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PREFAZIONE

IL CAMPO È MINATO

UN MESSAGGIO DAL VENTO NELLE TERRE DELLA PERCEZIONE

La Vita è uno stato modificato di coscienza. Almeno così la percepisco. Uno stato modificato della coscienza che l’universo ha dimostrato a più riprese di avere. Follia? Si diceva lo stesso prima che Lovelock confermasse come Gaia, Terra, sia un organismo vivente. Certo lo sapevano le culture native di tutto il globo, ma nell’era moderna l’imprimatur scientifico significò affrontare la svolta impressa quasi due secoli prima da Von Humboldt prima e Darwin poi. La Vita è l’origine della guarigione. Almeno così la percepisco. Uno stato modificato della coscienza universale che quando è connessa con noi, ci fornisce il farmaco che non si può creare in nessun laboratorio: il soffio vitale. La Vita fa parte della morte, certo. C’è molta più morte che vita nell’universo. Così ci direbbe Alan Watts, esploratore delle profondità umane e cosmiche, implorandoci di non uscire dal solco che la Saggezza Del Dubbio (titolo di uno dei suoi libri più potenti, edito nel 1951) ci permette di scorgere quando ci sentiamo, arrogantemente, sicuri. Lo farebbe per ricordarci che l’ostinato sacrificio sull’altare della stoltezza materialista, iper razionalista, della cultura lineare invece di quella ciclica che è il motore della Vita, produce i risultati sotto gli occhi di tutti. La storia ultra millenaria della pratiche spirituali di tante diverse espressioni di Homo sapiens ci dimostrano ampiamente che è possibile cercare la guarigione in ciò che è dato; che la scintilla poetica della vita, la poiesis degli antichi greci, è il miracolo palpabile, la prova della potenza che l’immaginazione umana ha sprigionato fin da quando è iniziato quel viaggio dal centro dell’Africa che si è irradiato per tutto il pianeta. È allora che Homo sapiens diventa l’eccezione. Questa eccezione diventa una forza potente del processo evolutivo. Senza intenzione, senza meta, inizia il viaggio incredibile che porta a noi, a me che scrivo, a te che leggi. Da quello che oggi è conosciuto come il deserto dei Dancali in Etiopia attraversando lo stretto di Bāb el Mandab, il nostro antenato penetra la penisola saudita e da lì, verso nord e verso est, va in Asia e in Europa: addirittura attraversa i mari, fino all’Australia. Ma non basta. Si va in Micronesia e in Polinesia sulle canoe a doppio scafo nel Pacifico, raggiungendo il Sud America occidentale. E la storia non finisce: si va a nord 11

ALLE ORIGINI DELLA GUARIGIONE: SCIAMANESIMO E NEUROTEOLOGIA

in Siberia, si attraversa lo stretto di Bering, ci si espande nelle Americhe, nei Caraibi e poi giù giù, fino alla Terra del Fuoco. In tutti questi luoghi, noi sappiamo quale incredibile lavoro su quello che oggi chiamiamo inconscio o stato alterato di coscienza, fecero i nostri antenati. Nessun luogo fa eccezione. E la geografia, non mente mai. Una geografia che era cosmologia e anche, come l’avrebbe chiamata lo psicologo Piaget, epistemologia genetica. Ché lì tutto risiede: l’essere umano e il suo ambiente in equilibrio che consentono all’evoluzione di compiere il proprio dovere. Culture che guardavano senza timore nelle profondità dell’acqua allo stesso modo in cui esploravano le terre aperte e quelle montuose, lo spazio profondo dei cieli e i mari. Lì dove loro sentivano la Vita come connessione, proprio lì, sapevano che risiedeva l’equilibrio: la guarigione non era l’opposto della malattia, perché la guarigione è sempre un cammino. Una cosmologia che prevedeva l’accettazione del rischio nell’investimento del vivere. Non c’erano le mine, ma quel conoscere procedeva con la cautela che si usa in un campo minato: quello che è diventato la Torre di Babele dell’astratto battibeccare che caratterizza troppi cul de sac di ciò che crediamo di sapere, dimenticando che prima deve venire la conoscenza e che la conoscenza passa giocoforza dal corpo – il corpo umano per noi, che non è altro che una forma della Terra. La conoscenza che abbraccia l’incertezza, la saggezza del dubbio. Ché la sicurezza non è data nell’universo, sembrano dirci da quel lontano tempo, ma dal vicino spazio che possiamo vedere visitando i loro luoghi, percependo le loro terre interiori, palpando i loro sogni ininterrotti e che ancora fluttuano nell’aria respirata dai nostri antenati in cammino nel cuore caldo del Cosmos, come lo chiamavano geni quali Goethe o Von Humboldt. Questo libro di parole è un libro di conoscenza. Un viaggio iniziatico e di spoliazione delle certezze. Questo libro è una sfida degli autori a se stessi. Un’offerta di viaggiare accettando che il sentiero è incerto e il ritorno a casa in dubbio. Nelle parole di Bellatalla, antropologo, e di Baldissone, genealogista, vale la pena di degustare, centellinare, assorbire, lasciar decantare, la conoscenza universale All’origine della guarigione. Come un volo d’aquila radente che ci offre la visione del contesto e anche quella del microcosmo, ho ascoltato questa proposta di viaggio: fidati, cammina con il cosmo, scoprirai orizzonti inimmaginabili, perché tutto ciò che sappiamo, oggi, deve essere ricondotto al grande viaggio di quel gruppo di antenati che hanno osato. Hanno osato senza sapere di osare, hanno cercato la piccola certezza di ogni passo accettando la sfida della totale incertezza di tutto il cammino, che è appena iniziato: parliamo di soli 55.000 anni, nulla davanti agli oltre 4 miliardi di anni compiuti dal nostro pianeta. Io trovo formidabile l’illustrazione di Beppe Mecconi, che vediamo alla fine del capitolo 3, è la targa sulla porta delle parole scritte nel capitolo Il ruolo della coscienza nella transe sciamanica. Dopo aver letto il libro una volta, rileggerlo con l’aggiunta delle illustrazioni ha chiarito a me stesso che il messaggio del vento nelle Terre della Percezione (quello che umilmente

L’ALBERO COSMICO | L’albero Bo, Asherah, Aśvattha, Java-Aleim, Yggdrasil. In tutti i miti, in tutte le culture è presente l’albero sacro, simbolo cosmologico associato ai culti legati alla Natura, alla longevità, rappresentativo del Cosmo vivente, è l’immagine della vita nella sua totalità. Unisce il regno dei morti nel sottosuolo, con il mondo degli uomini, e con gli spiriti del cielo.

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vorrei consegnare a questo volume), era di fare affidamento alla transe che ognuno può sperimentare. E quella specifica illustrazione, che si intitola L’albero cosmico, per me rappresenta la coscienza con la quale dialoga questo libro concluso, nella postfazione, da una citazione ben nota del filosofo Friedrich Schelling. Citazione che mi fa pensare ai miei antenati partiti dall’attuale Etiopia 55.000 anni fa, capaci di immaginare, di creare e nel corso del grande cammino, lasciare l’arte a raccontarci tutto, dalla grotta di Altamira in Spagna alla Valle Camonica in Italia, da Alta nel Finnmark norvegese, alle grotte di Lascaux in Francia: «L’arte deve iniziare con consapevolezza e terminare nell’inconscio». L’arte è l’espressione totalmente unica dell’essere umano. L’arte è appunto una presa di coscienza della nostra psiche. La coscienza dell’universo nella quale si trova la nostra. Nel suo capolavoro finale Horizon, Barry Lopez si pone di continuo la questione: dove siamo? Dove stiamo andando? Le esperienze in luoghi remoti del mondo, dall’Artico all’Antartide, dall’oceano Pacifico all’Australia, a Madre Africa, restituisce come sempre la sua visione connettiva, non separatista. Si lascia carezzare dalla saggezza del dubbio e riesce a dare la giusta forza alle certezze in continuo divenire. A un certo punto Lopez viaggia con alcuni membri del popolo Pitjantjatjara di Mutitjulu, nella comunità di Uluru, che è poi Ayers Rock, il più imponente massiccio roccioso dell’outback australiano. Con loro, ci racconta, comprende bene questa relazione. I tre uomini parlano tra loro osservando il simbolo totemico della loro cultura (simbolo per noi occidentali turistico e iconico): Barry ascolta. Non osa prendere appunti. Gli parrebbe scortese: non vuole interrompere il flusso della conversazione. Vissute le esperienze, la coscienza si altera, diventa cioé altro. E infine a distanza di tempo, quando ricorda, sa di avere elaborato. Sa di avere lasciato fluire la sua coscienza. La coscienza è il fiume e la conversazione del fiume con il territorio illumina le connessioni, le intuizioni, la visione dell’interezza: «Un po’ di tempo dopo mi tornarono alla mente ricordi del posto di cui avevano parlato inizialmente e compresi che avevano circumnavigato la roccia. Mi avevano guidato intorno a Uluru senza fare ricorso a un cambiamento di prospettiva, per me invece necessario, nella comprensione del tutto. Ciò che per loro non aveva soluzione di continuità, per me era separato in due parti: ciò che riuscivo e ciò che non riuscivo a vedere coi miei occhi». È sempre dove la vita si palesa per ciò che è, come nell’illustrazione di Mecconi, che troviamo la sorgente della guarigione. Della Vita. Posso chiamarla acqua, posso chiamarla respiro: è sempre l’origine della guarigione. Ogni respiro e ogni sorso d’acqua sono l’inizio e anche la fine del ciclo che viviamo - in ogni istante. Ma del quale la separazione, come scrive Lopez, con le sue «due parti» non è quello che gli aborigeni dell’outback vedono: il loro mondo è intero, senza «soluzione di continuità». In Horizon, come in tutta la sua vita e i suoi viaggi, Lopez si chiede ciò che tutti noi ci domandiamo, anche nel libro che leggi adesso: «E se oggi gli orizzonti che più contano dovessimo trovarli dentro di noi?».

IL TEMPO | Cos’è il tempo? Filosofi, scienziati, poeti, artisti hanno cercato di dare una risposta a quello che è uno dei grandi interrogativi irrisolti dell’uomo. Nel IV secolo Sant’Agostino scriveva: “Se nessuno me lo chiede, so cos’è il tempo, ma se mi si chiede di spiegarlo, non so cosa dire”.

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Bellatalla questa dichiarazione di umiltà l’ha fatta spesso; Alle origini della guarigione porta il nostro viaggiatore, antropologo, geografo della psiche umana, a ribadire con la forza dell’esperienza – corporea e psichica – non concetti, ma linguaggi di riconciliazione tra le parti separate che la coscienza del cosmo non prevede di separare, ma di lasciare evolvere con indipendenza. Interconnessa. Interstellare. Prima che leggessi questo volume, un giorno David mi scrisse: «ritengo che la parte più straordinaria della scoperta scientifica sia, nella maggior parte dei casi, uno straordinario bricolage, dove la capacità di mettere assieme qualcosa che apparentemente non appartiene a quell’ambito della ricerca sul quale si sta lavorando (e a tale proposito la serendipità nella scienza fa storia), sia stata la molla in grado di farci superare qualsiasi ostacolo. Inoltre, ritengo che nel percorso evolutivo quella che noi definiamo imprevedibilità, termine coniato per giustificare la nostra non-conoscenza di qualcosa, sia uno degli aspetti più affascinanti per qualsiasi approccio cognitivo alla storia del Sapiens. (…) Mi auguro che molte delle ipotesi che ho cercato di raccontare in questo testo vengano in futuro riconosciute come sbagliate, perché quella stessa ricerca che avrà lavorato per screditarle, avrà contribuito a fare l’ennesimo passo in avanti per le conoscenze scientifiche della nostra specie». Strade parallele, tra scienza e (saggezza del) dubbio, che per chi ama lasciarsi guidare dalla scintilla poetica della Vita significa connettere i bagliori stellari lungo un sentiero dove tutto è concesso perché non dobbiamo dimostrare nulla se non che la Vita biologica non avendo scopo, né una meta, è l’avventura più straordinaria che ci è data in dono: un lasciapassare verso le Terre Libere e Incognite, quelle degli orizzonti interiori che nessuno può recintare, per procedere nella wilderness del pianeta terracqueo che ci ospita e nella wilderness interiore che si rigenera e che ci guarisce ogni giorno. Ecco che il testo di Baldissone che impreziosisce Alle origini della guarigione riesce nell’impresa non indifferente, che dimostra implicitamente e senza sforzo la via indicata, evidentemente condivisa dai due autori: costruire un Uroboro che collega in maniera illuminante le tante scatole cinesi delle diverse discipline trattate. Lo fa con l’incessante creazione di connessioni e rimandi in ambiti apparentemente lontanissimi tra loro ma funzionali al volume, proprio come l’acqua sgorga dal torrente e diventa fiume. In tal modo questi insight assumono le sembianze di inevitabili spunti di riflessione per ogni mente aperta e curiosa. Offrendo, in definitiva, la possibilità di muoversi – direi proprio, di viaggiare - liberamente lungo nuove e possibili rotte. Dunque, questo lungo sentiero della Vita, il cammino che abbiamo fatto, prima consapevoli di fare parte di e poi allontanandoci da questa appartenenza, richiede certamente una guarigione. A meno che il nostro imperscrutabile destino non sia quello di essere androidi mercificati, vale la pena, citando Bellatalla, capire che «l’introdurre il concetto di spirito in considerazioni generali di carattere scientifico e biologico, significa entrare in un campo minato».

IL CAMPO È MINATO

Artisticamente e culturalmente, amo i campi minati. Sono le distese dove alcuni esponenti culturali e scientifici invece di ascoltare la saggezza (del dubbio) hanno preferito arroccarsi nell’Egocene, metifico spinoff dell’Antropocene. Tra i campi minati devi camminare con acuta consapevolezza e una percezione sensoriale aperta. Proprio come lo sciamano che guida l’altro, cercando di non fare implodere l’organismo spirituale e fisico. Amo il campo minato che questo libro ci svela, perché mi costringe a non avere ipotesi bensì, semplicemente, a sospendere il giudizio e ascoltare. Dopotutto è quello che dovremmo fare: che ci piaccia o meno, il Grande Viaggio ci chiama e sarebbe giusto rispondere. Perché questo viaggio è la guarigione, è il linguaggio del corpo, dei sensi, della visione. Come scrive il poeta svedese Tomas Tranströmer nella sua poesia Marzo ‘79:

Stanco di tutto ciò che viene dalle parole, parole non linguaggio, Mi recai sull’isola innevata. Non ha parole la natura selvaggia. Le sue pagine non scritte si estendono in ogni direzione. Mi imbatto nelle orme di un cerbiatto. Linguaggio non parole.

Ritengo che questo libro dia qualche suggerimento e una mappa per evitare le mine bastarde del dogma: non solo quello della versione più obsoleta, ma purtroppo ancora diffusa, delle religioni monoteiste. Anche il dogma che talvolta anima troppo zelanti scienziati, forse coloro a cui Bellatalla si appella per essere in futuro smentito. Perché la Scienza dei Von Humboldt che, istigato da Goethe a intingere la Scienza nella Poesia, si rifaceva a un principio comune e universale, era la discendenza dei principi originari, già colti dai popoli indigeni del mondo come pilastri del quotidiano vivere nel campo minato dell’esistenza; i principi originari di filosofie come il Taoismo; i principi originari che, a ogni respiro, a ogni sorso d’acqua, in ogni visione del nostro personale Tempo del Sogno, ci fa capire che siamo tutti aborigeni, tutti nativi, tutti capaci di guarire perché la guarigione è dentro di noi. Si chiama semplicemente Vita. Nell’immaginifico romanzo di Anton Quintana Vento che parla, sabbia che canta, l’errante sciamano mongolo Bod Pa trascorre l’intera narrazione a ingannarci. Ma l’apparenza inganna e lui lo sa. Sa che la Vita ci chiama ma anche che noi, nel campo minato vogliamo la guarigione e per averla non possiamo girarci dall’altra parte. Sa, lo sciamano, che dobbiamo non solo guardare, ma affrontare ciò che siamo perché, come scrive Quintana, «poco dopo Bod Pa cominciò a chiamare il vento con lunghi fischi leggeri in modo da farlo uscire dal suo nascondiglio; per esperienza sapeva che il vento non riusciva a resistere».

Davide S. Sapienza

Alle falde della Presolana Maggio 2022 17