Postcards from nowhere #1 - Novembre 2021

POSTCARDS FROM NOWHERE #1 Novembre 2021

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#1 n ove m b re 2021 Dopo il mese più macabro dell’anno, novembre porta con sé un po’ di quella magia di ottobre che non svanisce mai del tutto Che crediamo o meno a quel giorno in cui il Mondo dei Vivi e il Mondo dei Morti si avvicinano, è innegabile che ottobre sia un mese pregno di magia e di superstizione. E siccome tutto ciò che ci circonda è un cerchio (la Vita, la Morte, l’Universo), niente si disperde mai del tutto, ma ogni cosa ritorna e ogni cosa continua; così, anche la magia non svanisce con la fine del mese di ottobre, ma continua anche a novembre. Dopotutto, non la sentite anche voi questa elettrizzante energia che c’è nell’aria?

Che cos’è Postcards from nowhere?

Ho sempre cercato di ritagliarmi un posto, online, dove poter pubblicare qualcosa di mio, che fossero racconti, storie a puntate, incipit, fan fiction, poesie. E questo posto – questo piccolo ritaglio di posto – è sempre stato difficile da trovare, perché c’è più gente disposta a parlare che ad ascoltare: sembra che ci siano sempre più scrittori che lettori.

Allora ho deciso di smettere di ritagliarmi posti negli spazi di qualcun altro, di chiedere il permesso di entrare. Postcards from nowhere è tutto questo e anche di più. È la possibilità di avere uno spazio tutto per me, è il mio posto sul web, è la mia voce, è la mia scrittura. E non importa se ci sarà davvero qualcuno a leggere quello che scriverò: io, intanto scrivo.

Postcards from nowhere significa, letteralmente, Cartoline dal nulla. Le cartoline erano quei bei pezzi di cartoncino che mandavamo agli amici dai luoghi delle vacanze, o semplicemente quando cambiavamo città e voleva farglielo sapere. Era come

stare su Instagram prima di Instagram e taggare i nostri amici nelle foto. L’altro giorno ho ritrovato qualche vecchia cartolina e mi è tornata in mente la sensazione di quando, da bambini, sceglievamo le cartoline più belle da mandare ai nostri amici. Non era mai una scelta banale, ma sempre un compito importantissimo, dettato da un’urgenza interiore.

Ecco la mia urgenza interiore, ecco le mie cartoline, che sono i miei racconti, le mie illustrazioni, le mie parole.

Non dai luoghi delle vacanze, ma da me, dal tutto e dal nulla contemporaneamente.

Isa

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Isabella Aquino, 25 anni, scrivo da quando ne avevo nove. Certo, all’inizio venivano fuori solo dei mostri, ma si sa che con il tempo (e la pazienza e la lettura e l’esercizio) anche i mostri diventano qualcosa di bello.

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contents p. 6

La Casa / The House

p. 44

Cercando Annie / finding annie

P. 51

Sotto il letto / under the bed

LA CASA The House

written by Isabella Aquino

Parte prima L’agente Winters si ritrovò di fronte alla porta dell’ufficio, dove campeggiava un nome in lettere dorate su fondo scuro: JORDAN PARKER, c’era scritto. Bussò alla porta e attese, finché una voce maschile non le diede il permesso di entrare.

L’agente Parker era seduto alla sua scrivania e tirò giù i piedi non appena vide entrare la collega.

«Sono l’agente Winters. Theresa Winters, Omicidi» si presentò.

«Mi avevano detto che sarebbe passata» iniziò Parker, il tono di voce vuoto e quasi annoiato. «Io non lavoro con la Omicidi. Non più.»

hanno detto che le piacciono i misteri. È così?»

«Chi gliel’ha detto, Horner?»

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«Lo so» aggiunse subito Winters. «Ma questo è un caso particolare. Mi

L’agente Winters annuì. Parker rise, un po’ forzatamente.

«Horner è un cazzone. Le ha detto così solo perché sa che mi piace leggere i thriller sulle spiagge di Long Beach. Per il resto no, non mi piacciono i misteri. Anzi, mi irritano.»

«Mi ha anche detto del Caso Bogart» continuò Winters. «È per quello che non collabora più con la Omicidi?»

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Parker divenne improvvisamente serio.

«Sì, esatto» affermò brusco.

Il Caso Bogart era stato qualcosa di terribile, per il team dell’FBI che se ne era occupato. Una scena del crimine in apparenza normale, ma l’assassino era stato così abile che gli avevano dato il soprannome di Moriarty. Nessuna traccia, nessuna ipotesi, nessun movente. Era stato un buco nell’acqua protratto per circa otto anni, prima di essere archiviato definitivamente e con profondo imbarazzo da parte di coloro che vi avevano preso parte. Quelli più in alto erano stati sospesi e poi reintegrati quando le acque si erano calmate un po’. Parker era stato semplicemente spostato di dipartimento, e in un certo senso gli era andata meglio di quanto sperasse: non aveva più intenzione di occuparsi di un caso della Omicidi.

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«Mi dispiace per l’accaduto» disse Winters, simulando un tono il più dispiaciuto possibile. «Ma credo che questa sia una grande

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opportunità per la sua carriera. Quasi tutti gli agenti, finora, hanno rifiutato di unirsi a me, non appena ho detto loro che l’omicidiosuicidio si è compiuto nella cittadina di Loadwen».

Le brillavano gli occhi quando introdusse l’argomento. A Parker quel luccichio non sfuggì affatto.

«Loadwen, dice?»

«Esatto. La città maledetta» ridacchiò Winters, ben sapendo che un tipo pragmatico come Parker non avrebbe mai creduto a maledizioni e cose del genere.

«Tutte stronzate» dichiarò infatti. «Stronzate da superstiziosi.»

«Sono d’accordo» asserì la donna. «Quindi si unisce a me per smontare queste sciocchezze?»

Parker iniziò a intuire che tipo fosse la Winters: una grande manipolatrice, che sapeva perfettamente quali tasti toccare. Peccato che con lui non avrebbe mai funzionato: aveva più anni e più esperienza di lei.

«Non ho detto questo» rispose Parker. «E ora mi stia a sentire: quello che vedo è una grande possibilità per la sua carriera. Di certo non per la mia. E, detto francamente, non me ne frega un L’agente Winters rimase scossa dalla schiettezza del collega.

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cazzo neanche della mia carriera, figuriamoci della sua».

«Non permetto a nessuno di fare giochetti con me, le è chiaro questo?»

Winters annuì.

«Bene. Ha detto omicidio-suicidio?»

Winters annuì di nuovo.

«Quanti corpi?»

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«Cinque. Una donna ha ucciso suo marito, poi i tre figli e infine si è suicidata».

«Ottimo» rispose Parker, rendendosi conto solo dopo di quanto quella risposta potesse risultare macabra e fuori luogo; non se pentì, comunque. «Andiamo, allora. Ci sarà da divertirsi.»

Arrivarono in Massachusetts con un volo di linea, dato che l’FBI aveva tagliato i fondi sui trasporti. Dimezzati, come la voglia di vivere di Parker quel giorno. Il viaggio in aereo fu perlopiù silenzioso: l’agente Winters tentò in tutti i modi di introdurre argomenti su cui discutere con il suo collega, ma non sembrò funzionare: Parker liquidava subito la questione, rispondendo con monosillabi o non rispondendo affatto. Winters era evidentemente su di giri,

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emozionata, e Parker si chiese da dove venisse quell’entusiasmo da novellina.

Il resto del tragitto da Boston a Loadwen impiegò loro circa quaranta minuti di viaggio. Decisero che avrebbe guidato l’agente Winters, così Parker poteva farsi un sonnellino sul sedile accanto al posto di guida. Stavano andando in direzione di Salem, ed era a circa dieci minuti da quella città che si trovava il paesino di Loadwen. Erano quasi a Salem quando Parker si svegliò.

«Ho bisogno di un caffè» disse, sapendo che il suo desiderio probabilmente non sarebbe stato soddisfatto prima dell’arrivo a Loadwen. «È dietro, nel thermos» rispose invece Winters.

Lui la guardò stupito.

«Molto previdente» le disse, dopodiché si allungò verso i sedili posteriori per recuperare il thermos.

«Uno dei due deve esserlo».

«Touché» rispose lui.

Parker tornò a mettersi a posto non appena ebbe recuperato il thermos e i bicchieri.

«Ne vuoi?» domandò a Winters.

«Non ora, grazie». tentando di non rovesciarlo dappertutto.

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Parker iniziò quindi a versare il caffè nel suo bicchierino, con cautela,

«A proposito di misteri. Vuoi sentire una cosa che mi hanno raccontato?» se ne uscì dal nulla Parker, mentre finiva di versare il caffè.

Winters fu piacevolmente sorpresa dalla sua improvvisa volontà di parlare. Lei, che aveva studiato psicologia, forse iniziava a capire che tipo fosse Parker, e pensò che il suo essere poco loquace in aereo

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poteva essere una semplice difesa iniziale. Adesso, a quanto pareva, la fase di diffidenza nei suoi confronti stava passando.

«Certo» rispose quindi.

Parker richiuse il thermos e lo poggiò nel porta-bevande al centro tra i due sedili dell’auto. Iniziò a sorseggiare il caffè e impiegò così tanto tempo per riprendere a parlare che Winters pensò non avesse più voglia di farlo.

«Conosci l’agente Flowers? Lo so, è un cognome stupido, ma neanche il tuo scherza, quindi se fossi in te non riderei».

Winters sorrise in maniera genuina.

«Non credo di conoscerlo, no» rispose.

«Non importa» concluse Parker, rendendosi conto che si stava allontanando dal nocciolo della questione. «Comunque Flowers

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mi ha raccontato questa cosa che è successa a un suo amico. O forse era il parente di un amico, non ricordo. In ogni caso, forse

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conoscerai Hodenbørd. Si trova tipo nella Svezia del nord».

«Non credo di averne mai sentito parlare. Non conosco molto bene la Svezia».

«Fa niente. Il punto è che quella è una di quelle che chiamano città maledette. Come Loadwen, solo che quella viene chiamata la città degli assassini. Il nome viene dal fatto che dal punto di vista statistico, nella sua storia sono accaduti un numero impressionante di omicidi.

E tra i suoi abitanti si nasconde un numero impressionante di assassini. Ci sono dei dati che ti farebbero rabbrividire, solo che ho una pessima memoria per i numeri.

«Ti basti sapere che la definizione città degli assassini è calzante. Bene, quindi abbiamo questa città in cui si verificano numerosi omicidi ogni anno, ok?»

Winters annuì, cercando di non perdersi nel divagare di Parker.

«Naturalmente, ci sono persone al mondo che amano il macabro.

Non gliene faccio una colpa, è così e basta. E quindi, esce un articolo di un giornalista norvegese sulla città di Hodenbørd: riporta tutti i fatti, perfettamente, con tutti i dati. E la gente che ama il macabro lo legge e inizia a diffonderlo, facendolo leggere ad altri. ogni caso, i curiosi e gli amanti del macabro iniziano a visitare

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«È incredibile la rapidità con cui queste cose si diffondono. In

Hodenbørd, per capire se è davvero così tetra come viene descritta dal giornalista. Poi si trovano davanti una cittadina graziosa piena di abitanti cordiali e molto ospitali. Ma loro sono lì per vedere il macabro, giusto?»

Winters annuì di nuovo, sempre più curiosa di capire dove l’altro volesse andare a parare.

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«E allora ci restano. Voglio dire: molti turisti vanno via, non appena capiscono che probabilmente il giornalista norvegese si è inventato tutto. Ma altri restano per diversi giorni, forse per qualche mese.

Queste persone abitano a Hodenbørd in momenti diversi, senza conoscersi e senza avere alcun contatto. E sai cosa si scopre, dopo alcuni mesi?»

Winters scosse la testa, completamente presa dal racconto.

«Che hanno commesso dei crimini atroci da quando sono a Hodenbørd. Sono diventati degli assassini anche loro».

«Ma questa storia è... voglio dire... vera?» domandò incerta, non comprendendo come il racconto si sposasse con il carattere di Parker.

«Lo so a cosa stai pensando» replicò infatti. «Se te lo dico è perché ci

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sono dati certi, non è una storia di quelle che si sentono dal barbiere.

Quello che io metto in dubbio è il motivo del cambiamento in queste

persone. Ammesso che ce ne sia uno».

L’agente Winters tolse gli occhi dalla strada e li posò per breve tempo sul suo collega.

«Naturalmente in giro si è diffusa la storia delle maledizioni e tutte quelle sciocchezze legate alle superstizioni. Ma io credo che si sia una storia migliore. Voglio dire, le possibilità sono tante, no? Una di queste me l’ha detta Flowers. Lui crede che ci sia una sorta di condizionamento mentale di chi arriva in quella città. Tu che ne pensi?»

Winters evitò di dire a Parker che aveva una laurea in psicologia.

Non le piaceva dirlo in giro così, la faceva sentire supponente e non voleva esserlo affatto. Specialmente con lui.

«La penso così anch’io. Ho letto vari studi di psicologia», si limitò a dire, «e penso che la mente umana sia altamente suggestionabile.

Per esempio, è evidente se pensiamo alle malattie psicosomatiche.»

«Sono d’accordo» aggiunse Parker.

Dopodiché nell’auto cadde un improvviso silenzio, mentre entrambi

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riflettevano sulla capacità della mente di lasciarsi condizionare.

Parte seconda

Loadwen era una cittadina minuscola, quasi insignificante.

Contava al massimo una tavola calda, due caffetterie, un pub e un motel, oltre agli edifici pubblici e alle piccole abitazioni disposte

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tutt’intorno a raggiera. La casa dove si era consumato il delitto si trovava appena fuori da questa raggiera, ma in una posizione comunque molto ben collegata con il resto della città. Non era, quindi, isolata come in genere lo sono quelle tetre case stregate che incutono terrore a molti creduloni. E anzi, quando Winters e Parker arrivarono in prossimità della casa, si resero conto che era molto bella: sicuramente rimodernata, con un’ampia parete a finestra che faceva pensare alla miniatura di un attico newyorkese.

Winters e Parker indossavano le giacche a vento dell’FBI – quelle blu scuro con su scritto “FBI” in lettere catarifrangenti – in modo che la polizia locale, nel vederli, non ostacolasse le loro azioni e richieste. Entrambi sapevano quanto potesse essere ostile la polizia locale quando qualcuno dell’FBI si immischiava nei loro casi, e più la

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cittadina era piccola più l’ostilità cresceva, in genere.

Percorsero il vialetto che portava all’ingresso della casa e un poliziotto

sollevò il nastro giallo per lasciarli passare. All’interno, la scena del crimine era raccapricciante. La maggior parte dei poliziotti preferivano starne fuori, a quanto pareva, perché una volta dentro i due agenti trovarono sul posto solo l’anziano capo della polizia.

«Sono Herbert Laurie, il capo della polizia locale» si presentò.

«Potete chiamarmi Bertie, se preferite. Qui mi chiamano tutti così».

«Agente Winters, Omicidi» replicò. «Lui è l’agente Parker, della scientifica».

Il capo della polizia annuì.

«Avete letto il mio rapporto?» domandò poi.

Entrambi annuirono.

«Bene, allora sapete dove mettere le mani» disse mentre si allontanava.

I due agenti dell’FBI si guardarono: percepivano molta ostilità, quindi era meglio lavorare da soli.

«Non che fosse un rapporto molto dettagliato» riprese Parker, quando il capo della polizia fu abbastanza lontano. «È per questo che siamo qui» disse Winters.

Entrambi si fermarono in salotto, dove sembrava essersi consumato da una fontana aperta all’improvviso. Sul divano era stata tracciata

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il primo omicidio. C’era sangue ovunque, sembrava schizzato come

la sagoma del corpo della prima vittima, il marito: il corpo era stato trovato per metà riverso sul divano, che si era inzuppato del suo sangue.

«Se ricordo bene», iniziò Parker, «nel rapporto era scritto che la donna lo ha ucciso tagliandogli la gola. Dalla quantità di sangue che c’è, suppongo abbia tagliato la carotide».

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Parker si accovacciò davanti al divano, nella parte in cui il tessuto teneva le tracce del sangue scuro.

«Dovrò dare un’occhiata al corpo, più tardi» continuò. «Anzi, a tutti i corpi».

«D’accordo. Io vado a dare un’occhiata di sopra».

Parker non annuì neanche, concentrato com’era sull’analisi che stava conducendo.

WINTERS Winters salì le scale che davano al piano superiore, dove c’erano le camere da letto e dove si erano quindi consumati gli altri tre omicidi. Sulle scale, voltando l’angolo si ritrovò all’inizio di un lungo corridoio in penombra, dove le porte delle stanze erano disposte

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l’una di fronte all’altra. Alcune erano chiuse, mentre le due dove c’erano stati gli omicidi erano state lasciate spalancate. Winters

mosse qualche passe lungo il corridoio, ma si fermò quasi subito per dare un’occhiata alle fotografie appese alle pareti. Lei era quel tipo di agente a cui piaceva fare attenzione ai dettagli. Sollevò dal chiodo una delle foto di famiglia e prese a guardarla più da vicino, anche se il corridoio semibuio non agevolava le sue intenzioni. Era una foto scattata forse di recente, non con una macchina fotografica professionale, dato che i contorni delle figure erano leggermente sgranati. Dovevano trovarsi in un parco di divertimenti, visto che oltre alla famiglia era presente qualcuno vestito da Topolino che sostava al centro. Accanto a lui, a sinistra c’era la donna, mentre a destra suo marito. Davanti, invece, stavano i tre bambini: due erano i gemelli, l’altro era il figlio di pochi anni più grande. Nonostante fosse abituata ad occuparsi di casi del genere, Winters non era immune alla tristezza: e proprio un senso di profonda tristezza la assalì nel vedere quei bambini così felici e sapere il modo brutale in cui erano stati uccisi dalla loro stessa madre. Quando Winters posò di nuovo lo sguardo sul volto della donna, vide che la sua espressione era cambiata, contratta in un ghigno inquietante. Il sorriso non era più genuino, ma spaventosamente orribile; e gli sorriso, ma esprimevano una cattiveria pura e primordiale. Winters

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occhi – il modo in cui erano curvati – non accompagnavano il

provò un attimo di instabilità interna, poi batté le palpebre diverse volte e avvicinò di più la foto ai suoi occhi: il volto della donna era come prima, piegato in un sorriso sincero e naturale. Winters allontanò da sé la foto e la riappese al chiodo sulla parete. Doveva aver visto male, sicuramente: la penombra del corridoio doveva averla ingannata. Quindi, decise di proseguire verso le due stanze

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che erano state il teatro di quell’orrenda vicenda.

PARKER Nel tardo pomeriggio Parker si trovava all’obitorio. I cinque carrelli erano stati tirati fuori, in modo che tutti i corpi fossero analizzabili.

Anche qui, Parker aveva percepito una certa ostilità da parte del tecnico che si occupava dell’obitorio.

«Si diverta» gli disse infatti, ironico, mentre lo lasciava da solo con i cinque cadaveri.

Parker lo guardò allontanarsi e socchiudere la porta, dopodiché spostò il suo sguardo sul primo dei cinque corpi. Era quello dell’uomo, la prima vittima della strage. Parker accese il registratore che portava sempre con sé.

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«Sto analizzando il corpo di...» si interruppe, guardò il nome sul cassetto e poi proseguì. «Steven Jackson. Uomo, alto intorno

al metro e ottanta, caucasico, quarantatré anni. Per tutti gli altri dettagli rimando al rapporto della polizia locale. Anche se, devo ammettere, non è scritto in maniera molto precisa. Comunque».

Parker si avvicinò di più al cadavere e con una piccola lente di ingrandimento osservò la ferita asettica sul collo della vittima.

«La ferita alla giugulare è netta, profonda e precisa. Ha reciso la carotide, l’uomo deve essere morto quasi subito. Mi stupisce la precisione diciamo... chirurgica della ferita. Non mi pare che la donna avesse conoscenze mediche, eppure il taglio è netto e fatale».

Parker avvertì un rumore di ferraglia alle sue spalle e si voltò: la porta, lasciata socchiusa dal tecnico, si era chiusa scattando.

«Cazzo» disse, mentre a grandi passi si avvicinava.

Ruotò la maniglia e la tirò con forza verso di sé, più volte. Ma sapeva come funzionava la porta di un obitorio di vecchia concezione come quello: non c’era necessità che si aprisse dall’interno, ed era stato realizzato ben prima che fosse obbligatorio dotare tutte le porte di un maniglione antipanico.

Antipanico.

Ora Parker capiva perché si chiamasse così.

Avrebbe dovuto assicurarsi che il tecnico lasciasse un oggetto in

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«Ehi!» urlò più volte, battendo dei forti colpi contro la porta.

mezzo ai battenti, invece così era bastata una semplice corrente d’aria per far chiudere le porte.

«Cazzo!» imprecò di nuovo, lasciando che un ultimo pugno colpisse la porta.

Si voltò, poggiando le spalle contro i battenti. Prese il cellulare dalla tasca, ma, com’era ovvio che fosse, non c’era campo lì sotto.

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«Fa molto film horror del cazzo» convenne, mentre infilava di nuovo il cellulare in tasca.

Quando rialzò lo sguardo, sobbalzò. Al centro della stanza c’era un telo di cotone bianco, teso da parte a parte, sospeso a mezz’aria, come se due persone invisibili lo stessero tenendo in verticale. E dietro, presumibilmente, doveva esserci un corpo, dato che se ne intravedeva la sagoma. Parker, incapace di muoversi o pensare razionalmente, evitò di guardare i corpi sui cassetti scorrevoli.

Sapeva che, se l’avesse fatto, avrebbe capito di chi era quella sagoma. Ma lui non voleva, si ostinava a tenere lo sguardo fisso sul telo bianco. Neanche batteva le palpebre. Poi, il lenzuolo bianco iniziò a macchiarsi di sangue. Una striscia orizzontale, proprio dove terminava la sagoma della testa. Proprio dove doveva esserci

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la giugulare. Parker avrebbe voluto voltarsi e provare di nuovo ad aprire la porta per scappare, ma aveva paura di staccare gli occhi

da quella scena anche solo per un secondo. Il telo cadde a terra, afflosciandosi come un drappo che, in un numero di magia, volesse svelare che il mago era sparito. Infatti, dietro il telo non c’era nulla.

Parker si girò rapidamente e ruotò la maniglia della porta, la mente completamente assente e volta soltanto alla propria sopravvivenza.

La maniglia ruotò pienamente. Parker tirò verso di sé e la porta si aprì, quindi l’uomo saettò fuori.

Winters e Parker erano seduti, l’uno di fronte all’altra, nella tavola calda. Mangiavano pollo fritto e patatine talmente unte che entrambi avevano saggiamente deciso di lasciarle nelle loro vaschette di alluminio. Erano chiusi in un silenzio che li portava a tenere gli occhi fissi sul cibo. Nessuno dei due aveva fatto parola all’altro del piccolo episodio in cui la loro mente doveva essersi lasciata trasportare dalla stanchezza. Perché era quello che doveva essere, in entrambi i casi: un episodio dettato dalla stanchezza delle ore di volo e di viaggio in auto. Sì, riflettendoci a mente fredda e lucida, non poteva che trattarsi di quello.

«Secondo me deve averlo colto di sorpresa» iniziò Parker, spezzando «Deve essere arrivata da dietro il divano, mentre suo marito

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il silenzio e facendo sì che Winters sollevasse lo sguardo su di lui.

guardava la TV».

Parker lasciò nel piatto i resti del pollo fritto e si pulì le mani con il tovagliolo, dopodiché iniziò a mimare la sua dinamica dell’accaduto.

«Con la mano sinistra deve averlo afferrato, forse per la testa o per la spalla».

Parker prese con la mano destra il coltello che faceva parte del suo

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corredo di posate.

«Poi con la destra deve aver reciso la carotide, così, con un gesto secco, in modo che la lama del coltello affondasse in profondità.»

Parker mimò un taglio orizzontale, dopodiché si guardò intorno e si rese conto che tutta la tavola calda stava fissando la sua macabra pantomima. Posò delicatamente il coltello sul tavolo e ignorò gli sguardi dei curiosi, che non sembravano avere più molto appetito.

«Non ci sono segni di lotta, né altre ferite. Quella è stata l’unica e fatale. Perciò credo debba averlo colto di sorpresa».

Winters annuì.

«Che mi dici dei bambini?»

«Sei coltellate per ognuno. Sembra quasi parte di un rito satanico».

«Ma non è così» replicò Winters, non senza una certa stizza. «Non

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complichiamo ulteriormente le cose, quella donna non aveva alcun legame con gli adepti di Satana».

Parker sollevò le mani in segno di resa: complicare le cose era l’ultimo dei suoi desideri.

«A differenza del marito, i tre figli non sono morti su colpo, ma sono morti comunque dissanguati. Il più grande dei tre deve aver tentato di difendersi: ha delle ferite anche alle mani, segno che ha cercato di proteggersi in qualche modo.»

«Un tentativo inutile, data l’arma del delitto.»

«Già.»

Entrambi tornarono a chinare le teste nei loro piatti. Winters prese a rigirare le patatine fritte nella vaschetta, pensierosa, senza il vero desiderio di mangiare quelle schifezze. Stava riflettendo, indecisa se rivelare o no al collega della foto. Alla fine, concluse che era meglio non farlo: aveva capito il carattere di Parker,e non le andava di essere presa in giro da lui; o peggio, non le andava di sentirsi giudicata come una novellina facilmente suggestionabile. Parker, dal canto suo, era arrivato alla stessa conclusione.

PARKER Non esisteva una cosa, al mondo, meglio di una doccia tiepida prima nella propria camera da letto dell’unico motel di Loadwen, un

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di andare a dormire. Parker e Winters si erano sistemati ciascuno

vecchio edificio ristrutturato da poco, con la maggior parte delle camere inutilizzate e chiuse a chiave ormai da anni. Parker indossò la t-shirt nera e i pantaloni di tuta grigi con i quali era solito dormire, quindi gettò all’aria le lenzuola bianche del letto di quella stanza tanto minimal da poter essere definita a tutti gli effetti impersonale.

Sistemò la pistola e il distintivo sul comodino, poi si stese sul letto.

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Il suo sguardo cadde sulle tapparelle, che aveva dimenticato alzate.

Imprecò sottovoce, quindi si alzò di nuovo per abbassarle. Scostò le tende e si immobilizzò. La finestra della sua stanza si affacciava sulla strada dov’era l’ingresso del motel. In piedi, sul marciapiede, sostava ritta la figura di una donna dai capelli neri insolitamente lunghi e lisci. Sembrava che stesse guardando nella sua direzione. Parker la fissò a lungo. Sembrava molto reale. Si passò una mano sul volto, credendo che fosse un’altra figura generata dalla sua stanchezza, ma quando tornò a guardare la donna era sempre lì. Indossava un vestito bianco con un motivo floreale. Rapidamente, Parker prese il cellulare dal suo comodino e tornò alla finestra. La donna era sempre lì. Scattò una foto e la controllò. Chissà per quale motivo, la sua mente gli suggerì che se quella donna era un’allucinazione

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allora nella foto non sarebbe apparsa. Invece c’era. Prese la pistola e il distintivo e uscì dalla sua stanza, con la speranza che Winters

non stesse già dormendo.

Winters e Parker si incontrarono in mezzo al corridoio, a metà della distanza che separava le loro stanze.

«C’è una donna qui sotto» anticipò Winters.

Parker ringraziò mentalmente che non fosse una sua suggestione.

«Lo so, l’ho vista» replicò semplicemente, mentre infilava la pistola nei pantaloni della tuta.

Notò con piacere che non era l’unico ad essere in tenuta da notte: Winters indossava un pigiama di seta rosso scuro e i suoi capelli erano sciolti, molto lontani dalla tirata coda di cavallo che portava di solito.

Si recarono alla piccola reception del motel, dove ritrovarono il giovane proprietario che aveva mostrato loro le camere. Il ragazzo si allarmò nel vederli avvicinarsi a un’ora così tarda della notte.

«C’è qualche problema?» li anticipò.

«C’è una donna fuori» rispose Winters. «È sul marciapiede dell’ingresso, sembra che stia guardando verso di noi.»

Non dovette rimarcare quanto fosse inquietante la cosa. lasciare la reception. «Sistemo subito.»

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«Accidenti» ribatté il ragazzo, alzandosi dalla sedia e facendo per

«Veniamo con lei» replicò Winters, in un tono che non ammetteva repliche.

Il ragazzo non ne sembrò infastidito, anzi. Durante il breve tragitto spiegò loro che la giovane donna era la signora Agatha Benjamin, la quale era impazzita dopo aver perso il marito in un tragico incidente stradale, pochi anni prima. Da allora andava in giro

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dicendo di essere una sensitiva, mettendo tutti in guardia dal Male che sprigionava dalla casa dei Jackson e che – secondo lei – stava per invadere l’intera città. La gente del posto – non essendo immune da un certo atteggiamento tipico di chi è superstizioso – da allora cercava di allontanarla da ogni parte, così che Agatha aveva preso a vagare per le strade di Loadwen senza una meta precisa.

Il ragazzo si avvicinò alla donna e con delicatezza tentò di convincerla a tornare a casa, dato che era molto tardi. La donna non parve ascoltarlo, e continuava a tenere il suo sguardo fisso sui due agenti dell’FBI. «Non sareste dovuti venire» disse, la voce molto delicata e sottile.

«Ma siete ancora in tempo: non mettete più piede in quella casa.

Non potete farcela, da soli.»

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Parker avvertì il sangue salirgli al cervello: era stanco per le ore di viaggio, sfinito da quello che credeva di aver visto in obitorio

e ora quella pazza – senza che nessuno gliel’avesse chiesto – si metteva a dire quelle cose e non lo lasciava dormire in pace. Che bella giornata di merda.

«Senti» partì Parker, pur mantenendo un tono il più possibile calmo, «perché non ascolti questo ragazzo e te ne torni a casa? Quello che facciamo noi qui non ti riguarda.»

«Parker» lo richiamò Winters, intuendo che se avesse continuato a parlare avrebbe dato sfogo a tutta la sua rabbia repressa.

«Riguarda tutti noi, invece. Tutta la città. Non potete continuare a stare in quella casa, finirete per liberare tutto il Male che contiene!»

Concluse quella frase alzando il tono, in un perfetto delirio da psicopatica.

«Al diavolo, mi sono proprio stancato. Me ne torno dentro» riprese Parker, dando le spalle agli altri tre e avviandosi verso l’ingresso del motel.

Winters e il ragazzo restarono soli con Agatha.

«Signora Benjamin, la prego di scusare il comportamento brusco del mio collega. È solo che siamo entrambi stanchi, abbiamo affrontato un lungo viaggio per venire qui. La prego, ora vorremmo Winters fece di tutto per mantenere il suo tono di voce dolce e

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solo riposare.»

comprensivo.

«Va bene, lo capisco» replicò lei. «Ma cercate di seguire il mio consiglio. Per favore, riguarda tutti noi.»

«Ci proveremo» mentì Winters, finalmente intravedendo una speranza che quell’interminabile giornata finisse.

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Winters aveva sognato strani corridoi bui che si aprivano su porte magiche che davano l’accesso ad altri mondi. Parker, invece, aveva sognato di essere stato seppellito vivo in una bara, e per quanto si dibattesse non sembrava esserci modo per uscirne. Il loro sonno era stato agitato e frammentario, ma al risveglio i ricordi di quegli incubi erano scivolati via rapidamente, tanto che al momento della colazione entrambi si sentivano freschi e riposati.

Winters prese l’ultimo lungo sorso del suo caffè americano, quindi posò il bicchiere vuoto sul tavolo.

«Forza. Ti aspetto di là» disse a Parker.

Lui annuì, iniziando a sorseggiare il suo caffè: la voglia di non alzarsi, quella mattina, era stata tanta da farlo arrivare abbastanza in ritardo.

Parte terza

La sensazione di aver sognato qualcosa di brutto non sarebbero riusciti a scrollarsela di dosso per tutta la giornata.

Winters aspettava Parker nel vialetto che dava alla casa, ma non appena l’agente si avvicinò si rese conto che la collega non era la sola ad aspettarlo. Accanto a lei c’era Agatha, gli occhi arrossati di sonno mancante e lo stesso abito a fiori della notte precedente.

Parker non riuscì a trattenere un sospiro di frustrazione nel vederla ancora tra i piedi.

«Non entrate più in quella casa! Andate via!» strillò la donna, ma alcuni agenti della polizia locale si frapposero tra lei, Winters e Parker, cosicché questi ultimi potessero – ignorandola – oltrepassare il nastro e recarsi sulla scena del crimine. Sentirono solo lo strascico di un “Ve ne pentirete!” prima che la porta venisse chiusa per permettere agli agenti di lavorare in pace.

«Vado di sopra» annunciò Parker.

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Winters annuì e si spostò in cucina.

WINTERS La cucina era uno dei posti peggiori della casa. Era lì che la signora Jackson si era recata per suicidarsi, dopo aver massacrato tutta la sua famiglia. Non era una stanza particolarmente insanguinata, dato che la donna si era tolta la vita impiccandosi. Le uniche tracce di sangue, infatti, erano presenti nel lavello, dove aveva posato

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il grosso coltello che era stata l’arma del delitto. C’era qualcosa di atroce, però, in quella stanza. Winters l’aveva già avvertito la prima volta che vi aveva messo piede e l’avvertì di nuovo, più pesante, più opprimente. Scosse la testa per lasciar scivolare via quelle sciocchezze: doveva concentrarsi solamente sul suo lavoro, non poteva lasciarsi distrarre da quelle cose. Si avvicinò al lavello e vi guardò dentro. Gli schizzi di sangue erano diventati secchi e scuri, ma ancora aderivano alla porcellana bianca smaltata. Una grossa chiazza di sangue si era raggrumata attorno allo scarico, e lì cadde lo sguardo di Winters. Prese a fissarne il metallo, mentre pensieri diversi le vorticavano nella testa e si confondevano, tra domande senza risposta e congetture che era meglio tenere per sé. Mentre fissava lo scarico del lavandino, il sangue iniziò a farsi

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incredibilmente più chiaro e viscoso. Iniziò a ribollire, come una pentola d’acqua sul fuoco che abbia raggiunto la temperatura

giusta. Winters indietreggiò d’istinto, allontanandosi di qualche passo dal lavello. Aveva gli occhi sgranati in una maniera innaturale.

Indietreggiando sempre di più, il suo corpo batté contro qualcosa alle sue spalle, producendo un breve tonfo ovattato. Era come se fosse andata a sbattere contro un’altra persona. Pur sapendo benissimo che non potesse trattarsi di Parker, nella sua ostinata convinzione – e alla ricerca di un volto amico – si voltò. Fu in quel momento che vide un corpo penzolare dall’anta di uno dei mobili. Il corpo, gonfio e livido, era quello della signora Jackson.

PARKER Sempre più convinto che ciò che era accaduto all’obitorio fosse stato frutto della stanchezza, Parker salì al piano di sopra con tranquillità, saltellando gli ultimi gradini. Aprì tutte le porte, una ad una, ma nessuna stanza era fuori posto oltre alle due in cui erano avvenuti gli omicidi. Quindi decise di dedicarsi alla prima delle due. Mise piede nella stanza dei due gemelli, dove trovò le sagome dei loro corpi tracciate di bianco. Una era posata sul letto, l’altra a cavallo tra il pavimento e la parete adiacente la porta. Parker ipotizzò che aver cercato almeno di fuggire. La dinamica tornava, dato che uno

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la prima vittima fosse stata colta di sorpresa, mentre l’altra doveva

dei due gemelli era stato accoltellato al petto e l’altro alla schiena.

Parker si guardò intorno, alla ricerca di qualche indizio significativo.

Vedeva solo sangue, nient’altro che quello. Mosse dei passi in direzione dello specchio presente nella stanza e ne approfittò per sistemarsi i capelli. Mentre fissava la sua figura, si accorse di un lembo di carta da parati che, accanto allo specchio, era sollevato

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verso l’alto in un ricciolo. Parker si avvicinò di più e sollevò il lembo.

Sembrava ci fosse scritto o disegnato qualcosa sotto. Strappò la carta da parati tirandola verso l’alto e scoprì una striscia del vecchio muro, quello coperto dalla ristrutturazione fatta dai Jackson. Continuò a strappare la carta da parati in strisce irregolari, con la rapidità e la frenesia tipici di un fanatico. Strappò e strappò ancora, finché non ebbe scoperto quasi tutta la parete portante della stanza: a grandi lettere e con pastelli rossi, c’era scritto “VIA!” ripetutamente fino alla nausea, in dimensioni diverse, ma sempre imperativo. Poi dalle scritte iniziò a sgorgare sangue e Parker indietreggiò per allontanarsi dal muro. Inciampò nei suoi stessi passi, ma si rialzò in fretta e non ci badò, perché nel frattempo aveva sentito un urlo acuto provenire dal piano di sotto.

Mentre Parker si lanciava verso il piano inferiore saltando i gradini

come se ne andasse della sua vita, Winters abbandonò la cucina con la stessa rapidità. Entrambi si precipitarono fuori dalla casa, spalancando la porta e ritrovandosi nel vialetto, sotto gli sguardi atterriti dei pochi agenti di polizia presenti. Si fermarono e si voltarono verso la casa solo quando si sentirono fuori pericolo, ciascuno conscio che anche l’altro doveva aver visto qualcosa in quella maledetta casa. Il cuore batteva loro nel petto come impazzito. «È tutto a posto?» si azzardò a domandare uno dei poliziotti.

«No! Non è tutto a posto!» urlò Winters, il tono di voce isterico come mai prima d’ora.

«Che cazzo c’è in quella casa?!» sbraitò Parker contro l’agente, lasciandolo di stucco sia per la domanda che per l’atteggiamento aggressivo.

I poliziotti non fecero altro che guardarsi a vicenda, straniti.

«Vi avevo detto di non tornare» disse Agatha, facendosi spazio tra gli agenti. «Vi avevo avvertito.»

«Che diavolo succede lì dentro?» domandò rabbioso Parker.

Agatha non rispose subito.

«Non potete allontanare il Male da quella casa. È impossibile.» ancora acceso. «Ma dobbiamo riuscire a stare lì dentro per risolvere

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«Noi vogliamo solo fare il nostro lavoro!» replicò Winters, il tono

il caso.»

Agatha fece palleggiare il suo sguardo tra i due.

«Allora devo venire con voi. Fidatevi, so di cosa parlo.»

Winters e Parker si guardarono incerti.

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Parte quarta

Non appena varcarono la soglia, la porta di casa si richiuse alle loro spalle con un tonfo rabbioso. Un brivido corse lungo la schiena di Winters: era come se qualcosa avesse appena suggerito loro che era pronto per la resa dei conti. Parker guardò la porta sbattere, poi rivolse il suo sguardo ad Agatha, come per chiedere una spiegazione.

«Io sono una presenza benevola, non sono la benvenuta in questa casa».

«Oh, perfetto» sbottò Parker. «Quindi avevamo proprio bisogno di te» concluse ironico.

«Cercherò di allontanare il Male da questa casa, almeno per un

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po’. È per questo che la Casa non gradisce la mia presenza. Voi avete bisogno di me perché sono l’unica in grado di farlo.»

Dopo aver detto queste parole, Agatha si accovacciò sul pavimento e trasse dalla tasca dei sassolini, che iniziò a posizionare a terra in cerchi concentrici.

«Che stai facendo?» chiese Winters.

«Il rituale. Voi non dovete preoccuparvene. Cercate solo di non farvi ingannare dalla Casa. Il Male che la abita cercherà di spaventarvi con delle illusioni, ora più che mai. Vi prego, non lasciatevi trasportare. Ricordate che è tutto finto, non può farvi del male.

Non fisicamente.»

Agatha tornò a dedicarsi alla sua composizione di sassi mentre i due colleghi si scambiavano uno sguardo tra l’impaurito e lo stranito.

Trascorsero dieci minuti, durante i quali non accadde nulla di rilevante: Agatha continuava a spostare i sassolini sul pavimento, dando ai cerchi delle nuove forme. Poi spazzava via quelle forme e ricominciava daccapo. Winters e Parker iniziarono a pensare di essersi affidati alle mani sbagliate. Sollevando lo sguardo verso la cima delle scale, Parker vide una ragazza. Aveva la pelle diafana e i lunghi capelli biondi, ed era per metà nascosta dalla parete del di salire al piano di sopra. Parker continuò a fissarla chiedendosi

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corridoio. Gli sorrise dolcemente, poi con un gesto gli fece cenno

se fosse reale ciò che vedeva, ma all’improvviso nella sua mente non c’era spazio più per alcun dubbio. Quella ragazza era reale e lui doveva seguirla. Senza dare spiegazioni, Parker mosse qualche passo e iniziò a salire i gradini.

«Parker, dove vai?» domandò Winters.

Lui non rispose.

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«Seguilo» disse urgente Agatha, senza sollevare lo sguardo dai piccoli sassi sul pavimento. «È la Casa.»

Winters capì che il collega doveva aver visto qualcosa che lei non vedeva, quindi decise di seguirlo.

«Parker, aspetta» disse, ma l’altro scomparve prima di lei nel corridoio.

Winters voltò l’angolo e quando si ritrovò nel corridoio scoprì di essere da sola.

WINTERS Di Parker non c’era neanche l’ombra, ma dove poteva essere andato? L’aveva visto salire quelle stesse scale, era davanti a lei un attimo prima. Eppure ora quel corridoio era vuoto, eccezion fatta

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per la sua presenza.

«Parker?» disse, a gran voce ma titubante.

Winters notò che tutte le porte che davano sul corridoio erano chiuse, stavolta. Anche le due che avevano lasciato aperte, quelle dove erano avvenuti gli omicidi dei bambini. Winters provò di nuovo quel brivido lungo la schiena. Non era certa per niente di voler andare avanti e percorrere il corridoio semibuio. Forse era da vigliacchi, ma si sentiva molto più al sicuro all’ingresso della casa, accanto ad Agatha e al suo cerchio di sassolini. Winters si voltò indietro e girò l’angolo per scendere di nuovo i gradini, ma la Casa non fu d’accordo con quella decisione. Svoltato l’angolo, Winters si trovò di nuovo fronte al lungo corridoio, anziché sulla rampa di scale come aveva creduto. Deglutì a fatica. Il suo sguardo cadde sull’ultima stanza in fondo, sulla sinistra. Nella penombra del corridoio, un buio nero e denso fuoriusciva dalla porta spalancata della stanza. Winters tornò a fare dietrofront e provò di nuovo a trovare la via per i gradini, ma non appena voltò l’angolo si ritrovò ancora una volta al centro del corridoio, l’ultima porta sulla sinistra spalancata e con il buio che si riversava fuori come una nuvola di vapore nero. Un gemito di frustrazione mista a disperazione fuoriuscì dalle sue labbra. Nella sua testa iniziarono a farsi largo tutto finto. Niente poteva farle del male, lì. Con quella convinzione,

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le parole di Agatha: doveva pensare che era tutta un’illusione. Era

percorse il corridoio a passi lenti e si fermò solo quando arrivò all’altezza dell’ultima stanza. Davanti a lei c’era soltanto la parete cieca. Si girò lentamente verso sinistra e si ritrovò di fronte alla stanza aperta. Era impossibile vedere dentro, data l’oscurità. Winters sentì qualcosa frusciare nel buio, poi dalle tenebre emerse una mano che, rapidamente, tentò di afferrarla. Balzò indietro di scatto, fino

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a far scontrare le sue spalle con la porta chiusa della stanza di fronte. La mano era violacea e malata, ricoperta di bolle disgustose e rossori. Si allungò ancora, e messa alle strette Winters decise di fare l’unica cosa che poteva – almeno al momento – salvarla. Si girò rapidamente, aprì la porta e si infilò nella stanza, richiudendo velocemente il battente alle sue spalle.

PARKER Parker continuò a seguire la ragazza, come se questa esercitasse un fascino capace di renderlo del tutto incapace di ragionare. La seguiva eppure restava sempre un passo indietro, incapace di raggiungerla davvero. Attraversarono il corridoio – mentre la ragazza continuava a dargli le spalle – e Parker la seguì fin dentro una delle ultime stanze

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sulla destra. Ormai al centro della stanza, la ragazza si fermò e Parker fu finalmente in grado di raggiungerla davvero. Le prese la

con delicatezza per farla voltare, e quando lei lo fece l’incanto si spezzò. Tutta la parte davanti del suo corpo – e anche il suo viso – era quello di un cadavere in decomposizione. Brandelli di carne si staccavano e cadevano sul pavimento, rapidamente, così che della ragazza non rimase che il suo scheletro. Parker indietreggiò e senza neanche rendersene conto prese a tremare. La ragazza – o quello che ne era rimasto – iniziò ad avanzare verso di lui, a braccia tese, sussurrando parole incomprensibili. In uno slancio di lucidità, Parker le diede le spalle e uscì velocemente dalla stanza.

WINTERS La stanza in cui Winters si ritrovò le era decisamente familiare.

Nei primi secondi questa sensazione la rese più tranquilla, ma il fatto che fosse impossibile che quella stanza si trovasse lì, in un secondo momento iniziò ad agitarla. Si impose di mantenere la calma e restò sulla soglia della porta a guardarsi in giro. Non sapeva come fosse possibile, ma quella era proprio la sua cameretta di quando era bambina, quando viveva con i suoi genitori nel nord della California. Era tutto uguale, identico, tutto come bloccato nel addirittura quel sottile velo di polvere che si ostinava a non andare

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tempo. Winters passò una mano sul mobile alla sua sinistra. C’era

mai via. Il suo sguardo si posò poi sulle bambole di porcellana che aveva al centro del letto. Erano proprio così come le aveva lasciate.

Erano tre: una gliel’aveva regalata suo padre di ritorno da un viaggio; l’altra era stata un regalo di sua zia, mentre l’ultima era andata a comprarla insieme a sua madre. Ricordava che da piccola adorava quelle bambole, di giorno, ma di notte aveva sempre addosso la

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paura che la stessero fissando, o che addirittura si muovessero a sua insaputa. Winters si avvicinò appena al letto. Pur sapendo di non doversi fidare di quello che creava la Casa, si avvicinò il giusto per rendersi conto di quanto fosse accurata la riproduzione di quegli oggetti. Di scatto, le tre bambole girarono la testa nella sua direzione, producendo un rumore stridente di porcellana. Posarono il loro sguardo vuoto su di lei e Winters fece un passo indietro, mentre il cuore nel suo petto balzava. Poi sentì una voce provenire da un luogo remoto. Si faceva sempre più vicina e udibile, e quindi la ascoltò.

PARKER Non si ritrovò di nuovo nel corridoio, bensì nell’obitorio in cui

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aveva analizzato i corpi delle vittime di quella carneficina. Sapeva che non era possibile che si trovasse lì – continuava a ripeterselo –

eppure percepiva il suo corpo tremare di paura. Provò a girarsi e aprire la porta, ma era chiusa proprio come l’ultima volta che era stato lì. Quindi si appiattì contro di essa e cercò di analizzare quello che c’era nella stanza. Tutti i cassetti contenenti i cadaveri erano chiusi, ad eccezione di uno, su cui era poggiato un corpo coperto da un telo bianco.

«Me lo sto immaginando» disse Parker a sé stesso. «È tutto finto, non devo crederci».

Con quella litania nella mente, Parker si fece coraggio e si avvicinò al corpo coperto dal lenzuolo.

«Vuoi che lo veda, eh?» disse ad alta voce, come se stesse sfidando la presenza che era in quella casa. «E allora lo faccio, vaffanculo».

Sollevò rapidamente e con rabbia il telo e scoprì che il cadavere lì sotto era il suo. Aveva gli occhi aperti e sembrava che lo stesse fissando, sebbene lo sguardo fosse vitreo. Mentre Parker realizzava che avrebbe potuto andargli peggio, il suo cadavere spalancò la bocca. Dalla cavità orale balzò fuori una legione di insetti che si riversò sul pavimento come una grossa cascata nera. Scarafaggi, ragni, formiche e molti altri animali che iniziarono a correre sul aprirla, ma era bloccata. Si girò. Gli insetti correvano rapidi nella

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pavimento. Parker raggiunse in fretta la porta e di nuovo cercò di

sua direzione, in modo cattivo e famelico. Parker iniziò a urlare e battere contro la porta, il cuore che accelerava il ritmo nel suo petto e la mente bloccata da una paura cieca e irrazionale. E poi E poi fu come svegliarsi da un terribile incubo. Parker tornò in sé lanciando un ultimo grido. Mise a fuoco ciò che lo circondava,

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cercando di liberarsi degli ultimi sprazzi di quell’incubo e ricomporre la realtà in cui si trovava. «È tutto finito, Parker. È tutto a posto» disse una voce alla sua destra, che riconobbe essere quella di Winters.

La guardò, poi guardò il pavimento su cui era disteso. Si alzò lentamente, aiutato dalla sua collega. Accanto a loro c’era anche Agatha, inginocchiata sul pavimento. Sembrava aver finito di giocare con i sassolini. Parker si prese un po’ di tempo per capire che diavolo fosse successo, ma Winters anticipò tutte le sue domande.

«Agatha ha completato il rituale: ha allontanato il Male dalla casa, per ora. Non durerà tantissimo, ma abbastanza per permetterci di chiudere il caso».

Parker guardò Agatha, poi il pavimento ai suoi piedi: i sassolini

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ora formavano tre cerchi concentrici. Winters lasciò una pacca amichevole sulla schiena di Parker.

«Forza, diamoci da fare» disse.

Parker annuì, lo sguardo ancora un po’ assente.

Incerto se credere o meno a tutto ciò che aveva visto, di una cosa Parker era sicuro: non avrebbe dimenticato tanto facilmente la

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sensazione di puro terrore che quella Casa gli aveva fatto vivere.

cercando annie Finding Annie

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written by Isabella Aquino

Dalla puntata #24 del podcast Oggi vi racconto la storia della piccola Annie Bruce, una bambina di 6 anni scomparsa nell’estate del 2007 in Pennsylvania e trovata morta nel settembre del 2011.

Annie è una bambina dai capelli rosso fuoco e dal volto dolce e tempestato di lentiggini. È l’estate del 2007 quando i suoi genitori – Tim e Rebecca Bruce – decidono di fare una vacanza tutti insieme a Bridgeport, in Pennsylvania, nella spaziosa villa dei nonni di Annie.

La famiglia Bruce è solita spostarsi con l’auto per ogni viaggio, ma circa due giorni prima della data fissata per la partenza l’auto subisce un guasto di non semplice riparazione: lasciato il mezzo in officina, i Bruce decidono di non rinunciare al viaggio e acquistano i biglietti del

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treno che li porterà a Bridgeport. Nonostante Annie sia una bambina particolarmente tranquilla, poche ore prima della partenza inizia a fare

i capricci e si impunta sul fatto di non voler più andare dai nonni perché non le piace viaggiare in treno; questa è una delle dichiarazioni che i suoi genitori faranno dopo la sparizione della loro figlia, definendolo come un fatto insolito: Annie, infatti, non faceva quasi mai i capricci, neanche se qualcosa la disturbava molto.

Tim, comunque, riesce a tranquillizzare Annie e la convince che il viaggio in treno sarà breve e che lui siederà accanto a lei e le leggerà qualche storia dal suo libro di racconti preferito.

Arrivati in stazione, i Bruce attendono l’arrivo del treno e prendono posto sul settimo vagone, sistemando i bagagli in alto; come promesso da Tim, lui e Annie siedono vicini, mentre Rebecca prende posto davanti a loro, accanto a un’altra donna. In base a quanto ricostruito successivamente dalla polizia, il viaggio in treno inizia alle ore 11:05.

Intorno alle ore 11:12, a detta della famiglia Bruce, Annie inizia ad essere insofferente: guardare fuori dal finestrino la fa stare male, ma niente di ciò che propone Tim riesce a calmarla o a farla sentire meglio: neanche leggerle una storia produce alcun effetto benefico per la bambina. Da questo momento, Annie diventa irrequieta: sale e scende continuamente dal sedile, si rifiuta di ascoltare i suoi infastidendo gli altri viaggiatori.

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genitori e inizia a correre lungo il corridoio centrale del vagone,

“Me la ricordo perché ad un certo punto – non molto dopo essere ripartiti dalla stazione – questa bambina ha iniziato a scorrazzare in giro strillando” dirà Bryan Settler, uno dei testimoni. “Quella bambina con la chioma rossa ci ha fatto penare un bel po’, perché neanche i suoi genitori riuscivano a tenerla a bada. Mi dispiace per quello che è successo, ma ammetto che in quel momento ero molto

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infastidito dalla sua presenza.”

Non riuscendo a tener ferma Annie e sentendo le crescenti lamentele degli altri viaggiatori del vagone, Tim e Rebecca Bruce iniziano a litigare: lei lo accusa di non essere in grado di tenere a bada la bambina, mentre lui la accusa di non curarsi per niente di Annie, di averla lasciata a lui per leggere uno dei suoi romanzetti rosa.

Il treno si ferma alla stazione di Haverford. E di un momento, di quel brevissimo momento in cui Tim smette di guardare Annie per rispondere alle accuse di sua moglie, i Bruce si pentiranno per il resto della loro vita. Pochi secondi dopo l’invettiva, Tim lancia uno sguardo lungo il corridoio e non vede più la chioma rossa di sua figlia. Insieme a Rebecca iniziano a cercare la bambina e chiedono a tutti i presenti se l’hanno vista. Il treno chiude le porte e riparte:

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sono le 11:18. I Bruce sono in preda al panico e scandagliano tutto il treno, ma di Annie neanche l’ombra. C’è solo una possibilità:

Annie deve essere scesa alla stazione di Haverford. Tim e Rebecca raggiungono in fretta la testa del convoglio per chiedere di fermare il treno: il conducente dirà che non è possibile, ma sotto insistenza dei Bruce chiamerà la polizia della stazione di Haverford per controllare che Annie sia lì.

I Bruce scendono alla stazione successiva e mentre tornano indietro in taxi restano in contatto telefonico con la polizia presente alla stazione di Haverford, che inizia a cercare Annie in lungo e in largo, senza però trovare nessuna traccia: neanche gli annunci attraverso i megafoni servono. È ormai sera quando la polizia accede alle telecamere di sorveglianza della stazione e solo alla mattina successiva si ottiene un primo indizio: in alcuni fotogrammi del sistema di sorveglianza si vede Annie sfrecciare giù dal treno e guardarsi intorno per un po’; un uomo dal volto non chiaramente identificabile e il cappuccio calato sulla testa le si avvicina. Parlano.

Annie sembra ripensarci e si guarda indietro, vuole risalire sul treno; ma i gesti dell’uomo sono gentili e affabili: lui si accovaccia per raggiungere la sua altezza e poi le porge un pupazzo che trae dallo zaino che ha sulle spalle. Annie guarda il pupazzo, poi il treno la prende per mano e la porta con sé. La polizia impiega giorni per

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e poi di nuovo il pupazzo. Alla fine, la bambina segue l’uomo, che

ricostruire il tragitto di Annie e del rapitore, guardando le immagini di tutte le telecamere di sicurezza della zona e parlando con chi potrebbe averli visti. Viene diramata l’allerta e inizia il calvario della famiglia Bruce.

“Have you seen that girl? Hai visto questa bambina?” è ciò che recita il volantino con la foto di Annie che viene affisso ovunque e mostrato

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in tutti i telegiornali: le sue inconfondibili lentiggini e i capelli rossi, lunghi e ricci catturano l’attenzione di chi si trova, anche per sbaglio, a guardare le news o il cartone del latte; i suoi occhi sorridenti e dolci ispirano presto solidarietà e vicinanza. Nei giorni successivi, la polizia si trova in un vicolo cieco: dopo aver ricostruito il tragitto di Annie e del suo rapitore, le due figure sembrano sparire nel nulla all’improvviso, complice un punto cieco nella video-sorveglianza. Il rapitore non viene mai realmente identificato e i pochi sospettati si rivelano essere innocenti. Anche l’ausilio dei cani non è di grande aiuto: i due pastori tedeschi seguono le tracce di Annie solo fino a un certo punto, poi il suo odore sembra svanire nel nulla.

Nell’inverno dello stesso anno – nonostante le proteste dei Bruce – il caso viene archiviato. Le foto di Annie scompaiono dai cartoni del

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latte per essere sostituite da nuove immagini di persone scomparse più di recente. I volantini affissi in giro per le città sbiadiscono a

causa dei capricci del clima.

Nel settembre del 2011 un post su Reddit da parte di un utente chiamato “Spike975” riaccende i riflettori sulla vicenda di Annie: Spike975 ricostruisce ogni step e lo riporta all’attenzione di tutti, aggiungendo dei dettagli di cui curiosamente non sarebbe potuto essere a conoscenza, perché non divulgati. La sua ricostruzione a puntate incuriosisce gli utenti e allerta Tim e Rebecca Bruce, che si rivolgono nuovamente alla polizia per riaprire il caso e indagare su questi dettagli che nessuno avrebbe potuto sapere. La polizia esita a riaprire il caso, almeno finché Spike975 non pubblica il macabro epilogo della sparizione di Annie. Queste le sue parole su Reddit: “La piccola Annie si fidò dell’uomo come se fosse stato un amico di famiglia: i modi di lui erano gentili e dolci e la bambina alla fine lo seguì, sebbene all’inizio fosse titubante. Non presero nessun mezzo perché l’uomo sapeva che avrebbero potuto rintracciarlo.

Camminarono invece a piedi per un bel po’, finché Annie non disse di essere stanca, e allora l’uomo le comprò un gelato e rivide il sorriso comparire sul suo volto. L’uomo sapeva che c’era un punto cieco nella video-sorveglianza e lo sfruttò per intraprendere una vita, e lei non protestò, perché per qualche strano motivo si fidò

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strada che li avrebbe portati dritti a casa sua. Fu qui che le tolse la

di lui fino alla fine. E anche perché non vide arrivare il colpo di mannaia.”

Il racconto di Spike975 continua con la minuziosa descrizione dell’omicidio della piccola Annie e del seppellimento del suo cadavere: particolari chenessuno vorrebbe mai leggere. La polizia finalmente si decide a seguire questa nuova pista, ma quando

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rintraccia l’indirizzo da cui Spike975 ha postato, non trova che una vecchia casa abbandonata e una lettera con le indicazioni per trovare Annie. Il corpo senza vita della bambina viene trovato, sepolto in una vecchia cava, proprio come descritto da Spike975.

L’assassino di Annie, invece, non viene mai individuato.

Dal 2011 ad oggi, non c’è stata più alcuna novità sul caso dell’omicidio di Annie Bruce, nessun nuovo indizio capace di dar vita a nuove piste da seguire. Anche se i Bruce continuano a non rassegnarsi, sembra esserci ormai poca speranza di scoprire il nome del colpevole di un crimine così efferato e gratuito.

E questa era la storia di Annie Bruce, sei anni, scomparsa in Pennsylvania nell’estate del 2007.

sotto il letto Under the bed

written by Isabella Aquino

Edwin sapeva benissimo che non poteva esserci nessun mostro sotto il suo letto.

Da quando l’automobile l’aveva investito sulla sua bicicletta, Edwin aveva trascorso già tre giorni a letto, con le due gambe ingessate completamente immobili a causa delle fratture. La prospettiva di dover restare così per almeno un mese rendeva il piccolo Edwin triste e nervoso: lui era un bambino pieno di energia e vitalità, uscire a giocare con gli amici era una delle cose più importanti che aveva. La sua famiglia si prendeva cura di lui, naturalmente, e gli amici andavano spesso a trovarlo; eppure il suo umore non migliorava, perché non era la stessa cosa.

peggiori. Il caldo estivo lo aveva fatto sudare tantissimo, ma sua madre

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La prima giornata che aveva trascorso a letto non era stata delle

aveva trascorso quasi tutto il tempo con lui e lo stesso aveva fatto suo padre, appena tornato a casa dalla partita della domenica. Poi l’avevano raggiunto i suoi amici Sam e Darly e gli avevano portato un’enorme vaschetta di gelato al cocco e al cioccolato, i due gusti che gli piacevano di più al mondo. Avevano giocato a Indovina Chi? e parlato bene e male dei loro compagni di classe – alcuni

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erano degli eroi impavidi da seguire, altri delle mezze cartucce da evitare assolutamente se volevano diventare anche loro, un giorno, i più popolari della classe. Edwin aveva scoperto che la notizia dell’incidente lo aveva reso immediatamente il più chiacchierato della classe: era sulle bocche di tutti e le parole che rivolgevano nei suoi confronti sembravano sempre cariche di ammirazione. Il petto del bambino si riempì d’orgoglio quando Sam e Darly gli raccontarono quelle cose e la sua immaginazione iniziò a viaggiare: si vedeva già entrare trionfante in classe, con alcuni residui delle sue ferite di guerra; lo avrebbero acclamato come un eroe e avrebbero fatto la fila per lasciare una scritta o un disegno sui gessi delle gambe.

Poi arrivò il lunedì e le sue giornate iniziarono a svuotarsi

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rapidamente: i suoi genitori lavoravano quasi tutto il giorno; Sam e Darly erano a scuola la mattina e a fare i compiti il pomeriggio.

L’unica cosa che gli restava da fare era guardare un po’ di TV mentre aspettava che sua madre tornasse a preparargli il pranzo. Sbuffando, Edwin prese il telecomando e iniziò a fare zapping tra i vari canali.

Si barcamenò tra televendite e film tanto vecchi da sembrargli ridicoli, episodi di serie TV visti e rivisti e inutili programmi per bambini di massimo tre anni. Finalmente si fermò quando vide la nuova serie di Robin Hood, quella che aveva smesso di seguire perché i palinsesti erano cambiati all’improvviso e lui non era più riuscito a vederla, dato che gli episodi li davano mentre lui era a scuola. Era appena riuscito a introdursi in una storia cominciata da almeno venti minuti, quando il televisore si spense all’improvviso. Edwin si riscosse e afferrò il telecomando per provare di nuovo a pigiare un po’ tutti i pulsanti, ma nulla. La TV non dava nessun segno di vita. Sbuffò e lanciò il telecomando un po’ più lontano, sul letto.

Ora davvero non sapeva come trascorrere quelle circa due orette che lo separavano dal pranzo – e dalla compagnia di sua madre.

Non pensava che sarebbe mai successo, eppure l’assenza di sua madre iniziava a farsi sentire. Fissò lo schermo nero del televisore con tristezza, vedendosi riflesso insieme al letto su cui era costretto nello schermo della TV. Edwin si tirò su a sedere e aguzzò la vista,

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a stare. Qualcosa si mosse sotto al suo letto, nel riflesso riprodotto

concentrandosi nella parte bassa dell’immagine riflessa. Dopo qualche secondo, di nuovo vide qualcosa muoversi sotto il suo letto, e stavolta sentì anche un inequivocabile fruscio. Essendo un ragazzino molto sveglio e intelligente, prima di farsi prendere dal panico Edwin pensò che potesse essere il vento a far muovere quella cosa – qualunque cosa fosse – che c’era sotto il letto. Guardò tutte le

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finestre della sua stanza e le vide chiuse. Non importava: potevano sempre esserci degli spifferi. La vera domanda, in quel momento, era: cosa c’era sotto il letto? Fino a qualche settimana prima sua madre ci aveva messo di tutto: ogni cosa che non sapeva dove infilare andava dritta sotto i letti di casa. Una volta Edwin ci aveva guardato e ci aveva trovato vecchi album di foto, ma anche un servizio di tazzine da tè ancora nuovo, una scatola di piccole bambole di porcellana di sua nonna e dell’argenteria. Solo che – e lo ricordava bene – sua madre aveva ripulito tutti i letti circa un paio di settimane prima: aveva tolto tutto e sistemato ogni cosa al suo legittimo posto, poi aveva buttato tutto ciò che era certa non le sarebbe più servito.

Quindi, se la memoria non lo ingannava – ed era certo che non lo ingannasse –, non doveva esserci nulla sotto il suo letto, se non l’aria

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che passava e la polvere che poteva essersi depositata dalle ultime pulizie.

Allora cos’era quel fruscio che aveva sentito?

Nulla, semplicemente nulla. Non doveva badarci più di tanto. Edwin tornò a stendersi sui cuscini e fissò il soffitto per pochi secondi, poi chiuse gli occhi e decise che avrebbe fatto un sonnellino. Non seppe dire se fosse lo stato di dormi-veglia o qualcosa di simile, ma quando saltò su aveva la certezza che il fruscio udito – stavolta più forte del precedente – fosse reale. I suoi occhi andarono istintivamente allo schermo morto del televisore e il riflesso che vide non lo rassicurò per niente: una cosa informe strisciava e si contorceva sotto il suo letto, a volte sembrava un grosso serpente e a volte fumo molto denso. Con il cuore che iniziava a battere più forte e la sempre maggior consapevolezza che ciò che stava vedendo non era la sua immaginazione, Edwin si mise a sedere rintanandosi contro i cuscini, pur dovendo tenere dritte le gambe ingessate. Il fruscio si affievolì ma non scomparve. Edwin guardò ancora il riflesso nel televisore e stavolta vide due puntini rossi nello spazio sotto il suo letto. Fu molto fugace, ma il ragazzino seppe con certezza che aveva visto quelle luci rosse, simili a due occhi rotondi che lo stavano fissando, di rimando, attraverso lo schermo nero della TV. Avrebbe voluto gli mancasse il fiato. I suoi occhi palleggiavano rapidamente da

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urlare, ma il cuore era così stretto in una morsa che sembrava

un lato all’altro del letto, cercando di coprirne tutto il perimetro contemporaneamente: non voleva che nessun punto del rettangolo sotto il suo corpo restasse scoperto dalla propria vista, nel caso in cui qualcosa avesse deciso all’improvviso di sbucare fuori. Si distrasse un attimo soltanto, quando i suoi occhi si posarono sull’orologio appeso alla parete di fronte. Stava giusto calcolando il tempo

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che restava all’arrivo di sua madre quando qualcosa di viscido e freddo strisciò lungo le dita dei piedi che fuoriuscivano dal gesso, come tentacoli che cercavano di attorcigliarvisi intorno. Emise un urlo strozzato e istintivamente contrasse i muscoli per ritirare la gamba dalle grinfie di quella cosa. Le sue gambe non si mossero, naturalmente, ma non appena i suoi occhi si posarono sulle dita dei piedi, non vide nulla. Si agitò ancor di più e in qualche modo prese coscienza – qualcosa di insensato, folle, ma a quanto pareva logico – del fatto che quella creatura nascosta sotto il letto fosse libera di uscire solo quando non la guardava. Non doveva distrarsi, dunque, e mantenere il perimetro del letto nel suo campo visivo.

Ce l’avrebbe fatta, ne era certo. In fondo doveva solo resistere fino all’arrivo di sua madre.

Dopo soli dieci minuti, gli sembrò che fosse passata un’eternità.

Continuava a tenere il perimetro del letto sotto controllo, ma ogni volta che le sue pupille si poggiavano in un punto preciso del materasso, Edwin le spostava dal lato opposto, e così in continuazione, tanto che i muscoli degli occhi iniziavano a fargli male. Con gli occhi sbarrati e lo sguardo sempre vigile, Edwin udì un altro fruscio provenire dallo spazio sotto il letto, ma nulla si mosse così tanto da essere visibile.

Gli sembrava che il tempo scorresse a una lentezza disarmante, tanto più che non poteva dare un’occhiata all’orologio per sapere quanto mancasse prima dell’arrivo di sua madre. Iniziò a contare i secondi e i minuti nella sua testa, ma ben presto gli sembrò di impazzire: il silenzio che lo circondava si era riempito di numeri senza senso, e più cercava di non contare, più percepiva con forza il rumore di quei numeri. Nella sua testa non c’erano altro che numeri, adesso, e poi quell’idea.

Quell’idea che gli balenò nella testa, così innocente, così cristallina.

Così logica.

Non sarebbe successo nulla se avesse lanciato uno sguardo all’orologio. Solo una volta, una soltanto, quel decimo di secondo che sua madre arrivasse.

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che bastava per leggere l’orario e capire quanto mancava prima

Dopotutto, cosa poteva succedere in una frazione di secondo?

Le sue pupille si spostarono verso la parete dell’orologio, ma non furono mai abbastanza rapide da tornare a coprire il perimetro del letto. Accadde tutto esattamente in quella frazione di secondo: i tentacoli che prima aveva sentito si allungarono nuovamente ad afferrargli le caviglie e questa volta ci riuscirono. La presa fu salda

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ed Edwin ebbe appena il tempo di iniziare ad urlare prima di essere trascinato giù, verso lo spazio che c’era sotto il letto.

Sparì all’improvviso, trascinato nei meandri delle tenebre, quelle di cui il mostro sotto il letto si nutriva. Non lasciò traccia di sé in alcun modo, semplicemente sua madre – che tornò dal lavoro circa quindici minuti dopo il fatto – non lo vide più sul letto dove lo aveva lasciato.

Lo cercarono in ogni dove, ma Edwin non c’era più. Ipotizzarono che qualcuno lo avesse rapito, ma fu impossibile venirne a capo, perché non c’era nessuna traccia neanche di un probabile estraneo.

Restò solo il suo letto vuoto e, sotto di esso, il mostro che lo aveva preso, nascosto nell’oscurità ma sempre pronto a saltare fuori.

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Edwin sapeva benissimo che non poteva esserci nessun mostro sotto il suo letto, eppure il mostro sotto il suo letto lo trascinò via con sé

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nell’Oscurità.

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