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PER RIPRENDERE IL CAMMINO DOVE È STATO INTERROTTO

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PER RIPRENDERE IL CAMMINO DOVE È STATO INTERROTTO

1 - CHE FARE?

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Berlusconi e Fini fondarono nel marzo del 2009 il Popolo della Libertà per unire il centro e la destra in un solo partito, per superare i dissapori ricorrenti tra FI e AN e per facilitare un’evoluzione bipartitica del sistema politico bipolare. Dopo la formazione del Governo Monti, quando filtrarono da alcuni ambienti del PdL le prime indiscrezioni sull’intenzione di liberarsi degli ex-AN, pochissimi erano disposti a credere che Berlusconi avrebbe decretato il fallimento plateale di quel centrodestra in un solo partito che lui stesso aveva teorizzato con il famoso discorso del predellino. Oggi che lo sviluppo degli avvenimenti ha dimostrato l’attendibilità di quelle indiscrezioni su una pulizia etnica che è stata possibile perché il Porcellum attribuisce ai quattro capibastone di qualsiasi partito il potere smisurato, discrezionale e antidemocratico di nominare chi vogliono senza discuterne in un organo collegiale statutariamente previsto. Oggi che niente ricorda gli anni in cui AN era tra i protagonisti indiscussi della politica italiana e il clima che si respirava quando il patto della staffetta (“oggi Berlusconi, domani Fini”) sembrava scritto nelle cose. Oggi che la coalizione messa in piedi dal Cavaliere per le elezioni politiche del 2013 ha subito il danno della sconfitta elettorale e la beffa di perdere alla Camera per circa 125.000 voti.


Oggi che gli analisti elettorali concordano sul fatto che mentre Berlusconi ha fatto il possibile per portare il PdL a 7.332.667 voti e l’impossibile per vincere le elezioni, i famosi quattro capibastone hanno fatto di tutto per perderle, causando l’astensione di 370.000 elettori ex AN che non si sono recati alle urne perché senza simbolo e senza rappresentanti. Oggi che SB ha rimesso in pista un partito talmente suo, FI, che non manca chi propone di candidare premier sua figlia Marina. Oggi che la politica s’interroga - sugli effetti sistemici che la prima condanna di Berlusconi a una pena definitiva, l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, la decadenza da senatore e l’eventuale uscita di scena potrebbero provocare sul sistema Paese e sul PD; - sulla possibile formazione di un “partito governista” d’ispirazione popolare in grado di radunare coloro che abbandoneranno il Cavaliere, ciò che rimane dell’UDC, una parte di Scelta Civica e gli eventuali transfughi postdemocristiani del PD; - sul ruolo e sul peso della sinistra in un PD dove la leadership sembra solo un affaire tra due ex DC, Enrico Letta e Matteo Renzi; - su quanto possa durare la forza dirompente di Grillo e di Casaleggio se uno dei tanti che scrive sul loro blog, Giorgino G., ha commentato la sconfessione dei senatori cinquetelle, firmatari dell’ordine del giorno sull’abolizione del reato d’immigrazione clandestina, in questi termini: “Che volete fare da grandi? I fascistelli post leghisti? I democratici progressisti? Gli ex berluschini allo sbando? Gli adepti di Casaleggio?… Che cavolo volete fare di voi e del Paese?” Oggi che i fatti sono quelli che sono, chi si sente di destra, più che denunciare le colpe di chi ha sbagliato i calcoli, ha il dovere di chiedersi: “Che fare?”. “Che fare?”, per evitare alla politica, allo Stato e alle Istituzioni di ristagnare in una crisi che potrebbe trasformarsi in una decomposizione irreversibile? “Che fare?”, per impedire che la pulizia etnica di cui è stata vittima la destra del PdL colpisca ciò che il MSI e AN hanno rappresentato nel secondo novecento di questo Paese, cagioni la rimozione della memoria, impedisca la rinascita di un’Altra Storia e riesca dove la Prima Repubblica ha fallito? Marcello Veneziani, in un editoriale, “Tornare a Itaca, appello a donne e uomini di destra” (riportato su Totalità, il magazine online di cultura e politica, diretto da Simonetta Bartolini) è stato il primo che ha rivolto, apertamente e direttamente, un appello, a coloro che provengono “da Alleanza nazionale, dal vecchio Msi, dalle esperienze varie e anche non politiche di destra nazionale, sociale e non allineate”.

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“È ora che si torni ad Itaca, come scrive in un appello che sottoscrio, Renato Besana. È ora che si tenti, dico almeno si tenti, di ritrovare un motivo comune per rilanciare l’iniziativa politica… Non volevamo morire democristiani, ma non ci piace nemmeno finire grillini o


montezemoliani. Si può agire all’interno del quadro bipolare, dunque collocandosi sul versante alternativo alla sinistra, ma occorre recuperare una propria linea d’azione e di pensiero. Anche perché nel paese esiste, come dimostra la nostra storia e il presente nel resto d’Europa, un’area che oscilla tra il dieci e il venti per cento, che aspetta un discorso serio di rinascita italiana… Sintetizzando in una boutade sostengo che il Pdl, per accrescere l’offerta politica, deve spacchettarsi in P, D e L, ovvero Popolari, Destra e Liberali. C’è un potenziale bacino di consensi per chi con tempismo e attraverso volti e temi giusti riesce a interpretare il disagio presente, la voglia di futuro ma anche la memoria storica. Come mi è capitato di dire e di scrivere, è il momento giusto, per far nascere un’Altra Storia. Un movimento rigoroso e forte, duttile ai fianchi ma duro al centro, onesto e animato da passione civile, etica e ideale, un amor patrio di quelli che non odorano di stucco e rimmel ma vero e severo, che fa tornare il gusto della politica. Stavolta non si lascia il monopolio dell’etica alla retorica partigiana della sinistra, non si lascia l’esclusiva della sobrietà ai tecnici, non si lascia ai giudici stabilire l’onestà, non si lascia la rabbia popolare ai grillini. Si fa sul serio. Si chiamano i migliori, si usano i tecnici per raddrizzar la barca ma senza dar loro il comando: devono risponderne, e non alle banche o ai poteri esteri ma alla politica e al popolo italiano. Il primo atto è la selezione, la cerca dei dieci, e dai dieci dei cento e dai cento dei mille, per costituire una nuova élite, con fresche energie, scegliendo il meglio che c’è nel paese; il minimo indispensabile tra chi c’era prima, gli altri a casa o in fila senza priorità d’imbarco. E poi un programma essenziale e popolare in una decina di punti per rilanciare su basi effettive una nuova rivoluzione conservatrice italiana, conservatrice sul piano dei principi e dei beni, rivoluzionaria sul piano delle innovazioni pubbliche e sociali. L’alternativa è fingere che nulla sia accaduto, accodarsi ai vecchi capi, assistere inermi alla scomparsa, affondare indecorosamente per non osare… Deponete i rancori, incontratevi, cercate la linea comune. Da soli non ce la fate, andrete al rimorchio se non al guinzaglio o finite fuori dal gioco. Abbiate il coraggio di sacrificare qualcosa e qualcuno per far nascere un vero soggetto politico, in grado di splendere da solo e di allearsi ma in funzione trainante e non passiva, capace di egemonizzare e non di accodarsi. Lo dico per l’Italia, per noi e per chi ha nostalgia del futuro”.

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Dopo che Berlusconi, il 23 marzo 2013, riconobbe in Piazza del Popolo il fallimento del PdL chiudendo il suo comizio postelettorale al grido di “Viva Forza Italia”; dopo che qualcuno suggerì a personaggi di spicco ex AN (oggi in FI e in FdI) di cogliere al volo l’occasione e di avviare subito il processo di ricomposizione della destra italiana; dopo che Fratelli d’Italia si guardò bene dal farsi capofila di un percorso capace di riunire, in un nuovo soggetto politico, le numerose sigle della galassia postaennina… diversi rappresentanti ex AN della sana provincia italiana, tra lo scetticismo di alcuni e la speranza di molti, percorsero l’Italia in lungo e in largo, animando, in diverse città della Penisola (il 13 maggio a Palermo, il 16 giugno a Milano; il 21 giugno a Frosinone; il 28 e 29 giugno a Lecce; il 20 agosto a Custonaci; il 22, 23, 24 e 25 agosto a Manfredonia; il


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6 settembre a Orvieto, il 7 settembre a Mirabello), un serrato e proficuo dibattito sulla necessità di ripensare un nuovo rapporto strategico tra il centro e la destra e di ricomporre la diaspora della destra italiana, riunendo le sigle elettorali e i movimenti presenti sul territorio in una federazione. Avviato in Sicilia, il dibattito ha vissuto cinque momenti importanti: - a Milano, il 16 giugno, quando Meloni e La Russa spiegarono che il loro percorso era diverso da quello che gli ex-AN immaginano per la destra italiana; - a Roma, il 26 giugno, durante l’incontro che Massimo Magliaro coordinò per la Fondazione Almirante, quando Marcello Veneziani, nell’intervento conclusivo, tracciò le linee fondamentali del “Manifesto” che poi firmerà con alcuni intellettuali (Gennaro Malgieri, Massimo Magliaro, Renato Besana, Primo Siena, Luca Gallesi, Marco Cimmino, Gianfranco de Turris, Luciano Garibaldi, Pierfranco Bruni e Nino Benvenuti) e che sarà condiviso da molti dei movimenti che orbitano nella galassia della destra italiana (tra gli altri, Francesco Storace per conto de “La Destra”, Gianni Alemanno per conto di “Fondazione Nuova Italia”, Adriana Poli Bortone per conto di “Io Sud”, Domenico Nania per conto di “Nuova Alleanza”, Pasquale Viespoli per conto di “Mezzogiorno Nazionale”, Silvano Moffa per conto di “Azione Popolare”, Mario Landolfi per conto di “Pronti per l’Italia”, Domenico Benedetti Valentini per conto di “Controcorrente”…; - a Orvieto, il 13 luglio, quando Storace, durante i lavori del suo Comitato Centrale, non parlò di AN “come è stata” ma “come potrebbe essere”; - sempre a Orvieto, il 6 settembre, durante il seminario organizzato dalla fondazione “Nuova Italia”, quando Gianni Alemanno illustrò tre ipotesi: allargare FdI, ripartire da AN o procedere verso la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario; - a Mirabello, il 7 settembre, durante la festa di Futuro e Libertà, quando Roberto Menia la riposizionò a destra. Gli ex che sono intervenuti sul “Che fare?” con interviste, dichiarazioni alle agenzie di stampa e confronti pubblici, hanno concordato su un solo partito ma si sono espressi in modo diverso sulla strada da seguire e sul simbolo da utilizzare: FdI, sostenendo che un nuovo centrodestra in grado di espandersi c’è già; altri, e chi scrive, proponendo di scongelare il simbolo di AN, ripartendo da destra; altri ancora, suggerendo il ricorso a un simbolo nuovo di zecca in un tentativo estremo di mediazione tra l’assorbimento in FdI e la ripartenza da AN. Tra i leader dei movimenti politici che nelle elezioni del 2013 non erano apparentati con la coalizione di “Berlusconi Presidente”, sia Roberto Menia (in nome e per conto di Futuro e Libertà) sia Luca Romagnoli (in nome e per conto della Fiamma Tricolore), hanno sempre sostenuto, con argomenti diversi, la necessità di un unico e nuovo contenitore politico in grado di rappresentare degnamente la destra italiana. Tra i leader dei movimenti politici (La Destra e Fratelli d’Italia) che nelle politiche del 2013 erano coalizzati con “Berlusconi Presidente”,


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Francesco Storace ha sostenuto la necessità di stare insieme, dichiarando, sul “Fatto” del 17 agosto 2013 che “se torna Forza Italia, noi dobbiamo provare a rifare AN, altrimenti facciamo la fine dei socialisti”; Giorgia Meloni ha spiegato, su “Maldestra-Charta Minuta”, che “la querelle intorno alla riedizione di Alleanza Nazionale, operazione speculare in linea con il revival inaugurato da Berlusconi” non l’appassiona; Ignazio La Russa ha precisato di lavorare per un “nuovo centrodestra nazionale” e che Fratelli d’Italia (21 settembre 2013, Corriere della Sera) si farà “capofila, con orgoglio e senza pretese di annessione, di un progetto che tenterà di rimettere insieme diverse storie personali e politiche degli orfani del PdL… Apriremo le porte a tutti, ex Pdl, ex An, cattolici, liberali, purché non appaia un percorso per ricollocare persone che non hanno avuto la candidatura di Berlusconi”. Chiunque illustri il tentativo di rimettere insieme storie personali e politiche diverse assicurando che non sarà chiesto a nessuno di entrare con il cappello in mano ma ostentando le chiavi che aprono e chiudono la porta d’ingresso, avrebbe ricevuto risposte a tono che si possono immaginare. Non è il nostro caso, anche se La Russa - per il curriculum che vanta quale ex in campo da almeno mezzo secolo, dirigente giovanile, consigliere regionale lombardo MSI dal 1985, deputato dal ‘92, vice-presidente della Camera nel ‘94, presidente di Commissione per le autorizzazioni a procedere nel 1996, capogruppo a Montecitorio dal 2001 al 2008, ministro della Repubblica dal 2008 al 2011, reggente di AN dal 2008 al 2009, coordinatore del PdL dal 2009 al dicembre 2012 e presidente in carica di FdI - dovrebbe sapere più di altri che quanti provengono dalle sue stesse origini non possono mai sentirsi orfani del PdL per almeno tre motivi: - Perché si diventa orfani di padre o di madre quando non ci sono più, mentre il PdL era vivo e vegeto quando i quattro capibastone si liberarono dei rappresentanti della destra italiana. - Perché gli ex-AN (citati in sequenza e come se gli fossero estranei) erano già orfani di un Partito del quale era reggente quando è stato sciolto. - Per le loro storie personali. Gli ex-AN della sana provincia italiana non sono in attesa di ricollocarsi dopo che “non hanno avuto la candidatura da Berlusconi”. Sono donne e uomini di destra che i loro leader hanno messo con le spalle al muro di fronte alla scelta secca “se prendere o lasciare” la proposta di sciogliere AN nel PdL. Sono donne e uomini di destra che hanno seguito i loro leader perché il partito unico di centrodestra doveva imprimere al sistema politico, insieme col PD a vocazione maggioritaria di Veltroni, quella svolta bipartitica in grado di liberarlo dai ricatti delle forze parlamentari minori.


Sono donne e uomini di destra che non si sentono orfani del PdL ma vittime di quei neocentristi che hanno debuttato eliminando gli ex-AN dalle liste, che hanno puntato i piedi contro i falchi di FI sul voto di fiducia al Governo Letta, che hanno mostrato i muscoli liberandosi dal complesso del padre-padrone e che prima o dopo consumeranno il parricidio contro il leader indiscusso al quale devono tutto. Condivisibile o no, se è questa la narrazione dei fatti, coloro che vogliono ricomporre la diaspora dovrebbero farlo innanzitutto recuperando al confronto tra idee e progetti quelle vittime di una pulizia etnica che avevano impreziosito il PdL con onestà, coerenza e competenza. Se mancano idee e progetti, manca il confronto. Manca la politica. Manca la democrazia. Manca il futuro. Stiano tranquilli quanti pensano e dicono che gli ex intendono ripartire da AN per accomodarsi in prima fila. Chi si batte per riprendere il cammino dove è stato interrotto immagina un partito dove non ci sia chi parte in vantaggio e in prima fila ma una competizione alla pari tra coloro che lo animano in prima linea; dove non ci siano posti preassegnati e nomine già contrattate ma compiti e incarichi da svolgere; dove non ci siano capicorrente che indichino ai propri affiliati la sedia dove accomodarsi ma regole democratiche basate sul ricorso alle primarie e sul rispetto del consenso elettorale; dove nessuno possa affermare “apriremo le porte a tutti…” ma ognuno si senta proprietario pro quota dell’intero; dove si premia chi dà più di quanto riceve.

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2 – è meglio ripartire da alleanza nazionale PER RIPRENDERE IL CAMMINO DOVE È STATO INTERROTTO

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Al netto delle polemiche, durante i dibattiti sono emerse due posizioni: 1 - Azzerare tutto e ricominciare daccapo, insieme e uniti, lasciando che siano i risultati sul territorio a selezionare le classi dirigenti e gli elettori a indicare con le primarie leader e candidati. 2 - Riconoscere a FdI una specie di diritto di precedenza su cosa fare, come andare avanti e chi cooptare. Intendiamoci. Nessuno sottovaluta i meriti di coloro, come La Russa, Meloni, Rampelli e Crosetto, che sono riusciti a reclutare, in soli 40 giorni, i candidati giusti per superare le altre liste apparentate al PdL (Forza Sud-MPA, MIR, Partito dei Pensionati, 3L, Intesa Popolare, Liberi per un’Italia senza tasse) anche senza raggiungere il 2% nazionale per entrare alla Camera dei Deputai e il 3% regionale necessario per entrare al Senato della Repubblica. Sbagliano, però, se pensano di realizzare una “reductio ad unum” imposta dall’alto sulle spalle di un immenso capitale umano formatosi, lacrime e sangue, sul territorio. Un accordo al vertice e qualche pattuglia sparsa nelle province dell’Impero, si trovano sempre. Un nuovo entusiasmo capace di accendere sul territorio il popolo ex AN, con più difficoltà. Specie se chi dovrebbe suscitarlo si presenta in modo autoreferenziale. FdI, per esempio, sbaglia quando spiega la sua pretesa di espandersi per annessione col fatto che è presente in Parlamento perchè ha conquistato 0 senatori e 9 deputati ex AN. Dimentica, infatti, che è presente alla Camera solo perché il Porcellum prima impone il 2% dei voti per partecipare al riparto dei seggi e poi dispone il recupero della lista con la percentuale più vicina. Come l’Udeur di Mastella nel 2006, FdI, con l’1,95%, senza quella scappatoia, non sarebbe entrata in Parlamento. Dimentica, inoltre, che La Destra non è presente in Parlamento perché Storace ha calcolato male gli effetti della sua candidatura regionale sulle elezioni politiche. Un leader nazionale che nel corso di una campagna elettorale per il governo del Paese si concentra nel Lazio, diffonde in partenza la sensazione di ritenere più importante la conquista della Presidenza della Regione che una rappresentanza in Parlamento. Dimentica, infine, che è presente da sola, e solo alla Camera, perché non ha raggiunto per poco il 2%. Se l’avesse superato, anche La Destra (con il suo 0,6%) sarebbe entrata in Parlamento quale lista con la percentuale più vicina alla soglia, ottenendo tra due e tre seggi. Lascio immaginare la scena di due gruppuscoli che dissertano su chi deve fare da capofila sventolando le chiavi di casa: se la Meloni, perché FdI ha 6 o 7 deputati in più di Storace e nonostante abbia dato il benvenuto al PdL con queste parole: “Oggi nasce il primo partito italiano dell’era moderna.


Non è una zoppicante sintesi di interessi, non è l’insieme delle idee del Novecento, non è semplicemente il furbo tentativo di restyling di una classe dirigente magari uscita sconfitta dalle urne. Quello che noi stiamo facendo è un movimento del futuro del quale l’unica sintesi possibile è quella tra la modernità e le idee, le delusioni e l’amore per la grande tradizione del popolo italiano”; se La Destra, perché ha compreso in tempo che Alleanza Nazionale stava deragliando verso una china che l’avrebbe portata a sciogliersi nel PdL italiano e nel Partito Popolare Europeo. La scossa al popolo ex AN e la ripartenza della destra italiana, che può mettere in moto il rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno, non sono una questione di percentuale e di diritti alla precedenza. Sono una questione di feeling tra chi non aderì mai ad AN, chi la lasciò prima che si sciogliesse, chi dissentì dallo scioglimento, chi salutò il PdL come “primo partito dell’era moderna” e chi si espresse per una federazione e con molti dubbi su come stava nascendo.

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“Al centrodestra, per le caratteristiche, l’atteggiamento mentale e l’insediamento sociale del popolo tricolore, si sarebbe adattata meglio la federazione che il partito unico. Nel 2007, una bozza illustrava perché era preferibile un approccio morbido e graduale al Partito degli Italiani e alcune soluzioni per disciplinare le decisioni da prendere: organismi comuni dal vertice alla base per assumere le determinazioni sulle alleanze e sul programma, ricorso alle primarie per la scelta dei candidati uninominali, autonomia dei partiti federati per reclutare, selezionare e formare la classe dirigente e le liste amministrative proporzionali… I fatti sono andati in un’altra direzione e quindi si tratta di immaginare come potrebbe svilupparsi il PdL tenendo ben presente quanto accade sull’altro versante… L’occasione capitò a proposito quando il Partito Democratico scelse di correre da solo e sia Fini sia Berlusconi, che pure fino a qualche giorno prima neppure si parlavano, decisero in un attimo di realizzare insieme quello che nessuno dei due era riuscito a fare da solo… Adesso che si tratta di costruire sul serio un partito, si coglie un non so che di strano, la sensazione che l’unità. si stia realizzando senza entusiasmo e senza un coinvolgimento emotivo del popolo tricolore. Che cosa occorre per trasformare una lista in un partito? Cosa c’è e cosa manca in questo Popolo della Libertà che comincia a risentire gli effetti collaterali di una fusione a freddo e al quale ci si avvicina senza trasporto, con qualche dubbio e poche certezze? Il PdL, fatti gli scongiuri, può permettersi gli errori del PD? Certo che no, ma la cosa non induce a nascondere la polvere sotto il tappeto. Nel centrodestra c’è la materia prima di cui difetta il PD: un campo di valori condivisi… C’è anche una mission: radicare in profondità il pensiero nazionale e irrobustire la spina dorsale del Paese attraverso la tutela dei diritti, l’etica dei doveri, il principio di sussidiarietà, la democrazia come scelta diretta dei cittadini…


Manca ciò che noi avvertimmo quando il MSI confluì in AN: la sensazione diffusa, potremmo dire travolgente, di andare incontro a una sfida più grande. Manca la percezione di stare tutti dentro il processo di fondazione, di essere in qualche modo proprietari del Partito nuovo che nasce. Manca ciò che fa di una decisione un nuovo inizio e la guida strategica di un leader col quale attrezzarsi per vincere anche dopodomani, dopo Berlusconi. Qui sembra tutto calato dall’alto, tutto fatto e freddo, tutto senz’anima e senza tensione emotiva, tutto deciso a tavolino tra pochi intimi che si misurano sulle percentuali perché pensano, così, d’iniziare la corsa dei cento metri con dieci di vantaggio sugli altri. Troppo poco e troppo arido rispetto alla sfida che ci attende. Ci sarà tempo per recuperare? È possibile. Purché sia chiaro a tutti che per trasformare una lista in un grande partito occorrono: uno spirito di squadra, in modo che nessuno si senta escluso da tutto; un’organizzazione aperta e plurale, in modo che la ricompensa appaia proporzionata ed equa rispetto a ciò che ciascuno fa e dà; la pratica delle primarie, per consentire ai cittadini di scegliere la gran parte dei candidati; una struttura a rete, per collegare persone, associazioni, centri studi, riviste, siti telematici, movimenti civici, pensatoi, fondazioni...” (“Una Nuova idea per l’Italia”, edizione Ruubbettino, febbraio 2009, pagg. 143 e seguenti).

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I problemi della destra italiana richiedono uno sforzo unitario da parte di tutti perché, purtroppo, vanno ben al di là delle dispute su “a chi tocca”. Amareggia che ex-AN ed ex PdL considerino quest’aspetto robetta da poco, incorrendo nel doppio errore di chiamare in causa le origini secolari della destra per mettere in un cantuccio le più recenti e di liquidare AN come una moneta fuori corso. Meloni, Milano, 16 giugno 2013. Festa Tricolore. “La destra non è nata con An e neanche con il MSI, ma molto, molto prima…”. Meloni, “Maldestra-Charta Minuta”. “Ciò che ho in mente si può chiamar destra o centrodestra o partito popolare o come diavolo volete...”. Le affermazioni dell’ex vicepresidente della Camera ed ex ministra di AN, per un verso appaiono scontate e per l’altro, datate. Appaiono scontate, quando scomodano l’origine secolare del genere “destra” per sottodimensionare quella contemporanea della specie MSI/AN. Le tesi congressuali di Fiuggi, per la penna di Malgieri, avevano già precisato, e siamo nel 1994, che “non si può identificare la destra politica con il fascismo”, che non si può “istituire una discendenza diretta da questo” e che “le radici culturali della destra affondano nella storia italiana, prima, durante e dopo il Ventennio”. Appaiono datate quando ricorrono al solito linguaggio “terzista” di chi, per apparire originale “andando oltre” nella ricerca “di altro”, assimila come se nulla fosse la denominazione


di un sentire (la destra) al nome di una formula (il centrodestra), di un partito qualsiasi o di “un che cavolo volete voi”. Chi propone di ripartire da AN per costruire un soggetto che sia di tutti, non pretende di risalire lontano nei secoli. Più modestamente, intende connettersi alle origini nostre-nostre che hanno reso la specie “destra italiana del novecento” particolare per tratti e connotati faticosamente riconquistati. “C’è un potenziale bacino di consensi per chi con tempismo e attraverso volti e temi giusti riesce a interpretare il disagio presente, la voglia di futuro ma anche la memoria storica. Come mi è capitato di dire e di scrivere, è il momento giusto, per far nascere un’Altra Storia” (Marcello Veneziani - Ritorno a Itaca). Presente e futuro. Memoria storica. Tutto si lega e tutto si ritrova dentro una destra consapevole delle proprie radici e pronta per un’Altra Storia. “Noi siamo entrati in Parlamento. Poco importa. L’obbiettivo è riunire la destra italiana in un solo partito. Noi siamo pronti ad azzerare tutto per ricominciare insieme, per ricomporre una comunità e per costruire un partito in carne e ossa partendo da chi ne ha voglia e da chi ha sempre dato più di quanto ha ricevuto. Sarà il popolo di destra a scegliere chi dovrà guidarlo, con le primarie. Sarà popolo di destra a scegliere chi dovrà rappresentarlo, con il voto. Voi ci state?”. Se i leader di Fratelli d’Italia avessero pronunciato parole come queste, invece di pensare alle prossime europee con officine che mimano, anche nel nome, un frasario tipicamente altro, forse la destra italiana avrebbe già trovato un simbolo e un leader. Se…

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3 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PER EVITARE CHE LA DESTRA ITALIANA SIA RIMOSSA DALLA STORIA

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Si può giudicare come si vuole il conflitto 1939-1945. Certamente s’è trattato di una guerra fratricida tra gli Stati europei più influenti d’allora - Gran Bretagna e Francia da una parte, Germania e Italia dall’altra - che diventerà mondiale con l’ingresso degli Stati realmente vincitori: USA e URSS. È proprio vero. Un conflitto si sa come inizia e non si sa mai come finisce. La seconda è iniziata come un’appendice della prima, doveva essere una guerra lampo limitata al Vecchio continente, e invece giorno dopo giorno è diventata un’altra cosa: un conflitto sciagurato che ha conosciuto milioni di vittime, la shoah e il lancio delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Le guerre lasciano sempre il segno e spesso modificano l’assetto geopolitico precedente in modo imprevedibile. La Gran Bretagna e la Francia, per esempio. Sono uscite dal conflitto pensando d’averlo vinto e invece persero per sempre l’egemonia esercitata fino a quel momento. L’Europa, per esempio. Sembrava una guerra interna per decidere chi doveva contare di più e invece l’eurocentrismo, dopo secoli di storia, cederà il passo, al capitalismo americano e al comunismo sovietico. Le guerre pesano, eccome se pesano, specialmente sulle spalle di chi perde e paga. Ha pagato la Germania fino al novembre dell’89, divisa in due dal Muro di Berlino. Hanno pagato i popoli dell’Est europeo, abbandonati dall’Occidente e finiti sotto il tallone comunista. Hanno pagato i triestini con le foibe e le popolazioni istriane e dalmate con l’esodo al quale sono state costrette dagli accordi tra i governi alleati e titino. Hanno pagato i vinti, che saranno epurati da tutte le cariche pubbliche; la Monarchia, che sarà sostituita dalla Repubblica; i missini, che fino al 1994 saranno trattati come figli di un dio minore; la destra italiana, nonostante il MSI avesse detto in modo esplicito che la restaurazione del regime fascista non era nei suoi propositi… Se l’ultima guerra civile europea causò la sconfitta del regime fascista, la caduta della Monarchia, la nascita della Repubblica, la promulgazione della Carta del ’48 e l’insediamento della partitocrazia; se l’impronta storica che contrassegnò la nascita della Prima Repubblica è stata l’introduzione della pregiudiziale antifascista e l’invenzione di una formula, l’arco costituzionale, che giustificò l’esclusione della destra nazionale dalle maggioranze di governo; se alcune novità mondiali, Tangentopoli e la scomparsa dei vecchi partiti determinarono l’accantonamento di quella formula, la sghettizzazione del Msi e la fine della Prima Repubblica;


se l’impronta storica che qualificò la nascita della Seconda Repubblica è stata l’accantonamento della pregiudiziale antifascista e l’introduzione dell’alternanza bipolare tra destra e sinistra; se il crollo della Prima Repubblica suscitò la nascita di un partito, AN, che nel suo simbolo contiene quello del MSI, con tutto ciò che questo implica in termini istituzionali (l’apertura alle riforme sulla forma di governo), storici (la fine di ogni discriminazione contro chi proviene dal postfascismo) e politici (la nascita del bipolarismo dell’alternanza); se grazie al MSI, ad AN e al centro/destra tutti i partiti saranno costretti a confrontarsi sul tema delle riforme costituzionali; se un Capo dello Stato - nonostante le Bicamerali fallite e un referendum che ha bocciato il progetto di Lorenzago - dovrà nominare trenta saggi per ricevere suggerimenti sul da farsi; se gli orfani della Prima Repubblica hanno sempre accreditato la tesi di una Seconda che nasce grazie alla discesa in campo di qualcuno, piuttosto che alla scomparsa di qualcosa, in modo da riprendere le fila - fatto fuori Berlusconi - di un sistema consociativo al quale si sentono legati da un’inguaribile nostalgia… possiamo proprio noi, dopo che la storia ha concesso alla destra italiana una chance imprevista, consentire che la mission riassunta nel simbolo di AN sia condannata all’irrilevanza o, peggio ancora, rimossa? Il racconto di un episodio, a volte, spiega più di mille ragionamenti il rischio che corre qualcuno o qualcosa quando chi non dovrebbe lascia che il ricordo e una presenza siano avvolti nell’oblio. T9 rappresenta l’acronimo di “text on 9 (keys)” . Scrive Wikipedia:

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“È un software, inventato da Tegic Communication ed utilizzato principalmente su telefoni cellulari, palmari e touch screen, che consente una composizione guidata nella digitazione di stringhe alfanumeriche... Il sistema si basa sull’utilizzo di un dizionario integrato che associa determinate sequenze nella pressione dei tasti numerici del terminale a possibili parole (in una lingua determinata, scelta dall’utente; le lingue attualmente supportate dal sistema sono circa quaranta) proponendo per prime, nel caso in cui la sequenza digitata corrisponda a più di un termine, le parole statisticamente più utilizzate: da qui l’importanza di rileggere quanto automaticamente composto dal software a seguito della digitazione di una determinata sequenza di tasti, in quanto può capitare spesso che alcuni dei termini selezionati dal software non corrispondano a quelli che l’utente aveva intenzione di scrivere, e in questo caso se ne deve selezionare un altro. Su alcuni modelli di telefoni cellulari è inoltre possibile personalizzare il dizionario integrato nel sistema, aggiungendo nuove parole all’interno dello stesso. Tale sistema viene principalmente utilizzato per la composizione degli SMS, ma può essere utilizzato anche per la digitazione di note, nomi in rubrica ed altri tipi di testi”.


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Da anni utilizzo un cellulare Nokia E66 e il 26 giugno 2013, durante l’incontro su Giorgio Almirante, così, per curiosità, ho aperto la casella dei messaggi per sincerarmi se Almirante era inserito tra i cognomi statisticamente utilizzati dal sistema T9. Pressati in sequenza i tasti numerici dov’erano inserite la “a”, la “l” e la “m”, con grande sorpresa, digitando il 4, non compariva la lettera “i” ma il classico “?” dal quale comprendi che stai cercando un cognome non inserito tra quelli statisticamente utilizzati. Curiosità per curiosità, ho sondato altri cognomi di persone meno famose o quanto Almirante. Pannella, Berlinguer, Craxi, Gava, Scotti, Martelli, La Malfa, Andreotti, Forlani, Mastella, Longo, Cirino Pomicino…: i loro cognomi erano regolarmente inseriti tra quelli statisticamente utilizzati dal sistema. Pensate. Perfino Ronchi era inserito tra i cognomi statisticamente utilizzati dal sistema… Tutti. Tranne Almirante. Tranne Colui che per primo parlò di crisi “del” sistema. Di alternativa “al” sistema. Di Repubblica Presidenziale. Di elezione diretta del sindaco. Di Destra Nazionale e di Nuova Repubblica. Per carità. Quella del T9 è solo una storiella. Magari altri sistemi di scrittura e i cellulari di ultima generazione sono più aggiornati e pronti a smentirla. Eppure per il T9 del cellulare che uso, il nome di Almirante - come raccontai al pubblico quando venne il mio turno - non era inserito tra quelli statisticamente utilizzati dal sistema. Il rischio che si corre quando si dimentica la grandezza di qualcuno che ha impersonato qualcosa di ancora viva e vitale è che si comincia ignorando l’esistenza dell’uno e si finisce dimenticando il valore dell’altra. Si comincia sorvolando sui nomi e si finisce rimuovendo la filiera. Si comincia sottovalutando l’importanza di ripartire da AN e si finisce cadendo nell’altro e nell’oltre. Di questo passo, quando i figli chiederanno ai loro padri, cosa è successo a cavallo tra gli anni 1990 e il 2010, sentiranno un racconto che parla di Giovanni Paolo II e del Muro di Berlino, di Mani Pulite e di Di Pietro, del Cav, del Polo, della Casa e del Popolo della Libertà, della Lega e di Forza Italia 2.0, di Grillo e di Casaleggio, di una sinistra ideologica che c’è anche quando non sembra, di lobbie e fratelli massoni di ogni tipo, dei tanti centri che crescono come funghi… Nulla che ricordi qualcosa di nostro e di storico. Nulla che ricordi AN e tantomeno il MSI. Nulla che parli della continuità comunitaria e politica tra il MSI e AN o che circostanzi la relazione tra i due movimenti e il fascismo. Nulla che rimandi a un’appartenenza. Nulla che descriva un percorso le cui tracce secondo alcuni andrebbero abbandonate, secondo altri, mimetizzate e secondo i più ostili, cancellate.


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Nulla o poco di quella destra italiana la cui ghettizzazione in nome dell’arco costituzionale e della pregiudiziale antifascista ha rappresentato il fatto storico della Prima Repubblica e la cui sghettizzazione in nome del bipolarismo e dell’alternanza ha rappresentato la novità storica della Seconda Repubblica. Dimenticata. Rimossa. Cancellata. Inesistente. È questo quanto rischia una storia, una cultura, una passione… quando chi dovrebbe rimettere le cose al loro posto rifiuta di farlo, guarda altrove e lascia che qualcuno o qualcosa risulti tra i nominativi statisticamente meno utilizzati. Di questo passo, quando le ragazze e i ragazzi cercheranno nelle pagine dei libri di scuole o universitari una risposta “su come sono andate le cose durante la prima Repubblica e su cosa è successo durante la Seconda Repubblica”, leggeranno di tutto e di più, con molta probabilità di una forza politica postfascista sdoganata da Berlusconi e sparita prim’ancora che il suo ventennio finisse. So bene che Alleanza Nazionale non è stata tutta “rosa e fiori”; che molti dei suoi demeriti si devono al romanocentrismo croce e delizia della destra italiana; che il diagramma dei consensi ha registrato una curva in salita fino alla bicamerale D’Alema, in stallo dopo la sconfitta delle europee ’99 e in discesa dal 2006; che la sua prima classe dirigente faceva squadra perché era multigenerazionale; che un gruppo politico senza interpreti in grado di guardare lontano, di smussare i contrasti, di sciogliere le contraddizioni e di comporre i conflitti, può incorrere, tra ripicche e rancori, in quegli abbagli strategici che, dall’Elefantino in poi, hanno raggiunto il top con lo scioglimento di AN nel PdL; che il Porcellum è uno splendido esempio di come si possa perdere la bussola di fronte a uno dei nodi centrali del processo democratico. Col senno del poi, solo chi si ostina a negare l’evidenza può considerare l’Elefantino, il Porcellum e lo scioglimento di AN una mossa azzeccata. I fatti parlano da soli ma analizzare i fattori e le concause che hanno spinto verso quegli errori non guasta mai, specialmente adesso che siamo al bivio sulla strada da seguire per riunire la destra italiana e che bisogna scongiurare il pericolo di diaboliche ricadute. Per esempio: “Come mai, nel corso di un anno, tra le politiche del 2008 e il congresso del 2009, non s’è affrontato come meritava il discorso se era conveniente sciogliersi nel PdL o federarsi con FI?” Di ragioni valide e comprensibili ce ne saranno tante ma riavvolgendo il nastro emerge la convinzione che una delle cause principali risieda in uno stato maggiore di AN rimasto troppo a lungo senza quell’equilibrata rappresentanza multigenerazionale che distingue un gruppo di fratelli/coltelli da una vera classe dirigente. Una classe dirigente, al centro come in periferia, nelle Assemblee come negli organi di partito, necessita sia di voci che rappresentino le nuove generazioni imbevute di presente


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e in cerca di spazi, sia di chi è portato a osservare, valutare e mediare; sia di quanti sanno immaginare i possibili scenari, sia di chi sa riepilogare, decidere e orientare gli avvenimenti. Se mancano i rappresentanti dell’una o delle altre; se le decisioni sono assunte dai rappresentanti dell’una a discapito delle altre; se chi sceglie lo fa marginalizzando le generazioni giovani o quelle mature e riflessive; se un partito è nelle mani di trentenni, quarantenni e cinquantenni che sgomitano tra loro… in tutti i casi manca l’equilibrata rappresentanza multigenerazionale che quando c’è determina il clima che fa di un partito una comunità, e che quando difetta suscita conflitti e alimenta veti che quasi sempre conducono allo stallo e avviano la curva discendente. Come una catena si spezza quando cede un anello, una leadership rischia di assumere decisioni avventate, miopi, controproducenti, spesso influenzate da rancori, invidie e insicurezze, se manca l’equilibrata rappresentanza multigenerazionale che per un verso ammortizza le diatribe interne e frena le fughe in avanti, per altro verso indirizza le polemiche generazionali e intergenerazionali verso sintesi positive e per altro verso ancora frena la deriva nelle scelte che denotano la perdita del senso del limite. Per quanto riguarda AN, la fase di stallo ha preso l’avvio quando l’equilibrata rappresentanza multigenerazionale, che aveva caratterizzato il periodo in cui la classe dirigente era composta da Pinuccio Tatarella e altre personalità di spicco, s’è impoverita per la perdita di alcuni tra i suoi nomi più significativi. La curva discendente è iniziata dal 2006, quando l’esecutivo politico di AN diventò appannaggio esclusivo di quelle generazioni, tra i 30 e i 60 anni, i cui rappresentanti di fascia A diventeranno dal 2008 ministri, vice ministri e sottosegretari ma continueranno a muoversi per conto loro. Alleanza Nazionale, pur con tutte le carte in regola per rinnovare la Repubblica Italiana, ha pagato un prezzo troppo alto quando la generazione che guidava il Partito in solitudine ha deciso che era meglio scioglierlo nel PdL anziché federarlo con FI. La conta delle colpe non appassiona coloro che vogliono guardare avanti. La nostra analisi retrospettiva si configura dentro una visione ricostruttiva di AN come simbolo intorno al quale può riunirsi per riprendere il cammino. D’altronde chi siamo noi per esprimere giudizi perentori, per dire che la responsabilità è tutta di altri e per emettere sentenze? Ognuno discuta con se stesso, rifletta, assuma su di sé la quota di responsabilità che gli tocca e poi zaino in spalla, come prima e più di prima. Alla fine di un ventennio durante il quale Berlusconi ha rappresentato il centro/destra possiamo proprio ora, che si apre una nuova stagione politica, e proprio noi, che conosciamo la sofferenza dell’emarginazione, attestare, scomparendo, che se AN c’era, non lo deve a se stessa e a ciò che rappresentava ma a chi l’ha sdoganata? Chi si sente di destra non può lasciare AN tra scaffali polverosi. Chi viene da AN non può sopportare la condanna della destra italiana all’irrilevanza.


Se i conti non sono tornati e l’errore può starci, buttare il bambino con l’acqua sporca significa perseverare in un errore che può diventare diabolico. Altri hanno commesso errori più gravi dei nostri e si sono rialzati per noi. Noi abbiamo il dovere di rialzarci e di riprendere il cammino per gli altri.

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4 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PERCHÉ IL SUO SIMBOLO APPARTIENE A TUTTI NOI E PUÒ UNIRE LA DESTRA ITALIANA.

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A Palermo, il 13 maggio 2013, prima che Veneziani e gli altri intellettuali di area stilassero il loro documento per “tornare alla Politica”, chi ha preso parola si è riconosciuto in una destra Nazionale e non nazionalista. Statale e non statalista. Popolare e non populista. Liberale e non liberista. Sociale e non socialista. Interclassista e non collettivista, Identitaria ma non razzista… Chi propone di riprendere il cammino dove è stato interrotto con la consapevolezza di avere alle spalle una ragione sociale autentica e una filiera politica che prima fu interpretata dal Movimento Sociale Italiano (MSI), poi dal Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale (MSI-DN) e quindi da Alleanza Nazionale (AN), non cerca una leadership che assegni posti in lista sicuri ma una “casa” dove ci si possa ritrovare; non auspica la formazione di un’ammucchiata sulle forme evanescenti di “qualcuno” ma la costruzione di una federazione sulla spina dorsale di “qualcosa”; non desidera un partito che dal centro proceda, per cooptazione, verso la periferia, ma una struttura che avanzi dal territorio e dal talento, tramite primarie e consenso. Per carità. Nulla di strano e nulla di male se una formazione politica si dà da fare per pubblicizzare e piazzare il proprio brand. Chiunque può pensare di farsi un partito a propria immagine e somiglianza. Chiunque può pensare di ricondurre una sigla al proprio nome e alla propria leadership. Chiunque può perseguire l’espansione del proprio contrassegno ricorrendo alla solita cooptazione gruppettara. Chiunque lo desideri può spacciare il correntismo new version per ricambio generazionale. Solo che può farlo in due modi: in conflitto con altri movimenti o dentro una federazione dove si corre autonomi ma si insegue lo stesso risultato. Il MSI ha accusato più volte la formazione di movimenti e partiti che hanno scelto il percorso solitario e che l’hanno abbandonato perché a volte lo trovavano troppo democratico e altre retrò o perché in cerca di altro, per andare oltre. Chi s’è inerpicato con il proprio cerchio magico su questi sentieri ha fatto sempre ricorso a un campionario di parole dove dominano il pronome io, verbi coniugati in prima persona singolare e citazioni prese in prestito. In effetti, è roba vecchia e tipica di chi stenta a incidere nel fluire di una storia comune e cerca di rifarsi nella copy right di una sigla. Gli insuccessi dei famosi figli del sole, dei meno famosi nazimaoisti sessantottini e dei più recenti fasciocomunisti, sempre di rottura nel linguaggio, nell’approccio ai problemi e


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nelle soluzioni di cui hanno l’esclusiva, mettono sull’avviso più di tante parole e dovrebbero sconsigliare la ricaduta nell’errore. Solamente chi si sente a proprio agio in un partito ripieno di noiosi signorsì minimizza chi dissente e disconosce l’efficacia delle decisioni che sono assunte nel confronto meditato tra maggioranze e minoranze. Dentro il Movimento Sociale Italiano, Pino Romualdi, pur avendo immaginato nell’immediato dopoguerra quale poteva e doveva essere la collocazione del partito, pur convinto delle proprie idee e di una strategia alla quale si convinse da ultimo Almirante, non avviò mai percorsi personali e, con una media di voti congressuali oscillante intorno al 5% dei delegati, incise più di quanto non si immagini sulla collocazione politico-strategica della destra italiana. La forma-partito della federazione non serve quando una filiera politica esprime Segretari Nazionali col carisma necessario per tenere uniti i propri adepti e per infondere fiducia nel popolo italiano. La destra italiana è stata sempre attraversata da leader prestigiosi per lungimiranza, spessore culturale e prestigio. Chi conosce a fondo la sua storia sa benissimo che è stata sempre la comunità militante a riconoscere il suo leader e non viceversa. Nulla a che vedere con i partiti che dipendono dal leader e che nascono e finiscono col leader. Poiché non si vede una personalità super partes capace di aggregare i soggetti che pullulano nell’arcipelago ex e di suscitare un ampio consenso elettorale, una federazione disciplinata da regole trasparenti e concordate, un simbolo condiviso e un portavoce che parli per tutti fino alle celebrazioni delle primarie, appare il modo migliore per cominciare daccapo, per connettere persone, associazioni e partiti e per riprendere il cammino con umiltà, consapevolezza dei propri mezzi e senso di quel limite che rende grande chi lo ha. Alcuni modellano i simboli su se stessi e li abbelliscono con tinte alla moda perché colpiscano gli elettori; altri trovano la risposta che cercano nel risultato di un sondaggio; fa di peggio chi preferisce il contrassegno più lontano dalle proprie origini. Forza Italia, Rivoluzione Civile, Fratelli d’Italia, Futuro e Libertà, Alleanza per l’Italia, Scelta Civica, Italia dei Valori… parole di uso comune, buone per tutte le stagioni e per tutti gli usi. Parole utilizzabili indifferentemente da un movimento di centrodestra e di centrosinistra. Parole studiate per non dire niente e solo per ricordare la persona alla quale la sigla fa capo: Forza Italia, Berlusconi; Rivoluzione Civile, Ingroia; Fratelli d’Italia, Meloni; Futuro e Libertà, Fini; Alleanza per l’Italia, Rutelli; Scelta Civica, Monti; Italia dei Valori, Di Pietro… Italia dei Valori, Italia popolare, Italia Futura, Prima l’Italia, Fratelli d’Italia, Alleanza per l’Italia, Forza Italia… Quante “Italie” prodotte in serie da una catena di montaggio! Quante griffe dove la parola “Italia” e una spruzzatina di bianco, rosso e verde non manca mai! Quanti contrassegni che veicolano tra gli elettori il messaggio subliminale che si possa fare a meno dei richiami emblematici all’origine, all’identità e al progetto. Mai un simbolo


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che indichi chiaramente un contenuto, un messaggio, un sentire specifico che differenzi l’uno dall’altro! Cosa cambia, a parte la persona, se la sigla di Alemanno, invece di chiamarsi Prima l’Italia, si chiama Italia Futura? Se la sigla della Meloni, invece di chiamarsi Fratelli d’Italia, si chiama Alleanza per l’Italia? Se la sigla di Montezemolo, invece di chiamarsi Italia Futura, si chiama Prima l’Italia? Se la sigla di Mauro, invece di chiamarsi Italia Popolare, si chiama Fratelli d’Italia? Se la sigla di Rutelli, invece di chiamarsi Alleanza per l’Italia, si chiama Forza Italia? Dove sta la differenza? Quale, tra queste sigle, è riconducibile solo alla destra, solo al centro/destra, solo al centro o solo al centro-sinistra per ciò che dice? Quale tra queste sigle parla di qualcosa che sia solo di destra, di centro/destra, di centro o di centrosinistra? Si potrebbe mai sostituire un simbolo come quello di AN, esplicito nel significato e nel messaggio, con una sigla dove sono soltanto le generalità della persona che lo ha posizionato sul mercato elettorale a fare la differenza? Nessuno dica che ormai la politica funziona così e che le sigle servono per ricordare qualcuno e non qualcosa. Semmai fosse vero, questa è una caricatura della politica che produce i Grillo della situazione e nella quale non credono le comunità che riconoscono all’iconografia e al leader che la rappresenta, la funzione di ri-creare il vissuto nel vivente e di scolpire le coscienze. I simboli e i leader, nel mondo della destra italiana, hanno sempre contato, contano e conteranno. Basterebbe scorrere con la mente i manifesti che hanno scandito il suo percorso per ravvisare, nella nebbia che la avvolge, il simbolo capace di svettare in alto, di attrarre come un punto luminoso e di colmare, in via eccezionale e per il tempo necessario, il vuoto del leader che manca. Nel fermento che la politica sta vivendo, i movimenti che affollano la galassia ex MSI ed ex AN possono ricomporsi, senza che la frantumazione aumenti e le spaccature si allarghino, solo in un simbolo nel quale possano riconoscersi tutti quei milioni di italiani che lo sentono proprio. Un simbolo accantonato 5 secondi fa, quando AN è stata sciolta nel PdL, può unire tutti. Quel simbolo è “un cerchio contenente, in alto e su fondo azzurro, la dicitura ALLEANZA NAZIONALE; in basso, e su fondo bianco, un altro cerchio più piccolo in cui figura una fiamma tricolore su base trapezoidale con scritta MSI”: un simbolo che gli italiani confortano con percentuali che sono propri di un leader carismatico. La parabola di Fini, considerata sotto l’aspetto della coerenza tra ciò che esprime il simbolo di AN e chi lo rappresenta, è esemplare. Fino a quando Gianfranco interpretò senza sbandate il suo messaggio e la ragione sociale della destra italiana, l’asticella che misurava l’affidabilità non s’abbassò mai, gli


italiani restarono dell’opinione che con lui alla guida del governo il Paese sarebbe andato avanti e la sua classe dirigente non coltivò mai il proposito di metterlo in discussione. Appena oscillò tra precisazioni non richieste e strappi improvvisi. Appena si istradò sulle rotte incerte “di una destra che piace a sinistra”. Appena si illuse di poterla trasferire, come se nulla fosse, in un cognome (Fini) e due parole multiuso (Futuro e Libertà), gli italiani lo trovarono incoerente e gli voltarono le spalle. Molti considerano, gli azzurri per primi, il declino dell’ex Presidente di AN una naturale conseguenza della rottura con Berlusconi. Magari fosse così. Magari Fini avesse rotto con Berlusconi senza quei distinguo che galvanizzavano la sinistra e frastornavano la destra. Magari con alcune delle sue dichiarazioni non avesse stupito e sconcertato una comunità intera. Se Fini avesse esternato di meno. Se la rottura col Cavaliere si fosse consumata su temi di destra. Se avesse sbattuto la porta del Pdl ripartendo da AN. Se fosse uscito dal PdL senza uscire dalla maggioranza. Se avesse difeso le ragioni di una “destra che fa la destra”. Se non avesse fondato un partito basato sul suo cognome… non staremmo qui a commentare un declino ma un altro destino: per lui, per le generazioni che non si sono mai arrese e per gli italiani.

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5 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PERCHÉ APPARTIENE A TUTTI NOI

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La cosa più triste che capita di ascoltare o di leggere su AN sono le parole di chi la liquida come un ingombro o un bagaglio inutile se non dannoso. Si tratta per lo più di personaggi che ruzzolano frasi a effetto e sparano giudizi a trecentosessanta gradi senza discernere il grano dal loglio, senza differenziare il talento dal servilismo e senza distinguere tra chi ha dato poco e ricevuto molto e chi ha dato molto e ricevuto poco. Quando capita d’imbattersi in coloro che vivono l’impegno politico senza umiltà e nella paura del confronto, alzate le antenne e chiedete sempre dei loro trascorsi, che lavoro hanno svolto prima di diventare parlamentari o uomini di governo, perché mai parlano di età e non di talento, se nei territori di loro provenienza sono stimati e hanno dato, e danno, buona prova di sé. Fateci caso. Chi vuole ripartire da AN per costruire un partito unito, lo fa con l’intenzione di riunire le forze. Rifiuta l’affiliazione para-massone, proconsolare e correntizia. È sempre aperto al dialogo e disposto al confronto. Apprezza la tenuta etica di ciascuno e la capacità politica di orientare, sul territorio, i processi di cambiamento. Concorda con una selezione dal basso, tramite risultati e consensi. Chi disdegna AN lo fa nella certezza che adesso tocca a lui e che quindi gli altri devono mettersi da parte. Non ricordo giovani e meno giovani che pretendevano il pass dagli altri. Ricordo generazioni in prima linea che conquistavano il lasciapassare con le loro forze, il loro sacrificio e le loro qualità. Nondimeno. Siccome uno dei nodi essenziali da sciogliere è sotto quale simbolo riunire le tante sigle elettorali e siccome la Fiamma Tricolore aggrega gli amici di Luca Romagnoli, La Destra chi ha fiducia in Francesco Storace, Futuro e Libertà chi ha seguito Fini in un’operazione centrista ma si sente di destra, Fratelli d’Italia chi sta con Rampelli, Meloni e La Russa, la cosa più logica è riunirsi in una storia, un movimento e un simbolo che richiamino qualcosa e siano di tutti. Sia le new entry arrivati in Parlamento da nominati, sia gli yuppie in fila d’attesa che, a decine, sperano di diventare onorevoli grazie al Porcellum, invece di salutare con entusiasmo la proposta di ripartire da AN, hanno accusato chi la propone di volerla scongelare per garantirsi un posto in lista sicuro. Un noto proverbio siciliano recita: “U lupu i mala cuscenza comu la fa, la penza”: il lupo maligno accusa gli altri di essere, di pensarla e di agire come lui. Come si può insinuare il sospetto che chi sostiene l’introduzione di una nuova legge


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elettorale, dove i candidati corrono alla pari, possa pensare alla nomina sicura che garantisce il Porcellum? Come si può accusare coloro che sostengono il ricorso alle primarie, per scegliere i candidati da presentare in una competizione uninominale o in una lista bloccata (tipo Mattarellum o Porcellum), di volersi sedere in prima fila? Chiaro e tondo. Spesso nei rottamatori, nei resettatori e negli asfaltatori che intendono seppellire, azzerare e rullare gli altri, si nascondono i lupi che studiano come raggiungere la preda incolpando gli altri. Che studiano come essere nominati deputati o senatori grazie al Porcellum. Poco importa se coloro ai quali sono rimasti in mano le redini del PdL hanno rottamato gli ex-AN che sapevano di non poter coinvolgere nel loro disegno neocentrista. Poco importa se i quattro capibastone hanno rullato, d’un tratto, i rappresentanti della destra italiana che erano entrati in Parlamento con la preferenza, dopo una libera competizione tra candidati. Poco importa se i carrieristi che oggi propongono di ripartire da AN hanno l’inescusabile difetto d’essersi forgiati in prima linea e in modo diverso da quei numerosi tifosi del Porcellum che sono terrorizzati da una probabile pronuncia della Corte che ne dichiari l’incostituzionalità e dall’idea che possa essere abolito o sensibilmente modificato. Poco importa se i ferrivecchi che oggi propongono di rialzarsi e di riprendere il cammino dove è stato interrotto, sono stati lasciati soli nel momento cruciale. Se si tornasse ai collegi uninominali senza liste bloccate al 25% o si correggesse il Porcellum con le preferenze, in un attimo scomparirebbero le liste d’attesa di quanti, ansiosi, aspettano di essere nominati onorevoli; se venisse approvata una legge elettorale dove sono gli elettori che eleggono gli eletti, gli stessi personaggi che oggi sostengono per convenienza il Porcellum sarebbero i primi a spiegare che correre separati fa il gioco altrui, rende tutto più complicato e potrebbe rivelarsi un suicidio. Siccome i lupi non contestano in modo mirato il sistema delle nomine ma il fatto che la preda possa essere catturata da altri, sul serio può trascinarsi nel già visto un progetto, ripartire da AN, invocato dai più disinteressati tra gli interessati: gli elettori di destra? Sul serio possono liquidarsi con sufficienza gli elettori che chiedono cosa si aspetta a ripartire da AN? Sul serio può corrersi il pericolo di una destra italiana destinata per molti anni all’irrilevanza per il desiderio di poter dire “togliti tu che mi metto io”? Sul serio coloro che prima consigliarono, agevolarono e salutarono con entusiasmo la nascita del PdL, e oggi ansimano tra un punto in più o in meno di percentuale, pensano di durare a lungo ignorando che la posta in palio è ben diversa da un posto in lista sicuro? Ancora. Perché temere una federazione senza nominati, dove siano gli elettori a scegliere col voto o con le primarie i rappresentanti nelle Istituzioni e nelle Assemblee?


Perché temere una federazione dove non si proceda per cooptazione ma per risultati? Perché se milioni di elettori chiedono di scongelare il simbolo di AN, chi potrebbe non lo fa, anche se rientra tra le possibilità previste dallo statuto della “Fondazione”? Perché se c’è una forte domanda di AN non si da vita a una forte offerta di destra? Non è colpa nostra se tanti cittadini chiedono di scongelare Alleanza Nazionale perché non è stata sciolta da loro e perché manca, tra tante sigle, un simbolo che riassumi un’accattivante offerta di destra. Non è merito di nessuno se tanti cittadini gradiscono la formazione di una nuova AN. Non è merito nostro se tanti cittadini considerano AN un vissuto vivente intorno al quale una comunità in preda alla diaspora può ricomporsi perché lì si trova l’antidoto a portata di mano contro chi intende condannare la destra italiana all’irrilevanza. Fosse vero che la partita in gioco è riavviare una carriera spezzata e la cronaca delle piccole ambizioni personali degli ex desiderosi di piazzarsi! Purtroppo per tutti noi, vecchi e nuovi, calcolatori e disinteressati, arrampicatori e discesisti… la partita, volente o nolente, non è questa. Non è quella di un punto di percentuale in più o in meno, di tizio o di caio che auspica di frequentare il transatlantico per nomina ricevuta, di chi è più bravo a fare un partito… etc. etc. La posta in palio è ben più alta! Sono le speranze dei tanti che imbrattavano i muri della propria città in nome della creatività e della tradizione: in nome di quel vissuto vivente più volte richiamato. “Con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”. La destra italiana: il punto da dove si vedono le radici, il presente e l’orizzonte. Il punto che non è staccato dalle radici, non è distante dal presente, non è lontano dall’orizzonte. Ho speso quattro secoli di vita e ho fatto mille viaggi nei deserti perché volevo dire ciò che penso volevo andare avanti ad occhi aperti… Canterò le mie canzoni per la strada affronterò la vita a muso duro… con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro. (A muso duro – Pierangelo Bertoli)

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Quando i diritti d’autore di qualcosa appartengono a chi c’è stato, c’è e ci sarà, le generazioni in corsa che formano una classe dirigente, come in una staffetta, sfrecciano nella medesima corsia e nella stessa direzione, Chi è scattista da fermo, prende il via ai blocchi di partenza; coloro che tengono meglio in curva e sono più forti in fase di recupero, corrono i successivi duecento metri; chi è uno sprinter eccezionale, corre l’ultima frazione. Tutti col testimone in mano e con la preoccupazione che non cada. Tutti verso il traguardo e un risultato dove ognuno mette del suo.


È avvenuto così nel gennaio del 1995, quando una comunità eroica, accogliente e plurale, s’è trasformata in una comunità più ambiziosa ma altrettanto ospitale e plurale come quella di AN. Nessuno è stato escluso e ognuno ha contribuito al risultato finale. Non è avvenuto così nel marzo del 2009, quando la leadership aennina precluse un profondo e articolato dibattito sul “se” sciogliere AN e su “come” fare il PdL, e pose tutta la classe dirigente di fronte la scelta secca se prendere o lasciare. La leadership di AN che ha deciso per il partito unico al posto della federazione, ha scelto la direzione giusta oppure ha preso un abbaglio, uscendo fuori pista? I fatti tra il 2008 e il 2013, la traiettoria politica di Fini e la pulizia etnica cui sono stati sottoposti gli ex-AN, depongono nel senso che chi ha deciso di scioglierla nel PdL è incorso in una svista colossale. Oggi esistono i presupposti per raccogliere il testimone e riprendere la corsa verso il traguardo? AN è un marchio scaduto oppure il suo simbolo richiama un vissuto (il MSI, “il piede nel passato”) tuttora vivente (Alleanza Nazionale, “lo sguardo dritto e aperto nel futuro”)? AN è un oggetto di chincaglieria oppure un progetto di successo che può avere ancora molto da dire, da dare e da fare per la Nazione? AN è un capitolo chiuso oppure un percorso verso le riforme e il rinnovamento di cui necessita il sistema istituzionale? AN è finita, inghiottita nel nulla, o può ancora esprimere qualcosa? Chi confonde ripartire da AN “con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro” e rifare AN “come prima e con gli stessi colonnelli”… Chi confonde tra un “Movimento verso Alleanza Nazionale” nato per unire e un partito tarato per annettere o per includere dentro la prospettiva di ciò che si ha in mente… Chi cerca gli altri per assorbirli piuttosto che per costruire una spazio di libertà aperto a tutti… fa bene a immergersi nel contingente e in una strategia autoreferenziale. Chi fa parte di un progetto più grande delle proprie aspirazioni - e si sente uno tra i tanti di ieri, di oggi e di domani che vive per realizzarlo - fa bene se respinge l’eventualità che le tracce lasciate sul terreno per indicare una direzione di marcia verso il futuro possano finire sotto la polvere. E poi. Chi sarebbero questi cosiddetti colonnelli che vorrebbero rifare AN? A nessuno di coloro che lanciano, a cuor leggero, le accuse più disparate viene in mente che ci sarà pure una ragione se tutto lo stato maggiore che la sciolse nel PdL è contro la proposta di scongelare il suo simbolo?

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6 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PERCHÉ CONVIENE

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Mentre alcuni tra gli ex ritengono in assoluta buona fede che un contrassegno nuovo possa attrarre gli elettori più del vecchio, altri irridono con aria di sufficienza coloro che suggeriscono di scongelare il simbolo di Alleanza Nazionale, insinuando che si tratterebbe di soltanto “di un ritorno al passato al quale sono interessati soltanto quei combattenti e reduci ansiosi di un posto al sole per sfuggire allo storico fallimento di AN”. Un istituto tra i tanti, DATAMONITOR, ha effettuato nel luglio del 2013 un sondaggio, per verificare l’impatto dell’eventuale rinascita di Forza Italia e di Alleanza Nazionale sull’elettorato di centro/destra, che ha prodotto risultati sorprendenti sulla capacità attrattiva che ancora esercita AN. DATAMONITOR, ricorrendo allo stesso campione utilizzato per testare le elezioni politiche del 2006, ha posto agli elettori che votarono per FI e per AN la seguente domanda: “In questi giorni si sta parlando… della rinascita di Forza Italia e Alleanza Nazionale… Lei, che nel 2006 ha votato per FI (o per AN) pensa che voterebbe ancora oggi per FI (o per AN)?” Premesso che il sondaggio ha una forte valenza perché non sonda tutti gli elettori ma quelli che nel 2006 hanno già votato per AN e FI; che nel 2006 FI otteneva 9.045.384 voti e AN 4.706.654, per un totale complessivo di 13.752.038 voti; che il PdL, nel 2008, raccoglieva 13.628.865 voti e, nel febbraio 2013, 7.332.667 voti; il sondaggio registrava il seguente orientamento elettorale: - FI, votando nel luglio del 2013, avrebbe ottenuto da sola 7.800.000 voti, quasi 500.000 in più di quanti ottenuti dal PdL, nel febbraio del 2013; - AN, votando nel luglio del 2013, avrebbe ottenuto da sola 2.500.000 voti, quasi un milione e seicento mila voti in più di quelli ottenuti da La Destra, FdI e gli altri movimenti similari che hanno partecipato alla competizione elettorale del febbraio 2013. Da notare che poiché i 2.500.000 voti di AN sarebbero così ripartiti: - 1.100.000 di elettori che nel febbraio 2013 avevano votato per il PdL; - 850.000 di elettori che avevano votato per le liste di destra; - 100.000 di elettori che avevano votato per Grillo; - 70.000 di elettori che avevano votato per Monti; - 10.000 di elettori che avevano votato per altre liste; - 370.000 di elettori che non sono andati a votare perché erano scomparsi, prima il simbolo, e poi anche i candidati che sul territorio lo ricordavano;


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Forza Italia, senza contare i voti del PDL che andrebbero ad AN, otterrebbe, da sola, 1.600.000 voti in più di quelli presi nel febbraio 2013 dal partito di Berlusconi. Il risultato complessivo del sondaggio dimostra: 1) che AN, da sola, otterrebbe 2.500.000, così suddivisi: 2.000.000, da elettori che nel febbraio 2013 hanno votato per il PdL, La Destra, FdI e altri movimenti di destra; 500.000, da elettori che non sono andati a votare, da Grillo e da altre formazioni; 2) che AN, da sola, avrebbe determinato la vittoria di una coalizione che ha perso le elezioni politiche del 2013 solo per quasi 125.000 voti; 3) che tolti i voti ex AN, FI, da sola, otterrebbe 1.600.000 in più voti di quanti ha ottenuto il PdL nelle politiche del febbraio 2013; 4) che la somma dei voti raccolti dalle sigle di destra è molto meno di quella che raccoglie un simbolo, quello di AN, che ricorda un progetto vincente e una forza politica tutto sommato positiva; 5) che quando la destra si riconoscerà in un leader capace di interpretare in modo unitario il popolo dal quale proviene e di suscitare negli Italiani una fiducia simile a quella che un tempo infondeva Fini, potrà cominciare a ragionare in grande. 6) che allo stato, nell’arcipelago dei movimenti ex MSI/AN l’unico leader che tira è il suo simbolo. Nessuno dei tanti che pontifica contro lo scongelamento del simbolo di AN s’è mai chiesto come mai gli elettori trovino del tutto normale, rinata FI, che rinasca AN e come mai DATAMONITOR trova del tutto naturale sondare AN piuttosto che le altre rispettabili sigle sul mercato elettorale? Sarà! Purtroppo c’è sempre qualcuno che, a dispetto dei sondaggi e dell’invito a mettere da parte i rancori, non si stanca mai di pronunciare l’ennesima fatwa contro gli ex che vogliono ripartire da AN perché sperano “in un ritorno al passato che possa, in qualche modo, farli sopravvivere al fallimento di AN”. Nonostante l’accusa appaia d’acchito offensiva, con disincanto si fa notare che appare quantomeno contraddittorio parlare di fallimento rispetto a un partito che decise di sciogliersi sull’onda di una vittoria travolgente e non di una bancarotta elettorale. Se il succo della fatwa sta nel fallimento, è senza dubbio azzardato assimilare la decisione volontaria di fondersi in un partito più grande con una fattispecie, quella del fallimento, dove la sentenza è emessa da un organo esterno alle parti in causa: nelle controversie giuridiche, da un magistrato; in politica, dagli elettori. L’unico default sotto gli occhi di tutti è quello di un PdL che ha mancato l’obiettivo di riunire il centrodestra in solo partito, ha perso le elezioni politiche del 2013 e ha subito la perdita secca di 7 milioni di voti. Non è e non può mai essere quello di AN, e tantomeno


degli ex-AN, perché, se tanto fa tanto, l’unica autorità che poteva pronunciarlo, il corpo elettorale, non l’ha mai pronunciato. Se, invece, il punto è che gli ex apparterebbero alla categoria dei reduci e combattenti, a memoria d’uomo non si ricorda una guerra combattuta per sciogliere AN, né si vedono in giro reduci e i combattenti di una guerra che esiste solo nella fantasia di coloro che, a corto di argomenti, si rifugiano nell’ultima banalità della serie.

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7 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PER SCONGIURARE LA “COSA NERA” E L’ACCUSA DI POPULISMO Tra chi liquida la proposta di ripartire da AN, alcuni spiegano che è meglio immettere sul mercato elettorale “un prodotto più fresco, ben confezionato e con più appeal”; altri la rifiutano per principio perché sarebbe soltanto una minestra riscaldata; i più astiosi la considerano l’escamotage al quale fa ricorso chi intende riciclarsi per tornare in Parlamento. Le obiezioni ignorano un dato gigantesco: lo scenario non è quello dei famosi quindici anni che hanno cambiato il mondo dalla fine degli anni ’70 ai primi anni ’90. Allora protagonista assoluto era l’ottimismo, l’Occidente era prossimo alla vittoria definitiva sul comunismo, l’Impero sovietico stava per crollare, la globalizzazione era avvertita come una straordinaria opportunità anche per i Paesi sottosviluppati, l’Italia era in espansione economica e l’Europa sembrava più un’opportunità che un problema. Il paesaggio che si presenta in Italia agli occhi dei contemporanei racconta ben altro. Violenze, proteste, disoccupazione, assalti alle sedi bancarie e ai supermercati, aggressioni contro le forze dell’ordine e soprattutto masse giovanili che non trovano lavoro. Due giovani su dieci non hanno un’occupazione, con una media da spavento al Sud, dove la protesta sociale potrebbe andare fuori controllo. Se si aggiungono i flussi di migranti sempre più numerosi verso le coste siciliane, il quadro che si ricava è quello che un tempo si definiva il brodo di coltura dove i terroristi si formavano ed erano abituati a nuotare come pesci nell’acqua. La differenza, rispetto agli anni settanta/ottanta, sta nel fatto che allora allignava il terrorismo mentre adesso i più parlano di un populismo che scaturisce dal disagio socioeconomico e si alimenta di xenofobia, localismo ed estremismo. La scena è più o meno la stessa in molti paesi europei. Così in Grecia. Così in Francia, dove gli ex gollisti e la gauche sono nel panico perché il Front National di Marine Le Pen potrebbe diventare il primo partito e lei Presidente della Repubblica. Massimo Riva, affrontando la questione da vicino, sul Corriere della Sera del 21 ottobre 2013, ha offerto un’interessante chiave di lettura:

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“Dei movimenti populisti conosciamo ormai cause e conseguenze, oltre alla capacità – spesso cinicamente intelligente – di cavalcare bisogni anche condivisibili, di fare come quei galli che cantano per un sole che non sorgerà mai. Ma stentiamo a individuare gli antidoti e a costruire politiche che potrebbero arginare il fenomeno, anziché nutrirlo. Tucidide considerava la demagogia la malattia mortale della democrazia, ma demagogia e populismo non sono sinonimi. Problematiche che investono drammaticamente vasti strati di popolazione non dovrebbero rientrare in una definizione talmente sprezzante, intellettualmente elitaria.


Non è populismo la domanda di sicurezza, di partecipazione alle scelte nazionali ed europee, di giustizia fiscale, di controllo dei flussi migratori, di rispetto delle tradizioni e della cultura nazionale. Non è populismo la difesa dei propri interessi di cittadini rispetto a un modello europeo che ha tradito le attese… Come ha detto il politologo Offe, il populismo ha consenso, ma non saprebbe governare; le classi dirigenti e la tecnocrazia spesso governano senza consenso e senza coraggio. Il che non produce buona politica”. Sbagliano coloro che accomunano il populismo e i consensi del Front National al lepenismo prima maniera. Il disagio dei francesi tocca solo in parte l’immigrazione clandestina e riguarda di più un’Europa che non sa dare speranza e fiducia perché le sue politiche monetarie sono incapaci di aiutare i Paesi che rimangono indietro senza impoverirli ulteriormente. Si può dire quel che si vuole ma non si conoscono forme di solidarietà destinate a funzionare e a durare tra fratelli e sorelle senza un’esemplare educazione materna e paterna. Di più: non si danno fratelli e sorelle senza un padre e una madre. Un’Europa dipendente dai poteri finanziari e da un solo Paese, non è Comunità, non si comporta con i propri membri come uno Stato-genitore, non diventerà mai Popolo e Nazione, non è Europa ed è difficile che duri. La nostra visione della politica e dell’Italia è ben descritta nell’introduzione e nel punto 1 e 2 del Manifesto degli intellettuali d’area. La nostra visione dell’Europa nel punto 3: “L’Europa per noi è civiltà prima che mercato comune, è integrazione delle Patrie e non disintegrazione degli Stati nazionali. E’ l’Europa dei popoli. Vorremmo un’Europa più unita e coesa verso l’esterno, in politica estera, nella difesa o per fronteggiare l’immigrazione e la concorrenza globale, e più duttile al suo interno, che riconosca le differenze tra aree, popoli e Nazioni, a cominciare dall’Europa mediterranea rispetto all’Europa del nord. E che faccia valere un criterio: quando c’è da scegliere tra l’assetto contabile della finanza e la vita reale dei popoli, la priorità è la seconda, non la prima. Nessun debito può sopprimere una Nazione o far fallire uno Stato sovrano. Rinegoziare l’euro. Rinegoziare il fisco con l’obiettivo di dar vita ad una politica fiscale dialogante con le famiglie e con le imprese.”

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Giacché non c’è più sordo di chi non vuol capire, Guido Caldiron, uno studioso che ha dato alle stampe anche due libri su “La destra sociale” e su “Populismo globale”, ha dimostrato di rientrare perfettamente nella categoria scrivendo per “Europa”, il 14 giugno 2013, un articolo dal titolo “La destra tra cosa nera e stati generali del neofascismo”.


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A parte il titolo dell’articolo che è tutto un programma, Caldiron, registrando i “lavori in corso… di chi prova ad immaginare il profilo di una destra oltre o senza il Cavaliere”, mischia capre e cavoli sia quando sostiene che “la proposta di un ritorno a Forza Italia” … fa il paio “a destra della destra” con “giorni febbrili di confronti e iniziative che segnalano… inesorabilmente un risveglio delle tante anime della famiglia postfascista”; sia quando predice con il tono di chi l’auspica, “un ritorno al protagonismo di quell’ultradestra che, nel ventennio dell’uomo forte di Arcore, si è spesso assestata nella comoda posizione di un estremismo del senso comune, condividendo - su temi quali l’anticomunismo, l’immigrazione e l’identità nazionale - il punto di vista delle destre plurali di governo”. “Ora, come in una sorta di gioco dell’oca condotto all’indietro, ciascuno cerca di tornare alla casella precedente…” e mentre La Russa, a Milano, muove i primi passi di un “nuovo centrodestra che raccolga tutto ciò che è extra Berlusconi, a Roma – scrive ancora Caldiron - sarà di scena una sorta di ‘stati generali del neofascismo’. L’occasione, per quanto bizzarro possa apparire, è data da una giornata di mobilitazione in favore del regime siriano di Bashar al Assad… Preparata attraverso una decina di iniziative che si sono svolte nelle ultime settimane soprattutto nelle sedi di Casa Pound sparse per il nostro paese, la manifestazione romana sembra però vedere una sostanziale convergenza anche di altre aree della galassia nera… Da notare, infine, come l’Associazione Culturale Zenit, piccolo gruppo della destra capitolina coinvolto a fondo nel Fronte europeo per la Siria, avesse organizzato già all’indomani delle elezioni politiche un incontro con gli esponenti dell’intera galassia nera italiana: Ugo Gaudenzi (Rinascita), Gabriele Adinolfi (Polaris), Adriano Scianca (CasaPound), Gianguido Saletnich (Forza Nuova). L’annuncio di una nuova stagione di dialogo e collaborazione?” Siccome non è così. E se non è così, non è così, chi sente il peso della responsabilità cui è chiamato dalla sua appartenenza, non si deve mai sottrarre al compito di chiarire subito, e quando occorre, senza parole e senza accenti che denotino voglia di giustificarsi e complessi d’inferiorità, che il MSI, sin dalla sua fondazione prese le distanze dalla nostalgia del passato chiarendo, con il motto “non rinnegare e non restaurare”, il proprio disinteresse per la cosa nera. Pensato dopo la sconfitta militare, la nascita di una nuova egemonia mondiale e un primo dopo-guerra turbolento, il motto rispetta la scelta di chi s’è schierato con la Repubblica Sociale Italiana senza riproporla per il futuro. La formazione di associazioni estraparlamentari che hanno considerato il MSI loro nemico principale, costituisce la prova più lampante di una nostalgia per la cosa nera che la destra italiana non ha mai coltivato perché ha consegnato il giudizio sul fascismo alla storia. La crisi del sistema, l’alternativa al sistema, la riforma dei partiti, la democrazia diretta, il rinnovamento della Costituzione, la Repubblica Presidenziale, le forze produttive al centro


del sistema socio-economico… sono tutti temi che dimostrano quanta distanza esista tra la nascita di una Nuova Repubblica e il ritorno alla cosa nera. Fiuggi e Alleanza Nazionale, sotto quest’aspetto, rappresentano una pietra miliare e un certificato di garanzia perché consentono di affrontare i temi più scottanti all’ordine del giorno senza rischiare le accuse di antidemocraticità rovesciatici addosso prima del ’95. Sarà un caso, ma cancellata la destra di governo e uscito di scena Silvio Berlusconi, lo stesso Governo Letta appare del tutto simile a quelli della Prima Repubblica, quando la facevano da padroni i soliti centristi e quando al posto degli ex comunisti di oggi si trovavano, nella stanza dei bottoni, i laico-socialisti di ieri. Per il bene delle tasche dei cittadini e dei conti pubblici, per evitare il ritorno del sistema partitocratico-consociativo spazzato da Tangentopoli, per dare speranza e preparare un rinnovamento radicale del sistema-Paese, bisogna ripartire da quell’Alleanza Nazionale che ha riconciliato la destra di governo con la democrazia diretta, evitando di cadere nella trappola di chi non vede l’ora di appiccicarci la solita etichetta e rimandando al mittente il tentativo di quanti cercano di dipingere la ricomposizione della dispersione come una specie di nostalgia per la cosa nera. Da Fiuggi e Alleanza Nazionale, una pietra miliare e un punto di partenza, non si torna indietro! Pagina 11 delle tesi di Fiuggi sul rapporto tra destra, fascismo e antifascismo.

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“I1 secolo delle ideologie sta finendo e seppellisce le tentazioni totalitarie che l’hanno segnato. Se ne va il Novecento, con le sue contraddizioni e i suoi aspri scontri, e lascia al Terzo Millennio masse popolari protagoniste della storia, cittadini consapevoli del loro ruolo, conquiste tecnologiche e scientifiche e, soprattutto, una concezione della libertà come supremo valore che nessuno è più disposto a mettere in discussione. Di questi cento anni di fuoco e di speranza, di conquiste sociali e di offese alla dignità umana, di avventure spaziali e di miserie morali, ogni italiano assume, nel suo giudizio, tutto senza tralasciare nulla. E proprio perché le allucinanti tragedie dei Gulag e dei Lager hanno fatto comprendere a tutti i pericoli e gli orrori delle dittature, anche noi siamo sottomessi a quel diritto naturale che al primo posto annovera la tutela e la pratica della libertà come valore e bene prezioso ed irrinunciabile. Da essa, dalla libertà, discende la nostra concezione dello Stato, della società, dei rapporti economici. Ad essa si ispira l’azione politica, tesa all’affermazione della persona umana, della destra italiana. Per questo non si può identificare la destra politica con il fascismo e nemmeno istituire una discendenza diretta da questo. La destra politica non è figlia del fascismo. I valori della destra preesistono al fascismo, lo hanno attraversato e ad esso sono sopravvissuti. Le radici culturali della destra affondano nella storia italiana, prima, durante e dopo il Ventennio. Di un chiaro rapporto con la storia del Novecento non ha tuttavia necessità solo la destra, che deve fare i conti con il fascismo al pari di quanto altri devono fare con l’antifascismo. Se è, infatti, giusto chiedere alla destra italiana di affermare, senza reticenza, che


l’antifascismo fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato, altrettanto giusto, e speculare, è chiedere a tutti di riconoscere che l’antifascismo non è un valore a sé stante, e fondante, e che la promozione dell’antifascismo, da momento storico contingente a ideologia, fu operata dai paesi comunisti, e dal PCI, per legittimarsi durante tutto il dopoguerra. Nel dopoguerra non tutto l’antifascismo è stato, infatti, antitotalitario. Erano certamente antifascisti anche coloro che proponevano, col modello di Stato sovietico, una gerarchia di valori assolutamente totalitari negatori della democrazia, dei diritti più elementari della persona umana e della libertà. Il comunismo era antifascista, ma nessuno può negare che il totalitarismo è entrato nella scena politica europea di questo secolo con la Rivoluzione d’Ottobre, e ne è uscito 72 anni dopo, con la caduta del Muro di Berlino. Quindi, prima e dopo il regime fascista. Oggi i post-comunisti italiani - se hanno i consensi sufficienti - possono governare. L’antifascismo è sopravvissuto 50 anni, alla morte del fascismo, per cause internazionali ed interne che non sono più presenti. La logica di Yalta non c’è più. Oggi che la destra politica fa propri i valori democratici, negati dal fascismo durante il ventennio, perché mai dovrebbe sopravvivere l’antifascismo? La fine del socialismo reale ha chiuso un’epoca, quella del totalitarismo rosso, in cui il riferimento all’antifascismo era sopravvissuto alla fine del regime fascista ed era obbligatorio quanto strumentale. Con la fine del socialismo reale e del dopoguerra si impone, quindi, la definitiva storicizzazione anche dell’antifascismo. È tempo che anch’esso raggiunga il fascismo, perché entrambi affrontino il giudizio della storia…”.

Da Fiuggi e da Alleanza Nazionale, un certificato di garanzia, non si torna indietro! Pagina 16 delle tesi di Fiuggi sul rapporto tra destra, democrazia, competizione con l’avversario, alternanza e bipolarismo.

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“La destra, come ha già dimostrato in più di un’occasione, vuole svolgere fino in fondo il ruolo di forza politica che… pretende dagli altri protagonisti della Seconda Repubblica rispetto e pari dignità. Nel nuovo sistema politico non devono esistere nemici da cancellare ma avversari da battere, e neppure una volta per sempre, ma possibilmente ad ogni tornata elettorale, consci che la partita si può perdere o vincere, e che, pertanto, è possibile trovarsi oggi al governo e domani all’opposizione senza conseguenze traumatiche ed irreparabili. La Prima Repubblica da questo punto di vista ha fallito perché ha applicato una doppia distinzione alquanto discutibile, tra area della legittimità ed area della rappresentanza e tra area di maggioranza ed area d’opposizione. In funzione della prima distinzione ha consentito solo ai partiti riconducibili dentro l’area della legittimità (tutti tranne, per ragioni diverse, l’ex PCI e l’ex MSI), di esercitare un potere concreto, effettivo e formale di coalizione e di governo. In funzione della seconda distinzione, ha lasciato nelle mani della DC il quasi monopolio del governo e nelle mani del PCI quello dell’opposizione. Oggi sappiamo bene che se il PCI attraverso la conventio ad escludendum appariva formalmente fuori dalla stanza dei bottoni, in effetti, tramite la conventio ad associandum stava dentro quel governo spartitorio che si curava dell’esercizio pratico e quotidiano del


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potere (per esempio gestione della Rai, finanziaria, nomine varie etc. etc.). Per motivare quella doppia distinzione i politologi hanno invocato sia ragioni di carattere internazionale, sia motivi d’opportunità politica. Condivisibili, o meno, oggi quelle ragioni non esistono più, e il nuovo sistema politico deve essere in grado di consentire a tutti i nuovi soggetti politici (che si ritrovano dentro l’area della rappresentanza per volontà degli elettori) di essere, senza eccezione alcuna, e senza che contro di loro si possa invocare ancora una conventio ad escludendum, partiti d’opposizione e di governo… Coloro che intendono valutare, senza preconcetti, il processo di maturazione che riguarda la destra italiana, possono soffermarsi su di una circostanza, di non poco conto, vale a dire sul fatto che il MSI-DN, volendo - quando tutti, nel marasma generale, se la prendevano con la partitocrazia - poteva addebitare le cause di Tangentopoli al pessimo funzionamento della democrazia. Partendo da questo teorema, la destra avrebbe potuto iniziare un’opera di discredito a tutto campo, tale da suscitare nell’opinione pubblica un giudizio negativo sul sistema attuale, e tale da determinare, al contrario, una rivalutazione generica del sistema precedente. Questa scelta è rimasta lontana dalla nostra mente non tanto perché rischiosa, quanto perché il MSI aveva risolto già da tempo il problema del rapporto con la democrazia. Potevamo dire colpa del sistema o, peggio ancora, colpa della democrazia. Non l’abbiamo pensato e non l’abbiamo detto. Ciò avrà pur un valore e significherà qualcosa se il documento congressuale ha discusso la questione e l’ha archiviata… Dinanzi alla confusione che ha caratterizzato i primi anni ‘90, non è mancato chi si è chiesto se stava per nascere un nuovo sistema politico, o se quanto avveniva doveva giudicarsi alla strega di un preinfarto della democrazia. La destra, alle soglie di un cambiamento politico che conduce alla nascita della Repubblica dei cittadini, afferma che il sistema democratico è fuori discussione. Non corre rischi. Secondo la destra, il sistema democratico ha fornito buona prova di sé e la ricerca del consenso, come via per raggiungere il governo della Città e della Nazione, non costituisce una possibilità tra le tante, in vista di tempi migliori e di un’ipotetica ora X che, una volta giunta, possa aprire la via ad una nuova epoca, a una storia mai vista o a un nuovo regime destinato a durare per sempre. Le regole della democrazia sono, per la destra politica, l’unica strada possibile per uscire dal vecchio ed entrare nel nuovo. Il MSI e la destra italiana hanno scelto il sistema democratico non per ragioni d’opportunità ma nella consapevolezza che la conta dei voti rappresenta l’unica risposta, senza controindicazioni, al problema della competizione tra le forze politiche per la ricerca del consenso. La conta dei voti, per scegliere chi vince e chi perde, non lascia, infatti, vittime per la strada. Forse, da sola, non basta. Occorrono, infatti, valori comuni condivisi. Questo, però, è un altro discorso. Sulla democrazia, come metodo, la discussione si può considerare chiusa… Posto che sulla democrazia, come metodo, la discussione è chiusa, il discorso resta aperto sulla democrazia come merito, perché qui le questioni sono tante e la loro soluzione non appare del tutto scontata. A un problema risolto, quello del metodo, fa riscontro, pertanto, un problema irrisolto, quello del merito, dove i temi aperti sono tanti: dall’affermazione autentica della sovranità


popolare, alla riconsegna dello scettro ai cittadini; dall’attuazione di una democrazia diretta, all’introduzione di regole elettorali in grado di favorire la formazione effettiva di schieramenti in competizione tra loro; dalla sperimentazione d’autonomie locali diffuse, al bisogno di una pubblica amministrazione efficiente, competente e trasparente; dalla garanzia di un punto di partenza uguale per tutti, al riconoscimento dei meriti di ciascuno; dalla compatibilità tra mercato e stato sociale, al sostegno verso l’iniziativa privata; dalla difesa della libertà di stampa e di comunicazione, all’individuazione di meccanismi che tutelino i diritti della persona umana…”.

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8 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PER COSTRIRE UNA NUOVA ALLEANZA TRA IL CENTRO E LA DESTRA

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La XVII legislatura, iniziata con le politiche del 2008, ha dimostrato che il bipartitismo non si adatta alle tradizioni parlamentari della democrazia italiana e che un bipolarismo ben strutturato riesce a coniugare meglio stabilità e pluralismo. Eppure, come se nulla fosse, La Russa e gli amici di FdI, invece di concentrarsi su ciò che lo scenario politico e il buon senso suggeriscono (cioè sulla frantumazione che ha colpito la destra italiana e su come ricomporla in un soggetto unitario capace di connettere storie personali e consenso degli elettori, rinnovamento generazionale e primarie, talento e territorio), ripropongono la riedizione di un nuovo centrodestra: una specie di fotocopia sbiadita del solito partito unico dove leader autorevoli e fascinosi, come Berlusconi e Fini, non sono riusciti e il vecchio PdL è fallito. Se Cossiga fosse vivo, direbbe che l’unico centro/destra possibile, in una democrazia come la nostra, si può formare su un programma di governo concordato e si può scrivere col trattino in mezzo: centro-destra. In effetti, se i centristi hanno un loro linguaggio, un modo originale di trattare gli argomenti, una visione etica sui generis, un campionario ampio di ragionamenti convincenti quando si tratta di stabilire relazioni e intavolare trattative con il mondo imprenditoriale e finanziario… la cosa più sbagliata che si possa fare è mettere loro e noi in un unico contenitore con l’obbligo di assumere decisioni sulla vita di partito, sulla formazione della classe dirigente, sulla composizione delle liste, sui compiti da assegnare, sugli amministratori da scegliere e sulle intese da imbastire con gli altri interlocutori politici, sociali ed economici che, divisi, non prenderemmo mai. Una cosa è allearsi per realizzare gli interessi di una platea vasta e importante come quella di una città o di un popolo, un’altra è l’unione innaturale tra persone di destra e di centro, obbligate a contrattare tutti i provvedimenti da prendere e a controllarsi vicendevolmente. Questo film l’abbiamo già visto nel PdL e col PdL. La trama non ha esaltato la vita in comune. Il colpo di scena finale è stato la pulizia etnica di coloro che meno l’aspettavano e la meritavano. Sia chiaro. La colpa non è tanta di coloro, i cosiddetti governisti, che a valle, e da una posizione privilegiata, hanno sfruttato l’occasione propizia per adottare, senza resistenza, le scelte più convenienti ai loro interessi personali e alla prospettiva neocentrista. La colpa è più di chi, a monte e a suo tempo, ha optato per la decisione poco ponderata di unire AN e FI in un partito unico, il PdL, attribuendo il 30% delle posizioni alla prima e il 70% alla seconda, senza predisporre una clausola di garanzia per la parte minoritaria e senza valutare in termini strettamente formali le possibili conseguenze in caso di rottura.


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È vero. Nessuno poteva immaginare che sarebbe andata a finire con l’uscita di Fini e con la pulizia etnica della destra del PdL. Ma un riparto col quale si attribuisce, in partenza e in un partito unico, alla parte maggioritaria il potere di schiacciare, in caso d’implosione, la parte minoritaria (o chi non è riconducibile nei disegni di coloro che hanno il pallino in mano), doveva pur consigliare la previsione di alcune vie di fuga dignitose in caso di rottura. In un partito unico nato dalla fusione a freddo tra AN e FI, il minimo che si doveva garantire, in caso di scissione, era la rinascita automatica dei partiti fondatori attraverso lo svolgimento di un congresso straordinario con i delegati che avevano deciso lo scioglimento di AN nel PdL. In ogni caso, rottura o non rottura, lo statuto del PdL doveva prevedere la sottoscrizione contestuale delle liste, pena la loro esclusione, da parte di chi rappresentava il 70% ex FI e il 30% ex AN. Prima che si arrivasse allo scioglimento di AN ho parlato anche con Fini dei motivi che militavano per la federazione con FI e perché se c’era un caso in cui storie personali e politiche differenti consigliavano – per non dire imponevano – di allearsi in una specie di mosaico, dove o si stava insieme rispettando i patti o tutto si sgranava, tornando al punto di partenza, era proprio quello in corso tra noi e loro. In una federazione, parafrasando una celebre frase, sarebbe valso il criterio “ognuno per sé e il PdL per tutti”: un insieme di regole condivise per disciplinare le risoluzioni del PdL destinate a tenere in vita il mosaico (tipo la scelta dei candidati uninominali o del programma di governo), l’autonomia più ampia nelle competizioni di carattere proporzionale, nella formazione delle proprie classi dirigenti, nelle decisioni disciplinari; il simbolo del PdL per tutti, nelle competizioni di tipo uninominale, ognuno col proprio simbolo (i pezzi del mosaico) nelle competizioni proporzionali. La federazione sarebbe stata la più forte clausola di salvaguardia nelle nostre mani: AN non sarebbe stata sciolta e il PdL sarebbe stato la sigla in più che superava la consuetudine di affidarsi ai rapporti tra i due leader di spicco attraverso regole scritte. Se la triangolazione PdL, AN e FI dava buona prova di sé, si andava avanti. Diversamente, ognuno per sé e alleati come prima. Ancora un nuovo centrodestra nazionale che giova poco alla destra di cui necessita l’Italia e che per giunta potrebbe entrare in concorrenza/competizione con le forze di centro che dovrebbero allearsi con noi? Perché riproporlo se la tradizione parlamentare italiana e il sistema bipolare spingono forze politiche compatibili ad allearsi più che a sciogliersi in un’unità di facciata destinata a dissolversi di fronte al primo ostacolo? A cosa serve correre il rischio di perdere molti elettori di destra per catturare qualche elettore di centro rimasto fuori da quell’area superaffollata che annovera il centrodestra liberal-imprenditoriale di SB, quello popolare in arrivo sotto l’egida di quel movimento che


Grillo apostrofa, spregiativamente, di “comunione e fatturazione”, quello laico-massone di Scelta Civica, quello governista di cui tanto si parla e dove sono destinati a sedersi anche una parte di coloro che non seguiranno Berlusconi fino in fondo? Perché mai chi va al cinema, entrando in sala e potendo scegliere di sedersi in un settore a lui più congeniale, quello di destra, con molti posti liberi, dovrebbe sgomitare per farsi largo in un angolino dell’area di centrodestra affollata fino all’inverosimile? Quando leggo di un nuovo centrodestra nazionale senza trattino, mi chiedo: - Perché trascurare milioni di elettori che chiedono rappresentanza? - Perché non darsi da fare per occupare uno spazio che se ben organizzato può consentire a chi lo rappresenta di pesare quando si tratta di fissare gli obiettivi da raggiungere con gli alleati di governo? L’ultima proposta larussiana, una seconda Fiuggi senza che sia necessaria, sembra la trovata dell’ultimo minuto per conquistare il solito spazietto mediatico. Il MSI che nel 1995, a Fiuggi, decise di trasformarsi in AN per cambiare l’Italia con nuovi colleghi di viaggio, partiva da posizioni di destra, aveva molte cose da chiarire e da ribadire, era unito e multigenerazionale, era accogliente e forte di una stagione di successi elettorali alle spalle, era vincente intorno alla leadership fascinosa di una persona, Gianfranco Fini, alla quale guardavano con fiducia i tanti italiani che speravano in un domani migliore. Allo stato dell’arte, la situazione è ben diversa. Non mi pare che il popolo italiano sia interessato ai tanti personaggi che ruotano a destra e nel nuovo centrodestra nazionale. Non mi pare che il popolo italiano riconosca tra loro, come successo con Fini, qualcuno di cui fidarsi per le doti, le competenze essenziali e l’autorevolezza che dimostra nell’affrontare la complessità dei problemi politici, economici, sociali e finanziari che attanaglia il Paese. Non mi pare che per adesso gli italiani siano incuriositi da altri che non si chiamino Matteo, Enrico, Angelino, Marina, Silvio o Beppe. Vorrei sbagliarmi. Lo vorrei proprio ma non mi sento di fare come gli struzzi che nascondono la testa sotto la sabbia. Noi, chi? Noi, cosa? Nera, vera, finta? Di centrodestra? Oltre? Altro? Calma e gesso. Oggi, dopo il fallimento del centrodestra, conta ricomporsi. Rialzarsi. Rimettersi in marcia intanto come noi e come destra. Gli altri colleghi di viaggio, pochi o tanti, di centropiù o di centromeno, si trovano sempre. È una destra-destra coesa e unita che manca. È sul noi il compito che ciascuno deve svolgere senza uscire fuori tema. Intanto, facciamola questa destra. Investiamo su una casa che sia di destra e una cosa che sia sobria, autorevole, pulita e talentuosa. Domani, purché una destra ci sia (cosa che, qui e ora, mi sembra il problema principale) penseremo a un’alleanza di centro, trattino, destra. O di destra, trattino, centro. 41 NEXT AN

Una Repubblica è caduta, la Prima, perché la sua classe dirigente è stata colta con le mani nel sacco.


La Seconda sta giungendo al capolinea nel peggiore dei modi. E tutti, proprio tutti, a destra come a sinistra, in alto come in basso, nelle Istituzioni come nella società, quelli che sembrano vincenti e gli altri che sembrano perdenti, stanno pagandone il conto. Sul piano politico, un partito che riunisca tutte le formazioni che navigano nell’arcipelago delle destre e che si riconoscono nell’approccio tematico di cui al Manifesto degli intellettuali di area, è ciò di cui l’Italia necessita. Sul piano istituzionale, la partecipazione popolare attraverso referendum consultivi e propositivi, la partecipazione delle categorie produttive ai processi decisionali, la partecipazione dei lavoratori agli utili, alla gestione e alla proprietà dell’azienda secondo le norme previste nella Costituzione, l’attuazione dell’articolo 49 della Carta sulla democrazia nei e tra i partiti, l’elezione diretta del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio… possono rappresentare la piattaforma programmatica per rinnovare il Paese dalle fondamenta e per rafforzare quel bipolarismo dell’alternanza che in tanti vorrebbero archiviare. Sul piano europeo, l’uscita dal buio pesto in cui il Paese è avvolto dipende dalle scelte che qualche Esecutivo, prima o poi, sarà costretto ad adottare sull’Euro, sul rapporto con la Germania, sulla nascita di una BCE che non presti moneta ma la stampi, sulla costituzione di una Comunità europea fondata sulla solidarietà tra i suoi membri piuttosto che sull’egemonia di uno sugli altri… Sono scelte di grande portata che non dipenderanno solo da noi. La politica, però, quella sì, dipende molto da noi. E se anche la disaffezione, il disgusto che la parola suscita solo a sentirla e la moda dell’antipolitica trovano in Grillo l’interprete del momento, chi meglio di coloro che sono caduti e potrebbero rialzarsi, può ridarle senso? Chi, se non coloro che la vivono con passione?

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9 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PER ATTUARE L’ART. 49 DELLA COSTITUZIONE E SANARE LE FERITE INFERTE AL METODO DEMOCRATICO

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A – Il voto di protesta e di astensione da Guglielmo Giannini a Beppe Grillo. Una parte dell’elettorato italiano ha sempre espresso un voto di protesta contro le decisioni governative indirizzandolo verso i partiti che sapevano interpretarne l’umore. Tra la caduta del regime fascista e l’inizio degli anni cinquanta a raccoglierlo fu un commediografo campano, Guglielmo Giannini, fondatore di una rivista che raggiunse la tiratura di 850.000 copie e di un movimento, “Il Fronte dell’Uomo Qualunque” (da cui il termine qualunquismo), votato dai nostalgici del passato regime e dagli elettori animati da spirito antipartitocratico. Esauritosi l’impulso qualunquista e consolidatosi il sistema democratico, il voto di protesta riesplose negli anni sessanta, quando la Democrazia Cristiana aprì a sinistra e avviò con i socialisti quella politica della spesa che dissestò i conti pubblici, scontentò molte fasce della popolazione e pesa ancora oggi sulle spalle degli italiani. Negli anni sessanta il flusso più rigoglioso di elettori che protesteranno contro le politiche governative si orienterà verso il PLI di Giovanni Malagodi; dal 1970 al 1972, verso il MSI di Giorgio Almirante; nel 1976, verso il PCI di Enrico Berlinguer; nel 1979, verso il Partito Radicale di Pannella; nel 1983, ancora verso il MSI di Almirante; nel 1987 (a causa di una specie di opposizione interna alla maggioranza) verso il PSI di Craxi; nel 1992, verso la Lega di Bossi; nel 2013, verso Cinquestelle di Grillo e Casaleggio. Tra gli slogan più ricordati, quelli che il Movimento Sociale Italiano utilizzò durante le elezioni siciliane del 13 giugno 1971 (“Contro chi vuole toglierti la terra, la casa e la libertà, vota MSI)”), le nazionali del 1972 (“Italiani, aiutateci a difendervi”) e le politiche dell’83 (“Meno ladri, meno tasse”); quello con il quale i comunisti caratterizzarono la loro campagna del 1976, quando sperarono nel sorpasso della DC (“Per un nuovo modo di governare – Vota PCI”); il noto “Roma ladrona” al quale il partito di Bossi intitolerà le prime campagne propagandistiche contro l’assedio fiscale centralista. Negli anni ottanta, con l’ascesa di Craxi e l’estensione del centro-sinistra al Partito Liberale, gli elettori che prima esprimevano il loro dissenso col voto di protesta - scegliendo l’opposizione, annullando la scheda o imbucandola bianca, ma comunque votando - si divisero in due tronconi: quello di chi continuerà a protestare votando per l’opposizione parlamentare e quello di quanti si rifugeranno nell’astensione perché, voto o non voto, “governano sempre gli stessi”.


Il numero dei votanti raggiunse nuovamente percentuali molto alte con la consultazione nazionale del 27 marzo 1994 quando, dopo l’introduzione del Mattarellum (una legge per tre quarti uninominale/maggioritaria e per un quarto proporzionale bloccato), la nascita della Seconda Repubblica e la scomparsa dei vecchi partiti travolti da Mani Pulite, gli elettori si convinsero che finalmente l’Italia poteva voltare pagina. Nei diciassette anni successivi l’affluenza alle urne oscillerà costantemente intorno all’ottanta per cento degli elettori e sia il centro/destra che il centro-sinistra governeranno per otto anni e mezzo, fino alla nascita dell’Esecutivo tecnico presieduto, nel 2011, da Mario Monti. Nelle politiche del 2013, di fronte a una crisi economica sempre più grave, a una pressione fiscale insopportabile e agli scandali che hanno coinvolto rappresentanti di tutti i partiti, molti elettori che prima votavano per una delle due coalizioni in campo cambiarono atteggiamento: una parte disertò le urne con percentuali superiori a quelle degli anni ottanta e una parte indirizzò il votò di protesta verso un comico, Beppe Grillo, che intratteneva la gente con lo stesso linguaggio di quel Guglielmo Giannini che calcò la scena politica tra il 1944 e i primi anni cinquanta. Questa volta, però, i consensi degli elettori che protestano non si orientano verso i partiti all’opposizione in Parlamento e l’astensione delle persone che disertano le urne non si spiega con la mancanza di un’alternanza di governo. Questa volta gli elettori, esprimano la loro rabbia votando o disertando, prendono di mira tutti: la casta, le istituzioni, la finanza, l’euro, la Germania, l’Europa, la Merkel, le banche, Equitalia, il Governo, il Parlamento, il Presidente della Repubblica, la maggioranza, l’opposizione, i politici... Questa volta, mentre gli astensionisti non vanno a votare perché diffidano di chiunque, i protestatari riversano la loro fiducia su un comico, Grillo, che attacca i politici e le istituzioni con un linguaggio a tratti volgare, ma convincente, penetrante e divertente.

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B – La prima ferita subita dal metodo democratico di cui all’art. 49 della Costituzione: il “centralismo democratico” comunista. Norberto Bobbio ha scritto pagine interessantissime sul merito della democrazia e sulle tante promesse da marinaio che sono state fatte in suo nome. Alla fine ha concluso che il merito di una democrazia è il suo metodo perché consente agli elettori di decidere col voto chi deve governare e chi deve rappresentarli e perché, a differenza dei sistemi totalitari, non ricorre alla violenza e non lascia vittime sul terreno. L’articolo 49 della Costituzione sancisce e disciplina il metodo democratico. Un metodo che dovrebbe reggere la democrazia tra partiti e nei partiti; che dovrebbe tutelare i diritti degli iscritti consentendogli di concorrere alla pari nella copertura degli incarichi dirigenziali; che dovrebbe garantire il diritto dei cittadini di scegliere partito, coalizione e Governo; che


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dovrebbe consentire agli elettori di eleggere gli eletti con il loro voto personale, scegliendoli, qualunque sia il tipo di sistema elettorale, (plurinominale o uninominale) tra candidati che si misurano alla luce del sole. Art. 49 della Carta fondamentale: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. I partiti, nonostante sia pacifico che al riconoscimento di un diritto costituzionalmente previsto corrisponda il dovere legislativo di rispettarlo e tutelarlo – hanno ridotto il metodo democratico alla giustizia casalinga dei probiviri scelti da chi li governa e alla mera osservanza delle regole stabilite dalla legge elettorale in vigore. L’articolo 49 esordisce indicando il soggetto titolare del diritto garantito: tutti i cittadini. Continua specificando in cosa consiste il diritto che hanno i cittadini: associarsi liberamente. Prosegue chiarendo in che modo possono associarsi liberamente: in partiti. Procede spiegando perché i cittadini possono associarsi liberamente in partiti: per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. I partiti, invece di attenersi al dettato costituzionale, hanno rovesciato il soggetto di cui all’articolo 49 della Costituzione e, sostituendo se stessi ai cittadini, l’hanno tradotto come se i soggetti che devono concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale non sono i cittadini, che si sono associati liberamente in partiti, ma i partiti stessi. Come se la norma fosse scritta così: “Tutti i partiti hanno diritto di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, consentendo ai cittadini di associarsi liberamente”. Stravolto l’articolo 49, è stato stravolto anche quel metodo democratico che nel corso dei decenni repubblicani, passando dal centralismo democratico al grillismo degli ultimi giorni, subirà molte ferite profonde. La formazione politica che per ragioni ideologiche e di principio ha osteggiato, dal 1948 alla sua scomparsa, l’approvazione di una legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione per garantire la democrazia interna ai partiti, è stata il PCI: un partito che tacciava chi osava proporla di essere al soldo dei padroni e di quell’imperialismo yankee sempre in cerca di una buona scusa per metterlo fuori legge e colpire i lavoratori! La verità, ovviamente, era altra ed era che i comunisti italiani regolavano la loro vita interna e selezionavano le loro rappresentanze assembleari con criteri che avevano poco a che vedere con i metodi delle democrazie occidentali e molto in comune con quanto mutuato dall’esperienza sovietica di stampo leninista-stalinista. Il centralismo democratico, il metodo che regolò la vita interna dei comunisti italiani fin quasi alla soglia degli anni novanta, consentiva ai compagni in dissenso di esporre il


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proprio punto di vista nel chiuso di un locale, ma gli imponeva - assunta la decisione - di dimenticare le proprie opinioni e di sostenerla con convinzione. Tanto per essere chiari. I dettami del centralismo democratico, assunta una decisione, non consentivano a nessuno di raccontare chi aveva sostenuto una tesi e chi un’altra, chi aveva votato in un modo e chi in un altro, come si era snodato il dibattito e cosa era successo nelle segrete stanze. Beffeggiando il termine democratico, il centralismo comunista vietava qualunque notizia sui nomi di coloro che si erano schierati con la maggioranza o la minoranza. Vietava qualunque confronto pubblico tra compagni che avevano sostenuto la decisione presa o che si erano pronunciati in dissenso. Vietava qualunque distinguo diffuso attraverso dichiarazioni e agenzie di stampa. Vietava qualunque aggregazione tra coloro che pensavano in dissenso, subito accusati di frazionismo ed espulsi. Vietava qualunque atteggiamento che poteva anche lontanamente somigliare alla dichiarazione in dissenso cui erano adusi quei rappresentanti della borghesia capitalistica che avevano la pessima abitudine di esporre in pubblico il loro pensiero senza rischiare la radiazione! Tanto per essere ancora più chiari. In nome della Causa, il Partito autorizzava la diffusione di una sola versione, enunciata dal Segretario Generale: gli altri dovevano attenersi allo stesso canovaccio e ripetere senza stancarsi lo stesso ritornello. Qualche notista zelante, assimilando “cosa si pensa e si dice liberamente” alle liti su “cosa si pensa e si dice liberamente”, ha tentato una lettura all’italiana del centralismo democratico sostenendo che si è trattato della semplice applicazione del detto secondo cui “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Pensarla diversamente, pur dentro il perimetro di un partito, e poterlo esprimere liberamente in pubblico, non può rientrare nella metafora del panno che poiché è sporco si lava in famiglia perché è essenziale al metodo democratico. È un diritto talmente pregnante da escludere, in una democrazia che sia davvero tale, che qualcuno possa pensare, come hanno fatto i comunisti per quasi quarant’anni, d’imporre il divieto di comunicare alla luce del sole ciò che si pensa e l’obbligo di divulgare in pubblico, con convinzione, ciò che non si pensa. Se le troike che hanno retto negli anni il PCI, il PDS e i DS, hanno sempre scelto la gran parte dei parlamentari tra la nomenclatura dei funzionari di partito, dei sindacalisti e dei patronati collaterali; se una volta eletti, dovevano versare il 50% della loro indennità nelle casse del gruppo comunista; se erano confermati per un’altra legislatura solo per maturare una buona pensione; se, ultimati due mandati, dovevano rientrare nei ranghi e lavorare gratis per il Partito sulla pelle del contribuente italiano… ciò è successo non perché gli elettori prima li hanno eletti liberamente e poi li hanno bocciati liberamente, ma perché un partito di stampo stalinista ha imposto ai compagni-elettori “chi, come, dove, perché e fino a quando” doveva assolvere la missione di schiacciare il pulsante sugli scranni parlamentari!


Quale diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare etc. etc. Qui di libero e di democratico per concorrere… non si vede neanche l’ombra. Il PCI non ha mai consentito ai burocrati candidati nelle sue liste di fare propaganda personale, di stampare manifesti con la propria foto e il proprio nome e di sollecitare la preferenza distribuendo tra i compagni facsimili elettorali. Il Partito stabiliva chi doveva essere eletto, chi doveva arrivare secondo e chi doveva sacrificarsi per la Rivoluzione e il proletariato. Il Partito ordinava alle Federazioni provinciali come distribuire, tra le varie sezioni, i facsimili con le terzine o le quartine prestampate che ogni buon comunista era tenuto a scrivere sulla scheda elettorale senza fare domande, nella sequenza indicata e senza che fosse necessario conoscere i volti che si nascondevano dietro i numeri. Certo. I tempi erano altri e se il Partito prima ordinava l’esaltazione e poi la condanna del compagno Stalin, la massa comunista doveva eseguire l’ordine e il contrordine con la stessa convinzione e senza fiatare perché serviva al proletariato! La pratica del centralismo cosiddetto democratico, aberrante per chi crede nella democrazia ex articolo 49 della Costituzione, esaltava a tal punto i suoi supporter che la citavano come la prova di una superiorità che li avrebbe condotti alla supremazia sulle altre forze politiche.

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C - Consociativismo, corruzione, partiti simil-aziendali…: altre ferite al metodo democratico previsto dall’art. 49 della Costituzione. La mancata democratizzazione del PCI ha inciso pesantemente, per circa quarant’anni, sull’intero sistema politico, ha portato allo sviluppo di una democrazia all’italiana e ha causato l’affermarsi di un bipartitismo imperfetto che ha prodotto, senza alternanza tra maggioranza e opposizione, la cultura del compromesso, del consociativismo e del saccheggio delle risorse pubbliche. Gli effetti di un sistema bloccato dalla tracotanza e dalla presunzione comunista si sono fatti sentire sul piano istituzionale, politico ed etico. Sul piano istituzionale, fino a quando i comunisti non riuscirono a eliminare i socialisti per mano giudiziaria, non si parlò mai di riforme in grado di dar vita a un’alternanza di governo tra destra e sinistra e tantomeno di democrazia diretta. Il Presidente della Repubblica Cossiga - che provò a smuovere le acque, nel 1991, con un messaggio inviato alle Camere - fu tacciato di bonapartismo, messo alla gogna, soprannominato picconatore e sottoposto ad impeachment perché indicò il popolo come titolare della sovranità reale. Sul piano politico, la considerazione di se stessi come i migliori e degli altri come poveri diavoli da sottomettere alla propria egemonia ha minato talmente in profondità la


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qualità di una democrazia che alcuni settori istituzionali hanno dimostrato quanto ancora duri nell’intera vicenda che riguarda Silvio Berlusconi. Sul piano etico, le forze democratiche e liberali che dovevano dimostrarsi all’altezza del compito e che potevano (attraverso l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione) favorire la democratizzazione del PCI, il suo allontanamento dalla galassia sovietica e la possibilità di una democrazia dell’alternanza, hanno preferito pareggiare i finanziamenti che i compagni ricevano da Mosca, diversificando le quote di spettanza nella divisione delle tangenti. Quando non c’è competizione e si sa in anticipo che vincono sempre gli stessi, i partiti in maggioranza finiscono col sentirsi inamovibili e quelli in minoranza, rassegnati. Col tempo gli uni rischiano di controllarsi sempre meno e gli altri di controllarli sempre meno. Durante la Prima Repubblica, sia gli uni sia gli altri hanno trovato più conveniente, anziché misurarsi e mordersi nell’interesse generale della collettività, intendersi su come spartire le risorse pubbliche, su come soddisfare i propri elettori e su come finanziarsi. È stato così che per decenni le classi dirigenti più in gamba nel raccogliere tangenti da versare al partito, alla corrente e al capocorrente, si sono affermate a discapito dell’interesse pubblico. È stato così che durante la Prima Repubblica prese il largo quella corruzione come sistema, scoperchiata da Tangentopoli, che costituì, dopo il centralismo democratico, una delle ferite più profonde subite dalla democrazia nei e tra i partiti. L’Italia risente ancora gli effetti deleteri di un centralismo democratico che ha impedito l’attuazione dell’art. 49 della Carta e di una corruzione sistemica che ha fatto il paio con una democrazia rimasta senza alternanza di governo per 40 anni. La politica risente ancora la presenza di partiti che rispondono, chi più chi di meno, agli interessi di centrali operative esterne. Come sembra, sta per fare la comparsa un partito simil-aziendale che intende riconoscersi completamente in Silvio Berlusconi o in chi, della famiglia, lo rappresenterà. Quando, nel 1994, l’Italia imboccò la strada del maggioritario e del bipolarismo, molti pensarono di trovarsi alle soglie di una Seconda Repubblica fondata sulla sovranità del popolo, su una democrazia destinata a funzionare come le altre e sulla possibilità che l’elezione diretta del sindaco e degli organi monocratici potesse condurre verso l’applicazione di un metodo democratico nei e tra i partiti come previsto dall’articolo 49 della Carta fondamentale. Forza Italia, per come è venuta alla luce, s’è diffusa sul territorio ed è stata guidata dal suo leader, non ha risposto in pieno alle aspettative di quanti s’illusero di rinnovare le forze politiche dal loro interno e mostrò, presto, i caratteri di un partito personale. Il partito azzurro, nonostante i tanti liberali al suo interno, non si dimostrò con i fatti liberale come diceva di essere e s’occupò di tutto tranne che attuare l’articolo 49 della Carta. Forza Italia, in effetti, conviveva con più realtà: una carismatica, interamente costruita sulla figura di Berlusconi; una di derivazione aziendale, formata dagli ex dipendenti Fininvest


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diventati parlamentari, ministri e sottosegretari; un’altra di tipo territoriale, articolata su eletti, in parte nuovi in parte transitati dai vecchi partiti, che frequentavano le assemblee, i dibattiti e i media con dimestichezza e con la massima autonomia. Berlusconi è sempre stato convinto d’essere lui e soltanto lui a portare i voti di Forza Italia. La sua strategia propagandistica, da questo punto di vista, fatte salve le debite differenze tra le imbeccate di un leader, che non si sogna di sanzionare chi non rispetta le indicazioni, e gli ordini perentori di un partito che espelle chi li viola, ha molti più punti in comune di quanto non si pensi con il sistema propagandistico del PCI. Silvio, infatti, esattamente come faceva il compagno Segretario Generale con il simbolo “falce e martello”, ha sempre consigliato ai propri candidati di affiggere soltanto manifesti di FI. Volendo attardarsi sulla natura più o meno aziendale della nuova Forza Italia, il recente rilancio del partito azzurro sulla base dei criteri indicati dal Cavaliere (coordinatori regionali nella persona di imprenditori che pensano a tutto di tasca propria) individua chiaramente la meno sperimentata e la più esplicita tra le versioni che hanno assunto, negli anni, i partiti eterodiretti, eterofinanziati o eterocondizionati che hanno calcato, e calcano, il palcoscenico italiano. La più esplicita perché lo scheletro organizzativo sembra comporsi di leaderimprenditori, dirigenti-manager, iscritti-dipendenti e finanziatori-finanziati. La meno sperimentata perché ancora incerta rispetto a quelle meno esplicite dei partiti che sono sempre sembrati autonomi ma che sono sempre stati ispirati. Come potrebbe definirsi il sostegno sospetto che i partiti laico-riformisti della Prima Repubblica hanno sempre garantito alle decisioni governative che consentivano all’azienda FIAT di dividere gli utili e di socializzare le perdite? Di che natura era il rapporto che legava la vecchia DC alla nomenclatura ecclesiastica che beneficiava delle sue benevole e provvidenziali attenzioni? A cosa somiglia il rapporto tra il PD, l’azienda bancaria/finanziaria dei Bazoli e l’azienda imprenditoriale editoriale del cittadino svizzero De Benedetti, se non a quella di un’OPA lanciata dai poteri forti su una sinistra diventata troppo debole dai tempi di Romano Prodi e dell’Ulivo? Cosa si nasconde dietro una società informatica ed editoriale, la Casaleggio Associati s.r.l., che cura il blog di Beppe Grillo e che obbliga i cittadini cinquestelle a comunicare tra loro digitando il blog www.beppegrillo.it? Fino a quando non sarà attuato l’articolo 49 della Costituzione, sorprende di più il partito simil-aziendale di un Berlusconi che si espone o i partiti presunti autonomi ispirati dai tanti che si nascondono? Un Cavaliere che è costretto per motivi giudiziari a difendere se stesso e la sua storia politica o una partitocrazia che, a dispetto del nome, ha prodotto una


politica debole, lo squilibrio tra poteri che consentono ad alcuni di farla franca e ad altri di pagare per tutti e l’esistenza di partiti che predicano bene e razzolano male? Con i sistemi elettorali non si mangia, ma di sistemi elettorali si nutre la democrazia e la politica. Un buon sistema elettorale incrementa la centralità della politica, facilita l’autonomia dei partiti e rafforza politiche di governo autonome da condizionamenti. Un pessimo sistema elettorale mette chi è debole nelle grinfie di chi è forte e ricco di argomenti. Se fino al 2006 le dinamiche elettorali e sistemiche coinvolgevano contendenti che si misurano a viso aperto nelle piazze, nei confronti pubblici e nei salotti televisivi; dal 2006, con l’introduzione del Porcellum, il sistema politico e la democrazia italiana hanno compiuto un brutto passo indietro che ha influito negativamente sulla formazione delle maggioranze parlamentari, sulla qualità dei nostri rappresentanti, sulla forma organizzativa che vanno assumendo i partiti e sulla stessa mentalità degli italiani. Il sistema elettorale, l’alternanza di governo tra maggioranze e minoranze, una politica forte e scevra da condizionamenti… sono fattori la cui assenza ha determinato la nascita di quella corruzione come sistema che è stata un unicum della Prima Repubblica e che può annoverarsi tra le ferite più profonde inferte alla democrazia italiana. Nel paragrafo del libro “La Corsa per il Colle” (edizione Rubbettino) che riguarda perché una destra difende il senso dello Stato contro la corruzione, l’argomento è stato affrontato specificamente da pagina 131 a 138.

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“La disonestà ognuno la intende a modo proprio: c’è chi la considera devastante e basta, chi la condanna a singhiozzo e chi la giudica più deprecabile quando si ruba per sé e meno per il Partito. Thomas Jefferson ha colto l’importanza dell’onestà quando ha scritto che non è soltanto una virtù individuale ma una chiave per capire l’ordine naturale, “il primo capitolo del libro della saggezza”. Partirei da questa definizione per dire che “non rubare” è un precetto da osservare nel privato e nei rapporti interpersonali, ma ancor di più nel sociale, quando l’integrità di chi amministra nell’interesse pubblico costituisce un prerequisito della politica che, se c’è, spinge a dare molto più di quanto si riceve. Ha ragione Piero Ottone: una cosa è la disonestà della persona, un’altra la corruzione per il partito. Diversamente dalle sue conclusioni, quest’ultima (Corriere della Sera, 26 gennaio 2008) è più deplorevole per ragioni individuali e storiche. Individuali, perché il ladro che ruba per il portafoglio è solo un disonesto facile da individuare e da colpire che impegna se stesso, la sua psiche e qualche complice; mentre chi ruba per il partito si sente un patriota, impegna un’organizzazione, fa parte di un apparato che si serve di strumenti, canali, strutture e complicità collettive di carattere ideologico, non è colto da rimorsi ed è difficile da incastrare. Un campione di quanto sia facile prendere le distanze da un corrotto solitario e di quanto sia complicato quando dietro le tangenti si nasconde un amico organico al partito, lo offrono il caso Penati, il silenzio imbarazzante di Bersani, le giustificazioni


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risibili di D’Alema e le riflessioni di chi ha invocato insistentemente quella doppia morale alla quale sono soliti rifarsi i postcomunisti per distinguere chi ruba per sé da chi per la Causa (!). Il primo è un corrotto, e se un partito lo ospita, pure. Il secondo si può capire, e il partito nel quale milita, pure. Storiche, perché dalla prassi comunista di servirsi illegalmente di finanziamenti esteri provenienti dalla Russia sovietica e di risorse pubbliche per mantenere un apparato elefantiaco e una propaganda capillare, irromperà l’imperdonabile pratica socialista di procacciarsi illecitamente i quattrini che gli giovavano per invertire i rapporti di forza col Pci e arginare la sua egemonia nel sindacato, negli enti locali e a sinistra. Altro che “pagliuzza” a sinistra e “trave” a destra! Altro che corruzione soft del PD e strong del PdL! Tra il 2008 e il 2011 la questione morale (Penati a Milano, Tedesco a Bari, Pronzato a Roma, Del Turco in Abruzzo, Bassolino a Napoli, il caso Global Service in Campania, gli scandali in Calabria, Liguria, Toscana, Basilicata, Lazio…) ha travolto gli amministratori del PD in ogni parte d’Italia, ha dimostrato che il malaffare non sta da una parte e solo alcune mele marce dall’altra, e ha svelato un re nudo: ossia che gli ex comunisti si sono salvati a suo tempo da Mani pulite perché alcuni PM politicizzati li hanno trattati con i guanti bianchi, invece di colpirli alla stessa stregua dei socialisti… La verità è che una cosa sono le tangenti e la corruzione che spesso compromettono personaggi di ogni schieramento. Altro, le tangenti e la corruzione che compromettono un partito e un sistema! Pochi, infatti, sono al corrente del saccheggio dei conti pubblici praticato, in modo formalmente irreprensibile ma sostanzialmente irresponsabile, dal Pci e dalla Dc all’epoca del compromesso storico, quando si spartivano le risorse statali e i soldi dei contribuenti (la forma più regolare e avanzata di corruzione pubblica) attraverso le leggi di bilancio. Dal 1993 tutti i governi, di centro/destra, di centro-sinistra e tecnici, sono costretti a manovre correttive “lacrime e sangue” per riequilibrare la spesa, eliminare il deficit, raggiungere la parità di bilancio, allontanare la speculazione, suscitare la fiducia degli investitori, attivare le imprese, mobilitare il mercato ed evitare il default, perché nei decenni precedenti democristiani e comunisti si accordavano tranquillamente sulle cose concrete da fare, spostavano ingenti risorse da una voce all’altra, scambiavano l’implementazione di un capitolo caro agli interessi di una lobby bianca con l’aumento di un finanziamento alle regioni rosse e arricchivano cricche, partiti o capicorrente addossando il risanamento dello spreco e del debito in crescita sulle spalle delle future generazioni. Una misura ingente per la causa e per finanziare i partiti, una percentuale per il portafoglio, la pratica sociale e politica della disonestà nasce e si consolida grazie a chi, per circa cinquant’anni, dissestò impunemente le casse della Repubblica, lesionò l’interesse nazionale, mise in discussione il futuro dei giovani e produsse quel disastro economico (l’Italia è la Nazione col quarto debito pubblico senza essere la quarta potenza economica) che inchioda i governi sui tagli alla spesa più che sullo sviluppo. Piero Orteca, il 14 agosto 2011, scrive sulla Gazzetta del Sud: “Abbiamo scritto che l’Italietta ci danza da una vita sul crinale del burrone e che probabilmente ha la pelle dura proprio perché è abituata da sempre ad avere i creditori dietro la porta. Ma ai nostalgici dei tempi che furono, quando gli scandali finanziari


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a botte di miliardi passavano quasi sotto silenzio, ricordiamo che il debito pubblico nostrano (controllare, prego, su “occasional papers” n. 31 della Banca d’Italia) era quasi al 100% del Pil già nel 1991”. Una cosa, ancora, va precisata. La corruzione di cui si parla da qualche anno – sebbene i tifosi di una politica debole tentino di assimilarla a Tangentopoli, presenta caratteri peculiari e si svolge in un contesto differente da quella di cui alla Prima Repubblica. Allora il sistema politico era bloccato, la divisione della torta stava alla radice dell’omertà e la spartizione sistemica delle tangenti finanziava e drogava lo svolgimento della gara per il voto. Allora, in una democrazia senza alternanza, il sistema politico si reggeva e si rafforzava con la corruzione, “chi non ci stava” era considerato o un alieno o un povero fesso e “ma chi te lo fa fare?” era il minimo che “il potente di turno” diceva a chi, come noi, era contento di vivere più “di pane e Fiamma” che di mazzette…. Adesso, al governo, si alternano forze politiche di destra e di sinistra; chi pratica la corruzione non la ostenta ma la nasconde; scoperto, difficilmente riesce a farla franca, anche se trattasi di un compagno “diversamente ladro”. Per sé o per il partito, la Politica può scrollarsi di dosso una questione morale che mina il senso dello Stato? Può invertire la rotta con una proposta complessiva che la immunizzi dalla corruzione? Si può superare l’assuefazione rassegnata che colpisce pezzi di società, oppure, come qualcuno dice, è meglio arrendersi all’evidenza e considerare la tangente alla stregua della percentuale che si deve per un’attività d’intermediazione? Chi vive la politica con passione e con spirito di servizio non ha dubbi e non s’indigna a corrente alternata, cioè quando l’accusa di corruzione colpisce un nemico o un amico del nemico… Il nucleo del problema è sempre lo stesso: con che criteri formare una classe dirigente; quando mettere alla porta chi infanga il buon nome del partito; quali candidati presentare; come intervenire prima dei PM e della sentenza. Una strategia convincente ed efficace contro la corruzione potrebbe svolgersi su più fronti attaccandola attraverso l’onestà del fare, la centralità del territorio, l’autoriforma dei partiti e una legge anticorruzione più stringente. Se la disonestà del prendere è una caratteristica diffusa nel privato e nel pubblico, l’onestà del fare (dare l’esempio… affrontare i problemi… produrre risultati…) toglie spazio alla subcultura di chi considera la politica un espediente per l’arricchimento facile. Calibrare la selezione dei quadri sulla bontà del consuntivo e l’eccellenza del fatturato significa anche questo: allontanare chi prende più di quanto dà; premiare chi si spende più per gli altri che per sé; promuovere chi cresce “con” e non a discapito “del”. Chi si è formato con l’esempio di persone irreprensibili, vive la vita senza invidia, percepisce d’acchito l’affarista che si nasconde nel politico politicante e lo mantiene alla larga. Chi non ha attitudine per la correttezza e la trasparenza ma corteggia la complicità e l’intrigo, si muove nell’opacità e frequenta le logge degli affaristi perché sa che lì, al sicuro, può rispondere al richiamo della foresta. I simili con i simili. Una classe dirigente scrupolosa, esigente e incline all’integrità detiene un’arma


formidabile tra le mani: la chiave per capire la pasta di cui è fatto chi si allontana e chi si avvicina. Non c’é nulla di male e di strano nel coltivare gli affari. E’ un’attività dignitosa come tante, se esercitata dentro le regole e se chi la pratica non pretende di mischiare l’interesse generale e i denari. Viceversa lasci stare la Politica. Il grande pubblico non ha un’idea molto chiara di chi sono i personaggi che transitano sui teleschermi, non può conoscere a fondo la loro “capacità di tenuta” ed è colto di sorpresa quando apprende fatti e circostanze difficili da digerire. Il territorio sì, però. Il territorio conosce uomini e cose. Conosce bene chi coltiva gli affari e chi no. L’ambiente è più piccolo, la gente più a contatto, le persone si frequentano. Sul territorio non si può “bleffare” a lungo. Per questo i politicanti appena possono lo abbandonano. Per questo da lì può venire una risposta decisiva sulle persone da scegliere e i candidati da proporre: di apertura al patrimonio civile sano; di chiusura a chi “si butta” in politica perché la considera una via per appropriarsi di risorse pubbliche. Partendo dalla centralità del territorio, la richiesta di un curriculum, la raccolta delle opinioni, la verifica dei risultati elettorali, la valutazione della stima, i segni che si lasciano… sono tutti elementi sui quali un partito attento alla società può costruire un personale dirigente all’altezza di un compito alto e nobile come quello politico. I partiti, in ogni modo, se non vogliono lasciare l’onere ai procuratori, devono affrontare la questione di un codice etico sia per rivendicare autonomia e autorità sia perché i processi, per quanto giusti, non riusciranno mai a bonificare in profondità le relazioni sociali. Un’autoriforma basata su criteri di competenza e su un accertamento puntiglioso del fare, può risolvere la questione morale dall’interno. Un rimedio contro la corruzione potrebbe trovarsi in una disciplina interna che stabilisca, per esempio, un codice di comportamento per gli iscritti e l’osservanza di procedure rigorose e trasparenti nella selezione delle candidature. Agendo al loro interno, i partiti possono lavorare per allontanare il discredito che discende dalla commissione di reati contro la pubblica amministrazione per realizzare interessi personali… E’ la mentalità che deve cambiare. Dalla base, da dentro e consapevoli che se la mala politica costa molto, la buona politica rende molto… Il discorso che si sta facendo può sembrare rivolto alle stelle… ma penso che possiamo farcela se viviamo l’onestà come uno stile di vita, un tratto distintivo e formativo del nostro carattere, un investimento che conviene e un vantaggio per tutti…”.

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10 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PERCHÉ SOLO RILANCIANDO LA POLITICA PER PASSIONE E LA PASSIONE PER LA POLITICA SI PUÒ BATTERE L’ANTIDEMOCRATICITÀ DEL GRILLISMO A - Grillismo e Porcellum stanno insieme come l’acqua alla fonte. Nelle consultazioni politiche del 2006 e del 2008, non tutti colsero la capacità dirompente di una legge, il Porcellum, in grado di scardinare i criteri di una normale selezione della rappresentanza parlamentare e d’impedire l’uscita di un vincitore dalle urne per il voto al Senato. Allora, infatti, con due sole coalizioni in campo, non si registrarono gli scompensi che il Porcellum accuserà nelle politiche del 2013, quando i quattro capibastone alla guida del PdL assestarono un primo schiaffo al metodo democratico sostituendo d’un colpo gli ex-AN con dei personaggi la cui lealtà verso il leader che li aveva portati in Parlamento s’è subito vista all’opera il 2 ottobre 2013, sul voto di fiducia al Governo Letta; e quando il grillismo porterà alle estreme conseguenze l’applicazione di una legge elettorale democraticamente scorretta e destinata a funzionare male. Grillo non ha inventato nulla di originale prendendosela ora con questi, ora con quelli e alla fine con tutti. Prima di lui, senza l’aiuto della Rete e senza godere di quei mezzi di comunicazione che scorrazzano sul mercato, lo ha fatto Guglielmo Giannini, il commediografo campano che nel 1944 fondò un settimanale che esordì con questa dicitura: “Questo è il giornale dell’uomo qualunque, stufo di tutti, il cui solo, ardente desiderio, è che nessuno gli rompa le scatole”. Wikipedia.

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“Il 27 dicembre 1944 viene fondato e diretto da Guglielmo Giannini un nuovo settimanale, battezzato L’Uomo qualunque. Costa 5 lire a Roma e 6 lire fuori città. È un settimanale, ma ha il formato di un quotidiano. È stampato su carta giallo-grigia, di qualità scadente. Inserito nella U maiuscola si vede un torchio che schiaccia una striminzita immagine di uomo: è il simbolo della classe politica che opprime il piccolo borghese, il travet, insomma l’uomo qualunque. Sotto la testata c’è una rozza vignetta dove un poveraccio scrive su un muro: Abbasso tutti. Ai piedi di pagina vi è un’autobiografia del direttore, ossia Giannini, intitolata Io. Il successo di questa pubblicazione si riscontra nelle tirature: dalle 25.000 del


primo numero, si arriverà alle 850.000 del maggio del 1945. Una delle rubriche più seguite, intitolata Le vespe, è nutrita di pettegolezzi sugli uomini politici e sugli intellettuali. I nomi degli avversari vengono storpiati. Calamandrei è chiamato Caccamandrei, Salvatorelli diventa Servitorelli, Vinciguerra è Perdiguerra. I personaggi presi più di mira compaiono in una vignetta che ha per titolo PDF (ossia “pezzo di fesso”). È una forma di umorismo, o meglio di satira, piuttosto pesante, che arriva a trasformare l’espressione “vento del nord” (ossia la spinta a un rinnovamento morale, prima che politico, venuta dalla vittoria della Resistenza) in “rutto del nord”. Ma è un umorismo che fa presa sugli scontenti (che sono milioni nel clima così difficile del dopoguerra), sugli epurati e su chi teme d’essere epurato. Lo scopo dell’ideatore era quello di dare voce alle opinioni dell’uomo della strada, contrario al regime dei partiti e ad ogni forma di statalizzazione. Fin dal primo numero la posizione del settimanale è chiara; contraria al fascismo, di cui condanna il centralismo decisionale, ma anche al comunismo e agli “antifascisti di professione”… Subito dopo il giornale nacque il movimento chiamato “Fronte dell’Uomo Qualunque”, il cui motto era “non ci rompete più le scatole”. Il movimento, che avrebbe generato una nuova pseudo-ideologia politica, chiamata appunto “qualunquismo”, ottenne il 5,3% dei voti alle elezioni politiche del 1946, potendo così contare su 30 deputati all’Assemblea costituente, tra cui lo stesso Giannini. L’Uomo Qualunque fece proseliti soprattutto al Sud, dove otteneva il voto dei grandi proprietari terrieri spaventati dalla rivolte delle masse contadine (appoggiate dal Partito Comunista Italiano) e dagli ex-fascisti. La nascita del Movimento Sociale Italiano ed il rafforzamento della Democrazia Cristiana su posizioni conservatrici causeranno il crollo elettorale dell’UQ. Nel 1947 Giannini, dopo aver tentato un’alleanza con la Democrazia Cristiana e il MSI, si avvicinò al leader comunista Palmiro Togliatti, definito due anni prima “verme, farabutto e falsario”. Molti simpatizzanti dell’Uomo Qualunque, allibiti da questa scelta, abbandonarono Giannini che, messo alle strette, rinunciò al patto d’amicizia con il PCI per stringerne un altro con il Partito Liberale Italiano. Ormai il danno era fatto: alle elezioni politiche del 1948 l’alleanza UQ-PLI ottenne solo il 3,8% dei consensi e poco dopo i liberali se ne chiamano fuori. Giannini venne eletto alla Camera e aderì al gruppo Misto. Il movimento di Giannini si sciolse l’anno successivo. In vista delle elezioni del 1953, Giannini si candidò nella DC, senza tuttavia essere eletto. Poco dopo le elezioni Amintore Fanfani formò un governo di centrosinistra con il Partito Socialista Democratico Italiano e Giannini, contrario a tale formula politica, individuò come possibili interlocutori prima il MSI e poi il Partito Nazionale Monarchico. Nel corso della sua esistenza, durata 69 anni meno quattro giorni, fu anche sceneggiatore, librettista e direttore di compagnie”. 55 NEXT AN

“Verme, farabutto e falsario”, “pezzo di fesso”, “abbasso tutti”, “il solo, ardente desiderio, è che nessuno gli rompa le scatole”, i nomi dei politici storpiati in “servitorelli,


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caccamandrei, perdiguerra”: il movimento di proprietà di Casaleggio e soci, è solo il remake del film sceneggiato, dopo la caduta del fascismo, da Guglielmo Giannini. Il direttore di compagnie nato a Portici ha dato vita al qualunquismo e il comico nato a Genova al grillismo, ricorrendo alla stessa tecnica propagandistica, sparando nel mucchio e attaccando chiunque senza riguardo. L’originalità del grillismo non sta nelle performance, nelle battute e negli assoli di un comico circondato di comparse, ma in un movimento, Cinquestelle, congegnato dal suo guru, Casaleggio, nel più assoluto disprezzo del metodo democratico, per dimostrare, in modo eloquente, come si possa sparare il colpo di grazia alla nuca di una democrazia quando i partiti pascolano nel vuoto creato dall’inattivazione dell’articolo 49 e nella barbarie causata da una legge elettorale concepita per manipolare la relazione che dovrebbe intercorrere tra elettori, candidati ed eletti e per impedire un vincitore netto al Senato. L’azienda Casaleggio & Grillo darà il meglio di sé quando l’uno diventerà autore, sceneggiatore e regista, e l’altro attore protagonista, di uno spettacolo, andato in scena in tutte le piazze d’Italia, che relega i candidati ai margini e utilizza la Rete per stravolgere interamente i caratteri peculiari del metodo democratico. La beneamata Ditta M5S BEPPEGRILLO.IT porta alle estreme conseguenze sia la web-dipendenza di chi vive dietro uno schermo sia una legge elettorale dov’è nei particolari che si annida il diavolo: fa a meno di valutare in concreto e dal vivo le qualità personali chi chiede di essere candidato, non consente agli elettori di vederli all’opera nel confronto con altri candidati, alletta qualunque sconosciuto sulla possibilità di diventare onorevole se si mette nelle loro mani senza fiatare. Quando in Sicilia alcuni parlamentari regionali hanno proposto di consentire agli elettori una scelta basata sulle qualità personali dei due candidati sindaci al ballottaggio, togliendo, dalla scheda elettorale, i simboli delle liste apparentate, i grillini hanno subito denunciato che si trattava di una norma contro di loro. Sapevano meglio di chiunque altro che un elettore disgustato dai politici non voterebbe mai uno sconosciuto senza l’accompagnamento del simbolo Cinquestelle e la dicitura BEPPEGRILLO.IT. Detto e ripetuto. Una democrazia è tale se sono gli elettori che eleggono gli eletti. Un metodo democratico è tale quando i candidati si confrontano, l’uno di fronte all’altro, perché il pubblico li valuti e li giudichi. Una legge elettorale è tale quando il vincitore esce dalle urne. Se ciò non avviene, si può parlare di tutto, tranne che di un buon funzionamento del sistema politico. È normale che si possa violare l’art. 49 della Costituzione permettendo al grillismo di obbligare i propri candidati a sottoscrivere una dichiarazione con la quale loro si impegnano, nei fatti, a non pensare, a non parlare, a non andare in TV, a non fare comizi, a non confrontarsi in


pubblico, a non stampare manifesti, a non distribuire facsimili, a non aprire siti di propaganda personale, a non fare campagna elettorale, in poche parole a non farsi conoscere… se vogliono essere candidati ed eventualmente diventare onorevoli? È normale un metodo di selezione delle candidature on line che somiglia a un casting dove passa chi clicca più spesso un blog? E normale che i candidati di un movimento in lizza alle elezioni si sottraggano alla valutazione diretta del corpo elettorale? È normale che dei candidati siano conosciuti dopo il voto e solo se rientreranno tra i nominati deputati o senatori? Una prova? L’ok di Grillo e Casaleggio al Porcellum. Il M5S, per esistere, ha bisogno di una legge che gli consenta di nominare i parlamentari e di tenerli al guinzaglio se desiderano ridiventarci. Solo con una legge siffatta possono catturare il voto di quei naviganti che, ridotta la politica a sala da gioco, sperano al prossimo sorteggio di fare bingo!

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B - L’antipolitica e il grillismo si battono rilanciando “la passione per la politica” e “la politica per passione” . La democrazia e il metodo democratico ne hanno viste di cotte e di crude. Il partito “Mosca e taci” di marca comunista. Il partito spartitorio che lottizza tutto. Il partito pigliatutto che sistema tutti. Il partito consociativo dove maggioranza e minoranza governano insieme. Il partito virtuale che si presenta al voto e sfuma dopo il voto. Il partito-azienda fatto di imprenditori, contributi volontari, sondaggi, comunicazione, spot e marketing. Il PAG, il partito antidemocratico grillino, l’unico che rispecchia perfettamente l’identikit che le guide morali dell’antiberlusconismo hanno tracciato sul berlusconismo. L’unico dove possono essere candidati i frequentatori dell’internet-community che passano ore e ore al computer e che sperano di fare i parlamentari grazie al numero delle volte che digitano “blog www.beppegrillo.it”. Questi modelli di partito, nati in particolari momenti storici, chi per ragioni ideologiche e chi per esigenze di portafoglio, chi per merito del leader e chi grazie alla Rete, mostrano il loro punto debole sul terreno del metodo democratico e del rapporto tra vita privata, etica pubblica e passione per la politica. Lo sviluppo storico degli avvenimenti ha parzialmente rimarginato la ferita profonda inferta alla democrazia dal cosiddetto centralismo democratico del PCI. Una nuova mentalità, basata sul principio secondo cui l’onestà costituisce un vantaggio per tutti, potrebbe sanare quella inferta da una corruzione sistematica risalente alla Prima Repubblica e ben riassunta nell’imprecazione popolare “piove, Governo ladro!”.


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Una buona legge sull’attuazione dell’art. 49 della Carta, sull’autofinanziamento dei partiti, sul conflitto d’interesse e sulla modifica del Porcellum, potrebbe sanare le ferite inferte alla democrazia dai partiti, dai poteri forti che finanziano, condizionano o gestiscono le forze politiche, da norme che hanno sostituito gli eletti dal popolo con i nominati e da quel grillismo che, lasciato a se stesso, potrebbe rivelarsi letale per quel metodo che Bobbio considera il merito della democrazia. Sul terreno della politica, chi crede nella difesa dell’interesse pubblico deve contestare, con l’esempio, l’umiliazione più grande alla quale è stata sottoposta con l’esaltazione dell’antipolitica. La politica ha sempre trovato sulla sua strada chi l’ha esaltata e chi l’ha umiliata. Se in tanti hanno creduto alla politica come dono della propria esistenza allo spazio pubblico e come pratica di un corretto rapporto democratico tra elettore ed eletto, altri l’hanno interpretata come il modo per difendere la propria supremazia, cancellando l’avversario; come il modo per conquistare l’egemonia sulla società civile e sulle Istituzioni, inquinando i tratti di una società che doveva essere liberale; come il modo per mettersi d’accordo nella spartizione delle risorse pubbliche, rubando il futuro delle nuove generazioni; come una via per il guadagno facile a discapito del bene pubblico; come la difesa dell’inciucio a discapito del bipolarismo e dell’alternanza; come un potere debole rispetto agli interessi dei poteri forti; come una messinscena affollata di pupari e marionette… Nel 1999, in un documento di Destra Plurale si spiegava perché Alleanza Nazionale, per non smarrirsi nella palude del qualunquismo, doveva fare di tutto per difendere una concezione alta della politica. Una destra che fa la destra - se vuole evitare che i cittadini scappino, rassegnati o con disgusto, dalla politica - deve combattere i mali endemici del sistema-Paese come quelle cellule sentinelle che sono addestrate e armate per prevenire e contrastare la formazione dei tumori. Deve lavorare per la rinascita del Paese rafforzando l’identità nazionale e il senso dello Stato. Deve impedire che la politica caschi nelle mani dei banditi di turno o di chi vuole farne nient’altro che l’occasione per un investimento personale. Deve incoraggiare i rappresentanti che vivono la loro militanza sul territorio con la pratica dell’onestà. Deve premiare i dirigenti che dimostrano coerenza con i principi dei quali si parla e che esemplificano con comportamenti cristallini i caratteri naturali di una politica nel senso autentico della parola. A volte non è successo, ma la Politica con la P maiuscola, quella dei valori, del merito, della responsabilità, della coesione sociale, della solidarietà tra i cittadini, della ricerca del bene comune per l’attuazione dell’interesse nazionale… è una bandiera che non si può ammainare. È nelle corde di chi si sente di destra e di chi condivide Ezra Pound quando scrive che “il pensiero divide e il sentire unisce”. Ho vissuto gli anni della militanza giovanile in un partito dove avevano voce e trovavano spazio pensieri e punti di vista differenti e dove era l’idem sentire che cementava il pluralismo delle opinioni: se il MSI fosse stato un partito nel quale potevano coesistere soltanto coloro che


professano le stesse idee non sarebbe mai stata possibile la convivenza tra due componenti, la gentiliana e l’evoliana, che sostenevano due interpretazioni storiche e culturali distanti e che hanno ravvivato il dibattito interno per circa quarant’anni. L’amore per la Patria, il rispetto per l’avversario, la cultura dell’et et, la politica come dono della propria esistenza più agli altri che a stessi… Sì. La passione per la politica e la politica per passione. Chi la vive e la sente in tal modo, soffre quando legge che alcuni giornalisti, facendo il gioco del grillismo, la dipingono alla stessa stregua di una casta. Una cosa sono i politici e la politica. Un’altra i mestieranti che cercano tramite i partiti di risolvere i loro problemi personali. La politica non dovrebbe essere etichettata in modo dispregiativo: se politicanti disonesti, incapaci, cialtroni e incoscienti la sporcano, politici veri, onesti, competenti ed esemplari la esaltano. Politica e casta non sono concetti assimilabili. Casta, secondo il dizionario della lingua italiana, è un gruppo sociale chiuso caratterizzato dal ruolo predeterminato che esercitano i suoi membri. Politica, secondo lo stesso dizionario, è l’attività di chiunque voglia partecipare apertamente alla vita pubblica. Di chi si dedica, più che alla propria attività privata, alla cura dello spazio civile. La casta è propria di chi ne fa parte per motivi religiosi, di professione (i militari, i notai, i giornalisti…), di cooptazione (i club service, i massoni...). La politica è un’attività pubblica che passa dalle mani degli elettori. I componenti di una casta si nominano e si giudicano tra loro. Gli individui che si occupano di politica sono giudicati ed eletti da altri: i cittadini. Se l’antipolitica campeggia su tutto il circuito mediatico per colpa dei politicanti e di un Porcellum che costituiscono, gli uni, una cancrena, e l’altro, un’eccezione insopportabile al metodo democratico, politica e democrazia sono per definizione nelle mani di chi partecipa dal basso, in modi diversi ma liberamente, al processo decisionale. Chi la vive con passione rinunciando al tanto di più che avrebbe potuto conseguire con l’attività privata, sa che non deve assecondare l’idea di una politica roba per fannulloni. Sa che sentirsi di destra significa dedizione, creatività, semplicità, tradizione, altruismo, identità, sentimenti, valori, apertura mentale, sogni…

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(“Scoprirsi e sentirsi di destra” - brani tratti dal libro “Una nuova idea dell’Italia”, pagine da 1 a 8, Rubbettino editore). “Ho sempre suggerito ai miei interlocutori, specie se giovani, di investire su se stessi guardandosi dentro… Guardarsi dentro è ciò da cui passa la differenza tra scoprirsi e convincersi, un’adesione


e la persuasione, un processo interiore tutto tuo e quello influenzato da altri o dal resto… La corresponsione d’amorosi sensi della quale parla Foscolo e che lega in una continuità ideale chi crede che un mondo migliore sia possibile, mi è sempre apparsa l’immagine poetica di chi scopre e vive i valori della destra. Sono la continuità ideale tra le generazioni e la consapevolezza di trasferire un testimone a rendere diverso chi si sente impegnato a difendere il senso dello Stato e i valori della Nazione (la Patria, la terra dei Padri, la Madre Patria) da chi vorrebbe portare avanti, anche nel suo Paese, l’utopia di una soluzione altra, magari cubana, cinese o vetero-comunista… Un altro mondo è possibile o un mondo migliore è possibile? Nonostante si possano dare almeno altre mille risposte al perché una persona è, o si sente, di destra o sinistra, resto dell’opinione che gli slogan, un altro mondo è possibile e un mondo migliore è possibile, sintetizzino bene la differenza tra due concezioni della vita…”.

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(“Una destra che fa la destra comincia dall’Italia” - pagine da 118 a 120 del libro “La Corsa per il Colle”, Rubbettino editore). “Norberto Bobbio, chiestosi di una parola che renda il concetto di sinistra, non ha trovato di meglio che il termine “uguaglianza”. Mentre le politiche di destra traducono l’eguaglianza nelle pari opportunità e nello stesso punto di partenza per tutti (lasciando la differenza al talento, la dedizione e le competenze), le politiche di sinistra partono dalle discriminazioni e ricercano l’eguaglianza nel punto d’arrivo e in un altro mondo possibile. La parte della Costituzione nella quale la sinistra riconosce se stessa è più il secondo che il primo comma dell’articolo 3. Nel primo capoverso si sancisce l’eguaglianza formale e si stabilisce che “tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge, senza distinzione di…”. Nel secondo, la Repubblica assume tra i suoi compiti quello d’intervenire con azioni positive per ridurre le distanze tra chi si trova davanti e chi rimane indietro. “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Nel dizionario dei valori e della politica, alla voce “destra” ho trovato prima di tutto la parola “Italia”. L’attacco dell’articolo 1, da questo punto di vista, rappresenta il punto d’incontro tra la destra e la Costituzione. Figlia dell’antifascismo, poteva aprirsi con parole tipo Democrazia, Repubblica, Libertà, Resistenza, e invece, per una sorta di eterogenesi dei fini, comincia con il termine più caro alla destra: l’Italia. Anche a De Gaulle capitò qualcosa di simile. Sconfisse il “maggio francese”, chiamando


a raccolta il suo popolo con un inno nato a sinistra e finito a destra: la Marsigliese. Art. 1: “L’Italia…”. Proprio così. L’Italia è… si sente… si scopre… L’Italia è… La terra dei Padri… la Madrepatria che esiste di suo… Chi è di destra la vive come una sorgente e una meta. Si ri-crea alla sorgente e si ri-crea alla meta. In lingua siciliana “ricriari” significa due cose in una: rigenerare e gioire. C’è una bella differenza tra qualcosa che quando si commemora intristisce perché non c’è più… e un’Italia che mentre si ricorda entusiasma perché c’è sempre. L’Italia si sente... Non è un calcolo. Un ragionamento. Un affare. Vive in noi. Chi si sente di destra la porta con sé. D’altronde, non era stato Ezra Pound a scrivere che “il pensiero divide e il sentire unisce”? L’Italia si scopre… Non s’inventa. Non è un luogo dove si nasce per caso. Un approdo tra i tanti. Chi si scopre di destra la cerca perché sa che esiste. Chi la trova, la riconosce perché si vede. Bello il messaggio. “L’Italia? Nata per Unire”. 150 anni non sono solo di Repubblica, di Fascismo o di Monarchia. Sono dell’Italia come Stato e Nazione. Fatta bene? Fatta male? Fatta, intanto. Si potrebbe discutere a lungo sulla piemontesizzazione della penisola e su come è stata realizzata, di eccidi e rappresaglie poco note, di briganti che non erano tali e di come il sud sia stato saccheggiato e depredato delle sue risorse, ma quando un evento supera la cronaca, è la prova che vale per ciò che rappresenta. 150 anni di Unità, e i suoi secoli di storia, la destra li ricorda perché il rito ri-crea l’Italia e la colloca dinanzi al percorso…”.

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(“Una destra che fa la destra crede nella centralità della politica e sostiene che un mondo migliore è possibile” - pagine da 121 a 130 del libro “La Corsa per il Colle”, Rubbettino editore). “Una destra che fa la destra e un partito che si richiama al rispetto della volontà popolare non può sostenere una legge partorita dal centrosinistra toscano e adottata nel 2006 dal Parlamento nazionale solo per impedire a una coalizione – attraverso un riparto dei seggi al 55% per chi arriva primo e al 45% per i secondi – di vincere molto o di perdere molto. Non può difenderla nella parte in cui attribuisce il potere di nomina dei parlamentari alle segreterie dei partiti. Non può mortificare chi chiede di partecipare di più… Dove un’ondata popolare è stata trascurata e sminuita o quando non ha trovato risposte tempestive e proporzionate, alla fine sono stati travolti equilibri all’apparenza consolidati e regimi che sembravano incrollabili. E’ già successo con Tangentopoli. Solo che mentre allora tutto il sistema Paese era


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costruito sul “magna magna”, oggi un elenco di casi isolati l’uno dall’altro è offerto al pubblico ludibrio, da pennivendoli al servizio di certa imprenditoria miliardaria, delle banche e della finanza, per azzoppare la centralità della politica e la sovranità popolare. Dal 2010 i rappresentanti delle cricche che non sono sottoposti al controllo democratico del voto e sono al soldo dei “poteri forti”, stanno conducendo una campagna denigratoria indemoniata contro la cosiddetta casta dei politici ricorrendo all’episodio per sparare nel mucchio, valutando sistemica una corruzione spicciola, attribuendo al caso singolo lo stesso rilievo di ciò che durante la Prima Repubblica tutti sapevano e soltanto il Msi denunciava, scaricando sul centrodestra un disagio sociale che viene dagli sprechi storici del centrosinistra, utilizzando l’antipolitica per sabotare la democrazia dell’alternanza e tornare al trasformismo... Una campagna denigratoria forsennata che per riuscire nell’intento ha trasformato la manovra finanziaria per salvare l’Italia “nei tagli di Tremonti per fare macelleria sociale”, la legittima protesta sui costi istituzionali nell’occasione per parlare di politica sporca, il discredito che circonda alcuni parlamentari nel disprezzo per tutti, il disgusto che suscita la politica politicante nel “togliti tu che mi ci metto io”… Commetteremmo un grave errore sottovalutando la portata dell’indignazione popolare e degradando come accessoria la voglia dei cittadini di misurarsi su temi concreti, ma sbaglieremmo lasciando agli altri le parole che riscaldano il cuore, buttando il bambino con l’acqua sporca e non rivendicando con orgoglio che siamo portatori sani di una politica per passione che non ha nulla a che vedere con Tangentopoli e alla quale abbiamo consacrato una vita e intendiamo dedicare il tempo che rimane. Dunque, animo e chiarezza… Lo spazio per riprendere l’iniziativa c’è e tanto. Dalla lotta alla corruzione alla guerra senza quartiere contro tutte le mafie e il terrorismo, dalla riscoperta del senso dello Stato alla costruzione di una democrazia responsabile, dalla difesa dell’Unità al rispetto per le autonomie locali, dal protagonismo generazionale al coinvolgimento di genere, il rilancio della Politica, quella alta, diventa sempre più necessario e indilazionabile. Il rilancio della Politica. La centralità della Politica. Tutte le volte che cerco di illustrare ai miei interlocutori, specie se giovani, il rapporto tra i valori di sempre (la dignità, l’umiltà, la lealtà, il merito, l’identità, la libertà, il coraggio, la difesa della vita, l’onestà, il bene pubblico, la tradizione, il sentimento nazionale, il senso dello Stato…) e la direzione di marcia, parlo della Politica come mi è stata insegnata nelle gloriose sedi della Fiamma Tricolore e consiglio di scavare dentro se stessi per comprendere la differenza tra chi raccoglie il testimone perché “un mondo migliore è possibile” e chi rompe col passato e col presente perché “un altro mondo è possibile”. Nel 1999, in un documento su Alleanza nazionale, spiegavo perché una destra plurale debba assumere le forme dell’arcipelago e perché la Politica non debba mai smarrirsi nella


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palude della corruzione, del cinismo, del conformismo o, peggio, della battuta del giorno per stare sulle prime pagine dei giornali… So bene che secondo molti sto vaneggiando, ma ciò di cui si parla non va confuso con l’utopia e s’iscrive nel tragitto e nei sogni di chi crede e lotta per un mondo migliore. Utopisti o sognatori? Gli utopisti si sentono in prima linea contro ieri e oggi, prospettano scenari apocalittici che addebitano alle ingiustizie e vagheggiano un altro pianeta rispetto a quello che c’è. I più motivati ideologicamente vorrebbero farla finita con il sistema capitalista, non concepiscono il dissenso, lottano per imporre a tutti il mondo perfetto nel quale credono e sostengono una morale per gli altri e una per loro che gli consenta di giustificare qualsiasi sopruso per il bene di tutti! I sognatori appartengono a un’altra sfera dell’animo umano. I loro sogni riecheggiano storie vissute o da vivere, dove contano emozioni ed energie che possono scatenare l’imprevedibile e l’imponderabile di cui sono piene le vicende del genere umano. I sognatori non covano vendette. Non si presentano col viso intristito dalla cattiveria. Non sono invidiosi ed eternamente incazzati con coloro che, se li precedono nella vita, non è mai per le qualità che possiedono ma perché raccomandati, figli di papà o esclusivamente fortunati. Non sono dei rivoluzionari rabbiosi che lavorano incessantemente per l’ora “X” e per mandare in malora il mondo intero. Non immaginano di recitare una parte che altri hanno scritto per loro. Non si sottomettono a una rivoluzione che, con o senza di loro, si farebbe comunque. Due concezioni della vita. “Un altro mondo è possibile”. “Un mondo migliore è possibile”. Chi si riconosce nell’uno o nell’altro dei due modi di vedere il mondo, si atteggia diversamente non solo rispetto al passato, e dunque al decorso del tempo, ma anche rispetto allo spazio, tanto che mentre gli utopisti e gli antagonisti si sentono soprattutto dentro un’ideologia, comunisti, castristi, maoisti, leninisti, no global o non so cosa, e propugnano un mondo che non c’è mai stato, ma verrà (“Il sole dell’avvenire”); i sognatori e i miglioristi sono dei riformatori creativi che si sentono innanzitutto dentro una storia, una religione, un territorio, un popolo, una Nazione e uno Stato: tibetani o palestinesi, quando si tratta di riconoscere il diritto di un popolo alla Terra, alla Patria e allo Stato; cinesi, se si tratta di difendere tutte le libertà dal totalitarismo; israeliani, quando si tratta di tutelare il diritto alla propria fede, alla sicurezza e alla propria sopravvivenza… Il rilancio della Politica. La centralità della Politica. Ne parla Galli della Loggia in un’ottica che riguarda la natura stessa della democrazia e delle leadership contemporanee in due editoriali dove spiega che il vero disavanzo delle “democrazie della spesa” sta nel deficit di Politica. Corriere della Sera. 17 agosto 2011.


“Il problema com’è chiaro non è nella finanza o nella speculazione: è nei deficit di bilancio di democrazie che non sanno essere che democrazia della spesa. Come possono fare a non esserlo? A non esserlo, almeno, oltre una certa misura, a non essere solamente tali? C’è un’unica strada mi sembra: oggi difficile perfino a dirsi, ma probabilmente la sola possibile. Trovare alla democrazia nuovi contenuti. Contro l’unidimensionalità economicistica riscoprire la politica; allargare lo spazio di nuovo, come fu un tempo, ai valori essenziali che ci preme salvaguardare, ai grandi problemi del modello di società che vogliamo. Contro il minimalismo pseudo realista riscoprire la politica e la capacità che essa deve avere di animare un dibattito pubblico con verità, senza chiacchiere utopiche, ma anche con capacità di visione e di mobilitazione ideale. Nei tempi duri, forse durissimi, che ci attendono, la sola speranza della democrazia è nella politica, in una politica siffatta. Solo con questa politica riusciremo, se ne saremo capaci, a fare sì che le nostre società non diventino una docile e invivibile appendice della Borsa.”. Corriere della Sera. 21 agosto 2011. “Il deterioramento qualitativo delle classi politiche… è innanzitutto un prodotto inevitabile di quella ‘democrazia della spesa’ vigente da tempo nei nostri Paesi, in forza della quale governare significa in pratica solo spendere, e poi ancora spendere, per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (e quindi di tassare e indebitarsi: con relative catastrofi finanziarie). Quando le cose stanno così, per governare basta disporre di risorse adeguate, non importa reperite come, o prometterne. L’esercizio del potere si spoglia di qualunque necessità di conoscere, di capire, di progettare, e soprattutto di scegliere e decidere. Non solo, ma il denaro diviene a tal punto intrinseco alla politica che esso finisce per apparirne il vero e ultimo scopo: a chi lo elargisce come a chi lo chiede o lo riceve. Con la conseguenza, tra l’altro, che dove il denaro è tutto, inevitabilmente la corruzione s’infila dappertutto. La ‘democrazia della spesa’, insomma, è un meccanismo che, oltre a svilire progressivamente la sostanza e l’immagine della politica, contribuisce a selezionare le classi politiche al contrario, non premiando mai i migliori (per esempio quelle che pensano all’interesse generale)”.

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Il rilancio della Politica. La centralità della Politica. Come non essere d’accordo! Come non condividere chi sostiene che solo l’incanto per la Politica forma leader in grado di vedere oltre la collina, intuire la


direzione degli avvenimenti e orientarli. Una destra che fa la destra non può e non deve lasciarsi intimorire da chi fa “di tutta l’erba un fascio”, da chi utilizza la politica per sporchi giochi di potere o da chi riduce la sua grandezza a un partitino, se non a un comitato elettorale, per il trampolino di lancio personale. Sa che tanto più lontano arriva lo sguardo verso le radici e verso il futuro, tanto più vicina è la meta. Sa che i valori ai quali si ispira sono il vero motore della storia. Politica e orecchie abituate all’ascolto non hanno bisogno di attendere il precipitare degli eventi. Sanno posarsi sulla schiena del tempo e sentire i rumori che vengono da lontano”.

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11 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PER COSTRUIRE “UN PARTITO A RETE”, BASATO SULLE PERSONE, LE MICRO COMUNITÀ, IL TALENTO, IL TERRITORIO, LE PRIMARIE… Nonostante il confronto sul “Che fare?” sia partito da ex abituati a esprimersi con l’impegno, il consenso e i risultati, i picconatori del clima aggregante che suscita il messaggio di ripartire da AN screditano coloro che lo divulgano con l’accusa irrispettosa e provocatoria di volerla rimettere in pista per replicare il modulo organizzativo di una volta. Mentre l’accusa denota in chi la muove la convinzione di un’Italia destinata a subire, ancora per molto, una legge elettorale che consente a quattro capibastone di nominare i propri proconsoli come deputati e senatori, coloro che propongono di ripartire da AN auspicano la scomparsa dal lessico politico di parole tipo cooptare, l’abolizione del Porcellum e delle nomine e la fondazione di un partito aperto alle persone accreditate da un curriculum che certifichi: - il lavoro o la professione che si svolge a prescindere dall’impegno in politica, - i risultati sul fronte della militanza, - la competenza sul campo, - la stima sociale di cui si gode, - il consenso raccolto quando si è scesi in lista nelle difficili competizioni locali, - la disponibilità a candidarsi nell’incertezza di essere eletti… Come fare-partito? Quale partito? La forma-partito? Temi di sempre. Temi di oggi. Temi sui quali non mancano analisi, suggerimenti e proposte concrete. Temi affrontati nel libro “Una nuova idea per l’Italia” (opera citata e pubblicata nel 2011) quando si parla, da pag. 145 a pag. 165, su come costruire un partito a rete e di alcune mosse che allora, nel 2011, potevano rilanciare il PdL con una campagna per il “Decidi Tu!”.

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(“Il Popolo della Libertà: un partito a rete” - pagine da 145 a 149, tratte dal Cap. VI del libro “Una nuova idea per l’Italia”, febbraio del 2009, Rubbettino). “Chi vuole per l’Italia una Terza Repubblica, deve sapere che passaggio obbligato è l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, o del primo Ministro, accompagnata da una riforma dei partiti centrata su alcune regole indispensabili quali sentirsi parte di una competizione alla pari, rispettare l’idea che si vince e si perde ma non per sempre, liberarsi di qualunque vanità egemonica… Su questa base difficilmente i partiti di una Terza Repubblica potranno tornare alle forme della Prima (burocratizzati, per correnti e pigliatutto) o della Seconda (virtuali, autoreferenti o per sigle elettorali)…


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Quale potrebbe essere, dunque, la possibile forma-partito della Terza Repubblica? Chi crede nel partito virtuale pensa che possa bastare un movimento digitale che prende forma nel simbolo di una lista e che si dissolve, dopo il voto, nella vita parlamentare di ogni giorno. Coloro che non credono nel partito-lista, in quello dove il vertice coopta gli eletti e in quelli che si identificano col logo di qualcuno (al massimo di qualcosa: principi, valori, progetti, sogni, passioni, emozioni…), ritengono che… la forma-partito a rete, aperta alla società e ai suoi talenti, potrebbe rappresentare il punto di equilibrio tra dimensione nazionale, territorio, organizzazione e funzione carismatica del leader. Il Partito che ho conosciuto usciva dalle esperienze politiche del novecento e da una struttura burocratica verticistica dove i dirigenti davano disposizioni, i militanti le ricevevano, gli iscritti le osservavano… Era il partito delle ideologie, che non riconosceva come comune neppure il terreno del confronto con l’avversario-nemico. Le trasformazioni storiche dell’ultimo novecento hanno messo in crisi questo modello. Le classi dirigenti hanno cominciato a formarsi sui programmi e sugli interessi. La politica ha assunto forme nuove. Il Popolo della Libertà nel partito a rete potrebbe trovare il punto d’equilibrio tra organizzazione, quadri, territorio, portali di comunicazione, competenze, talenti e risultati. In questo senso, chi entra porta pluralismo, impegno, messaggi, novità, competenze, professionalità… In un partito a rete, infatti, chi entra è portatore di pluralismo, messaggi, sensibilità, novità…, chi esce arricchisce la società di esperienze, professionalità, competenze… La prima cosa da fare, se si vuole costruire un partito a rete, è partire dalle persone e dalle micro comunità. Dalle persone e dal talento, perché se è vero che i meriti vanno raggiunti e sudati con sacrificio e costanza, è vero altresì che qualcuno o un partito debba riconoscerli, stimolarli e premiarli. Talento chiama talento. E un partito di talenti cerca talenti, fa squadra sui meriti, dialoga con la società, sceglie e valorizza le persone per la loro bravura. Basterebbe configurare l’ossatura di un partito a rete sullo schema: piano di lavoro, obiettivi, risorse, criteri, verifiche, controllo del risultato, gratificazione finale, e forse tutti capiremmo che non è scritto da nessuna parte che in un partito debbano contare di più le correnti, i gruppi d’interesse, gli amici che valgono poco ma sono affidabili. La verità è che la gran parte dei partiti finora non s’è occupata d’indicare alla sua classe dirigente gli obiettivi da raggiungere verificando i criteri adottati, controllando il fatturato e gratificando chi l’ha raggiunto. Ha cercato altro. Dobbiamo capovolgere l’assunto “meglio un amico scemo che un competitor in gamba”, perché solamente così possiamo costruire il Popolo della Libertà che serve all’Italia. Non si dica che quanto si sostiene fa parte del mondo delle favole perché chi conquista il vertice di un partito cerca proconsoli per infastidire chi vale, portaborse, individui banali e servili, clientelismo spicciolo, voti comunque ottenuti, qualche volta collettori di tangenti. Altro rispetto al talento. Non è così. Non è detto che debba essere così. Non dappertutto è così. non sempre è così. Dalle micro comunità fondate sulla gratuità, perché i movimenti che si muovono nei diversi ambiti sociali, volontariato, cultura, informatica, scuola, arte, musica, sport...


costituiscono una risorsa di cui un partito a specchio con la società non può fare a meno se crede nel principio della sussidiarietà orizzontale e verticale. Se PdL e PD ridimensioneranno l’organizzazione per corrente e riusciranno ad assumere la forma di partiti che mettono in rete circoli, movimenti civici, liste locali, formazioni sociali, fondazioni, associazioni di volontariato, categorie produttive, organizzazioni…, forse anche in Italia si potrà formare quella società politica omogenea che qualifica le democrazie che funzionano… AN ha proposto ha proposto, nel ‘97, durante la Bicamerale D’Alema, d’inserire le primarie in Costituzione perché sono in sintonia con l’elezione diretta del Sindaco, del Presidente di Provincia, del Governatore, del Capo dello Stato o del Premier e perché sono preliminari a qualsiasi legge elettorale che prevede candidature uninominali e quote bloccate. Appare del tutto condivisibile, pertanto, il ricorso alle primarie che il centrosinistra e il PD stanno adottando per scegliere il candidato premier e il segretario. La questione socialista? Il groviglio strategico che la sinistra deve sciogliere per darsi un’identità e uscire dall’equivoco. Il centrodestra? Un Popolo della Libertà costruito su qualcosa e non su qualcuno. Le primarie? Il metodo per selezionare le candidature. Il pensiero nazionale? La mission della destra. La destra e la sinistra? Un destino comune europeo. Quello di cui si parla non è un discorso rivolto alle stelle ma un progetto ambizioso per fronteggiare l’aridità etica dei nostri giorni e ricondurre dentro una consonanza strategica chi intende spendersi per una nuova mentalità e un mondo migliore”.

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(“Una destra che fa la destra” è per “un partito a rete” e il “decidi Tu!” - pagine da 159 a 165 del libro “La corsa per il Colle”, edizione Rubbettino). “Benché la nascita del Partito Democratico sia uno degli eventi più importanti del 2007, l’errore sta nel pensare che un nuovo partito possa nascere a freddo, per un calcolo politico, per convenienze strategiche, perché una parte dei nemici dell’ex PCI abbraccia senza scrupoli una corrente dei nemici dell’ex DC o, peggio, per fare fronte comune contro qualcuno. Non è sommando nostalgie, egemonie di segno opposto o valori incompatibili, come hanno fatto i reduci e combattenti della Prima Repubblica, che si sgombra il campo dalla confusione e si dipanano le contraddizioni che metteranno a dura prova, prima o dopo, la tenuta complessiva del Partito Democratico… Il Popolo della Libertà, se lo vuole, può assumere la forma di un partito a rete, investendo sulle persone, le micro comunità, il talento, le primarie e il “decidi Tu!”. Sulle persone, perché se è vero che la gran parte dei partiti finora hanno cercato proconsoli calati dall’alto, portaborse, clientelismo spicciolo e voti comunque ottenuti, non è detto che debba essere sempre così. Un partito credibile cerca talenti, fa quadrato sui meriti, dialoga con gli individui in gamba, li mette alla prova, indica gli obiettivi, assegna le risorse, verifica il fatturato, gratifica chi li raggiunge. Sulle micro comunità, perché dentro gli ambiti sociali, dal volontariato allo sport, dalla cultura alla scuola, dall’arte allo spettacolo, dalla musica al web, scorre la linfa che rende una comunità nazionale ricca, densa e vitale. Sul “decidi Tu!”, perché in sintonia con la cultura di una democrazia diretta e perché più tempo passa più importanza assume “come la pensano i cittadini” in forme nuove, articolate e prorompenti.


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Nell’era del villaggio globale e della democrazia elettronica, la partecipazione popolare si articola per gradi e si manifesta sia col voto politico e amministrativo sia con la mobilitazione su grandi questioni monotematiche che attraverso il social network montano come l’onda lunga di uno tsunami, suggestionano l’opinione pubblica e tagliano orizzontalmente le forze politiche. L’impatto emotivo di una campagna mediatica “via web” e il coinvolgimento che suscita l’abbiamo apprezzato con i referendum 2011, quando le preoccupazioni popolari - in parte giustificate, sul nucleare, e in gran parte insensate, sull’acqua hanno riportato al centro voglia di contare: voglia di “decidi Tu!”. Se è vero che una destra che fa la destra nasce dalla voglia di democrazia diretta, dalla gente e dal rispetto della volontà popolare. Se è vero che il Cavaliere nel ’94 chiamò Forza Italia il suo partito e che chi s’è intestato il successo referendario del 2011 ha tappezzato i muri di Roma con manifesti dove stava scritto: “Ha vinto l’Italia”. Se è vero che la risposta alla crisi di una forza politica si trova spesso dove sta il suo DNA. Se tutto questo è vero, i margini per la ripartenza del PdL ci sono tutti a patto che la controffensiva inizi da dove è nato il centrodestra, da una parola “chiave”: dal “decidi Tu!”. Il centrodestra, se fa un uso sapiente delle risorse umane delle quali dispone risalendo alle origini e riprendendo l’iniziativa - può dare scacco in cinque mosse a una sinistra che ha sempre diffidato dei processi decisionali dal basso e definito populista chi li asseconda. La prima mossa riguarda la modifica di una legge elettorale che potrebbe funzionare meglio introducendo la preferenza per consentire agli elettori di scegliere deputati e senatori, lasciando, semmai, solo una piccolissima quota di bloccati per consentire al leader di garantirsi il proprio team. La seconda mossa riguarda l’inserimento in Costituzione del referendum consultivo - per consentire a un Governo di chiedere ai cittadini il loro parere su un determinato provvedimento – e del referendum propositivo - per consentire al corpo elettorale di approvare la cornice legislativa di un provvedimento che saranno poi le Camere a riempire di contenuti. La terza mossa riguarda il dimezzamento dei parlamentari da 945 a 500 tra Camera e Senato, per consentire una migliore funzionalità del Parlamento e una riduzione dei costi. La quarta mossa riguarda l’introduzione di primarie per legge, per consentire ai votanti o agli iscritti di ciascun partito il diritto di scegliere, tra i molti che si propongono, chi dovrà rappresentarli nella gara contro gli avversari. La quinta mossa riguarda l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, con il ruolo e le funzioni che ha, per consentire agli italiani di scegliere loro il Capo dello Stato. Sono riforme ispirate alla filosofia del “decidi Tu!”. Chi potrebbe dire di no a delle proposte semplici e dirette a rafforzare il ruolo dei cittadini? Come si vede, sono cinque mosse che riguardano la legge elettorale, i referendum, il Parlamento, i partiti e il Capo dello Stato e che rispondono alla domanda di un sovrano che non si accontenta più di essere compulsato ogni cinque anni ma pretende di contare in più occasioni, e con più atti, nel corso di una Legislatura. La destra che fa la destra ha una lunga tradizione sul terreno della democrazia diretta. Perché non ripartire da qui e lasciare alle spalle chi vorrebbe portare indietro le lancette dell’orologio?”


12 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PER DISTINGUERE TRA DESTRA, CENTRO/DESTRA, BERLUSCONISMO E ANTIBERLUSCONISMO Sghettizzazione e sdoganamento, Nuova Repubblica e Grande Riforma, contenuto e contenitore…: parole che richiamano sia il tipo di alleanza possibile tra destra e centro sia la differenza che passa tra destra, centro/destra, berlusconismo e antiberlusconismo. Molti osservatori politici e la sinistra ideologica hanno sempre attribuito a Berlusconi il merito di aver “sdoganato il MSI” per negare contenuto alla destra italiana e per diminuirla nel berlusconismo. Nel libro “Una nuova idea per l’Italia” (pagine 132 e 133, Rubbettino editore, febbraio 2009) alcune pagine sono state dedicate alla differenza che passa tra una sghettizzazione destinata a durare, se dovuta a “qualcosa” (per esempio, alla credibilità politica ed etica di un partito), e uno sdoganamento destinato a finire, se dovuto a “qualcuno” (per esempio, all’endorsement che Berlusconi fece a Fini, nel ’93, quand’era candidato sindaco di Roma). “Se il Cavaliere raffigura dal Gennaio ‘94 il leader carismatico che ha saputo leggere una fase storica rivoluzionaria, sembra esagerato decretare che il centrodestra dipenda e finisca con la sua leadership, anche perché non è nato con lui ma è figlio di quei quindici anni che dal ‘78 (con l’elezione di Karol Wojtyla, la caduta del Muro di Berlino, l’implosione del comunismo, Tangentopoli e il crollo della Prima Repubblica) condussero all’Estate/Autunno del ’93 quando, durante le amministrative di Roma e Napoli, si formò per la prima volta in Italia un grande schieramento di destra che raggiunse il ballottaggio e per pochi voti non riuscì a battere la sinistra. E’ in quell’arco di tempo che cambia il clima del Paese, si formano le condizioni politiche per la nascita di una nuova destra, esplode la Lega, emerge la figura di Fini e si creano le condizioni per l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi. La storia non si fa con i se, ma resto dell’idea che se il Cavaliere avesse scelto Rutelli, invece di Fini, il suo futuro sarebbe stato un altro ma il centrodestra avrebbe comunque calcato la scena, trovato il suo leader e segnato il corso degli avvenimenti...”

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Per quanto riguarda il merito delle nostre proposte sulla Grande Riforma delle Istituzioni e sull’introduzione di una Nuova Repubblica, rimando al libro “Una nuova idea per l’Italia”, Rubbettino editore, 2009, dove l’argomento è trattato abbondantemente nei capitoli III e V.


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Sul rapporto tra destra, centro/destra, berlusconismo e antiberlusconismo, si riportano le riflessioni espresse nel libro “La corsa per il Colle”, pagine 91 e seguenti, Rubbettino editore. “Il cosiddetto berlusconismo. Chi lo considera il nemico principale. Chi una parentesi. Chi una malattia contagiosa. Chi tutto ciò che di macchiato e insopportabile esiste nella società. Per tanti, per esempio Giorgio De Capitani, il Cavaliere deve essere eliminato. Il parroco, sul suo sito, avrebbe scritto: ‘Datemi una pistola, un euro e vi sistemo il Paese’. Chi non si associa alla deriva, non ritiene il Cav ‘un accidenti’, non considera il berlusconismo lo stereotipo del centrodestra e accusa di strabismo un’opposizione incapace di analizzare l’effettiva consistenza dell’avversario, è il filosofo Biagio De Giovanni, ‘un apolide di sinistra’, che in un libro dedicato interamente al tema, ‘A destra tutta’, passa in rassegna come si può trasformare una sconfitta, quella del 2008, in un’opportunità. Se Marco Follini invita la sua parte a non lasciarsi prendere da tarlo della supremazia che la limita, Luca Ricolfi (in un’intervista sul Giornale di Sicilia del 28 dicembre 2009) osserva che ‘molti dei caratteri che si è soliti associare al berlusconismo’ si sono ‘manifestati ben prima del suo avvento in politica e non solo in Italia’… Mentre un giornale o un’emittente radiotelevisiva diffonde ‘una notizia o una novità’ come conviene agli interessi del proprietario o a quelli economici e affaristici di chi li finanzia, le sinistre ideologiche scendono più in profondità, le vivisezionano nei particolari, le rimontano e poi le vestono con l’abito che loro stessi hanno confezionano. È la solita ‘battaglia delle parole’. Un mutamento storico, un evento politico, un leader originale, un movimento culturale, un cambiamento sociale: la sinistra ideologica non lo rappresenta così com’è ma nel modo in cui serve ‘alla causa’. Siccome la gauche nostrana rifiuta per principio l’idea che anche da noi possa avvenire, come nel resto dell’Europa, una competizione tra riformatori di destra e riformisti di sinistra, lo scenario immaginato o è animato da un personaggio dei peggiori che si fronteggia con le persone per bene o è inquinato da uno scadimento antropologico che può essere sconfitto con una diversa narrazione socio/culturale… L’Ulivo, l’Unione e il PD pur di liberarsi dal Cavaliere hanno sempre stipulato accordi con chiunque, anche con chi è stato contaminato dal berlusconismo. La Sinistra Alternativa, invece - considerando il Cav al declino – da tempo ha spostato il tiro sulla malattia, rifiutando per principio intese di governo pasticciate e trasformiste con chiunque ne abbia subito il contagio e suggerendo una terapia intensiva per risanare la società. Nel volume ‘Una nuova Idea per l’Italia’, si condivide l’opinione di una mutazione radicale e profonda della società italiana a partire dai primi anni ottanta, ma non si considera il berlusconismo lo stereotipo del centrodestra né si confonde il carisma di un leader che ha colto la straordinarietà del momento con i sommovimenti storici, sociali e culturali che in un


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quindicennio hanno trasformato il corso degli avvenimenti e l’atteggiamento degli italiani. La differenza? Sta nel fatto che mentre le trasformazioni negative delle quali parlano Vendola e le sinistre antagoniste – e che scorrono identiche, da almeno mezzo secolo, negli Stati Uniti come in Giappone, in Gran Bretagna come in Germania, in Italia come in Francia… - non sono figlie di Berlusconi ma di un’epoca abbondantemente anticipata, scandagliata e criticata dalla cultura di destra, le decisioni coraggiose che condurranno alla formazione di una coalizione di centro/destra (tra partiti che prima neanche parlavano tra loro) si devono quasi per intero alla sua discesa in campo e alla sua mediazione. Secondo la mia ‘Idea’, il centrodestra non nasce e finisce con la leadership del Cavaliere ma origina da una cultura millenaria e, in termini attuali, dai quindici anni che condussero - dopo l’elezione di Karol Wojtyla, la caduta del Muro di Berlino, l’implosione del comunismo e l’esplosione di Tangentopoli - al crollo della Prima Repubblica, quando durante le amministrative di Roma e Napoli si formò, per la prima volta in Italia, un grande schieramento politico che intorno al MSI-DN raggiunse il ballottaggio e per pochi voti non vinse sulle sinistre. Un quindicennio, dal ’78 al ’93, durante il quale ‘un Papa, venuto dall’Est, cambia la storia’, si produce un nuovo clima nel Paese, si scioglie il Pci, spariscono la Dc e il Psi, esplode la Lega, il proporzionale è rimpiazzato dal maggioritario, i sindaci sono eletti direttamente, emerge la figura di Fini, si formano le condizioni per la nascita di An, scoppia l’entusiasmo della società civile, si creano i presupposti per la discesa in campo del Cav… La storia non si scrive in anticipo, ma rimango del parere che se Berlusconi avesse scelto Rutelli, invece di Fini, il suo futuro – com’è avvenuto con Segni - sarebbe stato un altro mentre il centro-destra avrebbe calcato la scena e trovato il suo leader. Mariotto aveva avviato e superato una sfida indimenticabile portando i cittadini al referendum sull’abolizione del proporzionale e l’introduzione del maggioritario. Aveva dalla sua gran parte dell’opinione pubblica. Poteva vincere con una coalizione di centro/destra le elezioni del ’94. Eppure, nei pressi dell’ultimo chilometro, invece di accogliere l’appello di SB per un’alleanza tra Patto Segni, Ppi e MSI-DN, che avrebbe reso inutile la sua discesa in campo e l’intesa con la Lega, s’imbarcò con la sinistra Dc di Martinazzoli in un’avventura di tipo terzista che lo porterà alla sconfitta e nel dimenticatoio. Non è colpa di Berlusconi se comprese in anticipo ciò che altri costatarono in ritardo e se perfino Fini, il 26 marzo 2011, ha riconosciuto che ‘l’irruzione della leadership carismatica e populista è una questione che si sarebbe posta comunque sulla scena politica: se non era Berlusconi, era un altro’. Sulla leadership carismatica ci siamo perché contrassegna la forma che i partiti e le democrazie hanno assunto negli Stati contemporanei. Dal Regno Unito della Thatcher e dei


Blair agli Stati Uniti dei Reagan e degli Obama, dalla Francia dei Mitterrand e dei Sarkozy alla Germania dei Kohl e delle Merkel, dalla Spagna degli Aznar e degli Zapatero all’Italia dei Berlusconi e dei Vendola, non conosco una democrazia occidentale dove si possa pensare di vincere con un burocrate scialbo e insignificante, e senza un leader fascinoso e convincente. Sulla leadership populista andrei più cauto, anche perché siamo al consueto refrain di coloro che accusano chi è popolare di essere napoleonico e il centrodestra di essere una protesi del Cavaliere… Una volta chi credeva nel socialismo si definiva socialista; nel comunismo, comunista; nel fascismo, fascista; nella democrazia, democratico; nel liberalismo, liberale… In fin dei conti, ognuno si definiva, ed era chiamato, col proprio nome. Adesso, in giro, incontro molti elettori di centrodestra che considerano il Premier un perseguitato per motivi politici. Nessuno che inneggi al berlusconismo come dottrina politica. Tutti che si dichiarano di centrodestra, moderati, conservatori, popolari o di destra. Se fate caso, chi è di centrodestra riserva al berlusconismo un’accoglienza distaccata e in contrasto con quella cordiale che riversa sul suo Leader. Non occorre sforzarsi più di tanto: coloro che sono di centrodestra sanno che il copyright del berlusconismo non è nelle mani di colui che in teoria dovrebbe intestarselo, ma in quelle di quanti prima l’hanno codificato per etichettare il nemico e poi lo utilizzano, insieme al suo contrario, per demolirlo. Il cosiddetto berlusconismo descriverebbe i vizi antropologici degli italiani. L’antiberlusconismo, le virtù di chi lo disprezza. L’uno e l’altro ingrassano i suoi inventori. A dispetto dell’evidenza, neanche i media che amano definirsi indipendenti denunciano l’uso addomesticato che i denigratori del Cavaliere fanno del berlusconismo per negare contenuti e qualità al centrodestra e dell’antiberlusconismo per scaricargli sulle spalle la colpa dei disastri e dei mali del pianeta! D’altra parte è comprensibile. Opposizioni che riconoscano al centrodestra il ruolo che merita, dovrebbero rivedere le proprie contraddizioni, ripensare una politica vissuta all’insegna dell’ossessione anticav e smentire l’invito a farlo fuori. ‘Il centrodestra è un’estensione del Cavaliere… Eliminato lui, si dissolve l’altro’. ‘Il berlusconismo è lo stereotipo del centrodestra. Sconfitto l’uno, sconfitto l’altro’…”.

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Nessuno si illuda. Nessuno creda che questa storia dell’antiberlusconismo contro il berlusconismo si chiuda qui, con la decadenza del Cavaliere e con l’assegnazione ai servizi sociali. La sinistra ideologica, per esistere ed egemonizzare la società italiana, necessita sempre di un nemico da segnare a dito, di un nemico principale contro di cui tenere sempre allerta le truppe. Non esiste in natura? Poco male. O lo si inventa o si trasforma un normale avversario nel nemico capitale. Durante la Prima Repubblica è successo così sia quando s’inventò un pericolo fascista


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talmente incombente da giustificare la mobilitazione permanente antifascista per condannare all’inesorabile estinzione un partito già ghettizzato e la formula dell’arco costituzionale per avviare la stagione del compromesso storico; sia quando s’inventarono i tentativi di colpo di Stato ispirati dalla CIA al ritmo di uno all’anno e pilotati dai servizi deviati, tramite la manovalanza nera, per alimentare la strategia della tensione che doveva ricacciare indietro il proletariato in marcia verso quel luminoso avvenire che l’Unione sovietica comunista stava garantendo alle masse popolari russe! Tra la Prima e la Seconda Repubblica è successo così con la mafia in Sicilia - dove la sinistra spinse per una ferma azione di contrasto solo dopo che lo Stato decise di combatterla veramente - ma non con la ndrangheta in Calabria (diventata nel frattempo la regione con l’organizzazione criminale più potente) e con la camorra in Campania (diventata nel frattempo, come rivelato quasi 20 anni fa dal pentito Carmine Schivone, la regione-pattumiera dei rifiuti tossici italiani ed europei), dove sottovalutò per decenni la loro pericolosità sociale perché amica delle classi dirigenti colluse che spesso amministravano le due Regioni. È successo così durante la Seconda Repubblica quando, occupato lo spazio lasciato libero dal PSI (sparito dalla scena politica per via giudiziaria), trasformerà Berlusconi nel male assoluto (perché aveva osato sconfiggere la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto) e gli darà la caccia per vent’anni. Succederà così anche domani se è vero, come è vero, che tanti santoni sono impegnati in apparizioni televisive e interviste giornalistiche per spiegare, con la solita faccia preoccupata, che la lotta contro il male assoluto non finirà con l’uscita di scena del malato, che la guarigione definitiva dalla malattia avverrà quando sarà annientato il berlusconismo che vive dentro di noi e che il problema non è chi sbaglia ma l’eliminazione dell’errore. Altro che “uscire dal berlusconismo e da una certa idea di bipolarismo malato che ha condizionato - come dice D’Alema - la storia repubblicana di questi anni”. Il dilemma vero è come uscire da una sinistra che frena sulla democrazia dell’alternanza perché ancora diversa e incompatibile con una mentalità socialdemocratica; che si contamina con i salotti anziché con le emergenze del Paese; che frattura la società indugiando nella parola d’ordine sessantottina “niente amici a destra”; che ammala il confronto demonizzando Berlusconi e coloro che lo votano; che vuole scegliersi l’avversario più comodo per non competere alla pari con quello che può batterla; che vorrebbe rimuovere il destino minoritario di chi si sente migliore tramite i ribaltoni, la ricerca degli inciuci, i governi tecnici e le Sante Alleanze… Altro che berlusconite e berlusconizzazione! Il cancro che ha sempre messo a rischio la democrazia italiana non è stato il fascismo consegnato alla storia, l’imperialismo yankee, il craxismo rampante, l’Antistato combattuto quando e dove conviene e la malapianta berlusconiana ma una politica troppo debole rispetto a poteri molto forti. Quanto Tatarella, nel 1995, denunciò la congiura dei poteri forti contro il primo


Governo Berlusconi, scoprì l’acqua calda ma pronunciò a voce alta il nome di chi, al mattino, non si sveglia col pensiero se gli italiani stanno meglio o peggio di ieri ma con quello di quanto guadagneranno i loro titoli quotati in borsa. Fino a quando gli ex e i post postcomunisti (orfani di padre, il comunismo, e di madre, la Russia sovietica) disconosceranno che tra loro e la socialdemocrazia corre la stessa differenza che passa tra una storia finita e una che continua; si divideranno tra Letta e Renzi pur di non rientrare in quella casa comune socialista che rappresenta, nelle democrazie che funzionano, l’altra metà della mela; frequenteranno i templi della grande finanza per capire contro quale istituto bancario lanciare un’OPA e rinvieranno a data da destinarsi la battaglia per una politica forte contro i poteri che la vogliono debole, c’è poco da sperare che le cose cambino.

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Stabilire se il MSI/AN di governo nacque grazie a una sghettizzazione dovuta a qualcosa o allo sdoganamento dovuto a qualcuno, non è una questione di lana caprina. Se ne parliamo ancora è perché la destra italiana proprio a cominciare da adesso, dopo il fallimento del PdL deve provare con i fatti che la sua storia non può ridursi, o includersi, in quella di Berlusconi. I neocentristi e gli inciucisti, se la destra italiana fallisse la prova, fatto fuori Silvio ed esauritasi la mission per cui era nato il PdL, in un battito di ciglia riporterebbero indietro le lancette dell’orologio e la ridurrebbero alla testimonianza, alla “cosa nera” o all’irrilevanza. Le strategie di chi equipara il nome che si può dare a un sentire (la destra) con quello che si può attribuire a una formula (il centro/destra) e di chi punta a espandersi per annessione o per inclusione, sulla base del “tu sì, tu no”, lasciano il tempo che trovano. Altro che disquisizioni terminologiche tra “cosa nera” e “cosa vera”. Qui di autentico come cosa, sono la storia, il sentire e il percorso della destra italiana. Accantonando Fiuggi e rifiutando di ripartire da AN, si possono inventare tutte le sigle elettorali di questo mondo. Servirebbero a salvare qualche carriera ma niente e nessuno potrebbe impedire che il sistema politico, senza una destra credibile, ondeggi tra l’accantonamento dell’alternanza bipolare e il consociativismo dei governisti. Come capitò dopo il crollo della Prima Repubblica, il sistema politico-istituzionale ristagna tra il “non più” e il “non ancora”. Non più Seconda Repubblica, non ancora Nuova Repubblica. Questo è il momento giusto per riprendere il cammino. Se la destra italiana saprà coglierlo, potrà agevolare la realizzazione di quelle riforme che possono aiutare il Paese a non incancrenirsi in una transizione che sembra infinita. Potrà riprendere il filo di quella mutazione antropologica che forse non è stata rappresentata come meritava da una destra che poche volte ha fatto la destra. Chissà se tutte le contraddizioni che finora sono rimaste sotto traccia con la scusa dell’antiberlusconismo alla fine indurranno la sinistra di questo Paese verso una svolta


schiettamente democratica! Chissà se quanti hanno compiuto, nel corso della loro vita, una scelta di destra riprenderanno il cammino per la difesa della sovranità dello Stato e dell’identità nazionale, per il futuro delle nuove generazioni e per scrivere un’Altra Storia dopo che la diritta via era smarrita!

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13 - è meglio ripartire da alleanza nazionale PENSANDO “NEXT AN” Nel coro di quanti hanno preso parola, s’è cercato di dimostrare - che un partito vero si fonda su “un vissuto vivente” risalente a “una comunità in marcia da lontano e verso il futuro” e non su di una “sigla elettorale riconducibile a qualcuno”; - che “ripartire da AN” non è la stessa cosa che “rifare AN” com’è stata e con le stesse persone che l’hanno guidata; - che “la prima fila”, di cui alcuni parlano, ormai si trova altrove ed è tutta contro la proposta di ripartire da AN; - che senza una destra unita, e che fa la destra, non si va da nessuna parte; - che il modo migliore per unirla è ripartire da una storia, un simbolo e un partito “di tutti”. Una cosa è ripartire dalla ricostruzione del nostro arco ideale e dalle nostre radici per costruire il futuro, com’è successo con AN rispetto al MSI, altro sostenere che il passato è passato e che è conveniente inventarsi una novità figlia di se stessa. Il passato non è forse il presente di un secondo fa? Si può orientare il presente verso un futuro migliore se l’intenzione è dimenticarlo, ignorarlo o sottovalutarlo quando trascorso un secondo, un mese, un anno, cinque anni, diventa passato? Chi è disposto a donarsi nel presente, sapendo che un attimo dopo potrebbe diventare un passato da archiviare? “E’ tempo di tornare alla Politica. Quella grande, viva e vera, che accompagna il destino dei popoli. La politica ha due compiti essenziali: uno è governare e decidere, amministrare gli interessi generali, cambiare le cose e incidere sulla realtà. L’altro è far sentire un individuo dentro una comunità, mutare la massa in popolo, dare simboli, inserire la vita del presente dentro una storia: è la politica come anima civile e passione ideale. E’ necessario che sorga un movimento che non offra solo promesse contabili o esprima rancori e invettive. Ma che incarni principi ideali e chiami a raccolta tutti coloro che vogliono scrivere insieme una storia. I nostri punti fermi non sono negoziabili: saranno il volto e l’anima della destra che nasce.

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1 - Il nostro punto di partenza e la nostra priorità è l’Italia e resta l’Italia. Nell’Europa e fuori d’Europa, nel locale come nel globale. L’Italia come civiltà prima che come nazione. Amor patrio. Di conseguenza la nostra prima battaglia sarà la tutela della sovranità italiana. Sovranità nazionale e popolare, politica e monetaria. Sovranità degli interessi generali degli italiani su ogni altro interesse privato o internazionale per arginare lo strapotere della finanza e dei tecnocrati. Piena integrazione all’immigrazione in regola. Intransigenza con l’immigrazione clandestina.


2 - La sovranità politica esige l’avvento di uno Stato autorevole, che promuova la Repubblica presidenziale, la rivoluzione meritocratica, l’ordine e la riforma delle istituzioni. Elezione diretta del Capo del governo, così come alla guida di ogni ente locale, in modo che chi governa sia nelle condizioni piene di decidere e di rispondere al popolo in un rapporto fiduciario d’investitura diretta. Grande riforma meritocratica ad ogni livello e uno Stato più autorevole dimezzato nei suoi organismi, nelle sue strutture e nel personale politico. 3 - L’Europa per noi è civiltà prima che mercato comune, è integrazione delle Patrie e non disintegrazione degli Stati nazionali. E’ l’Europa dei popoli. Vorremmo un’Europa più unita e coesa verso l’esterno, in politica estera, nella difesa o per fronteggiare l’immigrazione e la concorrenza globale, e più duttile al suo interno, che riconosca le differenze tra aree, popoli e Nazioni, a cominciare dall’Europa mediterranea rispetto all’Europa del nord. E che faccia valere un criterio: quando c’è da scegliere tra l’assetto contabile della finanza e la vita reale dei popoli, la priorità è la seconda, non la prima. Nessun debito può sopprimere una Nazione o far fallire uno Stato sovrano. Rinegoziare l’euro. Rinegoziare il fisco con l’obiettivo di dar vita ad una politica fiscale dialogante con le famiglie e con le imprese.

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4 - Dopo le esperienze tramontate dello statalismo parassitario e invadente e poi del liberismo basato sul primato assoluto del mercato e del privato, è tempo di aprire una terza fase incentrata sull’economia sociale di mercato, fondata sull’economia reale e sul primato del lavoro, sul valore sociale dell’iniziativa privata e della proprietà privata, sulla protezione del marchio italiano, con la mediazione di uno Stato autorevole che non gestisce ma guida i processi. E’ necessario che si realizzi in Italia, come già avviene in Germania, la società partecipativa, attraverso nuove forme cooperative, comunitarie e di cogestione sociale in nome dell’azienda-comunità. L’orizzonte sociale di questa destra nuova deve assumere la lotta alle nuove povertà, alla decrescita demografica, allo “sviluppismo” come alibi delle oligarchie economico-finanziarie per l’impossessamento delle risorse elementari delle Nazioni. 5 - Davanti al diffuso desiderio di farsi e disfarsi la vita a proprio piacere, noi siamo dalla parte della vita, della nascita e della famiglia, nel loro inscindibile intreccio di diritti e di doveri. Non tuteliamo la vita ad ogni costo ma la sua dignità. E non confondiamo il matrimonio che è un bene comune, con altre unioni che attengono alla sfera privata. La nostra proposta Bioetica è scommettere su ciò che nasce, che costruisce, che liberamente si lega e si assume responsabilità, e non sul suo rovescio. Saremo dunque al fianco di tutte le battaglie per la tutela e l’affermazione della vita, della famiglia come struttura naturale e culturale su cui si basa ogni civiltà e sul sacro rispetto della morte, che non è smaltimento delle vite di scarto. 6 - L’Italia ha bisogno di riscoprire l’abicì della civiltà, la grammatica elementare dei rapporti umani. Da qui dunque la necessità di riportare al centro della vita pubblica il tema dell’Educazione. Vogliamo una società educata, che recuperi stile, decoro e rispetto, e riteniamo che il compito principale di una famiglia, ottemperate le necessità primarie, sia quello di educare e formare i figli. Occorre un grande progetto che passi dai nuovi media, dalla scuola e dalla tv, per la crescita civile e culturale del nostro Paese, che salvaguardi la ricchezza della nostra cultura anche con la tutela delle differenze contro il pensiero unico che mira ad omologare i principii, i comportamenti, i linguaggi, le scelte. La difesa della cultura nazionale ed europea anche per aprirsi e dialogare con le altre identità, soprattutto nel Mediterraneo. 7 - Come vogliamo un’Italia sovrana e dignitosa nei rapporti internazionali (politici, economici, culturali), così siamo per la tutela dei diritti dei popoli a forgiarsi il loro destino, in piena libertà, secondi i principii riconosciuti di indipendenza e autodeterminazione.

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8 - Noi siamo eredi della Tradizione. Ci sentiamo figli di una civiltà che viene da lontano e vogliamo tutelare, affermare e rinnovare la tradizione di cui siamo continuatori. L’Italia ha radici antiche, romane e cattoliche, rinascimentali e risorgimentali. Il nostro amor patrio si lega al paesaggio e al linguaggio, alla vita e alla Storia, alle città e all’anima italiana. E’ difesa della natura, dell’agricoltura e dei beni artistici, memoria storica e tutela dell’eccellenza italiana. La Tradizione è il senso della continuità e delle cose che durano, amore del passato e voglia del futuro, rispetto delle origini e fedeltà innovativa, patto tra le generazioni, l’onore dei padri e l’impegno dei figli, comune sentire, patrimonio di esperienze e valori trasmessi in politica come in famiglia, nello


Stato come nella società. La Tradizione è connessione, durata e primato della comunità sugli egoismi. Tradizione nella Modernità, Modernità con la Tradizione: questa è la sfida del futuro. Una forza politica e civile così oggi manca in Italia; è tempo di colmare il vuoto. La politica miserabile dei nostri giorni che promette solo vantaggi pratici e rimuove principi ideali, non parla al cuore degli italiani, non mantiene nemmeno le promesse concrete e accompagna il degrado che stiamo vivendo. Quanto più cresce il peso della tecnica e dell’economia, tanto più urge il contrappeso di una visione spirituale della politica e della comunità. Quanto più viviamo nell’era globale, tanto più sentiamo il bisogno di un luogo eletto che sentiamo come la nostra casa”. (Manifesto degli intellettuali di area per tornare alla Politica).

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La destra italiana è chiamata ad affrontare sfide storiche. Veneziani, durante l’intervento che ha concluso la manifestazione sul pensiero e l’opera di Giorgio Almirante, ha prospettato un percorso su due binari: un soggetto politico unitario di destra; una fondazione, quella di AN, che si occupi di diffondere i suoi valori politici, culturali e identitari e di formare le classi dirigenti che servono all’Italia. Gli intellettuali di area che hanno sottoscritto il Manifesto hanno offerto all’attenzione di chi ha voglia di mettersi in gioco nella costruzione di un’Altra Storia, un documento che il Movimento verso Alleanza Nazionale considera basilare in vista di una nuova piattaforma culturale, politica e programmatica. Per quanto mi riguarda, magari si potesse utilizzare il simbolo di AN! I soci della “Fondazione” non dovrebbero sollevare obiezioni insormontabili, anche perché sarebbe paradossale la scena di chi s’è accasato dentro Forza Italia 2.0, dentro Fratelli d’Italia e dentro Prima l’Italia e non so dentro quale altra Italia, che si sbraccia per impedire lo scongelamento di un simbolo che, secondo loro, avrebbe perso senso, suggestione e spinta aggregativa e che a dire di alcuni sa di muffa! Lo lascino a chi ci crede! A chi crede nell’unità della destra italiana. A chi crede nella destra italiana di cui la Nazione ha bisogno. A chi intende ripartire da AN per guardare avanti e per costruire “AN prossima ventura”: NEXT AN. Francesco Storace, 14 agosto 2013, quotidiano digitale “Il Giornale d’Italia”. “Quando nelle scorse settimane abbiamo coniato il termine “Next An”, non significava rifare una nuova Alleanza nazionale, che tanto i padroni della cassaforte non ce la fanno fare. Next, prossimo, significa preparare come dovrà essere la nuova destra…Senza destre choosy. Gli schizzinosi stanno a sinistra. Ci pensano già loro a odiare i nostri giovani e i nostri vecchi, senza distinzione di generazioni…


Fra qualche anno ci sarà pure un cronista, uno scrittore, che racconterà la storia di una comunità che si ritrovò nel 2013 attonita e divisa in troppi rivoli… È una storia drammatica quella che rischiamo di leggere fra qualche tempo se non ci diamo una mossa. Soprattutto perché si leggono storie tristi di beni e patrimonio, ci sono gelosie d’orticello, non c’è pensiero forte… La logica del fortino sotto assedio giudiziario non può appartenerci. Abbiamo bisogno di politica vera e di facce nuove”.

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Che fare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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È meglio ripartire da alleanza nazionale PER RIPRENDERE IL CAMMINO DOVE È STATO INTERROTTO. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PER EVITARE CHE LA DESTRA ITALIANA SIA RIMOSSA DALLA STORIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PERCHÉ IL SUO SIMBOLO APPARTIENE A TUTTI NOI E PUÒ UNIRE LA DESTRA ITALIANA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PERCHÉ APPARTIENE A TUTTI NOI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PERCHÉ CONVIENE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PER SCONGIURARE LA “COSA NERA” E L’ACCUSA DI POPULISMO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PER COSTRIRE UNA NUOVA ALLEANZA TRA IL CENTRO E LA DESTRA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PER ATTUARE L’ART. 49 DELLA COSTITUZIONE E SANARE LE FERITE INFERTE AL METODO DEMOCRATICO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PERCHÉ SOLO RILANCIANDO LA POLITICA PER PASSIONE E LA PASSIONE PER LA POLITICA SI PUÒ BATTERE L’ANTIDEMOCRATICITÀ DEL GRILLISMO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PER COSTRUIRE “UN PARTITO A RETE”, BASATO SULLE PERSONE, LE MICRO COMUNITÀ, IL TALENTO, IL TERRITORIO, LE PRIMARIE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PER DISTINGUERE TRA DESTRA, CENTRO/DESTRA, BERLUSCONISMO E ANTIBERLUSCONISMO. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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è meglio ripartire da alleanza nazionale PENSANDO “NEXT AN” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag

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