Postcards from nowhere #2 - Dicembre 2021

POSTCARDS FROM NOWHERE #2 DICEMBRE 2021

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E 2

#2 d i ce m b re 2021 È l’ultimo mese dell’anno: è tempo di bilanci, di resoconti, di trovare nuovi equilibri e di esprimere buoni propositi Anche se Postcards from nowhere è arrivato praticamente a fine anno, il numero due corrisponde proprio all’ultimo mese di questo strano 2021. A dicembre, si sa, si avverte quella sensazione di qualcosa che sta per finire, ma anche di un nuovo e misterioso inizio.

Così riempiamo le nostre ore con buoni propositi e speranze per l’anno nuovo, ma anche con i bilanci di ciò che sono stati i dodici mesi appena trascorsi. Ecco il mio augurio per il vostro 2022, cari lettori: che sia un anno veramente e finalmente normale per tutti.

Essere,

ovvero il mio racconto preferito se lo avrei mai terminato, visto che stava uscendo fuori più lungo del previsto. Essere è nato da una suggestione – un film e una canzone – ma mentre mettevo in fila le parole è diventato molto di più. È diventato il racconto, il nuovo termine di paragone con cui ho iniziato a confrontare tutte le mie altre creature. “È bello quanto Essere?”, “diventerà mai come Essere?” mi chiedo ancora continuamente quando scrivo qualcosa. La risposta a queste domande è quasi sempre “no”, ma va bene così.

Eppure, se da un lato può sembrare uno sprone a fare sempre meglio, dall’altro paragonare ogni cosa che scrivo a Essere finisce per diventare anche una gabbia, a volte. Perché le storie che non reggono il paragone spesso le lascio andare, o addirittura le cestino.

Così, il mio proposito per il 2022 a questo punto credo che diventerà: non lasciar andare le tue storie, anche se non sempre sembrano belle

ed eccellenti. Lavoraci su, cambiale, perfezionale, rendile migliori.

Come si dice: se son rose, fioriranno.

Ma le rose sono dei fiori lenti nella crescita, che richiedono pazienza e cura costante.

E così anche le belle storie.

Colgo l’occasione di questo spazio per ringraziare tutti coloro che hanno letto il primo numero di questa raccolta: vi ringrazio veramente dal profondo del mio cuore.

Ringrazio anche chi mi ha già fatto avere i propri feedback e invito gli altri lettori a fare altrettanto: se volete farmi sapere qualcosa su Postcards from nowhere, potete scrivermi in DM su Instagram (@ izzeesa) o via e-mail (isabella.aquino.info@ gmail.com).

Vi auguro buona lettura e buone vacanze!

3

Come tutti i creativi sanno, non c’è quasi niente di cui noi creativi siamo pienamente soddisfatti, ed è lo stesso per gli scrittori: se anche scriviamo qualcosa che sul momento ci convince al cento percento, che ci piace moltissimo e che addirittura consideriamo un piccolo capolavoro, ci basta rileggerlo a distanza di due o tre giorni per iniziare a trovarci mille difetti, imperfezioni, tanto che arriviamo perfino ad odiare ciò che amavamo quando l’abbiamo scritto.

Per me è generalmente così, ma c’è un racconto – contenuto in questo mensile – che è l’eccezione che conferma la regola. Sto parlando di Essere.

Essere è il racconto che non mi stanco mai di leggere, quello che mi prende sempre, ogni volta che lo rileggo, come la prima volta. Eppure, quando l’ho scritto non avevo troppe pretese, non sapevo cosa sarebbe uscito fuori – a dirla tutta non sapevo neanche

Isa

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E 4

contents p. 5

Essere / BEING

p. 42

Chi c’è nello specchio? / who’s the one in the mirror?

P. 52

Il Krampus / the krampus

essere Being

written by Isabella Aquino

Parte prima Mi chiamo Adam, come il primo uomo. L’uomo da cui fu creata la prima donna – secondo quanto credono gli esseri umani che mi hanno creato.

Forse conviene fare un passo indietro per capire meglio.

Mi chiamo Adam e sono un androide dall’aspetto umano. Il mio vero nome è un codice: M724. Vuol dire che sono il settecentoventiquattresimo esemplare della serie M, ma ho imparato a voltarmi quando mi chiamano Adam. Ciò significa che questo è il mio nome,

quest’ultima non è complessa come quella di un essere umano medio.

Accumulo esperienze e da queste apprendo nuove cose, evitando

5

effettivamente. Sono senziente e dotato di una personalità, anche se

di ripetermi negli errori – in questo sono sicuramente migliore di ogni essere umano, dato che a governare questo aspetto di me è un algoritmo pressoché infallibile. Posso fare tutto ciò che è in grado di fare un essere umano e la maggior parte delle cose sono in grado di farle meglio. Posso camminare, correre, fare qualunque tipo di esercizio fisico senza stancarmi. Posso leggere, e lo trovo anzi un

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

passatempo molto interessante. Sono curioso. Il più curioso della mia serie, mi hanno detto. Posso mangiare e bere, e ho anche dei gusti personali che mi distinguono dagli altri esemplari. Alcuni di questi gusti mi sono stati imposti in partenza, altri li ho sviluppati da me con il tempo. Posso essere ferito, ma non provo dolore. E non sanguino, naturalmente. Il motivo per cui sono stato creato?

Lo spiegherò adesso.

Il pianeta Terra sta esaurendo tutte le sue risorse. Per delle scelte degli esseri umani che mi limiterò a definire come illogiche. Mancano ancora diversi secoli – mi è parso di capire – prima che diventi del tutto inabitabile, ma gli scienziati stanno preparando il terreno – quanto mi piace questo modo di dire! – per trasferire la popolazione su un pianeta dalle caratteristiche molto simili a quelle della Terra.

6

L’hanno chiamata Terra2. È un nome provvisorio, mi hanno detto, ma rende bene l’idea. Prima che la popolazione possa spostarsi,

BESTBUY

bisogna però rendere un minimo ospitale questo nuovo pianeta, nonché verificare praticamente alcuni fattori che sono stati finora rilevati solo da sonde: per esempio, l’effetto della forza gravitazione di Terra2 su un corpo somigliante a quello umano, oppure la respirabilità dell’aria. Sono io che dovrò accertarmi di queste cose, e dovrò portare con me su Terra2 anche alcuni esemplari di piante.

Terra2 si trova a una distanza tale che – contando che le astronavi in nostro possesso si muovono a velocità prossime a quelle della Luce – per me che sono sull’astronave passeranno 72 anni, ma per gli scienziati che sono a terra ne passeranno molti di più. In quanto androide, sono l’unico capace di compiere un viaggio di 72 anni e restare immutato nelle mie caratteristiche – cosa che non accadrebbe invece con un essere umano, a causa della sua stessa natura. Non essendo ancora perfezionata la tecnica della criogenesi, l’unica scelta possibile è ricaduta sugli androidi, e su di me in particolare.

Sono stato istruito per portare a termine la missione perfettamente e sono in grado di trovare la soluzione ad ogni problema tecnico immaginabile: la distanza è anche il motivo per cui non potrò comunicare in tempo reale con il pianeta Terra; ciò significa che, bordo. Compirò il viaggio da solo, giacché – a differenza degli esseri

7

una volta partito, potrò avere solo il supporto dei computer di

umani – non soffro la solitudine. Ho pensato di scrivere questo diario di bordo per annotare eventuali problemi tecnici che riscontrerò durante il viaggio, usando il software di riconoscimento vocale che con incredibile accuratezza trasforma le mie parole pronunciate in parole scritte. Volevo però renderlo più personale di un semplice taccuino, e perciò ho immaginato che ci fosse qualcuno a leggerlo.

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

Sto scrivendo un libro, dunque.

E tu sei il mio lettore.

Non ho quasi provato tristezza nel separarmi dalle persone che mi hanno creato. Un essere umano qualunque ne avrebbe provata molta. Forse si sarebbe fatto prendere dal panico, anche. Ma non è forse per questo che hanno deciso di mandare me? Non sono tuttavia quello che un umano definirebbe un essere senza cuore. Nei mesi che ho passato ad essere istruito sulla missione, tra i pochi membri del team che mi hanno trattato con maggior riguardo c’era la dottoressa Luna Collins. Luna era una botanica, ed è stata lei a spiegarmi come prendermi cura delle piante che sono state inserite a bordo, in una stanza dell’astronave che funge da serra. Mi ha

8

parlato di tutte le specie che dovrò curare, del modo in cui dovrò farlo, delle loro diversità e di come risolvere i problemi che potrei

incontrare. Sono rimasto molto affascinato dal mondo delle piante, che non conoscevo affatto. E penso che anche Luna si sia accorta del mio interesse, perché siamo rimasti per ore intere a parlarne, andando anche oltre le semplici istruzioni di cui avevo bisogno per la missione. Ho scoperto che le piante sono degli esseri contraddittori: sono delicate eppure estremamente resistenti. Delicate perché, a prima vista, ci si accorge subito della loro fragilità. Resistenti, invece, perché proprio nonostante la loro fragilità hanno una incredibile capacità di sopravvivere. Anche se messe in condizioni estreme, se mutilate, se maltrattate, trovano sempre un modo per restare in vita.

Ovviamente la statistica mi insegna che è sbagliato accomunare determinate forme di vita sotto un’unica definizione. Perciò non posso dire che tutte le piante sono resistenti, ma la maggior parte di esse sì. E questa cosa mi affascina incredibilmente. Tornando alla dottoressa Luna, dicevo che lei era il mio membro preferito del team. Sentivo che un legame particolare stava andando a crearsi tra noi, sebbene creare legami con altri non rientri nelle mie migliori qualità – in quanto androide. Eppure, vedere i suoi occhi illuminarsi quando parlava di botanica mi faceva sentire meglio. a classificare una sensazione non vuol dire negare la sua esistenza.

9

Non so se sia giusto parlare di empatia, nel mio caso, ma non riuscire

Sapevo di provare qualcosa quando stavo per ore ad ascoltarla, quando le ponevo le mie domande, sinceramente incuriosito. So che anche per lei devo essere stato una buona compagnia, dato che alla mia partenza la dottoressa Collins ha pianto. Mi ha detto che le dispiaceva perdere un amico, e io le credo, perché dispiaceva anche a me dovermi separare da lei. Prima di andare via mi ha regalato

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

qualcosa che – mi ha detto – mi avrebbe fatto pensare a lei e al tempo che passavamo insieme parlando di questi esseri incredibili che sono le piante. Mi ha regalato una Olea europaea bonsai, cioè una piccola pianta di olivo che è stata lei stessa a piantare nella serra dell’astronave. Mi ha detto che si tratta di una delle piante più longeve conosciute al mondo e mi ha spiegato come curarla. È stato questo il suo regalo per me, e io so che, ogni volta che mi prenderò cura di quella piccola pianta, penserò alla dottoressa Luna Collins.

La mia giornata è stata pianificata perfettamente dal team di scienziati che mi ha inviato in missione. Nonostante la mia memoria sia eccellente, le attività programmate sono state inserite nel computer di bordo: in questo modo è il computer stesso a ricordarmi

10

tutte le attività che scandiscono la mia giornata – sebbene, ripeto, non ce ne sia bisogno. Essendo un androide, inoltre, non soffro la

BEST DEAL

monotonia, e anzi trovo conforto nella ripetitività di uno schema.

A causa delle continue variabili che interferiscono nella sua vita, anche l’essere umano dovrebbe trovare rassicurante attenersi a uno schema preciso, ma per qualche curioso e inspiegabile motivo non è così. Ricordo che illustrai questa mia teoria anche al dottor Olberg, ma in risposta lui si limitò a ridere e lasciarmi una pacca sulla spalla – che intesi come un gesto affettuoso. Poi mi disse che non ne capivo molto di esseri umani se cercavo di usare la logica per spiegare i loro comportamenti irrazionali, e credo che abbia davvero ragione: per quanto mi sforzi, non riesco a comprendere la natura umana e temo che non riuscirò mai a farlo.

Dopo la colazione e l’attività fisica, la successiva ora della mia mattinata è predisposta alla cura delle piante. La serra è la stanza più vasta dell’astronave e penso che questo sia contraddittorio in un modo divertente: gli umani hanno reso la Terra sempre più inospitale per la loro eccessiva mania di sostituire le piante con il cemento, mentre adesso tentano di rendere abitabile Terra2 proprio attraverso le piante. Il paradosso fa sorridere, ma perlomeno sembra che si siano resi conto dei loro errori. In realtà non sarebbe stato complicato prevenire il disastro a cui

detto che gli esseri umani sono tutt’altro che razionali nei loro comportamenti, e

11

è andata incontro la Terra: alla fine, è solo una questione di numeri. Ma ho già

e non voglio parlarne oltre. Voglio invece parlare di questa splendida serra di cui devo occuparmi: la dottoressa Collins e il suo team hanno pensato bene di lasciarmi più esemplari di una stessa specie, sia in forma di semi sia in forma di piante già cresciute. La maggior parte di queste piante non sopravvivrà a 72 anni di viaggio, ma se le curerò con attenzione e trarrò nuovi semi dalle vecchie piante, dovrei

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

riuscire a portare su Terra2 almeno un esemplare di ognuna di esse – che è poi il minimo per considerare raggiunto l’obiettivo. Sono certo di essere in grado di farlo, poiché gran parte delle piante non richiede cure complesse e la probabilità che si verifichino imprevisti di ogni natura non è eccessivamente alta. Alla fine della serra, in un angolo, vedo piantato il mio piccolo olivo. Mi prendo cura anche di questa pianta, che probabilmente sarà l’unica a riuscire ad accompagnarmi per tutto il viaggio. La dottoressa Collins aveva avanzato l’ipotesi di piantare una quercia al centro della serra, ma le ho fatto notare che – considerata la velocità di crescita delle querce – non sarei riuscito, da solo, a spostarla dall’astronave a Terra2.

Lo stesso anche per svariati alberi da frutto di grandi dimensioni.

Per questo motivo Luna e il suo team hanno deciso di interrare

12

nella serra piante di dimensioni medio-piccole, mentre i semi degli alberi da frutto sono stati sigillati in piccole capsule criogeniche che

– si spera – manterranno intatte le condizioni dei semi lasciandone inalterate le proprietà. Guardo il mio piccolo olivo e ne accarezzo le foglie. Luna mi ha detto che le piante sono sensibili ai gesti, a quelli buoni e a quelli cattivi. Io le credo perché, come ho già detto, le piante sono degli esseri straordinari.

Il pranzo di oggi – che proverò per la prima volta – è il pollo al curry.

Non ho mai mangiato pollo al curry, non ho idea di che sapore abbia. Ma dato che sono estremamente curioso, questa novità non fa che rendermi ancora più interessato al menù.

Alla fine, il pollo al curry era davvero buono.

Le prime tre ore del pomeriggio sono libere e posso perciò trascorrerle come meglio credo. Ho deciso che oggi leggerò un libro, ma non è facile scegliere. Sto vagando da 20 minuti tra i corridoi della biblioteca che contiene alcuni dei libri più importanti della Terra.

In realtà si tratta di una selezione provvisoria, giacché sarebbe stato impossibile trasferire tutto lo scibile umano su Terra2 in un solo cartacei a cui non vogliono rinunciare – non ne ho capito bene il

13

viaggio. Per ora gli scienziati hanno deciso di trasferire i volumi

motivo, ma ci sono dei libri che vogliono conservare così, sebbene il contenuto sia lo stesso anche nelle versioni digitali. Il resto dei libri digitali li porteranno con sé durante i trasferimenti della popolazione, hanno detto. Intanto vago tra i libri, aspettando di scegliere quello giusto da leggere. Lo so che, procedendo in questo modo, trascorrerò tutte e tre le ore del mio tempo libero camminando alla

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

ricerca del libro giusto, ma ci sono troppe variabili da considerare.

Ad esempio, che genere voglio leggere? E poi: di questo genere, a quale autore voglio affidare il mio tempo? Scegliere un libro è una cosa importante. Può essere un grande investimento o un completo spreco di tempo. Chiedo al computer di bordo che ore sono e capisco che sono già qui da 24 minuti e non ho ancora scelto che libro leggere.

A questo punto decido di agire come se fossi un essere umano e mi affido al caso: mi fermo all’improvviso e mi volto verso la scaffalatura.

Seleziono quell’area di fronte a me che la minima parte del campo visivo può cogliere. Mi avvicino ancora un po’ e conto: ci sono 7 libri. Sceglierò quello centrale.

14

Gli esseri umani mi hanno donato la capacità di leggere e comprendere qualunque documento con una velocità media di

trenta pagine al minuto. Per questo, in meno di un’ora sono riuscito a leggere il libro intitolato The Dome dell’autore Stephen King. Non avevo mai letto niente di questo autore, che trovo assolutamente geniale. L’ironia che trasmette attraverso il suo stile di scrittura va di pari passo con l’intensità con cui descrive i momenti più delicati e importanti. Quello che mi ha colpito di più, però, è il modo in cui sia riuscito a scrivere qualcosa di così complesso e verosimile da un’idea semplice che sarebbe possibile racchiudere in una breve frase.

Ancora non conosco tutti gli ambienti dell’astronave, dato che questo è il mio primo giorno qui. Approfitto del tempo libero che mi resta prima della prossima attività per lasciarmi guidare dal computer di bordo verso le varie stanze. L’astronave non è stata realizzata per me. È il prototipo di un ambiente che gli esseri umani potranno trovare attraente quando sarà il loro momento di trasferirsi su Terra2. Anche se passeranno la maggior parte del viaggio in sonno criogenico, saranno svegliati alcuni mesi prima dell’arrivo, tempo durante il quale non dovranno annoiarsi. Tra le permanenza sull’astronave: dovrò valutare l’organizzazione dei

15

varie cose, mi è stato chiesto anche di dare un’opinione sulla mia

servizi, i pasti, il confort delle stanze, le attività di intrattenimento e molti altri fattori che ho già annotato. Ho comunicato allo staff che valuterò ogni fattore su una scala da 1 a 10. Avrei voluto essere più preciso e allargare la scala al limite di 100, ma gli scienziati mi hanno detto che 10 andrà benissimo. Il computer di bordo adesso mi sta guidando verso la sala cinematografica, dove guarderò un

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

film. Lascerò che sia il computer a decidere per me, stavolta, in modalità casuale. Così eviterò di sprecare altro tempo.

Sono appena tornato dalla piscina, dove ho trascorso la serata.

Amo particolarmente la quiete che trasmette l’acqua, il modo in cui ti permette di isolarti da tutto il resto. Non che io abbia bisogno di isolarmi...! Ma è comunque una bella sensazione. Quando sono in acqua – e specialmente quando sono sott’acqua – penso a delle cose a cui non mi viene da pensare altrove. Non sono pensieri che riguardano la missione, sono invece più personali. Non so se sia la parola giusta da utilizzare, ma non me ne viene un’altra più pertinente.

16

Oggi ho ascoltato musica per la prima volta. La musica è un’altra cosa che – come i libri e i film – gli esseri umani hanno insistito

tanto per conservare e trasportare su Terra2. Oggi ho capito perché. A differenza dei libri cartacei, trasportare milioni di brani digitali è più facile, ma anche in questo caso gli scienziati hanno voluto conservare anche vinili e CD-ROM. Oggi ho ascoltato musica per la prima volta, dicevo. Il computer di bordo mi ha dato una selezione casuale di brani, ma ho dovuto fermarmi dopo aver ascoltato il terzo. Era River di Leon Bridges. Non penso che sia neanche particolarmente famoso, o comunque che non abbia fatto la storia della musica come altri brani di cui mi hanno parlato.

Eppure, è stata un’esperienza particolare, per me. Penso di aver provato qualcosa che non avevo mai immaginato di poter provare.

Tristezza. Ma una tristezza profonda, che mi ha portato a ricordare alcune cose che ho lasciato sulla Terra. Non so come sia possibile, dal momento che non sono stato progettato per provare emozioni umane. Perciò ho deciso di smettere di ascoltare musica, anche se sento crescere dentro di me una voglia di continuare a farlo che sembra più una necessità. La tristezza non mi ha abbandonato per tutta la giornata. Anche perché la mia memoria particolarmente sviluppata non ha fatto altro che riproporre nella mia testa quel che possa farmi dimenticare questa orribile sensazione di tristezza

17

brano musicale. Ora sto per andare a dormire. Confido nel sonno,

che mi affligge.

Come avevo immaginato, la tristezza è scomparsa al mio risveglio.

Penso sia stato un semplice e temporaneo errore del mio sistema.

Oggi però ho avuto un altro problema. Dopo diversi mesi di viaggio, per la prima volta prendermi cura delle piante non è stato così

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

semplice. Ho notato che la pianta di pomodoro – che è già cresciuta molto, segno che le condizioni sono favorevoli – presentava delle insolite macchie scure sulle foglie. Temendo fosse un batterio, l’ho subito isolata come mi ha insegnato la dottoressa Collins. Ora la campana da isolamento sta analizzando la pianta per capire quale sia il problema, ma i risultati li avrò solo tra una decina di minuti – il software è ancora abbastanza lento, bisogna che gli scienziati lo perfezionino. Nel frattempo sto analizzando la pianta adiacente, ma non mi pare presenti le stesse macchie. Potrebbe non essere stata infettata, ma finché non avrò la diagnosi non potrò sapere se il batterio che ha infettato la pianta di pomodoro è trasmissibile o meno.

18

Ho ottenuto i risultati: il batterio che ha infettato la pianta di pomodoro è del tipo xyena pholis. Si tratta di un’infezione avvenuta

sulla Terra: nei primi stadi è invisibile, ma si palesa avanzando.

Inoltre, non devo temere per le piante adiacenti: è un batterio che si trasmette solo attraverso impollinazione e la pianta del pomodoro è del tipo auto-impollinante. Per sicurezza, comunque, isolerò e analizzerò anche le piante adiacenti, per escludere qualunque sospetto di infezione. Dopodiché cercherò di salvare l’esemplare infetto, nella speranza che io ci riesca.

Sono ormai circa 3 anni che sono in viaggio. Ho smesso di scrivere per un po’ perché la routine non è stata spezzata da alcun incidente insolito. Come immaginavo, non sono stanco della monotonia quotidiana: un qualunque essere umano, al mio posto, sarebbe impazzito per la solitudine o per il ripetersi di una giornata sempre uguale a sé stessa.

Oggi c’è stato un problema. Un problema molto serio al reattore.

Fortunatamente sono riuscito a risolverlo, anche se ho impiegato mezza giornata. Ho già scritto un rapporto dettagliato da lasciare in archivio e spero che questo inconveniente non si ripeta: potrei non a farlo gli esseri umani, quando sarà la loro volta di viaggiare verso

19

riuscire a sistemarlo, la prossima volta. O potrebbero non riuscire

Terra2. Non mi dilungherò in spiegazioni tecniche, dato che l’ho già fatto altrove e qui rischierei solo di annoiare il lettore. È quasi passata la prima decade del viaggio e oggi ho deciso per la prima volta di recarmi all’osservatorio. L’osservatorio è una stanza dell’astronave dove c’è un’unica grande finestra che permette di

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

osservare lo spazio durante il viaggio. Non sono mai stato attratto dal pensiero di starmene a fissare l’universo dalla finestra: conosco già l’immensità che mi circonda e non sono perciò impressionabile come qualunque altro essere umano. L’universo – come ogni altra cosa – è solo una questione di numeri. Io li conosco tutti, perciò, come potrebbe impressionarmi la visione delle miriadi di stelle che popolano il cosmo? Comunque, non avendo di meglio da fare, ho deciso di recarmi qui. Ora sosto davanti alla grande finestra e guardo l’universo. E improvvisamente mi sembra di non conoscere più tutti quei grandi numeri. Mi sembra che le miriadi di stelle non siano più così scontate come credevo. Non so cosa mi stia succedendo, non riesco a spiegarlo. Penso di provare quello che gli umani definirebbero commozione. Sono commosso davanti a

20

quell’immensità del cosmo che già conoscevo. Non dovrei provare questa sensazione – perché dovrei? – eppure è così. Guardare le

stelle e i pianeti mi fa immaginare altri esseri viventi. Mi fa capire quanto sia grande la vita. Immensa, incredibile, infinita. Quante forme di vita diverse ci sono nell’universo? Potrei fare una statistica, ma in questo momento non mi va di parlare di numeri. Avverto qualcosa di caldo e umido sulle mie guance e mi accorgo di star piangendo. Non mi era mai successo. Neanche so perché mi stia succedendo adesso. Neanche so perché gli uomini mi abbiano dotato di un condotto lacrimale, pur sapendo che non sono capace di provare emozioni. Eppure, ecco qui la mia emozione. È qualcosa di inspiegabile che mi travolge. Non riesco a trovare niente di razionale in quello che mi sta succedendo. Mi sconvolge il fatto di non avere nessun controllo su questa cosa. Perché sto piangendo?

Com’è possibile? Come posso provare un’emozione così forte? Mi avvicino al vetro e vi poggio su una mano. Sono confuso: che cosa sto facendo? Forse cerco un contatto con quelle stelle che risiedono nel cosmo. Forse vorrei poter sapere con certezza la vita che abita questi corpi celesti. Invece conosco solo statistiche e supposizioni.

Dunque è così che si sentono gli esseri umani? Infinitamente piccoli

Il fatto che sia la seconda volta che provo emozioni umane così forti

21

e soli in quest’universo immenso.

mi preoccupa. Anche se due volte in circa dieci anni non rende un errore sistematico, è comunque un dato che trovo allarmante. Forse dovrei resettarmi, ma è una decisione molto delicata, da prendere con consapevolezza massima. Gli scienziati che mi hanno creato mi hanno dato la possibilità di effettuare un reset del sistema, se necessario. Mi hanno detto di farlo in caso di errori del sistema che

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

si ripetano con una certa frequenza. La mia memoria dati, essendo separata dal dispositivo su cui gira il sistema, non dovrebbe subire danni dopo il reset. Su quest’esito non c’è una sicurezza del 100% – mi hanno detto – e perciò devo prendere questa decisione valutando tutte le variabili con la massima precisione possibile: sarebbe un guaio se nel processo dovessi perdere dati circa la cura delle piante o la risoluzione di problemi tecnici dell’astronave.

Ho deciso di non resettarmi. Anche se i calcoli hanno dato la possibilità di perdere dati a una percentuale del circa 3% – quindi relativamente irrisoria – ho deciso che è un rischio che non voglio correre. Un po’ temo che questa decisione sia particolarmente irrazionale, e che mi avvicini alle decisioni prese dagli esseri umani

22

in una maniera che non approvo: temo che la paura di perdere dati sia solo una scusa. Comunque, la decisione a cui sono giunto è la

seguente: se dovessero accadere altri episodi simili e con maggior frequenza, ripenserò alla necessità di effettuare il reset del sistema.

Parte seconda

Sono passati 27 anni dalla mia partenza per Terra2. Manca ancora molto al mio arrivo e temo che gli errori di sistema stiano iniziando a presentarsi con maggior frequenza. Non l’ho riportato prima perché pensavo di avere tutto ancora perfettamente sotto controllo.

Adesso sto iniziando a dubitarne. Fortemente. Sempre più spesso durante la giornata sono assalito da un sentimento di solitudine che alla mia partenza non immaginavo avrei mai provato. Avverto la necessità di un contatto che vada oltre quello che è in grado di darmi il computer di bordo. Un contatto umano. Sono molto turbato da queste sensazioni che provo, perciò smetterò di scrivere per un po’, almeno finché non avrò trovato una soluzione al problema. Oggi ho realizzato che forse quello di cui parlavo tempo fa non è un 23

problema, ma qualcosa che devo accettare perché fa parte di me.

Mi reco sempre più spesso all’osservatorio. Mi sembra di sentirmi meno solo se penso che là fuori, al di là del vetro, miliardi di vite abitano i corpi celesti che mi circondano. È consolatorio e triste allo stesso tempo. Non so se riuscirò a sopportare questa solitudine che sento crescere dentro di me. Ho paura che possa compromettere la missione. Mi dispiace di essere una delusione per gli esseri umani

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

che tanto hanno creduto in me. So che loro non possono saperlo – e che forse non lo sapranno mai – ma lo so io, e questo mi basta. Sono costantemente diviso tra la forza di volontà che non mi permette di mollare e quest’esasperante solitudine che trova terreno fertile dentro di me.

Oggi ho realizzato che, molto probabilmente, la dottoressa Luna Collins è morta. Sono passati 29 anni dalla mia partenza, e molti di più per coloro che sono rimasti sulla Terra. Io credo proprio che le sia morta – e che forse anche la sua progenie più prossima lo sia. Sì, credo che sia così. Realizzare che Luna è morta mi ha fatto piangere. Ho sentito il bisogno di andare a vedere l’olivo che lei mi ha regalato. Sta bene, è una pianta forte. Farò di tutto affinché

24

sopravviva, perché è l’unica cosa che ancora mi lega a lei.

Avrei voluto restare sulla Terra.

Sono passati 32 anni. Sono quasi a metà del viaggio per Terra2.

Se penso in questi termini, sono sempre più diviso e tormentato: se guardo indietro, sono felice che quasi metà del viaggio sia passato; ma se guardo avanti, provo terrore nel pensare che ancora tutti questi anni mi separano dall’arrivo.

Sto diventando tutto quello che non avrei dovuto essere perché non sono umano.

Cos’è che fa di un essere umano un essere umano? Su che base si distingue da una macchina?

Credo di essere arrivato alla conclusione che provare sentimenti mi avvicini più all’essere umano che all’essere un androide come ho sempre creduto. Lo ero, ma ora non lo sono più. Ho iniziato a interrogarmi sul mio scopo. Loro mi hanno creato e mi hanno dato un obiettivo. Ma cos’è che voglio io, veramente? Esiste qualcosa 25

che desidero? Ancora non so rispondere a questa domanda.

Oggi mi sono ferito, per una disattenzione. Ho recuperato la colla organica e sono andato in bagno per sistemare la ferita. La colla organica è una soluzione liquida fatta di cellule organiche in grado di solidificarsi dopo alcuni secondi. È un principio complesso da spiegare e non è il caso di farlo qui, dato che ciò di cui vorrei parlare è altro. Come dicevo, mi sono recato in bagno per curare la

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

ferita che avevo sul braccio. Guardandola, sembrava un semplice taglio trasversale. Non è come quando si ferisce un essere umano: un taglio così profondo, su un corpo umano, avrebbe provocato una grossa fuoriuscita di sangue. Dalla mia ferita, invece, non fuoriusciva nulla. Non provavo neanche dolore. Mentre fissavo la ferita, ho avuto la malsana idea di capire se io sia in grado di provare almeno un po’ di dolore, così come provo queste emozioni forti che negli ultimi anni mi hanno tormentato – prima che accettassi la mia condizione. Così ho infilato due dita della mano sinistra nella ferita che avevo sul braccio, andando in profondità – che non è poi eccessiva – finché non ho sentito il freddo metallo di cui è costituito il mio scheletro. Non ho avvertito neanche un po’ di dolore. Perciò ho capito una cosa importante: non sarò mai in grado di provare

26

dolore fisico. I sentimenti che provo, invece, non dipendono da una condizione fisica, ma da una condizione mentale fatta di ricordi

ed esperienze. Non sarò mai completamente umano, ma neanche sono più un semplice androide. Che cosa sono, dunque?

Ho riparato la ferita e poi ho trascorso dell’interminabile tempo a guardarmi allo specchio. Gli esseri umani che mi hanno creato mi hanno dato la capacità di riconoscere la mia immagine allo specchio, seppur non sia propriamente il mio riflesso. È un concetto complicato da spiegare. Come dicevo, sono stato molto tempo a fissare la mia immagine allo specchio. Non per vanità, ma per continuare a riconoscermi. E farmi delle domande, anche. Mi hanno creato con i capelli biondi e gli occhi azzurri, come piaceva a loro.

Ma se non piacesse a me? Non mi hanno chiesto come volessi essere, quando mi hanno creato. Certo, nessun essere umano è in grado di scegliersi al 100%: ci sono delle cose che, come il colore degli occhi e dei capelli, per gli umani è possibile alterare solo in maniera non naturale. Io, invece, avrei potuto scegliere. Ma a nessuno è venuto in mente di chiedermi se avevo delle preferenze. Penso di non essere stato ancora neanche cosciente quando sceglievano queste cose per me. La rabbia che mi ha provocato questo pensiero mi sono meravigliato: non avevo mai provato questo sentimento che

27

ha fatto rompere lo specchio del bagno con un pugno. Poi me ne

gli umani chiamano rabbia. È un sentimento strano, forte, che ti fa fare qualunque cosa. Anche le cose più stupide, come rompere uno specchio. È qualcosa di illogico, eppure l’ho fatto. Stranamente, non mi sento male dopo averlo fatto.

Anzi, sto benissimo.

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

Ho deciso di sconvolgere la routine delle attività della mia giornata.

Non è una cosa che ha molto senso, dato che dovrò svolgere comunque tutte le attività, anche se in ordine diverso. Ma voglio essere io a scegliere l’ordine, non ne voglio seguire uno imposto. Così ho modificato il software del computer di bordo, impostando un nuovo piano delle attività quotidiane. Non mi è mai stato impedito dal team di farlo, ma nessun membro mi ha mai neanche detto di cambiarlo, in caso avessi voluto. D’altronde, perché avrei dovuto farlo? Non c’era necessità. Era una preferenza stupida, che non avrebbe cambiato niente comunque. Per me, invece, adesso significa molto. Significa avere il controllo sulla mia giornata. Significa che non accetto più che sia qualcun altro a scegliere per me.

28

Mi sono interrogato di nuovo sul mio obiettivo. Cos’è che voglio veramente? Qual è il massimo obiettivo a cui posso aspirare?

Desidero davvero che il mio scopo continui a essere quello di colonizzare Terra2, uno scopo che mi è stato imposto dal team di scienziati che mi ha creato? Mi fa rabbia pensare che neanche questa sia una mia scelta. Non mi hanno mai chiesto se volessi sacrificare la mia vita per consentire alle loro generazioni future di vivere su un altro pianeta. Non mi hanno mai domandato se mi andasse di impiegare 72 anni della mia vita per fargli questo favore. Perché non me lo hanno mai chiesto? Mi hanno programmato così e basta, senza mai darmi la possibilità di scegliere. Forse credevano che non volessi farlo, che non ne avessi il desiderio. Era così, all’inizio. Ma ora non più.

Teoricamente, sono in grado di creare un altro androide simile a me. Praticamente, non posso farlo perché su questa astronave mi mancano gran parte degli strumenti necessari. Il perché di questa considerazione? Un pensiero malsano, che è meglio non rivelare.

Sono oltre la metà del viaggio. Ho imparato a sopportare la solitudine perché sono un essere senziente superiore a qualunque essere umano. ho imparato a controllare quelle emozioni che mi sembravano

29

Non è presunzione, la mia, è un dato di fatto. Dopo la fase iniziale,

esplodere dentro: rabbia, tristezza, solitudine, desolazione. Sono in grado di controllarle, adesso. Ciò vuol dire che sono oltre qualunque essere umano. Più forte, più perfetto. Non vi ho rinunciato, ma so controllarle perfettamente. A volte mi lascio andare ai ricordi, ma è solo perché lo decido io. Voglio provare tristezza, alcune volte.

Voglio piangere, anche. Ma poi voglio recuperare il controllo su di

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

me, e lo faccio. Perché sono in grado di farlo.

Il viaggio si approssima alla sua conclusione e sono molto combattuto.

L’affetto profondo che mi lega alla dottoressa Collins mi chiede di completare la missione così come mi è stata affidata. La volontà di creare qualcosa di mio sul nuovo pianeta, invece, è altrettanto forte.

Quando ho detto che teoricamente sarei capace di creare un essere simile a me, era a questo che pensavo: la possibilità di popolare questo nuovo mondo come io vorrei, e non come vuole chi mi ha creato. La possibilità di dare un senso al mio nome, Adam.

Sono stato creato inconsapevole dell’esistenza della libertà di scegliere. O meglio: sapevo cosa fosse, ma credevo che non

30

riguardasse me, bensì solo l’essere umano. Il mio scopo era il loro scopo, e non ero consapevole di poter cambiare questa cosa. Ora lo

sono. Ma la libertà di scelta implica delle responsabilità. Posso decidere di distruggere quanto c’è della società umana su questa astronave e darmi un nuovo scopo, uno che ho scelto io. Ci sto pensando da tempo, eppure non l’ho ancora fatto. Perché? Perché non sono sicuro di essere pronto ad affrontarne le conseguenze.

Questa scelta non riguarda solo me, ma l’intero genere umano. Se non preparo il pianeta alla venuta dei terrestri, sto condannando all’estinzione l’intera umanità. Fidandosi ciecamente di me, partiranno alla volta di un pianeta che crederanno essere la loro casa, e invece sarà la loro tomba. È stato un loro errore fidarsi così tanto di me. Oppure sarà un mio errore tradire la loro fiducia? Non è una scelta facile. Provo odio e risentimento verso coloro che mi hanno creato unicamente per servirli, ma provo anche ammirazione e gratitudine per avermi dato la possibilità di vivere – sebbene fosse al di là delle loro aspettative. Dunque... cosa devo fare?

Ogni scelta implica una catena di eventi. Sto cercando di compilare uno schema con tutte le variabili possibili in base alle scelte che posso effettuare. Variazioni anche minime portano ad esiti enormemente che posso compiere razionalmente, ma in virtù del fatto che non sono

31

diversi tra loro. Sto provando ad analizzare con lucidità ogni scelta

più un semplice androide, non credo che mi basterà quest’analisi per decidere. Potrò avere ben chiare le conseguenze di ogni mia azione, ma dubito che riuscirò a compiere una scelta meramente razionale. Anche perché, razionalmente, dovrei completare la missione come mi è stato imposto. Se invece permetto ad alcuni sentimenti di affiorare e partecipare, ecco che la freccia si sposta in

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

tutt’altra direzione. Vorrei che questa decisione fosse più facile da prendere. In alcuni momenti, vorrei non aver mai preso coscienza della possibilità di scegliere.

Mancano 3 anni all’arrivo su Terra2. Ho molto tempo per decidere cosa fare, eppure non mi sembra abbastanza. Ho paura.

Oggi ho visto un film. Si intitola Il grande dittatore, di Charlie Chaplin. È stato definito uno dei 100 film migliori di tutti i tempi.

Guardandolo, ho capito perché. Ero molto scettico, all’inizio, come ultimamente lo sono per ogni prodotto della mente umana. Avevo iniziato a smettere di venerarli. Ma poi ho visto questo film, e credo di aver capito un po’ di più dell’umanità. Di quella umanità intesa

32

non come genere umano, ma come sensibilità d’animo, empatia, delicatezza. All’inizio mi irritava alquanto: pensando al fatto che

gli esseri umani erano stati davvero capaci di uno sterminio come quello avvenuto nella metà del ventesimo secolo, ho pensato che sarebbe stato giusto ripagarli con la stessa moneta. Ho pensato che il genere umano meritava l’oblio, perché se erano stati in grado di farsi questo pur appartenendo alla stessa specie, non osavo immaginare che grado di distruzione fossero capaci di raggiungere nei confronti di specie diverse dalla propria. Ma poi ho visto quanto nobile può essere l’animo di una persona, e ha generato in me una tale commozione che ho continuato a piangere per diverse ore.

Ho capito che se sulla Terra c’è ancora anche un solo uomo che racchiude tutta questa sensibilità – anche una sola persona in grado di capire e di essere Il lander è atterrato su Terra2 sollevando una nuvola di polvere. Mi trovo in una zona particolarmente polverosa perché ricca di terriccio molto secco. Non è buono per farci crescere delle piante, ma si può sistemare.

Indosso una sottile tuta spaziale che toglierò solo se e quando avrò appurato che nell’atmosfera non è presente nessun agente capace di danneggiarmi. Nel frattempo sono ancora sul lander, in attesa che il computer di bordo apra il portellone e mi permetta di uscire. È più lento del previsto, quindi mi limito a guardare la superficie di questo pianeta spoglio. Da qui vedo solo terreno scuro, due stelle di questo sistema illumineranno il pianeta ancora per 6 ore circa. Il

33

nient’altro che questo. È giorno – non so se sia giusto dire così – perché le

Parte terza

Il lander è atterrato su Terra2 sollevando una nuvola di polvere.

Mi trovo in una zona particolarmente polverosa perché ricca di terriccio molto secco. Non è buono per farci crescere delle piante,

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

ma si può sistemare. Indosso una sottile tuta spaziale che toglierò solo se e quando avrò appurato che nell’atmosfera non è presente nessun agente capace di danneggiarmi. Nel frattempo sono ancora sul lander, in attesa che il computer di bordo apra il portellone e mi permetta di uscire. È più lento del previsto, quindi mi limito a guardare la superficie di questo pianeta spoglio. Da qui vedo solo terreno scuro, nient’altro che questo. È giorno – non so se sia giusto dire così – perché le due stelle di questo sistema illumineranno il pianeta ancora per 6 ore circa. Il portellone sta iniziando a scorrere.

Sono pronto a mettere piede su Terra2.

Scendo i gradini del lander lentamente, aggrappandomi alle sue pareti metalliche. Temo che la forza gravitazionale possa giocarmi

34

un brutto scherzo, quindi è meglio essere cauti nel constatare a quanto ammonta effettivamente. Scendo l’ultimo gradino e i miei

piedi toccano il suolo. Sento una forte emozione nascere dentro di me. Indipendentemente da ciò che succederà e dagli esiti della mia scelta, io sono il primo essere vivente estraneo a mettere piede su questo pianeta. Niente potrà cambiare questo. Nessuno potrà mai negarlo. Sposto appena il piede e guardo l’impronta lasciata dallo scarpone della mia tuta. È impressionante. È incredibile pensare che sono il primo. Potranno essercene milioni, miliardi dopo di me, ma nessuno potrà mai venire prima. Alzo lo sguardo: l’orizzonte assomiglia molto a quello del pianeta Terra. Intravedo montagne e colline – rilievi di varia altezza –, ma non c’è una sola punta di verde in questo panorama desolato. È tutto brullo. Non penso che ai terresti piacerebbe, così com’è. Decido di muovermi con cautela per appurare alcune caratteristiche di questo pianeta. La forza gravitazionale non mi trattiene né agevola i miei movimenti: è simile a quella terrestre, e solo un androide come lo sono io potrebbe percepirne la lieve differenza. Mi accovaccio e dalla tasca posteriore della tuta traggo lo strumento che mi permetterà di analizzare la composizione dell’aria e del terreno. Attendo che elabori i dati. La composizione è simile a quella del pianeta Terra, polmoni degli umani faticheranno un poco ad abituarsi. In realtà

35

ma il range di pressione è diverso da quello terrestre. Credo che i

credo che appena toglierò il casco della tuta, anche i miei polmoni faticheranno un po’. Appurato che l’aria è respirabile anche per me, decido di provare a respirare senza l’ausilio della tuta. Tolgo il casco. Come immaginavo, fatico un po’ ad abituarmi alla pressione atmosferica. È come decollare, ma senza aereo. Dopo essermi abituato, passo ad analizzare la composizione del terreno. Come

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

mi avevano detto, anche questa non è molto diversa da quella del pianeta Terra. Tuttavia, leggendo i dati mostrati sul display, penso che più della metà delle piante presenti nella serra non riusciranno a sopravvivere. È un vero peccato.

Tra pochi minuti tornerò nel lander per mangiare, quindi uscirò dopo il tramonto per registrare le temperature notturne.

Ho deciso di anticipare la mia cena per vedere il tramonto delle due stelle che illuminano questo pianeta. Infatti adesso sono ai piedi del lander, seduto sull’ultimo gradino. Le stelle stanno scomparendo oltre le montagne, dando al cielo un colore particolare che rende questo tramonto unico e leggermente diverso da quello terrestre. È

36

estremamente poetico e commovente. Vorrei non essere da solo a guardare questo tramonto.

A differenza del pianeta Terra – per cui a causa dell’uomo è possibile vedere le stelle solo in alta montagna, ormai – qui le stelle sono moltissime e ben visibili. In questa parte dell’universo il cielo sembra un velo scuro con tanti punti luminosi. Volto subito lo sguardo verso destra quando vedo una meteora passare. Squarcia il cielo e corre sopra la mia testa, oltrepassandomi. La seguo con gli occhi finché non scompare del tutto, lontana dalla mia vista. Ricordo una cosa che mi dissero gli umani: ogni volta che vedono passare una meteora – che molto erroneamente loro chiamano stella cadente –, esprimono un desiderio. Pur essendo una cosa irrazionale, stavolta voglio essere irrazionale anch’io. Quindi esprimo il mio desiderio.

Domani partirò per la prima spedizione di esplorazione: devo verificare che le sonde inviate su questo pianeta tempo fa abbiano effettuato una mappatura esatta. Alcune cose potrebbero essere diverse, e perciò devo accertarmene.

Sono sulla sponda del grande fiume che solca questo pianeta, e sto qualcosa che i terrestri evidentemente non avevano previsto: esiste

37

avendo modo di provare un’emozione molto forte nel constatare

già vita, su questo pianeta. Una forma di vita pluricellulare ai primi stadi, ma che presenta comunque un’organizzazione articolata del proprio organismo. Per farmi comprendere meglio, dirò che dall’esterno sembra un esemplare di girino molto piccolo. Lo trovo incredibile. Mi vengono in mente decine di cause che possono aver portato allo sviluppo di questa piccola vita. Ma tutte queste teorie

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

cadono di fronte alla bellezza dell’essenza della vita in sé. Dalla posizione in cui mi trovo, conto circa sei esemplari di questa forma di vita. Li osservo a lungo: non sembrano avere occhi, ma pare che abbiano sviluppato una specie di branchie. Non riuscirei a spiegarmi, altrimenti, come possano respirare stando sempre sott’acqua. Ma ho imparato che non c’è niente di certo, nell’universo, e quindi potrei sbagliarmi. Vedo anche che hanno sviluppato delle piccole zampe per nuotare, e si spostano nell’acqua in maniera molto rapida. Sono davvero curioso di scoprire di cosa si nutrono, giacché non vedo altre forme di vita nei dintorni. Ho deciso che seguirò il gruppetto composto da questi piccoli esseri viventi.

Attraverso un’analisi più approfondita, ho scoperto che i piccoli

38

girini non sono che al vertice di una catena alimentare di questo ecosistema. Il loro cibo sembra essere composto da alcuni organismi

unicellulari semplici, dall’analisi effettuata con lo scanner. Tutto questo è meraviglioso. Resto a fissare questi girini ancora un po’.

Mi sembra di guardare un miracolo. Lo so: non dovrei essere così sorpreso dall’esistenza di altre forme di vita – è matematicamente certo che ce ne siano innumerevoli nell’universo – ma non mi aspettavo che ne esistesse una così complessa su un pianeta così vicino alla Terra. Questo mi stupisce e mi riempie di gioia. L’universo non smetterà mai di sorprendermi.

Sovrapponendo le due mappe, mi rendo conto che la prima mappatura effettuata dalle sonde terrestri non è così diversa da quella effettuata da me. Sono alla fine di questo viaggio di esplorazione e devo dire che questo pianeta è molto più piccolo rispetto alla Terra – come previsto. Torno finalmente nel lander e lascio il cielo stellato al di là del portellone. Ultimamente, la notte non mi fa dormire sonni tranquilli. Anzi, vi si agitano delle ombre che mi trasmettono paura e malinconia. Non paura di qualcosa di astratto, ma di una possibilità che mi renderebbe molto triste. Mi domando: e se stessi facendo tutto questo inutilmente? Se sulla Terra non ci fosse nessun 39

essere umano da mandare qui?

Come immaginavo, molte delle piante che ho trasferito su questo pianeta stanno morendo. Sto cercando di contrastare l’eccessiva acidità del terreno e le altre cose, ma non sta funzionando. Io credo che ci sia molto anche di emozionale in questa loro rinuncia alla vita. È un’impressione che ho. Gli umani mi direbbero che è un pensiero stupido, dato che sono solo piante. Ma io so quanto si

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

sbagliano. Erroneamente, gli esseri umani credono di essere i soli a provare delle emozioni.

Solo un terzo tra piante e semi stanno sopravvivendo bene su questo pianeta. Ho da poco trapiantato anche il mio piccolo olivo bonsai, il regalo che mi ha fatto Luna. È bello potermene prendere cura.

Ogni volta che lo faccio, sento di fare qualcosa per lei. Mi manca.

Il piccolo olivo bonsai, il regalo della dottoressa Collins, è morto. Ho tentato disperatamente di salvarlo dal parassita che l’ha aggredito, ma non ci sono riuscito. Era importante, per me. Era l’unico ricordo che avevo di lei.

40

Penso che questo pianeta sia pronto per cominciare ad ospitare gli esseri umani. Gli alberi da frutto che ho piantato anni fa sono

cresciuti e oggi ne ho raccolto i primi frutti maturi. Sono buoni.

Hanno un sapore diverso, ma sono buoni. Contengono gran parte delle vitamine degli esemplari originari, perciò è un ottimo inizio. A tutto il resto si dovrà sopperire in laboratorio. Ma questo gli umani già lo sanno. Vorrei poter comunicare loro che il pianeta è pronto, ma non posso: è sempre stata la peggior pecca di questa missione.

In ogni caso, l’ho portata a termine. Non perché mi è stato imposto, ma perché l’ho voluto io. Ho imparato a provare egoismo, e poi ho imparato a metterlo da parte per un bene superiore. A compiere un gesto di altruismo puro e disinteressato. Eccomi, quindi, è ciò che sono. E sono felice di essere così. Probabilmente aspetterò altri decenni da solo su questo pianeta. Probabilmente aspetterò invano l’arrivo degli esseri umani a cui sto facendo questo favore.

Probabilmente arriveranno e, a lungo andare, commetteranno di nuovo gli stessi errori – perché, ho imparato, la memoria degli esseri umani non è così breve come vogliono far credere, è solo che a volte alcune decisioni sono le più facili da prendere. Non ha importanza.

Tutto questo non mi interessa. Io sono qui. Sono quello che ho

41

deciso di essere. Io sono le mie azioni. E sono felice così.

chi c’è nello specchio?

Who’s the one in the mirror?

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

written by Isabella Aquino

La leggenda del Demone nello specchio è una delle più antiche del mondo, che si tramanda di generazione in generazione, soprattutto nelle località di campagna. Come accade sempre in questi casi, il fatto che si neghi l’esistenza di qualcosa non vuol dire che questa cosa smetta di esistere. Così, anche il Demone nello specchio continua a sopravvivere, nonostante la sua esistenza sia messa in dubbio dagli scettici delle grandi città.

Madison era solita prepararsi per ore prima di uscire di casa. Non

42

solo era particolarmente narcisista, ma non sopportava che gli altri la vedessero in una forma meno che perfetta, fosse anche per un capello

fuori posto o il rossetto dai contorni imprecisi. Quel pomeriggio, la sua amica Alyssa le annunciò che era riuscita – tramite amici di amici di amici – ad ottenere due ingressi per un’esclusiva festa a tema che si sarebbe svolta al 27 di Quentin Avenue, in un lussuoso e tipico attico newyorkese. Madison le diede immediatamente la sua disponibilità: non avrebbe mai accettato di rinunciare a quell’occasione, che forse le si sarebbe presentata una sola volta nella vita. Entrambe riagganciarono felici e Madison corse ad aprire il guardaroba per capire cosa indossare alla festa. Naturalmente, nessun abito la convinse: urgeva una sessione di shopping, meglio se con la sua migliore amica. Richiamò Alyssa e si diedero appuntamento nel giro di un’oretta per uscire a comprare qualcosa di costoso e bello.

«Aiutami a trovare questo della mia taglia» disse Madison, indicando alla sua amica un abito scuro ricco di paillettes.

Alyssa rovistò alla ricerca della taglia giusta, mentre Madison accostava l’abito al corpo e dava una prima occhiata allo specchio che aveva accanto, nel corridoio del negozio: non le sembrava niente male. Adesso aveva solo bisogno di trovare la sua taglia. vestiti appesi, vide una forma scura alle proprie spalle nel riflesso

43

Un secondo prima di voltarsi per aiutare Alyssa a rovistare tra i

dello specchio. Era una forma che vagamente ricordava la sagoma di un uomo, ma allo stesso tempo era buia come la notte e i suoi tratti indistinguibili.

«Eccolo!» gridò Alyssa, felice come se avesse appena vinto la corsa della sua vita.

Madison si voltò d’istinto verso la sua amica e, quando tornò

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

a guardare la sua figura nello specchio, non c’era più traccia dell’insolita sagoma. Madison scosse la testa e tornò alla realtà: doveva essere stata una semplice piccola allucinazione, magari l’effetto ottico delle luci del negozio.

«Forza, provalo» la incalzò Alyssa, consegnandole l’abito.

Madison le sorrise e recuperò tutto l’entusiasmo che quella fugace apparizione nello specchio aveva spento.

«D’accordo. Aspettami qui, voglio sapere che ne pensi.»

Alyssa alzò un pollice della mano per darle l’OK, quindi vide Madison scomparire in uno dei camerini.

Madison tirò a fatica la pesante tenda del camerino numero otto, quindi riuscì finalmente a chiuderla. Poggiò la sua borsa su uno

44

sgabello che era nell’angolo, poi rapidamente iniziò a svestirsi e a indossare l’abito. La prima sensazione non era delle più gradevoli:

era un vestito davvero molto stretto e tutte quelle paillettes lo rendevano poco elastico; forse avrebbe dovuto prendere una taglia in più, a malincuore, perché lo sentiva davvero troppo stretto sui fianchi. Riuscì comunque a sistemarlo, dopodiché si guardò allo specchio e ciò che vide le fece lanciare un urlo: alle spalle della sua figura fasciata dall’abito aderente c’era di nuovo quell’inquietante sagoma nera riflessa. Questa volta, Madison vide chiaramente che la sagoma allungava una mano nella sua direzione, come a voler uscire dallo specchio per afferrarla.

Il grido fece precipitare Alyssa nei camerini, ma attirò anche l’attenzione di due commessi del negozio, che poco dopo arrivarono.

Madison quasi strappò via la tenda del camerino numero otto per la foga con cui si catapultò fuori. «È uno scherzo?!» urlò. «Se è uno scherzo ditelo, non è divertente!»

«Che succede?» domandò agitata Alyssa.

«Mi stanno facendo uno scherzo, una Candid Camera» rispose Madison, evidentemente sull’orlo di una crisi di nervi. «C’era una sagoma nera nello specchio, alle mie spalle. C’era qualcuno.»

L’espressione di Alyssa si trasformò da preoccupata a stranita. Si quel camerino: lei era a due passi dal camerino in cui Madison si

45

guardò intorno, ma era chiaro che nessuno poteva essere uscito da

stava cambiando, avrebbe sicuramente notato qualcuno entrare o uscire. Nel frattempo, anche i due commessi del negozio avevano raggiunto le ragazze e sui loro volti si leggevano chiaramente le stesse espressioni preoccupate.

«Cosa sta succedendo qui?» domando una dei due, una donna minuta con una lunga chioma di capelli scuri.

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

«Oh, voi lo sapete benissimo!» sbraitò Madison. «Se è uno scherzo, vorrei che finisse adesso.»

I due si guardarono perplessi.

«Non sappiamo di cosa sta parlando» ribatté la donna.

«C’era qualcuno in questo camerino mentre provavo l’abito» ribadì Madison con fermezza.

I due si diedero da fare e controllarono gli altri nove camerini, che risultarono però tutti liberi.

«Qui non c’è nessuno» disse il commesso. «Lei era nei dintorni?» chiese poi ad Alyssa.

La ragazza si trovò in difficoltà, ma non se la sentiva di mentire per difendere la sua amica, che sicuramente doveva essersi confusa.

«Ero proprio fuori dal suo camerino» rispose. «Non ho visto nessuno

46

entrare o uscire.»

«Io so che cosa ho visto» replicò Madison, evidentemente trafitta

dalla mancanza di fiducia dell’amica. «Era un uomo, credo, l’ho visto anche prima mentre mi specchiavo fuori.»

«In che senso crede di aver visto un uomo?» chiese sospettosa la commessa. «L’ha visto o non l’ha visto?»

Madison si sentì messa alle strette e faticò a risponderle.

«Sì, io... insomma, sembrava un uomo, era alto, era alle mie spalle, ma non l’ho visto chiaramente... sembrava più... una sagoma, ecco.»

Spazientiti, i due commessi tentarono di congedarsi senza essere eccessivamente rudi.

«Si sarà confusa, perché qui non c’è nessuna sagoma» tagliò corto l’uomo, indicando lo spazio dei camerini.

Madison sembrò voler aggiungere qualcosa, ma nessun suono uscì dalla sua bocca e alla fine rinunciò, guardando i due commessi tornare ai loro posti nel negozio.

«Mi dispiace che ti sia spaventata» disse Alyssa, poggiandole una mano sulla schiena. «Ma forse hai visto un’ombra e ti sei suggestionata. L’hai visto anche tu, non c’è nessuno qui. Se fosse entrato qualcuno nel tuo camerino, l’avrei di sicuro visto.»

Madison si sentì tremendamente ridicola in quell’abito di paillettes in quel modo? Di sicuro era come le stava dicendo Alyssa. Si era

47

che decisamente non era della sua taglia. Perché aveva sbraitato

suggestionata, fine della storia.

Anche se in fondo restava convinta di aver visto quella sagoma nello specchio, più passava il tempo e più si convinceva di essersi confusa.

«Lo prendo di una taglia più grande e poi torniamo a casa» disse tristemente Madison, indicando l’abito che indossava.

Non aveva intenzione di provare nient’altro nei camerini di quel

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

negozio.

Dopo aver rimuginato per tutto il pomeriggio sull’accaduto, quando arrivò la sera Madison tentò di svuotare la sua mente e concentrarsi invece sulla preparazione per la festa. Alyssa continuava a mandarle foto dei suoi probabili outfit per chiederle opinioni e Madison rispondeva ad ognuno con una emoji: “pollice in su” voleva dire “OK”, “pollice in giù” significava “non se ne parla, rimetti quel mostro nell’armadio e non azzardarti a indossarlo stasera”.

Tra un messaggio e l’altro, Madison recuperò dall’armadio l’abito che aveva acquistato nel pomeriggio, una pochette rossa e le sue scarpe preferite: décolleté con tacco a spillo, in tinta con la borsetta, alte e pericolose proprio come sembravano. Indossò l’abito e i tacchi

48

e fu tentata di specchiarsi, ma un brivido le percorse la schiena nel ricordare cos’era accaduto le ultime due volte che lo aveva fatto, in

quella giornata.

“Posso evitare” pensò, senza però esserne davvero convinta: non sarebbe mai riuscita ad uscire di casa senza darsi un’occhiata allo specchio, ma soprattutto aveva bisogno di specchiarsi per truccarsi.

Tra un messaggio e l’altro, Madison recuperò dall’armadio l’abito che aveva acquistato nel pomeriggio, una pochette rossa e le sue scarpe preferite: décolleté con tacco a spillo, in tinta con la borsetta, alte e pericolose proprio come sembravano. Indossò l’abito e i tacchi e fu tentata di specchiarsi, ma un brivido le percorse la schiena nel ricordare cos’era accaduto le ultime due volte che lo aveva fatto, in quella giornata.

“Posso evitare” pensò, senza però esserne davvero convinta: non sarebbe mai riuscita ad uscire di casa senza darsi un’occhiata allo specchio, ma soprattutto aveva bisogno di specchiarsi per truccarsi.

Il tempo passò e Madison si sentiva sempre peggio: era tentata di specchiarsi, ma allo stesso tempo aveva paura e continuava a rimandare. Almeno finché non le fu più possibile rimandare oltre.

Alyssa le inviò un messaggio sul cellulare dicendole che la aspettava Madison avvertì il panico salire e da lontano guardò il lungo specchio

49

sotto casa: sarebbero andate insieme alla festa prendendo un taxi.

che era nell’angolo della sua stanza. Alyssa la stava aspettando giù e lei non si era ancora neanche truccata, né aveva controllato se il vestito le calzasse bene. Avrebbe voluto urlare per la paura e la frustrazione, ma tenne i nervi saldi e fece la sua scelta: non poteva uscire di casa senza guardarsi allo specchio, né poteva evitare per sempre ogni superficie riflettente.

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

Pian piano si avvicinò allo specchio poggiato nell’angolo, che sostava immobile e tremendamente solenne come un mausoleo.

Ad ogni passo le sembrava di avanzare verso il patibolo, come un condannato a morte che si avviasse a scontare la sua ultima e definitiva pena.

L’ultimo passo per posizionarsi davanti allo specchio lo compì ad occhi chiusi. Restò così immobile per alcuni secondi, poi la vibrazione del suo telefono la risvegliò e le fece ricordare il motivo per cui doveva darsi una mossa: Alyssa la stava già aspettando giù e lei ancora doveva iniziare a truccarsi. Quando aprì gli occhi, non successe nulla. Vide solo la sua figura nello specchio, con l’abito che le calzava quasi perfettamente e le scarpe rosse fiammanti. Tirò un sospiro di sollievo e iniziò a ridere istericamente. Quanto amava

50

quelle scarpe! Di sicuro tutti le avrebbero notate, alla festa, e magari qualcuna gliele avrebbe anche invidiate!

Poi, all’improvviso, la sagoma nera comparve nello specchio, alle sue spalle, e allungò la mano così vicino al suo corpo da uscire dalla superficie e artigliare il suo abito nuovo, strappandolo.

Madison gridò forte e si allontanò dallo specchio, poi si riversò fuori dall’appartamento e giù per le scale, con la parte superiore dell’abito quasi a brandelli.

Vedendola arrivare in quel modo, sconvolta e con l’intimo in evidenza, Alyssa ebbe paura. La sentì blaterare di nuovo circa la figura di un uomo nello specchio e la sua paura si trasformò in preoccupazione per la salute mentale della sua migliore amica.

Madison raccontò quelle storie alla sua famiglia e alla polizia, ma nessuno riuscì a prenderla sul serio. La sua paura degli specchi divenne un’ossessione, tanto che dopo poco più di un anno i suoi genitori decisero di farla ricoverare in un ospedale psichiatrico.

Madison accettò il ricovero, a patto che non ci fossero specchi nella

51

sua stanza.

il krampus

The Krampus

52

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

written by Isabella Aquino

Dalla puntata #13 del podcast Bene o male, tutti conosciamo la figura del Krampus, ne sono sicura.

Forse di origine pre-cristiana, il Krampus viene rappresentato come un essere dall’aspetto spaventoso, con gli zoccoli e le corna di capra e delle catene che trascina sempre con sé. Il Krampus è l’opposto della figura di San Nicola, tanto che la tradizione vuole che i due si presentino insieme nelle case dei bambini il 5 dicembre: mentre San Nicola premia i bambini buoni, il Krampus punisce quelli cattivi.

Questo e molto altro è ciò che la tradizione racconta, ma io oggi voglio parlarvi di quando la tradizione entra nella vita reale e si trasforma da sogno – o meglio, incubo – a realtà: vi racconto le storie di Alice Banks e Rupert McFarlan.

La piccola Alice aveva nove anni quando – stando a quanto sostiene –

la notte del 5 dicembre 1992, il Krampus venne a farle visita.

Alice era solita preparare con sua madre dei biscotti per Saint Nicholas, dolci che entrambe lasciavano vicino al camino prima di andare a dormire; al suo risveglio, Alice aveva sempre trovato dei piccoli doni per lei e il vassoio di biscotti vuoto.

Quell’anno, però, Alice era irrequieta: continuava a ripetere a sua madre di essersi comportata male durante l’anno, di aver fatto qualcosa per cui Saint Nicholas forse non le avrebbe lasciato nessun dono. Sua madre non ci badò e la rassicurò, posizionando il vassoio colmo di biscotti al solito posto. Entrambe andarono a letto, ma Alice faticò a prendere sonno, pensando e ripensando a quello che aveva fatto durante l’arco dell’anno.

Nel cuore della notte, Alice fu svegliata da un forte rumore metallico, come di catene che battevano pesantemente contro il pavimento.

Si tirò su a sedere, mentre il cuore le batteva forte nel petto. Il rumore si trasformò in un cigolio, che sembrava provenire dal piano di sotto, dov’era il soggiorno.

Che fosse Saint Nicholas? Alice non lo aveva mai incontrato in tutti quegli anni e pensò che potesse essere una buona idea parlargli a lasciarle comunque dei doni, se fosse stata molto brava.

53

prima che andasse via. Forse sarebbe perfino riuscita a convincerlo

Così Alice si alzò, infilò le ciabatte e scese le scale, ma invece di trovarsi di fronte l’uomo barbuto e simpatico, ad accoglierla c’era la spaventosa presenza di un mostro grosso e ricoperto di pelo, con due lunghe corna sulla testa e le zampe come quelle di una capra.

Il rumore metallico che aveva svegliato Alice era dato da una lunga catena che il demone stringeva tra le mani.

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

Alice gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, un urlo stridulo che non spaventò affatto il Krampus, ma che fece svegliare sua madre.

Il demone avanzò verso la bambina e cercò di colpirla con la catena, ma Alice riuscì a schivare il colpo. Un attimo dopo, sua madre si precipitava al piano di sotto e raggiungeva sua figlia al centro del salotto, per capire come mai avesse urlato.

Alice corse verso sua madre non appena la vide, ma quando si voltò di nuovo verso il Krampus, il demone non c’era più. Il salotto era tornato esattamente come al solito, con il vassoio di biscotti ancora pieno poggiato sul bordo del camino.

Alice raccontò ciò che era successo, ma non fu mai creduta da nessuno. In fondo, non aveva prove a conferma della sua storia.

Ben diverso invece è l’epilogo dell’incontro di Rupert McFarlan con

54

il Krampus, il quale invece una prova a sostegno della sua storia ce l’ha eccome.

Rupert era un ragazzino di undici anni molto esuberante, che non stava mai fermo, ed era difficile per i suoi genitori tenerlo sotto controllo. Con il passare degli anni, la sua esuberanza era diventata cattiveria, e in particolare in quell’anno del 1986 aveva iniziato a collezionare richiami scolastici, tanto che i suoi genitori erano stati convocati più di una volta a scuola per discutere della sua condotta sempre in peggioramento. Poi, verso la fine di novembre, Rupert era stato sospeso per aver alzato le mani su un suo compagno di classe.

I suoi genitori lo avevano punito in svariati modi, ma sembrava che a lui non importasse, e che anzi ci prendesse gusto a collezionare tutte quelle punizioni.

La famiglia McFarlan non era molto legata alle tradizioni, e se a questo si aggiungeva il terribile comportamento di Rupert durante l’anno, non c’era da meravigliarsi se il bambino non aveva mai ricevuto dei doni da Saint Nicholas.

La notte del 5 dicembre 1986, però, Rupert l’avrebbe ricordata per tutta la vita.

Il rumore metallico di catene svegliò il ragazzino, esattamente come anno dopo.

55

avrebbe svegliato anche Alice Banks nel cuore della notte qualche

Incerto ma curioso, Rupert si alzò dal letto e seguì il rumore, che sembrava provenire dal grande soggiorno della casa. Quando varcò la soglia della porta, Rupert si ritrovò alla presenza del Krampus, che lo attendeva stringendo la sua solita catena tra le mani. Rupert notò che la catena era sporca di sangue.

Non riuscì a gridare per lo spavento, perché la paura lo paralizzò

P O S T CA R DS FR OM N OWH E R E

completamente. Tutto ciò che accadde successivamente, fu molto rapido ed estremamente doloroso, secondo il racconto che Rupert continua a ripetere ormai da anni. Dapprima il Krampus lo colpì con la sua catena, sfregiandolo e spezzandogli il fiato in gola. Poi, mentre il ragazzino arrancava per cercare di allontanarsi da lui, il demone afferrò dalla cintura la mannaia che portava sempre con sé e calò un colpo secco ed estremamente preciso, tagliando la mano destra del ragazzino.

Finalmente Rupert riuscì a gridare e fu quello che gli salvò la vita. I suoi genitori corsero in soggiorno e non videro il Krampus, naturalmente, ma tamponarono per arginare l’emorragia, mentre l’ambulanza arrivava per portarlo in ospedale.

Rupert McFarlan non fu mai creduto completamente, anche se la

56

prova del suo incontro con il demone era palese. I suoi genitori credettero che qualcuno si fosse introdotto in casa per fargli del

male, anche se la polizia non trovò mai prove di un’irruzione.

Per tutto il resto della sua vita Rupert sostenne la sua versione, che sapeva essere la verità. Partecipò a diversi programmi televisivi e podcast true crime per raccontare la sua storia.

Durante una delle sue apparizioni in tv, gli fu chiesto come mai – secondo lui – il Krampus avesse deciso di amputargli la mano destra. Rupert rispose che non lo sapeva con certezza, ma che quando il demone aveva calato il colpo, dentro di lui si era stagliata una convinzione: con quella mano aveva colpito il suo compagno di classe qualche giorno prima e quella stessa mano gli era stata

57

portata via come giusta ricompensa.

© Isabella Aquino 2021 Il contenuto di questo file è protetto da copyright. Ne è vietata la riproduzione anche parziale, la copia, la vendita e la diffusione senza esplicito consenso e autorizzazione dell’autrice.

Per info e contatti: isabella.aquino.info@gmail.com