L'abbaglio fatale, che ha visto scatenarsi una guerra senza frontiere all'economia dello Stato, in tempi record ed all'insegna di una contro-ideologia che ignorava del tutto le realtà del sistema precedente, ha condotto ad una svendita senza precedenti delle ricchezze del Paese in nome del "rimedio miracoloso", il mercato tout court. Non si può passare improvvisamente da uno Stato onnipresente ad uno Stato completamente assente. Lo sconquasso attuale lo dimostra.

Passata l'ondata di panico oggi si continuano a contare i morti, i fe- L'improbariti e le perdite globali. Ma l'allarmismo sembra attenuarsi. La te- bile ritorno al passato muta.svolta a sinistra, svolta totale, non sembra esserci stata. Gli anni delle riforme "liberali" non sono stati spazzati via di colpo, né il potere centrale è stato inghiottito dal marasma. Certamente si è indebolito, o meglio si è indebolita quella sorta di potere oligarchicofamiliar-presidenziale che ha fatto paragonare da molti la Russia ad uno staterello dell'America latina.

In tutto questo, si parla tanto di nostalgie del passato: ma sono illusorie o reali?

Le piazze si riempiono sporadicamente di vecchi che sventolano le bandiere rosse e issano effigi di Lenin e Stalin, ma i comunisti non ci sono più. Il partito di Zjuganov (che pure ha pensato più volte di cambiare nome ma non lo ha fatto per non perdere gli elettori delle vecchie generazioni o delle enclaves rosse del Paese) inneggia alla restaurazione di una grande potenza mondiale, di un impero e si tinge per lo più di velleità nazionalistiche (con frange di anti-semitismo). Ma pur inneggiando alla restaurazione di uno Stato forte non pensa certamente alla ricostituzione dell'URss, o ad un'economia senza mercato o ad un partito unico.

A dir la verità gli aspetti più nostalgici, e quasi patetici, li hanno of- Bisogno di ferti, più che i richiami ai mitici conduttori del passato sovietico, le simboli 14

vicende connesse ai resti della famiglia Romanov e dello zar Nicola Il, l'ultimo zar di tutte le Russie, brutalmente trucidati dai comunisti (anche se la verità storica e il coinvolgimento di Lenin non sono stati completamente accertati). Dopo anni di inchieste medicoscientifiche (seguite dalle autorità per lo più con sospetto), il romanzo delle "ossa imperiali" ha avuto il suo culmine nel luglio scorso: tra la folla piangente ed inneggiante alle "sacre reliquie", tra discendenti un po' attoniti e spaesati (che parlavano a stento un russo con forte accento straniero) si sono svolti a S. Pietroburgo i funerali, quasi di Stato, col crisma della chiesa ortodossa e la presenza del Presidente tra la gente che chiedeva perdono ai Romanov. Dovere di Stato, pressioni politiche,.cattivi consiglieri? Certo la presenza di Eltsin è apparsa alquanto grottesca tra la folla che voleva riconciliarsi con un simbolo della propria storia passata.

L'impressione che si ricava da tutto ciò è quella di una Russia in bilico tra cambiamento e tradizione: per uno "zar" che langue, la suggestione vagamente romantica di un altro zar seppellito con tutti gli onori. Tutto ciò dimostra, probabilmente, che il popolo russo ha bisogno di simboli intorno ai quali coagulare il proprio assenso o il proprio dissenso. Un faro nella tempesta o un capro espiatorio. Ci sarà qualcuno in grado di raccogliere questa eredità, evitando i danni del passato?

La Commissione della Duma per I'impeachmentcondude in gennaio l'esame dell'ultimo punto dell'accusa contro il Presidente, relativo al reato di «genocidio del popolo russo".

2 Consistenza dei principali gruppi parlamentari alla Duma (seggi totali 450): comunisti partito di Zjuganov (131 deputati); liberai democratici - partito di Zhirinovskij (50); Nostra Casa Russia - partito di Cernomyrdin (66); Jabioko - la mela - partito di Javiinskij (44); agrari (36); Potere al popolo (45); Regioni di Russia (43).

3 11 bilancio '99 è il più duro della Russia post-comunista Da un Paese di grandi industrie pesanti la Russia si è trasformata negli ultimi anni in un grande bazar, un Paese di commercio al dettaglio di prodotti esclusivamente occidentali.

5 11 paradosso è che le istituzioni finanziarie internazionali (ed i singoli Stati che concedono prestiti alla Russia) continuano a condizionare il rilascio di crediti al proseguimento delle riforme, intendendole alla maniera occidentale, cioè liberalismo assoluto.

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Ancora sulle Autorità indipendenti.

Contributi per un dibattito di Bernardo Pizzetti'

S

ui numero 1141115 di queste istituzioni Ignazio Portelli, nell'affrontare il fenomeno della cosiddetta proliferazione di Autorità indipendenti, ha sintetizzato in maniera assai efficace le ragioni di chi sostiene la tesi delle «troppe Autorità", sollevando una serie di considerazioni che meritano di essere prese attentamerite in esame e che offrono lo spunto per introdurre nuovi elementi nel dibattito in corso.

Prima di procedere, il "dovere di cronaca" diciamo così impone di segnalare che, oltre alle posizioni critiche registrate ed analizzate da Portelli nel suo articolo, si è aggiunta successivamente anche l'autorevole voce del Presidente della Camera dei Deputati 2 a rafforzare le fila di coloro che ritengono, per motivi diversi, di dovere affrontare quelle che vengono considerate le anomalie di funzionamento del sistema delle Autorità indipendenti. Il Presidente Violante ha posto, tuttavia, un problema nuovo rispetto al tema delle "troppe Autorità" intorno al quale si è fino ad ora concentrata l'attenzione: ha sollevato, cioè, quella questione che nel gergo anglosassone (e nel dibattito che nel Regno Unito è già vivo da alcuni anni3 viene definita con il termine "accountability" che, in questo contesto, sta ad indicare la responsabilità (anche politica) e la referenzialità di un organismo nei confronti degli altri attori coinvolti a diverso titolo nei processi di governo del Paese. In altri termini, la sua legittimazione ad operare sulla base di un accettabile livello po-Una polare di consenso. domanda -

-

)

Se non si è mal interpretato il pensiero dell onorevole Violante, e tentando di riassumerlo in termini estremamente sintetici, le critiche avanzate alle Autorità indipendenti riguarderebbero proprio il Responsabile della Funzione analisi economiche dellAutorità per i Servizi Pubblici Locali del Comune di Roma. Le opinioni esposte nel testo seguente debbono essere considerate strettamente personali ed in nessun modo riconducibili ad orientamenti e posizioni dellAutorità.

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ormai ricorrente: a chi rispondono?

fatto che queste si trovano ad operare e ad assumere decisioni di natura molto simile a quelle che caratterizzano l'azione di governo (il "dettare le regole") senza tuttavia essere investite di un qualche tipo di mandato democratico, diretto o delegato che sia. In altre parole, le Autorità indipendenti scontano un deficit di rappresentanza democratica.

Ci si trova di fronte quindi ad un dibattito complesso, in cui si Le questioni vengono continuamente a sovrapporre ed a rincorrersi questioni dibattute quali quelle di "armonizzazione interna" dei poteri e della ripartizione delle competenze fra le diverse Autorità (in particolare, gli aspetti più evidenti di questa parziale sovrapposizione riguardano principalmente le attribuzioni ed i limiti dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato nei confronti delle altre autorità di settore, come quella per l'energia elettrica ed il gas e quella per le garanzie nelle comunicazioni) con questioni più generali definite, ad esempio, dalla necessità o meno di regolare un determinato settore economico, quale debba essere il livello cui far giungere tale regolazione e, infine, quale sia il soggetto pubblico maggiormente idoneo a svolgere tale attività. Vi è poi il problema, efficacemente sintetizzato da Portelli, relativo a quali debbano essere i rapporti tra le Autorità di garanzia e/o di regolazione e la preesistente struttura dell'Amministrazione dello Stato, che conduce immediatamente all'ultima questione: le Autorità indipendenti garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia rispetto al tradizionale modus operandi dell'organizzazione dello Stato articolata in ministeri e comitati, oppure si trovano anch'esse a scontare rischi di eccessiva burocratizzazione?

John Kay, della London Business School, nel suo interessante articolo citato in nota, sostiene che in Gran Bretagna si è realizzata "una curiosa alleanza tra politici ed alti dirigenti dell'industria (privatizzata) che critica la carenza di accountability nel processo di regolazione". Questa stessa medesima alleanza sembra riproporsi adesso nel nostro Paese: il principale quotidiano economico di proprietà delle associazioni degli industriali ci ricorda con martellante cadenza le virtù della libera concorrenza (e, nella foga, giunge ad affermare che la riduzione delle bollette relative a diverse utilities, re-

Approfondiamo il problema dellaccountabili

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centemente approvate dalle Autorità di settore, sono da imputare ai meriti di un inesistente settore privato 4); vengono presentati disegni di legge tesi ad "aprire" il settore dei servizi pubblici locali alla concorrenza dove, nella relazione di accompagnamento al testo, si risolve il complesso problema della regolazione di questi settori preoccupandosi unicamente di evitare che possano essere create Autorità o agenzie di regolazione locali. Sull'altro versante, lo stesso Portelli ha fornito un'ampia ed esaustiva rassegna delle prese di posizione di carattere istituzionale e politico che lamentano una sorta di intrusione delle Autorità indipendenti in una sfera di competenza propria della struttura di governo.

La risposta alla non irrilevante domanda posta dal Presidente Violante ("a chi rispondono le Autorità?") non può essere fornita in termini puramente didascalici o declamatori. Se il paragone non fosse troppo ardito, si potrebbe anche sostenere che, in linea di principio, la stessa Banca d'Italia registra un deficit di mandato. In questa sede, però, riterrei opportuno integrare l'interrogativo continuando ad attingere dall'esperienza di chi ha già percorso questa strada6 , affiancandovi il problema dell'accountability delle società private che si trovano ad erogare il servizio pubblico. Kay ci dice, infatti, che in Gran Bretagna "proprio la mancanza di legittimazione (delle società erogatrici) spiega l'impopolarità delle privatizzazioni presso l'opinione pubblica, nonostante i benefici ottenuti sotto forma di prezzi più bassi".

Uno Appare quindi opportuno far procedere parallelamente i ragionamenti su questi due aspetti, tenendo presente che, nel nostro Paese, strumento il processo che ha avviato la progressiva istituzione di sempre nuove per Autorità (mi riferisco in particolare a quelle che intervengono a di- 1esternalizzazione verso titolo sulle relazioni di mercato) non è stato determinato esclusivamente dalla crisi di "tangentopoli" e dalla conseguente crisi di rappresentatività del sistema politico ma, piuttosto ed in maniera del tutto analoga alla situazione di altri Paesi, è conseguenza della decisione di esternalizzare le fasi di produzione ed erogazione di servizi pubblici fino a quel momento garantiti dalla proprietà pubblica delle aziende titolari della concessione.

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In ogni caso è probabile che, anche ove fosse rilevante l'aspetto rela- La visibilità tivo all'accountability delle Autorità, non possono essere passate delle sotto silenzio alcune loro caratteristiche positive: rappresentano un decisioni centro decisionale unitario, emettono decisioni visibili e, per quanto possibile, direttamente a loro imputabili e, quindi, la loro attività è immediatamente riconoscibile. In quest'ottica, assumono forse maggiore legittimità di quella a cui ci ha abituato l'esperienza (oramai storicamente determinata) dell'amministrazione parcellizzata cui giustamente fa riferimento Portelli, la cui principale caratteristica è stata la diluizione del procedimento fra diversi uffici e comitati (interministeriali e non) con conseguente "invisibilità" della responsabilità finale delle decisioni (fenomeno che si è dovuto contrastare con la legge 241-1990 che ha istituito la figura del responsabile del procedimento). Se questo è vero, l'intero sistema ne ha guadagnato in efficienza e trasparenza.

Il rischio Ma torniamo alle ragioni addotte nell'articolo di Portelli che, indubbiamente, pongono forti rilievi circa il rapporto fra poteri dello della Stato e relativamente ai meccanismi di riorganizzazione di alcune deresponsabilizzzione funzioni, di cui molti del tutto condivisibili.

La tesi centrale (e la conclusione) del lavoro di Portelli è che l'istituzione di nuove Autorità indipendenti "non risolve purtroppo il nodo del funzionamento del sistema di governo, ma deresponsabilizza ulteriormente l'azione e le scelte dei singoli ministri e può vanificare il controllo parlamentare e l'attività collegiale del Consiglio dei ministri". Su questo particolare aspetto dei rischi di deresponsabilizzazione dei centri di decisione politica ed a conferma della validità del vecchio motto secondo cui nessuno riesce ad essere ascoltato nella propria patria, si veda la recentissima vicenda relativa al prospettato aumento delle tariffe delle chiamate verso i telefoni ceilulari che, al momento di scrivere questa nota, è caratterizzata dalla singolare situazione in cui tutti gli attori (Ministero, Autorità e, ovviamente, le compagnie interessate) erano avvertiti e consapevoli di ciò che si sarebbe determinato, senza che nessuno di questi abbia ritenuto di dover intervenire. Sulla successiva ondata di indignazione, sono intervenuti un po' tutti. Sarà interessante seguire con attenzione glisviluppi futuri di questa situazione.

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Ma al di là degli aspetti foicloristici della vicenda che, indubbiamente, contribuiscono a rafforzare su base empirica i dubbi di Portelli, ritengo che nella sua affermazione si nasconda un vizio di fondo. Si è già sottolineato come, a parere di chi scrive, lo scopo dell'istituzione delle authorities non sia mai stato quello di "risolvere il nodo del funzionamento del sistema di governo." Al contrario. La collocazione indipendente attribuita dalla legge alle Autorità nell'ambito del quadro istituzionale, anche se non organicamente e compiutamente definita, svincola ab origine l'attività degli organismi di garanzia dalla responsabilità dell'esercizio dell'azione di governo. I rischi di deresponsabilizzazione del Consiglio dei ministri richiamati da Portelli saranno pertanto relativi soio ed esclusivamente alle scelte (quelle di maggiore rilevanza riguardano la politica tariffaria e gli assetti di mercato concorrenziali) relative a quei settori e comparti di attività economica per i quali la legge ha demandato la competenza alle authorities di regolazione. Rimane comunque intatta, anche in questi settori, la funzione di indirizzo propria del livello politico di decisione. Un concreto esempio è dato dalla vicenda del recente "decreto Bersani" che, nel ridisegnare l'assetto del settore elettrico, detta regole per tutti: aziende, Autorità di settore, enti locali.

La responsabilità di governo rimane

Proporrei pertanto un approccio differente, un ragionamento che, senza nulla togliere alle problematiche oggettive evidenziate da Portelli e recentemente anche riprese da alte cariche dello Stato, si soffermi su aspetti diversi da quello del "nodo del funzionamento del sistema di governo". Vale a dire che ci si soffermerà sui seguenti aspetti: appare necessario definire i termini di riferimento in base ai quali poter emettere il giudizio rappresentato dall'appellativo "troppe". In altri termini, la domanda dovrebbe essere così modificata: "rispetto a cosa le Autorità sono "troppe"? l'azione delle Autorità indipendenti è efficiente ed efficace nel perseguire gli obiettivi ad esse attribuiti dalle leggi oppure queste ultime sono da considerare una inutile duplicazione di strutture amministrative esistenti ed il loro operare genera, esclusivamente, una sovrapposizione di funzioni e competenze?

In riferimento a che cosa

Procediamo con ordine.

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sono "troppe"?

Troppe Autorità Poiché il dibattito si è sviluppato in questi termini solo recentemente, la sua comparsa deve essere messa in relazione con l'ultima tornata di istituzione di Autorità indipendenti. Come termine di partenza si assumerà pertanto l'anno 1990 in cui è stata istituita l'Au/ ,I ,, I tonta Garante della concorrenza e aei mercato. li troppo semDra essere iniziato dopo questa data, essendo del tutto assente dal dibattito precedente.

Si è detto che sarebbe opportuno definire dei termini di riferimen- Un po' di to. Di seguito si propongono due livelli di confronto: quello euro- comparazioni peo e quello nazionale.

Il dato europeo viene riassunto dalla seguente tabella 1, nella quale i dati numerici rappresentano esclusivamente delle chiavi di lettura specificate in legenda.

Tabella i - Stato dello sviluppo del sistema di regolazione nei Paesi dell'Europa Occidentale (1997) Elettricità Austria Belgio Danimarca Francia Germania Grecia Irlanda Italia Norvegia Olanda Portogallo Regno Unito Spagna Svizzera Svezia

2 2 3 1 3 1 2 2 3 1 2 3 3 3 3

Gas -

.2 3 1 3 2 2 3 -

1 2 3 2 -

3

Telecomunicazioni i

3 3 2 2 3 2 3 2 2 2 3 2 2 3

Acqua -

3 3 3.

3 -

1 2 3 1 -

3 2' -

1

Fonte: Utility Regulation 1997, ed. Privatisation International Ltd. - CRI Centre for the study of regulated industries, Londra 1997.

Legenda: i = La funzione di regolazione è integrata nella proprietà pubblica delle utilities.

2 = È stato avviato un sistema di regolazione connesso con la liberalizzazione dei servizi pubblici, con l'incremento della partecipazione del settore privato nella loro produzione ed erogazione e/o con la loro completa privatizzazione.

3 = Il sistema di regolazione dei servizi pubblici gestiti da operatori privati è operativo.

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Come si può vedere, il panorama è molto frammentato e caratteriz- La zato da scelte nazionali nelle quali è difficile ritrovare quegli aspetti frammentata di convergenza di politiche di concorrenza che dovrebbero caratte- politica della concorrenza rizzare il processo di integrazione europea. Tuttavia, si possono dein turopa sumere le seguenti brevi considerazioni: l'idea della proprietà pubblica delle imprese erogatrici quale elemento sufficiente a garantire la regolazione di questi settori, viene riconosciuta in soli 9 casi su 60 (si veda la chiave di legenda "1"), concentrati prevalentemente in Francia ed Olanda; la quasi totalità dei Paesi europei ha avviato (in almeno uno dei settori interessati) la costruzione di sistemi di regolazione collegati alla crescente privatizzazione dei settori stessi (chiave di legenda "2"). Questo fenomeno,in cui è compresa l'Italia, riguarda 20 casi su 60, mentre il primato appartiene alla già realizzata operatività dei sistemi di regolazione che comprende 23 casi su 60 (chiave di legenda "33; la caratteristica della realizzata operatività di sistemi di regolazione non è esclusiva di quei Paesi, come ad esempio il Regno Unito, in cui la struttura dell'industria di produzione ed erogazione di utilities è in gran parte affidata al settore privato, ma è presente anche in Paesi (come Danimarca o la Germania) in cui continua ad essere predominante il ruolo del settore pubblico quale proprietario delle aziende di erogazione.

La nurnerosità e la natura degli istituti di regolazione varia considerevolmente da un Paese all'altro. La Svezia, ad esempio, ha istituito numerose Autorità locali nel settore dei trasporti pubblici, mentre il Regno Unito ha istituito numerose Autorità regionali per l'acqua (Oflwat). Sull'altro versante si posiziona l'Olanda che, come ricordato, affida quasi interamente il proprio sistema di regolazione all'Amministrazione dello Stato, tramite la proprietà pubblica delle imprese ed il controllo dei Ministeri competenti; solo recentemente (1997) è stata istituita un'Autorità indipendente nel settore delle telecomunicazioni.

Per quanto riguarda il panorama nazionale, si consideri la seguente Le Autorità tabella 2 che riassume alcune caratteristiche delle Autorità istituite a in Italia partire dal 1990 e dalla quale è stata volutamente esclusa l'AitkN 22

Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni - che non appare possedere la connotazione di "Autorità indipendente", essendole stata attribuita dalla legge la funzione di rappresentare legalmente le pubbliche amministrazioni agli effetti della contrattazione collettiva nazionale di lavoro. Inoltre, come già accennato, sono state escluse dal computo le Autorità di regolazione o di garanzia istituite prima del 1990 (Banca d'Italia, Consob, ISVAP).

Tabella 2 - Dati di struttura del sistema delle Autorità di regolazione e garanzia italiane (dati variabili riferiti al biennio 1995-1 997) Tipo di Autorità

Dipendenti

Spese di personale (in Lit mld)

Fatturato aggregato del mercato di riferimento (in Lit mld)

Soggetti giuridici operanti sul mercato di riferimento

Telecomunicazioni Antitrust

200 25 (stima) 152 29,6

33.000 (1995) Non def.

Informatica nella PA Energia e Gas Garante privacy Fondi pensione Servizi pubblici del Comune di Roma Sciopero .servizi pubblici

110

80 45 28

9,4 4,4 12 1,4

Non def.

60.000 (1996) Non appi.

Non quant.

3.090 (1995) Non def. (totalità delle imprese) 9.100 1.600 Non appi.

1.000

15 14

1,5 1,7

4.000 Non appi.

15 Non appi.

TOTALE

644

85

97.000

14.805

Fonte: rilevazione diretta Autorità per i Servizi Pubblici Locali del Comune di Roma (luglio 1998)

La tabella evidenzia le peculiarità proprie di ogni singola istituzione, soprattutto in relazione alle effettive possibilità di delimitazione del campo di intervento, in termini di fatturato, aggregato del mercato di riferimento (ove, evidentemente, un mercato esista) e di soggetti giuridici che operano in tali mercati. Anche in assenza di omogeneità è tuttavia possibile trarre qualche indicazione. Le Autorità che si interessano di erogazione di servizi pubblici a rete caratterizzati dalla presenza di infrastrutture, hanno complessivamente 23

447 dipendenti (inclusa l'Antitrust anche se il campo di intervento di quest'ultima è più vasto). Ognuno di questi dipendenti, a fronte di un costo medio aziendale di circa 135 milioni l'anno, si trova a dover "regolare" 10 soggetti giuridici (per lo più società di capitali) e "controllare" un mercato di 217 miliardi.

Questi dati non sono significativi. Che senso ha, ci si potrebbe chiedere, confrontare realtà così diverse fra loro da far ritenere perlomeno azzardata qualunque conclusione? Apparentemente non c'è alcuna rilevanza statistica. Tuttavia, nonostante la loro evanescenza, è possibile desumere alcune indicazioni da questi dati che, forse per la prima volta da quando si è sviluppato il dibattito sulle troppe Autorità, forniscono una dimensione, delimitano un territorio ed un orizzonte. Allora è forse possibile riformulare in questo modo il quesito che interessa questo intervento: "sono troppe quattro nuove Autorità per regolare mercati di 97.000 miliardi di lire e circa 5.700 soggetti giuridici?" E ancora: "sono troppi 447 dipendenti per fare questo lavoro? In altre parole: si ritiene adeguato il "carico di lavoro" pro capite di 10 imprese ciascuno per un controvalore di mercato medio di 217 miliardi?"

Cosa si ricava dai dati

Su questo secondo punto occorrerebbe effettuare delle analisi circostanziate per ogni struttura e per ogni singolo organismo: un'analisi del genere non potrebbe che evidenziare luci ed ombre del neonato sistema di regolazione e garanzia instaurato con le Autorità indipendenti. Ma se si vedono le cose nel loro complesso forse è già possibile trarre qualche indicazione di rilievo: sopra a tutte, in termini di efficacia e di benefici diffusi alla totalità della popolazione e delle imprese, si posizionano le recentissime decisioni di abbattimento delle tariffe elettriche e del gas, nonché di parte della tariffa telefonica. Queste riduzioni tariffarie sono conseguenza di decisioni prese dalle Autorità di settore. Forse si sarebbero verificate ugualmente ma, allo stato dei fatti, sono risultati concreti da imputare al sistema delle Autorità.

Le performance sono buone

Anche in questa occasione il sentiero già percorso in altri Paesi, e la successiva analisi che ne è seguita, può fornire una utile chiave di lettura per verificare lo stato del dibattito in Italia. Il riferimento è 24

sempre all'articolo di Kay più volte citato: "gran parte delle critiche rivolte ai regolatori parte da un concetto sbagliato, perché nel complesso le ioro performance hanno superato ogni ragionevole aspettativa. Per lo più i problemi della regolamentazione non sono riconducibili a loro responsabilità ma dipendono dalla mancata risoluzione, al momento della privatizzazione, di una serie di nodi strutturali fondamentali per la gestione delle utilities".

Queste considerazioni ci introducono alle ultime riflessioni di questo intervento: sulla necessità cioè di "riposizionare" il dibattito in corso sul grande e parzialmente irrisolto nodo di quale sistema di regolazione si intende realizzare nel nostro Paese a seguito della accelerata e sempre maggiore tendenza all'esternalizzazione (che giunge fino alla privatizzazione) dei servizi di pubblica utilità fino ad ora gestiti direttamente od indirettamente dalla mano pubblica.

Corigine Si è già detto sopra che, a parere di chi scrive, l'idea secondo la quale le Autorità indipendenti rappresentino una parte della risposta al- tangentopoli la crisi determinata da tangentopoli - idea in più sedi rappresentata - pur se suggestiva, non riesce a fare emergere fino in fondo le ragioni che, a partire dall'inizio degli anni novanta, hanno portato al proliferare di questi organismi. In questa direzione appare da condividere in toto l'affermazione contenuta nella nota di accompagnamento al contributo di Portelli e cioè che le Autorità nascono perché sono presenti "funzioni emergenti in nessun modo riconducibili all'attuale assetto di un'Amministrazione profondamente sconnessa e priva di orientamenti credibili." Il fatto che quattordici Paesi europei si stiano muovendo in questa direzione conferma la validità dell'affermazione.

Questo approccio è sicuramente corretto, in quanto sottblinea le ragioni strutturali che conducono alla modifica degli assetti organizzativi del modo di funzionamento dello Stato, al di là delle contingenze più o meno gravi che possono essersi verificate. Suggerirei tuttavia di separare ulteriormente il' ragionamento, in quanto le nuove funzioni possono essere di due tipi: 1. nuove funzioni "assolute", che rappresentano cioè la necessaria risposta che il legislatore ha ritenuto di dover dare a nuovi bisogni della società che, fino a questo momento, erano stati ritenuti non rilevanti, latenti o, in ogni caso, non sufficientemente visi25

bili da dover trovare una propria e delimitata collocazione istituzionale: si pensi, ad esempio, al bisogno di tutela della privacy che ha determinato la novità rappresentata dall'istituzione del Garante per la protezione dei dati personali; 2. nuove funzioni "relative", per le quali cioè i bisogni da soddisfare sono rimasti sostanzialmente immutati (il bisogno sottostante l'esistenza di un'azienda elettrica è l'erogazione di energia alle abitazioni ed al sistema produttivo) e la cui novità è determinata dal cambio di paradigma organizzativo dei processi produttivi per il loro soddisfacimento. In altre parole, ad una modifica degli assetti proprietari, della struttura di mercato, nonché delle condizioni di produzione ed erogazione dei servizi pubblici a rete, non è seguita una altrettanto vivace modifica delle funzioni dell'amministrazione pubblica che si trova a dover passare da produttore del servizio e proprietario delle aziende di erogazione, a soggetto che deve riuscire a determinare le condizioni di mercato più vantaggiose (per gli utenti) per l'erogazione del servizio stesso (gestione della fase di gara) e che, successivamente, dovrà essere in grado di controllare in termini di efficienza ed efficacia, la qualità e la quantità del servizio reso (gestione del contratto di servizio).

Queste funzioni (gestione della gara e géstione del contratto) rappresentano solo due dei tanti esempi che è possibile fare. Certamente non sono nuove in assoluto per l'Amministrazione; lo sono nelle forme e nelle modalità con cui debbono essere gestite. Nella gara per la concessione del servizio, ad esempio, bisognerà conoscere in maniera approfondita le problematiche proprie del peculiare mercato messo a gara (le caratteristiche tecniche di produzione, la struttura dell'offerta data dal numero dei possibili concorrenti, se ci si trova di fronte ad un mrcato caratterizzato da situazioni di monopolio e di fronte a quale fra i tanti generi di monopolio, e così via elencando), sapendo che il fine ultimo ditale attività sarà quello di far funzionare nella maniera migliore possibile i meccanismi della concorrenza per il mercato. Le modalità di gara ed i relativi parametri di valutazione dovranno essere "disegnati" caso per caso e, per quanto possibile, evitando il coinvolgimento in questa fase dei potenziali futuri concorrenti.

26

Funzioni nuove o diversamente gestite

Ragionamento analogo deve essere effettuato per la gestione del Contratto di servizio che l'Amministrazione stipula con il vincitore della gara: sia la sua definizione che il controllo sui livelli e sulla qualità del servizio erogato devono trovare una capacità di interloquire che sia approfondita e continua, tenendo sempre presente che un regolatore non è un gestore: interviene sempre con ritardo rispetto alle attività dell'industria regolata. La riduzione dei tempi con cui questo ritardo si manifesta in relazione alle modificazioni introdotte dalle politiche aziendali (ad esempio nel livello e nella qualità degli investimenti), costituiscono il nuovo termine di confronto fra le nuove Autorità ed il tradizionale apparato amministrativo dello Stato. L'efficienza e l'efficacia delle rispettive azioni saranno pertanto determinate dalla capacità di risposta alle sollecitazioni di mercato (anche se la dizione può apparire impropria in questa sede) e dalla capacità tecnica necessaria per interloquire con la "controparte".

Queste considerazioni sono state brevemente accennate e poste in I problemi questa sede perché si ritiene che il dibattito su quante e quali Auto- da affrontare rità non possa continuare ad eludere il nodo principale che, relativamente ai processi di privatizzazione, è dato dalla definizione di un sentiero molto preciso: prima si scrivono le regole, poi si liberalizza aprendo i mercati e solo alla fine di questo processo si alienano quote di aziende di proprietà pubblica.

Incidentalmente,vogliamo anche rilevare l'urgenza di avviare un dibattito sull'adeguatezza del diritto comune? Per esempio, in materia di strumenti di controllo che il Codice Civile fornisce all'assemblea degli azionisti, ovvero in materia di adeguate e sufficienti garanzie agli utenti ed ai consumatori finali quando siano coinvolte la produzione e l'erogazione di servizi pubblici? Soprattutto quando si viene affermando il principio che una società privata, anche quando opera nel settore dei servizi pubblici, è sottoposta esclusivamente al regime civilistico, ritenuto garanzia più che sufficiente.

Concludendo, la questione che appare rilevante non è quindi se so- Un"interfaccia" no troppe le Autorità ma se debba esserci un istituto che si occupa collettivo di essere l'interfaccia collettivo nei confronti di un determinato settore. È necessario e ragionevole che, almeno per ciò che concerne i 27

servizi pubblici caratterizzati da obblighi di universalità di fornitura e dalla presenza di infrastrutture e reti, questa "interfaccia" sia posta in posizione di terzietà rispetto agli attori coinvolti nei processi che, in sintesi, possono essere definiti da tre categorie: l'operatore pubblico, l'azienda di erogazione, gli utenti finali.

Le parole di un autorevole economista 7, consentono di tirare effi- La questione dell'"asimrnetria cacemente le fila di quanto si è fin qui tentato di rappresentare: "La via delle Autorità specifiche ha il vantaggio di un monitorag- informativa gio costante, necessario nella fase di passaggio dal monopolio alla concorrenza, e di ridurre quello che l'esperienza mostra essere il problema di fondo della regolamentazione, l'asimmetria informativa tra regolato e regolatore. Un'Autorità ad hoc può cercare di ridurre questo gap sia con l'assunzione di esperti e lo scambio di informazioni con organismi similari esteri, sia con l'esperienza che la ripetizione dei rapporti comporta. Certo il pericolo della 'cattura' (...) è probabilmente più forte per un'Autorità specifica per i rapporti che con il tempo si vengono ad instaurare e proprio nel tentativo di ridurre l'asimmetria informativa. ( ... ) Tenuto, peraltro, conto del fatto che difficilmente il fenomeno della 'cattura' può verificarsi nelle fasi di avviamento di una nuova Autorità ( ... ) e considerato che vi sono competenze specifiche - si pensi alla sorveglianza sugli standard di servizio e talora alla fissazione delle tariffe - ( ... ) è da preferire la via sin qui seguita di una molteplicità di organi di regolazione".

2

La Repubblica, 13 dicembre 1998, pag. 25.

Si veda, ad esempio, John Kay, Iljlituro della regolamentazione delle utility in Gran Bretagna, in «Energia», n. 111997.

11 Sole 24 Ore del 16novembre 1998. Titolo di prima pagina a sei colonne: "Con ilpri-

3

vato bolletta più leggera".

5

Senato della Repubblica, d.d.l. n. 3295 del 26 maggio 1998 d'iniziativa del senatore Debenedetti, "Norme per l'apertura al mercato dei servizi pubblici locali, per la loro riorganizzazione e sviluppo su base concorrenziale".

6 Si veda sempre J. Kay, cit.

7 N. Andreatra, La concorrenza nei servizi di pubblica utilità (introduzione), Il Mulino, Bologna 1998.

28

Sulle Autorità: altre postille

ellanota di Pizzetti si fa riferimento alleopinioni del Presidente Violante. Opinioni autorevoli per la persona che ie esprime ma anche perché sintomo delle questioni che gli organi parlamentari si stanno ponendo a riguardo delle Autorità indipendenti. Nel momento di chiudere questo numero della rivista si ha notizia che la Commissione Affari Costituzionali della Camera sta dando avvio ad un'indagine sul problema. Iniziativa che sembra poter essere assai utile per dipanare con chiarezza il filo di un ragionamento in cui distinguere, sulla base di una ricognizione attenta dell'esperienza fin qui fatta, i problemi veri dai molti non problemi.

Si vedrà se poi ha senso ipotizzare, come molti cominciano a fare, una legge-quadro in materia.

Intanto, vorremmo esprimere consenso con quanto di recente ha Perché sono scritto Sabino Cassese per spiegare perché le Autorità indipendenti necessarie sono indispensabili (v. Il Sole 24 Ore del 17 dicembre 1998). Vale riportare i brani salienti dell'articolo: "In primo luogo, di organismi indipendenti dal Governo e dal Parlamento c'è bisogno per intervenire in settori sensibili, dove.sono in conflitto interessi sociali troppo potenti per le deboli spalle di istituzioni rappresentative. Corpi come il Parlamento, il Governo, i partiti eccetera sono rinnovati periodicamente dall'elettorato, hanno bisogno di tener aperto un dialogo continuo con la società e con gruppi e categorie. Essi rimarrebbero prigionieri di questo o quell'interesse, se si mettessero a regolare gli approvigionamenti di gas, o l'ambito della riserva postale, oppure i limiti posti alla concorrenza da ordini professionali eccetera...

C'è, poi, un secondo motivo per dare indipendenza a corpi chiamati a regolare o ad aggiudicare, in campi diversi, dalla moneta alla banca, alla concorrenza, alle assicurazioni, ai servizi pubblici eccetera. Si tratta dell'esigenza di liberalizzare settori prima dominati dal monopolio, per io più legale. Proprio perché i monopoli erano tali 29

per legge, vi erano legami stabili tra regolatori e regolati. In taluni casi, i primi e i secondi vivevano nella stessa casa, fino a essere la stessa persona: ad esempio, le Poste erano, fino a quattro anni fa, parte del ministero delle Poste. Il confronto tra i settori, come Ferrovie e Poste, dove non c'è un'Autorità indipendente, e quelli dove l'Autorità, al contrario, c'è ( ... ) dovrebbe convincere dell'utilità di un organismo indipendente che possa guidare la liberalizzazione degli accessi, regolare la condotta degli operatori, contemperare le esigenze degli utenti con quelle dell'industria. Infatti, per prendere solo l'ultima delle tre funzioni, nessun ministero ascolterebbe mai la voce degli utenti.

Il terzo motivo della necessità di Autorità indipendenti nasce dall'esigenza di "disaggregare lo Stato". Questo è ormai un corpo troppo grande, bloccato dalla necessità di interessarsi di tutto, tirato a destra e a manca da questo e da quell'altro interesse. Le Autorità indipendenti costituiscono un modo di decentramento funzionale, che rende possibile non annegare interessi primari (liberalizzazione, concorrenza, trasparenza, eccetera) in un confronto quotidiano con altri interessi pubblici (tutela dell'occupazione, sviluppo di certe zone, eccetera), che risulterebbero sempre vincenti...

Convengo, però, sull'osservazione che alcune di esse non funzionano ancora in modo ottimale, specialmente a causa di una certa opacità delle procedure, di qualche ridondanza di struttura, di incertezze nel definire obiettivi e priorità".

A riguardo del non funzionamento ottimale c'è, tuttavia, da segnalare Autoreun altro fatto importante: non si è creato ancora un tessuto connetti- ferenzialità vo di idee e metodi che consenta alle stesse Autorità di confrontarsi difensiva l'una con l'altra e che agevoli l'una e l'altra a comunicare e dialogare con l'ampio pubblico dei cittadini. C'è a questo riguardo una grave mancanza di iniziativa da parte delle stesse Autorità e, forse, qualche malinteso sull'ambito stesso delle proprie competenze. Competenze che, certamente, devono essere intese con logica rigorosa senza cedere alla tentazione di ampliamenti impropri ma che neppure si devono tradurre in una sorta di forte autoreferenzialità di tipo difensivo.

In anni ormai lontani, quando era nata soltanto la Consob e il fenomeno delle Autorità indipendenti era soltanto presagito, avevamo in qualche modo segnalato il problema della necessità di una

"cultura" delle Autorità indipendenti, anche se prevalentemente identificate allora come Autorità di controllo. Per quel che vale, il richiamo è al numero 66.1 (1984) di questa rivista e all'articolo "Per una strategia degli organi di controllo' Un ultimo spunto non può mancare in questa postilla: il riferimen- Il caso delle to all'aspro dibattito che c'è stato in materia di Autorità di controllo fondazioni sulle fondazioni di origine bancaria. La relazione al disegno di legge bancarie governativo, presentato nel 1997, così spiegava l'ipotesi formulata di una "Autorità indipendente" in materia: "L'esperienza storica di altri Paesi (si pensi alla Charities Commission inglese) e la tendenza che si va affermando verso un ampliamento ed un consolidamento del settore non profit, fanno pensare che occorra un organo che svolga un'attività di vigilanza da cui non siano esclusi compiti di stimolo, suggerimento e raccomandazione.

Si tratta, in definitiva, di creare un'esperienza nuova, cultura e tecniche non ben conosciute, si tratta di contribuire a formare una classe dirigente con particolari capacità. Dunque, occorre un'Autorità indipendente dedicata ad un compito sostanzialmente inedito e per il quale lo Stato amministrativo centrale non ha esperienza né predisposizione.

Si dovrà trattare di un'Autorità che operi secondo la logica della vigilanza prudenziale, che vuole interazione e spirito collaborativo con i vigilati".

Dunque, una funzione nuova per un caso nuovo. Esempio quasi di scuola.

Difficile immaginare che il tema potesse scatenare tanto dibattito se non fosse che poi il disegno di legge presentava un profilo di Autorità non così originale come la relazione sembrava far pensare. Era piuttosto il profilo di un organismo al quale venivano attribuiti i poteri di vigilanza classici, tratti prevalentemente dall'esperienza della vigilanza bancaria.

Il richiamo alla vicenda legislativa, che nella legge ha trovato una soluzione che può essere ricondotta allo spirito della relazione ministeriale del '97, serve a sottolineare l'importanza di creazioni istituzionali da calibrare bene in relazione alle realtà particolari che le varie Autorità devono affrontare.

(S. R.) 31

A proposito di globalizzazione e partiti politici di Sergio Ristuccia

L

o scorso novembre si è tenuto un seminario sui tema "ilpartito politico nell'età della globalizzazione". Si è trattato di un incontro con Anthony Giddens, direttore della London School of Economics and Political Science, organizzato dalla Società di cultura repubblicana presieduta da Giorgio Bogi. Di Giddens, relatore al seminario, usciva in quei giorni la seconda ristampa di "The Third Way" (Polity Press, 1998), libro dedicato al rinnovamento della socialdemocrazia che l'Autore afferma - nella prefazione - possa non soltanto sopravvivere ma prosperare sul piano sia ideologico che pratico a condizione che i "social democrats" siano preparati a rivedere i loro precedenti modi di vedere in misura molto più ampia di quanto i più fra loro abbiano fatto finora.

Ilseminario era stato preparato ed introdotto da un documento in- Un passaggio viato per tempo ai partecipanti. In questo documento si partiva da di epoca un'affermazione interessante che avrebbe poi meritato una maggiore attenzione nel dibattito. "Sul tema del partito politico si può osservare - così esordiva il documento - un rilevante parallelismo tra quanto avvenne alla fine del XIX secolo e quanto sta avvenendo alla fine del )O(. Un secolo fa, nei principali Paesi europei, il processo di industrializzazione trasformò progressivamente la società attraverso un insieme di fenomeni economici, sociali e politici. E tutto ciò, a sua volta, determinò il superamento delle vecchie forme di organizzazione politica e la creazione, accanto ai sindacati, del partito di massa moderno. Analogamente, a distanza di cento anni, un insieme di straordinari fenomeni politici, economici e sociali, riassumibili per brevità nella formula della globalizzazione, ha creato una nuova condizione generale. Ed essa implica sul terreno politico due conseguenze; l'inesorabile obsolescenza del tipo di partito cresciuto in Europa nell'ormai superata età dell'industrializzazione; la correlativa necessità di realizzare un nuovo tipo di organismo politico, capace di fondarsi sulle novità del corso storico e perciò capace si svolgere la stessa funzione democratica di quello che si va spegnendo".

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Dunque, il parallelismo che viene suggerito è in termini di passaggio di epoca. Esso, però, nei confronti dei partiti, può essere tradotto nelle date degli opposti eventi della nascita e della scomparsa dei "partiti di massa".

Se la globalizzazione è stata evocata come il fenomeno che segna, Cos'è la fra l'altro, la fine dei partiti di massa così come li abbiamo cono- globalizzasciuti finora che cosa è la globalizzazione? Alla domanda ha dato al- zione cune risposte la relazione di Giddens.

Innanzitutto, il concetto di globalizzazione. Dieci anni fa la parola non veniva usata, nemmeno nel Regno Unito. Oggi denota sinteticamente un fenomeno oggetto di grande dibattito. I difensori della globalizzazione ne indicano il cuore nell'economia globale che si realizza attraverso le infrastrutture elettroniche della telematica e delle telecomunicazioni satellitari. Le grandi forze sono economiche. L'opera dei politici è irrilevante. Gli scettici tendono a limitare il fenomeno entro il campo del mercato finanziario e valutano. Per qualcuno, come la sinistra socialdemocratica, il fenomeno è troppo enfatizzato. Anzi, non è affatto una realtà.

Secondo Giddens, la globalizzazione non va intesa come semplice, grande dilatazione del libero mercato. In soli termini economici non si intende la portata della globalizzazione che toccail piano personale dello stile di vita. La globalizzazione comporta "changes in the way we live". Di qui l'insorgere, per reazione, del bisogno di forti identità locali.

Alla globalizzazione Giddens ricollega in varia misura alcuni fatti importanti: declinano i meccanismi tradizionali della politica, ma per certi aspetti c'è più interesse per la politica di quindici ahni fa.

Occorre andarlo a cercare bene nell'attenzione collettiva rivolta a singoli problemi sociali (singie issues). Quei problemi, cioè, che guidano la stessa organizzazione politica. Che è fatta di attivisti che rispondono alla "società attiva" che li esprime più che a inconsistenti macchine di partito. È spesso un'organizzazione per focus groups, attraverso i quali la società attiva riesce ad essere anche "riflessiva". A fronte di ciò, c'è un fenomeno di "trivializzazione" della politica indotta dai media. Il che significa che una buona politica ha bisogno di una buona organizzazione per affrontare i media, sapendo che questi possono ben svolgere ruoli molto positivi (il caso dell'evoluzione politica in Sudafrica è esemplare).

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Per Giddens la questione del "centro" non è quella tradizionale di trovare compromessi. È una questione piena di contenuti di vario tipo che va dalla trasformazione profonda della struttura di classe in parallelo o in conseguenza dei cambiamenti che intervengono continuamente nell'organizzazione del lavoro (si consideri quanto aumenta il tele-lavoro nelle sue varie forme), alla necessità di fare e rifare coalizioni intorno ai singoli problemi.

Ultimo, e fondamentale, punto segnalato da Giddens è quello del contesto entro il quale si deve muovere la politica: nazionale e/o transnazionale. A questo contesto deve correlarsi il meccanismo di governo, quest'ultimo nell'accezione che si usa esprimere con la parola "governance", cioè modalità e sistema di governo. Egli ha sottolineato la necessità di un ruolo attivo delle istituzioni, che inevitabilmente devono reinventarsi il proprio ruolo, e alla grande opportunità che hanno in questo contesto i "critical leaders".

In conclusione, Giddens indica i terreni dove è più urgente lavorare. Qui però rimaniamo agli spunti analitici.

Sul significato di globalizzazione che Giddens pare preferire - quello Globalizzacioè che riguarda in qualche misura direttamente, pur senza eccessi- zione e ve enfasi, lo stesso modo di vita nella società contemporanea - altri militanze nel seminario hanno concordato. Stefano Passigli ha osservato che oggi c'è, in definitiva, un maggior grado di coesione in termini di comportamenti, gusti, ecc., che non in momenti storici precedenti.

Ma, detto questo, la chiave di lettura rimane, tuttavia, un po' grossolana e generica. Credo che, per rimanere nel tema dei partiti nell'età della globalizzazione, un altro esercizio può risultare utile. Un tentativo è quello di partire, soprattutto per quanto riguarda la storia italiana, dalla loro condizione di cinquant'anni fa. Riandiamo all'immediato dopoguerra, a quel particolare momento storico in cui sono nati i partiti quali li abbiamo conosciuti in questi decenni.

Quelli che poi sono entrati nella crisi di cui oggi discutiamo per ricercare le possibilità di sostituirli o di farli sopravvivere.

Ebbene, per ritornare ad alcuni suggerimenti interpretativi di Giddens, mi viene da ricordare come fosse un dato di esperienza assai comune il fatto della militanza di partito, ovvero il senso di un forte rapporto da stabilire fra partito e Stato, da cui derivò quell'idea di "Stato partito" o "partito Stato" che ha richiamato Alessandro Pizzorno.

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Ecco, pur rimanendo a questi pochi spunti, consideriamo che cosa è successo.

Di militanza, se riferita ai partiti, non ha senso parlare oggi. Però ha senso parlare del fenomeno vivace e relativamente diffuso (a questo proposito hanno perfettamente ragione Giddens e Pizzorno), di altri tipi di militanza. Militanza oggi c'è, ma in sedi diverse: quelle innanzitutto del volontariato.

La parola volontariato dice poco ma porta a ricomprendere un vasto ventaglio di esperienze.

Prendiamo, per esempio, la storia delle imprese sociali per lo più in forma di cooperative. Il fenomeno è grande e, per molti aspetti, certamente nuovo nel nostro Paese, dove precedentemente l'"azione volontaria" aveva caratteristiche più marcatamente confessionali, mentre oggi ha invece caratteristiche molto più laiche e spesso si organizza intorno a singie issues. La distanza dai Paesi anglosassoni dove, come ha ricordato Alessandro Pizzorno, il volontariato ha tratto origini dall'etica della riforma protestante -, è molto diminuita. I problemi sono oggi molto simili.

Il volontariato e più in generale il "Terzo settore", il settore delle organizzazioni non profit, sta vivendo un fenomeno tutto affatto diverso dai tratti precedenti della storia di questo importante movimento della società contemporanea.

Ricordo, a questo proposito, lo stretto legame con la questione Stato e pubbliche amministrazioni. Facciamo una breve considerazione sullo Stato e sulla sua accresciuta complessità non più riconducibile al solo soggetto "Stato centrale" e al suo sistema concettuale tramandato. È stato ricordato il fenomeno delle Autorità indipendenti che, sicuramente, aprono un varco nel vecchio Stato amministrativo anche in termini di selezione del personale sia politico che del "Civil Service". Il tema è molto rivisitato (anche sulle pagine di questo numero della nostra rivista) e vale la pena approfondirlo ancora. Certo, quel che sta cambiando nello Stato e che sicuramente è venuto meno malgrado residuino immagini e strutture di facciata è lo Stato nazionale come Stato forte, gerarchico, onnisciente, cioè tutto quello Stato che era il frutto della storia politica-istituzionale ottocentesca, napoleonica e post-napoleonica. Non è che sia scomparso (mai nulla del tutto scompare) ma è rimasto un Leviatano assai affaticato. Quasi sfatto.

Amministrazioni pubbliche e organizzai volontaria

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Quel che sta crescendo entro mille contraddizioni è il federalismo, Ricordando inteso come centralità dell'Ente locale, ed è qui, secondo me, che si Beveridge gioca una partita importante per i partiti, come per il volontariato: il rapporto con lo Stato si ricostituisce qui, più che al livello delle residue funzioni dello Stato centrale. La possibilità di aggregare domanda sociale e rappresentarla a questo livello di governo pone, però, in forte competizione i partiti e il resto delle organizzazioni dell"azione volontaria". Con il vantaggio, per il volontariato, che oggi si ripropone una fase di gestione del Welfare State anche, e soprattutto, a livello locale che singolarmente richiama il disegno di William Beveridge degli anni dell'immediato dopoguerra, cioè un disegno non così statalistico come poi, anche nel Regno Unito, è stato realizzato dal '48 in avanti. Il disegno, voglio ricordare, che aveva come fondamento una forte cooperazione fra amministrazioni pubbliche e libere organizzazioni del volontariato. È assai singolare che ritornino oggi problematiche che alla fine della guerra erano state ben colte. Ciò, secondo il mio parere, dà argomenti di appoggio rispetto alle chiavi interpretative e alle linee propositive di Giddens che valgono ampiamente per la realtà italiana, se la consideriamo nella presente complessità di fenomeni sociali.

36

dossier

Ministeri e riforma dello Stato

Negli articoli che seguono si parla, da duÉ diversi punti di vista, quasi contrapposti nel giudizio finale, dei recenti tentativi di rrma delle PA. Nel saggio di Rosa Maiorino una disamina del dicastero unico creato dall'accorpamento di Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica - viene analizzato ciò che in qualche modo anticipa l'atty4azione delle cosidette "legge Bassanini" in materia di riordinamento dell'amministrazione centrale.

Nell'articolo di Federico Spantigati le riforme ideate, dapprima dal ministero Cassese e poi dal ministro Bassanini, vengono presentate e lette secondo un'ottica di critica radicale. In sintesi - ci pare di intendere - la distruzione o comunque il forte indebolimento dello "Stato" viene considerato come la perdita definitiva dell"interesse generale intesa come istanz.a di garanzia dei cittadini senza che il decentramento si risolva in altro che poteri rinforzati dell'autorità amministrativa al di fiori di una reale partecipazione dei cittadini. È questo un profilo Critico che può essere tenuto presente. Il ragionamento che questa rivista ha fatto più volte è tuttavia diverso e dovremo riprenderlo distesamente: la rforma delle pubbliche amministrazioni non è riforma di leggi.

Abbiamo guardato con preoccupazione le ondate ininterotte di norme emanate, come 37

elementi che alimentavano un circolo vizioso di "norme che creano norme' tuttavia, si è resa abbastanza convincente la giustfÏcazione delle "leggi Bassanini" (v. l'editoriale Il "Federalismo amministrativo" oltre le leggi del n. 112/1 997). Oggi torniamo a chiederci se non si debba tornare ad una linea di rigorosa politica della prassi orientata ai risultati da perseguire.

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Tesoro e Bilancio unificati Un caso di attuazione concreta della legge Bassanini? di Rosa Maiorino *

Come è ben noto ai lettori di questa Rivista, è da tempo che si discute sulla necessità di una riforma della pubblica amministrazione al fine di eliminare ogni forma di duplicazione di competenze, di aggravio di procedimenti, o, più semplicemente, di alleggerire la "macchina burocratica" con lo scopo di favorire il rapporto amministrazione-cittadino. In questo senso, ripetutamente, è intervenuto il legislatore, che attraverso leggi e/o leggi delegai ha cercato di dare ordine e logicità a funzioni di Ministeri, Enti Economici, Enti Pubblici, Comitati interministeriali, Enti locali.

La logica del "riordinare" la pubblica amministrazione, dello snellire la macchina burocratica ha seguito, però, orientamenti diversi considerato che la stessa è stata - e lo è a tutt'oggi - per lo più frutto di legge delega e, quindi, di orientamenti politici diversi.

Tale premessa è necessaria per comprendere l'iter di riforma delle competenze e dell'organizazzione del ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, del ministero del Tesoro e

* Consulente attualmente operante presso un';mministrazione comunale.

del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE).

IL PROBLEMA COME Si POTEVA VEDERE NEL 1995

Riguardo al CIPE Si è già ampiamente scritto in questa Rivista neI 19952 sull'importanza di una sua riforma, per restituirgli quel ruolo - che all'origine sembrava dovesse essergli proprio - di "Gabinetto Economico", ossia di centro di programmazione e coordinamento della politica economico-finanziaria del Paese.

Già in quella sede, si rilevò che tale riforma non poteva prescindere da una riforma globale del governo dell'economia e della pubblica amministrazione, in generale, e ciò per eliminare ogni sorta di duplicazione di funzioni e di stratificazione di competenze tra i vari organi. Allora si sottolineò che la legge n.

537 del 24 dicembre 1993 - legge "collegata" alla Finanziaria 3 - se, da un lato, aveva ridato al Comitato il ruolo di organo di indirizzo economico-finanziario dell'economia del Paese, dall'altro, tale ruolo risultava di fatto sminuito dalla mancata riforma della PA ed in particolare degli apparati centrali.

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Questi ultimi, la cui riorganizzazione prevista dalla L. 537/93 non venne attuata, continuavano ad articolarsi in centri autonomi di spesa facendo del CIPE la sede di conferma di quanto già altrove deciso. Si accennò, a tal proposito, anche alla necessità del riordino e dell'accorpamento dei dicasteri finanziari, ivi compreso - almeno per le funzioni decisionali - quello delle Finanze, in quanto le loro competenze, proprio perché legate alla politica economica, monetaria e finanziaria del Paese, nonché strettamente connesse all'attività del CIPE, avrebbero trovato in un'unica sede maggior coordinamento e maggior efficienza ed economicità nel loro esercizio e favorito l'abbreviazione dei tempi di decisioni. Si evidenziò, ancora, come dopo il Governo Ciampi il ruolo del Comitato Economico quale "Gabinetto Economico" sembrava nuovamente subire un arresto, poiché la proposta di riforma, in attuazione alla legge 53711993, ferma presso il Consiglio dei ministri, veniva a conferire più poteri di indirizzo e coordinamento economicofinanziario al Consiglio dei ministri stesso in luogo del suddetto Comitato, preferendo, quindi, una soluzione più politica e meno tecnica ai problemi economico-finanziari del Paese.

LE LEGGI BASSANINI

Un nuovo orientamento verso un ridisegno della PA, ed in particolare di quella parte preposta all'attività di programmazione e coordinamento dell'economia, si

è avuto con la legge 15 marzo 1997, n.

59 (meglio conosciuta come Bassanini 1) e con la legge 3 aprile 1997, n. 94 (riguardante le modifiche della L. 468178 e successive modifiche e integrazioni, nonché recante norme in materia di bilancio e delega al Governo per l'individuazione delle unità previsionali di base del bilancio dello Stato).

La L. 5911997 delega il Governo a conferire funzioni e compiti alle Regioni e ad Enti locali, a riformare la PA, nonché a dare piena attuazione alla semplificazione amministrativa. Più specificatamente detta normativa prevede, al fine di eliminare ogni disfunzione, il riordino della PA centrale e periferica ed in particolare, in relazione all'argomento in questione, prevede all'art. 11, comma 1, lett. a, la delega al Governo ad emanare uno o più decreti per razionalizzare l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei ministeri, anche attraverso il riordino, la soppressione e la fusione degli stessi, nonché di amministrazioni centrali anche ad ordinamento autonomo. L'attuazione di tale delega, come recita l'art. 12 della L. 59197, deve assicurare il collegamento funzionale e operativo della Presidenza del Consiglio dei ministri con le amministrazioni interessate e potenziare il ruolo di impulso, coordinamento e di indirizzo della prima, trasferendo ai ministeri, a enti ed a organismi autonomi i compiti non direttamente riconducibili alle predette funzioni. Ciò dovrà attuarsi secondo criteri di omoge-

neità ed efficienza gestionale, riducendo anche costi amministrativi, attuando un più razionale collegamento tra gestione finanziaria ed azione amministrativa, organizzando le strutture per funzioni omogenee e per centri di imputazione delle responsabilità4 .

Più minuziosamente, a suffragare l'esigenza di una riforma del governo dell'economia.

LA LEGGE

9411997

Ai fini della razionalizzazione delle strutture amministrative e del potenziamento degli strumenti operativi a supporto della azione del Governo - in materia di politica economica, finanziaria e di bilancio - è intervento successivamente il legislatore che, con legge 3 aprile 1997, n. 94, ha ripreso quanto già in generale specificato dalla legge Bassanini i in materia di riforma della PA, delegando il Governo ad emanare entro sei mesi uno o più decreti legislativi "diretti a riorganizzare le competenze e la organizzazione del ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica", nato dall'accorpamento del ministero del Tesoro e del ministero del Bilancio e della Programmazione Economica disposto dall'art.

7, comma 1, della citata legge.

In ottemperanza al citato dispositivo e più in generale ai principi della L.59197 è stata attuata, con il decreto legislativo 5 dicembre 1997, n. 430, sulla base di criteri di efficacia, efficienza ed economicità, la costituzione del ministero del

Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica e attuato il riordino delle competenze del CIPE. Dunque, ad una prima considerazione si può dire che la riforma del ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica si inserisce in un disegno di riordino totale della cosa pubblica prevista dalle cosidette Riforme Bassanini. È utile sottolineare al riguardo che sono stati emanati una serie di decreti legislativi, decreti ministeriali e decreti del Presidente della Repubblica volti all'effettivo e concreto riordino della PA, a dimostrazione che questo non è rimasto una mera enunciazione normativa di principi, come già altre volte avvenuto nella storia della PA italiana.

I PRINCIPI DEL RIORDINO

Vale ricordare tali principi così come sono sanciti dalla legge 15 marzo 1997, n.

59; dalla legge 15 maggio 1997, n. 127 e dalla legge 16 giugno 1998, n. 191.

La prima, come giàricordato, contiene principi diretti alla riorganizzazione e allo snellimento dell'apparato centrale dello Stato - e quindi al riordino, all'accorpamento, alla fusione e alla soppressione di ministeri -, nonché principi per l'attuazione del decentramento amministrativo ossia del cosidetto federaliregionale o amministrativo, rinviando a successivi regolamenti governativi il compito di concretarli.

La legge 127197 reca misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione 41

e di controllo; sostanzialmente, si riferisce allo snellimento e alla semplificazione dell'iter procedimentale in cui si articola l'azione della pubblica amministrazione favorendo così il cittadino nel suo rapporto con la cosa pubblica.

Lultima, ossia la legge 198/98, oltre ad apportare delle modifiche alle precedenti leggi Bassanini al fine di facilitarne l'attuazione, introduce il telelavoro nella PA e rinvigorisce le semplificazioni per le attività produttive.

Da tutto ciò si evincono come fondamentali i seguenti principi: che per aversi il passaggio di funzioni dal centro alla periferia, ossia dai ministeri alle Regioni, non si può prescindere dal riordino dei primi; che per ridurre i tempi di attesa di atti amministrativi o per accelerarne la formazione si deve semplificare la macchina burocratica; che tali riforme sono collegate ad un nuovo modo di pensare e fare amministrazione, intesa come apparati che favoriscono il cittadino, in forma singola e associata, e che rispondono alle sue esigenze e non il contrario; che tale riordino passa attraverso una corretta previsione e gestione delle entrate e delle spese e, quindi, attraverso un'amministrazione preposta all'attività economica, finanziaria e di bilancio efficiente.

I MINISTERI DEL TESORO E DEL BnANcIo PRIMA DELL'UNIFICAZIONE Listituzione del ministero del Tesoro e quella del ministero del Bilancio e della 42

Programmazione Economica hanno origini lontane nella storia della formazione dell'apparato centrale amministrativo. L'istituzione del primo risale infatti al 1877, mentre il secondo al 1947 e questo a testimonianza di come la politica economica e monetaria abbia avuto un ruolo centrale e prioritario nella storia della formazione dell'amministrazione pubblica e del governo del1 economia.

Limitando la nostra analisi alle funzioni e all'organizzazione che caratterizzarono gli stessi prima della recente riforma5, apportata dal decreto legislativo del 5 dicembre 1997 n. 430 e dal d.PR del 28 febbraio 1998, n. 38, in attuazione alla legge Bassanini 1 e all'art 7 della L. 94197, va rilevato tuttavia che il ministero del Tesoro, istituito con RD 26 dicembre 1877, n. 4219, assorbì nella sua struttura alcuni uffici del ministero delle Finanze, dell'Agricoltura, Industria e Commercio. Nel 1922, venne riunito nel ministero delle Finanze e riebbe la sua autonomia solo nel 1944. Da quell'anno la sua articolazione non ha subito sostanziali mutamenti, mentre alcuni conflitti di competenza in ordine alla gestione della politica economica, di bilancio e in materia di incentivi sorsero nel 1947, a seguito dell'istituzione, appunto, del ministero del Bilancio.

Riguardo alle competenze del ministero del Tesoro dispiegate sino all'attuale riforma, va detto che esso ha svolto funzioni di regolatore della finanza pubblica mediante attività di preparazione, coordinamento e gestione delle attività degli altri ministeri in materia di bilancio. Al riguardo basti ricordare che nel suo ambito si formavano il Bilancio preventivo, il Rendiconto, il progetto di legge finanziaria, la relazione previsionale e programmatica6, e, che tra i servizi di sua competenza rientravano quelli relativi alla circolazione monetaria, servizi di tesoreria, del

portafoglio e, in generale, i servizi relativi al controllo e alla vigilanza sulla gestione del denaro pubblico. Dette funzioni hanno fatto sì che fosse, insieme alla Banca d'Italia, l'unico effettivo gestore della politica economica del Paese 7 .

Riguardo all'assetto organizzativo, va rilevato che gli uffici che da esso dipendevano possono essere suddivisi in due gruppi. Un primo gruppo era costituito dagli uffici dipendenti dall'Amministrazione del Tesoro in senso stretto, operanti come amministrazione attiva e che svolgevano compiti di "intervento attivo" nella politica monetaria e finanziaria. Più specificatamente, rientravano in questo primo gruppo la Direzione generale del Tesoro, e le Direzioni dei servizi vari e delle pensioni di guerra, degli istituti di previdenza, degli affari generali e del personale, dei servizi periferici del Tesoro e il Provveditorato Generale dello Stato. Un secondo gruppo di uffici, appartenenti alla struttura organizzativa del ministero del Tesoro, si identificava nelle strutture della Ragioneria Generale dello Stato con attribuzioni concernenti per lo più il controllo delle operazioni finanziarie dispiegate da altre Amministrazioni, nonché della tenuta delle rilevazioni contabili.

Più dettagliatamente, la Ragioneria Generale esercitava le seguenti funzioni: compilava i conti riassuntivi delle entrate e delle spese dello Stato dipendenti dalla gestione del bilancio e i conti riassuntivi del Patrimonio dello Stato, cvidenziando le variazioni che in esso avvenivano; predisponeva - sulla base delle proposte e sugli elementi che i ministeri dovevano trasmettere al ministero del Tesoro - i progetti del bilancio annuale di previsione, delle leggi di variazione al bilancio stesso ed il rendiconto generale consuntivo dell'amministrazione dello Stato; predisponeva i provvedimenti relativi ai prelevamenti dai fondi di riserva per le spese obbligatorie e d'ordine, per le spese impreviste e di quelle concernenti l'assegnazione di fondi in bilancio, nonché i provvedimenti per le spese di cui all'art. 12 della L. 468/78, che dovevano essere adottati mediante decreti ministeriali o del Pre-

sidente della Repubblica; preparava, inoltre, i disegni di legge per la convalidazione da parte del Parlamento dei prelievi dal fondo di riserva per le spese impreviste; valutava le situazioni finanziarie e tutte le dimostrazioni e i documenti che al ministero del Tesoro erano necessari per l'annuale esposizione finanziaria o per qualunque altro scopo. Esaminava, infine, in base agli ordini del ministero del Tesoro, i progetti di legge e/o di altri provvedimenti che potevano avere, in qualunque modo, effetti finanziari o che potevano riguardare gli ordinamenti contabili dello Stato.

Da quanto detto, si può comprendere il perché la Ragioneria Generale, istituita con la legge 22 aprile 1869, n. 5026, inserita all'origine nell'apparato centrale del ministero delle Finanze e passata poi al ministero del Tesoro, venne definita organo centrale dell'Amministrazione p0sto "alle dirette dipendenze del ministero del Tesoro"8 . Le sue competenze andavano, infatti, dalla compilazione del bilancio di previsione dello Stato, dalla tenuta e dalla riassunzione di tutte le scritture contabili delle operazioni fìnanziarie dello Stato, al controllo di legittimità e di merito su ogni schema di disegno di legge o atto di Governo che aveva ripercussione diretta o indiretta sulla gestione finanziaria.

Per esplicitare meglio il suo ruolo, va rilevato che essa si articolava in sei ispettorati generali 9 ed era dotata di suoi organi periferici quali le.

Ragionerie centrali, istituite presso ministeri e alcune direzioni e ex Aziende Autonome. Attraverso queste, conosceva ogni movimento finanziario e negando l'apposizione del visto impediva, di fatto, qualsiasi spesa a suo parere illegittima.

Dal 1955, a seguito del decentramento dei servizi del ministero del Tesoro, venne dotata di organi locali: Ragionerie Regionali e Provinciali. Le stesse, avevano compiti di riscontro amministrativo e contabile sugli atti di spesa emessi dagli organi decentrati delle amministrazioni dello Stato operanti su base regionale, sovraprovinciale o su base provinciale o infraprovinciale.

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Riguardo al secondo dicastero economico - istituito il 4 giugno 1947 come ministero del Bilancio, denominato successivamente, con legge del 27 febbraio 1997, n. 4810, ministero del Bilancio e della Programmazione Economica - va rilevato che questo, prima della riforma del d.lgs. 43011997, aveva competenza generale in materia economica e finanziaria e di bilancio.

In particolare, le attribuzioni da esso esercitate possono essere divise in due ordini: il primo relativo alla materia economica e finanziaria, il secondo relativo alla programmazione economica.

In relazione al primo ordine di attribuzioni, va ricordato che il ministero del Bilancio e della Programmazione Economica collaborava con il ministro del Tesoro in ordine all'impostazione generale del bilancio di previsione per le finalità generali della programmazione economica; dava il proprio concerto ai ministri interessati per la presentazione dei provvedimenti legislativi che comportavano autorizzazioni di spese correnti od in conto capitale per la somma superiore ad un miliardo di Lire, o che comportavano autorizzazioni'di spese in conto capitale a carico di più esercizi finanziari per qualunque importo, o per la presentazione dei provvedimenti legislativi che comportavano diminuzione di entrate o l'istituzione di nuovi tributi o la modificazione di quelli vigenti. Doveva presentare al Parlamento, entro il mese di settembre, di concerto con il ministero del Tesoro, la relazione previsionale e programmatica per l'anno successivo; e sempre in Parlamento esporre, entro il primo giorno non festivo di ottobre, la situazione economico-finanziaria del Paese.

Per quanto concerne il secondo ordine di attribuzioni, ossia quello relativo alla programmazione economica, occorre precisare che il ministero del Bilancio e della Programmazione Economica provvedeva, sulla base dei criteri e delle modalità di cui alle leggi sulle procedure della programmazione economica, all'elaborazione dello schema di programma economico nazionale da sottoporre alle deliberazioni del Consiglio dei ministri, previo parere del CNEL; rende-

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va parere preventivo sui disegni di legge e sugli atti aventi forza di legge rilevanti ai fmni del programma economico nazionale, sulle variazioni di bilancio; promuoveva le iniziative volte all'attuazione del programma stesso, verificando la rispondenza dei piani esecutivi dei ministeri alle direttive del programma stesso. Partecipava di concerto con i ministeri interessati alla presentazione al Parlamento del disegno di legge di approvazione del programma economico del Paese; periodicamente riferiva al Presidente del Consiglio dei ministri e al CIPE sulla situazione economico-finanziaria. A seguito, poi, della soppressione del ministero del Mezzogiorno ne assunse le funzioni.

Per quanto concerne l'assetto organizzativo del ministero del Bilancio e della Programmazione Economica esso si articolava in una Segreteria generale della Programmazione Economica, in una Direzione generale per l'attuazione della programmazione economica, in un Servizio centrale degli affari generali e del personale, in un Consiglio tecnico-scientifico per la programmazione economica, in una Commissione consultiva interministeriale per la programmazione economica, in una Commissione consultiva interregionale per l'esame dei problemi riguardanti le Regioni in materia di programmazione.

L'UNIFICAZIONE DELTESORO E DEL Biicio

Con il decreto legislativo del 5 dicembre 1997, n. 430, si è giunti alla fusione dei due grandi dicasteri economici, unificando e riordinando le funzioni già ad essi attribuite.

Dalle ceneri dei due dicasteri nasce, appunto, il ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica con competenza nei settori della politica economica, finanziaria e di bilancio, della programmazione degli in-

vestimenti pubblici e degli interventi per lo sviluppo economicoterritoriale e settoriale e delle politiche di coesione.

Dette competenze si esplicano nel rispetto dei vincoli di convergenza e di stabilità derivanti dall'appartenenza del nostro Paese all'Unione Europea.

Il ministero coordina la spesa pubblica e ne verifica gli andamenti attraverso i controlli previsti dalle leggi. Ai fini dell'esercizio di impulso, di indirizzo e di coordinamento da parte del Presidente del Consiglio, il ministero deve assicurare il supporto tecnico, conoscitivo ed operativo per l'elaborazione delle politiche generali e di settore; esercitare funzioni e poteri in materia di gestione e partecipazione azionarie, di esercizio dei diritti dell'azionista e di alienazione dei titoli di proprietà dello Stato. Ciò nel pieno rispetto delle deliberazioni del Governo e delle direttive del Presidente del Consiglio dei ministri, nonché delle competenze istituzionali e delle attribuzioni previste per il ministero dell'Industria, del Commercio, e dell'Artigianato e per gli altri ministeri di settore (art. 3, comma 1).

Altre competenze del nuovo dicastero vengono riordinate per specifici settori generali ed omogenei di attività organizzate in forma dipartimentale.

I quattro Dzpartimenti Pii in dettaglio, all'art. 3, comma 2, del d.lgs. 430197, le attività vengono suddivise in quattro ripartizioni.

La prima attiene alla politica economica e finanziaria avendo riguardo all'analisi dei problemi economici, monetari e finanziari interni e internazionali, alla vigilanza sui mercati finanziari e sul sistema creditizio, all'elaborazione delle linee di programmazione economica e finanziaria, alle operazioni di copertura finanziaria e di gestione del debito pubblico ed alla gestione di partecipazioni azionarie dello Stato.

La seconda ripartizione è relativa alle politiche, ai processi e agli adempimenti del bilancio, con particolare riguardo alla formazione e alla gestione del bilancio dello Stato, compresi gli adempimenti di tesoreria e la verifica dei relativi andamenti e flussi di cassa, assicurandone il raccordo operativo con gli adempimenti in materia di copertura del fabbisogno finanziario sopra citato, nonché alla verifica della quantificazione degli oneri derivanti dai provvedimenti e dalle innovazioni normative ed al monitoraggio della spesa pubblica.

La terza ripartizione concerne la programmazione economica e finanziaria, il coordinamento e la verifica degli interventi per lo sviluppo economico territoriale e settoriale e delle politiche di coesione, ed in particolare delle aree depresse, esercitando a tal fine le funzioni attribuite dalla legge in materia di strumenti di programmazione negoziata e di programmazione di utilizzo dei fondi strutturali comunitari.

La quarta ed ultima ripartizione riguarda l'amministrazione generale, del per45

sonale e dei servizi del Tesoro, ed in particolare le attività di programmazione, coordinamento e sviluppo della qualità dei processi e dell'organizzazione; la trattazione degli affari di carattere generale; la gestione delle risorse umane; la gestione dei servizi del Tesoro, comprese le erogazioni a carico del bilancio dello Stato e i servizi diretti all'utenza.

Il decreto 430197 statuisce, inoltre, che le competenze del Ministero devono essere ripartite, con successivo regolamento, in quattro dipartimenti.

Al comma 4, dell'art. 3 del decreto in questione è previsto che il Provveditorato generale dello Stato, che opera nell'ambito del dipartimento individuato per la terza ripartizione delle attività, deve assicurare la consulenza per l'acquisto dei beni e servizi da parte delle amministrazioni dello Stato. Deve provvedere, su richiesta di amministrazioni dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche, all'esecuzione di specifici programmi di approvvigionamento di beni e servizi, anche comuni a pit amministrazioni. Elaborare parametri e criteri in materia di acquisizione e gestione economica delle risorse strumentali da parte delle amministrazioni dello Stato, anche ai fini di valutazioni sulla congruità dei prezzi. Infine, esercitare le attribuzioni previste dalla legge in ordine all'attività dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, nonché in materia di vigilanza e controllo sulla produzione dei valori e degli stampati soggetti a rigoroso rendiconto.

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Gli organi collegiali Tra gli organi collegiali istituiti con il d.lgs. 430197, che coadiuvano il nuovo super dicastero, e che sorgono a seguito della soppressione e/o fusione di altri, si ricorda il Nucleo tecnico di valutazione e di verifica degli investimenti pubblici, nato dall'accorpamento in un'unica struttura del Nucleo di valutazione e del Nucleo ispettivo per la verifica degli investimenti pubblici, già operanti presso il ministero del Bilancio e della Programmazione Economica.

Particolare rilevo assume anche il Consiglio tecnico-scientifico degli esperti con il compito di svolgere attività di elaborazione di analisi e di studio nei settori economici, monetari e finanziari interni e internazionali, che viene a sostituirsi al Consiglio degli esperti e al Consiglio tecnico scientifico già operanti rispettivamente presso il ministero del Tesoro e del ministero del Bilancio e della Programmazione Economica. creato "ex novo", invece, il Centro nazionale di contabilità pubblica, per l'analisi e lo studio della disciplina della contabilità pubblica.

La Cabina di regia Da ultimo si rileva che la Cabina di regia nazionalehl, che ha il compito di curare e coordinare le iniziative in materia di utilizzazione dei fondi strutturali comunitari, è posta alle dipendenze del nuovo dicastero; mentre si prevede l'istituzione di una unità operativa della

Cabina presso l'Unione europea, con il compito di curare gli adempimenti connessi all'utilizzo dei fondi strutturali comunitari. La composizione e le modalità di funzionamento della stessa sono rinviate a successivo regolamento.

Uffici locali e ragionerie Resta necessario evidenziare che il decreto legislativo di cui si tratta ha dettato disposizioni anche in materia di uffici locali e sulle Ragionerie. Infatti, oltre ad aver mutato la denominazione delle Ragionerie centrali in Uffici centrali del bilancio e ad aver rinviato a successivo regolamento la definizione delle funzioni, ha soppresso le Ragionerie regionali devolvendo le relative competenze alle Ragionerie provinciali. A queste ultime sono attribuite anche le funzioni del Ministero, da esercitarsi in sede locale in ordine alla promozione e all'attuazione delle politiche di sviluppo e di coesione ed in particolare per le aree depresse.

Il Czi Per quanto concerne le attribuzioni del CIPE, di cui all'art. 1 del d.lgs. 430197, si rileva che ad esso spettano - sulla base degli indirizzi fissati dal. Governo e sulla base di proposte delle amministrazioni competenti per materia - funzioni di coordinamento in materia di programmazione e di politica economica nazionale definendo in particolare le linee di quest'ultima da perseguire a livello nazionale, comunitario e internazionale, individuando a tale scopo indi-

rizzi e obiettivi prioritari di sviluppo economico e sociale, tenuto conto anche della necessità di perseguire uno sviluppo sostenibile. Spetta al comitato definire gli indirizzi generali di politica economica per lo sviluppo delle diverse aree del Paese ed in special modo delle aree' depresse, verificarne l'attuazione attraverso la cooperazione con Regioni, Province autonome e Enti locali interessati (di cui al d.lgs. 281197, n. 281), approvare piani e programmi di intervento settoriale ripartendo - su proposta delle amministrazioni interessate le risorse finanziarie dello Stato. Il comitato economico esplica funzioni di coordinamento ed indirizzo generale in materia di intese istituzionali di programma e di altri strumenti di programmazione negoziata, per il raggiungimento degli obiettivi generali di sviluppo fissati dal Governo. Spetta ancora ad esso approvare le singole intese istituzionali di programma e la disciplina per l'approvazione ed il finanziamento dei contratti di programma, dei patti territoriali, dei contratti d'area e le altre forme di contrattazione programmata già definite, nonché definirne altre, disciplinandone le modalità di proposta, di approvazione, di attuazione, di verifica e di controllo. Il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, conil d.lgs. 430197, è investito del compito di rideterminare obiettivi e indirizzi sulla base di valutazioni relative all'efficacia degli interventi, riallocando le risorse finanziarie assegnate e 47

non utilizzate in modo adeguato nonché, ferme restando le competenze dell'autorità di settore, definire le linee guida ed i principi comuni per le amministrazioni che esercitano funzioni in materia di regolazione di servizi di pubblica utilità.

Il decreto in questione, inoltre, libera il Comitato da compiti di gestione tecnica, amministrativa e finanziaria, compiti che vengono devoluti alle amministrazioni competenti; abroga i poteri di autorizzazione, di revoca e di concessione di contributi spettanti al Comitato stesso, rinviando a successivo regolamento la disciplina per la devoluzione e abrogazione dei suddetti compiti. Viene alleggerita anche la composizione del Comitato, prevedendo che alle riunioni collegiali partecipino solo i ministri interessati all'argomento all'ordine del giorno e, nel caso in cui il Presidente della seduta sia il ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica possa partecipare un Sottosegretario di Stato al ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica quale rappresentante dello stesso ministero. Viene, infine, limitata la possibilità di delega a soli casi eccezionali. A quanto detto, il CIPE ha provveduto mediante regolamento interno, di cui alla Deliberazione n. 63 del 9 luglio 1998.

Particolare rilievo deve essere dato all'art. 2 della citata deliberazione che sancisce, in ordine alle competenze de48

finite all'art 1, comma 1, del d.lgs.

430197, l'istituzione di sei commissioni: Commissione per il coordinamento delle politiche economiche nazionali con le politiche comunitarie, per l'occupazione e il sostegno e io sviluppo delle attività produttive, per le infrastrutture, per la ricerca e la formazione, per il commercio estero, per lo sviluppo sostenibile. L'attività della Commissione per il commercio estero è, invece, disciplinata dall'art. 24 del d.lgs. n. 143 del 13 marzo 1998.

I restanti nove articoli della deliberazione 63/98 disciplinano le riunioni preparatorie, la loro cadenza e convocazione; recano la disciplina sulle riunioni del Comitato e informazioni sui relativi lavori, sul contenuto del processo verbale, della sua formazione, approvazione conservazione e pubblicità, la disciplina sulla formazione e conservazione delle deliberazioni, sulla loro efficacia e pubblicità.

L'ORGANIZZAZIONE E LE ATTRIBUZIONI IN DETTAGLIO

PIÙ

Con il d.PR del 20 febbraio 1998, n. 38, vengono ripartite in quattro Dipartimenti le attribuzioni già raggruppate in quattro settori o ripartizioni dal pii volte citato d.lgs. 430197. Viene infatti istituito il Dipartimento del Tesoro, il Dipartimento della Ragioneria generale, il Dipartimento per le Politiche di sviluppo e di coesione e il dipartimento dell'Amministrazione generale del personale e dei servizi del Tesoro.

Il Dipartimento del Tesoro ha, fra le proprie competenze: l'analisi dei problemi economici, monetari finanziari interni ed internazionali; l'elaborazione delle linee di programmazione economica e finanziaria sulla base dei vincoli di convergenza e di stabilità relativi all'appartenenza del nostro Paese all'Unione Europea; gli affari economici e finanziari comunitari e internazionali, fatte salve le competenze del ministero degli Affari Esteri; la definizione del fabbisogno Finanziario, dell'indebitamento; la gestione del debito pubblico e le operazioni finanziarie, nonché l'analisi dei relativi andamenti e flussi. Al Dipartimento del Tesoro spetta anche la vigilanza sui mercati finanziari e sul sistema creditizio, la gestione finanziaria delle partecipazioni azionarie dello Stato, l'esercizio dei diritti dell'azionista, la cessione e il collocamento sul mercato finanziario delle partecipazioni azionarie dello Stato e relativa attività istruttoria e preparatoria; la consulenza per l'attività predeliberativa del CIPE e i relativi adempimenti ed, infine, la gestione e la mobilità interna al Dipartimento e la formazione specialista nelle materie di competenza.

Riguardo al Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, il d.PR 38198 sancisce che esso, oltre a svolgere le funzioni di cui al decreto 430197 12 , deve provvedere nel corso dell'esercizio delle medesime alla formazione e gestione del bilancio dello Stato, compresi gli a-

dempimeriti di tesoreria; all'integrazione e consolidamento della gestione per cassa del bilancio dello Stato con i relativi flussi di tesoreria; al monitoraggio degli andamenti di tesoreria e dei flussi di cassa. Altre competenze concernono l'analisi e le tecniche di previsione finanziaria, di copertura finanziaria della gestione di spesa e di minore entrata; lo studio e l'analisi delle problematiche funzionali e applicative dell'informatizzazione dei dati di contabilità dello Stato e dei profili generali di informatizzazione, integrazione e consolidamento informatico dei dati di contabilità pubblica; lo studio, l'analisi e la definizione delle esigenze funzionali e delle specifiche prestazioni che devono essere assicurate per lo svolgimento dei compiti del dipartimento stesso. Analisi, verifica e valutazione dei costi dei servizi e dell'attività delle amministrazioni pubbliche per la programmazione finanziaria e di bilancio e della predisposizione del progetto di bilancio di previsione. Monitoraggio e coordinamento della spesa pubblica, degli andamenti generali della spesa sociale, degli oneri derivanti dall'attuazione della contrattazione collettiva in materia del personale pubblico, analisi e verifica del costo del lavoro pubblico. Il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato partecipa anche al processo di formazione, esecuzione e certificazione del bilancio dell'Unione Europea e dei relativi adempimenti, compresa la quantificazione dei relativi oneri a carico della finanza na-

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zionale; svolge, inoltre, il monitoraggio complessivo dei corrispondenti flussi finanziari ed esercizio dei controlli comunitari affidati all'Unione Europea, gestisce il Fondo di Rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie e del Fondo di garanzia 1 3. Provvede all'ispettorato generale e vigilanza dello Stato nelle gestioni finanziarie pubbliche; svolge attività consultiva per le attività pre-deliberative del CIPE e attua i relativi adempimenti di propria competenza.

Il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione il d.PR 38/1998, a parte le funzioni di cui al d.lgs 430I97 1 , ha il compito di provvedere - d'intesa con le amministrazioni competenti e in raccordo con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Provincie Autonome ovvero della Conferenza unificata 1 5 - a definire gli obiettivi e le politiche settoriali degli investimenti pubblici, curando la programmazione economica e finanziaria degli interventi, ciò sulla base delle linee programmatiche del CIPE. Presenta a quest'ultimo le proposte per l'individuazione degli obiettivi prioritari di sviluppo economico e sociale e attua direttamente gli interventi di competenza del Ministero.

Il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione interviene nella promozione e nella stipula delle intese istituzionali di programma e promuove l'attivazione degli strumenti di programmazione negoziata, in particolare 02

per incentivare gli investimenti nelle aree depresse; è chiamato anche a curare la gestione delle medesime e, a tal scopo, a intrattenere i rapporti necessari con le amministrazioni centrali e periferiche, con enti pubblici economici, con società a partecipazione statale e con imprenditori interessati, ciò anche per la realizzazione di opere di interesse pubblico con la partecipazione finanziaria dei privati. Altri compiti riguardano le iniziative in materia di utilizzazione dei fondi strutturali comunitari. Pii precisamente, il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione partecipa, secondo le direttive del CIPE e per quanto di propria competenza, ai processi di definizione delle relative politiche comunitarie, promuovendo e verificando l'attuazione dei programmi che utilizzano i fondi strutturali comunitari, fermo restando le competenze delle singole amministrazioni interessate. Cura l'inoltro agli organismi comunitari delle richieste di cofinanziamento. Spetta, ancora, al Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione segnalare agli organi competenti di attivare le procedure per l'esercizio dei poteri sostitutivi, in caso d'inerzia o di ritardo imputabile ad amministrazioni statali, amministrazioni o enti regionali o locali, nell'adozione di provvedimenti necessari all'attuazione di interventi cofinanziati. È investito, inoltre, del compito di procedere, nel rispetto delle competenze delle singole amministrazioni pubbliche, allo studio e alla piani-

ficazione degli interventi di sviluppo a livello locale, regionale e pluriregionale ed in particolare per, le aree depresse; adotta, a tal fine, le opportune iniziative necessarie per lo sviluppo delle medesime provvedendo alla valutazione e all'ammissione finanziaria dei relativi progetti e all'erogazione delle agevolazioni. Coordina, per quanto di propria competenza, gli interventi delle amministrazioni pubbliche e vigila sul complesso dell'azione pubblica nelle aree depresse nazionali; dà il proprio supporto e collaborazione alle amministrazioni, agli enti pubblici e privati - su richiesta e d'intesa con i medesimi - in ordine alla promozione e all'attuazione delle politiche di sviluppo e di coesione, compresa l'assistenza per la programmazione, la progettazione e la gestione degli interventi.

Da ultimo, definisce le esigenze funzionali e le specifiche prestazioni e modalità operative necessarie per lo svolgimento dei compiti istituzionali del Dipartimento stesso.

Il Dipartimento dell'Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi del Tesoro ha competenza nel promuovere, coordinare e sviluppare attività di studio, di analisi della qualità dei processi e dell'organizzazione e delle conseguenti azioni innovative, nonché delle proposte e sperimentazioni per migliorare l'utilizzo delle risorse umane e strumentali e dell'efficacia dei servizi finali resi agli utenti dal super dicastero. Ha compe-

tenza in amministrazione e affari generali, gestione contabile, relazioni con il pubblico; cura il coordinamento dell'attività prelegislativa nelle materie di competenza del Dipartimento ed il coordinamento dell'informazione statistica e dei rapporti con il Sevizio statistico nazionale.

Ha la gestione delle risorse umane, compresi assunzioni, trattamento giuridico ed economico, pensionamento, formazione generale, relazioni sindacali, contrattazione e mobilità, ha anche la gestione della mobilità interna e della formazione specialistica nelle materie di competenza.

Dispiega il servizio centrale del Provveditorato Generale dello Stato; il servizio delle pensioni di guerra e assegni vari a particolari categorie, esercitando le funzioni tecniche e amministrative connesse; svolge sevizi relativi all'erogazione di trattamenti economici a carico del Bilancio dello Stato, ovvero mediante convenzione, all'erogazione di trattamenti economici a carico di altre amministrazioni pubbliche.

Rende il proprio supporto delle conferenze di coordinamento e di indirizzo, qualora questo non sia reso nell'ambito di altri Dipartimenti.

Da ultimo, ha il compito di definire le esigenze funzionali le conseguenti prestazioni e modalità operative per lo svolgimento dei compiti istituzionali del Dipartimento stesso.

In conclusione, il nuovo assetto organizzativo e funzionale del dicastero del 51

Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica risulta incentrato in quattro Dipartimenti, di cui i primi due ingiobano le due direzioni storiche del Tesoro: la direzione Generale del Tesoro e la Ragioneria Generale dello Stato a cui si affianca il terzo Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione che eserciterà le funzioni precedentemente dispiegate da ministero del Bilancio e della Programmazione Economica. Questo terzo Dipartimento assumerà un ruolo centrale per le iniziative relative all'utilizzo dei fondi strutturali comunitari. La politica economica, finanziaria e del bilancio invece trova in parte la sua."sede" nel Dipartimento del Tesoro e in parte nel Dipartimento della Ragioneria Generale.

L'aspetto amministrativo, la politica del personale, i servizi generali, il rapporto con l'utenza verrà dispiegato dal quarto Dipartimento dell'amministrazione generale e del personale che a buon ragione può essere definito il motore organizzativo del nuovo ministero.

Altra innovazione da segnalare è il ruolo, organizzato su modello di agenzia, del Provveditorato generale dello Stato, che con la sua attività provvederà all'acquisto di beni e servizi da parte delle amministrazioni dello Stato e, previa richiesta delle amministrazioni interessate, provvederà a specifici programmi di approvvigionamento di beni e servizi.

Infine, è da sottolineare il ruolo di monitoraggio finanziario sull'attuazione della manovra di bilancio e di verifica 52

dei costi e degli andamenti della spesa e la cooperazione con le amministrazioni di spesa che gli uffici centrali di bilancio, già cx Ragionerie centrali, dispiegheranno.

Sembra di poter dire - sulla base di questa prima sommaria ricognizione normativa - che il nuovo dicastero ha "tutte le carte in regola" per poter operare in modo efficiente e razionale e per poter garantire una programmazione economica, finanziaria e monetaria coordinata con l'attività del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica. Non resta, a questo punto, che attendere i primi risultati della riforma, le cui basi, almeno per i primi due Dipartimenti, già Direzioni storiche del Tesoro e per il ruolo del Provveditorato erano già emerse dal Rapporto del Comitato scientifico per la ristrutturazione del ministero del Tesoro, nel 1982.

L'IMPORTANZA DELLA NASCITA DEL NUOVO MINISTERO E DEL RIORDINO DEL CIPE

Sulla necessità di una riforma dei dicasteri economici, sull'importanza di un coordinamento delle funzioni si è discusso più volte in sede parlamentare e non poche sono state le proposte di un loro accorpamento, o di una ridistribuzione delle relative competenze. Sin dall'istituzione del ministero del Tesoro con RD il 26 dicembre 1877, n. 4219, la cui nascita è successiva a quella del ministero delle Finanze (il quale già operava nell'Italia del 1861 e ancor prima nel Regno sabaudo), si è aperta la

strada del confronto, delle polemiche sulla loro utilità e soprattutto sulla ragione di un secondo dicastero. La diatriba è proseguita negli anni sino ad acuirsi con l'istituzione, nel 1947, del terzo dicastero economico: il ministero del Bilancio. Dei tre dicasteri sicuramente un ruolo centrale, e ciò almeno sino al primo ottantennio dell'amministrazione pubblica, l'ha esercitato il ministero delle Finanze 16. Basti ricordare che il ministero del Tesoro nel primo decennio di vita venne affidato ad interim al ministro delle Finanze, venendo di fatto congelato 17; soppresso poi nel periodo fascista venne ripristinato nel dopoguerra. Dal 1944 a! 1947, per ben quattro volte, il ministero del Tesoro fu alternativamente scorporato e unificato al ministero delle Finanze 18; fu quest'ultimo, in effetti, ad essere li vero asse portante" della gestione economica e finanziaria del Paese, ciò anche dopo l'istituzione del ministero del Bilancio.

Quest'ultimo non ebbe vita più facile; infatti, le due direzioni di cui doveva essere dotato non vennero istituite e, dal 1947 al 1951, per ben quattro volte venne richiesta la sua soppressione per giungere poi a prevedere un rafforzamento delle sue competenze solo con legge 27 febbraio 1967, n. 48.

All'esigenza di coordinare la funzione economico-finanziaria e monetaria dispiegata in attribuzioni varie dai tre dicasteri si cercò di rispondere con l'istituto del concerto, attraverso il quale i tre Ministri decidevano con lo stesso

peso in ordine alle scelte economico-finanziarie de! Paese. Ma il medesimo istituto non sempre era previsto e non sempre poteva costituire il punto di raccordo tra accertamento e riscossione delle entrate, e gestione delle spese, cosa che poteva avvenire se il governo dell'economia e della politica monetaria e finanziaria avesse avuto un'unica sede di decisione e di gestione. Si cercò di sopperire a queste esigenze rafforzando le competenze del ministero del Bilancio, della Programmazione Economica, apportando nel 1991 modifiche alle strutture e alle attribuzioni del ministero del Tesoro e di quello delle Finanze 19 La decisione di mantenere in vita tre dicasteri per l'esercizio di un'unica funzione venne, infatti, considerata preferibile a quella di avere un unico ministero responsabile sia per le entrate che per le spese20 Nel 1993, sotto la spinta del Governo tecnico Ciampi, venne caldeggiata dallo stesso Capo di Governo l'unificazione dei tre Dicasteri, proposta che fu inserita nell'ampio ridisegno dell'organizzazione, delle competenze dei ministeri, della Presidenza del Consiglio dei ministri, dei comitati interministeriali, di cui alla L. 537/1993.

Le stesse esigenze di coordinare attribuzioni economico-monetarie, di ridisegnare la PA al centro e in periferia hanno indotto - come già innanzi ricordato all'emanazione della L. 5911997, all'emanazione della L. 94197 e al varo del d.lgs. 43011997 e del d.PR 3811998 di .

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attuazione alle prime. Si è giunti così a riordinare le competenze del CIPE, ad accorpare il ministero del Tesoro con il ministero del Bilancio e della Programmazione Economica e a ridisegnare le competenze del nuovo dicastero. Ma la riforma manca dell'altro dicastero economico: quello delle Finanze. Al riguardo, è embiematico che lo stesso ministro delle Finanze, durante l'esecutivo in cui venne apportata la modifica, si sia espresso su una riforma del proprio dicastero e di un relativo accorpamento con il super dicastero del Tesoro, del Bilancio e Programmazione Economica. Già rilevammo su questa Rivista21 l'importanza di una sede unica dove il programma di sviluppo potesse essere deciso contestualmente con i mezzi necessari per realizzarlo e dove potessero essere decisi emissioni di prestiti ed erogazione delle spese nella stessa sede della loro determinazione; quanto è avvenuto recentemente, in ordine all'organizzazione e al riordino delle competenze in materia economico-finanziaria e monetaria, nonché l'auspicato allargamento del super dicastero economico al ministero delle Finanze, non può che suffragare quanto allora da noi auspicato. ,

LA RIFORMA DEI MINISTERI: UN PERCORSO AD OSTACOLI

L'unificazione del ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica, come già rilevato in precedenza22, fa parte di un ampio ridisegno della PA che dovrà estendersi dagli organi 54

dell'apparato centrale a quelli dell'apparato periferico in cui la cosa pubblica si articola. Tuttavia, come del resto già messo in l uce 23, la stessa riforma della PA ha subito - e subisce - le alterne vicende e vicissitudini della politica. L'attuale riorganizzazione della cosa pubblica, i cui principi sono fissati dalle leggi 5911997, 127/1997 e 191/1998 24 , non esula da tali vicende. Così, con le vicende che hanno condotto all'avvento del Governo D'Alema, la riforma dei ministeri e quella della Presidenza del Consiglio dei ministri, degli enti pubblici, ad eccezione di quelli previdenziali - che costituiscono solo una parte dell'apparato oggetto di riordino - ha subito uno slittamento al giugno 1999. Occorre ricordare, a tal proposito, che già un primo rinvio all'attuazione della L. 5911997 si era avuto dall'autunno 1998 al gennaio 1999 e come da pii parti tale rinvio era stato visto come un serio pericolo per la riforma della PA. Ma nonostante tale rinvio, un altro passo verso lo snellimento dei ministeri si è avuto nel corso del passaggio al nuovo esecutivo. Ci riferiamo alla nascita del ministero per i Beni e le Attività Culturali, istituito con il decreto legislativo del 20 ottobre 1998, n. 368.

Il nuovo ministero, oltre ad avere competenze in materia di beni culturali, si occuperà anche di attività sportiva e di spettacolo 25, assorbendo così competenze del Dipartimento per lo Spettacolo e lo Sport presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. La riforma del ministero in questione e quella del Tesoro e

del Bilancio e della Programmazione Economica, suggestivamente definite come "due Oasi nel deserto" 26, costituiscono insieme alla riorganizzazione del CIPE, della Cabina di Regia nazionale, dell'accorpamento Ispe e Isco nell'Isae i soli esempi di "sburocratizzazione" concretatesi in attuazione alla L. 59/1997.

Ma c'è di più Attualmente, l'apparato dell'amministrazione centrale risulta costituito da venticinque ministeri, contro i ventuno presenti nel Governo Prodi.

Trascurando le opinioni di chi ravvisa nel ripristino di quattro posti di ministro con relativi ministeri: Pubblica Istruzione, (che viene separata dall'Università e dalla Ricerca Scientifica), Affari Regionali, (non più ricompresi con la Funzione Pubblica), ministero per ie Politiche Comunitarie e delle Riforme Istituzionali (già presenti in altre legislature e ora riattivati), una mera logica partitica, nonché l'opinione di chi ne ravvisa invece, per alcuni, un'importanza strategica per un coordinamento di competenze 27, si deve tuttavia evidenziare che di fatto la L. 59/1997 è quella che ha avuto meno applicazione nel disegno di razionalizzazione e "sburocratizzazione" della macchina pubblica.

Sono state apportate, in effetti, una serie di innovazioni in materia di semplificazione amministrativa e di decentramento; basti citare per tutte il d.lgs.

11211998, mediante il quale è stata avviata la distribuzione di compiti fra Stato, Regioni e Enti locali, il regolamento in materia di carburanti, il regolamento

in materia di motorizzazione civile, di contro ie poche riforme dell'amministrazione centrale. Ma proprio perché le riforme sono tra loro connesse, non si potrà avere concretamente vero decentramento e federalismo se non verranno ridefinite le competenze dell'amministrazione centrale e, quindi, se non verrà attuata la riforma dei ministeri, della Presidenza del Consiglio dei ministri e degli enti pubblici. Che la strada della riforma dell'apparato centrale sia stata - ed è la più difficoltosa - lo dimostrano' le vicende e le polemiche che si sono succedute nell'estate scorsa per la creazione del super ministero dell'Ambiente e del Territorio, del ministero per le Risorse Agricole; il richiamo della Corte dei conti ad accelerare la riforma dei dicasteri e le piccole lotte, non sempre sommesse, tra i ministeri stessi e le Regioni in ordine all'effettiva ripartizione di competenze 'tra i medesimi. Ma non solo, la Magistratura contabile si è espressa anche per l'istituzione di un unico dicastero che unifichi le attribuzioni già affidate al ministero del Commercio Estero, per le Politiche Agricole e al Dipartimento per le Politiche di Coesione del ministero del Tesoro 28 e lo stesso ministro Bassanini più volte ha richiamato le amministrazioni inadempienti ad ottemperare a quanto stabilito nella tabella di marcia delle riforme dell'apparato centrale e periferic029.

Alla fine del dicembre 1998, anche il Presidente della Commissione Bicamera55

le sulla PA30 , Vincenzo Cerulli Irelli, ha espresso le proprie perpiessità sull'effettiva "cura dimagrante" dei ministeri. A tal proposito, ha evidenziato non solo il sovrapporsi a livello normativo di principi conflittuali - da un lato, vi sono infatti principi di forte decentramento e, dall'altro, principi centralistici - ma ha altresì posto in luce le resistenze di vario tipo sul versante della piena attuazione della riorganizzazione dello Stato, del decentramento e della semplificazione.

Tutto ciò a riprova di come è tortuosa e lenta la strada dello snellimento dei dicasteri e di come è difficile considerare la pubblica amministrazione al servizio del cittadino (singolo o associato) e non al servizio della logica del potere.

Occorre ricordare, a questo punto, che l'originario disegno della riforma ministeriale del Governo Prodi prevedeva di ridurre il numero dei ministeri a quindici31 , di articolarli in dipartimenti e che un'altra riduzione, addirittura a tredici, fu prevista nel 1994, sotto il Governo Ciampi, dal ministro per la Funzione Pubblica Sabino Cassese. Allora, la riforma non venne attuata in quanto presentata nell'imminenza delle elezioni che portarono un cambio di Governo politico del Paese; oggi, la riforma è rinviata per un passaggio di Governo, anche se la presenza del ex ministro per la Funzione Pubblica Bassanini presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, quale sottosegretario, e presso la Cabina di Regia (che dovrà operare in raccordo

56

con Palazzo Chigi e Palazzo Vidoni), costituisce una sorta di garanzia per la prosecuzione delle riforme. Le riunioni che attualmente si susseguono presso la Presidenza del Consiglio, presso palazzo Vidoni e che vedono presenti i! sottosegratario Bassanini e l'attuale ministro per la Funzione pubblica Piazza, fanno sperare in questo senso e avvalorano la tesi di chi sostiene che in primavera sarà pronta la riforma dei ministeri.

Da ultimo, resta da ribadire (se è ancora necessario!), che la riforma della PA è fondamentale per avere uno Stato efficiente, produttivo e soprattutto competitivo. È, infatti, ben nota l'esigenza delle imprese di avere più libertà di muoversi senza inutili strettoie burocratiche e la recente istituzione dello "sportello unico" risponde in parte a tale esigenza.

Ma non basta: il costo della burocrazia italiana è tra il più alto in Europa e questo, ovviamente, incide anche e soprattutto sulla nostra Bilancia dei pagamenti, in termini di costi e in termini di PIL. Da indagini, studi e ricerche è emerso che l'inefficienza amministrativa, le complicazioni burocratiche e per alcuni versi le troppe regolamentazioni economiche frenano la crescita economica3 2 e lo stesso ex ministro per la Funzione Pubblica, Bassanini, ravvisava nella sburocratizzazione il segnale di uno Stato competitivo e la condizione del concretarsi della cittadinanza europea per il cittadino italiano. Chi scrive, sposa in pieno questa tesi.

Al riguardo si ricorda che già agli inizi degli anni settanta ci fu un tentativo, mai portato a compimento, di revisionare i ministeri; altro tentativo di snellire la macchina burocratica centrale e di dare un ruolo centrale di coordinamento e di impulso alla Presidenza del Consiglio dei ministri vi fu con la L. 40011988. E ancora nel 1994, sotto il Governo Ciampi, venne presentato un pacchetto di riforme dei ministeri. Per un'ampia panoramica sull'evoluzione degli apparati ministeriali cfr. S. SEPE,

Amministrazione e Storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'Unità ai nostri giorni, 1995, p. 169 e ss.

2

In «queste istituzioni», n. 10411995, p. 7385.

Ult. Riv. cit. p. 8 1-85.

Così pure si procederà all'eliminazione di duplicazioni organizzative e funzionali delle altre amministrazioni, sia nella loro struttura interna sia in collegamento con i ministeri che con altri organi tecnici. Inoltre, la razionalizzazione e ridistribuzione delle competenze tra i ministeri, che dovrà avvenire sulla base dei criteri succitati, dovrà tenere conto anche dell'appartenenza dell'Italia all'Unione europea. Da ultimo, si rileva che tutta la riforma è volta a garantire speditezza dell'azione amministrativa e il superamento della frammentazione delle procedure.

5 Per l'organizzazione e le competenze del CIPE, prima dell'attuale riforma, si rinvia al n. 104 di «queste istituzioni».

6 Bilancio, relazione previsionale e programmatica, progetto di legge finanziaria sono strumenti di programmazione economico-fìnanziaria e monetaria. In detti documenti sono contenute le linee di politica e di governo dell'economia del Paese. Cfr. legge n. 468 del 5 agosto 1967 e successive modifiche e integrazioni e la legge n. 94 del 3 aprile 1997 che ha apportato recenti modifiche.

Riguardo al ruolo prioritario del ministero del Tesoro in ordine alla politica economica

vd. F. SEVERIO SEVERI, "Strutture Amministrative per la programmazione economica ", RTDP 1967, p. 788.; P. CIRIELLO, "Ordinamento di governo e comitati interministeriali ' Napoli 1981. Per un'analisi sull'organizzazione e sulle funzioni del ministero del Tesoro vd.: MINI-

Ttsop.o, Organizzazione e jisnzioni del ministero del Tesoro, Rapporto del Comitato

STERO DEL

scientifico della ristrutturazione del Ministero, Roma 1982, pp. 7-51.

8 Si pensi che la Ragioneria Generale, per il ruolo svolto, venne definita come il ministero all'interno del ministero del Tesoro. Ciò spiega anche il perché di una vera e propria lotta - senza esagerare - tra ministero del Bilancio e ministero del Tesoro in ordine alla sua collocazione. In tal senso cfr. S. SErE, ult. op. cit., pp. 236-237.

9 Per un'ampia disamina sul ministero del Bilancio e della Programmazione Economica cfr. D. SERP..ANI, "Il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica' RTDP 1967 p. 67 e Ss.; RTDP 1973,p. 81 ess.

IO In tal senso, F. SEVERO SEVERI, QUADRI

ult. op. cit., G.

"Diritto Pubblico dell'Economia", Napoli

1977, p. 210.

Il La Cabina di Regia Nazionale venne istituita presso il ministero del Bilancio e della Programmazione Economica con DL 23 giugno 1995, n.

244, poi convertito in legge 8 agosto 1995, come centro di riferimento per un efficace utilizzo dei fondi strutturali comunitari nel territorio nazionale e di tutte le risorse finalizzate allo sviluppo delle aree depresse, nonché come sede di definizione delle problematiche e dei relativi interventi connessi alle predette risorse.

12 Le competenze dapprima spettanti al ministero del Tesoro e al ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, ora di competenza del ministero del Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica risultano essere, così come recita l'art.

11 del d.lgs. 430/1997, quelle non modificate o abrogate dal Decreto in questione o da successivi regolamenti di cui all'art. 2, comma 2. Per le medesime cfr. inoltre paragrafo 2.

13 lI fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie è stato istituito con legge n.

183 del 1810411997; il fondo di garanzia è stato istituito con legge n. 196 del 2410611997.

14 Per tali funzioni cfr. paragrafo 3.

IS La Conferenza unificata è prevista all'art. 8 del decreto legislativo n. 281 del 2810811997.

16 In tal senso cfr. S. SErE, Amministrazione e 57

Storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'Unità ai nostri giorni, 1995, p. 180 e SS. 17 Cfr.

S. SEPE, ult. op. cit., p. 236.

Per il ruolo del ministero delle Finanze cfr. «queste istituzioni» n. 110/1997, pp. 131-142; S. SEr'E, ult. op. cir., p. 172 e ss. Per le alterne vicende del ministero del Bilancio, cfr. S. SEPE, ult. op. cit., p. 237.

19 La riforma del ministero delle Finanze è avvenuta con L. 358/1991, quella del ministero del Tesoro con L. 378/1991.

20 Così si espresse la Commissione Piga, cfr.

18

"Riforme del governo e della pubblica amministrazione: la relazione della Commissione Piga" in <'Democrazia e Diritto», 1981, 5, pp. 139160. Cfr. anche MINIsTERo DEL TESORO, op. cit., pp. 3-4. Riguardo al perché i tre ministeri devono essere conservati si riportano i due motivi nel testo poc'anzi citato: "a) innanzitutto, per ciò che riguarda i Ministeri e non gli apparati, per assicurare, in governi di coalizione, una partecipazione di più orientamenti politici alla formulazione e alla esecuzione della politica economica; b) in secondo luogo, con riguardo agli apparati, per non appesantire la gestione, perché uno almeno dei Ministeri, quello delle Finanze, è di grandi dimensioni (105.000 dipendenti e una complessa rete di uffici periferici) e un altro, quello del Tesoro è... di dimensioni medie".

21 Vd. «queste istituzioni», n.104, pp. 77-81.

22 Cfr. paragrafo 5.

23 Cfr. paragrafo I. 24 Per un approfondimento sul recente cambiamento delle pubbliche amministrazioni, vd. «queste istituzioni», n. 112, pp. 1-88.

25 Il nuovo ministero per i Beni Culturali, che assorbe di fatto l'ex ministero dei Beni culturali e ambientali, di cui al d.PR 805/75, ha la tutela e la gestione e valorizzazione dei beni culturali, la promozione delle attività culturali ed in particolare di quelle cinematografiche, teatrali, musicali, di fotografia, arti plastiche, figurative, design industriale, danza, circhi e spettacoli viaggianti; la promozione della cultura urbanistica e architettonica, la diffusione della cultura e dell'arte italiana all'estero; l'alta formazione nei settori di competenza, la vigilanza sul 58

CONI, sull'Istituto per il credito sportivo. Riguardo alla sua organizzazione, si rileva che il Decreto prevede a livello centrale la sua articolazione in direzioni, la riduzione dei componenti del Consiglio dei beni culturali e ambientali che passeranno a venti persone contro i novantotto di prima, nonché la riduzione dei componenti dei comitati scientifici. A livello decentrato opereranno le soprintendenze regionali, unici interlocutori con gli Enti locali per la pianificazione territoriale. Sono previsti anche musei e soprintendenze autonome e il ricorso ad accordi con amministrazioni pubbliche, privati, partecipazioni a fondazioni, associazioni o società per diversificare e potenziare gli strumenti di intervento di salvaguardia del patrimonio culturale e la possibilità di biblioteche pubbliche statali, archivi di Stato, soprintendenze archivistiche e musei, di divenire autonomi. Altra importante innovazione apportata dal Decreto è rappresentata dalle figure del segretario generale e del soprintendente regionale. Il primo, operando alle dipendenze del ministro coordinerà l'attività del ministero e vigilerà sull'efficienza degli uffici; il secondo, nominato dal ministro, coordinerà iniziative e progetti delle soprintendenze provinciali.

26 Definizione di Marco Rogari, «Il Sole-24 Ore», n. 308198, pag. 9.

27 La divisione della Pubblica Istruzione dall'università rappresenta, per taluni, un discorso inevitabile nella prassi, visto che le sedi delle varie competenze sono fisicamente distaccate. Riguardo al ministero per le Politiche Comunitane, la sua istituzione viene vista come apparato di raccordo tra le politiche comunitarie e le linee programmatiche del Governo italiano.

28 Al riguardo va detto che la Corte dei conti, pur riconoscendo l'opera di riordino del ministero dell'Industria, ravvisava la necessità di uno sforzo ulteriore per coordinare tutti gli strumenti diretti al sostegno e all'intervento per la promozione industriale. Ciò al fine di evitare sovrapposizioni di funzioni e di ingorghi procedimentali (Rendiconto Generale dello Stato, capitolo dedicato al ministero dell'Industria).

29 Non sono poche, infatti, le interviste, gli interventi in cui il Ministro ha invitato ciascuna

amministrazione a fare la sua parte per agevolare l'attuazione delle riforme.

30 Meglio conosciuta come Bicameralina.

31 Il Disegno originario prevedeva oltre alla nascita del ministero dell'Economia, dall'accorpamento del ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica e alla nascita del ministero delle Attività Culturali, dalla fusione e dall'accorpamento del ministero dei Beni culturali e di una parte del ministero del Turismo e di una parte del ministero della Ricerca Scientifica e dei dipartimenti della Presidenza del Consiglio dello spettacolo e dello sport, la nascita del ministero degli Affari Interni che ricomprendeva il ministero dell'Interno e la Protezione Civile; del ministero della Protezione Sociale che comprendeva il ministero del Lavoro, della solidarietà Sociale, delle Pari opportunità e del Pubblico Impiego; del ministero degli Affari Esteri, che accorpava

quello degli Esteri, degli Italiani all'estero e una parte del Commercio Estero; ministero dei Trasporti con competenze in trasporti ferroviari, aerei e viari; del ministero della Sanità, che accorpava il ministero della Sanità e una parte della Solidarietà Sociale; del ministero della Pubblica Istruzione che doveva accorpare Pubblica Istruzione, Università e Ricerca Scientifica; del ministero del Mercato e delle Attività produttive che inglobava Industria, Commercio, parte del Commercio estero e una parte del Turismo ed, infine, la nascita del ministero del Territorio che avrebbe accorpato Lavori Pubblici, Ambiente e Infrastrutture per i Trasporti e Aree Urbane; del ministero della Giustizia e del ministero delle Entrate.

32 In tal senso, si veda per tUtti l'indagine svoita dal Centro interdipartimentale di studi internazionali sull'economia e io sviluppo dell'Università di Tor Vergata di Roma.

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Il banchetto di Attagino a Tebe Per una critica della recente legislazione amministrativa di Federico Sp antigati*

I rapporti fra Stato e cittadini in Italia sono guidati dal legislatore verso la graduale dissoluzione dello Stato. Si tratta di un orientamento storico in atto nella legislaziòne italiana sulla amministrazione che ha inizio negli anni settanta.

In tali anni, infatti, la risposta all'erompere di nuovi desideri nella società e alla richiesta dei cittadini allo Stato, di conseguenza, di una diversa organizzazione del potere pubblico, fu data con la strategia dell'attenzione. Questo termine, creato da Aldo Moro, descrive l'uso del potere per ingiobare nuovi desideri nella struttura dello Stato attraverso modifiche di procedimenti e di organizzazione. I cardini dogmatici nella scienza del diritto, per applicare tale indirizzo politico, furono la teoria del procedimento amministrativo e la teoria della funzione amministrativa. Le due teorie immettevano, - la prima dal punto di vista della legittimazione degli interessi alla partecipazione, la seconda dal punto di vista delle priorità nella organizzazione delle risorse -, i nuovi desideri nel

* Docente a contratto di Diritto dell'ambiente, Università di Trento.

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Palazzo senza modificare, tuttavia, la struttura di questo. Su quei cardini girava una porta che faceva entrare nel cortile, ma non nelle stanze.

La strategia dell'attenzione descriveva, infatti, l'accoglimento dei nuovi desideri fra i risultati del Palazzo, cioè nel suo cortile, ma allo stesso tempo, presupponeva, perpetuando lo Stato, che il dominio di classe mantenesse l'esclusiva delle stanze ove si valuta la qualità degli interessi ai fini della soluzione dei conflitti.

Sia la ammissibilità dei modi di espressione dei desideri (legittimazione alla partecipazione nel procedimento), sia la assegnazione di risorse per rispondere ai desideri (competenze di potere nella organizzazione delle funzioni) erano condizionate, nei risultati, dalla natura della amministrazione. Lo stupore miticamente attribuito a Nenni: "Quando entrammo nella stanza dei bottoni, scoprimmo che la stanza non c'era", avrebbe avuto, se è vero che l'espressione è di Nenni, reale fondamento nel fatto che egli entrava nel cortile del Palazzo, non nelle stanze.

Il cortile del Palazzo sono i contenuti del diritto. Le stanze del Palazzo sono, invece, i luoghi ove si decide il risultato

del conflitto di classe, sono le forme di produzione della cultura giuridica. Serve a poco produrre norme se, ad esempio, l'azione dei cittadini è modellata da un dover essere di obbligazione per deferenza personale. Oppure da un dover essere di privilegi stabili per differenza di nobiltà. Oppure da un dover essere di privilegi variabili, secondo attribuzioni personali donate da un vertice sovrano. E così via. Sono tanti, imprevedibili a pr'iori, i modi di risolvere con le azioni i conflitti nella società. Essi non sono prevedibili con le norme che definiscono i contenuti del diritto. Dipendono, invece, dalla presenza nella società delle valutazioni giuridiche, che sono un prodotto culturale e sociale.

La giuridicità che modella una società dipende dalla struttura sociale e dal modo di creare in essa modelli di dover essere. La creazione può essere l'effetto del lavoro professionale dei giuristi.

Può essere, invece, anche indifferente ai risultati del loro lavoro. Può, addirittura, contrapporsi alla produzione scientifica dei giuristi professionali. La presenza o assenza di questo conflitto dipende dalla qualità scientifica dei giuristi. La soluzione, se c'è conflitto, tuttavia non è scientifica, ma politica.

Lo stesso contenuto di diritto ha effetto diverso, secondo differenti criteri di valutazione del diritto. lamministrazione può avere la sua natura nella esecuzione della legge, in tal caso essa è strumento dell'interesse fondamentale a un dover essere oggettivo. Interesse a che esista,

cioè, un criterio oggettivo di valutazione del dover essere, per definire un contenuto stabile del diritto. Oppure: può avere la natura nel porre a confronto differenti interessi soggettivi.

In tal caso, essa è strumento dell'interesse fondamentale alla espressione della pluralità degli interessi. Nel primo caso, l'amministrazione è strumento della borghesia, nel secondo caso è strumento delle classi non borghesi.

I

FRUTTI DELLA "STRATEGIA

DELL'ATTENZIONE"

Le leggi del 1990 n. 241 e n. 142 sono il frutto, giunto a maturazione vent'anni dopo, della strategia dell'attenzione impostata da Moro negli anni settanta.

Con la 241 l'attenzione è sul cittadino, che può, ad esempio, fare accordi con l'amministrazione (art. 11). Con la 142 l'attenzione è sulla comunità locale, che può, ad esempio, promuovere interessi collettivi (art. 6). Entrambe le leggi del 1990 hanno un ideatore teorico principale, Nigro l'una, Pototschnig l'altra, che tuttavia non furono determinanti fino in fondo nella elaborazione delle leggi. Entrambe le leggi già nel titolo sono ambivalenti. "Procedimento" (legge 241) può voler dire iniziativa e può voler dire conformazione. "Autonomia" (legge 142) può voler dire spontaneità e può voler dire collegamento.

I limiti delle leggi dcl 1990 sono stati due: politico e tecnico. Politicamente, la strategia dell'attenzione di Moro ha 61

dato i frutti nel diritto, quando l'indirizzo a livello politico era cambiato. La strategia dell'attenzione era mutata nel suo opposto, la governabilità, vale a dire: mani libere al potere senza riguardi per i cittadini.

Tecnicamente, le due leggi sono state modellate con prodotti scientifici della amministrazione fascista: il procedimento e la funzione. In quanto provenienti da tale origine, i concetti usati nelle due leggi erano inadeguati a dar conto dei problemi, a descrivere le valutazioni di una amministrazione in evoluzione verso la democrazia sostanziale.

I due concetti non tengono conto, infatti, quanto al procedimento, della presenza nella società di interessi inconciliabili fra loro perché irrinunciabili (è il pluralismo degli interessi), anziché conciliabili perché tutti borghesi. La conciliabilità delle valutazioni degli interessi, in quanto espresse in elementi del provvedimento oppure perché c'è ponderazione degli interessi, era presupposta negli schemi teorici del procedimento del 1940 (di Sandulli) e del 1950 (di Giannini).

Il nucleo della teoria del procedimento è che il potere politico pone un preciso interesse a fine dell'amministrazione, con una legge o in altro modo. Attorno alla presenza dell"interesse canonizzato" cioè di un potere politico forte, fascista, che pone il fine, si organizza nel procedimento stabilmente, con regole, l'azione degli interessi soggettivi. È ovvio, anche se finora, a quanto mi risul62

ta, non è stato detto, che la teoria del procedimento amministrativo è superata, diventata scientificamente inservibile, quando il potere politico forte è scomparso, non semplicemente perché è scomparso il Partito Nazionale Fascista, ma per un motivo più profondo: perché i partiti politici sono oggi frantumati e danno luogo al potere politico di coalizione.

FIN! E OBIETTIVI

La coalizione politica, per definizione, non dà indicazione di fini stabili, bensì indicazione di obbiettivi concreti, che sono puntuali, specifici della singola situazione, man mano variabili. La differenza fra obiettivo e fine apparve già nella storia della politica di Atene, con il confronto fra Temistocle e Pericle, descritti l'uno da Erodoto, l'altro da Tucidite.

L'indicazione del fine è stabile, perché è il prodotto di una alleanza. Serve a stabilire un metro comune per misurare, reciprocamente, le azioni degli alleati. Il fine, infatti, è posto con le volontà dei partecipanti.

L'indicazione dell'obiettivo è variabile, all'opposto, perché è il prodotto di una coalizione. Esso è posto, di fatto, con il convergere di azioni mosse da interessi differenti. L'obiettivo, diversamente dal fine, non è con le volontà bensì con i comportamenti dei partecipanti.

Con l'obiettivo, ogni interesse sceglie l'azione per sé. La coalizione esiste per la

convergenza di interessi differenti. Con il fine, invece, ogni interesse decide secondo il fine comune. L'alleanza esiste per la volontà comune del fine in base al quale si decidono le azioni. Il fine, dunque, resta stabile nel variare delle situazioni. Il mutare degli interessi dei partecipanti fa variare le azioni, non il fine di una alleanza. L'obiettivo, invece, varia al variare delle situazioni. Quando varia un interesse partecipante, varia la convergenza delle azioni della coalizione e, di conseguenza, occorre mutare obbiettivo, se si vuole mantenere la coalizione.

La teoria del procedimento amministrativo è applicabile quando amministrare è un confronto tra amministratori e interessi, ovvero Stato e cittadini. Fu applicabile, quindi, quando il potere politico era forte, fascista ("fascista" vuol dire "unitario"), e anche quando procedeva per indicazioni di fine, con alleanze.

Nella società con pluralità di espressione di interessi irrinunciabili, amministrare è confronto fra interessi differenti, a due livelli: il confronto di espressione fra gli interessi, il confronto di formalizzazione fra i poteri.

Il potere decide la soluzione quando c'è potere unitario o alleanza. Quando c'è coalizione, invece, il potere prende atto della soluzione nella espressione degli interessi, ovvero nelle azioni dei partecipanti. L'energia vitale nella alleanza è espressa con la volontà, all'opposto, nella coalizione è espressa con le manifestazioni degli interessi.

Le alleanze politiche hanno avuto termi-

ne in Italia per il fallimento della proposta di compromesso storico, ultima alleanza fra partiti perseguita da Berlinguer e Moro, tramontata per l'uccisione di quest'ultimo nel 1978. Da allora, la politica italiana è retta da coalizioni invece che da alleanze. Prima le coalizioni furono di azioni per interesse al potere, fra partiti, con la governabilità.

Poi, ed ora, esse sono di azioni per interessi divergenti, a seguito della frantumazione dei partiti politici, raggiunta pienamente con la dissoluzione della Democrazia Cristiana (1994). La seconda Repubblica consiste, dal 1994, di coalizioni di interessi invece, come fu la prima, di alleanze di poteri.

La struttura istituzionale si è adeguata alla situazione, con un passo avanti verso la democrazia sostanziale. La teoria giuridica, controllata dalla scienza del diritto, è rimasta, invece, a sbattere le palpebre meravigliata, oppure ha cercato di riportare indietro gli orologi.

Mancando fini stabili all'amministrazione nella situazione istituzionale della seconda Repubblica, non si può più usare scientfìcamente la teoria del procedimento amministrativo. È uno dei tanti attrezzi dello Stato da mettere in soffitta, accanto all'ascia di pietra di società precedenti.

La teoria della funzione amministrativa, anch'essa come quella del procedimento, non è in relazione con la realtà sociale oggi. La necessità di controllare i 63

limiti della funzione da parte di altro potere è inespressa premessa di tale teoria, inestricabilmente legata ai controlli.

Se i controlli non funzionano, la funzione amministrativa è un concetto giuridico inservibile. Ovvero, se viene usato, fa danni.

La teoria della funzione ha già fatto danni inenarrabili nell'amministrazione nel 1976. Definire le funzioni del potere regionale con il decreto 716/1976 castrò le Regioni, togliendo loro l'apporto della autolegittimazione degli interessi e della varietà di tradizioni storiche di relazioni tra amministrazioni e cittadini.

Il 716, non l'art. 117 della Costituzione, rende di fatto le Regioni costituzionalmente irrilevanti, che è quanto tutti i giuristi coccodrillescamente lacrimano dopo il 1976.

La funzione è definita nella teoria giuridica: "potere che ha indicazione del fine da perseguire". Perché ci sia tale fine, occorre che vi sia potere politico adeguato, il che accadde quando esso fu il regime fascista o comunque nei giuristi ne permaneva il ricordo. Qiando il potere politico non è unitario,"cioè è non fascista, diviene decisivo, perché possa esistere la funzione, il fatto che 11,Jimite della funzione possa essere fatto osservare. Diversamente la distinzione delle funzioni diventa un'altra cosa, la pluralità di poteri, ciascuno dei quali agisce secondo gli interessi soggettivi che lo muovono e lo condizionano.

Il pluralismo degli interessi frammenta il potere in pluralità di poteri, ciascuno 64

dei quali agisce per la spinta di interessi soggettivi differenti. Ciascun potere incontra il limite negli altri poteri secondo la reciproca capacità di azione, non secondo la predeterminazione del fine.

Il risultato del potere è, dunque, una composizione di interessi, non una affermazione di volontà.

LAMBIGIJITÀ DELLE LEGGI 241 E 142

Procedimento e funzioni sono oggi sacchetti di sabbia portati con leggi a tentare di arginare lo straripamento del pluralismo. Ciò, nelle leggi 241 e 142, le ha rese ambivalenti.

La 241 inizia affermando "l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge" (art. 1) e prosegue prevedendo "accordi per attività di interesse comune di amministrazioni pubbliche" (art. 15), con i quali le amministrazioni concordano il fine quando più leggi rendono raggiungibile l'obbiettivo a più interessi soggettivi. Praticamente ciò accade sempre, quanto meno per gli interessi socialmente più importanti. Vale a dire, l'art. 15 contraddice nella sostanza l'art. 1: per l'art. i il fine è fissato dalla legge, per l'art. 15 l'accordo tra più amministrazioni determina il fine.

Con analoga contraddizione, la 142 prevede che "il Comune cura gli interessi della propria comunità" (art. 2) e successivamente che "spettano al Comune tutte le funzioni amministrative" (art. 9). Vale a dire: la cura degli interessi è responsabilità del Comune e allo

stesso tempo è fatta per funzioni, le quali sono tipologicamente decise dallo Stato.

La 241 prevede, inoltre, per l'amministrazione il dovere del provvedimento espresso in determinati casi (art. 2) e l'obbligo del provvedimento motivato salvo determinati casi (art. 3). Il provvedimento espresso e il provvedimento motivato sono possibili in relazione alla situazione (motivazione) e alla espressione degli interessi (provvedimento espresso). Se la situazione non consente motivazione, o se gli interessi soggettivi non erano stati espressi, le due norme materialmente non possono avere realizzazione.

Con analoga problematica, nella 142 "il Comune adotta lo statuto", "lo statuto è nell'ambito dei princìpi fissati dalla legge", "il controllo è espletato dal competente organo regionale" (commi 1, 2, 4 dell'art. 4). Lorganizzazione del soggetto che cura interessi di una comunità, in tal modo, riceve princìpi ed è controllata dagli interessi di altre comunità. Se l'organizzazione degli interessi risultante non lo consente, la cura degli interessi materialmente non può avere realizzazione.

Entrambe le leggi, 241 e 142, oscillano fra la espressione degli interessi, del cittadino e della comunità, quale base del diritto (art. 15 legge 241, art. 2 legge 142) e la determinazione della volontà del potere con legge quale base di esso (art. i legge 241, art. 9 legge 142).

Oscillano tra affermazioni di principio

materialmente inapplicabili e realizzazioni applicabili, che di fatto stroncano la linfa dei princìpi.

Una trasformazione dei rapporti fra Stato e cittadini ha disincagliato dall'ambiguità le leggi 241 e 142 nel 1993. Purtroppo tale trasformazione è stata un passo indietro (reazione), anziché avanti (creazione). Il ministero Cassese in tale anno (Cassese quale ministro della Funzione Pubblica) è stato il picco della riaffermazione del valore del potere per l'amministrazione contro la tendenza a valorizzare l'apporto dei cittadini nell'amministrazione espressa nella strategia dell'attenzione. Le leggi 241 e 142 vennero, allora, private delle radici. La "facoltà di qualunque soggetto di intervenire per determinare il contenuto del provvedimento" (legge 241, artt. 9 e 10) e le "proposte dei cittadini per la migliore tutela degli interessi collettivi" (legge 142, art. 6) rimasero come parole nelle leggi, ma furono sommerse dall'attivismo del ministro Cassese.

Secondo il rendiconto di Cassese sul suo anno di ministero (Foro italiano, 1994) "si può dire, con legittimo orgoglio, che mai è stato fatto tanto in così poco tempo". L'elenco dei fatti che segue tale affermazione è lungo. Mai in esso si cita un intervento proposto dai cittadini. I cittadini sono citati per l'accesso, non per l'intervento; per i disagi, non per le proposte. in "ciò che resta da fare" non si parla di ciò che i cittadini vorrebbero. Nelle "carenze principali" si lamenta che i dirigenti non sono forma65

ti per assecondare le direttive politiche e che non sono stati introdotti nell'amministrazione controlli sufficientemente penetranti. Nei "princìpi sull'erogazione dei servizi pubblici", emanati da Cassese con DPCM nel 1994 i cittadini sono utenti e nanno dIi iritti , Cn rronte ai quali esistono "soggetti erogatori, che danno informazioni con rispetto e cortesia. Gli utenti hanno poi tutela con procedure di reclamo.

L'utente deve, quindi, accettare le decisioni politiche dell'amministrazione e ricevere i prodotti che tali politiche consentono. Può esprimere "gradimento", non esigenze. L'amministrazione, a sua volta, è soggetto erogatore di prodotti secondo decisioni politiche prese al di fuori di essa. I servizi pubblici risultano una produzione da valutare secondo qualità e quantità, invece che risposte politiche ad esigenze autolegittimate e rappresentate collettivamente. La teoria del procedimento e quella della funzione, tagliate le radici alla 241 e alla 142, hanno portato allo scoperto le radici originarie: il fascismo. Nessuno Starace aveva ideato un Comitato permanente per il controllo politico di tutti i servizi pubblici in epoca fascista quale è, con altra denominazione pii democratica, nella direttiva Cassese.

L'ambivalenza delle leggi 241 e 142 fu, dunque, sbilanciata da Cassese dalla parte del potere unico centralizzato. La governabilità cancellò nell'indirizzo politico l'attenzione ai desideri espressi nella società da classi che non possono I

66

partecipare al potere borghese, perché i loro desideri si contrappongono alla misura unica di tutti gli interessi. L'indirizzo della governabilità e di Cassese era: tener conto nella valutazione solo del potere. Cassese cancellò dalla rilevanza per la valutazione dell'amministrazione i modi di azione dei cittadini, che possono entrare in comunicazione con la sensibilità degli amministratori.

Prescrisse alla amministrazione modi predeterminati di azione.

CONTRO IL PLURALISMO DEGLI INTERESSI

Nel 1993 l'amministrazione venne così modellata per disegno teorico come meccanismo di volontà, mosso dalle quantità di potere, anziché come sensibilità di attenzione, mossa dalle diverse qualità degli interessi. Nei "princìpi sulla erogazione dei servizi pubblici" del 27/1/1994 gli obbiettivi generali di qualità (cito testualmente) "si riferiscono al complesso delle prestazioni rese", vale a dire sono qualità di utilizzazione del prodotto, non di risultato per i differenti interessi. L'interesse del cittadino per ciascuna delle singole prestazioni ha (testualmente) "obbiettivi di quantità dei servizi Cassese non era Nenni: anziché cercare una stanza dei bottoni, rinunciava programmaticamente a scalfire il dominio di classe degli interessi borghesi. Cercava di mettere in riga gli amministratori nel cortile del Palazzo.

Nel 1994, tuttavia, mentre la volontà di

piegare l'amministrazione ad un robotismo di trasmissione di impulsi centrali aveva raggiunto l'apice nel ministero Cassese, il comportamento contrario dei cittadini nella società distruggeva le basi del robotismo, che erano nella rappresentanza politica.

Il risultato della governabilità fu di mostrare a nudo, da una parte, con il processo di Mani pulite, che i governanti del potere democratico non sono credibili, dall'altro, con le espressioni di voto nei referendum e nelle elezioni, che i governati vogliono dare spazio nei potere con delega a chi propone risultati anziché con elezione a chi rappresenta volontà. L'abolizione del sistema elettorale proporzionale e l'adozione del maggioritario, benché mitigate dalla sapienza tecnica con il mattarellum, una formula mista di sistema elettorale, hanno espresso, comunque, la ripulsa della rappresentanza politica. Si vota, di fatto, per scegliere il capo, non per eleggere i rappresentanti. I rappresentanti, o sono seguaci del capo, oppure non contano nulla.

La società ha generato, dunque, nell'utilizzazione del diritto il dogma "chi vince prende tutto", cioè: "è il capo che decide", contro il dogma della separazione fra politica e amministrazione che era stato fondamentale per l'elaborazione del decreto 2911993. Sta scritto, infatti, nel decreto 29: "chi vince definisce l'indirizzo (art. 14) mentre l'amministrazione è un fatto tecnico da valutare appositamente (art. 20)".

Solo modo per costruire, con l'interpretazione, le disposizioni del decreto 29 oggi è riconoscere che c'é una distanza incolmabile fra scienza del diritto e società, ovvero contrapposizione tra comune sentire dei cittadini e produzione scientifica dei giuristi professionali. A quattro anni e mezzo dalla sua emanazione il decreto 29 è, infatti, in parte inutilizzato in parte insignificante. Fa fede il corna in cui si trova la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.

I politici che cercano ancora rendite di posizione nel potere assicurate un tempo dalla governabilità, ed i giuristi professionali che volonterosamente li assecondano, hanno iscritto nella agenda politica dopo il 1994 il tema delle riforme costituzionali.

Da un lato, il plura.lismo degli interessi nella società preme per ottenere modifiche nella amministrazione. Alcuni casi sono i seguenti. Le politiche di erogazione, e quindi di organizzazione, dei servizi pubblici. La struttura di monopolio dell'economia italiana, e quindi le politiche di comunicazione delle imprese con i clienti e l'amministrazione. La divisione di risorse economiche tra posti di lavoro e lavori non retribuiti, quindi le politiche finanziarie delle amministrazioni. Il rapporto tra ordinamento unitario e multinazionalità nella società, quindi la politica delle culture territoriali nella amministrazione. Problemi che portano alla modifica dei rapporti fra Stato e cittadini. Scomparsa dello Stato 67

a causa della pluralità di interessi irrinunciabilmente differenziati fra loro dei cittadini.

D'altro lato, il Palazzo difende l'esclusiva che ha per le stanze del potere, ove si decide la efficacia di fatto del diritto.

Per questo ha deviato la discussione verso le norme costituzionali, cioè nel cortile. In tal modo, pensa di tenere al riparo le stanze che sono i luoghi ove si formano i convincimenti giuridici dei cittadini. Dibattendo fra esperti i problemi costituzionali, i giuristi professionali suppongono di proporre ai cittadini l'esempio di come migliorare i rapporti fra Stato e cittadini. Il messaggio implicito del loro discutere è "roba da esperti, in cui i cittadini non possono mettere bocca

LA DISSOLUZIONE DELLO STATO

L'insurrezione culturale capitanata da Bossi pone in discussione l'amministrazione del Nord Italia. Problema squisitamente amministrativo, ad esempio, che è deviato, essendo a contatto con l'ignoranza di chi lo propone e la pervicacia di chi non lo risolve, verso il nominalismo della definizione dei rapporti nella Costituzione, in modo che tutto si incagli nelle secche delle discussioni sul federalismo.

Dall'epoca del conflitto fra compromesso storico e governabilità, alla fine degli anni Settanta - quando entrambe le formule politiche in contrapposizione presupponevano la dissoluzione dello

Stato -, lo Stato non è più tema centrale nelle azioni per l'organizzazione del potere. Le polemiche sul federalismo risuscitano il suo nome vuoto nella discussione, per portare a concludere che i problemi sono irrisolvibili.

La legislazione Bassanini guida oggi l'amministrazione verso la dissoluzione dello Stato sulla strada già tracciata da Cassese. Due le caratteristiche della dissoluzione Cassese-Bassanini: a) la totale mancanza di fiducia sia negli amministratori che negli amministrati; b) lo smantellamento, pezzo a pezzo, degli istituti che componevano la struttura dello Stato, distruggendo senza costruire.

La conseguenza della prima caratteristica è che i cittadini ripagano la mancanza di fiducia con uguale moneta. Cassese-Bassanini trattano i cittadini come oggetti, perché non si fidano di loro. I cittadini trattano, dal canto loro, l'amministrazione come oggetto: valutano lo strumento secondo le prestazioni, non secondo la ragione etica. Il giudizio è negativo: le prestazioni dell'amministrazione sono inferiori nell'efficienza a quelle economiche dell'impresa, nell'efficacia a quelle dell'impegno preso volontariamente in formazioni spontanee.

Lo Stato si dissolve, quindi, nella coscienza dei cittadini. Essi non sentono più il legame di un rapporto etico.

Questo presupposto è accettato, sottolineato, base della formazione, nella legislazione Cassese-Bassanini.

La dissoluzione Cassese-Bassanini punta ad ottenere la "riforma e semplifica-

zione" (legge 5911997) e la "razionalizzazione" (legge 127/1997) con l'efficacia dei controlli, e dunque con le sanzioni.

Lamministrazione ha per guida non solo le leggi, come è tradizione, ma anche princìpi fondamentali (art. 4 legge 59), princìpi e criteri direttivi (art. 12 legge 59), atti di indirizzo e coordinamento (art. 8 legge 59). Più ancora che sui cittadini, la dissoluzione Cassese-Bassanini opera sugli amministratori. Il loro ruolo è di esecutori terminali di un disegno elaborato e determinato a un livello di coscienze diverso dal loro. La soggettività degli amministratori, se non tutti sono robot piccolo borghesi, trova espressione, per non essere distrutta, in modi di organizzazione, dei poteri e degli interessi, diversi dallo Stato.

Il risultato della dissoluzione CasseseBassanini è, non solo la riduzione delle formalità dei procedimenti, ma anche la moltiplicazione delle pressioni sugli amministratori per bilanciare automaticità e loro potere di scelta, e la moltiplicazione delle aggregazioni, per bilanciare l'irrilevanza dei singoli ruoli. La mancanza di fiducia nei cittadini e negli amministratori, platealmente esibita da Cassese, accettata senza revisione critica da Bassanini, è un tarlo per la coscienza dei cittadini. Nell'esperienza degli amministratori, acuisce la sensibilità alle correnti nella società di adesione oppure rigetto nei loro confronti. Vale a dire, gli amministratori diventano subordinati alle campagne dei mass media.

Seconda caratteristica della dissoluzione

Cassese-Bassanini è la distruzione, senza costruire, degli istituti del diritto pubblico. Parti della struttura dello Stato fondamentali come la legge, il regolamento, l'atto amministrativo, il procedimento amministrativo sono irriconoscibili, sia per la teoria giuridica che nella prassi operativa, dopo le trasformazioni apportate dalle leggi 59 e 127.

La procedura di normazione prevista nella legge 59 agli artt. 1, 5 e 6 è assai più simile alla elaborazione normativa nella Comunità Europea (iniziativa e decisione burocratiche, con discussione in corso d'opera con i soggetti politici democratici) che a quella tradizionale dello Stato italiano (le leggi del Parlamento, sia pure in Commissione). Il regolamento amministrativo può superare la legge (legge 127), ma può essere soggiogato da princìpi e direttive (legge 59). L'atto amministrativo principale non è più il provvedimento che incide sui diritti, ma la disciplina di altro potere, pubblico e privato (legge 59). Il procedimento amministrativo è sconvolto con l'ampliamento di utilizzazione previsto per la conferenza dei servizi (legge 127).

Non è sufficiente a spiegare la legislazione Cassese-Bassanini l'elenco dei princìpi fondamentali dell'art. 4 legge 59. In esso è implicita la premessa della autorità dell'amministrazione. Questa premessa dovrebbe essere giustificata. Lo schema autorità-libertà, infatti, deve essere giustificato teoricamente per regolare l'amministrazione nella società plura69

lista, non perché l'amministrazione non è più autorità, ma perché i cittadini non credono più alla libertà. Essi sanno che di fatto occorrono pressioni, non bastano i diritti. I cittadini agiscono, invece che per libertà, per autodeterminazione collettiva. Ciò cambia il fondamento della legittimazione, perché esso diventa l'autolegittimazione, invece che essere la legge. Cambia la qualità della comunicazione dei cittadini, perché non è più una invocazione di tutela, ma diventa una pressione di interessi.

La legislazione Cassese-Bassanini esprime la tendenza a privare i cittadini di garanzia verso l'amministrazione, possibile conseguenza della dissoluzione dello Stato. Ualternativa, per mantenere, anzi rafforzare la garanzia, è lo spostamento della garanzia nelle modalità di azione dei cittadini verso gli altri interessi soggettivi e nella comunicazione con l'amministrazione. L'opposto della legislazione Cassese-Bassanini.

UNA CONTRAPPOSIZIONE DI PRINCIPI

La legislazione ha una contrapposizione di principi, dunque, oggi segno opposto all'indirizzo politico che produsse le leggi 241 e 142. Quelle presero atto della ineluttabilità della scomparsa dello Stato quando la società, da borghese che era, diventa pluralista. Miravano a guidare la trasformazione, suscitando energie per nuovi modi di azione dei cittadini e spostando il potere dell'amministratore sulla condivisione di inte70

ressi con gli amministrati. All'opposto, le leggi 59 e 127 esprimono la sfiducia nei cittadini e negli amministratori, stimolano come reazione l'abbandono dell'etica del potere pubblico, vi sostituiscono le decisioni politiche di vertice e l'etica delle ispezioni, privano la società degli istituti teorici di riferimento nel diritto pubblico, la lasciano esposta al controllo totale del potere esercitato senza guida di valori giuridici.

Il rapporto fra le due coppie dileggi non è di successione temporale, ma di contrapposizione di princìpi. L'interpretazione deve tenere conto che l'evoluzione dell'amministrazione secondo il modello Cassese-Bassanini contraddice la tendenza nella società verso la democrazia sostanziale e il pluralismo degli interessi. Le leggi 241 e 142, invece, la assecoridavano.

Le leggi 241 e 142 erano ambigue tra utilizzazione attuale di concetti originati dal regime fascista e aspirazioni attuali nella società verso la democrazia sostanziale. Le leggi 59 e 127 traggono dai concetti fascisti la necessità del controllo centralizzato della qualità dell'amministrazione e mettono il pluralismo interessi entro una gabbia di potere di decisione. Lastricano di diritto la strada verso il totalitarismo.

L'IMPOTENZA DELLA SCIENZA GIURIDICA

L'Italia, dopo la prima Repubblica, si dibatte nel conflitto fra evoluzione verso la democrazia sostanziale (la rappre-

sentazione degli interessi) o, all'opposto, evoluzione verso il totalitarismo (la concentrazione delle scelte nel potere vincente per il dominio di classe). Le leggi del 1990 e le leggi del 1997 sono le une l'espressione di una speranza, le altre l'effetto di un arretramento culturale. Gli applausi alla riforma amministrativa secondo il modello Cassese-Bassanini sono, come accade negli spettacoli televisivi, preregistrati e mandati in onda da una regia estranea alla scienza giuridica. Oppure, se spontanei nella scienza giuridica, sono frutto di insensatezza.

Duemila e cinquecento anni fa l'insensatezza era dolorosamente percepita da chi aveva capacità di elaborazione per vedere nel futuro. La quantità delle risorse e la pompa del potere di decisione avevano accecato chi non vedeva i fattori decisivi dei conflitti, invece, nella qualità di utilizzazione delle risorse e nella intensità dell'interesse soggettivo per il risultato. Ciò accadde nel banchetto di Attagino a Tebe. Analogamente a quel banchetto, il dibattito della scienza giuridica è oggi sontuosamente imbandito, ma cela che l'esito finale è la morte per molti dei convitati.

Prima della battaglia di Platea, riferisce Erodoto, Attagino, princeps fra i Tebani, offrì un banchetto a un pari numero di dignitari persiani e persone eminenti te-

bane. Su ogni letto intorno alla mensa c'erano un persiano e un tebano. Era il luglio del 479 avanti Cristo a Tebe; la battaglia di Platea ebbe luogo in agosto.

Al termine del banchetto, Tersandro di Orcomeno, come egli raccontò poi personalmente a Erodoto, parlò in greco con il persiano a lui accanto. Bevevano, e il persiano piangeva molto. Disse che era convinto che ben pochi dei persiani sarebbero stati ancora vivi, tra non molto. "È questa al mondo l'angoscia pit odiosa: capire molto e sentirsi impotente". Con altra traduzione: "La peggiore delle pene umane è proprio questa, comprendere molte cose e non avere alcun (Erodoto, Storie, libro IX, 16, 5; la prima traduzione è di Barberis, la seconda di Izzo d'Accinni).

Le trasformazioni nei rapporti fra Stato e cittadini apportate, da una parte dagli interessi agenti nella società, dall'altra dalle riforme del diritto, atteggiano la scienza giuridica come il convitato persiano descritto da Tersandro. Distingue, se comprende le radici delle trasformazioni nel pluralismo, il futuro, ma deve prendere atto della sua impotenza, oggi, per arrestare il decadimento culturale ed etico nella trasformazione verso il totalitarismo. Il banchetto di Attagino, così come le trasformazioni in atto, sono riassumibili nella frase: "Comprendere molte cose e non avere alcun potere".

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dossier

Migrazioni del diritto

Il fenomeno della globalizzazione, che non riguarda soltanto l'economia, e la trasformazione delle comunità europee in Unione Europea costituiscono spinte inevitabili al passaggio e allo scambio di norme da un ordinamento all'altro.

Tutto ciò può significare, per un verso, l'integrazione di diverse tradizioni giuridiche in una sorta di meticciato del diritto che non è un fatto negativo ma, al contrario, una ricostituzione di basi comuni per regole diffuse di una società civile allargata. Tanto più quando a ciò si accompagni la riscoperta e la messa a punto di principi generali del diritto. È il processo che sta avvenendo e che si può immaginare possa proseguire, anche alacremente, nell'ambito dell'Unione sia ad opera della fonte comunitaria delle norme sia per l'opera, sempre più importante, del sistema di giustizia comunitario.

Non strettamente collegato è il processo di migrazione del diritto che accompagna la gbbalizzazione dell'economia. Qui si tratta d'altro. Di migrazione di meccanismi giuridici propri dei soggetti forti dell'economia internazionale ai fini delle maggiori transazioni economiche ovvero di creazione di un nucleo di regole che omologhino le pratiche commerciali anche quando i contesti rimangano fra loro dissonanti su tutti i piani. Come dire, una sorta di spuria lex mercatoria. Di questa realtà, Pier Giuseppe Monateri su 73

«Biblioteca della libertà» (settembre - ottobre 1998, n. 146) fa un quadro lucido e spregiudicato (Globalizzando il diritto: "a bordo di auto potentissime su strade secondarie"). Dice, fra l'altro, Ivlontaneri: "La mia.impressione è oggi che i soggetti coinvolti nella globalizzazione siano poco interessati alla sostanza delle regole ( ... ) quanto piuttosto al fatto che una regola esista, e sia facilmente individuabile dal corrispondente locale di un grande studio transnazionale" Il che fa della globalizzazione del diritto un fatto eminentemente professionale.

Gli studi di diritto comparativo, in questo contesto movimentato e caratterizzato da segni diversi, trovano ragioni molto copiose sia sul piano teorico che sul piano più stretto della prassi. Esempi della diversità degli approcci sono gli articoli che pubblichiamo in questo dossier rzp rendendoli dalla rivista «MaastrichtJournal ofEuropean and Comparative Law». Il primo si pone i/problema dei rapporti fra diritto e società e in relazione alla complessità di tali rapporti nega la possibilità o facilità dei trapianti giuridici; i/secondo richiama l'importanza non soltanto della comparazione fra diritti nazionali ma fra le logiche dei grandi compendi giuridici quali il "privato" e il "pubblico " Un tema sul quale sono da richiamare alcune belle pagine di Marco D'Alberti in Diritto amministrativo comparato (il Mulino, 1992).

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I "trapianti giuridici" non sono possibili.

Perché le norme non sono trasferibili. di Pierre Legrand*

Uno studio comparativo non dovrebbe essere volto a individuare "analogie" e "similitudini' come si riscontra spesso nell'impresa, attualmente in voga, di costruire schemi di sviluppo generali. L 'obiettivo dovrebbe essere diametralmente opposto: identicare e definire la specificità di ciascuno sviluppo, le caratteristiche che hanno portato l'uno a conclusioni così diverse rispetto all'altro. Completato questo compito, sarà possibile determinare le cause che hanno condotto alle differenze.

Max Weber

Trapiantare, in base alla definizione contenuta nell' Oxford English Dictionary significa "rimuovere e riposizionare", "trasportare o spostare altrove", "trasferire in un altro Paese o luogo di residenza". Il "trapianto", quindi, implica un trasferimento. Per un avvocato, il trasferimento è qualcosa che si realizza tra giurisdizioni diverse: c'è qualcosa in una data giurisdizione che non è originario, e che è stato trasferito in essa da un altro sistema giurisdizionale. Cosa, quindi, viene trasferito? Si tratta della "norma giuridica" o del "diritto"? Ma cosa intendiamo per "norma giuridica" e cosa per "diritto"? Una risposta a questo interrogativo appare d'obbligo se gli * Professore di Cultura Giuridica Comparata, Tuburg University (NL).

studiosi di diritto comparato intendono tracciare la linea di demarcazione, come credo che la ricerca ermeneutica della comprensione imponga loro di fare, tra i casi di trasferimento aventi come oggetto il diritto e gli altri, non aventi come oggetto il diritto. Malgrado sembrino preferire non discutere esplicitamente di questo punto, gli studiosi dei "trapianti giuridici" sembrano entusiasticamente aver aderito alla accezione formalistica del diritto. Quindi, il concetto di "giuridico" è, in sostanza, riferito riduttivamente a "rules" (regole, norme specifiche) che non vengono solitamente meglio definite ma sono convenzionalmente intese come "strumenti" del fare leggi e, anche se in termini meno perentori, del decidere giudizialmente.

Un valido esempio di questo approccio è offerto da Alan Watson, il quale scrive che per "trapianto giuridico" si intende il "trasferimento di una norma ( ... ) da un Paese a un altro, o da un popolo a un altro". Questo autore, a titolo di esempio, fa riferimento a una serie di norme sui beni dotali che avrebbero viaggiato "dai visigoti per divenire poi il diritto in vigore nella Penisola Iberica nel suo complesso, migrando poi dalla 75

Spagna alla California, e dalla California ad agli altri Stati degli Stati Uniti occidentali". Naturalmente, Watson parla di norme di legge.

IL CARKITERE NOMADE DELLE NORME

Lanalisi di una gamma di ordinamenti giuridici condotta nel lungo termine dovrebbe condurre qualunque studioso della questione "trapianti giuridici" a concludere, per usare le parole di Watson, che "il quadro" è quello di un continuo e massiccio prestito di norme. Il carattere nomade delle norme dimostra, a detta dell'autore, che "l'idea di uno stretto rapporto tra diritto e società" è una convinzione errata. L'evoluzione del diritto è indipendente dalle dinamiche di qualsivoglia substrato sociale, storico o culturale; piuttosto, e molto pRi semplicemente, deriva spesso e direttamente da norme importate da altri ordinamenti giuridici. Infatti, Watson ha scritto che "il trapianto delle norme è un evento socialmente semplice". Portando questa osservazione alla sua conclusione logica, egli afferma che "sarebbe relativamente semplice individuare un codice di base fondamentale di diritto privato vigente ovunque (nel mondo occidentale)". In questo scenario, sostiene Watson, e non mi sorprende, lo studio comparato del diritto, inteso come una "disciplina intellettuale", può essere definito come "lo studio delle relazioni di un ordinamento giuridico e delle sue norme con un altro". Inoltre, 76

gli studiosi di diritto comparato dovrebbero interessarsi solo "dell'esistenza •1 » i i r cii norme simili , e non ei d loro tUnzionamento nell'ambito della società".

In altre parole, gli studi giuridici comparati sono, o almeno dovrebbero essere, incentrati sui "trapianti giuridici" in quanto riguardanti specifiche norme positive (nell'ambito delle principali norme di legge) considerate come elementi separati rispetto alla società.

Un modo semplicistico di considerare le regole giuridiche Non è mia intenzione caricaturare la posizione di Watson. Vorrei, tuttavia, riportare il seguente, e piuttosto lungo, passaggio che è tratto dal suo libro dedicato ai trapianti giuridici. Esso chiarisce il suo modo di intendere la norma "Vorrei citare - scrive Watson - le affermazioni di un ex componente della Commissione Legislativa Scozzese: '... è necessario tenere conto delle soluzioni inglesi anche qualora queste .vengano poi respinte come inadatte al recepimento nelle leggi scozzesi. In molti contesti, le soluzioni inglesi devono essere studiate per identificare le differenze fondamentali rispetto alle leggi scozzesi, dissimulate da analogie superficiali. Gli sforzi finalizzati all'ottenimento di soluzioni unificate nel campo specifico del diritto dei contratti hanno rivelato che tutto ciò che è stato considerato come un terreno comune, in realtà veniva approcciato dai componenti delle sottocommissioni scozzesi e inglesi sul

diritto dei contratti, in base a modelli di pensiero concettualmente diversi.

Mentre la ricerca comparativa inglese si affidava in maniera particolare alle fonti americane e del Commonwealth, i fbndamenti di alcune delle proposte scozzesi derivavano da fonti francesi, greche, italiane e olandesi, e dal Codice Civile Etiopico, che fu redatto, come è noto, da un famoso studioso francese di diritto comparato. A mio giudizio, questo esercizio è troppo accademico. Se le norme di diritto dei contratti dei due Paesi sono già simili tra loro (come di fatto è), non dovrebbe rappresentare alcun ostacolo per la loro unificazione o armonizzazione il fatto che i principi giuridici in esse contenuti provengano di fatto da fonti diverse, o il fatto che i modelli di pensiero delle sottocommissioni della Commissione siano radicalmente diversi. I fattori storici e i modelli di pensiero sono, di norma, problemi importanti per gli studiosi di riforme giuridiche. Gli avvocati e gli uomini d'affari in Scozia e in Inghilterra, di solito, non percepiscono le differenze nei modelli di pensiero, ma esclusivamente, e spesso con irritazione, le differenze tra I te norme Insomma, il diritto è fatto di norme positive (rules), e solo di queste, e le norme sono semplici enunciati propositivi e soltanto questo. Sono tali norme a viaggiare attraverso le legislazioni e giurisdizioni, a essere trasferite, a essere trapiantate. Considerato che le norme non

sono collegate tra loro in maniera significativa sul piano sociale, le differenze legate ai "fattori storici e ai modelli di pensiero" non limitano e non qualificano la loro trapiantabilità. Una norma specifica è potenzialmente trapiantabile ovunque (nel mondo occidentale).

Non condivido le opinioni di Watson, che ritengo forniscano una spiegazione molto povera delle interazioni tra gli ordinamenti giuridici, che è il risultato di una accezione molto semplicistica di ciò che è il diritto e di ciò che è una norma positiva. Tuttavia, a mio parere, chiunque creda nella realtà dei "trapianti giuridici" non può non concordare in senso lato con la posizione di Watson dovendo, infine, accettare, in particolare, un modello di diritto inteso come insieme Iai norme e teI norme intese come "semplici enunciati propositivi"..

Da questo punto di vista, la posizione di Watson, per quanto semplicistica, è rappresentativa dell'unico approccio possibile che deve essere seguito, esplicitamente o meno, dai sostenitori della tesi dei "cambiamenti giuridici intesi come trapianti giuridici". Chiunque accetti la concezione che il "diritto" o "le norme giuridiche" viaggino attraverso i diversi sistemi legali e giurisdizionali, deve considerare il diritto come un'entità in qualche misura autonoma, non gravata dal suo bagaglio storico, epistemologico o culturale. Come potrebbe spostarsi il diritto se non fosse separato dalla società?

Bene, io intendo mettere in discussione ''.

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questa concezione del diritto e, pii specificamente, questa accezione delle norme positive che considero fortemente carente in termini di capacità esplicative. Le norme non sono semplicemente quello che traspare dalla definizione di Watson. E, in considerazione di ciò che sono effettivamente, le norme non possono essere trasferite. Di conseguenza, i trapianti giuridici sono impossibili.

LA NORMA E IL SIGNIFICATO DELLA NORMA

Nessun insieme di parole che abbia la pretesa di essere una "norma" può essere completamente privo di un suo contenuto semantico. Nessuna norma può essere priva di significato. Il significato della norma è un componente essenziale della norma stessa, partecipa della sua "normatività". Il significato di una norma, tuttavia, non è interamente contenuto nella norma stessa; una norma non è mai interamente in grado di spiegarsi da sé. Senza dubbio, il significato emerge dalla norma in maniera tale che si darà per scontato che esista, anche se solo virtualmente e prima dell'avvio del processo di interpretazione. In questo senso, si può dire che il significato di una norma prescinde dal contesto. Tuttavia, il significato è anche, e forse principalmente, funzione dell'applicazione della norma da parte di chi la interpreta, della concretizzazione o della contestualizzazione negli eventi che la norma è preposta a governare. Questa attribuzione di significato risente del modo in cui l'interprete percepisce il contesto 78

nell'ambito del quale la norma emerge, e del modo in cui egli pone le domande. Un processo, questo, che risulta prevalentemente determinato dall'identità dell'interprete e dal luogo nel quale esso si trova, e pertanto, almeno in una certa misura, dalle aspettative e dai desideri (inconsapevoli?) dell'interprete in relazione alle risposte. Il significato della norma è, pertanto, funzione delle assunzioni epistemologiche dell'interprete riferite alla norma stessa, che sono esse stesse condizionate dal punto di vista storico e culturale.

Questi "pre-giudizi" (utilizzo il termine nel suo significato etimologico, e non nella sua accezione negativa), sono attivamente forgiati, per esempio, attraverso il percorso di formazione nel quale sono immersi gli studenti di giurisprudenza e attraverso il quale essi imparano i valori, le convinzioni, le inclinazioni, le giustificazioni e la consapevolezza pratica che consente loro di consolidare un codice culturale, di cristallizzare le proprie identità, e di integrarsi sul piano professionale. Infatti, ancor prima di raggiungere l'università, gli studenti avranno già assimilato un profilo culturale (potremmo dire, il Vorverstandnis di Gadamer), che, sia inglese, italiano o tedesco, caratterizzerà in maniera significativa la loro esperienza di apprendimento nel campo giuridico e la loro interiorizzazione della letteratura e della mitologia che si troveranno a discutere.

Ciascun bambino inglese, per esempio, è un apprendista studioso di common

law molto prima di prendere anche soio in considerazione l'ipotesi di iscriversi a una facoltà di giurisprudenza. Inevitabilmente, quindi, una parte significativa dell'investimento emotivo e intellettuale, vero e proprio, che presiede alla formulazione del significato di una norma si trova al di sotto del livello della consapevolezza, in quanto l'atto di interpretazione è profondamente radicato, in un modo che l'interprete spesso non è in grado di apprezzare empiricamente, in una lingua e in una tradizione, in sostanza, in un intero contesto culturale.

Una interpretazione, quindi, è sempre un prodotto soggettivo, e tale prodotto soggettivo è necessariamente, almeno in parte, un prodotto culturale: l'interpretazione è, in altre parole, il risultato di una particolare accezione della norma che risulta condizionata da una serie di fattori (molti dei quali intangibili), che risulterebbe differente se l'interpretazione si fosse svolta in un altro luogo o in un altro periodo storico (in quanto, in tal caso, sugli interpreti avrebbero gravato premesse culturali diverse). Più specificamente, una interpretazione è il risultato di una distribuzione disomogenea del potere sociale e culturale nell'ambito della società nel suo complesso e nell'ambito di una comunità interpretativa in particolare (i giudici rispetto ai professori e via dicendo), e opera, mediante ripetute articolazioni, per l'eliminazione o Ja marginalizzazione delle alternative. In definitiva, quale interpretazione prevarrà tra la gamma

di interpretazioni in concorrenza tra loro, e quale interpretazione conferirà alla norma una relativa stabilità di significato è funzione delle convenzioni epistemologiche,. generate a seguito dei conflitti tra poteri che sono essi stessi non epistemologici (il che significa che le altre interpretazioni disponibili avrebbero anch'esse promosso la comprensione della norma, se fossero state adottate, anche se in maniere diverse). È importante sottolineare che l'interpretazione che, infine, trascende il conflitto tra le varie interpretazioni non risulta del tutto imperniata, naturalmente, sull'interpretazione soggettiva dell'interprete. Piuttosto, essa dipende in parte da un complesso di elementi intangibili interiorizzati dall'interprete (il quale è del tutto inconsapevole dello svolgimento di questo processo) che caratterizza e, di fatto, limita la soggettività dell'interprete stesso. È più corretto, quindi, considerare l'interpretazione come un fenomeno "intersoggettivo", nel senso che si tratta del prodotto della soggettività dell'interprete che interagisce con la rete di tutte le soggettività nell'ambito di una comunità interpretativa la quale, nel tempo, risulta fondamentalmente costitutiva dei valori articolati di tale comunità, e che rappresenta l'elemento portante dell'identità culturale di tale comunità.

Le norme intese come cultura Facciamo un esempio: quello dei francesi. Nell'attuare una norma per le ra-

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gioni e nel modo in cui fanno, come prodotto del loro modo di pensare, con le aspettative che hanno, i francesi non si limitano a fare un semplice atto di applicazione della norma: essi si trovano a fare un qualcosa di tipicamente francese, e pertanto si richiamano a una modalità di esperienza giuridica che è intrinsecamente francese. Da questo punto di vista, considerato che ciò comunica le particolari sensibilità francesi al diritto, la norma può servire come elemento per mettere a fuoco la concezione francese del diritto e addirittura, la natura dei francesi (j%enchness) tout court. Tutto ciò non può essere considerato o come relativo norma intesa quale semplice enunciato propositivo.

La "normatività" è qualcosa di più che una serie di parole scritte, e cioè, una norma non è identica alle parole scritte.

Una norma è necessariamente una forma culturale capace di incorporare più componenti. Come integrazione di elementi culturali, questa è sostenuta da impressionanti stratificazioni storiche e culturali. Una norma non è dotata di una esistenza empirica che possa essere significativamente distaccata dall'universo di significati che caratterizza una cultura giuridica; la parte è espressione e sintesi del tutto, è un elemento di risonanza. Questo è il punto centrale dell'analisi di Gadamer: "Il significato della parte può essere scoperto solo tramite il contesto, e cioè, in definitiva tramite il tutto". Per inciso, è proprio questa capacità di intravedere il tutto

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nella parte che definisce la competenza interpretativa degli studiosi di diritto comparato. Considerato che la norma esiste nell'ambito di un quadro conoscitivo più vasto, glistudiosi di diritto comparato dovranno metterla in relazione con altri fenomeni in maniera tale da far sì che quella particolare proposizione abbia meno l'aspetto di un evento arbitrario e assomigli di più alla manifestazione di un tutto relativamente coerente e intelligibile. Pertanto, la norma diviene l'inconsapevole elemento di articolazione di una sensibilità culturale che l'osservatore investe nel linguaggio del testo, attraverso un processo di astrazione dal particolare. La tendenza abituale della maggior parte degli studiosi di diritto comparato a concentrare la propria attenzione su confronti basati sul diritto sostantivo può essere resa significativa soltanto se inserita in un contesto che abbracci i punti vista dai quali tali materiali sono stati generati.

Al di là della specificazione, deve esserci una spiegazione del perché ciò che è stato specificato è caratterizzato da date modalità e perché non potrebbe essere diversamente sotto vari importanti aspetti, e come questa specificazione e spiegazione differiscano da altre esperienze di ordinamenti giuridici.

Diritto comparato e concezione del diritto In alternativa a una concezione del diritto inteso come sistema di semplici enunciati propositivi (o "diritto inteso come geometria"!), ritengo che gli studiosi di

diritto comparato possano sperare di ottenere una più significativa visione, spiegazione e critica delle esperienze degli ordinamenti giuridici mediante formulazioni che mostrino una concezione del diritto, per citare Robert Cover, "non meramente inteso (come) un sistema di norme da osservare, ma (come) un universo nel quale noi viviamo". Gli studiosi di diritto comparato devono adottare una concezione del diritto come un significante polisemico che denoti, tra gli altri, referenti culturali, politici, sociologici, storici, antropologici, linguistici, psicologici ed economici. Per usare le parole di Mauss, ciascuna manifestazione del diritto, ciascuna norma, per esempio, deve essere intesa come fait socialtotal', un fatto sociale totale.

RIVISITARE I "TRAPIANTI GIURIDICI"

Se si accetta che una norma riceve il suo significato dall'esterno e se si accetta che tale investimento di significato da parte di una comunità interpretativa partecipa efficacemente della "normatività" della norma, e quindi, fa parte del nucleo stesso della normativita , ne consegue che un "trapianto giuridico" significativo potrà verificarsi solo quando sia l'enunciato propositivo in quanto tale, sia il significato del quale è investito, che congiuntamente costituiscono Lz norma, vengono trasportati da una cultura a un'altra. Dato che il significato investito nella norma ha esso stesso una sua specificità culturale, risulta difficile

comprendere, tuttavia, come questo potrebbe mai accadere. In termini linguistici, si potrebbe affermare che il significato (inteso come il contenuto concettuale della parola), non viene mai trasferito, in quanto si riferisce sempre a una specifica situazione semiologicoculturale. Piuttosto, l'enunciato propositivo, nella sua integrazione tecnica in un altro ordinamento giuridico, è inteso in maniera diversa nella cultura ospite ed è, pertanto, investito di un significato ad elevata specificità culturale diverso dal precedente (non ultimo, il modo stesso di intendere la "norma" potrebbe risultare diverso). Pertanto, un elemento determinante della "normatività" della norma, e cioè il suo significato, non sopravvive al passaggio da un sistema giuridico a un altro. Nelle parole di Eva Hoffmann, "non è possibile trasportare interamente i significati umani da una cultura a un'altra più di quanto sia possibile tradurre un testo".

Questo accade perché, per citare ancora la stessa autrice, "per trasferire una singola parola senza distorsioni, sarebbe necessario trasferire l'intera lingua che la avvolge". Ancora: "per tradurre una lingua, o un testo senza cambiarne il significato, sarebbe necessario trasportare anche il pubblico a cui esso è destinato') . Quindi, il rapporto tra le parole scritte che costituiscono la norma nella sua semplice forma propositiva, e l'idea alla quale esse sono riferite risulta arbitrario, nel senso che è culturalmente determinato. Pertanto, nulla dimostra che 81

le stesse parole scritte genereranno la stessa idea in una cultura diversa, a maggior ragione se le parole scritte sono esse stesse diverse in quanto sono state rese in un'altra lingua. (Come ebbe a scrivere Benjamin, "la parola Brotha un significato diverso per un tedesco rispetto a quello che ha la parola pain per un francese"). In altri termini, quando le parole attraversano i confini, interviene una diversa razionalità e moralità ad avallare e a rendere compiute le parole prese in prestito: la cultura ospite continua ad articolare la propria ricerca morale in base ai suoi standard di giustificazione tradizionali. Pertanto, la forma importata delle parole viene inevitabilmente ascritta a un diverso significato locale che la rende ipsofacto una norma diversa. Quando cambia l'accezione di una norma, cambia il significato della norma stessa. E, quando il significato della norma cambia, la norma stessa cambia. Parafrasando J.A. Jolowicz, l'aggiunta di un litro di vernice verde a quattro litri di vernice gialla non produce lo stesso colore che deriva dall'aggiunta di un litro di vernice rossa a quattro litri di vernice gialla.

Pertanto, il trapianto, di fatto, non si verifica: una caratteristica chiave della norma, e cioè il suo significato, viene lasciata indietro, cosicché la norma che era "lì", in effetti, non viene essa stessa trasferita "qui". Ipotizzando una lingua comune, la situazione è la seguente: vi era una norma (parole scritte a + significato x) e ora vi è una seconda norma, altrove, 82

(parole scritte a + significato y). Non si tratta della stessa norma. (La differenziazione tra le concezioni del diritto non viene superata). In sostanza, il significato non si presta al trapianto. Rimane sempre un elemento irriducibile di autoctonia che limita la ricettività epistemologica nel recepimento di una norma proveniente da un'altra giurisdizione e, quindi, limita la possibilità stessa di un efficace trapianto giuridico. La forma di parole presa in prestito, pertanto, viene rapidamente "localizzata" in base alla capacità integrativa della cultura ospite.

ESEMPI DI "TRAPIANTI GIURIDICI"

Una valida illustrazione di questo fenomeno ci viene offerta dalla sentenza inglese nel caso O'Reilly contro Mackman, che introduce una distinzione procedurale stabilendo che nei casi di diritto pubblico l'attore non può impugnare mediante un'azione ordinaria, e che l'unica possibilità di impugnazione è rappresentata da una richiesta di revisione giudiziale. La differenziazione tra i procedimenti di diritto pubblico e di diritto privato aveva acquistato significato nella Francia del diciannovesimo secolo "in un contesto caratterizzato da procedure giudiziarie inquisitorie, un approccio categorico al diritto, una concezione di una amministrazione statale distinta, e una separazione di poteri che rispondeva alla necessità di avere giudici dotati al tempo stesso di indipendenza giudiziaria e di competenze amministrative". Il suo recente emergere nel diritto

inglese, "in un contesto privo delle caratteristiche del contesto francese del diciannovesimo secolo" ha generato "un ampio dibattito e una profonda incertezza sulla procedura corretta e sul ruolo dei giudici nei procedimenti di diritto pubblico, e sul concetto stesso della distinzione tra procedimenti di diritto pubblico e procedimenti di diritto privato". Di conseguenza, della decisione della Camera dei Lord non si può affermare che abbia "stabilito a fondo" la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, in quanto l'importazione della distinzione dalla Francia avrebbe portato con sé una convergenza tra ordinamento inglese e ordinamento francese.

Il fatto è che la norma che ora si trova in Inghilterra non coincide con la norma francese, malgrado sia proprio quella norma francese ad aver attratto l'attenzione dei legislatori inglesi: la formulazione francese è stata localizzata dalla comunità interpretativa inglese con il risultato che il significato di ciò che sono il diritto pubblico, il diritto privato, un rimedio di diritto pubblico, un rimedio di diritto privato e così via, inevitabilmente risulta diverso nei due ordinamenti. In poche parole, è sempre importante ricordare che "le asserzioni normative non possono modificare le asserzioni culturali

La proprietà da Costantinopoli alla Prussia Per tornare brevemente a Watson, l'inadeguatezza della sua argomentazione

dovrebbe essere, a questo punto, evidente. Prendo in prestito un esempio tratto a caso dal suo libro (che ne contiene molti altri): "prima del Code Civil le normative romane (sul trasferimento della proprietà e i rischi della compravendita) erano generalmente accettate in Francia .... Queste leggi furono recepite anche dal primo codice europeo moderno, l'Allgemeines Landrecht fiir die Preussischen Staaten prussiano del 1794".

Ora, il fatto è che le norme romane erano scritte in latino, e finalizzate a regolare le transazioni tra i cittadini della Costantinopoli del sesto secolo. Le norme francesi cui fa riferimento Watson erano scritte in francese, e finalizzate a regolare la vita dei cittadini nella Francia del periodo precedente la Rivoluzione. E, le norme prussiane alle quali faceva riferimento Watson erano scritte in tedesco, e riguardavano i rapporti legali nella Prussia feudale. Io sostengo (anche se anticipando intenzionalmente la dimostrazione empirica) che le interpretazioni culturali della realtà e del diritto e delle norme nei tre contesti contenessero determinate caratteristiche specifiche che avrebbero, quindi, influito sull'interpretazione della norma, e cioè, che avrebbero determinato la normatività della norma in base alle logiche culturali specifiche degli ordinamenti locali.

Queste norme, pertanto, non sono le stesse norme; qualunque analogia si ferma alla semplice formulazione delle parole stesse. Anche in questo caso, la 83

conclusione non terrebbe conto del fatto che ie parole scritte appaiono in tre lingue diverse, dove ciascuna lingua suggerisce un rapporto specifico tra le parole e il loro contenuto (per esempio: "nessuna lingua suddivide il tempo o lo spazio esattamente come un'altra ... ; nessuna lingua ha gli stessi tabù di un'altra ... ; nessuna lingua immagina esattamente come un'altra").

La costruzione di Watson è semplicistica, come è dimostrato dalla riflessione di John Merryman: "In sostanza, concentrare l'attenzione sulle norme può risultare superficiale e fuorviante: superficiale in quanto le norme sono di fatto adagiate sulla superficie di ordinamenti giuridici le cui vere dimensioni sono da cercare altrove; fuorviante perché saremmo portati a supporre che se le norme sono fatte per somigliarsi tra loro, sia stato ottenuto un risultato significativo in termini di rapprochement". L'argomentazione di Watson è inoltre insidiosa in quanto trascura le spiegazioni ideologiche locali del perché le cose vengano fatte nel modo in cui vengono fatte in relazione a qualsivoglia norma specifica. È errato presentare il diritto come un elemento stabile e monolitico all'interno delle società, e trascurare il fatto che il diritto stesso non può che riflettere le visioni localizzate e particolari degli individui collocati in un determinato contesto culturale, membri di comunità interpretative storicamente ed epistemologicamente con-

dizionate. Extra culturam nihil datur.

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RJEPILOGANDO

Nel migliore dei casi, ciò che può essere trasferito da un ordinamento (jurisdiction) a un'altro è, letteralmente, un insieme di parole privo di significato. Pretendere di più sarebbe troppo. Pertanto, in qualsivoglia accezione dotata di significato del termine, i "trapianti giuridici" non possono avere luogo. Nessuna norma, nell'ordinamento che la prende in prestito, può avere qualsivoglia significato esclusivamente in relazione alla norma com'è nell'ordinamento dal quale è stata presa in prestito. Questo accade perché, quando la norma originale attraversa i confini viene necessariamente sottoposta a un cambiamento che influisce su di essa come norma in quanto tale. La disgiunzione tra il semplice enunciato propositivo e il suo significato, pertanto, impedisce il trasferimento della norma stessa. Prendiamo in considerazione questa affermazione tratta dalla corrente ricerca antropologica sulla cognizione: il fatto che esattamente la stessa parola venga stampata o pronunciata ripetutamente non significa che esattamente lo stesso significato (che è metà della parola) passi inalterato da una mente all'altra.

Per questo, qualunque sostenitore della realtà dei "trapianti giuridici", per giustificare il cambiamento nelle leggi, dovrà inevitabilmente ridurre il diritto alle norme, e le norme a semplici enunciati propositivi. Ciò presuppone che una norma esiste come elemento a sé come dato fondamentale dell'attività giuridica

(e quindi della teoria giuridica), e che essa porta con sé un significato definito a prescindere dall'interpretazione o dall'applicazione. Inevitabilmente, così facendo non si riesce a trattare le norme come elementi attivamente costituiti attraverso la vita delle comunità interpretative. Inoltre, non si riesce a evidenziare il carattere "negoziato" delle norme, e cioè, il fatto che le norme sono il risultato di interessi divergenti e in conflitto all'interno delle società. In altre parole, si elimina dall'equazione la dimensione del potere. Né si riesce a evidenziare l'esistenza di universi morali locali o, se vogliamo, di universi di vita locali, gli universi dei nostri obiettivi quotidiani, della nostra vita sociale e delle nostre attività pratiche. In sostanza, qualunque argomentazione che riduca i cambiamenti che intervengono nel campo del diritto al trasferimento delle norme attraverso i confini è poco più che un semplice esercizio di "reificazione intesa come falsa determinatezza": infatti, la dinamica complessità dello sviluppo del diritto non può essere spiegata mediante un quadro rigido e semplicistico come quello proposto dai sostenitori della teoria dei "trapianti giuridici".

Rimane, tuttavia, aperto un interrogativo. Cosa dire del fatto che le parole scritte, ipotizzando l'esistenza di una lingua comune tra la giurisdizione ospite e quella dalla quale le parole vengono prese in prestito, risultano esse stesse trasferite? Anche accettando le considerazioni che ho discusso in precedenza,

non è forse il fatto che un "trapianto giuridico" si stia verificando al livello delle parole scritte stesse a rivelarsi rilevante per l'ordinamento ospite in termini di crescita del proprio diritto e, quindi, di importanza per gli studiosi di diritto comparato? La risposta non può che essere negativa: non c'è nulla nel prestito di una semplice concatenazione di parole che possa rappresentare il fondamento di una teoria basata sul principio dei "cambiamenti giuridici intesi come trapianti giuridici".

Tutto quello che si può osservare è che i riformatori del diritto a volte trovano comodo, presumibilmente in base a criteri di economia ed efficienza, adottare una formulazione di parole preesistente che è stata formulata dell'ordinamento nel quale essi operano, un qualcosa di simile al modo in cui a volte gli scrittori trovano comodo citare altri autori, alcuni dei quali stranieri. Quello che è in discussione qui è una strategia retorica che chiama in causa l'atto ordinario della ripetizione come un metodo di legittimazione deduttiva. Sostenere che il cambiamento nel diritto sia in maggior parte guidato dall'imitazione equivale a non dire nulla di più, o nulla di meno, del fatto che gli individui hanno la tendenza a guardare al passato per interpretare più facilmente il presente. Questo è evidente nel diritto come lo è nella letteratura o nella matematica. Questa osservazione non può davvero costituire materia di interesse per le teorie giuridiche sulle interazioni tra culture giuridiche diverse.

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A prescindere quasi interamente dalle origini spaziali o temporali delle formulazioni di parole che vengono ripetute e dai contenuti delle formulazioni stesse, naturalmente, sarebbe molto più proficuo allontanarsi da l'énoncé per avvicinarsi a l'énonciation, e cioè, cercare di comprendere in quale modo il fatto della ripetizione, che comporta sempre una sorta di repressione, sia condizionato da un quadro epistemologico particolare, da una mentalité specifica. Il percorso del diritto privato, per esempio, è centripeto, nel senso che è sottomesso all'ordine del postulato del testo del diritto dal quale riceve la propria legittimazione, e verso il quale, pertanto, tenta sempre di tornare. La tradizione del common law rivela un approccio diverso, in quanto essa studia percorsi antecedenti (i "precedenti") intesi come strettamente propedeutici per l'elaborazione di altri percorsi attuali. Ciò che è stato in precedenza è importante nella misura in cui risulta in grado di garantire una funzione esmplificativa. Il percorso del common law non è né un percorso di secondo grado né una semplice facciata. Piuttosto, si tratta di un percorso a sé che amplia continuamente il proprio campo d'azione allontanandosi da un percorso precedente (ma egualmente indipendente). Il common law è centrifugo. In quale modo, quindi, queste configurazioni epistemologiche influiscono sulla disposizione cognitiva dello studioso di diritto privato o dello studioso di common law impegnati

me

nell'atto della ripetizione, oggi? Ecco uno degli interrogativi principali ai quali gli studiosi di diritto comparato devono essere invitati a rispondere.

LA POLITICA DEI "TRAPIANTI GIURIDICI"

Per tornare all'argomentazione dei "cambiamenti giuridici intesi come trapianti giuridici", insisto sul fatto che i sostenitori di questa tesi prestano eccessiva attenzione ai testi scritti a scapito degli elementi intangibili nell'ambito del quale le comunità interpretative operano, e che hanno forza normativa per tali comunità. Un fatto, questo, che automaticamente li relega in una visione limitata del diritto. La loro posizione è, se vogliamo, "astratta". Ma è necessario notare che tale atteggiamento tradisce una decisione politica di marginalizzare la differenza e, correlativamente, di porre l'accento sul fatto che le norme sarebbero identiche. La nozione di "trapianto giuridico" viene utilizzata come comodo sistema per la riduzione della varianza. I sostenitori della tesi dei "cambiamenti giuridici intesi come trapianti giuridici" offrono quella che può essere descritta come una "visione sintetica" incentrata, esclusivamente, sul piano tecnico del diritto. Questa decisione riflette una fiducia in un universalismo astratto che risulta in conflitto con l'evidente declino della razionalità formale, e con la parallela materializzazione del diritto formale caratterizzata dalla crescente prevalenza di argomentazioni

informative di natura sociologica, economica, politica, storica, culturale, epistemologica o etica, piuttosto che di natura concettuale.

Fatto ancora più importante, la tesi dei "trapianti giuridici" tende a scartare l'esistenza di fenomeni qualitativamente differenziati e dei contenuti concreti delle esperienze e dei valori. Questa concezione si preoccupa di individuare schemi la cui assiomatizzazione richiede l'imposizione su esperienze giuridiche effettivamente disparate di una unità razionale a priori. I sostenitori della teoria dei "cambiamenti giuridici intesi come trapianti giuridici" non hanno nulla da dire in materia di pensiero (basti ricordare le parole di Watson nella lunga citazione riportata precedentemente).

Inoltre, chiaramente, la tesi dei "trapianti giuridici" manca di qualsivoglia vocazione critica. È una concezione conservatrice e preferisce lo status quo in quanto privilegia "la conoscenza delle regolarità osservate" per ottenere "certezza, prevedibilità e controllo".

Non a caso, Watson viene accusato di difendere "una visione del mondo fon,, Gamentaimente conservatrice e cii tentare di "banalizzare la politica" con lo scopo di "confutare le tesi dei radicali".

I sostenitori della teoria dei "cambiamenti giuridici intesi come trapianti giuridici" creano un consenso solo apparente che può essere ottenuto solo mediante riferimenti esclusivi agli elementi formalizzati della questione oggetto di discussione e mediante la delegittimaI

I

zione cii nozioni come ia tradizione o la "cultura" le quali, con la loro complessità, agirebbero come variabili esterne irrazionali, interferendo con la produzione e la percezione della regolarità empirica, il tipo di regolarità che viene considerata necessaria per soddisfare "le necessità di regolamentazione del capitalismo liberale (basti ricordare 1 interesse di Watson per le preoccupazioni degli "avvocati e degli uomini d'affari" nella lunga citazione riportata in precedenza).

Le argomentazioni della teoria dei "trapianti giuridici" sono precariamente basate su analogie, su analogie meccaniche.

Il problema, pertanto, è dato dal fatto che nel modo in cui il ragionamento promuove un positivismo esasperato esso non riesce a cogliere ed esprimere la natura multistratificata dell'interazione tra gli elementi costitutivi di un tutto sociale. Il rifiuto o l'incapacità di riconoscere che il diritto agisce come elemento di rifrazione ideologica di premesse culturali profondamente radicate, comunque, non consente di far sparire la realtà: le banane esistono anche se a me non piacciono, e la deriva dei continenti è un fatto concreto anche se non riesco ad avvertirla.

ALTERNATIVE PER GLI STUDI DI DIRITTO COMPARATO

L'etica dell'analisi comparata del diritto va cercata altrove. Gli studi comparativi del diritto sono meglio definiti come la spiegazione e la mediazione ermeneuti87

ca di diverse forme di esperienze giuridiche nell'ambito di un metalinguaggio descrittivo e critico. Considerato che l'insensibilità alle questioni dell'eterogeneità culturale non rende giustizia alle basi specifiche e locali della conoscenza, lo studioso di diritto comparato non dovrebbe mai abolire la distanza tra se stesso e gli altri. Piuttosto, dovrebbe consentire a se stesso di avvicinarsi all'altro e vederlo nel modo in cui esso deve essere visto, e cioè come "altro".

Lo studioso di diritto comparato deve consentire all'altro di comprendere la "sua visione del suo mondo". Pertanto, per lo studioso di diritto comparato definire una tradizione o cultura giuridica equivale a "definire gli elementi significativi della (sua) differenza rispetto alle altre". Il confronto non deve avere un effetto unificante, ma moltiplicativo: deve essere finalizzato a organizzare le diverse evoluzioni su forme (culturali) diverse e contrastare la tendenza della mente all'uniformazione. Il confronto deve affrontare diacriticamente le culture giuridiche. Pertanto, gli studiosi di diritto comparato devono rifiutare energicamente qualsiasi tendenza all'assiomatizzazione della similitudine, in particolare quando l'istituzionalizzazione della uniformità diviene così eccessiva da suggerire che l'individuazione di una differenza dovrebbe spingerlo a riavviare da zero la sua ricerca! Per citare Ginter Frankenberg, "le analogie e la presunzione di similitudine devono essere abbandonate a favore di una rigo88

rosa esperienza pratica di distanza e differenza". Io sostengo che l'analisi comparativa debba implicare "un'analisi primaria e fondamentale della differenza La priorità dell'alterità deve agire come postulato di base per lo studioso di diritto comparato. Assegnare priorità all'alterità in tutti i casi è l'unico modo in cui lo studioso di diritto comparato può tutelarsi contro l'inganno altrimenti teso dalla similitudine delle soluzioni a determinati problemi sociali e giuridici tra culture giuridiche diverse: il fatto che la stessa soluzione (per esempio, 6) possa essere ottenuta moltiplicando due numeri (per esempio, 3 e 2) o sommando due numeri (per esempio, 5 e 1) non è la stessa cosa sul piano cognitivo.

Piuttosto, naturalmente, il successo di questa operazione comparativa dovrà dipendere da una iniziale ricettività rispetto all'alterità dell'altro.

Il diritto è parte dell'apparato simbolico attraverso il quale intere comunità tentano di comprendere meglio se stesse.

Gli studi di diritto comparato possono migliorare la nostra comprensione di altri popoli, chiarendo meglio il loro modo di intendere il diritto. Tuttavia, se lo studioso di diritto comparato non imparerà a considerare il diritto come un fenomeno culturalmente determinato, e non accetterà il fatto che il diritto è profondamente radicato nell'ambito di un discorso ad elevata specificità culturale, e quindi, con forti caratteristiche contingenti, l'analisi comparativa rischierà di trasformarsi rapidamente in

un'impresa senza scopo. Kahn-Freund si è spinto ancora pii in là, e ha osservato che l'analisi comparativa del diritto "si trasforma in un abuso... se è infor-

mata a uno spirito legalistico che ignora la contestualizzazione del diritto

* Una prima versione di questo saggio è stata consegnata all'Università di California, Hastings College of the Law, nei gennaio 1997. 11 saggio è stato pubblicato, in inglese, su «Maastricht Journal of European and Comparative Law», voi. 4, n. 2, del 1997. **N .d .T.: Il termine inglese "rules" è stato tradotto

in modi diversi secondo il contesto. Come "regole, norme specifiche", come "norme di legge", "regole giuridiche" e "norme positive". Ciò si è reso necessario poiché una traduzione letterale, con il termine regole, non sarebbe risultata corrispondente all'uso di questo termine nel contesto giuridico italiano.

(Traduzione di Sergio Ristuccia e Stefano Spila)

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Come diritto pubblico e diritto privato si permeano.

In Europa e all'interno degli Stati nazionali di W Van Gerwen *

Quello della difJisione in campo giuridico è un argomento che attualmente riscuote grande interesse. La ventisettesima conferenza della Vlaamse Juristenvereniging (l'Associazione degli Avvocati Fiamminghi), che si tenne a Bruxelles il 27 aprile 1996 ebbe come tema la diffusione del diritto della Comunità Europea nelle legislazioni nazionali degli Stati Membri. L'argomento del ventitreesimo corso post-laurea Willy De/va tenutosi a Ghent nel 1996, il cui discorso introduttivo è riportato in questo documento, è stato quello della diffusione del diritto pubblico nel diritto privato.

Deve essere innanzitutto chiarì4 la formulazione di queste due forme di. diffusione. La diffusione del diritto comunitario nelle legislazioni nazionali edel diritto pubblico in quello privato non è una strada a senso unico. Le legislazioni nazionali influiscono anch'esse sul diritto comunitario e il diritto privato influenza altrettanto il diritto pubblico.

L'esempio pii visibile di questa prima forma di diffusione è offerto dal dettato

* Professore di Diritto all'Università di Maastricht (Olanda) e all'Università di Louvain (Belgio).

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dell'Articolo 215 del Trattato CEE: il principio della responsabilità non contrattuale della Comunità previsto dall'Articolo si basa sui "principi generali comuni alle legislazioni degli Stati Membri". Stando alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee (nel seguito, la Corte Europea), il ricorso a tali principi generali rappresenta un metodo frequentemente applicato nell'ambito del diritto comunitario. E per quanto concerne la diffusione del diritto privato nel diritto pubblico, questa si può desumere dall'uso ormai annoso e consolidato di strumenti di diritto privato da parte delle autorità pubbliche, in particolare i contratti e le varie forme di impresa.

LA PERMEAZIONE RECIPROCA: PERCHÉ È NECESSARIO IL DIRITTO COMPARATO A TUTTI I LIVELLI

Nella prefazione all'edizione speciale della rivista olandese di diritto Ars Aequi del maggio del 1987 sulla "osmosi tra diritto pubblico e diritto privato", il curatore dell edizione scrisse che nessuna delle due aree del diritto prevale sull'altra: si trovano su posizioni equiva-

lenti. Il diritto privato permea il diritto pubblico e, dal lato opposto, il diritto pubblico permea il diritto privato. È una questione di permeazione reciproca". L'affermazione secondo la quale non esiste un'area che domini l'altra non può essere applicata al diritto comunitario e alle legislazioni nazionali.

Questo non esclude, tuttavia, l'esistenza di permeazione reciproca tra diritto comunitario e legislazioni nazionali, come sarà illustrato nel seguito.

Lo studio del rapporto tra diritto pubblico e diritto privato nell'ambito del medesimo sistema giuridico (di norma, nazionale), rientra nell'ambito della disciplina oggi nota come "diritto comparato interno". Nella nuova Algemeen Deel (Parte Generale) della serie Asser, Vranken si avvale di questo concetto per riferirsi al "fenomeno del giudice civile che guarda al di là dei confini della propria area di specializzazione, trovando basi per le proprie decisioni anche in altre aree del diritto". A seguito della crescente specializzazione e della suddivisione in nuove discipline come il diritto bancario, le leggi a tutela dei consumatori, le leggi sui ttOij, il diritto informatico, le leggi sull'istruzione, le normative edilizie, sanitarie e ambientali, il diritto risulta una disciplina sempre pii frammentata. Il diritto comparato interno dovrebbe contribuire a preservare un sistema giuridico coerente.

Una forma speciale di diritto comparato interno si riferisce alla divisione che ha luogo nell'ambito di una singola area

del diritto, specializzata o meno, a seguito dell'armonizzazione delle normative nazionali nell'ambito dell'Uniòne Europea e, di conseguenza, della diffusione del diritto comunitario. Considerato che ai fini dell'armonizzazione è necessario individuare una base giuridica specifica nei Trattati Europei, l'armonizzazione viene attuata in maniera frammentata mediante misure distinte (Regolamenti o Direttive) che spesso coprono solo materie molto circoscritte.

Il risultato è una marcata frammentazione del diritto comunitario e delle legislazioni nazionali. Le numerose Direttive del Consiglio finalizzate ad armonizzare le legislazioni nazionali in materia di società rappresentano un ottimo esempio di questo stato di cose. In considerazione della portata limitata e dell'eterogeneità delle materie regolate da queste direttive, non risulta disponibile una visione ampia e omogenea del diritto societario fine a se stesso e in rapporto alle aree ad esso adiacenti. Inoltre, nell'ambito degli ordinamenti giuridici nazionali di ciascuno Stato Membro emerge una ulteriore divergenza tra le diverse aree o materie regolate dal diritto societario, o tra le forme di impresa, che sono coperte dalle misure comunitarie di armonizzazione e (di fatto) le aree, le materie o le forme simili che non sono coperte da tali misure. Ne segue una crescente necessità di comparazione giuridica interna sia sul piano del diritio comunitario, e in particolare tra le misure comunitarie di armonizzazio91

MI

ne come le direttive imposte in aree diverse ma collegate tra loro, sia sul piano degli ordinamenti giuridici nazionali tra le normative nazionali che sono influenzate dalle iniziative di armonizzazione dell'Unione Europea e le altre normative nazionali simili che non lo sono. Il diritto comparato interno si distingue dal diritto comparato esterno. Quest'ultimo di norma si riferisce al confronto tra (elementi del) l'ordinamento giuridico del proprio Paese di appartenenza e l'ordinamento giuridico di uno o pii altri Paesi. A seguito dell'accresciuto pluralismo del diritto (nell'ambito del territorio di uno Stato Membro dell'UE, per esempio, le norme del diritto internazionale, le norme europee in materia di diritti umani, la legislazione comunitaria e la legislazione nazionale sono tutte valide simultaneamente), la distinzione tra diritto comparato interno ed esterno è ormai sfumata. Malgrado questi sistemi giuridici siano indipendenti, essi sono strettamente collegati tra loro, e ciò li rende, almeno in ordine gerarchico, ognuno parte integrante dell'ordinamento giuridico dell'altro. Di conseguenza, risulta difficile stabilire se una persona che confronti il diritto comunitario con le legislazioni belga o olandese sia impegnata in un esercizio di diritto comparato interno o esterno.

Il diritto comparato interno non è solo utile, ma è anche necessario: è utile in quanto offre al comparatista una visione di dettaglio dei rapporti o anche delle caratteristiche comuni tra diverse aree 92

giuridiche; ed è necessario perché soddisfa il "requisito della proprietà (eis van behoren): le situazioni identiche tra loro devono essere trattate allo stesso modo indipendentemente dall'area giuridica di pertinenza. Le differenze saranno giustificabili solo nei limiti entro i quali siano basate su argomentazioni razionali (zazelijke)".

PER UNA BUONA APPLICAZIONE DELLA LEGISLAZIONE COMUNITARIA Il diritto comparato esterno, invece, viene di norma ritenuto una disciplina semplicemente utile. Il suo punto di (non particolare) forza si basa esclusivamente sulla sua "autorevolezza".

Tuttavia, quest'ultima impostazione contrasta con il ruolo del diritto comparato esterno nell'ambito dell'Unione Europea in riferimento all'attuazione uniforme della legislazione comunitaria negli Stati Membri. Come è già stato illustrato altrove, questa forma di diritto comparato svolge un importante ruolo strategico da questo punto di vista sia nella creazione, mediante un percorso legislativo o giuridico, di una uniforme legislazione comunitaria sia nella sua esecuzione e attuazione. Nella sua creazione, in quanto per garantire che una legislazione uniforme possa adattarsi (e risultare accettabile) alle legislazioni degli Stati Membri, dovrà essere basata su norme di diritto che risultino un'approssimazione il pi1 possibile vicina agli ordinamenti giuridici nazionali; e nel-

l'attuazione della legislazione uniforme così creata, a seguito dell'obbligo delle autorità nazionali degli Stati Membri, previsto dall'Articolo 5 del Trattato, di garantire che la legislazione comunitaria sia applicata nella maniera pi1 uniforme possibile e che vengano previste procedure legali e giuridiche tali da garantire la tutela legale nell'intera Comunità. In assenza di un preliminare studio comparato (esterno), nessuno di tali criteri di uniformità potrà essere soddisfatto.

Come risulta ovvio da quanto sopra, discuterò la mia tesi in maniera ampia: non c'è semplicemente la diffusione del diritto pubblico nel diritto privato, ma anche il contrario, e quindi la permeazione reciproca tra diritto pubblico e privato (diritto comparato interno orizzontale). Non mi limiterò a trattare la permeazione reciproca a livello nazionale, e cioè tra diritto pubblico e privato belga, ma anche quella tra legislazioni nazionali ed estere (diritto comparato esterno), e tra legislazioni nazionali e sovranazionali (diritto comparato esterno, o forse ormai si tratta di diritto comparato interno?), e anche della permeazione reciproca tra diritto comunitario e la Convenzione europea in materia di Diritti dell'Uomo (diritto comparato - interno o esterno? - a livello sovranazionale). Non intendo affrontare separatamente tutte queste forme di permeazione reciproca, ma piuttosto intendo dimostrare, mediante due esempi di argomentazione giurisprudenziale quanto

queste forme siano strettamente collegate tra loro. Non mi concentrerò troppo su nessuna: mi interessa la foresta, non i singoli alberi.

"ABUSO DI DIRITTI" E "BUONA FEDE" SECONDO DIVERSE PROSPETTIVE DI COMPARAZIONE

Variaties op het thema misbruik ("Variazioni sul tema dell'abuso"), è il titolo di una conferenza che tenni nel 1979 in occasione di un dibattito che si svolse a Leiden per commemorare lo studioso olandese di diritto E. M. Meijers. Nell'ambito della mia relazione confrontai lo sviluppo parallelo del concetto di abuso dei diritti in Belgio e in Olanda (una materia alla quale Meijers, su invito del suo amico Emiel van Dievoet, dedicò un prezioso studio che egli presentò a Leuven nel 1937). Il mio articolo descrive in quale modo in entrambi i Paesi, dopo la Sentenza della Corte Suprema Olandese del 17 aprile 1970 (violazione di proprietà in riferimento a un garage) e la Sentenza della Corte Suprema Belga del 10 settembre 1971 (violazione di proprietà in riferimento a un insediamento) prevalsero i medesimi tre criteri per la determinazione dell'abuso di diritti, e cioè l'esercizio del diritto al solo fine di causare un danno, ovvero senza veri interessi legittimi da far valere; l'esercizio del diritto in maniera tale da infliggere un danno aggiuntivo a un'altra persona, ove tale danno avrebbe potuto essere evitato o contenuto avva93

lendosi del diritto in un altro modo parimenti idoneo per il detentore del diritto; o, infine, l'esercizio del diritto in maniera che, seppure la più idonea per il detentore del diritto, è tale da causare un danno sproporzionato a un'altra persona.

Il requisito della "buona fede" Mentre in riferimento all'abuso dei diritti la legislazione belga si è messa all'avanguardia con la fondamentale sentenza della Corte di Cassazione del 12 luglio 1917, la legislazione olandese ha svolto un ruolo innovativo in relazione al requisito della "buona fede" oggettiva (intesa come opposta a quella soggettiva), e cioè il requisito della ragionevolezza e dell'equità (redelijkheid en billijkheid). In base sia al vecchio sia al nuovo Codice Civile Olandese, questo requisito è "di importanza fondamentale nella determinazione dei contenuti del rapporto tra le parti contraenti". Si distinguono tre tipologie di funzioni: quella interpretativa, quella attuativa (aanvullend) e la funzione restrittiva o derogativa. La terza tipologia, la più controversa, è stata espressamente prevista nel nuovo Codice Civile Olandese. I2Articolo 6:2 par. 2 prevede che una norma valida in base a una legge, a una consuetudine o alla giurisprudenza (rechtshande1ing non sarà applicabile "ove e nei limiti entro i quali questo risultasse inaccettabile nelle circostanze specifiche in base ai criteri di ragionevolezza ed equita 94

In lingua olandese, e dopo breve tempo anche nella letteratura specifica in lingua francese in Belgio, un'ulteriore, speciale forma di diritto comparato interno e di permeazione reciproca, cioè tra i diversi regimi linguistici nell'ambito di un singolo ordinamento giuridico multilingue, il requisito della ragionevolezza dell'equità (e cioè, della "buona fede" oggettiva) sarebbe stato presto destinato a svolgere un ruolo analogo nell'ordinamento belga. Questo è vero in maniera particolare per la funzione attuativa del principio di buona fede che, come risulta evidente dalla giurisprudenza, di fatto assorbe anche la funzione interpretativa. La funzione derogativa, alla quale di norma in Belgio si fa riferimento come alla funzione di moderazione della "buona fede oggettiva", non dovrebbe essere considerata, tuttavia, come un elemento che consenta al giudice di modificare i contenuti dei contratti o di adattarli in considerazione di "circostanze impreviste" ('Imprevision').

Malgrado la teoria sull'abuso dei diritti si sia sviluppata in particolare attorno all'esercizio dei diritti di proprietà, in Belgio in numerose occasioni è stato accettato che l'abuso di diritti possa verificarsi anche quando si esercitino diritti contrattuali. La Corte di Cassazione belga, nella sua sentenza del 19 settembre 1983, mise esplicitamente in relazione tra loro 1 abuso di diritti e la buona fede" (oggettiva). La Corte stabilì a questo proposito che "il principio con-

tenuto nell'Articolo 1134 del Codice Civile che prevede che i contratti debbano essere onorati in buona fede preclude alle parti la possibilità di abusare dei diritti loro concessi ai sensi del contratto".

Con sentenze più recenti, la Corte di Cassazione belga ha chiarito che per una parte contraente potrà sussistere una mancanza di «buona fede nell onorare un contratto se sarà stato dimostrato che tale parte abbia abusato dei propri diritti contrattuali. In altri termini, c'è uniformità tra queste due teorie, nel senso che nell'applicazione della "teoria della buona fede" all'adempimento agli obblighi contrattuali sono previsti gli stessi criteri riferiti all'applicazione della teoria dell'abuso dei diritti nel settore degli obblighi non contrattuali.

Questo è un eccellente esempio di come il diritto comparato interno possa avere come risultato l'omogeneità delle norme giuridiche. Va detto che è anche possibile che la teoria dell'abuso dei diritti, e quindi la dottrina della buona fede in relazione all'adempimento a obblighi contrattuali sarà estesa fino a includere i casi nei quali risulti evidente il mancato rispetto delle aspettative legittime dell'altra parte contraente.

IL PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ NEL DIRITTO PUBBLICO AI VARI LIVELLI

Il principio di proporzionalità viene riconosciuto in Belgio nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato.

La Corte Costituzionale si avvale di que-

sto principio all'atto di verificare, in riferimento al principio di uguaglianza, le norme legislative (leggi a maggioranza qualificata, leggi ordinarie, decreti e ordinanze) rispetto ai diritti e alle libertà garantiti dalla Costituzione o da trattati internazionali aventi effetti diretti. Il trattamento disuguale di categorie specifiche di persone, o il trattamento identico di persone che si trovino in condizioni sostanzialmente diverse, può essere giustificato solo in presenza di motivazioni ragionevoli. Stando a una sentenza della Corte Costituzionale del 13 gennaio 1994, l'esistenza di tali motivazioni dovrà "essere valutata tenendo conto degli obiettivi e degli effetti della misura contestata e della natura dei principi attinenti; il principio di eguaglianza sarà stato violato se dovesse essere stabilito che non esiste alcun rapporto proporzionale tra le misure adottate e l'obiettivo perseguito". Nella sua prima sentenza riguardante una violazione del principio di uguaglianza, per esempio, la Corte Costituzionale invalidò le disposizioni di legge in quanto queste danneggiavano eccessivamente la libertà di associazione.

Il Consiglio di Stato belga e, più di recente, la Corte di Cassazione, adottano anch'essi il principio della proporzionalità nella verifica degli atti amministrativi in relazione al principio di uguaglianza. Nella sua sentenza del 5 ottobrè 1990, per esempio, allineandosi alla Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione stabili che l'esistenza o la non esistenza di motivazioni oggettive e ragio95

nevoli a sostegno di un trattamento (fiscale) disuguale "dovrà essere verificata rispetto all'obiettivo e agli effetti delle imposte prelevate e rispetto alla ragionevolezza del rapporto tra le misure adottate e gli obiettivi perseguiti". La comparazione interna della giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato rivela pertanto una applicazione uniforme del principio di uguaglianza e, in riferimento a tale principio, del principio di proporzionalità. Per quanto concerne quest'ultimo principio, questi organi giudicanti adottano una "verifica marginale", "nell'ambito della quale il giudice si limita a condannare i casi palesi di mancanza di proporzionalità senza esaminare se gli obiettivi avrebbero potuto essere perseguiti mediante altri mezzi".

Naturalmente, il principio della proporzionalità non è stato inventato dai giudici belgi. Tale principio si è sviluppato fino a raggiungere la forma piena a seguito della legislazione sovranazionale comprendente sia il diritto comunitario sia la convenzione europea in materia di diritti dell'uomo. Ho già discusso in un'altra occasione il ruolo del principio della proporzionalità nel diritto comunitario, sia in relazione all'esame di un provvedimento nazionale riguardante la libertà di movimento di persone, beni e servizi, sia in relazione a tale esame rispetto ai diritti di base e alle libertà fondamentali. È sufficiente citare un estratto della sentenza del 13 novembre emessa dalla Corte Europea nel caso Fedesa:

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"La Corte ha sempre ritenuto che il principio della proporzionalità sia uno dei princìpi generali del diritto comunitario. In virtù di tale principio, la legittimità della proibizione di una attività economica è soggetta a una condizione che prevede che le misure proibitive siano adeguate e necessarie ai fini di ottenere gli obiettivi legittimamente perseguiti dalla legislazione in oggetto; ove vi sia una scelta tra più misure adeguate, si dovrà fare ricorso alla meno onèrosa, e gli svantaggi causati non dovranno risultare sproporzionati rispetto agli obiettivi perseguiti" (punto 13).

Anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (ECHR) adotta il principio della proporzionalità ormai da tempo, e di fatto in maniera analoga a quella della Corte Europea. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo si avvale di questo principio per esempio, per stabilire se le limitazioni al diritto alla libertà di espressione garantita dall'Articolo 10, par. 1 della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo e sulle Libertà Fondamentali siano ammissibili, in considerazione del par. 2 dello stesso Articolo, che prevede che la limitazione debba essere "prevista dalla legge" e "necessaria in una società democratica" per tutelare gli interessi che vengono in essa specificati. Perché questo requisito possa essere soddisfatto, la limitazione non dovrà costituire una misura sproporzionata rispetto all'obiettivo perseguito. Nella sua sentenza nell'ambito del caso Tolstoy Miloslavsky contro Regno Unito del 13

luglio 1995, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo accettò quindi che il considerevole risarcimento concesso per diffamazione non era ragionevolmente proporzionato al danno inflitto all'altra parte. La Corte ne desunse che una somma così elevata non era necessaria per tutelare la reputazione di una persona in una società democratica.

La summenzionata comparazione interna tra aree diverse della legislazione belga dimostra come il principio di proporzionalità sia intrinseco nella giurisprudenza dei tre tribunali di secondo grado del Belgio. Le ricerche di diritto comparato esterno sulla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e della Corte Europea rivelano come lo sviluppo di questo principio in Belgio sia stato innescato dall'influenza dei due Tribunali Sovranazionali. Comunque, la storia non finisce qui. Le ricerche di diritto comparato esterno mostrano come di fatto il principio sia stato preso a prestito in particolare dal sistema giuridico tedesco, nel quale, come estensione del principio de Rechtsstaat, viene considerato come un mezzo per la tutela del cittadino contro le autorità; i mezzi impiegati dalle autorità per il raggiungimento di un obiettivo specifico non solo dovranno essere adeguati e necessari, ma inoltre non dovranno comportare svantaggi sproporzionati per i cittadini.

Prima della istituzione della Convenzione europea in materia di diritti dell'uomo e del diritto comunitario questo

principio veniva applicato anche nel diritto francese, anche se non raggiunse mai la medesima maturità teorica riscontrata nel diritto tedesco. In Francia, risulta particolarmente importante come ampliamento del "principe de légalité" nell'ambito della verifica della legittimità degli atti amministrativi nei settori nei quali alle autorità siano stati concessi forti poteri discrezionali, come nei casi del mantenimento dell'ordine pubblico, delle misure di intervento in economia e delle sanzioni disciplinari.

Nel diritto inglese, fino a poco tempo fa, il principio era nascosto sotto la superficie, ma viene oggi adottato nelle questioni di diritto nazionale regolate dal diritto comunitario; inoltre, sembrerebbe che il principio inizi a essere adottato anche in altri settori della legislazione nazionale come ampliamento, e affinamento, della verifica di irragionevolezza "Wednesbury". In Belgio e in Olanda, il principio fu utilizzato inizialmente e soprattutto in riferimento alla valutazione delle sanzioni disciplinari, ma gradualmente si conquistò una portata più ampia come principio di corretta amministrazione.

UNA PERMEAZIONE RECIPROCA PIU AVANZATA: ABUSO DEI DIRiTTI E PROPORZIONALITÀ NEL DIRITTO PUBBLICO E NEL DIRITTO PRIVATO

Labuso di diritti nel diritto privato e la proporzionalità nel diritto pubblico hanno molte cose in comune. Come già detto in precedenza, i tre criteri classici 97

per determinare un abuso di diritti sono: che il diritto non potrà essere utilizzato in assenza di una finalità utile alla persona titolare del diritto stesso; che tale persona non potrà scegliere un mezzo per esercitare il proprio diritto che risulti causa di maggiore danno a una terza persona se esiste un metodo alternativo che risulti ugualmente vantaggioso per la persona stessa; e che, anche se il modo in cui il diritto viene esercitato garantisce maggiori vantaggi alla persona titolare del diritto, tale persona dovrà rinunciare all'esercizio del diritto secondo tali modalità se così facendo dovesse causare un danno sproporzionato a una terza parte. Come ho già sostenuto in altre occasioni, questi tre criteri classici per determinare un abuso di diritti sono molto simili alla verifica a tre fasi prevista dal principio di proporzionalità. Questa verifica intende, di fatto, fornire una risposta a tre domande: se la norma, che è l'oggetto della valutazione è idonea per raggiungere gli obiettivi perseguiti; se sia essenziale, e cioè se potrebbe essere sostituita da una norma alternativa che risulti meno onerosa per l'altra parte interessata; e se la norma è, anche se essenziale nel senso di cui sopra, non sproporzionatamente onerosa per una terza parte.

In altre occasioni ho anche tentato di dimostrare che il principio di proporzionalità può servire a tutelare anche i diritti fondamentali, e a valutarli tra loro e rispetto ad altre libertà, nei rapporti di diritto privato. Un esempio di que98

sta circostanza può essere individuato nell'applicazione del principio di proporzionalità nel diritto societario.

L'abuso di diritti nel diritto sovranazionale In questa occasione, preferisco evidenziare un'altra dimensione del principio dell'abuso di diritti, e cioè il suo impiego nell'ambito del diritto comunitario in Europa, e quindi del diritto sovranazionale. L'interrogativo che emerge è se i cittadini dell'UE possano abusare delle libertà ad essi concesse nell'ambito del diritto sovranazionale, per esempio, la libertà di costituzione o la libertà di movimento dei servizi (rispettivamente, Art. 52 e 56 del Trattato CEE). In altri termini, si tratta di stabilire se il principio dell'abuso serva a limitare l'esercizio ditali libertà. Di recente, tale questione è stata indagata in maniera approfondita in riferimento al diritto di costituzione delle società, a seguito della sentenza della Corte Europea del 12 marzo 1996 nel caso Pafitis. Senza che questo fosse stato richiesto dal tribunale nazionale, la Corte precisò nella propria sentenza che l'applicazione del principio dell'abuso non avrebbe dovuto influire negativamente sulla piena validità e sull'applicazione uniforme delle disposizioni comunitarie negli Stati Membri. Pertanto, la sentenza indica che nell'analisi finale è compito della Corte interpretare il principio di abuso nei casi in cui questo venga applicato a libertà previste dal diritto comunitario.

I2argomentazione secondo la quale esiste spazio sufficiente per un principio di abuso comunitario (in vigore congiuntamente e a complemento del principio di proporzionalità sviluppato dalla Corte Europea), è stata difesa con successo con riferimenti alla giurisprudenza della Corte e ai pareri dei suoi Procuratori Generali. Tale giurisprudenza rivela come fino ad oggi la questione sia stata sollevata in riferimento all'uso improprio delle libertà, e cioè al loro uso per eludere le disposizioni delle legislazioni nazionali (e tra queste, le normative fiscali). La giurisprudenza mostra come la Corte Europea riconosca l'esistenza di un ruolo per gli Stati membri nella lotta agli abusi piui flagranti, purché gli Stati membri, nell'esercizio dei rispettivi poteri, non rendano illusorie le libertà di mercato e non le utilizzino in maniera discriminatoria o sproporzionata. Se quindi il principio sembra essere stato accettato, permane una forte incertezza riguardo alla sua definizione, in quanto alcuni degli interrogativi di fondo restano irrisolti. Per esempio, l'abuso nell'esercizio di diritti specifici ricopre il medesimo ruolo riscontrato nell'esercizio delle libertà? Le libertà contenute nel diritto comunitario, che sono riferite specificamente all'istituzione del mercato interno, hanno una portata simile a quella delle libertà fondamentali contenute nella Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo? Tali libertà orientate al mercato non impediscono agli Stati Membri di combattere gli abusi, sebbe-

ne in considerazione di un interesse legittimo che sia compatibile con il diritto comunitario e senza influire sulla sostanza della libertà in oggetto.

DIRITTO PRIVATO E PUBBLICO IN MATERIA DI RESPONSABILITÀ CIVILE NON CONTRATTUALE A LIVELLO NAZIONALE E SOVRANAZIONALE

Il problema del conflitto tra legislazioni in materia di responsabilità contrattuale e non contrattuale deriva dalle differenze esistenti tra i due regimi di responsabilità del diritto privato. La ricerca del diritto comparato esterno ci mostra che queste differenze esistono in tutti i sistemi giuridici e che il problema del conflitto si presenta in tutti i sistemi. Le soluzioni messe a punto possono risultare del tutto opposte tra loro a seconda che la scelta tra l'uno e l'altro regime sia lasciata all'attore (come è in linea di principio nel diritto inglese), o che sussista il divieto di cumulo (come nel diritto francese). Non è solo l'esistenza delle differenze, e di conseguenza il potenziale conflitto tra regimi, a causare problemi, ma anche la definizione di un regime in relazione all'altro. In alcuni ordinamenti giuridici, e in primo luogo in quello tedesco, esiste una tendenza a includere nella sfera della (presumibilmente pii forte) tutela garantita dalle normative contrattuali in materia di responsabilità civile determinate parti contraenti che siano già distinguibili sull'orizzonte contrattuale al momento della stipula del contratto.

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Nel campo delle norme sulla responsabilità civile non contrattuale, possono inoltre sussistere differenze tra il regime applicabile ai privati e il regime al quale sono sottoposte le persone che occupano cariche all'interno di autorità o enti pubblici. La differenza meno evidente si riscontra in Belgio dove, grazie al forte ruolo della giurisprudenza, le norme di diritto privato previste dagli Articoli 1382 ff. del Codice Civile Belga sono applicabili anche alle autorità pubbliche, che dovranno osservare lo stesso obbligo di diligenza dei privati. Giova ricordare che da questo punto di vista il diritto belga è comparabile al diritto inglese dove, a parte limitati fondamenti per la responsabilità civile (abuso di ufficio), gli illeciti che prevedono la responsabilità civile, e in particolare gli illeciti relativi a "negligenza" e "violazione di obblighi di legge", sono applicati in maniera uguale ai privati e ai componenti di autorità e istituzioni pubbliche.

La situazione è piuttosto diversa nel diritto francese, dove l'autonomia del dirito pubblico in materia di responsabilità civile prevale, e dove le richieste di risarcimento contro dipendenti di autorità o enti pubblici sono affidate ai tribunali amministrativi delle diverse istanze.

Il diritto tedesco si colloca a metà tra il diritto inglese e quello francese: il regime di responsabilità civile per i dipendenti dello Stato e degli organismi pubblici, che in qualche misura si discosta dal regime del diritto privato, è regolato 100

dal Par. 839 del Biirgerliches Gesetzbuch (Codice Civile Tedesco) congiuntamente con l'Articolo 34 della Costituzione Tedesca.

Attraverso la comparazione interna tra i regimi di responsabilità civile contrattuale e non contrattuale (e, nell'ambito di quest'ultima, tra normative di diritto pubblico e privato), devono essere cvidenziate le analogie, così come è importante sottolineare le divergenze ed ehminarle ove non via sia alcuna giustificazione obiettiva a loro sostegno. Se desideriamo ottenere una forma di jus commune all'interno dell'Unione Europea, la portata delle differenze dovrà essere analizzata comparando i sistemi legali nazionali e stabilendo se sia possibile ottenere l'omogeneità delle norme.

Questa necessità risulta in quanto la già esistente compartimentazione delle normative in materia di responsabilità civile, a livello nazionale derivante dall'emergere di regimi speciali di responsabilità civile, per esempio a tutela dei consumatori o dell'ambiente, potrà solo aggravarsi ulteriormente a seguito dell'armonizzazione che spesso tocca solo parti molto limitate delle legislazioni nazionali attraverso le Direttive Europee.

Un esempio di questo stato di cose ci viene offerto dalla Direttiva del Consiglio 87/102/CEE del 22 dicembre 1986 riguardante il credito al consumo, e in particolare l'Articolo 11, Par. 2, che garantisce ai consumatori, in determinate circostanze, la possibilità di invocare

l'inadempienza del fornitore anche contro la società finanziaria con la quale il consumatore ha stipulato un contratto per l'erogazione di un credito. A seguito della Direttiva e della emergente necessità di adattare le legislazioni nazionali, la legislazione nazionale di ciascuno Stato Membro, attualmente, contiene una disparità aggiuntiva tra queste disposizioni speciali e le disposizioni generali del diritto contrattuale.

Naturalmente, sarebbe irrealistico pensare che la legislazione nazionale di uno Stato Membro possa essere completamente omogeneizzata dalla Direttiva, in quanto questo presupporrebbe l'adattamento del Diritto Contrattuale generale alle normative speciali delle Direttive.

Ciononostante, il legislatore nazionale farebbe bene a ricercare almeno un coordinamento formale inserendo le disposizioni speciali in prossimità delle disposizioni generali del Codice Civile, e indicando con chiarezza in quale misura le disposizioni speciali si discostino da quelle generali. Riguardo alle disposizioni nazionali messe a punto per recepire le Direttive Europee, si presenta un problema specifico a seguito della giurisprudenza della Corte Europea, nell'ambito della quale la necessità di una interpretazione delle disposizioni nazionali che risulti conforme alle direttive è un prerequisito essenziale. Questo significa che a tali disposizioni potranno applicarsi tecniche di interpretazione diverse da quelle applicate alle disposizioni nazionali ordinarie

PEIuirzIoNE RECIPROCA DELLE LEGISLAZIÒNI IN MATERIA DI RESPONSABILITÀ CIVILE NON CONTRATflJALE

Su questa forma di permeazione sarò breve. Riassumerò gli aspetti principali.

A partire dalla sentenza della Corte Europea del 5 marzo 1996 sul caso Brassene, è stata confermata l'omogeneità di fondo dei due regimi del diritto comunitario in materia di responsabilità civile non contrattuale, e cioè quello previsto dall'Articolo 215, Par. 2 del Trattato per le violazioni della legislazione comunitaria da parte di istituzioni comunitarie, e quello istituito dalla nota sentenza Francovich per le violazioni della legislazione comunitaria perpetrate da autorità nazionali. Quest'ultima sentenza è stata ulteriormente sviluppata attraverso sentenze successive, e in particolare la sentenza Brasserie. A partire da quel momento è stato stabilito che: a) per entrambi i regimi il criterio di una "violazione sufficientemente grave" è decisivo; b) tale violazione della legislazione comunitaria da parte della legislatura, nazionale o comunitaria, potrà inoltre rappresentare un fondamento per il risarcimento dei danni sostenuti da privati a seguito della violazione; c) dovrà sussistere un nesso causale diretto tra la violazione e i danni sostenuti; e d) malgrado la natura dei danni da risarcire debba essere stabilita dai tribunali nazionali in conformità con ie rispettive legislazioni nazionali, la legislazione nazionale in oggetto non potrà rendere il 101

risarcimento virtualmente impossibile o eccessivamente difficile. Quest'ultimo aspetto implica che i sistemi legali nazionali non potranno precludere completamente la possibilità di risarcimento per la semplice perdita di utili. Inoltre, non potranno trattare una richiesta di risarcimento basata sul diritto comunitario in modo meno favorevole di una richiesta analoga presentata in base alla legislazione nazionale.

Riguardò alle violazioni commesse da Stati Membri e consistenti nel mancato recepimento delle direttive nella legislazione nazionale, la giurisprudenza della Corte Europea distingue tra la situazione di una completa inadempienza nel recepimento e la situazione di un recepimento errato, come evidenziato dalla sentenza Dillenkofer del 8 ottobre 1996.

In caso di inadempienza completa nel recepimento di legislazione comunitaria, la Corte presume che l'inadempienza stessa rappresenti una violazione sufficientemente grave che quasi automaticamente comporti la responsabilità del risarcimento. L'attuazione non corretta di una direttiva, d'altra parte, comporterà la responsabilità del risarcimento solo se risulterà evidente che lo Stato Membro, nell'interpretazione errata della direttiva, non abbia agito in buona fede.

Finora, non risulta chiaro se una violazione, commessa da privati, di disposizioni comunitarie che impongano obblighi diretti a tali privati (come nel caso degli Articoli 85 e 86 del Trattato o 102

altre disposizioni del Trattato stesso che abbiano effetti orizzontali oltre agli effetti verticali), obblighi anche il tribunale nazionale a riconoscere il risarcimento ai sensi della legislazione comunitaria e se la risposta è affermativa, subordinatamente a quali condizioni. Si può prevedere che nell'arco dei prossimi anni la soluzione di questa questione sarà affidata alla Corte Europea. Se la risposta sarà affermativa, ne risulterà una pii ampia omogeneità tra responsabilità civile non contrattuale pubblica e privata nel campo del diritto comunitario.

IL PESO DELLA GIURISPRUDENZA DELLE CORTI EUROPEE

Ma anche in assenza di tale chiarimento, o, piuttosto, ampliamento, la giurisprudenza della Corte Europea ha già sortito un marcato effetto sulle legislazioni nazionali degli Stati Membri in materia di illeciti civili. Sulla base di tale giurisprudenza norme importanti come la già summenzionata norma che regola la responsabilità legislativa e il concetto di violazione grave (che, come è stato sottolineato dalla Corte, non coincide con il concetto di "colpa"), stanno acquisendo contenuti diversi nell'ambito di ciascuno dei sistemi legali, quando siano chiamate in causa violazioni delle normative comunitarie. Inoltre, i sistemi legali nazionali che adottano un approccio restrittivo verso il risarcimento delle perdite di natura puramente eco-

nomica dovranno da ora in poi abbandonare tale approccio se la perdita in oggetto risulterà registrata a seguito di violazioni di norme comunitarie da parte di autorità pubbliche. Come ho già sottolineato altre volte, questa armonizzazione delle normative nazionali in materia di responsabilità civile, che operano nell'ambito della legislazione comunitaria, potrebbe avere come conseguenza una interpretazione simile delle normative nazionali che operano al di fuori del regno della legislazione comunitaria, sulla base del pari trattamento dei cittadini nel campo della tutela legale. Questo potrebbe, per esempio, agire come una potente argomentazione aggiuntiva a favore del riconoscimento della responsabilità legislativa per le violazioni del diritto costituzionale a livello nazionale.

La legislazione della Comunità Europea non è l'unica ad avere effetto sulle normative nazionali che regolano la responsabilità civile; la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha effetti simili. La sentenza ToLtoy, già citata in precedenza lo prova, malgrado il caso riguardasse esclusivamente l'importo del risarcimento riconosciuto sulla base della legislazione nazionale, considerato troppo generoso dalla Corte. Un cambiamento più significativo, d'altro canto, derivò dalla sentenza Pressos Compagnia Naviera S.A. et al. In questa sentenza, la Corte Europea. dei Diritti dell'Uomo sostenne che la Legge Belga sui Piloti del 30 agosto 1988 co-

stituisse una violazione dell'Articolo i del Protocollo N.ro i sulla tutela dei "possedimenti". Queste normative furono varate dopo che la Corte di Cassazione Belga, nella sua sentenza del 15 dicembre 1983 aveva interpretato l'Articolo 251 della Scheepvartet (Legge sulla Navigazione) come non preclusivo di eventuali procedimenti di richiesta di risarcimento contro lo Stato per errori commessi da un pilota. La legge del 1988 prevedeva espressamente l'immunità del datore di lavoro del pilota (nella maggior parte dei casi lo Stato) contro le richieste di risarcimento avanzate da, per esempio, gli armatori delle navi, con effetto retroattivo. Nell'ambito di procedimenti successivi avviati da 24 ricorrenti, la Corte Costituzionale Belga, in una sentenza del 5 luglio 1990, non ritenne che la legge fosse in contrasto con gli Articoli 6 e 6bis della Costituzione (oggi Articoli 10 e 1) che proibiscono forma di discriminazione. Ma, come già detto in precedenza, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo successivamente ritenne che la Legge fosse in conflitto con l'Articolo 1 del Primo Protocollo della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo argomentando che, in considerazione dell'effetto retroattivo dell'immunità prevista dalla Legge, questa avrebbe costituito una "privazione dei possedimenti" nel significato previsto dall'Articolo i del Protocollo la quale, inoltre, sarebbe risultata sproporzionata in relazione all'obiettivo dell'interesse pubblico per-

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seguiti dalla disposizione in oggetto.

Tuttavia, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo non si è ancora espressa sulle possibilità di risarcimento, ai sensi dell'Articolo 50 della Convenzione, in quanto le parti coinvolte, e in particolare lo Stato Belga, dovrebbero prima di tutto stabilire se il risarcimento dei danni potrebbe essere ottenuto nell'ambito dell'ordinamento giuridico nazionale.

A differenza della legislazione comunitaria, nell'ambito della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo i tribunali nazionali non possono non applicare la normativa in conflitto, in quanto lo Stato in oggetto sarà tenuto a modificarla ai sensi dell'Articolo 53 della Convenzione. Tuttavia, è possibile che i tribunali nazionali riconoscano risarcimenti (come nel caso della violazione della legislazione comunitaria nell'ambito della giurisprudenza riferita alla sentenza Francovich), se la legislazione nazionale in oggetto lo consente. Se così non è, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo potrà riconoscere equi indennizzi ai sensi dell'Articolo 50.

Da quanto appena detto, risulta chiaro come sia la giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia sia quella della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo effettuino profonde incursioni nelle normative nazionali, come nel caso delle norme che regolano la responsabilità civile non contrattuale delle autorità pubbliche. Entrambi gli organi, tuttavia, garantiscono che le soluzioni da essi individuate siano conformi con le nor104

mative legali comuni al massimo numero possibile di Stati Membri. Diversamente, la loro giurisprudenza non potrebbe essere riconosciuta e accettata, anche dal punto di vista sociologico, negli Stati Membri. Subordinatamente all'Articolo 215, Par. 2 deI Trattato, la Corte Europea è tenuta a guire questa procedura nel campo della responsabilità civile delle istituzioni comunitarie, ma la Corte riconosce la necessità di estendere tali criteri andhe ad altre aree.

Per quanto riguarda la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, malgrado non sia tenuta a tutelare l'applicazione uniforme delle disposizioni della Convenzione negli Stati membri, essa riconosce che la capacità degli Stati di interpretare alcuni dei concetti contenuti nella Convenzione è limitata da un determinato consenso basato sugli standard comuni adottati negli Stati Membri. Pertanto la permeazione reciproca si verifica tra due sistemi giuridici sovranazionali, in quanto la Corte di Giustizia Europea riconosce che la Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo è parte integrante della legislazione comunitaria. Di conseguenza, entrambe le Corti dovranno tenere conto delle reciproche giurisprudenze.

ENFATIZZARE I PRINCIPI COMUNI

Sulla base di due esempi ho descritto la permeazione reciproca di elementi di diritto privato e diritto pubblico in un rapporto simbiotico con le legislazioni

estere. A seguito della creazione di due (fino ad ora) ordinamenti giuridici europei indipendenti e sovranazionali: la Convenzione Europea per la Tutela dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali e l'Unione Europea, questa permeazione reciproca ha aumentato il proprio ritmo, non soio perché ciascuno di questi ordinamenti giuridici sovranazionali influenza gli ordinamenti nazionali e viceversa, ma anche perché essi si influenzano reciprocamente. Per comprendere e controllare questa permeazione, gli studi di diritto comparato interno ed esterno hanno acquistato un'importanza strategica.

La permeazione reciproca multipla è un fatto positivo. Ove possibile, dovremmo promuoverla. La ragione di fondo è sia giuridica che pedagogica. La ragione giuridica: in conformità con il principio del trattamento equo è un fatto positivo

se persone che si trovano nella stessa situazione, indipendentemente dal settore giuridico in oggetto, ricevano un pari trattamento, in primo luogo nel campo della tutela giuridica. Di fatto è una questione di principio se posizioni equivalenti, indipendentemente dal campo giuridico di pertinenza, debbano essere trattati giuridicamente in modo eguale, fatta eccezione per i casi in cui sussistano motivazioni oggettive a sostegno di una disparità di trattamento. La ragione pedagogica: se si desidera continuare a vedere la foresta, indipendentemente dalla crescente diversità tra settori giuridici e livelli giuridici (internazionale, sovranazionale, nazionale, regionale), i concetti e i principi comuni dovranno essere permanentemente individuati ed enfatizzati.

(Traduzione di Stefano Spila)

* Aricolo già pubblicato in «Maastricht Journal ofEuropean and Comparative Law», 1998, Volume 5, Numben

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dossier

Esigenze strutturali delle organizzazioni non lucrative Nel dossier che segue presentiamo due articoli che centrano l'attenzione su due questioni importanti per le organizzazioni non profit: il fabbisogno formativo e il trattamento scale.

Nel primo articolo, Giuliana Gemelli, alla luce della sua esperienza in anni di lavoro con le Fondazioni, cerca di rispondere al quesito se la formazione per i manager degli organismi non profit debba rispondere, essenzialmente, alla richiesta di una maggiore competenza o se invece non si debba trattare di una formazione "speciale' LAutrice mette in guardia dal rischio di un eccesso di professionalizzazione di tali figure operative, le quali, invece, devono essere formate avendo come riferimento la natura particolare degli organismi non profit. Per tale formazione viene, quindi, suggerito un approccio di tipo "integrato ' nel senso che piĂš che all'interdiscz.ilinarietĂ , questa dovrĂ strutturarsi in seguito ad un processo di "rifocalizzazione interna delle disczpline a partire da problemi o da configurazioni problematiche condivise' Da un'altra angolatura, l'articolo di Ugo Cantieio che segue analizza, invece, il decreto legislativo che istituisce la figura della cosidetta "Organizzazione Non Lucrativa di 07

UtilitĂ Sociale' Con la delineazione della ONLUS, il legislatore italiano ha cercato di sistemare la problematica relativa al peso fiscale per soggetti che promuovono iniziative sociali senza trarne profitti. Secondo l'Autore si tratta di una riforma ancora non risolutiva ma, sicuramente, che costituisce un importante passo avanti nel tentativo di dare ordine ad un settore ancora frammentato.

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Strategie di formazione nel settore non profit.

Tecnologia delle competenze o etica della complessità? di Giuliana Gemelli *

La domanda, "managers si nasce o si diventa7? 1 , ricorrentemente rivolta, negli anni passati, agli esperti di strategie educative, nel momento in cui si doveva ridefinire il curriculum delle "business schools" - in particolare quando il divario tra management studies e managementpractices emergeva come un fattore critico - sembra pertinente anche nel settore della filantropia, cioè delle fondazioni culturali e grant-making. Nell'ambito del generale e rapido sviluppo delle istituzioni non profit, questo settore va configurandosi con una sua fisionomia, soprattutto in Italia, in virtù della rapida e crescente espansione delle fondazioni bancarie. Queste stanno progressivamennte assumendo un ruolo di primo piano sia nei processi di grantmaking, che in quelli di fund raising, in quanto promotrici di progetti di ampia scala. Ciò soprattutto se, come si prevede, prenderà piede anche nel nostro Paese il modello delle communityfoundations. L'urgenza di disporre di "officers" dotati di un'adeguata competenza è, dunque, particolarmente avvertita.

* Membro del Comitato Direttivo della Fondazione A. Olivetti, Roma.

È, tuttavia, evidente che il quesito sopra enunciato non è valido solo per l'Italia e per l'Europa ma si è imposto in tempi recenti anche nel contesto statunitense.

Come è noto gli Stati Uniti costituiscono, data la ormai secolare espansione delle istituzioni filantropiche in questo continente, un punto di riferimento quasi obbligato nella definizione delle strategie delle fondazioni europee.

LA COOPERAZIONE FONDAZIONI-PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Per quanto assai meno numerose di quelle statunitensi, queste sono oggi poste di fronte a una rete di vincoli che sono suscettibili di trasformarsi in altrettante opportunità. Vincoli creati, innanzitutto, come è stato ripetuto più volte, dal ridimensionamento del ruolo dello Stato nel suo tradizionale sostegno alle attività sociali e culturali che impone alle istituzioni non profit di svolgere una funzione di area, non solo di soccorso, ma anche di rilancio operativo ed organizzativo. Come hanno mostrato studi recenti, l'abbinamento inversamente proporzionale tra ruolo dello Stato e sviluppo delle fondazioni non è affatto una regola. Né universale né locale. Non so109

lo negli Stati Uniti ma anche in Germania, ad esempio, si sono delineate forme di cooperazione tra le fondazioni private e lo Stato, in settori cruciali, come lo sviluppo delle strategie educative e il potenziamento della ricerca 2 Anche nel nostro Paese alcuni studiosi del non profit hanno sottolineato che: "queste aggregazioni devono invero riflettere una posizione che non sia più soltanto suppletiva, sostitutiva o addirittura in contrapposizione con la Pubblica Amministrazione e le società for profit, ma integrativa e complementare rispetto a questi due soggetti. Sarà solamente attraverso una maggiore collaborazione tra istituzioni pubbliche e organizzazioni non profit tout court, intesa come ridefinizione dei ruoli, che anche l'Italia potrà avviarsi verso una completa affermazione di nuovi modelli di solidarietà, non più concepita unicamente come solidarietà passiva - dallo Stato ai cittadini - ma anche come solidarietà attiva, ossia dai cittadini verso gli stessi cittadini"3.

Ciò che si impone è, dunque, non soltanto la valorizzazione della creatività operativa delle fondazioni europee e il potenziamento delle capacità professionali dei loro dirigenti, nel reperimento, nell'erogazione e nell'allocazione dei fondi, ma anche l'individuazione e il potenziamento di forme di cooperazione orizzontale tra diverse istituzioni, sulla base della chiara definizione di obiettivi comuni fondati su progettualità a lungo termine. Va detto, però, che molte istituzioni filantropiche in Euro.

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pa mancano ancora di un chiaro profilo professionale dei loro "officers" ed in molti casi non ritengono neppure necessario affidare la gestione del proprio operare ad un personale dotato di competenze professionali. Il rischio è che le fondazioni culturali perseguano obiettivi di breve termine, con scarsi effetti moltiplicatori, talora duplicando progetti e programmi di altre istituzioni anziché sviluppare in modo originale le priorità delle loro rispettive missioni.

IL RISCHIO DI UN ECCESSO DI PROFESSIONALIZZAZIONE

Se un confronto con l'esperienza delle fondazioni americane appare imprescindibile, altrettanto imprescindibile è una ricognizione del contesto culturale e istituzionale europeo e un'analisi delle ragioni che, in passato, hanno contenuto lo sviluppo di progetti a lungo termine e di interventi basati sulla logica dell'investimento innovativo (capital venture). Questo aspetto riguarda in generale il contesto europeo, ed in particolare quello italiano. E tuttavia, se focalizziamo l'attenzione sul contesto americano nel corso dell'ultimo decennio, possiamo davvero sostenere che cumulazione di esperienza e di efficenza operativa abbiano sistematicamente prodotto effetti moltiplicatori di creatività ed innovazione?

In una recente discussione di questi aspetti, apparsa su Internet, Peter Frumkin argomenta che uno dei maggiori ostacoli nei confronti di un efficace svi-

iuppo della filantropia negli Stati Uniti è l'eccessiva crescita della professionalizzazione amministrativa o di un'amministrazione troppo professionalizzata che condiziona la capacità delle grandi fondazioni di agire come "forze sociali attive". Questo problema ha, secondo l'autore, due conseguenze: "il trionfo di finanziamenti accordati a progetti di breve respiro e una crescente omogeneità e convergenza ideologica dovuta ad un eccesso di collaborazione tra le fondazioni ed all'emergere di norme che tendono a regolamentare l'attività filantropica".

Va detto che questo processo è relativamente recente. Fino ai primi anni settanta, infatti, le istituzioni filantropiche statunitensi non si erano molto preoccupate della formazione del loro personale.

La risposta al quesito che ci siamo posti all'inizio era a quell'epoca relativamente semplice: i filantropi erano infatti al tempo stesso ideatori di progetti, programmatori, esperti di strategie di investimento, e attori dei processi decisionali. Piii che delle competenze di uno staif di professionisti si valevano, soprattutto, dell'ausilio di consulenti esterni 4 Gli effetti di un'eccessiva professionalizzazione degli officers delle fondazioni sono, dunque, negli Stati Uniti relativamente recenti e vengono interpretati (da autori che si collocano sulla linea di Frumkin) come una conseguenza della Riforma della Tassazione introdotta nel 1969. Essa indusse la filantropia statunitense ad assumere un atteggiamento difensivo favorendo la professionalizza.

zione del loro personale per riguadagnare legittimità. Un altro tipo di effetto, secondo Frumkin, è stato l'emergere di un nuovo tipo di visione ristretta dell'elargizione di finaziamenti tutta centrata sui progetti e rivolta, pressoché esclusivamente, ad utilizzare le capacità di una frazione emergente di professionisti. Lo studioso americano stigmatizza, inoltre, l'eccesso di cooperazione tra le fondazioni e l'effetto di riduzione della loro capacità di prendere decisioni creative e che integrino la dimensione del rischio che ne consegue.

"Molti R&G's rappresentano centri di formazione dove il personale delle fondazioni di recente costituzione riceve un insegnamento adeguato alle missioni filantropiche, attraverso seminari e programmi strutturati. Durante questi seminari, il personale delle nuove fondazioni app rende dagli officers delle fondazioni locali come organizzare le relazioni con le altre organizzazioni non profit, come analizzare i bilanci, e come condurre le visite in una determinata area di intervento. L'estendersi di questo modello formativo implica che, invece di potenziare la differenziazione dei progetti in una determinata area o in una particolare comunità, si produca un effetto contrario: la maggior parte delle piccole fondazioni o delle fondazioni che stanno nascendo ricalcano semplicemente i programmi e gli orientamenti delle grandi fondazioni, piuttosto che sviluppare le loro priorità di intervento filantropico".

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Il limite di questa analisi è derivato dal fatto che essa attribuisce, sostanzialmente, la contrazione delle capacità innovative delle fondazioni americane agli effetti di un provvedimento legislativo, mentre, come ha mostrato Christine W. Letts, docente alla Kennedy School of Government di Harvard, questo processo è piuttosto legato allo scarso risalto che le fondazioni americane hanno dato, nel corso del tempo, agli aspetti organizzativi dell'azione connessa al grantmaking5 . Il merito di Frumkin è, tuttavia, di avere posto l'accento sul ruolo della formazione. I due aspetti sono, come vedremo, legati e risultano particolarmente rilevanti e strategici nel configurasi dello sviluppo della filantropia in Europa e in special modo in Italia, dove la dimensione del "capital venture" è assai poco sviluppata anche nel settore dell'impresa e dove, come ha notato Gian Paolo Barbetta nel caso delle fondazioni bancarie 6, "la professionalità degli amministratori delle fondazioni sono di natura bancaria e le fondazioni tendono ancora a comportarsi come holding finanziarie più che come fondazioni vere e proprie". Anche se in alcune fondazioni il fenomeno è in regresso e molti cambiamenti avvengono nel reclutamento degli officers.

CAPITJiL VENTURE E ISTITUZIONI FILANTROPICHE

Torniamo, dunque, alla tesi della Letts.

Innazitutto, va detto che la studiosa di Harvard parte da un punto di vista ge112

nuinamente comparativo che non è volto esclusivamente ad esportare in Europa le esperienze americane ma a mettere a confronto pratiche diverse, in una fase che lei considera di forte transizione nei due contesti. Un punto di contatto è individuato nel fatto che in entrambi si delinea la necessità di sviluppare strategie di scala che aumentino e rendano, ad un tempo, più esteso e più efficace l'impatto sociale dei programmi promossi dalle fondazioni. Finora, queste si sono esclusivamente concentrate sui programmi e hanno trascurato un fattore decisivo per l'emergere di quello che la Letts definisce "una strategia comprensiva" e cioé lo sviluppo di capacità organizzative.

"Una premessa fondamentale - scrive la Letts - è che l'impatto dei programmi su rilevanti problemi di interesse pubblico limiti il ruolo di intervento di organizzazioni potenti e altamente strutturate, sostituendo eventualmente queste ultime con modalità di approccio più flessibili ed efficaci".

Il comportamento tradizionale delle fondazioni è stato ed è tuttora quello di concentrare l'attenzione più sul meccanismo di attribuzione dei finanziamenti (grants), che sui loro effetti e sul loro impatto che richiede necessariamente più tempo dei limiti normali di un finanziamento (due, tre anni). Si deve inoltre considerare che la pratica usuale, e da lungo tempo consolidata7, di connettere l'erogazione dei finanziamenti alla logica del "take out", - cioè dell'in-

dividuazione preliminare dell'istituzione non profit o dell'ente pubblico (governativo, federale ecc.) in grado di continuare il programma nel tempo lungo, dopo la fase di lancio realizzata dalla fondazione grant-making nel breve periodo non è la sola possibile. Questo tipo di divisione del lavoro, tra prospettive di investimento nel breve periodo e aspettative legate al "take out" nel lungo periodo produce un effetto paradossale che tende a cristallizzarsi anche nelle modalità di riproduzione della funzione professionale degli officers "Frequentemente - scrive la Letts - il passo dell'attività delle fondazioni è regolato dal calendario delle riunioni del loro consiglio di amministrazione, piuttosto che dalla necessità di adattare rapidamente programmi e strategie di azione all'urgenza dei problemi sociali o agli imperativi dei bisogni del settore non profit".

A partire da queste considerazioni, la studiosa americana si volge ad una comparazione tra il funzionamento della filantropia e gli orientamenti del capital venture management. Contrariamente alle istituzioni filantropiche, questo considera il tempo come un elemento strategicamente variabile e come un fattore produttivo, non come una modalità organizzativa a carattere fisso o come una variabile estrinseca e quantitativamente invariabile, come è in uso nella procedura standardizzata della istituzioni filantropiche.

UAD-HOC-C1zIA: UN MODO DI GOVERNARE L'assunzione dei comportamenti connessi al capita1 venture implica anche l'emergere di una diversa forma di professionalità a carattere "ad hocratico", in grado cioè di rifocalizzarsi in funzione dei problemi indotti dall'evoluzione del mercato, dalla complessità delle dinamiche di comportamento degli attori, dalla variabilità delle "congiunture".

E questo sulla base di un obiettivo che non è tanto il successo del programma ma la creazione di infrastrutture che rendano possibile il suo impatto sociale.

Contrariamente a questo orientamento, le fondazioni anziché assumere il ruolo di partner, potenziando l'organizzazione dei programmi che finanziano, assumono piuttosto quello di supervisori, richiedendo rapporti e dati che permettano di valutare la riuscita del programma. L'intreccio di questi comportamenti conduce agli effetti di burocratizzazione sanzionati da Frumkin e rafforzati dalla standardizzazione delle strategie formative.

Paradossalmente, sotto questo profilo, la situazione ancora indeterminata e fluida che caratterizza il contesto europeo, può permettere una sperimentazione mirata cioè strategicamente orientata dell'intreccio tra comportamento degli attori delle istituzioni grant-making e formazione degli officers delle fondazioni e degli organizzatori del settore non profit, favorendo appunto forme di cooperazione di tipo ad-hocratico, che 113

riducano "alle radici" gli effetti di burocratizzazione e standardizzazione dei comportamenti, che permettano alle istituzioni grant-making di sviluppare capacità di intervento adeguate all'assunzione di "responsabilità nell'innovazione".

Occorre precisare che col concetto di "modelli di relazione ad-hocratici" si intendono alleanze che non sono basate su semplici meccanismi di associazione esterna tra i rappresentati di diverse istituzioni.

Questo tipo si associazioni, infatti, sono volte essenzialmente ad adattare i problemi ad un programma, seppure su fronti diversi - per ottenere fondi dal lato della domanda o, sul versante dei donatori, per elargirli in modo conforme alle direttive di un "board oftrustees". Il comportamento "ad-hocratico" presuppone piuttosto una convergenza di competenze, basata sulla mutua comprensione dei reciproci punti di vista, su assetti di negoziato permanente tra di essi e soprattutto sulla focalizzazione di problemi, in contesti caratterizzati da elevate forme di complessità e da sfide organizzative a rischio crescente. Una convergenza che deve precedere e non seguire - secondo strategie di adattamento razionalizzante - la formulazione dei programmi. La creazione di questo sistema di comportamenti è un fattore rilevante nello stimolare l'emergere di un nuovo tipo di cooperazione competitiva tra le fondazioni e i loro partner sociali, basata non sull'enfasi 114

esclusiva rivolta ai progetti, ma sulla creazione di "fondi" e, dunque, anche di assetti organizzativi per la corretta definizione e per la risoluzione dei problemi (ad/hoc/crazia).

Nuovi

PERCORSI PER

LA FORMAZIONE MANAGERIALE

Questo processo di riorientamento ha le sue radici più profonde nelle strategie educative e di formazione, che devono essere basate non solo sulla c000perazione estrinseca tra diversi tipi di approccio formativo, ma sulla loro effettiva integrazione. E questo non più in termini di interdisciplinarità, intesa come assemblaggio di metodi e di concetti, che ogni disciplina è in grado di realizzare in forma strumentale, a proprio uso e consumo, a partire dalle proprie frontiere esterne e nel confronto, non necessariamente interattivo, con discipline limitrofe. Si deve parlare piuttosto di interscienza, cioè attraverso un processo di rifocalizzazione interna delle discipline a partire da problemi o da configurazioni problematiche condivise.

Nel corso del XX secolo, nel quadro della dominazione del paradigma scientista, dominato dal principio della specializzazione disciplinare, l'orientamento dell'interscienza è stato perseguito da alcuni, isolati pionieri. Nei primi anni cinquanta, esso ha trovato nell'opera di Adriano Olivetti un elemento propulsore volto a realizzare l'integrazione tra il principio della formazione, come adde-

stramento tecnico con quello del lavoro, inteso non solo come insieme di competenze efficientemente applicate, ma come vettore dinamico nella produzione di conoscenze. Spostando l'attenzione dai fenomeni di razionalizzazione alla progettazione dei prodotti e allo sviluppo dei servizi per consentire agli utenti una utilizzazione personalizzata e quindi creativa di quei prodotti, Adriano Olivetti ha avviato un modello di sperimentazione, a quel tempo pionieristico e largamente incompreso e che oggi sta riemergendo (certo in un contesto profondamente diverso da quello in cui il pensiero di Olivetti prese forma e sostanza) ma che in sé enuncia l'emergere di configurazioni di pensiero e di mappe mentali diverse dal modo in cui, nell'ambito delle imprese italiane, si è cercato di fornire risposte ai problemi della conduzione aziendale: L'uso era di fare riferimento, prevalentemente, a schemi ispirati al meccanicismo tayloristico o al formalismo dei concetti economici, che rappresentavano - rispettivamente sui versanti degli studi ingegneristici e dell'economia aziendale gli aspetti dominanti nelle strategie di formazione delle più prestigiose istituzioni universitarie.

Negli ultimi venti anni, un evento che ha dapprima sotterraneamente e poi in modo sempre più visibile e consapevole caratterizzato gli scenari della formazione manageriale è stata la crescita dei fenomeni conoscitivi e degli effetti organizzativi prodotti dalla "nuova allean-

za", che ha progressivamente modificato le mappe cognitive dei lavoratori della conoscenza, nei più disparati ambiti disciplinari incluso il management.

Oggi si parla sempre più frequentemente di conoscenza manageriale di terzo tipo. Essa tende a sostituirsi non solo a quella di primo tipo, centrata sulle funzioni dell'impresa, ma anche a quella ancora dominante in molti contesti istituzionali basata sull'interfaccia impresalambiente.

La conoscenza manageriale di terzo tipo è un prolungamento di quest'ultima ma, a differenza di essa, è orientata alla trasformazione di una interfaccia impresa/ambiente che dà luogo a comportamenti antagonistici di cooperazione e/o di concorrenza in un dinamismo processuale in cui predominano quelle che Erwin Laszlo definisce forme di cooperazione competitiva. Esse non si contrappongono, cioè, alla competizione, ma la integrano in modo processuale, cioè come fattore evolutivo e dinamico.

LE DISCIPLINE DELLA TRASFORMAZIONE

"La conoscenza manageriale del terzo tipo - scrive Lazlo - viene dalle scienze.

Ma attenzione, non dalle scienze positive degli anni venti che erano sulla base del concetto di Scientific management di Taylor. Viene dalle nuove scienze; dalle discipline emergenti che elaborano le teorie del caos, delle strutture dissipative dei sistemi dinamici e dell'evoluzio115

ne generale. Queste teorie disegnano sistemi complessi in continua evoluzione che rivelano le dinamiche fondamentali della loro trasformazione. Non necessariamente queste dinamiche sono evidenti, nemmeno agli agenti che hanno innescato la trasformazione" 8 Sotto questo profilo, la conoscenza delle dinamiche interattive proprie ai sistemi complessi non è un semplice prolungamento dei diversi settori che compongono le discipline manageriali, è qualcosa che le trasforma dall'interno in quanto muta, innanzitutto, la configurazione delle competenze richieste a coloro che impartiscono tali conoscenze, i quali cessano di ragionare in termini di specializzazioni settoriali, più o meno articolate attraverso l'applicazione estrinseca di strategie interdisciplinari e operano, piuttosto, nella traiettoria del management a "fertilizzazione incrociata" che caratterizza tanto il versante dell'impresa quanto quello della formazione, generando flussi continui di interazione a effetto sistemico.

"Gli scienziati - scrive Lazio - vengono chiamati a collaborare nelle industrie, i tecnici di produzione acquisiscono skills di ricerca e sviluppo, i professionisti del marketing imparano a conoscere i vincoli della produzione. Tutte le attività dell'impresa sono strettamente interfacciate con clienti, fornitori, concorrenti.

Le strutture gerarchiche vengono soppiantate da reti flessibili a più livelli".

Allo stesso modo, nel settore della formazione ogni istituzione cessa di essere .

116

un'isola a sé e si dota di un arcipelago, in cui interagisce in modo cooperativo non solo in senso orizzontale, attraverso modalità di alleanza tattica ma anche in senso verticale, entrando in un interazione strategica con istituzioni concorrenti. Nel caso della formazione manageriale, le business schools non tendono più ad essere delle isole di eccellenza ma dei poli di interazione integrata con le università, le scuole d'impresa, le associazioni imprenditoriali e le imprese stesse.

Tende, cioè, a crearsi un sistema integrato in cui il vincolo della cooperazione, agendo in senso verticale, come integrazione competitiva e non più come mera alleanza tattica, induce effetti evolutivi di tipo sistemico a vantaggio di tutti gli attori del sistema formativo.

Qualcosa di simile tende a delinearsi ad esempio nel modello delle corporate universities statunitensi.

Ciò presuppone, tuttavia, che tutte le istituzioni che entrano in questo vincolo sistemico, le cui opportunità strategiche sono eminentemente legate alla creazione e alla condivisione di flussi innovativi, abbiano raggiunto una fase di maturità evolutiva, abbiano cioè raggiunto quello che Lazio definisce lo "stadio sistemico". Il ciclo evolutivo dell'impresa e quello della maggior parte delle istituzioni di formazione, per lo meno quelle dotate di uno spessore storico di medio-lungo periodo, presuppone che queste abbiano superato il livello iniziale, quello che potremmo definire

della fase dei fondatori cioè abbiano trasformato l'impulso iniziale in cultura organizzativa ed, infine, in un sistema che colleghi tale cultura in modo dinamico ed evolutivo ai processi di trasformazione dell'istituzione.

FORÌviZIONE PER IL NON PROFIT IL CASO ITALIA Quanto si è detto a proposito delle istituzioni per la formazione dei manager sembra dotato di una rilevanza ancora pi1 forte se rapportato alle strategie di formazione degli officers delle imprese non profit e con maggiore evidenza delle fondazioni culturali che, necessariamente, devono sviluppare un "codice genetico" capace di produrre forme di adattamento processuale.

Nell'attuazione di questo processo, la costruzione di percorsi di formazione post-laurea ed, in particolare, di corsi di dottorato che integrino formazione e ricerca ha un ruolo propulsivo e decisivo.

Altrettanto decisiva è la realizzazione di reti di studiosi che permettano un migliore coordinamento tra ricerca europea e ricerca statunitense e che favoriscano la circolazione nello spazio istituzionale internazionale degli officers "in formazione" che, a loro volta, saranno in grado non soio di operare nel mondo delle fondazioni ma di formare nuovi professionisti, trasformando in codice genetico l'impulso organizzativo iniziale.

Nel corso degli anni novanta, l'offerta formativa per il settore non profit si è

andata arricchendo in Italia di interessanti e significative esperienze, prevalentemente ma non esclusivamente svolte in ambito universitario. Presso l'Università Cattolica di Milano e nell'ambito della Facoltà di Economia dell'Università di Bologna sono stati creati Diplomi Universitari inerenti il settore del non profit. Presso l'Università di Milano il CeRGAS, da quasi una decina d'anni, si è fatto promotore di una serie di iniziative formative nell'ambito dell'economia e del management del settore non profit e del settore artistico e culturale. Presso l'Università di Trento è stato creato tre anni fa un Istituto per gli Studi e lo Sviluppo delle Aziende Non-profit che ha istituito un corso di perfezionamento post-laurea a numero chiuso. (In allegato al presente articolo sono presentate alcune schede esplicative). Non esiste tuttavia finora alcun Corso di laurea, né un vero e proprio corso di dottorato, sebbene occorra sottolineare che il corso di. Trento e l'attività di formazione del CErGAS offrono numerosi stimoli alla ricerca-intervento per aziende non profit. Il problema che resta aperto è, però, quello di produrre ricerche innovative che non rispondano semplicemente alla domanda, ma contribuiscano a crearla inducendo una circolarità creativa tra progettualità conoscitiva e operati vità.

Seppure con alcune eccezioni 10, si può rilevare dai curriculi dei corsi che la tendenza dominante è quella di una forte valorizzazione delle discipline economi117

co-aziendali e giuridiche, sulla base di un orientamento formativo che è volto a ricondurre anche le imprese sociali ai canoni di managerialità ed efficienza tipici delle imprese orientate al profitto.

Questo aspetto risulta abbastanza paradossale se consideriamo il forte riorientamento della formazione manageriale negli ultimi anni, dopo che sono emersi gli effetti negativamente vincolanti di una formazione eccessivamente tecnicistica e si è imposta la necessità di un confronto costruttivo, non solo con l'ambiente dell'impresa, ma con la cdmplessità delle pratiche, delle motivazioni, dei sistemi di valori connessi con l'azione sociale. Ciò implica la necessità di considerare, insieme ai criteri di efficienza, la dimensione "grigia" che gli studiosi di etica degli affari individuano come l'area nella quale chi prende decisioni si trova di fronte a dilemmi non solo di natura economica o organizzativa, ma di carattere progettuale ed etico e che implicano, quindi, una visione ampia e non specializzata dei problemi, centrata sui valori e sui principi ed orientata a strategie formative di tipo trans-disciplinare e a carattere qualitativo e non puramente tecnicistico. Questo orientamento trova riscontro in correnti di pensiero ormai consolidate nel contesto americano e che genericamente possiamo collocare nel solco "neopragmatista" tracciato da Hilary Putnam: in particolare, nella sua rilettura della filosofia di Dewey, volta alla costruzione di comunità di ricercatori im118

pegnati a risolvere problemi mediante lo scambio di informazioni e sulla base di un dibattito che non si colloca nella cittadella degli scienziati e degli esperti ma in una sfera di discussione pubblica che coinvolge, insieme a questi ultimi, i cittadini interessati alla soluzione dei problemi pubblici che li riguardano".

L'ESPERIENZE IN RETE AL CENTRO DEI PROCESSI DI FORMAZIONE

La creazione di canali di professionalizzazione degli officers delle fondazioni attraverso la ricerca ha un ruolo cruciale in questo processo di orientamento della formazione nel settore non-profit.

Come è stato rilevato da Shepard Stone alcuni decenni orsono, quando l'officer americano cercò invano di fare attecchire la filosofia della filantropia americana nel contesto europeo, "diversamente da altre istituzioni, le fondazioni sono in grado di servire al meglio gli interessi della collettività quando, dopo attente analisi, sono pronte ad assumersi i rischi e ad avviare esperimenti alla frontiera tra il pensiero e l'azione". Questo tipo di sperimentazione non può prendere corpo se non quando il potenziamento della ricerca e la sua funzione professionalizzante non si afferma come vettore dell'agire sociale delle fondazioni. Occorre, infatti, non dimenticare che esso è largamente fondato su processi di fertilizzazione incrociata, cioè sul prodursi di contatti elettivi e selettivi come veicolo di effetti sociali di larga portata. Non sarà inutile, da questo

punto di vista, riportare la definizione che il Webster attribuisce al concetto di "cross-fertilisation": "the interp!ay or interchange of a system of values, especially of vitalizing, broadening or productive nature". Questo tipo di orientamento è innanzitutto centrato su strategie di cooperazione e di coordinamento, quale necessario substrato all'individuazione dei punti focali in cui il sistema dei vincoli creati dalla complessità ambientale possono essere trasformati in opportunità operative. La cooperazione e il coordinamento devono dunque essere posti alla base delle strategie formative, mettendo in circolazione le risorse piuttosto che moltiplicando iniziative che rischiano di sovrapporsi o di entrare in un regime di pura concorrenza. Il problema del coordinamento non deve, però, essere posto solo su scala nazionale ma deve essere pensato su scala Europea e non come pura risultante di reti associative ma come creazione di vincoli attraverso un programma dotato di infrastrutture.

La riserva di esperienze accumulate in Europa, in altri settori, ed in particolare nell'ambito della management education nel corso dei decenni precedenti non è priva di indicazioni che possono essere oggetto di una proficua riappropriazione innovativa nel campo del non profìt.

Tali esperienze rivelano come la creazione di reti europee sia non solo un mezzo per superare le "rigidità" nazionali, ma per innnescare un meccansimo di cooperazione competitiva tra le istitu-

zioni che funzioni come correttivo dinamico ai rischi della burocratizazione o della compartimentalizzazione delle strategie formative. Mi riferisco, in particolare, all'esperienza condotta tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta dall'EIAsM (European Institute for Advanced Studies in Management) di Bruxelles che ha agito come vettore di professionalizzazione del management attraverso la ricerca, grazie alla cooperazione delle grandi fondazioni americane, delle business schools europee e delle università. Il ruolo dell'EIASM è stato non solo un potente fattore di integrazione tra le istituzioni europee di formazione ma il canale di produzione di nuove figure professionali che hanno attivato la circolazione tra produzione delle conoscenze nel management e la loro applicazione pratica. È stato anche un canale di confronto dinamico tra modelli americani e modelli europei e, riprendendo la problematica della Letts, un'area in cui la produzione di ricerca attraverso la creazione di reti di studiosi è divenuta un'area di creazione di infrastrutture per la riproduzione delle élites manageriali. Questo tipo di approccio organizzativo sembra delinearsi oggi come particolarmente confacente anche per i bisogni della formazione nel settore non profit.

Innanzitutto, perché gli effetti dei processi di globalizzazione implicano la necessità di produrre figure professionali dotate di competenze trans-culturali.

Implicano anche il fatto che la costru119

zione di una dimensione europea non escluda ma rafforzi il dialogo col mondo delle fondazioni, in cui le istituzioni statunitensi hanno un ruolo di primo piano.

Il progetto della Fondazione Adriano Olivetti "The Role of American Foundations in Europe, (1920's-1990's).The Legagyofan Historical Linkage aiĂŹd the Development of European Foundations. Comparative and Historical Analysis and Suggestions for Policies", sostenuto da un grant della Rockefeller Foundation, rafforzato da un'attiva collaborazione con gli studiosi delll'Indiana University Center on Philanthropy, ha come obiettivo di contribuire attraverso il potenziamento di reti di ricerca transatlantiche, a creare un retroterra che possa nell'immediato futuro soste-

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nere la creazione di infrastrutture per una formazione adeguata alle sfide della globalizzazione. Il raggiungimento di tale obiettivo richiede in primo luogo la creazione, in collaborazione con le fondazioni italiane che avvertono il carattere prioritario di questo tipo di sfida, di una "comunità di ricerca" a carattere permanente in grado di attivare non solo reti di confronto su scala europea ma una crescente circolazione dei docenti e degli studenti di dottorato, tra una sponda e l'altra dell'Atlantico, creando un flusso di conoscenze e di esperienze da cui possano trarre risorse anche i Paesi dell'Europa orientale e del bacino mediterraneo, nella cui crescita civile ed economica il ruolo delle fondazioni è destinato a svolgere un ruolo di crescente importanza negli anni a venire.

BOLOGNA (a cura di Chiara Mazzotti) Il Diploma Universitario in Economia delle Imprese Cooperative e delle Organizzazioni non profit nasce nel a.a. 199611997, nell'ambito della Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Bologna (sede di Forlì) con l'obiettivo di dare una risposta efficace e completa alla forte richiesta di una più adeguata formazione dei dirigenti di medio ed alto livello delle Imprese Cooperative e delle Organizzazioni nonprofìt 12. Si rivolge a neodiplomati delle scuole medie superiori e a persone che operano già in imprese cooperative ed organizzazioni non profit, comunque dotate del diploma di scuola media superiore.

Il corso ha durata di tre anni. Nei primi due vengono forniti gli elementi di base nelle discipline economiche, aziendali e giuridiche. (Economia aziendale, Istituzioni di economia, Diritto pubblico, Diritto privato, Matematica per le imprese NP, Sociologia generale ed economica, Ragioneria per imprese cooperative e NP, Economia delle imprese cooperative e NP, Diritto commerciale, Statistica per le imprese cooperative e NP, Organizzazione aziendale delle imprese cooperative e NP). Nel terzo anno sono invece previsti insegnamenti più specifici (Programmazione e controllo, tecniche di fund-raising, Marketing sociale, Finanza per le NP, Revisione aziendale, Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche, Economia degli intermediari finanziari e finanza etica, Economia sanitaria NP, Storia economica del NP e della cooperazione, Economia del lavoro, Informatica per il controllo di gestione delle imprese cooperative e Nt', Statistica economica, Matematica finanziaria, Diritto del lavoro, Diritto Tributario, Diritto della cooperazione, Diritto bancario, Diritto amministrativo, Sociologia dell'impresa cooperativa e NP), scelti secondo alcuni vincoli dagli studenti, e circa 300 ore di stage aziendale. In parallelo alla didattica di base vengono poi organizzati, in collaborazione con AICCON (associazione senza fini di lucro costituitasi con lo scopo di promuovere, sostenere, organizzare iniziative volte alla promozione della cultura della solidarietà) incontri-seminari di apprendimento per temi specifici o casi.

A fronte della proposta formativa sopra descritta, e di molte altre che sono sorte nel corso degli ultimi anni, ritengo possa essere utile fare alcune riflessioni e comunque porsi alcune domande che pur traendo spunto da queste esperienze si riconducono a temi e questioni di portata più generale.

Negli ultimi tempi, specialmente nell'area economico-aziendale sono nate diverse iniziative di formazione rivolte ad operatori del settore non profit. L'obiettivo che le guida è spesso quello di ricondurre anche le imprese sociali ai canoni di managerialità, efficienza ed efficacia tipici di imprese orientate al profitto. Infatti, non ci può essere impresa senza equilibrio economico-finanziario di lungo periodo, e non si persegue la propria finalità istituzionale, senza la definizione di precisi obiettivi operativi e la verifica periodica del loro grado di raggiungimento, e senza il tentativo di rendere esplicito e trasparente il valore sociale prodotto.

Ritengo, tuttavia che non ci si possa fermare a questo, perchè si rischia di adottare una prospettiva un po' miope, e dare per scontati gli aspetti connessi alle motivazioni, alle condivisioni dei valori, agli aspetti relazionali e sociali, spesso caratterizzanti queste "nuove" realtà economiche.

Pur consapevole che si tratta di ambiti spesso lasciati alla coscienza individuale, nei quali non è compito né dell'economista né dello Stato entrare, penso sia comunque opportuno dedicarvi maggiore attenzione.

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Quanta attenzione si è prestata, nell'elaborazione dei programmi, nelle procedure di selezione e valutazione degli studenti, nella stessa gestione dei progetti, al fattore motivazionale, sociale, relazionale e interdisciplinare, alle logiche cooperative sia in aula che a livello di coordinamento tra le varie università ed i centri di formazione italiani ed esteri?

D'altra parte, facendo in particolare riferimento a quanto proposto dalla Facoltà di Economia dell'Università di B9logna, potrebbe anche essere opportuno chiedersi quali sono le ragioni che giustificano un corso di laurea breve e lo fanno preferire ad un corso di specializzazione postlaurea?

Come si può parlare di insegnamenti specifici per il settore non profit, quando, in Italia, le già scarse elaborazioni teoriche, spesso non sono state validate da una prassi operativa, e la ricerca applicata incontra non poche difficoltà?

Non solo, quali sono le reali possibilità òccupazionali offerte nel breve-medio periodo?

Le aspettative createsi nei confronti di questo settore sono certamente elevate, d'altra parte l'attuale contesto economico e bociale offre nuove opportunità di crescita, non solo economica, per certi aspetti, di grande intèresse.

L'attenzione a quella che altri possono definire una nuova area di business, non dovrebbe portarci a trascurare alcune riflessioni sui principi e sui valori che, ci si aspetta, siano alla base di una proposta formativa di qJalità.

Lo sviluppo di un sano settre di economia civile e la capacità delle realtà che in esso operano di reggere le sfide che gli sorso state poste, ritengo, dipenda, in buona misura, anche dalla qualità e dalla saggezza delle prorammi formativi proposti.

Non si può prescindere dall/attenzione agli aspetti economico-finanziari, ma allo stesso tempo gli economisti non dovrebtero dimenticare che la "scienza economica non può limitarsi alla trattazione dei problemi sociali come mere questioni tecniche, bensì, considerarli come un aspetto generale della ricerca di Buona Vita."

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MILANO La Lombardia è terreno di sviluppo elettivo per le organizzazioni del settore non profi. Nella sola provincia di Milano, secondo i dati di una recentissima ricerca (Barbetta e Ranci, a cura

di, 1998, I fattori cruciali di nascita, consolidamento e successo delle organizzazioni non profit nell'area milanese, Mimeo), sono presenti oltre 3000 organismi strutturati; si va dalla piccola organizzazione di volontariato - spesso priva di lavoratori retribuiti e con un fatturato assai modesto, ma non per questo poco importante per il tessuto sociale e civile del Paese - sino alla grande fondazione operativa dei settori della assistenza o della sanità, talune con migliaia di dipendenti e centinaia di miliardi di fatturato. È un settore che mostra polarizzazione e staticità; da una parte organizzazioni grandi e sedimentate che rischiano di perdere la capacità innovativa tipica del settore non profìt, dall'altra piccole strutture che faticano ad assumere dimensioni e logiche di impresa e perciò vedono spesso messa a repentaglio la loro stessa sopravvivenza. Proprio in virtù della sua diffusione e del ruolo che gioca dentro il contesto regionale, il settore non profìt lombardo esprime elevate esigenze formative. Non si tratta più soltanto di imparare a trattare con la normativa fiscale e tributaria; la sfida è ora quella di attrezzarsi ad operare come vere e proprie imprese che hanno, in più, l'obiettivo della solidarietà sociale e del benessere della collettività. È in questo contesto che nasce il D:plsma universita-

rio in economia ed amministrazione delle imprese (indi rizzo in gestione delle imprese cooperative e delle organizzazioni non proJìt) della Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Tre anni di durata; due specializzazioni (economia sociale e delle organizzazioni di sanità ed assistenza oppure economica civile e delle organizzazioni di cooperazione e servizi); esami di area economico-politica, economico-aziendale, giuridica e matematico-statistica tarati sul particolare tipo di studenti, lezioni concentrate il giovedì, venerdì e sabato mattina ed un tirocinio trimestrale finale sono le caratteristiche peculiari del diploma. È un diploma pensato non solo per gli studenti che escono dalle scuole superiori, ma anche per coloro che già operano dentro le organizzazioni del terzo settore e sentono l'esigenza di migliorare le proprie competenze e di completare la propria formazione. È per questa ragione che la progettazione e lo sviluppo del corso sono avvenuti a stretto contatto con un gruppo di organizzazioni del terzo settore (inizialmente ACIJ, CISL e Compagnia delle Opere a cui si sono poi aggiunti altre fondazioni, enti e congregazioni religiose) che garantiscono il proprio sostegno organizzativo e progettuale. A dimostrazione di questa attitudine alla "formazione permanente" e dell'attenzione agli operatori del settore, il 40% degli oltre sessanta studenti del primo anno ha più di 35 anni di età ed una esperienza lavorativa dentro il settore non profit.

Il diploma cerca di non essere solo un itinerario scolastico, ma anche una occasione di discussione strutturata dei principali temi e delle più significative esperienze del terzo settore. È in questo contesto che si inquadrano le iniziative collaterali al corso che puntano a mettere gli studenti in contatto con i principali temi di dibattito che investono il terzo settore e con i testimoni privilegiati della sua evoluzione.

Per saperne di più: Università Cattolica di Milano Servizio orientamento 0217234.2417 Ufficio Diplomi Universitari 0217234.2645

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MILANO Da circa dieci anni, alcuni docenti e ricercatori dell'Università Bocconi, della SDA (Scuola di Direzione Aziendale) Bocconi e del CERGAS (Centro di Ricerche per la Gestione dell'Assistenza Sanitaria) della Bocconi si sono interessati in misura crescente all'economia e al managemene del settore non projìt (privato senza fini di lucro) e del settore artistico e culturale (prevalentemente pubblico, ma oggi interessato da un processo di "privatizzazione") del nostro Paese, con un approccio

economico ed economico -aziendalistico.

I settori in oggetto vengono considerati composti da aziende (istituzioni non profit e culturali) che perseguono finalità sociali (sanitarie, assistenziali, sociali, culturali e anche civili, ambientali, etc.), rispettando comunque vincoli economici, cercando di raggiungere il più alto grado di autonomia gestionale, utilizzando a tale fine strumenti di tipo manageriale (organizzazione, gestione delle risorse umane, gestione economico-finanziaria, contabilità e controllo di gestione, marketing, etc.). L'interesse rispetto al settore non profit e al settore artistico e culturale ha portato a sviluppare varie iniziative di formazione e ricerca, di seguito elencate.

CERGAS

Seminari e servizi per aziende non profit e loro membri; Ricerche intervento per aziende non profit; Partecipazione a convegni e reti internazionali di istituzioni per il non profit; Centro Documentazione.

AREA AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE DELLA SDA

Corso master per imprenditori sociali (finanziato dal Fondo Sociale Europeo); Corsi di formazione manageriale per operatori culturali; Ricerche - intervento per istituzioni culturali; Partecipazione a convegni e reti internazionali di istituzioni per la cultura.

UNIVERSITÀ BOCCONI

Seminari e corsi di specializzazione per gli studenti, sul non profit e la cultura; Attività di tesi, sul non profit e la cultura; Ricerca di base sull'economia e la gestione delle istituzioni artistiche e culturali; Ricerche CNR e 40% MURST sul non profit.

Per notizie, contattare Anna M. Alessandra Merlo ai numeri telefonici: 0215836.2610 (ufficio) e 0335164.44.269 (cellulare) o via e-mail: anna.merlo@uni-bocconi.it.

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TRENTO Giunto alla sua terza edizione, il Corso intende rispondere alle numerose e sempre crescenti esigenze di professionalità richieste per gestire e coordinare in modo adeguato la complessità organizzativa degli enti non profìt e delle ONLUS. Il Corso offre una risposta formativa di livello qualificato a quanti intendano spendere capacità e inclinazioni personali in associazioni, fondazioni e cooperative che erogano servizi di interesse collettivo. Allo stesso tempo, il percorso formativo proposto risulta confacente anche per un eventuale inserimento in quegli enti pubblici (Ira, Comuni, Aziende speciali, ecc.) direttamente coinvolti nell'erogazione di servizi sociali.

Formalmente, si tratta di un Corso di perfezionamento post-laurea previsto dall'ordinamento universitario, al cui termine viene consegnato un diploma, organizzato dall'Università di Trento (Dipartimento di Economia e Issi') con il contributo della Regione Autonoma Trentino Alto Adige, della Provincia Autonoma di Trento, della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto e del Comune di Trento.

Il corso è rivolto a cittadini italiani che abbiano conseguito la laurea entro la data di inizio del Corso presso l'Università italiane e che già lavorano (anche a titolo di volontariato) oppure intendano operare all'interno di organizzazioni senza scopo di lucro (associazioni, fondazioni, cooperative e cooperative sociali, associazioni sportive, ecc.). Le tematiche trattate durante il Corso rendono lo stesso pii idoneo ai laureati in economia, giurisprudenza, scienze politiche e sociologia. Non si esclude, tuttavia, la partecipazione di laureati in altre discipline.

Il numero massimo di posti è di 20. Il corso, della durata complessiva di dodici mesi, comprensivi di stage, è strutturato sulla base di moduli comprendenti lezioni teoriche, studi di casi significativi, testimonianze dirette di operatori delle organizzazioni non profit e prevede il costante coinvolgimento durante le lezioni.

Ai partecipanti al corso verrà consegnato materiale elaborato ad hoc per ciascun modello. I moduli didattici previsti sono i seguenti: - storia del non profit; - economia delle organizzazioni non profìt; - diritto del settore non profit e della cooperazione; - diritto comparato delle organizzazioni non profit; - teoria dell'organizzazione; - contabilità e bilancio nelle cooperative sociali e nelle organizzazioni senza scopo di lucro; - management delle organizzazioni non profit; - gestione delle risorse umane nelle organizzazioni non profit; - marketing del settore non profit; - la valutazione della qualità nei servizi non profit; - project management, con particolare riguardo ai fondi Cee, nazionali e regionali; - project fìnancing; - il regime tributario delle organizzazioni non proflt; - la gestione dei rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione (contracting out); - cooperative learning; - formazione alla leadership e alla gestione dei gruppi delle organizzazioni non profìt.

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* Una prima stesura di questo articolo è stata presentata il 2 aprile 1998 al Foundations'Forum, nel quadro della Conferenza Intergovernativa dei Ministri della Cultura, organizzata dall'UNEsco a Stoccolma

Networking and Trainingfor the Development of Cultura! and Grantmaking Foundsstions.

coi titolo

Si

è preferito mantenere il termine americano, piut-

tosto che utilizzare quello di funzionario o amministratore, perché il termine "officer" evoca la ftjnzione del servizio reso in una situazione ed associa i princìpi della competenza e del commitmenr (impegno verso uno scopo non lucrativo).

2 STEFAN TOEPLER, Foundations and their Institutional

del settore non-profit in Italia, Il

Mulino, Bologna,

1996, p. 62.

The FordFoundation and Europe (19850's-1970's). Cross-Fertilization of Learning in SocialSciences and Management, PIE 7 GIULINA GEMELLI (a cura di),

Brussels, 1998.

8 ERWIN LASZLO e CHRISTOPHEP. LASZLO,

Navigare nella turbolenz.a: la direzione d'impresa di Terzo tipo, 1994, pp. 15-16. lvi,p.93.

IO Il corso ai perfezionamento dell'ISSAN di Trento

Franco Angeli, Milano 9

Context: Cross-evaluating Evidencefrom Germany and the UniredStates, in «Voluntas», n. 1, 1998.

3 ALCESTE SANTUARI, Evoluzione storica, aspetti giuridici e comparatistici delle organizzazioni non profit, in B. Gui (a cura di), Il Terzo Settore tra economicità e valori, Gregoriana, Padova 1997.

4 ANOLD J. ZURKER E J. DUSTAN, The Foundation Administrator, A Study of Those Who Manage A merican

prevede, infatti, una gamma disciplinare che non si limita alle discipline giuridiche e aziendali ma include la storia e la sociologia delle organizzazioni. A!cuni docenti del corso hanno contribuito alla ricostruzione del contesto istituzionale delle organizzazioni non proflt non solo in chiave giuridica ma anche storico-sociale e secondo un approccio compatto. Si veda in particolare, Uno sguardo di insieme sulle esperienze straniere, (cap. 4), in GIORGIO VITTADINI (a cura di), Il Non ProJìt Dimezzato, ETAS Libri,

Foundations, Russel Sage Foundation, New York

1997.

1972.

1 J DEWEY, Rifare lafilosojìa, Donzelli, Roma 1998 e H. PumAN, Rinnovare la JìlosoJìa, Garzanti, Milano 1998.

12 BERETTA, MELANDRI, Aspetti problematici della formazione nelle organizzazioni non profit, in «Non Pro-

5 CRISTINE

W. LETTS, What Foundations con Learn

from Venture Capitalists,

Maecenata Verlag, Mun-

chen, 1998.

6 GIAN PAOLO BARBETTA (a cura di),

Senza Scopo di lucro. Dimensioni economiche, legislazione e politiche

126

fit»,

2196.

Le Onlus tra profili fiscali e civilistici.

Nuovi scenari per la solidarietà sociale di Ugo Cantiello *

Il consistente sviluppo delle attività nel settore non profit che si è registrato in Italia negli ultimi anni, per effetto di iniziative provenienti da diversi settori della cultura e dell'associazionismo, ha riproposto in modo pressante il problema della inadeguatezza delle strutture giuridiche, nel disciplinare sia l'organizzazione dei soggetti impegnati in questo campo di attività, sia i rapporti che tali soggetti intessono con il mondo produttivo e con quello socialmente impegnato sia con le istituzioni.

Il cambiamento di questo scenario rappresenta un primo importante passo per dar vita ad una nuova prospettiva delle politiche sociali: provvedimenti di protezione emanati non già sulla base di situazioni di emergenza, ma frutto maturo di un processo di progettazione sviluppatosi contestualmente alla trasformazione del Paese, orientato a creare benessere per tutti i cittadini, con particolare riguardo ai più deboli.

Le nuove politiche sociali dovranno approfondire i contenuti di una mutata domanda sociale, influenzata da nuove drammatiche emergenze come violenze * Avvocato, di prossima nomina a notaio.

sui minori, disagio giovanile, emarginazione degli anziani, dei disabili e degli immigrati. Questa nuova domanda sociale richiede nuove risposte, un rinnovato impegno politico ed istituzionale.

Questi nuovi bisogni di tipo relazionale ed affettivo richiedono rinnovate strategie nell'intervento sociale, stimolando un processo di interpretazione e di partecipazione sociale delle persone, più diretto ed efficace.

In questo senso, se gli operatori del settore devono migliorare la qualità dei servizi offerti incrementando le proprie capacità organizzative e gestionali, allora bisogna fare in modo che tutte quelle risorse umane presenti nella società civile, oggi fondamentali per il loro importante contributo alla qualità della vita delle nostre comunità, trovino nuove forme di valorizzazione. Inoltre è necessario sottolineare che il Terzo settore, proseguendo finalità di utilità sociale, spesso si sostituisce alla mano pubblica inefficiente e/o carente. Non soio, a proposito degli scopi collettivi, è importante ricordare la relazione alla delega legislativa (che portò, quale suo frutto ) il d.lgs. 460/1997), dove si afferma che il Governo italiano fa ampio affida127

mento sui Terzo settore per "il perseguimento degli scopi finora assolti direttamente dallo Stato".

In questo quadro, si colloca anche la questione della spesa pubblica. L'Italia è, infatti, tra i Paesi d'Europa con la più bassa spesa sociale.

Il problema non può essere risolto riducendo le risorse a disposizione dei servizi sociali, semmai occorre analizzare il modo in cui tali risorse vengono spese e, in generale, come viene indirizzata la spesa statale, la quale continua a privilegiare interessi e settori che non attengono al benessere sociale e civile delle persone.

Grande importanza può avere un uso mirato della leva fiscale per favorire soggetti che possono realizzare obiettivi ambiziosi e progetti ben precisi. La nuova disciplina per gli enti non commerciali e per le ONLUS rappresenta un importante tassello di una più ampia e articolata strategia per incentivare le iniziative dirette alla promozione e sviluppo di una migliore qualità della vita.

Entrando più nel particolare, basta riportare qualche dato significativo del Terzo settore: i soggetti impegnati nel cosidetto "sociale" sono 9,5 milioni, e vanno dagli associati in organizzazioni di volontariato in modo stabile ai saltuari, dagli stipendiati a coloro che prestano gratuitamente la propria opera.

Sotto il profilo dell'occupazione, il settore dà impiego a 40.000 persone. Accanto a questi vi sono poi 300.000 volontari che, se dovessero essere retribuiti dallo Stato costerebbero 1300 miliardi 128

di danaro pubblico. Infine, non è priva d'importanza l'osservazione che il Terzo settore fattura solo 1,8% del PIL, dato nettamente inferiore alla media europea. L'attenzione di cui gode il non profit ora anche nel nostro Paese è sicuramente meritevole ma le attese nei suoi confronti appaiono inadeguate se si considera la sua fragilità strutturale.

Il Governo Prodi ha sì sottoscritto il cosidetto "Patto per la solidarietà" e ha sostenuto la creazione del Forum permanente per il Terzo Settore (organismo che rappresenta oltre settanta organizzazioni nazionali), però da un lato le norme attuative latitano e, dall'altro, non è stata istituita l'Autorithy per il non profit, che avrebbe dovuto vedere la luce entro il dicembre 1997. Ad oggi, di questo organismo di controllo non vi è traccia e, paradossalmente, tutta l'attenzione delle istituzioni sembra essersi spostata sulla sede ove collocare questo ufficio. Il motivo della mancata attuazione va ricercato nella scarsità di fondi, non avendo il Parlamento, nella delega istitutiva, indicato l'apposito capitolo di bilancio. La proposta forse più accreditata per superare l'impasse è quella, ripresa dai lavori della Commissione Zamagni, di mettere una tassa a carico delle organizzazioni non profit per pagare i costi dell'Autorità di controllo.

Considerato che il quadro normativo fiscale è a tutt'oggi in movimento, possiamo solo sperare che la regolamentazione ftitura possa incrementare lo sviluppo del settore, per un pieno soddi-

sfacimento delle esigenze della socialità ed un miglioramento progressivo dei servizi offerti.

In questo contesto, è interessante esaminare la normativa che disciplina le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLus) che costituiscono una risposta, seppur non completa, alle varie forme di attività sociali organizzate.

IL DECRETO LEGISLATIVO Il decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, su il "Riordino della disciplina degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale" dedica una delle due sezioni, (la seconda), alle ONLUS, dopo essersi occupato, nella prima, degli enti non commerciali.

Lente è "non commerciale" quando, sia esso pubblico o privato, - sempre che diverso dalle società e residente nel territorio dello Stato -, non abbia per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciale (cfr. art. 87, comma 1, del d.PR 22 dicembre 1986, n. 917).

L'oggetto esclusivo o principale di un ente che vale quindi a porre una discriminante a livello tributario tra enti commerciali e non, è determinato dalla legge, dall'atto costitutivo o statuto, se rivestono la forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata o registrata e, in mancanza di questi, in base all'attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato. Questo è quanto può evincersi dalla lettura dell' art. 87, com-

mi 4 e 4 bis, del d.PR 917/1986, il quale specifica come l'ultimo dei criteri elencati, cioè quello sostanziale dell'attività di fatto esercitata, sia estendibile anche agli enti non residenti in Italia.

L'aggiunta è quanto mai opportuna, poiché riguarda soggetti giuridici stranieri chiamati comunque a confrontarsi con un ordinamento giuridico differente da quello di appartenenza.

Lart. 10 del d.lgs. 460197, che apre la sezione intitolata "Disposizioni riguardanti ie organizzazioni non lucrative di utilità sociale" stabilisce quali esse siano.

In particolare, la legge vi fa rientrare le associazioni, i comitati, le fondazioni, le società cooperative e gli altri enti privati, seppur privi di personalità giuridica, i cui statuti o atti costitutivi, qualora redatti in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata o registrata (si noti l'analogia con l'ente non commerciale quanto al profilo formale), prevedendo espressamente una articolata serie di elementi che la norma elenca.

LE CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLA ONLUS Il primo punto da considerare riguarda i campi di operatività dell'ente e, pii in particolare, l'oggetto della ONLUS. Le attività che è possibile esercitare per poter essere annoverati nella categoria sono descritte da un elenco solo apparentemente rigido (istruzione, formazione, assistenza sociale e socio-sanitaria, beneficenza ecc.), dato che all'interno di ogni attività consentita vi è un

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certo spazio di movimento; basti pensare ai vari settori in cui può esplicarsi l'attività assistenziale. Ciò ha una sua logica finalizzata a non restringere le possibilità di organizzazioni comunque dirette a scopi di utilità sociale. Va anche considerato come sotto il profilo dell'elasticità normativa sia vietato, da un lato, compiere attività diverse da quelle enumerate dall'art. 10, lett. a, prima citate, ma dall'altro, siano consentite attività connesse a quelle lecite, nel senso di strumentali a queste ultime. Un certa "clausola di apertura" esiste anche nella determinazione legale dello scopo, che deve comunque essere esclusivamente di solidarietà sociale.

La ONLUS, a fronte delle agevolazioni che di seguito si illustreranno, tollera una serie di limitazioni. Esse riguardano innanzitutto l'utilizzazione e la destinazione di utili, avanzi di gestione, fondi, riserve e capitali, nonché la redazione di bilanci e rendiconti annuali e la stessa disciplina del rapporto associativo. In secondo luogo, concernono l'uso, nella denominazione e nelle comunicazioni dirette al pubblico, della locuzione "organizzazione non lucrativa di utilità sociale" o, più sinteticamente, "ONLus".

Su questo fronte è palese un irrigidimento legislativo, sia sul piano del contenuto dell'atto costitutivo o dello statuto, ossia le limitazioni come sopra specificate, sia sui piano della forma, che necessariamente deve essere quella dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata e registrata.

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In sostanza, il prezzo da pagare per i benefici fiscali concessi dallo Stato è costituito dalle limitazioni atte ad impedire un uso meramente strumentale della forma dell'ONLUs per scopi egoistici e, comunque, non di utilità sociale.

FONLUS, infatti, non è un soggetto che nasce per servire i soci, associati o partecipanti ad essa, bensì rappresenta un ente "altruistico" perché le attività solidaristiche debbono orientarsi verso persone svantaggiate o comunque bisognose di aiuto fisico, psichico, economico, sociale o familiare.

Si rileva, inoltre, che in perfetta aderenza con il processo d'integrazione europea, l'art. 10, comma 2, lett. b, contempla fra i soggetti beneficiari delle prestazioni ONLUS anche i componenti delle collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari. Del resto, questa precisazione offrirebbe lo spunto per una ricerca di natura comparatistica che, seppur nostro malgrado, esula dalla presente trattazione.

LA CLASSIFICAZIONE DEI TIPI Forganizzazione non lucrativa di utilità sociale è, in primo luogo, l'ente che presenti tutte le caratteristiche prescritte dalla legge per poter svolgere una certa attività nei settori della cooperazione e della solidarietà sociale, a condizioni fiscalmente agevolate. La qualifica di ONLUS prescinde dalla forma dell'ente, purché esso sia un'associazione, un comitato, una fondazione, una società

cooperativa o un ente di natura privatistica e, al vaglio dell'interprete, risponda ai requisiti ed alle condizioni di cui all'art. 10 del d.lgs. 460/1997, sopra illustrato. Appare evidente come la disciplina agevolativa richiederà, perciò, una dettagliata analisi al fine di comparare il contenuto dello statuto o dell'atto costitutivo dell'ente alle prescrizioni del legislatore.

Accanto a questo primo tipo esistono poi le cosidette ONLUS per legge, vale a dire quelle che, in ogni caso sono considerate ONLUS per disposizione normativa. Esse sono gli organismi di volontanato di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, iscritte nei registri regionali o delle province autonome di Trento e Bolzano, le cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381 nonché le organizzazioni non governative riconosciute idonee ex lege 26 febbraio 1987, n. 49 (5). In ordine a questo secondo tipo di ONLUS è previsto che tali enti debbono essere coerenti alla loro struttura ed alla loro finalità, disciplinate però dalle rispettive leggi regolatrici e non già dal d.lgs. 460/1997. Inoltre, è contemplato che le stessi leggi regolatrici possano aver introdotto previsioni normative più favorevoli di quelle in tema di ONLUS, per espressa dizione del legislatore.

L'ultimo tipo di ONLUS concerne quelle che potremmo chiamare "di settore", nel senso che la qualificazione è conosciuta limitatamente all'esercizio di specifiche attività, salva la necessità che per

tali attività le scritture contabili siano tenute separatamente. Tra detti enti è possibile collocare gli organismi ecclesiastici di confessioni religiose con le quali lo Stato abbia stipulato patti, accordi o intese e le associazioni di promozione sociale ricomprasse tra gli enti di cui alla legge 25 agosto 1991 n. 287 (come, per esempio, spacci e mense aziendali annesse a circoli cooperativi).

Va poi detto che non possono considerarsi ONLUS gli enti pubblici, le società commerciali diverse dalle società cooperative, gli istituti di credito di diritto pubblico, i partiti e i movimenti politici, le organizzazioni sindacali, le assicurazioni dei datori di lavoro e quelle di categoria. Tale esclusione è pienamente comprensibile considerati gli scopi istituzionali degli enti ora elencati, lontani da quella essenziale della utilità sociale così come chiarito dalla legge.

L'appartenenza all'una o l'altra categoria di ONLUS non è senza conseguenze di ordine pratico. È utile ricordare come una norma transitoria posta dal d.lgs.

46011997 (vedi art. 11, comma 1, della normativa in questione) previde che, per la fruizione delle agevolazioni i soggetti che già svolgessero, in precedenza, attività di utilità sociale, dovevano provvedere ad una apposita comunicazione alla competente Direzione regio nale delle entrate, entro un mese dall'entrata in vigore, con successiva iscrizione presso l'anagrafe unica delle ONLUS, istituita presso il ministero delle Finanze. Da tale atto di comunicazione 131

furono, di contro, esentate quelle che abbiamo chiamato "ONLUS per legge": organizzazioni di volontariato, cooperative sociali e organizzazioni non govqnative riconosciute idonee ai sensi della L. 49/1997.

LA DISCIPLINA TRIBUTARIA L'applicazione delle agevolazioni fiscali è subordinata ad una conditio sine qua non: l'istanza atta ad avere l'iscrizione nell'anagrafe unica delle ONLUS. Veniamo ora all'analisi della specifiche norme agevolative.

In primo luogo gli atti delle ONLUS, siano essi atti costitutivi o dichiarativi, ovvero documenti, istanze, contratti, copie, estratti, certificati, dichiarazioni e attestazioni sono esenti dall'imposta di bollo (art. 17 d.lgs. 460/1997).

Sotto il profilo dell'imposta di successioni e donazioni l'art. 19 del d.lgs.

460/1997 opera in combinato disposto con l'art. 3, comma 1, del d.lgs.

346/1990 (testo unico in materia di imposte sulle successioni e donazioni).

Da queste norme, si evince l'esenzione da tali imposte dei trasferimenti a causa di morte o a titolo di liberalità a favore di Un'ONLUS. Le ONLUS sono poi sottratte all'assoggettamento all'imposta sull'incremento di valore degli immobili (INvIM) per gli acquisti gratuiti, nonché alla imposta sostitutiva dell'INvIM concernente i trasferimenti mortis causa (art. 20 del d.lgs. 460/1997).

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L'imposta di registro è applicabile agli atti delle ONLUS, ma solo nella misura fissa (pari a Lire 250.000). In particolare essa graverà su: 1) gli atti costitutivi e modificativi delle ONLUS; 2) gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili traslativi o costitutivi di diritti reali di godimento a favore delle ONLUS, a condizione che l'ente dichiari in atto che intende utilizzare direttamente i beni per lapropria attività. Tale utilizzazione deve poi avvenire entro due anni dall'acquisto e con la previsione che, in caso di dichiarazione mendace o di mancato utilizzo per la propria attività, sia dovuta l'imposta nella misura ordinaria ed una sanzione amministrativa pari al 30% dell'imposta stessa (vedi art. 22, d.lgs. 460/1997).

L'imposta ipotecaria e catastale non è applicabile ai trasferimenti a favore delle ONLUS aventi titolo in una successione a causa di morte o in un atto di liberalità tra vivi. Al contrario, l'imposta sarà dovuta per i trasferimenti a titolo oneroso o anche a titolo gratuito diversi dagli atti di liberalità. A prescindere dall'onerosità o gratuità dell'acquisto è, in tutti casi, da assolvere la tassa ipotecaria relativa alla trascrizione dell'atto a favore dell'ONwS. Le cessioni gratuite a favore di ONLUS sono esenti da imposte sul valore aggiunto (IvA) (art. 14, d.lgs. 460/1997).

In relazione, alle imposte sul reddito l'art 11 ter del d.PR 917186, al comma 2, stabilisce che i proventi derivati dall'esercizio delle attività direttamente

connesse a quelle di utilità sociale non concorrono alla formazione dell'imponibile. La stessa fonte normativa pone una netta distinzione tra attività commerciale e attività sociale svolta istituzionalmente dalle ONLUS, evitandone dunque la commistione.

Quanto ai tributi locali, è prescritto che gli Enti locali abbiano facoltà di deliberare la riduzione o l'esenzione totale dal pagamento delle imposte loro dovute nei confronti delle ONWS (art. 21 d.lgs.

460/1997).

Infine, va detto come le ONLUS godono dell'esenzione dal pagamento delle tasse di concessione governativa per gli atti e i provvedimenti loro concernenti e dalla imposta sugli spettacoli (Cfr. artt. 18 e 23 del d.lgs. 460/199) e delle agevolazioni per lo svolgimento di lotterie, tombole, pesche e banchi di beneficenza (art. 24 del d.lgs. 46011997).

UNA RIFORMA DA COMPLETARE

Lintervento del legislatore, nell'introdurre nell'ordinamento giuridico l'istituto dell'organizzazione non lucrativa di utilità sociale, è stato quello di favorire l'evoluzione della cooperazione e della solidarietà attraverso una fitta serie di benefici tributari. Pur non contestando che le intenzioni siano meritorie e

rispondono ad attese rimaste a lungo insoddisfatte, due considerazioni debbono essere fatte.

La prima riguarda la frammentarietà di un disegno che ha preferito coordinare il d.lgs. 460/1997 con altre fonti normative fiscali, piuttosto che disciplinare con un unico testo la materia delle ONLIJS; ciò ha reso complicato l'orientamento nell'intricata selva normativa fatta di continui rinvii e cambiamenti disposti, tesi ad illustrare quali fossero le leggi e le fonti subordinate a tali enti.

La seconda considerazione riguarda la disomogeneità delle figure considerate dal decreto 460197 (per esempio, associazioni di volontariato, società cooperative sociali, ONLUS vere e proprie), portando naturalmente a pensare che, per favorirne le finalità, il legislatore abbia tralasciato le diverse caratteristiche tanto di struttura quanto di disciplina.

In conclusione, va ricordato come l'attuale momento storico sia agitato da un forte anelito riformista in materia di soggetti dell'ordinamento civile (società tra professionisti, settore non profit, separazioni tra fondazioni bancarie e istituti di credito).

Tutto ciò, presumibilmente, non potrà, non toccare anche l'istituto delle ONLUS, portando a compimento l'auspicata messa a punto tributaria e civilista della materia.

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rubriche

Notizie da...

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FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI

A partire dall'inizio degli anni novanta si è avviata, a livello planetario, una fase di transizione. Esiste una generale consapevolezza dell'avvenuto superamento degli equilibri della guerra fredda, come anche del modo di affrontare la questione Nord-Sud, ma non si è ancora in grado di definire con precisione le linee portanti del nuovo assetto internazionale. Fra i principali elementi di novità vi è, senza dubbio, la crescita del numero di attori capaci di esprimere sulla scena mondiale una presenza economica e politica di rilievo.

Sebbene siano quotidianamente sotto i nostri occhi numerosi sintomi del mutamento, stentiamo tuttavia a decifrare il disegno complessivo. Uno sforzo teso a migliorare la comprensione delle attuali trasformazioni geopolitiche e geoeconomiche internazionali appare doveroso non solo perché risponde a un'innegabile esigenza conoscitiva, ma anche perché dalla capacità di adattarsi a tali trasformazioni dipende la futura collocazione internazionale dell'Italia e, quindi, in ultima analisi, il livello di benessere degli italiani di oggi e di domani.

In questa prospettiva, la Fondazione Giovanni Agnelli ha avviato una serie di ricerche e di attività che si distribuiscono in tre programmi strettamente collegati.

Tutti e tre i programmi condividono la caratteristica di strumento per comprendere i nuovi scenari internazionali; al contempo intendono anche contribuire a una migliore definizione dell'interesse italiano e all'individuazione delle risposte che l'Italia può dare alle sfide poste dalla nuova geoeconomia.

Il primo programma, denominato Prospettive geoeconomiche, si prefigge di disegnare e

articolare analiticamente la mappa risultante dal nuovo scenario geoeconomico, cioè di organizzare in un unico quadro interpretativo informazioni e aspetti problematici che emergono dalla scena economica mondiale. La dimensione geoeconomica cui fa riferimento tale programma è quella "esterna", ossia internazionale: in esso rientrano gli studi dedicati a singoli Paesi emergenti e ad aree economiche integrate.

Il secondo e il terzo programma - I fattori della competizione e Società locali, economia e territorio nella geoeconomia italiana -sono accomunati da una dimensione geoeconomica di riferimento prevalentemente "interna": entrambi tendono a esaminare criticamente alcuni aspetti dell'organizzazione sociale ed economica italiana di fronte alla sfida della competizione. Mentre il secondo programma mette a fuoco singoli fattori competitivi (la risorsa sapere, la ricerca scientifica e tecnologica, e così via), valutando i punti di forza o di debolezza del nostro sistema socioeconomico, il terzo si propone di esaminare come le sfide geoeconomiche vengano percepite e affrontate, strategicamente, dalle società locali e dagli attori che ne rappresentano gli interessi.

Prospettive geoeconomiche Per comprendere appieno i nuovi equilibri di un mondo sempre più multipolare, e per poter quindi elaborare risposte adeguate, occorre dotarsi di una nuova mappa mentale, costruita alla base di conoscenze tempestivamente aggiornate dalle grandi aree economiche del pianeta, dei singoli Paesi emergenti, delle nuove aggregazioni regionali, nonché delle regole che sovrintendono al funzionamento dell'economia mondiale.

Peraltro, la costruzione di una nuova map135

pa mentale del mondo non richiede solamente l'affiancamento di sempre più numerosi tasselli descrittivi, ma esige una chiave interpretativa che consenta la comprensione dei rapporti tra i diversi attori.

L'approccio geoeconomico, ponendo l'accento sulla rilevanza della competizione permanente fra le imprese, gli Stati e i sistemi economico-territoriali, offre la chiave interpretativa ricercata. È questo il punto che differenzia maggiormente la geoeconomia dalla.geografia economica estesa a uve!lo planetario: evidenziando le tensioni conflittuali tra i diversi attori sulla scena economica mondiale, l'approccio geoeconomico consente di comprenderne le strategie.

All'interno del programma si collocano numerose attività: possiamo ricordare gli studi e le pubblicazioni su singoli Paesi emergenti (con una particolare attenzione a quelli dell'area asiatica); gli studi aventi per oggetto intere regioni geoeconomiche e le relative organizzazioni; i convegni internazionali per la messa a fuoco di particolari nodi problematici, come le conseguenze «derivanti dalla creazione di un'area di libero scambio euro-mediterranea, gli effetti dell'allargamento a est dell'Unione Europea, le prospettive geoeconomiche che si aprono per i paesi del Sudest asiatico e la futura collocazione geoeconomica e geopolitica della Cina.

Le singole attività di studio e di ricerca sono accomunate da tre aspetti fondamentali, caratterizzanti l'intero programma: l'analisi delle politiche di sviluppo adottate dai diversi soggetti ai vari livelli decisionali (governi nazionali, autorità subnazionali o internazionali);

l'attenzione alla collocazione geoeconomica e geopolitica dei soggetti studiati. Dalla frammentazione degli equilibri internazio136

nati emergono numerose ricomposizioni a livello regionale. Una particolare cura viene, quindi, dedicata allo studio del nuovo orientamento internazionale degli Stati, definibile a partire dalle loro attività di politica estera e dalla partecipazione ad accordi economici su base regionale (aree di libero scambio, unioni doganali, mercati unici);

l'ottica dell'interesse italiano ed europeo.

Ogni approfondimento del programma è sistematicamente orientato a comprendere quali saranno le ricadute, positive e negative, per il nostro Paese. Peraltro, la piena consapevolezza dell'inestricabilità del destino italiano da quello dell'Unione Europea suggerisce sovente di assumere la scala continentale come riferimento per i nostri ragionamenti. Una delle finalità del programma è appunto quella di promuovere un dibattito fra le élite nazionali intorno alla futura collocazione dell'Italia e dell'Europa nei nuovi equilibri mondiali.

Prospettive geoeconomiche

Iniziato nel 1995, il programma continua idealmente l'impegno di analisi dei fenomeni della globalizzazione intrapreso nel 1987 con lo studio dei Paesi di nuova industrializz.azione. Esso si esprime edito rialm ente attraverso la collana "Nuova Geoeconomia", che pubblica rapporti dedicati ai Paesi e alle regioni protagonisti delle trasformazioni di questi anni.

Convegni e conferenze - Economia, politica, sicurezza ne! Mediterraneo, 26-27 settembre 1995.

- I Paesi dell'Europea Centrale e Orientale: prospettive economiche e futura integrazione nell'Unione Europea, 26-27 settembre 1995.

- Le prospettive geoeconomiche e geopoli-

tiche del Sud-est asiatico, 26-27 febbraio 1996.

Pubblicazioni Rapporto Cina. Il successo del "socialismo di mercato" e ilflturo di Hong Kong, a cura di Maria Weber, 1995.

Rapporto Vietnam. Quali forze emergenti?, di Giovanni Capannelli, 1995.

Rapporto India. Le riforme economiche e il difficile rapporto tra centro e periferia, di Luigi Marcuccio, 1995.

Rapporto Corea del Sud. Un modello di industrializz,izione tardiva, di Roberta Rabellotti, 1995.

Rapporto Maghreb. Riforme economiche e competitività, di Franco Zallio, 1996.

Rapporto Giappone. Quale molo nei nuovi equilibri dell'area Asia-Pacifico?, di Corrado Molteni e Claudio Zucca, 1996.

Ifattori della competizione La competizione è passata da una dimensione prevalentemente aziendale (competizione per la conquista di quote di mercato, fra imprese per il controllo delle tecnologie innovative) a una dimensione più vasta e complessa (competizione fra Stati per il mantenimento di alti livelli di reddito e occupazionali, fra territori per attrarre capitali, turisti e così via). I fattori che determinano il successo di un'iniziativa economica non sono quindi da ricercare esclusivamente all'interno delle filiere produttive (organizzazione, capacità innovativa di processo e di prodotto), ma vanno localizzati anche nell'ambiente che circonda le imprese.

I2attenzione si sposta dalle imprese competitive alle società competitive, ossia alle società in grado di trovare un equilibrio dma-

mico tra capacità di generare ricchezza e volontà di tutela della coesione sociale. È ragionevole ritenere che tale equilibrio possa essere raggiunto solamente a condizione di saper identificare e rafforzare nel tempo fattori in grado di accrescere la forza competitiva di ciascun sistema.

Occorre quindi interrogarsi su quali siano i fattori che rendono maggiormente competitivi i territori italiani, ossia quali siano i requisiti che consentono a un distretto industriale, a una Provincia o a una Regione di conservare e sviluppare le attività presenti, anche attraverso l'afflusso di nuove iniziative e di nuovi investimenti dal resto del Paese e dall'estero.

La ricerca dei fattori comporta una lettura, o meglio una rilettura in chiave geoeconomica, di alcuni aspetti caratteristici del panorama economico italiano.

Al primo posto tra i fattori competitivi presi in considerazione sta senz'altro la risorsa sapere, la cui abbondanza è condizione essenziale non solo per la realizzazione individuale e per la crescita della società civile, ma ànche per il successo nella competizione economica.

Un secondo aspetto esaminato riguarda l'evoluzione delle strutture demografiche: sul lungo periodo, le trasformazioni della popolazione condizionano significativamente numerosi assetti economici e sociali (dal mercato del lavoro al sistema di previdenza, alla scuola, alla famiglia). Anche sul terreno della competitività, quindi, un'analisi in prospettiva del mutamento demografico consente di evidenziare con un certo anticipo gli squilibri nascosti nelle pieghe del futuro e permette, nella misura del possibile, l'adozione di misure correttive adeguate.

Altri fattori, di cui la Fondazione si è già 137

interessata in passato, possono oggi essere riletti in chiave geoeconomica: fra questi, ad esempio, la ricerca scientifica e tecnologica e le condizioni che ne garantiscono lo sviluppo e la diffusione, la qualità ambientale urbana, le dotazioni infrastrutturali e le nuove migrazioni internazionali.

A questi fattori possiamo aggiungere, come esito delle riflessioni derivanti dal programma, precedentemente illustrato, dedicato alla riforma dello Stato, un'organizzazione decentrata delle finzioni di governo, e quindi un miglior funzionamento delle istituzioni di governo, che assegni maggiori responsabilità nella progettazione dello sviluppo e, parallelamente, maggiori risorse alle élite politiche e alle società civili locali.

I fattori della competizione Il programma, avviato nel 1996, riprenda ed esalta in un'ottica geoeconomica alcuni temi da tempo consolidati fra gli interessi di ricerca della Fondazione. È il caso della risorsa sapere, le cui prime formulazioni compiute e le relative pubblicazioni risalgono al 1986; degli studi demografici, entrati a far parte del novero delle attività della Fondazione del 1983; dell'analisi del mercato del lavoro nei diversi contesti italiani, studiata a partire dal 1989; dell'attenzione per le dotazioni infrastrutturali come fattore competitivo, sviluppata a partire dal 1990. L'interesse odierno per questi temi trova inoltre sostanza e stimolo nell'accumulazione scient/ìca maturata con il programma "Geògrafia e istituzioni della nuova Italia' attivato nel 1990.

Convegni e conferenze - Globalizzazione e sistemi di welfare, 2021 settembre 1990.

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Pubblicazioni Ilfituro degli italiani Demografia, economia e società verso il nuovo secolo, Un rapporto della Fondazione Giovanni Agnelli, 1990.

"Un'Italia, due mercati del lavoro", XXI Secolo, n. 6, maggio 1992.

Il sistema dei trasporti nel Centro e nel Sud: situazione e prospettive, Centro Studi Sistemi Trasporto, 1993.

Società locali, economia e territorio nella geoeconomia italiana Se osserviamo il secondo dopoguerra italiano, e in particolare gli ultimi decenni, rileviamo come lo sviluppo economico della penisola presenti una marcata caratterizzazione territoriale. In altre parole, molto diversi sono i modi in cui, nelle varie Regioni, si è strutturata la base economica e si sono corisolidate le specifiche specializzazioni produttive. Il rapporto, territorialmente definito, tra società e culture locali, da un lato, e organizzazione economica dall'altro, costituisce così un fattore chiave per interpretare le diverse espressioni della modernizzazione italiana: in taluni casi esso è testimonianza di successo esemplare, come nei distretti del centro e del nord-est, in altri indizio di una perdurante difficoltà a trovare una propria via allo sviluppo autosostenuto, come accade in molte aree deboli del Mezzogiorno continentale e insulare.

Quest'area di problemi costituisce tradizionalmente oggetto di interesse della Fondazione. Con il programma di ricerca La nuova geografia italiana è stata sviluppata, negli anni 1989-1995, l'attenzione verso quel complesso mosaico costituito dalle realtà economiche locali italiane, indicando l'uti-

lità di letture a scala più analitica da porre accanto alle descrizioni dualistiche, che pur mantengono la loro ragione d'essere, dell'economia italiana nel suo insieme.

Oggi diventa sempre più importante capire come questa Italia dualistica ma differenziata, al tempo stesso debole e forte, entri nel nuovo paradigma della competizione internazionale, permanente fi-a territori, se e come sia capace di guardare al di là dei propri confini. Il programma Società locali,

cerca è stato attivato per cogliere le letture territoriali, le visioni geoeconomiche e la progettualità strategica espressa da soggetti rappresentativi delle élite istituzionali ed economiche delle Regioni italiane: quelle élite che, a diverso titolo, sono chiamate a porre in essere le condizioni dello sviluppo dei loro territori.

economia e territorio nella geoeconomia italiana che ha preso l'avvio nel 1996 si pro-

Nato dallo sviluppo di temi già oggetto di analisi a partire dal 1987 con la ricerca "Città e industria" e poi con "Geografia e istituzione della nuova Italia" del 1990, il programma esamina la dinamica delle economie locali e la capacità di autogoverno dei territori italiani.

pone precisamente di meglio capire come i diversi territori percepiscano l'insieme di nuove sfide, vincoli e opportunità posti in essere dalla globalizzazione dell'economia; e come, in relazione a queste sfide, elaborino strategie di sviluppo realistiche e confacenti alle proprie possibilità e preferenze: come, cioè, sappiano costruire un proprio originale e attivo orientamento geoeconomico. Per l'Italia, infatti, forse in misura maggiore che per altri Paesi avanzati, sarebbe improprio parlare di un'unica geoeconomia, e si può a ragione sostenere che l'affermazione economica del Paese dipenderà certo dalle politiche nazionali ma anche, e in modo non meno importante, dalle capacità di "stare sul mercato" che i diversi territori le città, le Regioni - sapranno esprimere.

Il programma guarda dunque ai soggetti radicati sul territorio, economici, sociali, culturali, come pure alle istituzioni amministrative responsabili del governo locale: a quelle società locali, cioè, dalla cui flessibilità e propensione all'innovazione dipende, in fine dei conti, tanta parte delle opportunità che l'Italia ha di conservare ed estendere la prosperità raggiunta. Nell'ambito del programma, uno specifico progetto di ri-

Società locali, economia e territorio nella geoeconomia italiana

Convegni e conferenze - Effetto città. Sistemi urbani e innovazione: prospettive per l'Europa alle soglie degli anni Novanta, 20-21 aprile 1989.

- Padania 1993. Competitività e prospettive di una macroregione italiana al centro d'Europa, 11-12 giugno 1992.

Pubblicazioni

Città e industria verso gli anni Novanta. Sistemi urbani e impresa a Torino, Genova, Verona, Bo109na, Firenze, Napoli. Bari, Catania, Milano e Roma, a cura di E. Borlenghi, 1990.

Il Mosaico del Mezzogiorno, di C. Trigiglia e I. Diamanti, 1992.

Lavoro e disoccupazione nel Mezzogiorno, a cura di M. D'Antonio, 1992.

La Padania, una regione italiana in Europa, di A. Bramanti, L. Senn, S. Alessandrini e altri, 1993.

139

DI RICERCHE EDUCATIVE E FORMATI VE

ISTITUTO

L'IREF (Istituto di Ricerche Educative e Formative) ha presentato lo scorso novembre, a

Verona, la ricerca L'imprenditorialità solidale.

Prospettive occupazionali e potenzialità di sviluppo dell'economia civile in Italia. L'indagine è stata realizzata nell'arco di 18 mesi tra la primavera del 1997 e l'autunno del 1998, ed ha usufruito di un contributo della Ig (Società per l'Imprenditorialità Giovanile).

La ricerca, che ha adottato un approccio teorico metodologico originale, si è basata sull'analisi in profondità di 10 contesti territoriali situati 3 al Nord (Como, Padova, Friuli Venezia-Giulia), 3 al Centro (Pisa, Terni, Ascoli Piceno) e 4 al Sud (Benevento, Catania, Reggio Calabria, Sassari), scelti in modo da rappresentare alcune configurazioni paradigmatiche (t:i ideali) dello sviluppo del Terzo settore nel nostro Paese.

L'indagine, che ha coinvolto oltre 50 ricercatori, ha utilizzato una pluralità di tecniche di raccolta dati (questionari, interviste, focus-group, materiale cartaceo, ecc.). La ricerca quantitativa è basata sull'analisi ed il commento dei dati raccolti attraverso la somministrazione diretta (faccia a faccia) di un questionario a risposte chiuse. Al termine della fase di rilevazione, dopo un attento controllo e pulitura dei dati, sono risultati validi 450 questionari, relativi ad altrettante organizzazioni non profit operanti nei contesti territoriali summenzionati.

L'idea di fondo da cui è partita l'indagine scaturiva dalla constatazione che le organizzazioni di Terzo settore nel nostro Paese, negli ultimi dieci/quindici anni, hanno costituito un attore significativo nella realizzazione delle politiche sociali nonché uno 140

dei pochi soggetti economici che ha coniugato lotta all'esclusione sociale, sviluppo locale e creazione di occupazione.

Ci si è accorti, allora, che ben poco si sapeva rispetto a questo universo che comprende una pluralità di soggetti anche molto diversi tra loro, e in particolare relativamente al contributo che essi forniscono, hanno fornito e potranno fornite in futuro, in ter-

mini di capacità imprenditoriale e potenzialità occupazionali.

Da qui è partita la necessità/esigenza da parte della Ig di analizzare in maniera approfondita l'apporto che il terzo settore ha offerto e può offrire dal punto di vista delle opportunità di impiego in particolare nelle Regioni meridionali che maggiormente soffrono del problema della disoccupazione, in specie giovanile.

- Quanti sono e dove lavorano gli occupati nel terzo settore?

- Che tipo di inquadramento contrattuale hanno?

- Quali sono le retribuzioni medie dei lavoratori del non profìt?

- Quanti nuovi posti di lavoro nel terzo settore nei prossimi due anni, e per quali compiti/mansioni?

- Quali le figure professionali maggiormente richieste e in quali mercati/settori?

- Quali politiche per il sostegno e lo sviluppo dell'occupazione nel Terzo settore?

Queste sono alcune delle domande guida a cui il lavoro di ricerca e di analisi dei dati ha cercato di fornire una risposta.

L'Unità di analisi è stata individuata nel sotto-insieme di organizzazioni non profìt o di Terzo settore aventi rilevanza economica.

Il concetto di rilevanza economica è stato definito in base a tre criteri:

1° Criterio: sono incluse soio le organizza-

zioni che producono o erogano (forniscono) beni servizi; restano quindi esclusi tutti gli organismi di terzo settore che svolgono esclusivamente funzioni di advocacy; protesta, tutela di utenti e consumatori, ecc. (ad esempio: i comitati per la difesa di...); 2° Criterio: tali beni e servizi devono essere, in parte, venduti a terzi (cioè una percentuale significativa delle entrate ditali organizzazioni deve provenire o da vendita diretta o da attività commerciali marginali); in base a questo criterio vengono escluse gran parte delle organizzazioni di volontanato (quelle regolamentate dalla 266/9 1); il criterio non si applica alle organizzazioni di terzo settore che svolgono funzioni di intermediari finanziari (ad esempio le fondazioni), le quali sono incluse qualora presentino i requisiti richiesti dal criterio successivo; 3° Criterio: riguarda le risorse umane e stabilisce che tali organizzazioni debbono ave-

re una quota minima di personale retribuito (dipendente o in qualunque altra forma); questo terzo criterio esclude anche una gran parte delle associazioni sociali.

Graficamente l'universo di riferimento della presente ricerca può essere rappresentato con tre cerchi concentrici: Il primo cerchio rappresenta il terzo settore in generale, il secondo cerchio è composto da

quelle organizzazioni che producono beni e servizi, ed il terzo (che costituisce l'oggetto specifico della nostra ricerca) comprende solo le organizzazioni che vendono tali beni e servizi a terzi e che retribuiscono una parte della propria forza lavoro.

Concludendo, ai fini della ricerca che è stata presentata, sono state studiate le seguenti tipologie organizzative: le fondazioni; le cooperative sociali (includendo anche alcune cooperative di produzione e lavoro laddove non vi sia redistribuzione degli utili); l'associazionismo pro-sociale (solo per la parte che rispetta i tre criteri summenzionati); l'associazionismo di solidarietà o volontariato (solo per la parte che rispetta i tre criteri summenzionati, e quindi è rimasto in gran parte escluso dalla ricerca); gli enti non profìt che assumono altri status giuridici, come gli enti morali, le ex IPAB privatizzate, enti ed istituti religiosi.

Per informazioni, rivolgersi alla segreteria dell'1rp.

ISTITUTO DI RICERCHE EDUCATIVE E

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Via E. Bezzi, 23/25 -00153 Roma Tel. 0615840449 - 06/5840681 Fax 0615840411

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Segnalazioni

ROMANO TRABUCCHI,

Prometeo e la sopravvivenza dell'uomo, Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 215 Prometeo che ruba il fuoco a Vulcano e l'intelligenza ad Atena compie un atto di riparazione al grave errore commesso dal fratello Epimeteo, reo di non aver dotato l'uomo dei mezzi per la sopravvivenza. A differenza quindi degli altri animali, che nella natura sul piano biologico appaiono armoniosamente inseriti, l'uomo è costretto a confrontarsi con la natura stessa per conoscerla prima e poi trasformarla traendone occasione di vita. Dal mito di Prometeo, tratto dai Dialoghi di Platone, l'autore prende spunto per interrogarsi sul futuro della scienza e della tecnologia nate dalla caratteristica dominante di Prometeo identifkato appunto come "homo faber"; egli si chiede, in particolare, se l'opera di trasformazione della natura non abbia già oltrepassato i limiti del lecito e dell'utile per l'uomo, producendo una sorta di eterogenesi dei Lini. Sullo scenario dei piii recenti sviluppi della Società industriale si vede, infatti, delinearsi nitidamente lo spettro della distruzione e, quindi, della morte; se per sopravvivere l'uomo non si limita a trasformare la natura ma l'aggredisce selvaggiamente e ne distrugge le risorse, il ratto di Prometeo si carica di valenze negative e 142

può, indirettamente, avallare il comportamento di Epimeteo che dimentica l'uomo semplicemente, non facendone oggetto né di stima né d'amore. È questo un tema ricco e suggestivo che l'Autore tratta con eleganza e scioltezza cogliendone la dimensione esistenziale, perché l'uomo vive ed in quale rapporto si pone con la natura, quella filosofica (è nello spirito di Prometeo la nascita e la giustificazione della Scienza?) ed infine, quella economica e sociologica (come può l'uomo distruggere le risorse naturali fonte, finora, della sua sopravvivenza e del suo progresso?). Quest'ultima dimensione sembra palesarsi con maggiore incisività nel volume, nel riprendere infatti questo tormentato tema dell'economia moderna (si pensi alla prima, clamorosa denuncia fatta oltre vent'anni fa dal Club di Roma col Rapporto sui "Limiti dello sviluppo"), l'Autore unisce la passione dell'intellettuale raffinato all'esperienza dell'uomo d'impresa e, quindi, membro attivo e consapevole della Società industriale.

(Giorgio Petroni) GIVSEPPE FARNETI

Gestione e contabilità dell'Ente locale, Milano, Maggioli Editore, 1998 Il volume di Giuseppe Farneti, professore ordinario di ragioneria generale ed applica-

ta all'Università di Bologna (corso di laurea in Economia e Commercio con sede a Forlì), rappresenta un tentativo ben riuscito di partire dalle norme in materia di amministrazioni locali, per valorizzarne i contenuti fìltrati da un approccio di natura economico-aziendale.

Il lavoro si riferisce, infatti, al tema della gestione e della contabilità, trattando del nuovo ordinamento finanziario e contabile come risulta dal d.lgs. 25febbraio 1995 n.

77, dalle successive modifiche e proroghe, dalla modulistica che nel frattempo è stata approvata, dalle Bassanini.

Complessivamente aggiornato sino al luglio 1998, il panorama legislativo è però presentato in maniera da rendere manifesto come la nuova normativa rappresenti un passaggio epocale. I commenti dell'autore, infatti, affìancandosi costantemente alla puntuale citazione normativa, accompagnano costantemente il lettore nel realizzare come, dove e perché, si stia vivendo un passaggio complesso ed importante che vede gli Enti locali sempre più vicini all'essere aziende, orientati alla realizzazione di condizioni di ottimale utilizzazione delle risorse nella produzione/distribuzione di una offerta chiamata a soddisfare i bisogni più o meno manifesti dei cittadini/utenti.

Il testo, nel comporsi di diverse parti, segue e rappresenta in maniera efficace quello che potrebbe definirsi il "ciclo operativo dell'ente": si passa infatti dal momento della programmazione a quello della gestione, quindi alla fase delle rilevazioni, della rendicontazione per ricomporre infine il tutto nel sistema del controllo della gestione.

Tale modalità di gestione della trattazione, affiancata ed integrata da capitoli di contenuto chiaro e preciso, viene a ricomporre un quadro normativo più che esaustivo, stimolo costante, e non punto di arrivo, per un autore che non perde mai l'occasione per fare del libro una Atile lezione di economia d'azienda applicata all'Ente in quanto organizzazione, sistema socio-tecnico finalizzato ad un scopo.

Un'ultima riflessione è infine doverosa: il processo di rinnovamento del quale il testo è allo stesso tempo testimonianza e contributo, si colloca in una riflessione di più vasto respiro che riguarda quel processo di trasformazione che, con tempi e modalità differenti, investe l'intera PA e del quale l'Ente locale sembra oggi porsi come un primo "laboratorio". Di qui l'importanza del volume, la ricchezza e l'attualità dei contenuti trattati, nonché il valore della chiarezza con la quale vengono presentati.

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I LUBItI 1)1 "610 VENTìJ UOMANDA" Dentro e fuori la società

(IclitTO e fuorI c1eiù

Eniargniazioi,e e stato sociale

di Giovanni Sarpelton Contro l'emarginazione i giovani sostemmgnno la necessità - oltre alla vita scremlim in famiglia e al ruolo fondamentale della scuola - di "coniunicare, mettersi in relazione, confrontarsi con qualsiasi altra persona": infatti "medici, psicologi. sociologi concordano nel rilevare che all'origine di ogni disturbo del comportamento si trovano immancabilmente carenze affettive ed educative". Sarpellon proponendo interventi per climinare il malessere nella società individua vari agenti dell'emarginazione: la poven, la malattia, la razza. la lingua...

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(pp. 152, L. 18.000)

Leae e libertà e Hhci'ta

I giovani, la legalità, la giustizia

di Rodolfo Venditti Dalla "sfida" della difesa delle libertà individuali alla proposta di 'cambiamento" di ordine generale: questa la costante nelle risposte dei giovani alla discussione sulla legalità e stilla gitistizia. Infatti, per essi, "infrangere qualcosa di ah/male diventa una sfida.., soprattutto se la prora è pericolosa e proilsi' ma..,", "la trasgressione è processo di crescita quando propone un modello alternativo.,, che verrà poi accettato e riuscirà a canibittre le cose,,, per adeguare le regole alle nuove esigenze della gente". Le coor dinate tracciate d'a Venditti costituiscono la cornice e la guida per comprendere e orientare i comportamenti 'non solo dei giovani",

(pp. 184, L. 18.000)

Io. tu. gli altri

io tu glialtr'i

La differenza: ostacolo o valore? ,

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di Claudio Bucciarelli Un giovane afferma "I diversi non sono coloro che non hanno problemi, ma coloro che non accettano chi è diverso" e un altro "accettare può semplicemente euler dire io ti la.rcio in pace, purché tu lasci in pace me, e rigiiimmo sifa iJ'atti propri... .. . Il processo di crescita della gioventù e della società in genere è legato strettamente alla accettazione delle diversità, e in questo arco di problematiche Bucciarelli indaga, riscopre e suggerisce soluzioni per comprendere la società nella quale viviamuo e per conihuim al suo sviluppo.

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(pp, 128, L. 18.000)

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Competizione e solidarietà Da solo o con gli ali,'!?

di Luciano Corradini "Esiste un modo per essere felici, senza clic la nostra soddisfazione sottragga il rispetto e la dignità ad un'altra persona?" forse "ad un'a condizione: le cose che facciamo devono aiutare a cotitpiacere gli altri.,." quindi "solo con l'uso costantc delle nostre qualità possiamo imparare a rispettare i diritti altrui, riconoscendo che i loro diritti sono i nostri doveri". A questa e ad altre domande Corradini risponde con un'analisi della societh dove vari soggetti - famiglia, scuola e istituzioni - contribuiscono ad uno sviluppo armonico fra competizione e solidarietà. (pp. 160, L. 18.000)

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l'a cittadinanza attiva Democrazia e rifor,na della politica

dt Giuseppe Cotturri -' -

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ogni legge c'è un legislatore. ma dietro le norme costituzionali c'è propriamente un fatto sociale e un ordine sociale... Una costituzione democratica si presume sostenuta dal consenso prcssoch una nime dei consociati che convergono sulle regole che governano l'ordine e il conflitto politico" è quanto uffeniìa un gruppo di rugazi, ma è anche una iniplicita richiesta di democrazia viva: di cittadinanza attiva. Cotturri percorre la storia della vita politica e democratica dalle democrazie dell'antica Grecia alle ipotesi di governi futuri. attraverso argomnetlti sempre attuali quali: come combattere la comizione? come tutelarsi dall'abuso dell'uomo eletto al potere? (pp. 120,

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Burocrazia e mutamento Persuasione e retorica dell'innovazione amministrativa

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La rivista queste istituzioni L'attuale programma di lavoro si incentra sull'analisi teorico-pratica relativa a tre grandi temi: • un'amministrazione che dialoghi con i cittadini e che ne raccolga necessità e progettualità, che sia snella ma efficace nei campi dove il suo intervento è necessario; • una cultura delle professioni, intese come mezzi per trasmettere nella società conoscenze e competenze sempre aggiornate e criteri di qualità; • una cultura del non-profit, del dare libero e solidale, che assolva la sua funzione più genuina, che è quella di formare negli associati un senso dell'impegno civile.

Sono temi che hanno per sfondo naturale, malgrado ogni possibile problema, l'Europa e la sua progressiva integrazione.

I contenuti —Il corsivo editoriale, con il punto sugli avvenimenti più importanti che caratterizzano i settori di nostro interesse.

—Il taccuino, uno spazio da dedicare a temi di attualità, con articoli più brevi e un taglio più "cr0nachistico".

—I dossier, raccolgono articoli, monografie, dibattiti sui principali argomenti o temi di attualità che sono propri del settore pubblico. L"Istituzione Governo", la sanità e la spesa farmaceutica, l'amministrazione Europa, l'archivio media, le associazioni e le fondazioni, i nuovi assetti organizzativi per le amministrazioni pubbliche, i partiti politici sono gli argomenti trattati. È stato pubblicato un indice generale della rivista a testimonianza di circa venti anni di costante presenza nel panorama editoriale italiano. Se ne può chiedere una copia in omaggio alla redazione.

—Le rubriche, con le notizie relative all'attività del Gruppo di Studio Società e Istituzioni, nel cui ambito è nata la rivista, e di altre associazioni, fondazioni e centri studi, e le recensioni di testi che trattano temi di nostro interesse.

—Gli opuscoli,

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La serie intende: riprendere in estratto dossier della rivista (è il caso del l mero con il dossier "Cultura della valutazione" estratto dal n.

99) o argomenti tra loro omogenei, per uso professionale o didattico (è il caso del 3° opuscolo dedicato a "L'informatica delle pubbliche amministrazioni"); presentare materiali complementari alla rivista (come nel 2° opuscolo, che presenta un saggio su "I fondi strutturali. Un crocevia critico tra Unione Europea, Stato e Regioni").

Librerie presso le quali è in vendita la rivista

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Napoli Libreria Marotta Libreria lnt.le Treves

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Trieste Libreria Tergeste

Firenze Libreria Feltrinelli

Pisa Libreria Feltrinelli

Genova Libreria Athena

Roma Libreria Feltrinelli N. Babuino) Libreria Feltrinelli (V.E Orlando) Libreria Forum S3 Libreria GE.PA. 82 Libreria Mondoperaio

Bologna Libreria Feltrinelli

Milano Cooperativa Libraria Popolare Libreria Feltrinelli Manzoni

Udine Cartolibreria Universitas Urbino Libreria ÂŤLa Goliardica, Venezia-Mestre Libreria Don Chisciotte

LA COLLANA MAGGIOLI - QUESTE ISTITUZIONI Bruno Dente Politiche pubbliche e pubblica amministrazione, pp. 255, 1989, L. 30.000 Sergio Ristuccia Enti locali, Corte dei Conti, Regioni, pp. 251, 1992, L. 42.000 R. Greggio, G. Mercadante, P. Miller, J.P. Nioche, J. SIof Management: quale scuola per una professione europea?, pp. 264, 1993, L. 38.000 Stefano Sepe Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall'UnitĂ ai nostri giorni, pp. 455, 1995, L. 58.000 AA.VV. Fondazioni e Associazioni. Proposte per una riforma del primo libro del Codice Civile, pp. 249, 1995, L. 38.000 Sergio Ristuccia Volontariato e Fondazioni. Fisionomie del settore non profit, pp. 324, 1996, L. 48.000.

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Vi prego di inviarmi le cedole di prenotazione dei volumi pubblicati/in corso di pubblicazione.

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