Plot magazine 4

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annoIII/numeroquattro/aprile2005/euro5,oo

Plot storie per lo schermo/annoIII/numeroquattro/aprile2005

I FIORI DEL MONDO

CONTRE NATURE

RESISTANCES

HEARTLESS STATES

ISSN 1723-5057

storie per lo schermo

IL CASO ACNA

ADIEU JUDAS

LA FESTA DI CLAUDIA SPANZAPON A TIME

LO STERMINATORE


storie per lo schermo Rivista quadrimestrale – anno III / numeroquattro / aprile 2005 Registrazione Tribunale di Torino N°5716 del 21 luglio 2003 Direttore responsabile Alberto Barbera Redazione Andrea Bisoli Stefano Boccardo Biagio Cappiello Daniela Camisassi Roberta Di Maggio Anna Gasco Helen Jardine Silvia Teresa Olivo Tiziana Ripani

S OMMARIO Editoriale a cura della Redazione

R ACCONTI /T RATTAMENTI

Segreteria di redazione Tiziana Ripani Coordinatore Affabula Readings Stefano Boccardo Progetto grafico Antonino Varsallona Illustrazioni e storyboard Claudia Amerio (pagg. 23, 49, 79) Andrea Bisoli (pag. 49) Laura Campagnolo (pagg. 55, 63) Stefania Gallo (pagg. 33, 72) Andrea Riccadonna (pagg. 15, 41) Susanna Tiburli Marini (pag. 34)

Adieu Judas di Thierry Aguila

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Heartless States di John Lawlor

pag. 17

Lo sterminatore di Andrea Jublin

pag. 25

Spanzapon a time di Massimo Tiburli Marini

pag. 35

SOGGETTI

Copertina Antonino Varsallona Ufficio stampa e promozione Marta Franceschetti Redazione e amministrazione Associazione F.E.R.T. - programma Affabula Readings Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino Tel. +39 011 532 463 Fax +39 011 531 490 E-mail: info@affabula.it www.affabula.it www.fert.org Editore Fert Rights srl Corso Peschiera 148 - 10138 Torino

I fiori del mondo di Oumar Mamadou Ba

pag. 45

Il caso ACNA di Fulvio Montano

pag. 51

Contre nature di Yann Marquis

pag. 57

Résistances di Eric Pinoy

pag. 65

SCENEGGIATURE

Stampa Arti Grafiche Giacone sas Viale Fasano 14 - 10023 Chieri (TO) Distribuzione in libreria DIEST distribuzione Via Cavalcanti 11 - 10132 Torino Tel./Fax 011 898 11 64

©Associazione

F.E.R.T., 2005 Tutti i diritti di riproduzione dei materiali contenuti nella rivista sono riservati.

La festa di Claudia di Fulvio Bergamin

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Come inviare i vostri progetti Opzioni cercasi Dove trovare Plot

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Questo numero di Plot è nato con un’impronta precisa; per la redazione esso resta collegato ad un momento particolare che ne ha segnato la fisionomia. La sua ideazione, infatti, è nata a ridosso della seconda edizione delle “Giornate Europee del Cinema e dell’Audiovisivo”, organizzate da Antenna MEDIA Torino nel novembre dello scorso anno, a cui la nostra redazione ha partecipato: un incontro che ci ha dato l’occasione di leggere e scoprire alcune delle storie che proponiamo in questo numero di Plot. Ma non è solo questo: a livello più generale, c’è da registrare una consonanza d’intenti e di spirito con la manifestazione di novembre, che con questo numero della rivista vogliamo affermare per più di un motivo. Vero e proprio cuore dell’evento è stato il mercato dei progetti, fiction e non fiction che, con una formula innovativa per l’Italia, ha portato i produttori in cerca di nuove storie a sedersi allo stesso tavolo con gli autori. Sotto questo profilo l’evento ha rappresentato un tentativo di abbattere i muri che si creano tra chi scrive e chi produce, attraverso l’incontro e la conoscenza diretta: un’occasione preziosa di confronto libero e allargato, che spesso manca in un settore chiuso intorno a pochi autori “sicuri”, che pecca di mancanza di coraggio e che, per non rischiare, si sclerotizza troppo facilmente sui cliché del momento. Di abbattimento delle frontiere si è poi parlato nel corso degli incontri pubblici che si sono svolti parallelamente al mercato: il tema delle Giornate 2004 era la co-produzione tra Italia e Francia. È stato un modo per gli italiani di guardare più da vicino un altro mondo, un altro sistema produttivo che spesso è additato come modello perché dimostra una sensibilità più attenta al proprio mercato interno e, nelle storie che realizza, una vocazione maggiore a raccontarsi. È stata un’occasione importante per confrontarsi anche con un altro modo di scrivere. Così in questo numero abbiamo scelto quattro scrittori non italiani, provenienti da due diverse tradizioni narrative. Tre francesi e un irlandese. È un piccolo panorama che mostra altri modi di raccontare e che costituisce un invito “to spin a story”, si potrebbe dire usando una metafora, a “tessere storie”, narrazioni di immagini. Istituire un collegamento più stretto tra chi scrive e chi realizza fa parte dei nostri intenti. È un piccolo mattone del ponte che con Plot tentiamo di costruire, di contro ad una geografia discontinua, fatta di isole che non comunicano. Ancora troppi, infatti, sono gli ingorghi e gli ostacoli che si creano, nel passaggio dall’ideazione alla realizzazione e alla distribuzione di un film, rallentando o bloccando progetti in stadio avanzato di sviluppo. Forse siamo ancora lontani da un sistema equilibrato. A noi spetta però il compito di rilevare quanta vitalità ci sia in questo tipo di scrittura per lo schermo, in quante forme essa si diversifichi e quanta invenzione cerchi di trovare uno spazio di espressione.

Dedichiamo con amore queste pagine a Franco Asteggiano, presidente della casa editrice Fert Rights, che sin dall’inizio ha sostenuto l’avventura di Plot. È anche in nome di Franco che questi sogni vivono. La Redazione

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RACCONTI / TRATTAMENTI

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ADIEU JUDAS di Thierry Aguila PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: NOIR

Adieu Judas è un progetto dalle forti potenzialità, che ci cattura subito con il suo ritmo incalzante e i suoi personaggi che riflettono magistralmente i temi centrali della storia. È un noir, come lo stesso autore ama definirlo, più per le tematiche che affronta che per la piena aderenza ai canoni del genere. Un noir realista, in cui il personaggio principale si trova a fronteggiare terribili dilemmi: uccidere per sopravvivere, tradire per restare libero, mentire per non perdere le persone che ama. Egli dovrà confrontarsi con la sua morale, fare i conti con le zone d’ombra della sua vita, mettere in gioco un amore nascente, rischiare di perdere per sempre sua figlia. E dovrà farlo in fretta, perché nel suo ambiente non si riflette mai molto prima di sparare... Adieu Judas si colloca nel filone dei film noir indipendenti americani come Little Odessa o Donny Brasco, si collega al cinema sociale inglese di Raining Stones, passando attraverso film come Angela di Roberta Torre. Con alcune reminiscenze di Melville o dello Scorsese di Mean Streets e di Taxi Driver. Adieu Judas mescola una descrizione non romanzesca del mondo della mala ai rapporti complessi e toccanti di un padre e di una figlia. Il film esplora i temi della colpa, del dovere, dell’amore e della redenzione. E, evidentemente, come suggerisce il titolo, il tema centrale del tradimento. Poiché in questo film tutti, prima o poi, hanno tradito: il proprio onore, il proprio fratello, amico, amore, figlia, il proprio futuro o le proprie idee. Adieu Judas rivolge uno sguardo differente su una città del sud della Francia che ci si immagina perennemente soleggiata. Le riprese si svolgono in pieno inverno, tra mistral glaciale e notti profonde. Gli ambienti del film sono i quartieri popolari e sconosciuti, quelli della Belle de Mai, dalle tinte scure, lontani dal folklore generalmente collegato a Marsiglia e alla sua popolazione. Adieu Judas è un film spoglio, dinamico, aspro, con molta camera a mano, e una fotografia invernale che tende agli ori e ai verdi, lontana anni luce dal blu cielo luminoso che ci si immagina in questo porto del Mediterraneo. La troupe è leggera, mobile, pronta a fondersi con la città, preferendo l’immersione nella gente alla grande ostentazione del “Barnum” cinematografico. Adieu Judas è un film noir realista nel senso che non s’inventa una falsa solidarietà di classe o un illusorio codice d’onore mafioso. Ma è anche, poiché infine trionfa l’amore tra un padre e sua figlia, un film ottimista. Thierry Aguila

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Festa di Ognissanti. Cimitero che domina l’autostrada nord di Marsiglia. Una vecchia signora, Mamie Lilou, e una ragazzina di circa otto anni, Floriane, si affaccendano su una tomba che porta nome e date di una giovane donna, Céline V., deceduta intorno alla trentina. È la figlia dell’anziana signora e madre della bambina. Un uomo si avvicina. Quando l’anziana signora se ne accorge, impallidisce e, trascinando la piccola, abbandona precipitosamente il cimitero. L’uomo non accenna a trattenerle. Rimane un istante raccolto davanti alla tomba. Ha circa 35 anni, è alto e piuttosto magro. Si chiama Joseph Doukas. Joseph è su un autobus. Tutto intorno una città in trasformazione, lavori dappertutto, palazzi abbattuti, scavi, costruzioni nuove e moderne che contrastano con luoghi in semirovina. Il viso di Joseph rimane enigmatico. L’autobus si ferma. La voce dell’autista annuncia: “Belle de Mai.” Joseph scende. Joseph ritrova suo cugino Raphaël, che qualcuno chiama “lo Zoppo”; ha un negozietto di dischi e di CD d’occasione. Raphaël è invalido dalla nascita, la gamba destra non si è mai sviluppata correttamente. Per il cugino, Joseph prova un affetto e un’ammirazione senza limiti. Sono gli unici membri della famiglia Doukas ancora vivi. Sono otto anni che non si vedono. Anche se felice di rivedere Joseph, che talvolta chiama affettuosamente “Jop”, Raphaël è molto inquieto. Jo è stato in prigione per otto lunghi anni. Il suo ritorno non sembra entusiasmare nessuno... Joseph chiede a Raphaël di portarlo a pescare sul grande molo al largo, dove andavano quando erano bambini. Là, i due cugini ritornano brevemente su ciò che ha spedito Joseph in galera: è stato liberato molto prima del suo complice e amico d’infanzia, Nico Barataria, anch’egli accusato di un furto di container finito in un bagno di sangue. A causa di questa carneficina Jo ha “consegnato” il suo compagno Nico. Perché Joseph non è né un violento né un assassino. Nico si è beccato vent’anni. Joseph si aspetta quindi di dover pagare il suo debito e, come cerca di spiegare a Raphaël, è anche abbastanza d’accordo alla fine di dover pagare. Joseph ha rimuginato molto in prigione e non sopporta l’idea di aver tradito. Un vecchio residuo del codice d’onore... Nell’attesa, solo una cosa sembra interessare Joseph: rivedere la sua figlioletta, Floriane, che ha otto anni e che non ha mai conosciuto. È stato beccato quando lei aveva appena pochi mesi. La madre della piccola, Céline, è morta durante la detenzione di Joseph. Per Jo era il suo amore di gioventù, con cui intratteneva ormai rapporti di un’estrema complessità. E non era mai stato d’accordo riguardo alla sua gravidanza. Céline aveva voluto tenere il bambino ad ogni costo. Per Joseph il problema della paternità è stato risolto con otto anni di cella e di passeggiate sorvegliate, lui non ha mai visto sua figlia. Raphaël racconta a Joseph di essere stato lui a scoprire Céline, morta per overdose nel suo appartamento, con la bimba di pochi mesi che piangeva nel suo letto. È lui che ha chiesto soccorso, ma era troppo tardi. Joseph non può fare a meno di sentirsi responsabile per la morte della sua ex. Se fosse stato presente, se avesse saputo amarle, lei e la bambina... Ma Raphaël lo contraddice con veemenza: Jo non c’entra per niente, Céline era una tossica! Prima o poi avrebbe varcato il confine... Dopo la morte di Céline, Floriane è stata allevata dalla nonna materna che ne ha ottenuto l’affidamento. Mamie Lilou vede di cattivo occhio il ritorno di colui che ha sempre ritenuto colpevole delle disgrazie della figlia. Soprattutto non vuole che Floriane lo incontri. Al primo tentativo di rivedere la sua piccola, Joseph si fa cacciar via aspramente dall’anziana signora.

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Malgrado l’atmosfera opprimente che circonda il suo ritorno, malgrado gli sguardi di traverso che incrocia per strada, Joseph non cerca di lasciare il quartiere. Persino Figure, un tossico della zona, lo affronta chiedendogli se è tornato per provocare. Joseph non risponde. Ogni mattina si reca al lavoro: una ditta di torrefazione di caffè, le Brûleries Messaoud, nella zona del porto. Joseph non ha scelto questo lavoro, è la sua libertà condizionale che lo obbliga. Un lavoro ingrato e fastidioso, ma che non sembra dargli noia più di tanto. Incontra il padrone della ditta, Messaoud, con il quale a poco a poco si stabilisce un’amicizia e una stima reciproca. Pian piano la situazione con Floriane evolve. Grazie all’intervento di Raphaël, Mamie Lilou finisce per accettare di malavoglia che la bambina veda suo padre. Floriane trascorre un intero sabato pomeriggio con Jop. Su suggerimento di Raph, Joseph porta la piccola a visitare il castello d’If che non ha ancora visto. Là, Joseph affronta nella vecchia prigione la sua fobia della reclusione e le domande serrate della sagace figlioletta. E poi Joseph ottiene dalla nonna l’autorizzazione per andare a prenderla a scuola, ma solo di tanto in tanto. Joseph incontra così Claire, la maestra di Floriane. Una giovane donna come non ne ha mai conosciute, una donna che vive lontana anni luce dal suo universo di malavitosi, avanzi di galera, ladri e aggressori a mano armata. Originaria del nord della Francia, figlia di notabili, le è stato assegnato un posto in quello che lei chiama, con gioia, il Sud. Claire è convinta che Joseph sia spesso assente a causa del suo lavoro sulle piattaforme petrolifere. Una menzogna nata dall’immaginazione di Floriane. Fedele al suo silenzio, alla sua discrezione, Joseph si guarda bene dal confessarle che non ha mai lavorato su una piattaforma. Le sole piattaforme che conosce sono quelle delle torrette di sorveglianza che sovrastano il cortile della Centrale di Luynes. Tra lui e la giovane maestra sta sbocciando una storia d’amore. Ma il Capo locale, il “Boss”, colui che chiamano con deferenza Monsieur Barataria, non resta a lungo senza agire. Figure, il tossico, gli ha puntualmente riferito del ritorno del traditore. Una sera Joseph viene fermato all’uscita dal lavoro dagli uomini di Barataria, Boule e Lambretta, che lo scortano immediatamente dal Boss, nel bar tabacchi con banco scommesse che è il suo quartier generale. Il Boss che tutti temono se ne sta in fondo al bar, davanti alle slot machine. Indossa una tuta fuori moda e delle scarpe da ginnastica sformate. Niente a che vedere con l’immagine che si ha di un padrino! Piuttosto quella di un francese medio, un vero coglione... D’altronde Barataria non si esprime né si comporta come un malavitoso ma piuttosto come un uomo alle prese con un dilemma. Perché per lui è meglio che suo fratello Nico stia in galera! Nico era diventato un tipo pericoloso, un assassino! Presto o tardi, Barataria avrebbe dovuto occuparsi del suo caso. Questo genere di affari di famiglia è sempre delicato... Ma Joseph ha spifferato, lui ha tradito. E, come dice un vecchio proverbio rumeno, “Quand’anche la morte di Cristo fosse stata inevitabile, Giuda sarebbe stato comunque un traditore.” Dunque Barataria non può lasciar correre. Ne va del suo onore, della sua autorità! Malgrado ciò che alcuni credono, il vecchio codice d’onore della mala non è morto... Barataria però prende tempo. Ha bisogno di riflettere. In ricordo degli anni in cui ha conosciuto Joseph bambino, sta pensando ad una soluzione “alternativa” alla semplice e veloce esecuzione. Una spada di Damocle sulla testa di Jo! Passano alcuni giorni. La pressione su Joseph aumenta. Raphaël lo supplica di lasciare Marsiglia, gli ha anche scovato una barca che parte per destinazioni esotiche. La figlia Floriane lo pressa, vorrebbe vederlo di più, perfino vivere con lui. Cosa che Mamie Lilou non vuole nemmeno sentire. Con l’anziana signora i rapporti sono tesi. Lei minaccia di non fargli più vedere la bambina

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“se non le toglie queste idee dalla testa!” E poi c’è Claire... La giovane maestra rivede spesso Joseph quando lui va a prendere Floriane. Nel corso della festa di Natale della scuola, dove Joseph ha accompagnato la figlia, lei lo avvicina. Parlano a lungo. E siccome Joseph non sa cosa fare la sera della vigilia di Natale, Claire lo invita a casa sua. Ma c’è dell’altro. Anche la polizia è addosso al povero Jo. Nella persona del Commissario Morisot. È lui che ha arrestato Nico, otto anni fa, e adesso vuole la testa del maggiore dei Barataria, la pelle del suo nemico intimo, quello che non è mai riuscito ad inchiodare. Lo vuole a qualunque prezzo! Il poliziotto sembra aver sviluppato un’ossessione nei confronti di Barataria. Morisot ha escogitato un piano, un piano alla sua maniera, molto contorto, molto furbo... Joseph sarà la sua talpa. Per pagare il suo debito e in cambio avere salva la vita, Joseph dovrà proporre a Barataria un affare incredibilmente lucroso. Un affare che Morisot gli offre chiavi in mano. Una sola condizione: Joseph dovrà sbrigarsela affinché Barataria entri in possesso del bottino del colpo. Del denaro marchiato. Joseph non ha scelta: o segue il piano o Morisot gli farà saltare la libertà condizionale. Joseph è con le spalle al muro. Per rimanere libero, deve tradire ancora una volta! La sera della vigilia di Natale, nell’occhio del ciclone. Claire ha invitato degli amici intimi. La mescolanza di piccoli borghesi con un ex-galeotto è esplosiva. Joseph si avvicina a due cinefili che confessano una passione cieca per le sparatorie dei film di Hollywood o di Hong Kong. Lui che ha vissuto le sparatorie da vicino non può fare a meno di intervenire. Con una veemenza e un’aggressività che gelano l’atmosfera della serata... Quando gli amici vanno via, Joseph e Claire rimangono soli. E fanno l’amore... La donna è affascinata da Jo. Gli fa domande a proposito del suo intervento sui film di gangster. Lei sospetta che Joseph le stia nascondendo un segreto. Ma la giovane donna è tenace. Jo non è mai riuscito a parlare con nessuno di ciò che accadde quella sera. E a quel punto strappa ogni parola della sua confessione alla sua memoria. Un colpo facile, un container pieno di materiale hi-fi, un lavoro di lusso. Il deposito doveva essere deserto. Ma Joseph e Nico si sono imbattuti nel guardiano e nella contabile della ditta, una madre di famiglia che stava facendo gli straordinari. Nico ha estratto la pistola. Joseph non ha potuto far nulla per impedirgli di sparare! Due morti... Quattro orfani. La fuga è durata due giorni. Nico sembrava pazzo. Parlava di finire con le armi in mano! Joseph ha avuto paura, è crollato. È andato alla polizia. Nico si è beccato vent’anni, senza sconti. Joseph solo otto. Claire accusa il colpo. Joseph è a disagio, vuole andarsene. Claire lo trattiene. Per lei, lui non ha fatto nulla di male. Non è lui che ha sparato. Ha fatto bene a parlare ai poliziotti. Joseph ripete quest’ultima frase con amarezza: “Fatto bene a parlare ai poliziotti...” L’indomani, 25 dicembre, l’ambiente marsigliese è scosso da violenti avvenimenti. In un bar della zona controllato dal racket scoppia una breve sparatoria. Un uomo viene ucciso. Uno dei sicari di Barataria. Quest’ultimo è furioso. Sa chi ha ordinato il colpo: Kaddour, un giovane boss delle periferie, la cui influenza continua a sconfinare sul suo territorio. Barataria è deciso a non lasciare impunito l’affronto. Da parte sua Joseph, sempre più teso, attraversa un periodo burrascoso, litiga con Raphaël che lo supplica di partire, si avvicina nuovamente a Mamie Lilou per la bambina. Peggio ancora: le informazioni che ha avuto dal suo avvocato riguardo a Floriane non lasciano presagire nulla di buono. Sarà molto difficile per l’ex-galeotto ottenere l’affidamento della figlia. È a questo punto che Barataria torna al suo proposito. Passa a prendere Joseph all’uscita dal lavoro e lo porta a cena. Questa volta Barataria indossa un

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completo elegante e, ovunque passi, tutti gli manifestano una servilità senza limiti. È il Barataria delle grandi occasioni, quello che regna incontrastato sulla città sotterranea. Arrivati al dessert, Barataria propone un accordo molto semplice: se Joseph uccide Kaddour, lo stronzetto dei quartieri nord, sarà salvo. Kaddour regna sui traffici di droga e sui furti e da qualche mese si è montato la testa. Non esce quasi mai di casa, vive circondato da uomini armati, è temuto come la peste. Nessuno è mai riuscito ad avvicinarlo. Jo ha 90 possibilità su 100 di rimanerci. Ma è abbastanza intelligente per trovare una falla per avvicinare Kaddour. È così o gli faranno la pelle, subito. Joseph cerca di argomentare: lui non è un assassino, non hai mai sparato a nessuno. È anche per questo che ha tradito Nico... Barataria rimane inflessibile. Il tradimento di suo fratello è un debito di sangue, da regolare con il sangue! Joseph ha un mese per agire. Se dopo un mese Kaddour è ancora al mondo, Barataria saprà che lui e Joseph hanno ancora un conto in sospeso e Monsieur Barataria non lascia mai conti in sospeso... La minaccia è più che chiara. Obbligato ad agire, Joseph si mette a sorvegliare Kaddour da lontano, ma il giovane boss sembra irraggiungibile. Costantemente circondato, vive in un mondo di pura paranoia. Joseph cerca allora di procurarsi un’arma. Impresa difficile. Nessuno vuole rifornire una spia. È Barataria che gli fa arrivare una pistola. Boules e Lambretta consegnano un’arma a Jo, accompagnata da qualche sberla da parte di Barataria. Un modo per dirgli “non ti perdo di vista, so dove sei, so cosa fai... e ti sorveglio.” Incalzato dal tempo, Joseph è obbligato ad elaborare un piano per eliminare Kaddour. Ma l’uomo è impossibile da avvicinare. Ogni sera, all’uscita dal lavoro, Joseph sorveglia il giovane boss. Finisce per riconoscere qualcuno del suo giro: Figure, il tossico. Joseph lo pinza, gli confisca le dosi che si è procurato e lo torchia per bene. In cambio promette di ridargli la sua polvere e un po’ di soldi. Figure finisce per dargli l’informazione che Joseph sta cercando: una volta alla settimana, la domenica a pranzo, Kaddour va a mangiare dalla madre. Dal momento che quest’ultima non sopporta gli scagnozzi del figlio, questi lo aspettano al pianterreno del palazzo. Tra l’entrata del condominio e l’appartamento della madre, Kaddour è solo! Joseph prende Figure per il collo: “Se qualcosa va storto, saprò che è colpa tua, e io non lavoro per me ma per Monsieur Barataria. Quindi stai attento...” Il tossico scuote la testa, spaventato. Una sera, quando Joseph lascia il lavoro, Messaoud gli chiede di andare nel suo ufficio, deve parlargli. Messaoud gli propone di assumerlo quando avrà finito la libertà condizionale... Messaoud ha bisogno di un caporeparto e Joseph, con la sua capacità organizzativa, sarebbe la persona ideale. Se accetta, Messaoud gli offre un salario di 1.000 euro netti. Joseph esplode! 1.000 euro! È quello che scialacquava in una serata prima della galera! Messaoud cosa crede?! Che ha vissuto così fino a quarant’anni per finire in uno squallido magazzino a bruciacchiare caffè? Un’esplosione improvvisa di violenza. Messaoud è sconvolto. Joseph lascia l’ufficio di Messaoud, folle di rabbia e di frustrazione. Qualche minuto più tardi, Joseph ritorna nell’ufficio. Si scusa. Non è contro Messaoud che è furioso, è contro... contro... pfff... Joseph fa un gesto d’impotenza. Ringrazia Messaoud per la sua offerta. Va via, lasciando un Messaoud triste e inquieto. Joseph, disorientato, tergiversa. Pulendo l’arma in modo ossessivo, ripensa alla sanguinosa sparatoria con Nico. Rivede il guardiano e la contabile crollare nel sangue. La fuga sfrenata nella città, le orecchie piene del fragore dell’arma, le narici bruciate dalla polvere da sparo. Ma l’immagine che

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ritorna è quella della contabile, la madre di famiglia, bambola spezzata sul pavimento del deposito. Bussano alla porta: Claire. Joseph tenta di nascondere maldestramente l’arma ma la donna la vede. È lo scontro. Incalzato dalle domande, messo con le spalle al muro, Joseph racconta tutto: i traffici di Barataria, le pressioni della polizia... Claire è terrorizzata da ciò che sente. Lo supplica di partire, di prendere Floriane e sparire. Joseph rifiuta, non è così semplice, ha un debito... Claire è furiosa: ucciderà per pagare questo debito?! Questo significherebbe tradirsi! Perché è adesso che lui tradisce! Accettando di uccidere mentre ha rifiutato la violenza quando Nico ha ucciso il guardiano e la contabile!!! Claire lo rimprovera di compiacersi di queste storie. Per lei, lui vive in un mondo di ragazzini, di cow-boys e d’indiani, con questo codice d’onore idiota, questi debiti, queste vendette. L’unica cosa che deve contare è Floriane, sua figlia! Lei è il futuro, la vita, la speranza! E anche l’occasione per voltare le spalle a questo mondo violento e imbecille. Joseph è fuori di sé, come può capire tutto questo lei che è cresciuta nei bei quartieri, che ha avuto tutto, genitori, soldi, affetto? Siamo a Marsiglia, qui! Spia! Giuda! Traditore! Ci sono parole che hanno un significato particolare! Parole che bruciano come frustate! Lui viene da lì, da questo mondo, senza famiglia, con della gente come Nico che è stato più di un fratello per lui! Non si fugge dal proprio passato così, schioccando le dita! Claire lo fissa un istante prima di dirgli che si sbaglia, che si può cambiare la propria vita proprio così! Ma che bisogna anche volerlo! Va via, profondamente scossa. Joseph rimane seduto davanti alla finestra a rimuginare su cupi pensieri. Quando torna, Raphaël lo trova lì, seduto al buio. Nonostante le domande inquiete dello Zoppo, Joseph non vuole dire niente. Non ti riguarda... Raphaël esplode anche lui. Per tutta la vita ha sentito queste parole, “non è roba per te”, “non impicciarti!” Joseph e Nico non hanno mai voluto portarlo nelle loro spedizioni! Non avevano bisogno di un invalido, eh?! Lo Zoppo è un peso morto! Sfinito dalla valanga di rimproveri che ha subito in poche ore, Joseph se ne va sbattendo la porta. Si fa giorno sulla Marsiglia fredda e ghiacciata di gennaio. Joseph vaga senza meta nella zona del porto industriale, tra terreni incolti e grandi lavori. In tasca, questa pistola che sembra bruciargli attraverso i vestiti. Le parole di Claire risuonano nella sua testa. Si decide, qualcosa si è chiarita nel cranio... I suoi passi finiscono per condurlo all’Evêché, sede della polizia municipale. Nel suo ufficio, il commissario Morisot è sovreccitato nell’apprendere che Joseph è pronto ad eseguire il suo piano. Esultando, gli svela minuziosamente i dettagli. L’incasso dell’ippodromo della città! L’ippodromo riapre dopo una ristrutturazione completa. E il sistema di sicurezza non è ancora messo a punto. La sera, dopo la chiusura delle corse, il denaro verrà momentaneamente depositato in una stanza blindata, in attesa che arrivi a recuperarlo il camion portavalori. Un poliziotto è incaricato di sorvegliare il posto in questo arco di tempo. Ci sarà circa un quarto d’ora di intervallo. Il tempo sufficiente ad agire per un uomo determinato. Joseph è sconcertato: la stanza è protetta, inespugnabile, poi c’è la guardia...! Morisot ridacchia. La stanza è solo una “scatola di cartone” se si possiedono i codici di apertura della porta, e i codici Morisot li ha annotati sul foglio che consegna a Joseph! Sopra c’è tutto, la pianta dell’ippodromo, i diversi accessi, la collocazione della stanza blindata. Quanto alla guardia, se ne occuperà Morisot. Niente armi, niente sangue! Un lavoro su misura per Joseph. Ma attenzione! Che non si azzardi ad imbrogliarlo! Morisot sarà là a controllare l’operazione! La cosa più importante di tutte: il denaro deve arrivare a Barataria insieme alle ricevute delle carte di credito e ai biglietti vincenti! Morisot deve pinzare quella carogna con le mani sui bigliettoni! I due si squadrano.

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Morisot, sospettoso, conclude su un tono di velata minaccia: “Siamo legati adesso, Joseph. Io ho montato il colpo, tu lo esegui. Se ti fai prendere, mi faccio prendere anch’io. Quindi non t’azzardare a tradirmi, non ti lascerò mai parlare.” Joseph annuisce. OK. Tra due giorni, domenica prossima. Domenica sera... Joseph cerca di rivedere Claire. La avvicina mentre lei esce di casa. La donna si mostra di una freddezza estrema. Non vuole parlare a Jo finché non sarà cambiato. Qualcosa nel comportamento della donna lascia pensare che qualcosa si è rotto fra loro. Che tra lei e Joseph c’è un mondo che nessuno dei due avrà la forza di varcare. Joseph, sconvolto, sembra sprofondare in una depressione profonda. Si rifugia in un hotel della città in preda ai peggiori tormenti. Da parte sua Raphaël è molto inquieto. Non sa dove sia suo cugino ma sospetta che un dramma stia per accadere da qualche parte. È Figure, il tossico, che gli fa luce. Figure è in astinenza. È venuto a supplicare Raphaël affinché gli trovi qualcosa. Non si capisce bene perché Figure chieda questo allo Zoppo... Raphaël rifiuta. Allora Figure contratta. Se mi aiuti, ti dico cosa sta per fare Joseph. Raphaël è sconcertato. Poi accetta. “OK, parla...” “Tuo cugino accopperà Kaddour! E so anche dove e quando!” Joseph è ai giardini dove porta di solito Floriane quando Mamie Lilou acconsente a lasciargliela. Osserva sua figlia da lontano mentre si diverte con altri bambini della sua età. I bambini sono vestiti con colori vivaci, lanciano grida di gioia. L’anziana signora, seduta su una panchina, parla con delle mamme. Un raggio di sole illumina la scena. È come un’immagine al rallentatore sulla felicità, come una promessa di primavera. Joseph si riprende e gira le spalle al bel quadretto. Non è un sogno per lui. Da parte sua, Raph, spinto dall’angoscia, setaccia la città alla ricerca del cugino. Jo è introvabile e lo Zoppo non sa più cosa fare. È sabato sera. Raph sa che l’indomani Kaddour andrà a pranzo dalla madre... Domenica a mezzogiorno. Una grossa Golf sgargiante parcheggia davanti a una casa popolare nuova di zecca. Scendono due tizi, scrutano rapidamente i dintorni. Niente da segnalare. Un uomo sguscia dall’auto: Kaddour. Entra nel palazzo, i suoi due uomini si appostano in macchina, in attesa. Kaddour prende la scale, disdegnando l’ascensore. Ai piani più alti una mano svita la lampadina che illumina il terzo pianerottolo. La tromba delle scale è buia. Quando Kaddour arriva al terzo piano, ha un’esitazione per l’oscurità del posto. Percepisce un movimento nella penombra. Sesto senso, tira fuori la pistola. Sparano prima di lui. Geme, e spara. Un lamento in risposta. Un altro colpo su Kaddour. Lui cade a terra. Qualcuno si precipita dal piano superiore. È Joseph, con la pistola in mano! Non è lui che ha sparato! Riconosce Kaddour già morto. Si china sull’altro che ha sparato. Raphaël! Lo Zoppo è livido, sanguinante, ma trova la forza di sorridere al cugino. Passi concitati sulle scale. Gli uomini di Kaddour! Joseph trascina suo cugino ai piani superiori. Un grido. Hanno trovato il cadavere del boss. Salgono verso di loro. Uno sparo. Joseph fa fuoco a caso. Le pallottole rimbalzano sul cemento. Tra uno sparo e l’altro si avverte il respiro affannoso dei tiratori. È un momento allucinante, con i colpi di fuoco che rischiarano con dei flash la penombra, il rumore che risuona in quella gabbia di cemento. Niente affatto spettacolare, piuttosto qualcosa di lento, denso e velenoso. Ancora un ultimo scambio di pallottole. Poi delle grida in arabo. Infine il silenzio. I tizi se ne vanno portando via il corpo di Kaddour. Joseph si carica Raphaël sulle spalle. Lasciano il palazzo nel momento in cui delle persone cominciano a far capolino dalle finestre.

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La macchina di Raphaël fila a tutto gas verso il pronto soccorso. Sul lato del passeggero, Raphaël geme. Perde sangue. Jop al volante rischia insensatamente. Raphaël lo dissuade dall’andare in ospedale: “È troppo complicato da spiegare e gli sbirri ci piomberanno addosso.” Joseph urla, pazzo di rabbia, di inquietudine. Insulta il cugino. “Perché lo hai fatto?!” Raphaël cerca di calmarlo, ha male, cazzo se ha male! Supplica Jop di portarlo sul molo, là dove andavano a pescare quando erano ragazzini. Joseph si rifiuta, bisogna trovare un medico. Raphaël sorride malgrado il dolore: “Un medico, dove vuoi trovare un medico?! Il molo, Jop! Per una volta nella tua vita fai quello che ti chiedo!” La macchina è parcheggiata sulla punta estrema del grande molo che sbarra il porto industriale. Sono seduti entrambi in macchina. Dentro c’è sangue dappertutto. Un sangue scuro, vischioso, terrificante. Raphaël parla pacatamente, non ha detto tutto a Joseph quando gli ha raccontato della morte di Céline... Joseph lo guarda, sconcertato. “È a causa mia che è morta.” Joseph scuote la testa, incredulo. “Sono io che la rifornivo. Io... non sono mai riuscito a confessartelo...” Raphaël si scusa, vuole che Jop lo perdoni. Joseph stringe il cugino tra le braccia. Piange. Raphaël continua e quello che racconta è come il suo sangue che scorre: emorragia di disperazione. Joseph non l’ha mai saputo, ma Raphaël è stato un tossico per parecchi anni. Come tutti i tossici, ha spacciato per avere le sue dosi quotidiane. Uno dei suoi clienti più fedeli era Céline. Lui la riforniva già al tempo in cui stava con Jop! Un giorno gli è arrivata questa polvere tagliata. Sapeva che era tagliata male... ma cazzo, doveva vendere, prendere anche lui la sua dose, perché il dolore dell’astinenza è ancora più forte di questo dolore nelle budella! Ne ha venduto una bustina a Céline senza dirle di fare attenzione. L’indomani, quando è tornato, Joseph sa già quello che Raphaël ha trovato... Silenzio. Poi: “Ti dovevo questo, Jop, sono io che ti ho portato via Céline. E non potevo lasciare che Floriane diventasse orfana...” Raphaël tace. Guarda Joseph. Si direbbe che lo Zoppo stia meglio, che stia per alzarsi, uscire e allontanarsi sul molo zoppicando. Invece no, mette la mano sulla spalla di Jo: “Vattene.” Joseph non sa cosa fare. Raphaël lo spinge, gli mostra la pistola che non ha smesso di stringere: “Per gli sbirri è una storia fra trafficanti... Tiratene fuori!” Ippodromo di Marseille-Borély, pomeriggio tardi. Il pubblico freme d’impazienza sull’ultima corsa. Una figura risale il settore centrale della tribuna. Joseph. Si è lavato, cambiato. È vestito di scuro. Sulle spalle uno zainetto di nylon nero. Non si siede, scruta la vigilanza. Laggiù, vicino alle barriere, un uomo scambia uno sguardo di intesa con lui: il Commissario Morisot. L’ultima corsa termina tra le imprecazioni degli scommettitori delusi. Joseph scende dalle tribune. Seguendo le indicazioni sulla piantina di Morisot, trova la porta nascosta di accesso. Un corridoio. Un armadio. Joseph si infila nell’armadio a muro ingombro di pannelli luminosi e di fili elettrici. Spia dall’interstizio della porta. Tre uomini portano una cassa. Apertura di porta, chiusura. Gli uomini vanno via. Resta solo il poliziotto. Il poliziotto di guardia che non si muove mai! Un istante immobile. Un istante in cui non succede niente, in cui gocce di sudore imperlano la fronte di Joseph. Il poliziotto è sempre là. Cazzo, ma cosa fa Morisot! Una chiamata sul walkietalkie del poliziotto. Un rumore impercettibile dall’armadio. Il poliziotto si smuove, lascia la sua postazione. Joseph esce dall’armadio, si avvicina alla porta blindata, compone febbrilmente il codice. Un interminabile secondo di attesa. Poi la porta si apre con un sospiro di sollievo. Joseph si precipita, la cassa metallica è là. Dal suo zainetto di nylon nero, Joseph tira fuori con calma un solido piede di porco.

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La macchina di Joseph risale l’Avenue du Prado, si ferma rispettosamente al semaforo rosso. Un drappello di macchine della polizia con lampeggiatori e sirene urlanti si precipita verso l’ippodromo. Joseph dà un’occhiata allo specchietto: su un’auto dietro di lui, il viso di Morisot. Il poliziotto gli sta sempre alle calcagna. Joseph e la macchina che lo segue arrivano alla Belle de Mai. Si fermano davanti al Chiquito, il bar di Barataria. La carretta di Morisot si ferma qualche metro più avanti. Secondo il loro piano, quando Joseph uscirà, toccherà a Morisot agire. Come ha spiegato l’altro giorno, gli basterà chiamare dei rinforzi che arriveranno in tre minuti e lui beccherà Barataria con le mani nel sacco. Joseph entra nel bar, con lo zainetto di nylon nero a tracolla. La sala è deserta. Al banco Barataria sta contando le monetine che ha estratto dalle slot machine. Come la prima volta, il Boss accoglie Joseph quasi con cortesia. Barataria passa dietro al bancone e offre un bicchiere a Joseph. Sembrerebbe un tranquillo aperitivo tra due vecchi amici. Barataria rompe l’incantesimo. È al corrente di Kaddour. Sa anche di Raphaël. Le notizie corrono... Il Boss si accende pensieroso una sigaretta. Non sa se deve ritenere Joseph sdoganato dal suo debito. Dopo tutto non è lui che ha fatto il lavoro! Joseph non dice niente. Posa lo zainetto sul bancone. Barataria lo guarda perplesso ma senza perdere la calma. “Cos’è?” Joseph apre la borsa. Mazzette di banconote nuovissime. Barataria scuote la testa flemmatico. “È per me?” Joseph alza le spalle, impassibile. “È da vedere.” Barataria lo guarda a lungo. Poi sorride, lancia un’occhiata al bicchiere vuoto di Joseph. “Te ne verso un altro?” Joseph esce dal bar, chinandosi per passare sotto la saracinesca. Non ha più il suo zainetto nero. Poco distante, acquattato nella sua bagnarola, Morisot è inchiodato nell’attesa. Joseph gli fa un segnale complice: è tutto OK. Il poliziotto, eccitato, impugna immediatamente il microfono della sua radio per chiamare i rinforzi. Joseph sale sulla sua macchina e abbandona il campo. Morisot, troppo eccitato per aspettare i rinforzi, irrompe nel bar, arma in pugno. Barataria è al fondo del bancone, sorseggia pensieroso un bicchiere. Davanti a lui lo zaino nero. Morisot si precipita sulla borsa. Port Autonome di Marsiglia. Un cargo è al fondo di un molo deserto. Un vento freddo spazza le banchine vuote del porto industriale. Joseph si ferma un momento, esitante. Poi si infila tra due container e afferra il suo borsone da viaggio nascosto là. Estrae qualcosa dalla giacca. Mazzette di banconote, euro nuovissimi e fruscianti che ficca nel borsone. Se lo mette in spalla e si dirige verso la passerella del cargo. Bar Chiquito. Morisot è furioso. Lo zaino nero è vuoto! Joseph lo ha fregato! Prende la pistola, la punta in faccia a Barataria... Il Boss sorride dolcemente. Morisot non avrà mai le palle... È per questo che Barataria ce l’ha in

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pugno. È per questo che Morisot continuerà a lavorare per lui, a passargli le informazioni, a leccargli i piedi. Morisot è livido di rabbia. Arma il cane della pistola. Barataria, impassibile, alza le spalle. Da lontano si sentono le sirene della polizia avvicinarsi, frenano davanti al bar. I due uomini si fissano. Poi il pollice di Morisot riabbassa il cane della pistola. È sconfitto. Monsieur Barataria alza il bicchiere in un brindisi ironico: “Non è facile cancellare il passato, eh? Cambiare ciò che si è...” Da un’altra parte, Joseph scuote la testa, come se avesse sentito la risposta. Un sorriso triste, una sirena da nebbia saluta la città. Il cargo si allontana dal molo, prende il passaggio che porta al largo. Festa di Ognissanti, un anno dopo. Mamie Lilou e Floriane, chine sulla tomba di Céline. Finiscono di pulirla, poi si occupano di un’altra, più recente, sulla quale si può leggere Raphaël Doukas. C’è un medaglione con una foto. Quella di Raph. Con la sua eterna aria imbronciata, accigliata. Un rumore di passi sulla ghiaia, dietro di loro. Si voltano. È Joseph. Sorride timidamente. Floriane si precipita, urlando “Jop!” Le persone intorno si voltano con aria di rimprovero. Mamie Lilou non si muove. Impavida. Joseph fa un passo verso la tomba di Céline. Vi depone un mazzolino di fiori. La figlia e il padre si girano verso l’anziana signora. Rimangono immobili, fianco a fianco. Come ad attendere un verdetto. Mamie Lilou sospira a lungo, con l’aria di chi ha fatto ciò che poteva. Scuote la testa... Floriane l’abbraccia, la stringe a lungo. Poi raggiunge il padre. Joseph e Floriane si allontanano. Per la prima volta si prendono finalmente per mano. Mamie Lilou si sfrega gli occhi pieni di lacrime. Quando li riapre, padre e figlia non ci sono più. Si volge allora verso la tomba di Raphaël. Sulla foto, lo Zoppo sembra sorridere.

Thierry Aguila (43 anni), dopo aver scritto e realizzato diversi documentari (tra i quali L’Olympique des Marseillais), cortometraggi (Le ressac, Ma grandmère fait du vélo) e numerose fiction per la televisione francese in qualità di sceneggiatore (Franck Riva, Mort d’un juge, Le Camarguais, Justice de femmes,...), sta sviluppando il suo primo lungometraggio intorno a temi che gli sono particolarmente cari: la Speranza, il Destino, l’Ambiente e Marsiglia.

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“L’uomo non accenna a trattenerle. Rimane un istante raccolto davanti alla tomba. Ha circa 35 anni, è alto e piuttosto magro. Si chiama Joseph Doukas.”

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HEARTLESS STATES Il Road Movie che metterà fine a tutti i road movies di John Lawlor

PROGETTO PER UN FILM-DOCUMENTARIO GENERE: SPERIMENTALE

John Lawlor ha scelto di dare via libera al suo immaginario, sfidando ogni regola di struttura drammatica e di genere, per raccontarci il mondo in cui viviamo, in bilico tra razionalità demenziale e anarchia ragionata. In questo suo “manifesto”, che unisce elementi del documentario, del road movie e del reality (surreality) show, seguiamo le avventure donchisciottesche di due personaggi fittizi /reali, zigzagando attraverso le strade dell’Europa, per scoprire il sogno dell’autore. Potete condividere o no il punto di vista esposto, ma il messaggio è talmente preciso e particolare da rendere il progetto affascinante e divertente.

Heartless States nasce da una mia idea per un documentario sull’epidemia di suicidi maschili che si verificò in Gran Bretagna nel 1994. Svolsi alcune ricerche e scrissi qualche trattamento, ma il documentario non fu mai realizzato. L’interesse per l’argomento tuttavia non venne meno e il lavoro svolto con alcune organizzazioni non governative negli anni successivi mi vide impegnato sul fronte ecologista e, in particolare, sul fenomeno del surriscaldamento globale. A questo si aggiunga un personale senso di fallimento in seguito a un divorzio e si avranno tre degli argomenti chiave dell’attuale progetto. Il quarto si è semplicemente presentato come veicolo per gli altri tre: l’automobile, che da tempo amavo, e la sua velocità. Heartless States intende promuovere l’idea che vale la pena rallentare il ritmo della vita in tutte le sue manifestazioni. Eliminando l’auto dalla nostra cultura, i giovani potrebbero avere la possibilità di sperimentare una vibrazione della vita più naturale di quella completamente innaturale che stiamo vivendo oggi. Questa vibrazione innaturale a mio parere chiude i muscoli protettori del cuore in modo permanente, impedendoci di vivere “a cuore aperto”, quella speciale condizione da cui ha origine il nostro sentire. John Lawlor

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Una Chevy decappottabile corre su un rettilineo nel deserto del Mohave. La voce fuori campo di un anziano Indiano d’America dice: Immagina di guidare una decappottabile... Aaammerrricaa... Un’auto veloce. Vento nei capelli mentre la vita ti sfreccia addosso... La tua ragazza è seduta accanto. Proprio accanto, è con te fino in fondo... rendo l’idea? Dentro la macchina una giovane coppia stilosa. Vento, rombo del motore e, in sottofondo, musica dall’autoradio. Il motore vibra. L’auto vibra. Vibrate entrambi, insieme, fa caldo, andate forte, vibrate insieme, vi unite. All’improvviso il motore muore, l’auto rallenta e si ferma. Serbatoio vuoto, niente benzina, niente velocità, niente potenza. Un gruppo di Indiani d’America a cavallo osserva da un’altura vicina. Il capo si volta verso la camera e, sorridendo, dice: Il tuo incubo... il nostro sogno. Voltandosi, lancia un urlo di guerra e guida il gruppo all’attacco dell’auto, non degli occupanti. Centinaia di tomahawks, lance, frecce e coltelli rimangono conficcati nel metallo. Stridore di lamiera, dissolvenza. Dublino: nelle vie congestionate dal traffico delle ore di punta, due automobilisti che hanno appena avuto un incidente scendono infuriati. Di nuovo nel deserto: il guidatore e la sua bionda compagna sono soli nella decappottabile distrutta, immersi nel silenzio. Torna la voce fuori campo del capo Indiano: Serbatoio vuoto, silenzio, immobilità, impotenza. I vostri dottori dicono che per realizzare i sogni dovete affrontare le vostre paure. Così gli incubi se ne vanno. E se non le affrontate? Allora è l’incubo che diventa realtà. Cielo notturno del Texas squarciato dalle fiamme che una ciminiera prende improvvisamente a sputare, illuminando sullo sfondo pompe petrolifere in azione a perdita d’occhio, mentre una coppia di anziani su sedie a dondolo nella veranda della loro baracca di legno, muti, guarda fisso in camera. Di nuovo nelle vie di Dublino, sorvoliamo le teste dei due litiganti puntando verso un cartellone e una lunga fila di giovani davanti a un grande edificio. Sul cartellone, la scritta “Il supremo Road Movie. Casting oggi.” All’interno dell’edificio una società di produzione sta facendo provini per trovare la persona che guiderà l’auto ne Il supremo Road Movie. Trovano un possibile iniziando, non un vero attore, che chiamano Viaggiatore, e gli forniscono informazioni sul lavoro. Non si tratta di un road movie in senso stretto, bensì di un documentario, e lui non avrà un personaggio da interpretare né battute da recitare. Anzi, vogliono esattamente il contrario: per contratto sarà tenuto a guidare un’auto verso una meta a lui ignota impegnandosi a mantenere il più assoluto silenzio. Dovrà sempre essere se stesso. Lungo il percorso vedrà delle cose e incontrerà persone che hanno qualcosa da

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dire. Inoltre, non è prevista retribuzione e non potrà trarre profitto in alcun modo dal suo lavoro a film concluso. Durata? Otto settimane. Viaggiatore si ritira per consultarsi con familiari, amici e legali. Nel frattempo, dietro compenso della società di produzione, due ragazzetti rubano la bandiera a stelle e strisce dall’ambasciata americana. La stessa società di produzione, intanto, comincia a cercare un attore per il ruolo di un religioso estremamente equilibrato che ritiri un’auto direttamente dalla linea di produzione presso la casa madre, la Mercedes Benz di Stoccarda, dove nacque la prima auto, e la porti in Irlanda, da dove comincerà il Viaggio. Emissari a cavallo e corrieri in bici perlustrano ogni angolo d’Irlanda. Uno di essi è accompagnato da un vero monaco, Brother Anthony, che lo conduce da Eremita presso un monastero, su un’isoletta al largo della costa meridionale. Pur riluttante e ostile, Eremita si piega alle insistenze dell’abate e viene immediatamente inviato a Stoccarda. Il viaggio attraverso le aree industrializzate dell’Europa lo inebria. Spaventato, Eremita si rende conto che i propri demoni, lungi dall’essere stati esorcizzati, sono vivi e scalpitano malgrado anni di ascetico isolamento, disciplina e cauta sobrietà. Viaggiatore sottoscrive il contratto, accetta il lavoro e il necessario e profondo atto di fede. Viene condotto alle Isole Aran, al largo della costa occidentale d’Irlanda, dove riceverà informazioni e adeguata preparazione. Alquanto provato, Eremita porta l’auto da Stoccarda ad un capannone sulla costa occidentale irlandese, dove tecnici e meccanici asportano il motore e lo sostituiscono con un altro. Immagini accelerate mostrano un gruppo di anziani dell’isola intenti a costruire un currach, la tradizionale barca a remi di legno e tela, sulla quale, alla vigilia della partenza, Viaggiatore viene portato a terra, dove lo aspettano l’auto, una serata di musica e danze e una calorosa comunità. Si fa notte e sotto le stelle Eremita continua a fare la spola tra il capannone buio e il pub pieno di musica, chiedendosi perché sia così difficile tornare al suo isolamento; passa l’ultimo autobus e lui si sdraia a terra, verso una notte di sonno e un sogno profetico. Alba del giorno della partenza: musica, danze, canti e folle di simpatizzanti d’ogni sorta, al di sopra delle quali si leva il suono di corni buddisti di montagna. Viaggiatore, vestito da astronauta, viene condotto all’auto e, seduto al posto di guida, allaccia le cinture. Tecnici tutt’intorno, rampa di lancio, comincia il conto alla rovescia. 10... 9... 8... 7... Eremita vaga nei paraggi, viso teso, sguardo folle. 6... 5... 4... Improvvisamente apre la portiera del passeggero e salta dentro. 3... 2... 1... Viaggiatore ed Eremita si trovano faccia a faccia per la prima volta, sguardi impietriti, uno più stupito dell’altro. VIA!... A quell’urlo Viaggiatore mette in moto, molla la frizione e parte. Il Viaggio è cominciato. La finzione ha messo radici nella realtà. La base della società di produzione è un piccolo centro di controllo stile NASA: venti postazioni Internet con grandi schermi e una squadra di ricercatori al lavoro per cercare luoghi e persone che Viaggiatore dovrà visitare. Il percorso, già pianificato in linea generale, si definirà a mano a mano in presa diretta, attraverso le indicazioni precise dei ricercatori e di “esperti”, un gruppo altamente sospetto di eterogenei individui che per tutta la durata del film saranno impegnati in infinite discussioni su Eroi, Energia, Potere, Saggezza e Sapere, interrotte di tanto in tanto da notizie sportive e viveri. L’unità addetta al controllo della missione è in collegamento diretto audio e webcam con l’auto. A Newgrange - un tumulo sepolcrale megalitico nonché uno dei più antichi segnatempo del pianeta, nel cui cunicolo di accesso il sole entra solo una volta l’anno, all’alba del solstizio d’inverno - mentre Eremita dorme, Viaggiatore incontra Dennis Hopper che interpreta se stesso. Hopper si lancia in un monologo farneticante sull’accelerazione del tempo, il potere delle multinazionali,

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comunità e individuo. Da un autobus pieno di turisti americani spunta Lauren Bacall che recita all’ignaro Viaggiatore una poesia sulla natura dell’amore e del tempo, consegnandogli la bandiera a stelle e strisce rubata e ora riposta in una busta di velluto verde. Il viaggio attraversa l’Irlanda del Nord e le bellicose energie di comunità in conflitto, proseguendo in Scozia per toccare Findhorn, una delle più riuscite comunità alternative. Nelle Highlands i viaggiatori sono fermati da Billy Connolly che dà loro il proprio viatico prima di unirsi a un centinaio di cavalieri guidati da Sean Connery e diretti al Moray Firth per chiedere alla Marina di portare via i sommergibili a testata nucleare. A Findhorn, lo scrittore Heathcote Williams è il protagonista di una serata sul tema “Petroconsapevolezza e auto”. Eremita fa il pieno di bottiglie di birra biologica che con mano lesta infila nel portabagagli prima di partire per il Galles; le note del gruppo The Chieftains accompagnano i due viaggiatori. Alcuni scolaretti gallesi trainano l’auto fino nel centro di una cittadina dove un enorme coro accompagna la sosta di rifornimento davanti ad una friggitoria italiana: il vero carburante di quest’auto è olio vegetale di recupero. I viaggiatori attraversano le colline del Galles ed entrano in Inghilterra. Eremita si agita, si fa loquace: confessa una vita di debolezze, racconta dei suoi demoni... alcol, sesso, droga... la sua danza con la dipendenza. Comincia anche a fumare e di tanto in tanto scompare, rallentando il viaggio. A Londra visita una Dominatrice specializzata in avvocati e notai che è molto fiera di aver rinnovato il guardaroba passando dalla vera pelle alla plastica e al lattice, l’abbigliamento più desiderato. Eremita porta altre persone nell’auto: Sting, Bob Dylan, a volte una banda di barboni, al che l’ufficio di produzione si mette in contatto radio con Viaggiatore e gli intima di partire. Viaggiatore è in buona forma poiché il centro di produzione gli ha consigliato massaggi, lezioni di tai chi e cibi biologici di qualità per mantenersi concentrato e pieno di energia. Ascolta persone che hanno cose importanti da dire, tra cui gli abitanti di alcune isole del Pacifico che parlano dell’imminente scomparsa delle loro terre in seguito all’aumento della temperatura sul pianeta; Aubrey Meyer, musicista e inventore della formula “Contraction and Convergence”, adottata come base del protocollo di Kyoto; esperti in biotecnologie che canticchiano Don’t worry, be happy; agricoltori bio che gli danno l’olio ottenuto dalla spremitura a freddo dei propri raccolti e dicono “non è questa la risposta, ma è parte della soluzione”; giovani che parlano dei propri tentativi di suicidio. Sente teorie sulle vibrazioni prodotte dai motori, sulla velocità e sul ritmo della vita e sull’incapacità maschile di aprire il cuore proprio a causa di ritmo, velocità e vibrazioni. Prima che imbocchino l’Eurotunnel per andare in Francia, l’Inghilterra parla a Viaggiatore ed Eremita delle fonti della propria energia: polvere da sparo, senape e carne. Breve soggiorno in Francia, dove Eremita si tuffa nel vino mentre Viaggiatore cerca fonti di acqua sorgiva, poi partenza per il Belgio e l’Olanda. L’Aja: per Viaggiatore riflessioni su Kyoto e sulla conferenza COP 6 del novembre 2000, per Eremita un altro tuffo, questa volta ad Amsterdam, nella scollatura della Petrodea, la donna con il seno di silicone più grande del mondo. Eremita si lascia andare e annega in un weekend battesimale di sesso, droga e alcol per essere salvato dal naufragio - apparentemente rinato - da un sobrio Jack Nicholson che interpreta se stesso. Amsterdam, città quasi priva di auto, è il luogo dove Viaggiatore viene informato della destinazione finale: deve riconsegnare l’auto al creatore, Mercedes Benz, nella Giornata Europea senz’Auto, il 22 settembre 2005. Un viaggio a Copenhagen porta i due, ora molto sobri, a conoscere Nils Skakkebaek, lo scienziato che per primo ha scoperto la correlazione tra la riduzione degli spermatozoi negli occidentali 33% in meno in 33 anni - e l’uso di petrolio e dei suoi derivati. “Nel giro di vent’anni,” dice, “la maggior parte di noi probabilmente non sarà in grado di fecondare l’ovulo femminile in modo naturale.”

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In Svezia i nostri si fermano in una casetta di legno in riva a un lago, allestita perché possano rilassarsi e prepararsi all’ultima parte del tragitto che li porterà a Stoccarda. La società di produzione si trova in difficoltà finanziarie poiché gli studios americani non sembrano più disposti a finanziare l’ultima parte del film. Il produttore esecutivo va a Los Angeles per incontrarli di persona e salvare il film. Sul lago, i viaggiatori esaminano foto e piantine della casa madre, vengono informati di un caso di tentato suicidio, mangiano cibi tipici, ricevono notizie su foreste pluviali, flora e fauna, mentre una pletora di esperti in economia e politica aziendale perora la propria causa per dissuadere i due dal compiere un gesto simbolico tanto potente, destinato senza dubbio a cambiare il mondo e a creare caos e distruzione per l’industria e l’economia. Dopo aver seguito con attenzione i discorsi, Viaggiatore ed Eremita si ritirano nella foresta per decidere il da farsi. La sera della partenza l’unità di produzione annuncia che i soldi scarseggiano ed è possibile che richiamino la troupe che segue il viaggio. Potrebbero filmare da soli la riconsegna dell’auto con la videocamera di bordo e una piccola digitale? L’alba li vede sul maestoso ponte che, attraversando il Baltico e il Kattegat, unisce Malmö a Copenhagen. Dietro di loro, il sole sta nascendo. Puntano verso sud, varcano il confine tra Danimarca e Germania e si fermano in un’area di servizio sull’autostrada; nei bagni, indossano tute antigravità, mentre fuori salgono in macchina Charlotte Rampling e Noam Chomsky. Atmosfera da aeronautica militare; Eremita, navigatore e telecomunicazioni; Viaggiatore, pilota; Rampling e Chomsky... sostegno morale. L’auto corre sempre più veloce per le strade di Torino, Madrid, Atene e altri luoghi altamente simbolici dell’Unione Europea. Rientro in Germania: Wolfsburg, la prima città interamente progettata per l’auto, per i residenti e i lavoratori del primo stabilimento Volkswagen. Eremita, riacquistata la forza, ma sempre turbato, vede in flash in bianco e nero un mondo del passato: il programma di Hitler per costruire autostrade usando schiavi, le linee di produzione della prima auto, quelle di Henry Ford e della Volkswagen, l’amicizia tra Hitler e Ford, l’onnipresente foto di Ford sulla scrivania del Führer al Reichstag e l’affermazione di Adolf che Henry era stato la sua maggiore fonte di ispirazione, immagini della produzione di auto su larga scala e benzina iniettata nelle vene dei prigionieri durante gli esperimenti ad Auschwitz. Sull’autostrada, convogli di motociclisti vestiti di pelle nera borchiata, li rallentano con comportamenti minacciosi; un’ondata di auto sportive fa lo stesso, seguita da veicoli per il trasporto di animali e da camion a rimorchio, di volta in volta più vicini. Rampling, sul sedile posteriore, accende una sigaretta. Il sole tramonta. Immagini computerizzate del pianeta e della riduzione delle foreste pluviali, immagini vere di uragani e tempeste, inondazioni fluviali e costiere, devastante carestia in Etiopia e di nuovo computergrafica per mostrare la progressiva desertificazione globale negli ultimi 50 anni. Appaiono le indicazioni per Stoccarda. Combattuto, Eremita borbotta inosservato nel microfono della maschera ad ossigeno: “Forse sarebbe meglio non immischiarsi.” Gli tornano in mente, ossessive, facce, voci e argomentazioni di industriali, economisti e politici. Una bambina nera scheletrica solleva una ciotola vuota. La testa di Eremita si riempie di rumore, motori di aerei, di camion e del miliardo di auto sul pianeta. Gli inseguitori tentano di chiudere l’auto, ma con una manovra brusca Viaggiatore riesce a liberarsi e a imboccare l’uscita per Stoccarda. La produzione americana vorrebbe un mega-tamponamento con tanto di esplosioni e fiamme tra gli inseguitori mentre l’auto è in fuga. Macché, il budget consente una sola auto. “Che è, uno scherzo?” I bramati effetti pirotecnici si riducono ad un’auto che si schianta: immagini mute e rallentate dell’auto che prende fuoco, poi un occupante si lancia fuori avvolto dalle fiamme. Un monaco buddista si siede nel mezzo di una strada, si cosparge di benzina e si dà fuoco. I nostri sono vicino ai cancelli dello stabilimento. È notte. Dormono fino all’alba della Giornata Europea senz’Auto.

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Sorge il sole. Nel rimbombo del traffico autostradale si sente musica zen. Viaggiatore prende le biciclette dal portabici. Mentre dalla radio si sentono piloti di caccia americani dare ordini di attacco, toglie il freno a mano dell’auto, controlla la direzione, aggiusta un poco il volante e infine lascia che sia la forza di gravità a fare il resto. La Mercedes bianca scivola silenziosa lungo la discesa che la porta a casa: rompe dolcemente la barra all’entrata e si ferma oltre il cancello. Il silenzio è rotto solo dal fruscio del vento e dal canto degli uccelli. Sul tetto, il logo Mercedes Benz smette di ruotare e le tre lance che lo compongono prendono a girare all’interno del cerchio in senso orario, mosse dal vento. Immagini dei quattro viaggiatori in bici nella campagna tedesca, intervallate da servizi radio e TV che annunciano enormi festeggiamenti per la riconquista delle strade da parte delle comunità di tutta Europa. Un’anziana coppia tedesca cammina lungo l’autostrada vuota con la nipote sottobraccio per vedere al di sotto il proprio orto e ricordarlo inondato di sole e con il melo carico di frutti deliziosi. Stazione ferroviaria in campagna: un treno porta Viaggiatore, Eremita, Rampling e Chomsky a Parigi, in Rue St. Honoré, per una festa conclusiva nell’unico bar che serve solo acque minerali, dove un discorso del presidente degli Stati Uniti zittisce momentaneamente gli invitati: in diretta via satellite parla Al Gore. CHI??? Altro conto alla rovescia, questa volta per segnare la fine del silenzio di Viaggiatore. 10... 9... 8... Gli Champs Elysées sono una fiumana di gente a cavallo, in calesse, in bici, a piedi, su pattini, skateboards e non meglio identificati mezzi di trasporto New Age, non un’auto né un camion in vista. 7... 6... Una bambina africana sorride alzando una ciotola vuota verso la camera. Nella ciotola cadono le chiavi di un’auto; la bambina ringrazia. 5... 4... Altre chiavi, e altre ancora. 3... 2... Viso di Viaggiatore. 1... ZERO... Un urlo di gioia erompe da familiari, troupe e tutti gli altri. Viaggiatore apre la bocca per parlare...

John Lawlor, nato nel 1958 a Dublino, inizia a lavorare nel cinema come aiuto regista di John Boorman nel film Excalibur, seguito nel 1981 dal primo film di Neil Jordan, Angel. Fino al 1990 lavora come assistente di registi quali Desmond Davies, Ronald Neame, Michael Cimino, Andrei Konchalovsky, Mike Hodges, Russell Mulcahy e Ron Howard. Dopo 10 anni dedicati all’ecologia con Greenpeace Ireland e con l’organizzazione CRANN, John torna al cinema nel 2000, iniziando lo sviluppo di Heartless States, per il quale ha ottenuto il finanziamento dell’Irish Film Board. È autore e regista del cortometraggio Sunday (1989), selezionato a Berlino, premiato a Cork e inserito tra i nove corti del libro The Art of Short Film. A study of nine modern-day classics, di Richard Raskin. Nel 2004 Sunday è stato invitato allo SlowFood Film Festival di Bra. John ci è andato e si è dimenticato di ripartire.

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“I vostri dottori dicono che per realizzare i sogni dovete affrontare le vostre paure. Così gli incubi se ne vanno. E se non le affrontate? Allora è l’incubo che diventa realtà.”

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LO STERMINATORE di Andrea Jublin PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: COMMEDIA

Prendendo spunto da una certa realtà televisiva italiana legata alla soap opera, Andrea Jublin ha costruito una favola amara che ha i toni della farsa, del grottesco e della parodia. L’attualità mediatica è spostata in un contesto surreale, dove il bene e il male sono ben distinti, le azioni esemplari e i risvolti tragici. Tuttavia si ride, per le “gesta” del protagonista, sceneggiatore non omologato che inorridisce di fronte alla volgarità del mondo che lo circonda. E si piange, per la caducità e l’impossibilità della bellezza. Un racconto lineare e caustico, forte e immediato, tanto da piegare al suo volere, in alcuni momenti, le regole televisive.

Lo sterminatore è il soggetto per una commedia dai toni molto poco naturalistici, al limite della farsa surreale, dove la tragedia c’è, anche se nascosta. Lo sterminatore è soprattutto una favola. E, come tante favole, è l’ennesima versione di una storia vecchia come l’uomo. Quella dell’eroe chiamato a battersi contro le storture del mondo. Ma questo geniale neuropatico, che si scaglia contro la televisione più becera, è un eroe così fragile. “Fragile come tutte le cose belle”, direbbe lui prendendosi in giro con un mezzo sorriso timido. Ecco, Lo sterminatore è una favola sulla fragilità delle cose belle e sulla terribile potenza che hanno le altre, quelle brutte e volgari. Mi piacerebbe che ne nascesse un film dove ci si sganascia dalle risate, mentre si è attraversati dall’assoluta certezza che non ci sia proprio niente da ridere. Andrea Jublin

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Io scriverò perché cerco un mondo diverso, con stelle al neon e un poco di universo e mi sento un eroe a tempo perso. Io scriverò perché non ho incontrato mai veri mattatori e veri ombrellai ma gente capace di chiedermi solo: “Come stai?” Rino Gaetano Sul set della fiction Cuori in vetrina sono tutti disperati. Attori e aiuti regista, direttori della fotografia e macchinisti, scenografi e sartine si strappano i capelli ripetendo ossessivamente la stessa domanda: perché anche gli ascolti del millequattrocentosettantunesimo episodio sono stati così disastrosi? Eppure gli elementi per il successo ci sono proprio tutti. Miliardari crudeli e segretarie puttanissime, madri siliconate e figli drogati, dialoghi inascoltabili e recitazione parrocchiale. Insomma, la solita immondizia a puntate che impera sulle televisioni di tutto il mondo. Anzi questa, grazie alle inconfessabili pulsioni omosessuali di padre Peppone, è persino peggio. Ma tutti tacciono quando prende la parola Umberto Ego, il guru massmediologo chiamato per svelare l’arcano dei mancati ascolti: “Cari signori, il tempo delle vacche grasse è finito. Il cervello degli spettatori, i poveri lobotomizzati che martoriate instancabilmente da anni, non ne può più della vostra merda. Il mio consiglio è di chiudere.” Silenzio di terrore. La troupe si vede in mezzo a una strada. L’unica a non scomporsi è Consuelo, la bella e ricca produttrice: “Non c’è davvero nulla da fare per salvare la serie?” “Una cosa ci sarebbe,” riprende il guru. “La mia teoria è che l’assillo martellante di certa televisione abbia prodotto nel pubblico un livello insuperabile di rincoglionimento e abbrutimento. Livello che ha prodotto, paradossalmente, uno spettatore inconsciamente affamato di cose belle, vere e profonde. Ecco, se voi riusciste a produrre una fiction bella, ma bella davvero, che riuscisse a colmare questo enorme bisogno, sono certo che sarebbe un successo travolgente. Certo, ci vorrebbe un talento sincero, potente, non omologato. E di questi tempi trovarlo la vedo un’impresa al limite dell’impossibile.” Silenzio sacrale. Consuelo sussurra: “Io conosco un genio.” La troupe si gira verso di lei con gli occhi pieni di speranza. Quella sera Consuelo, stretta nel suo cappotto di cachemir, sale le scale di uno squallido palazzone di periferia che non vede da anni. L’elegante signora arriva davanti a una porta scrostata, si mette a posto i capelli già perfetti, suona un campanello mezzo divelto e spera che il suo ex-fidanzato sia in casa. E lui c’è. Solo che non è proprio in casa. È seduto sul cornicione della finestra della sala e sta per buttarsi giù. Perché è convinto che la realtà sia troppo volgare, troppo ottusa e troppo feroce. Si chiama Salvatore. Quando l’aspirante suicida sente il campanello si gira, ci pensa un po’ su, quindi attraversa quella sala sporca e disordinata per andare ad aprire. Dopo qualche minuto Consuelo, seduta sul divano sfondato, spiega a Salvatore quanto abbia bisogno del suo genio per rivoluzionare la fiction e riposizionarla sul mercato televisivo. Lui l’ascolta con quell’aria da stronzo che ha imparato a stamparsi in faccia tanti anni prima, quand’era una promessa del cinema indipendente. Prima che il suo fanatismo e un paio di testate a un potente produttore lo costringessero a campare di laboratori di cinema nelle scuole medie di periferia. L’ascolta con la sua aria da stronzo e fa “no” con la testa. E continua a fare “no” anche quando la bella donna estrae dalla sua borsa la cassetta con le ultime puntate di Cuori in vetrina, la mette nel videoregistratore e schiaccia play. Consuelo lo conosce bene. Sa che non resisterà a quello strazio. Infatti, dopo un minuto di dialoghi, Salvatore si rivolge venefico alla sua ex fidanzata: “Sterminiamo prima di tutto chi la scrive questa roba.” Consuelo si lancia felice sul cellulare per chiamare gli sceneggiatori e licenziarli in tronco. Il giorno dopo, sul set di Cuori in vetrina si parla solo dell’arrivo dello sconosciuto autore-regista. I pochissimi che sono riusciti a raccogliere qualche informazione sul suo conto dicono che è un

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fanatico, un violento, un mezzo pazzo esaltato. In controtendenza il fonico. Suo nipote che lo ha avuto come insegnante in un laboratorio di cinema ne parla come di una divinità. Ma tutti tacciono quando il portone d’ingresso si spalanca. E si staglia in controluce la figura di Salvatore. Il primo che lo saluta genuflettendosi è il regista della serie al quale Salvatore risponde con un semplice: “Sei licenziato.” Mentre gli astanti ammutoliscono, Salvatore rivede le facce inespressive dei personaggi che la sera prima ha detestato sul suo televisore. Il pubblicitario bello e crudele, la segretaria intrigante, la moglie caritatevole, il finanziere corrotto e il suo amante, padre Peppone. Poi posa gli occhi sul figlio del pubblicitario, l’unico capace a recitare, al quale dice: “Tu vivrai.” Silenzio sacrale. Quindi Salvatore distribuisce agli attori una sceneggiatura e ordina: “Posticipiamo la registrazione del nuovo episodio. Avete tre ore per cancellare dalla mente il vecchio, volgare copione e imparare questo. L’ho scritto stanotte.” Gli attori prendono e sfogliano ubbidienti. Ma a pagina quattro il personaggio che fa la parte del pubblicitario si mette a urlare come un’aquila: “Ma qui c’è scritto che devo morireeeeee! Io non giro una puntata dopo la quale sono su un marciapiede! Ma chi cazzo credi di essereee??!!” Salvatore, senza scomporsi, espone la sua teoria: “Certo che devi morire, non sei capace a recitare. Come posso migliorare la serie se ci sei tu?” Caos. Esplode il caos. Urla, minacce, spintoni, schiaffi. Salvatore si salva solo prendendo una decisione assurda: “D’accordo. Se oggi non volete girare non giriamo.” Mentre quel delirio si placa, qualcuno fa la domanda più ovvia: “E domani cosa cazzo mandiamo in onda, demente?” Salvatore risponde facendo spallucce: “Domani andiamo in diretta.” Il panico devasta la troupe: “IN DIRETTAAAAAAA????????!!!!!!!!!” “Certo, adesso vado a scrivere il nuovo episodio in cui nessuno morirà. Sarà pronto domattina.” Poi l’autore-regista si dirige verso l’altra parte del teatro di posa, verso la brutta stanza dotata di branda che diventerà la sua nuova abitazione. Perché non bisogna sprecare tempo prezioso per andare a dormire a casa, dice. In quel silenzio disperato squilla il cellulare di Consuelo. È il signor Ascolti, il ricco proprietario della rete. Che cazzo è ’sta storia della diretta di domani? Consuelo, quasi scattando sull’attenti, chiedendosi come abbia fatto la notizia ad essergli già arrivata, lo rassicura. Non è un capriccio suicida, è parte della geniale strategia che darà una svolta più reale, più concreta, più impattante alla serie moribonda. Il signor Ascolti, facendo finta di crederci, mette giù smadonnando. Qualche ora dopo, quando nella stanza di Salvatore fa capolino Consuelo, lui sta ancora scrivendo piegato sul suo portatile. E neanche la sente mentre lei entra, si appoggia silenziosa alla parete e lo guarda teneramente mentre recita a se stesso quello che ha appena scritto. Prima sottovoce, poi urlando come un invasato, poi ridendo a crepapelle per chissà quale motivo. Poi, finalmente, contento di quello che ha scritto, si mette a fare il verso del gibbone felice e si rituffa sulla tastiera a scrivere quanto il mondo faccia schifo. Ma si blocca immediatamente. Non riesce a trovare la parola giusta. Allora furente si alza in piedi, tira un pugno alla tastiera, un calcio al tavolo e maledice la lingua italiana perché non ha abbastanza parole. Consuelo vorrebbe ridere ma non ci riesce. Come una volta, pensa che l’unica cosa che possa affascinare quel bambino esaltato sia il suo geniale, meraviglioso, decadente mondo interiore. Per il resto, per il reale, non rimane granché. E lei fa parte del resto. Per questo lo aveva lasciato e si era sposata uno che la fantasia non sapeva neanche cosa fosse. Un miliardario piantato nella realtà della vita come un condominio nell’asfalto. La bella donna vorrebbe almeno salutarlo ma, come ha sempre fatto, se ne va senza fare rumore. E in corridoio, mentre cammina verso il posteggio, sente il suo matrimonio sbriciolarsi di fronte a un solo, semplice pensiero: “Lo amo ancora.” E capisce perché ha offerto a Salvatore quel lavoro. Non per salvare Cuori in vetrina come tutti, compresa lei, credevano. Ma per fargli un regalo. Per fare in modo che quel genio invasato, quel cristallo purissimo, quell’eroe in-

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vincibile e fragilissimo al tempo stesso, potesse costruirsi un mondo immaginario nel quale essere felice. Un risarcimento per il dolore, la noia e il disgusto che la realtà gli avevano fatto ingoiare fino a quel giorno. Perché per lui, almeno per lui, potesse non valere la legge di fronte alla quale tutti siamo obbligati a chinare la schiena come servi. La legge che dice che la vita che vorremmo è una cosa e la realtà un’altra. Consuelo sale sulla sua Mercedes, pensa che difenderà fino alla morte il mondo che quell’anarchico si sta costruendo, pigiando autisticamente sulla tastiera del suo computer. Sussurra: “Sono pazza.” E parte sgommando verso la villa del marito. “TRE MINUTI ALLA DIRETTAAAAAAAAAAAAA!!!!” grida il ciccio nel corridoio dei camerini. E il panico s’impossessa dei fragilissimi nervi degli attori. Chi non recita litanie parla del copione. Stupendo, semplicemente stupendo: “Stupendo, semplicemente stupendo. Dispiace ammetterlo, ma ha davvero talento quell’esaltato. Solo, non capisco perché vuole recitare quel nuovo personaggio, il professore di liceo.” Finalmente il ciccio fa segno con la mano tremolante che alla diretta mancano cinque secondi, quattro, tre, due, uno, zero. Gli attori iniziano a snocciolare in modo terribile le splendide battute. Il primo a far notare la distonia tra la modestia degli attori e la bellezza di ciò che dicono è il ciccio al quale, evidentemente, tutta la televisione merdifera girata negli anni non ha ancora distrutto la totalità dei neuroni. Salvatore lo guarda con un sorriso riconoscente e gli sussurra: “Non ti preoccupare, li stermino tutti.” E il ciccio sorride terrorizzato. La mezz’ora dopo fila liscia se si eccettuano le urla di Salvatore agli operatori, i suoi calcioni ai monitor e i conati di vomito che lo assalgono ogni volta che un personaggio, per dialogare, guarda come un’ebete fuori dalla finestra. Comunque la diretta arriva all’ultima scena: sul set, allestito come uno squallido ufficio che pretende di essere elegante, il protagonista, il pubblicitario meno credibile dell’universo, sta lavorando all’ennesima campagna. Jessica, la segretaria, fa capolino dalla porta e chiede se può introdurre il professore di liceo del figlio. Quello fa “sì” con la testa e dalla porta entra Salvatore in giacca di vellutino a coste. “Cosa posso fare per lei, professore?” chiede il pubblicitario. Il ciccio aspetta solo che il professore risponda: “Lei è un uomo volgare” per fare segno alla troupe che la diretta è finita. Ma il professore non parla. Allora il pubblicitario ripete: “Cosa posso fare per lei, professore?” E Salvatore fa quello che non ha certo scritto sul copione. Estrae dalla tasca della giacca una pistola a salve e la punta in faccia al pubblicitario il quale, terrorizzato, invece di rivedere come in un film la sua vita passata, pensa al futuro: “Se questo esaltato paranoico preme quel grilletto, il mio personaggio muore, io esco da Cuori in vetrina e finisco sul lastrico.” Il professore spara. Il bang del proiettile a salve echeggia nel teatro di posa, seguito da un lungo silenzio. Solo ora il professore dice: ”Lei era un uomo volgare. E non serviva a nulla.” Il ciccio può fare segno di interrompere le riprese. Mentre il pubblico ignaro vede scorrere i titoli di coda del millequattrocesettantatreesimo episodio, sul set il pubblicitario “defunto” si dispera, calcia l’aria, si lancia su Salvatore per potergli dare almeno un morso. Il terrore di “morire” pervade tutti gli attori e padre Peppone ha un’epifania: ”Ecco perché voleva andare in diretta. Per ucciderci tutti.” In quel delirio, il cellulare di Consuelo suona. È il signor Ascolti, ed è completamente fuori di sé. Come si è permesso quell’invasato di “ammazzare” il protagonista assoluto? Tra l’altro è anche il cugino del suocero dello zio del sottosegretario. E quei dialoghi assurdamente raffinati? È naturale che si sia registrato uno SPAVENTOSO CROLLO DEGLI ASCOLTIIIIIII!!!!!!!!!!! DOV’È QUELLO SQUILIBRATOOOOO???!!!! Ma Salvatore è irraggiungibile. Nella sua stanza ha già acceso il portatile e soprattutto la zona cerebrale preposta alla scrittura del nuovo episodio. Consuelo scongiura il signor Ascolti di credere nella genialità della nuova serie riuscendo, Dio sa come, a ottenere che Salvatore non venga mandato via a calci in faccia.

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È sera. Nel teatro di posa ormai deserto si sentono solo le dita di Salvatore ticchettare velocissime sulla tastiera del suo portatile. Jessica, la segretaria puttanissima, bussa alla porta aperta della stanza dello scrittore-regista. “Sarà cagna a recitare ma è davvero splendida,” deve pensare lui vedendosela venire incontro in una gonna formato cintura. Lei, con la voce più calda che la sua modesta escursione tonale possa permetterle, vuole ringraziarlo per le splendide battute che ha potuto recitare qualche ora prima. E, quasi sdraiandosi sul tavolo, esponendo le cosce come una pescivendola farebbe con le sue orate, gli dice che farebbe proprio di tutto per non “morire” il giorno dopo. Salvatore guarda l’orologio sul computer, decide di non potersi permettere una pausa e quindi la caccia con una cattiveria qualsiasi. L’episodio del giorno seguente finisce con Jessica uccisa dai colpi del fucile di precisione del professore. Seguono le urla di disperazione dell’attrice “defunta”, l’ormai consueto panico tra gli attori e, naturalmente, la ferale telefonata del signor Ascolti. Il quale informa Consuelo di quanto sia sprofondato lo share e di quanto si inabisserà il giorno dopo senza la bonazza. Ma la soluzione è semplicissima, sentenzia il signor Ascolti, basta licenziare Salvatore. Possibilmente dopo una serie di torture considerate disumane nel Medioevo. Ma Consuelo con qualche magia riesce ancora una volta a posticipare di qualche giorno il momento in cui il proprietario di rete verrà personalmente a recidere la giugulare di Salvatore il quale, naturalmente, ne approfitta per continuare la sua opera di sterminio. Nei giorni seguenti “muoiono” praticamente tutti i personaggi principali. Il furore iconoclasta di Salvatore non risparmia nemmeno i tecnici. Con l’infamante accusa di avere un gusto volgare e un approccio impiegatizio al lavoro, vengono mandati a casa il direttore della fotografia, tre macchinisti, due microfonisti, due scenografi, l’addetta al casting e perfino tre signore del catering. Dopo la diretta del venerdì Salvatore chiede a Consuelo di organizzare dei provini perché non c’è più nessuno. Si faranno nei due giorni seguenti, quando la serie non va in onda. In questo modo per la diretta del lunedì si potranno già utilizzare i nuovi attori. “Io vi offro un’altra vita.” Questo ha fatto scrivere Salvatore al ciccio in caratteri cubitali rosso sangue, sul muro della sala audizioni. Probabilmente è la quantità di attori che si presentano ai provini ad eccitare Salvatore e a farlo esordire con un discorso del tipo: “Qui cerchiamo artisti che vogliano fare una cosa bella, alla quale non solo la volgarità ma addirittura la realtà dovrà inchinarsi. Lavorerete sempre, vi fermerete solo per dormire. E dormirete poco. E dormirete qui per non sprecare tempo in inutili spostamenti. Verrete pagati un decimo degli attori di prima. Il denaro serve per la serie. Io stesso devolverò alla causa tutta la mia paga, tanto sono abituato ad essere povero. Le scenografie le stiamo facendo rifare a Tokio, per la colonna sonora avremo un’orchestra jazz che suonerà dal vivo e il direttore della fotografia sarà l’ultimo premio Oscar. Vedrete, sarà massacrante e bellissimo.” A quei provini Salvatore sgrida gli attori fino a sgolarsi, li abbraccia, li maledice, li bacia, prende a calci i proiettori quando fanno troppe faccette, sfonda a pugni le scenografie quando muovono troppo le mani. E urla, urla continuamente frasi del tipo: “Vogliamo recitare beneeeee???? Vogliamo far vedere a Dio che siamo capaci di creare una cosa bella anche in questa vita così misera, così brutta, così vuota di significato che ci ha donatooooo????” Domenica ha già scelto i nuovi attori. Li trova perfetti per vomitare sulla realtà tutto il suo livore. Ma i prescelti non hanno il tempo di gioire. Devono provare la scena per la diretta di domani. Mentre gli attori schizzano come soldatini alle loro posizioni con il copione in mano, Salvatore si stupisce di quanto quelle donne e quegli uomini lo seguano ubbidienti e fiduciosi in quella follia. Lo attraversa un pensiero potente, semplice, antico che lo fa sussurrare: “C’è speranza.” Poi sviene. Quando riapre gli occhi vede il soffitto della sua stanza e più vicino il viso di Consuelo. Che gli dice teneramente: “Hai dormito solo due ore Salvatore, riposa un altro po’.” “DUE OREEE????” Il folle schizza giù dal letto e, barcollando, cerca di raggiungere la sala prove. Ma il cellulare di Consuelo suona. È il signor Ascolti. Ha saputo di questa storia dei provini. Benissimo! Lui ha sessantuno attori da segnalare, uno dei quali è addirittura il genero

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del fratello dello zio del ministro. Spera che il fatto che sia macrocefalo e non abbia una gamba non venga considerato penalizzante. A che ora deve mandare il pullman dei super raccomandati? Consuelo balbetta, Salvatore intuisce, s’impossessa del telefono e inizia a urlare offese feroci al potentissimo signor Ascolti, facendo accorrere la troupe terrorizzata. Il signor Ascolti per tutta risposta decide che da domani al posto di Cuori in vetrina andrà in onda Sono tutti figli miei, una becera soap sudamericana, e riattacca. Disperazione generale. Salvatore allora espone il suo piano. Basterà coprire d’oro i tre o quattro programmisti alla sede centrale perché invece di Sono tutti figli miei, mandino in onda la diretta di Cuori in vetrina. L’episodio, grazie ai nuovi, bravissimi attori, farà impennare lo share, lo share farà gioire il signor Ascolti e così nessuno si farà male. In una situazione normale anche un demente si accorgerebbe dell’impossibilità di riuscita di un piano del genere. Ma quella situazione di normale non ha assolutamente niente. Su quel set c’è solo voglia di girare, solo voglia di credere che Salvatore abbia ragione, solo voglia di pensare che un altro mondo esista davvero. Per questo tutti si voltano come un sol uomo verso Consuelo, l’unica che ha i soldi per portare a termine il piano. La bella donna fa “no” con la testa ma “sì” con gli occhi. “... E poi vorrei sapere dove sono andati tutti quei bei pensieri che avevo in testa. Quei pensieri che dicevano che la vita era più bella, un po’ più pietosa, un po’ meno feroce di così. Sono volati via. Uno ad uno, in punta di piedi, quei vigliacchi.” Il professore fa un sorriso triste e guarda il pavimento. La steadycam indietreggia e lo mostra in quella cucina spoglia e così vera. Il ciccio fa “stop” con la mano e la diretta del lunedì di Cuori in vetrina finisce. Salvatore sussurra a se stesso: “Perfetto.” Poi su quel set si posa un lungo silenzio di felicità. Peccato venga rovinato dalle sirene della polizia. Due squadre di sbirri entrano nel teatro di posa. Sembrano lupi. Forse perché a chiamarli è stato uno potente, il signor Ascolti. Gridano che nessuno si muova, che è tutto sotto sequestro. Uno sbatte per terra Salvatore e altri due gli ficcano le manette. In quel delirio suona il cellulare di Consuelo. La bella donna, tremante, risponde. È il signor Ascolti che urla talmente forte da farsi sentire persino dai poliziotti: “ABBIAMO FATTO IL SETTE PER CENTOOOOOOOO!!!!!!!! AVEVI RAGIONE CONSUELO A CREDERE IN QUELL’ESALTATOOOOOOOO!!!! CONTINUATEEEEEEEE!!!!!!!” Così i poliziotti se ne vanno. E i nostri amici fanno festa. Undici, diciassette, ventidue, trentacinque, cinquantadue, settanta, ottantadue, novantacinque per cento di share. Questi i dati Auditel dei giorni seguenti. Un primato televisivo, un trionfo. Di più, un miracolo. Nella storia della televisione mondiale non si era mai vista una cosa del genere. Alle quattro in punto gli italiani si bloccano e si avventano sul televisore più vicino. Non importa che siano preti officianti, centometristi al fotofinish o chirurghi nella fase più delicata di un’operazione a cuore aperto. È in quei giorni splendidi, durante una breve pausa dalle prove, che Consuelo dice a Salvatore che ha lasciato il marito. E che vuole venire ad abitare lì con lui, nella sua stanza, perché lo ama ancora. Perché lo ha sempre amato. Silenzio. Salvatore capisce che da quel momento niente sarà più uguale a prima. Quindi abbassa lo sguardo e sussurra piano: “Ora mi è tutto chiaro. La felicità esiste.” Quindi si alza di scatto e si mette a correre verso la sua stanza in preda alla gioia. E mentre Consuelo si chiede dove stia andando quel folle nel bel mezzo della sua dichiarazione d’amore, lui è già attaccato al computer a scrivere il monologo che dovrà recitare nell’episodio di domani: “Ora mi è tutto chiaro. La felicità esiste. Nonostante la realtà sia assurda, ottusa e feroce ora so che è anche in grado di splendidi doni. Ora ci credo che si possa vivere di cose belle, pulite, grandi e semplici. Non bisogna più sprecare il tempo che rimane. Bisogna vivere in profondità, essere felici di essere vivi e soprattutto non avere paura.” Finito di scrivere, Salvatore alza la testa dal monitor e vede Consuelo che lo guarda teneramente. Le chiede cosa le abbia detto suo marito vedendola andare via di casa. “Finirai male con quell’esal-

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tato. La realtà lo triterà,” risponde lei sorridendo tristemente. Perché sa che il marito ha ragione. Poi si sente in lontananza la voce del ciccio che li chiama dal set perché c’è un problema. L’aiuto regista ha ragione ad essere preoccupato. Perché quello che si è piantato al centro del set con fare da crociato in Palestina è l’avvocato al quale tutto il gruppo degli “sterminati” si è rivolto. Tutti riconoscono quello splendido uomo, l’hanno visto alla tele. Era soprannominato “l’avvocato delle cause vinte”. Il principe del foro, col suo splendido eloquio, informa che se non verrà data ai suoi clienti una montagna di denaro come risarcimento, la produzione di Cuori in vetrina verrà trascinata in tribunale. E allora sì che non basteranno dieci loro miserabili vite per pagare i danni ai suoi clienti e soprattutto la sua parcella. Poi, contentissimo di essere quello che è, gira elegantemente sui talloni e se ne va. Il panico esplode. Non bisogna certo essere giuristi per capire che lo sterminio di Salvatore non era improntato al massimo rispetto del diritto del lavoro. Dove trovare tutto quel denaro? D’accordo, la serie ha molto successo, ma la mania di Salvatore per le scenografie, le musiche e la fotografia ha fagocitato tutto il guadagno e continuerà a farlo. Che fare? Ma ecco che sul set appare la soluzione nelle sembianze di uno dei produttori televisivi più ricchi di questo povero pianeta. Il multimiliardario annuncia di voler trasmettere i prossimi episodi della serie in tutto il mondo. Basterà una firma di Salvatore su un supercontratto pronto tra qualche giorno perché una somma molto superiore a quella chiesta dal superavvocato si rovesci sulla serie. Naturalmente esplode il tripudio. Nello stesso momento, a duecento metri da quel set, un anonimo furgoncino grigio mette in moto e parte. Non lo direbbe nessun sano di mente che lì dentro ci sono quelli dei servizi segreti che con i microfoni direzionali hanno registrato il dialogo tra il produttore e Salvatore. Mezz’ora dopo, il più alto in grado degli spioni, piantato sull’attenti nel centro di uno splendido ufficio, fa il suo rapporto a un pezzo grosso con la faccia da buono seduto dietro una scrivania solo poco più piccola del tavoliere delle Puglie. Questi lo ascolta attentamente, poi abbassa il capo, congeda l’ufficiale con un gesto e, rimasto solo, guarda pensieroso fuori dalla finestra. La notte del giorno dopo Salvatore sta dormendo nella sua stanza abbracciato a Consuelo, quando sente dei rumori. Accende la luce e vede intorno a sé, che lo fissano, quattro guardie del corpo, il pezzo grosso con la faccia da buono e il professor Umberto Ego, il guru massmediologo. Quest’ultimo è spaventato almeno quanto Consuelo che si è appena svegliata. Il pezzo grosso fa un passo avanti e gentilmente attacca: “Salvatore la pianti con questa fiction. È pericolosa per la nazione.” Silenzio. Salvatore e Consuelo scoppiano in una risata. Allora il guru, timidamente, interviene: “Vi prego, ascoltate. Abbiamo le prove della pericolosità della sua serie per lo stato italiano.” I due amanti lo guardano come se fosse un povero demente. Quello se ne accorge e si gira verso il pezzo grosso, che si gira verso una guardia del corpo che dice qualcosa nella sua ricetrasmittente. Dopo qualche secondo, dalla porta entrano altri due gorilla che scortano un omino con la faccia da coglione. Il pezzo grosso, indicando l’omino, si rivolge a Salvatore: “Anche se le sembrerà strano lei ha di fronte a sé uno dei più importanti segreti di stato, l’italiano medio. Il signor Rossi infatti è alto come l’italiano medio, è bello come l’italiano medio, è intelligente come l’italiano medio. La sua risposta è la risposta media, il suo comportamento, il comportamento medio. Quello che dice l’italiano medio è quello che dice l’Italia intera. Tutti i servizi segreti ne hanno uno perché basta sapere quello che pensa lui per sapere cosa pensa l’intera nazione.” Poi, rivolgendosi al professor Umberto Ego, dice: “Dia pure inizio all’esperimento.” Il guru fa sedere l’italiano medio, tira fuori un pendolino, glielo agita davanti agli occhi e dopo qualche secondo lo fa cadere in un profondo stato ipnotico. Quindi gli si rivolge con voce forte e chiara: “Signor Rossi, mi parli della vita.” Lungo silenzio. Gli occhi del signor Rossi s’inumidiscono e dopo un po’ inizia a parlare con

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voce dolce e triste: “Se devo parlare della vita mi vengono in mente le parole del professore di liceo di Cuori in vetrina. Come per lui anche per me, ora, è tutto chiaro. La felicità esiste. Nonostante questa realtà sia assurda, ottusa e feroce ora so che è anche in grado di splendidi doni. Ora ci credo che si possa vivere di cose belle, pulite, grandi e semplici. Come il professore, sento che non devo più sprecare il poco tempo che rimane. Sento che devo vivere in profondità, essere felice di essere vivo e soprattutto non avere paura.” Silenzio. Salvatore è basito. Allora il guru, soddisfatto, batte forte le mani per svegliare dalla trance la cavia umana che viene portata via dalle guardie. Il pezzo grosso si rivolge a Salvatore: “È esattamente quello che pensa, Salvatore. Le battute di Cuori in vetrina sono entrate nell’inconscio, dirò di più, nell’anima dell’italiano medio. Il signor Rossi è davvero convinto di poter raggiungere la felicità. E questo purtroppo è pericoloso, Salvatore. Davvero pericoloso. Perché così si blocca tutto. Perché dal carrozzone della realtà uno o due possono scendere per guardare il panorama, ma non tutti, non l’italiano medio. Perché, purtroppo, l’italiano medio deve continuare ad andare a lavorare anche se il lavoro che fa non è quello che sognava, deve continuare a far figli anche con chi non è il grande amore della sua vita e deve continuare a fare code chilometriche al supermercato il sabato pomeriggio perché sennò durante la settimana non mangia. L’ordine che ho ricevuto è di oscurare la fiction, glielo dico sinceramente. Sono riuscito ad impedirlo servendomi del professor Ego, che teorizza che l’interruzione brusca del suo messaggio avrebbe provocato uno scompenso nel pubblico. Quindi Salvatore, glielo chiedo da amico e soprattutto da fan sfegatato: cambi gradualmente dal di dentro la serie in modo che la gente possa riprendere ad affezionarsi alla realtà. E soprattutto non firmi il contratto con il produttore americano. Se Cuori in vetrina viene trasmessa in tutto il mondo lei finisce in guai dai quali nemmeno io potrò tirarla fuori. Dei soldi che chiede l’avvocato degli “sterminati” non si deve preoccupare, a quelli penso io.” Poi il pezzo grosso mette una mano sulla spalla di Salvatore, gli sorride tristemente e gli dice piano: “Mi dispiace davvero Salvatore, la sua fiction era meravigliosa.” Detto questo, il pezzo grosso con la faccia da buono, il guru e tutte le guardie del corpo si mettono in fila per farsi fare un autografo dall’autore-regista. Poi, contemplando lo scarabocchio, scompaiono dalla porta. Salvatore, tremando di paura, si alza dal letto in silenzio, si mette i pantaloni, la camicia e va ad accendere il computer. Poi, aspettando di poter scrivere, si gira verso Consuelo e le sussurra: “Non crederanno mica di spaventarci.” La bella donna con gli occhi gonfi di angoscia gli sorride. Fu la mattina di due giorni dopo che il ciccio trovò Consuelo e Salvatore morti nel loro letto con il cuore sfondato dai proiettili di un fucile di precisione. Gli assassini non furono mai identificati e il caso venne archiviato quasi subito. La bella donna aveva appoggiato sulla sedia, ai piedi del letto, un meraviglioso vestito rosso. Glielo aveva comprato Salvatore il giorno prima. Per festeggiare il contratto firmato con il produttore americano e la loro splendida felicità. Glielo aveva preso anche se lei gli aveva fatto notare che era di una stoffa particolarissima, assurdamente costosa e troppo, troppo delicata. “Come tutte le cose veramente belle,” le aveva risposto lui con un sorriso triste. Cuori in vetrina adesso non c’è più. Alle quattro fanno Sono tutti figli miei. Che non va poi così male. Andrea Jublin, torinese, nato nel 1970, si forma alla scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova, nel cui teatro lavora dal 1994 al 1999 come attore professionista in varie produzioni. Nel 2002 è cofondatore de La Compagnia di Cinema Indipendente, per la quale scrive e dirige un lungometraggio, Ginestra, e due cortometraggi, Coraggio. Coraggio. Coraggio. e Grazie al cielo.

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SPANZAPON A TIME di Massimo Tiburli Marini PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO

Il destino di tre personaggi, dai tratti fortemente connotati, si compie in una sgangherata stazione di rifornimento persa nel mezzo di un deserto post-atomico. Il racconto gioca con le categorie del western e della fantascienza e la morale della storia - “l’apparenza inganna” - è perfettamente coerente con la natura stessa del genere, inteso come repertorio infinito e cangiante di travestimenti.

Il progetto di questo cortometraggio nasce in un pomeriggio di chiacchiere a ruota libera con il più sconclusionato dei miei amici “cinematografari”, Mauro Passaretti, giovane autore napoletano con cui ho scritto e girato i primi cortometraggi. L’idea di base è quella di rivalutare il cinema di genere a partire dalla convinzione che i generi siano un eccezionale contenitore di immaginari, di griglie narrative da riempire con ogni sorta di contenuti, provenienti dalle più diverse ispirazioni. La storia prende volutamente le mosse dal più classico dei generi, il western, e dalla sua contaminazione con un altro genere maestro, la fantascienza, o la “fantascemenza”, come direbbe Mauro. Le fonti di ispirazione di questo corto, e lo spirito che lo anima, si potrebbero ricercare nel miglior Sergio Leone de Il buono, il brutto e il cattivo, soprattutto per la mitica scena del “triello”, nelle gag dei film muti di Stanlio e Onlio e nel primo Peter Jackson splatter di Bad taste. L’essenzialità, che è la base drammaturgica del corto, ha richiesto l’assenza dei dialoghi, tutt’al più la presenza di versi, rumori e qualche nota essenziale di musica, con lo scopo di sostenere e di sottolineare gli eventi. La storia non ha velleità o grandi aspirazioni se non quella di strappare una risata. Considerando il tipo di storia e la caratterizzazione fumettistica e caricaturale dei personaggi, credo che il modo migliore per realizzare questo corto sarebbe l’animazione. Io, almeno, lo immagino così... Massimo Tiburli Marini

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Dove la distruzione prende il posto della vita, la giustizia torna in mano a chi se la prende. Lo scemo, il brutto e il cattivo si ritrovano faccia a faccia nello scontro finale, ma in questo mondo, più che altrove, niente è più lontano da ciò che appare. La landa è desolata. Lo spazio deserto è arso da un sole incandescente e la terra arida restituisce il calore sotto forma di vapori che distorcono i contorni del paesaggio. Sembra un pianeta bombardato e trasformato in discarica, il peggiore incubo di civiltà industriale post-atomica che si possa immaginare. Resti di macchinari assurdi piovuti da chissà quale cielo in fiamme, detriti e bidoni di scorie rovesciati che esalano un insano fumo verdastro, scheletri di armi e veicoli bruciati sono sparsi tutto intorno, disposti secondo una disastrata armonia, così irreale da sembrare perfetta. Sullo sfondo, delle ciminiere sbuffano incessanti il loro denso fumo nero e l’aria è nel complesso così satura di gas che dà l’idea di poter esplodere da un momento all’altro. Nulla si muove. L’unico rumore che si riesce a percepire è il mutevole crepitio della terra riarsa che scoppietta irrequieta sotto gli implacabili raggi roventi. Improvvisamente si alza un alito di vento e si inizia a percepire il cigolio di una vecchia insegna arrugginita che dondola pigramente emettendo un lento lamento continuo. Sull’insegna appesa a un palo di ferro, arrugginito anch’esso, si legge a grossi caratteri la scritta “OIL”. A poca distanza, una pompa di benzina decisamente malandata, con un tubo lacero da cui fuoriescono gocce di un liquido verde, mentre un altro suono ritmato si unisce a quello dell’insegna: il rumore di una sedia a dondolo che gli fa il controcanto, componendo una stonata cantilena che alimenta uno strano senso di attesa... Un vecchietto si dondola distratto mentre aspira grosse boccate dalla sua pipa dritta, da marinaio; indossa una tuta jeans da lavoro, lurida almeno quanto la sua canottiera grigiastra da cui straboccano folti ciuffi di peli bianchi. Di profilo sulla sedia, ha l’aria di uno che ne ha viste talmente tante da non aver più nulla di cui preoccuparsi. La sua barba bianca sa di miracolo in un posto dove neanche uno scarafaggio corazzato resisterebbe più di un paio di giorni. Se ne sta lì, seduto come se niente fosse, sotto il sole cocente, in quel caldo feroce che brucia i pensieri solo a respirare, ad ondeggiare tranquillo, davanti ad una piccola baracca in assi di legno. La baracca, la pompa marcia, la sedia e i due cigolii a ritmo alternato, compongono il quadretto di una disperata stazione di rifornimento nel bel mezzo del più assoluto sfacelo. Ma il vecchio non ci fa neppure caso, come se fosse sempre vissuto in quello schifo, oppure come se stesse aspettando qualcosa di ben preciso. In ogni caso, non fa altro che dondolare, fumare e guardare lontano. Lontano, molto lontano, macchie di colore si muovono e delineano una vaga forma indistinta, sfocata nel calore del deserto; lentamente una figura avanza, se ne intuiscono la mole massiccia e i passi poderosi, poi, mentre si avvicina, se ne distingue la spropositata altezza: è un vero e proprio bestione. Avanzando sposta l’aria densa di gas ed alza nuvole di polvere dietro di sé. È largo come un tir, cattivo, incazzato e stanco. Il suo volto è per metà quello di un robot e per metà quello di un essere umano abbondantemente modificato. La parte sinistra è fatta di un’unica placca di metallo riflettente, per occhio ha un sofisticato obbiettivo con mirino; la parte destra è invece un’accozzaglia di lembi di carne appiccicati tra loro senza un criterio, a formare un’impressionante smorfia di disgusto. Sulla testa porta un cappello da cowboy calato sulla fronte, indossa un lungo impermeabile aperto con le falde ampie allargate dal vento e tiene bene in mostra un cinturone in cuoio con due enormi pistole spaziali.

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Il suo look non lascia dubbi, è un cyborg bounty killer. Mentre avanza lento con una cadenza maestosa, si sentono le note di un’armonica che accrescono l’atmosfera di sinistra attesa per qualcosa che è nell’aria e sta per accadere... Il vecchio osserva impassibile l’avanzata dello spietato cacciatore di taglie. Continua a dondolare al suo ritmo come se nulla fosse, mentre questi punta dritto verso di lui. Nell’avvicinarsi, il cyborg emette un grugnito animalesco mentre inarca verso l’alto l’angolo umano della sua bocca, un suono di rabbia e stanchezza. Grosse gocce di sudore gli bagnano il volto contratto in una smorfia da incazzatura cosmica, senza rimedio. Il pistolero, con un passo di piombo che fa scricchiolare le assi del pavimento, arriva nei pressi della baracca e si piazza di fronte al vecchio, oscurando il sole con la sua gigantesca stazza. Nell’istante in cui si ferma, le note dell’armonica si fermano con lui. Nello stesso istante anche il vecchio si blocca, interrompendo bruscamente il suo incessante dondolio. L’atmosfera è molto tesa. Il bounty killer fissa il vecchio dritto negli occhi. Questi non si scompone neanche un po’, alza lentamente lo sguardo con aria sufficiente ed emette con la pipa una grossa nuvola di fumo che avvolge completamente il faccione del killer. Il cyborg comincia a tossire come un dannato, sventola una mano per diradare il fumo, mentre infila l’altra dentro la giacca per estrarne un grosso rotolo di cartatronica. Emettendo un verso roco, questa volta simile a un ruggito, srotola il foglio e lo mostra al vecchio con gesto di domanda. Sulla parte alta del foglio si legge, a grossi caratteri: “$25,000,000 REWARD!” e subito sotto: “Wanted. Dead or Alive.” Più in basso, un ologramma mostra un alieno mutante mentre cambia ripetutamente forma e sembianze fino a rimanere qualche secondo con il suo aspetto naturale. L’essere ha una testa enorme munita di sei occhi, un corpo tozzo da cui pendono numerosi tentacoli che terminano con sette dita a ventosa da cui cola una specie di muco trasparente, e una lunga coda verde che spunta da dietro. Nella parte bassa dell’annuncio si legge: “DANGEROUS MUTOID - CHANGING IN EVERYSHAPE - IDENTIFICATION SIGN: SHINING PIMPLE.” Da quest’ultima scritta parte una freccia per indicare un particolare della figura, una pustola scintillante, che rimane l’unico particolare inalterato, mentre l’animazione ricomincia a mostrare le infinite trasformazioni del criminale. Un grosso bubbone all’altezza del collo, con la caratteristica di risplendere al sole come uno specchio quando il bastardo spaziale sta per commettere uno dei suoi orrendi crimini, è l’unico segno di riconoscimento che permette di identificare con certezza l’alieno al di là delle sue sembianze momentanee. Il bounty killer osserva il vecchio con aria interrogativa. Il vecchio alza gli occhi indifferenti dal manifesto a cristalli liquidi e li sposta verso il pistolero, scuotendo la testa in orizzontale con una certa indolenza, nel segno universalmente riconosciuto come un “no”. Seguono alcuni istanti di immobilità assoluta. Il manifesto elettronico della taglia scivola dalla mano del killer e, fluttuando lentamente nell’aria, si posa a terra. I due stanno fermi uno davanti all’altro sotto il sole assassino, senza niente da aggiungere ma con un certo reciproco sospetto. Si sentono solo il vento caldo che soffia forte e il cigolio dell’insegna che oscilla sempre più velocemente. D’un tratto una grossa nuvola di terra si alza dietro la baracca e la tensione si spezza al suono di un motore che s’avvicina rombante verso la stazione di servizio. Il cacciatore di taglie si volta di scatto con un gesto nervoso, mentre il vecchio non fa una piega,

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né fa cenno di alzarsi, anzi, ricomincia a dondolare sulla sua sedia più tranquillo che mai. La macchina è una dune buggy color fucsia, una monoposto con il sedile montato direttamente sopra un solido telaio essenziale, fatto di tubi e giunture, senza tetto né sportelli, con le ruote posteriori alte e larghe e due tubi di scappamento aerodinamici slanciati all’indietro. Dalla macchina che si avvicina in velocità provengono striduli gridolini di eccitazione. Gradualmente s’inizia a distinguere il guidatore: un improbabile, ridicolo personaggio, un turista spaziale, dotato di tutto l’armamentario: sgargiante camicia hawaiana, capelli impomatati, occhiali viola dalla montatura spessa con lenti intercambiabili multicolore, grossa macchina fotografica con apertura a soffietto piena di pulsanti e marchingegni strani e, per finire, un perenne sorriso ebete a trentotto denti. Il suo arrivo è l’apoteosi dell’imbecillità. Già prima di fermarsi comincia a sporgersi sventolando la mano come se stesse per arrivare alla prima di un film con folle di fan ad aspettarlo. Urla qualcosa di incomprensibile, ridendo come un deficiente, mentre si ferma davanti alla pompa di benzina col motore acceso. Il cyborg gira la testa per guardarlo, restando di profilo e lasciando visibile soltanto la sua parte robotica. Una grande quantità di relé, processori e biotroni meccanici si attivano rumorosamente per elaborare dati allo scopo di identificare il nuovo arrivato. Qualcosa evidentemente non va e, mentre il turista insiste a dimenarsi e a sorridere con l’aria compiaciuta di chi non ha la più vaga idea della complicata situazione in cui si è andato a cacciare, il cyborg muove qualche passo minaccioso verso la macchina per verificare i sospetti che i suoi sensori biotronici gli trasmettono. All’interno dell’occhio elettronico del cyborg la figura del turista viene scomposta in sezioni e linee, mentre le informazioni scorrono veloci, accompagnate da lunghe sfilze di codici numerici. Il vecchio sulla sedia osserva la scena con distaccata curiosità, volge lo sguardo verso il cyborg rivelando per un attimo un qualche interesse nel capire le sue intenzioni, poi torna a dondolarsi serenamente, guardando il cielo come in cerca di un’ispirazione. L’espressione sul volto del turista comincia a svuotarsi di ogni entusiasmo sotto lo sguardo inquisitorio del pistolero, il sorrisetto cretino si spegne per lasciar posto ad un certo preoccupato nervosismo. Il turista inizia a chiedersi cosa voglia da lui quel bestione inferocito e con un’espressione interrogativa cerca complicità nel vecchietto che, per tutta risposta, alza le spalle sfoderando un beffardo ghigno divertito. La tensione è palpabile, l’immobilità silenziosa che precede la resa dei conti è rotta solo dai cigolii sincopati dell’insegna e della sedia che incalzano a ritmo frenetico. Il viso del cyborg è tirato in una truce espressione di concentrazione. Il turista ha lo sguardo impaurito, suda copiosamente, la sua faccia insulsa rimane pietrificata in una posa a metà tra l’incomprensione e la supplica. Il vecchietto si dondola sulla sedia, con la pipa in bocca, mostra i denti ingialliti mentre sfoggia un indecifrabile e inquietante sorriso. Da lontano i tre formano un triangolo: il pistolero e il turista sono fissi, uno davanti all’altro, mentre il vecchietto li osserva imperscrutabile. Con un movimento misurato e lento il turista compie l’irreparabile, inconsapevole gesto sbagliato: si toglie gli occhiali e, mentre l’altra mano è protesa verso il cyborg in segno di chiarimento, fa per infilarli nel collo della camicia. Dalle lenti parte un riflesso che, per un solo istante, provoca uno scintillio sul collo del malcapitato. All’interno dell’occhio-mirino del bounty killer il bagliore arriva accecante, attivando immediatamente il segnale rosso d’allarme che comincia a pulsare, accompagnato da un segnale sonoro intermittente di pericolo. Il cerchio del mirino si stringe sul collo del turista, nel punto preciso da cui è partito il bagliore.

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Il volto del vecchietto si illumina di eccitazione, stringe coi denti il bocchino della pipa mentre si drizza sulla sedia. Con uno scatto fulmineo la mano del killer estrae una pistola dal cinturone. L’adrenalina disegna una smorfia di panico sul volto del turista, mentre gli occhi si gonfiano di un mostruoso spavento che lo lascia paralizzato. Il dito del cyborg si flette lentamente sul grilletto, il braccio teso culminante con la pistola, impugnata con meccanica freddezza, traccia una linea che punta al collo del turista. Nel momento preciso in cui il pistolero sta per far esplodere il colpo, dal collo del turista parte un secondo, fatale riflesso. Il vecchio, abbagliato, si porta una mano davanti agli occhi. Il cyborg, accecato dal bagliore, lancia un urlo feroce e perde la mira mentre parte il colpo. Il proiettile manca il turista e si perde in una traiettoria impazzita, rimbalza sulla carrozzeria della macchina, sbatte sulla lamiera della baracca, schizza in alto sull’insegna del distributore, torna a colpire lo specchietto della dune buggy, sfiorando l’orecchio del turista che si rannicchia, nascondendo la testa tra le mani. Il vecchietto resta fermo e tranquillo sulla sua sedia mentre la pallottola continua a sibilare nell’aria. Il cyborg cerca di seguire la direzione del proiettile che insiste a rimbalzare all’impazzata, girando la testa a scatti con espressione di annoiato fastidio. Accartocciato dentro la macchina, il turista strizza un occhio, tenendo l’altro aperto a spiare impaurito tra le dita di una mano quando, d’improvviso, il sibilo impazzito del proiettile s’interrompe con un suono sordo: il colpo ha finito la sua corsa conficcandosi nella carne viva. Le mani scivolano lentamente dal volto del turista e i suoi occhi si spalancano per la sorpresa. Il vecchietto si drizza di scatto sulla sedia e apre la bocca con espressione di stupore. La pipa gli cade a terra. Il volto del cyborg si contrae in un’impressionante smorfia di raccapriccio, strabuzza il suo occhio umano mentre i sensori, che stanno elaborando dati a velocità vorticosa, cominciano a rallentare la corsa fino a spegnersi con il tipico rumore di avviamento a batteria scarica. Il turista alza la testa, sporgendosi intimorito dal bordo della macchina. Il cyborg abbassa lentamente lo sguardo sbigottito, mentre si avverte il rumore della sedia che ricomincia a cigolare e il vecchietto che si lascia andare ad un acuto risolino di scherno. Si china a terra per raccogliere la pipa, la svuota scuotendola contro il fianco della sedia mentre continua a ridacchiare divertito. Lo sconcerto più totale si disegna sul viso del pistolero. Seguendo la direzione del suo sguardo si arriva dritti di fronte a quella che fino a un minuto prima era la sua pancia. Quello che ne rimane è un gigantesco buco circolare dal quale colano impietosamente brandelli di carne insanguinata. Il dondolio della sedia s’interrompe di colpo, mentre la risata del vecchio continua. Attraverso il buco, che fa da cornice a quel profondo spazio deserto da cui lo stesso cyborg era arrivato, vediamo comparire il vecchietto di schiena, che ride e tossisce inarcando le spalle per lo sforzo. Cammina goffamente con larghi passi lenti, verso l’orizzonte battuto dal sole. D’un tratto una lunga coda verde spunta fuori dalla sua tuta da lavoro e si srotola cadendo a terra con un pesante tonfo. Si allontana scanzonato come la sua risata, mentre le braccia si trasformano allegramente in lunghi tentacoli che si trascinano pigri sul terreno ed un arcobaleno di colori fuoriesce dalla tuta. Il turista osserva la scena con sguardo imbambolato e incredulo, con l’aria un po’ ebete di chi non ha ancora capito un accidente di quello che è appena successo poi, d’un tratto, il suo volto viene attraversato da un lampo d’intelligenza, l’espressione da scemo lo abbandona per la prima volta, lasciando intravedere due occhietti furbi e un sorrisino da canaglia. L’alieno mutante continua a camminare verso l’orizzonte accompagnato dalla sua risata beffarda che si fa sempre più lontana.

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Le mani del turista armeggiano con cautela sui pulsanti della macchina fotografica. Il turista si mordicchia un labbro, tutto preso dallo sforzo, con un’espressione di grande concentrazione stampata in faccia. Si affretta a concludere le operazioni, poi si porta la macchina agli occhi per mettere a fuoco, punta l’obiettivo in direzione dell’alieno, controlla bene, poi abbassa l’apparecchio e, protendendo la testa in avanti, lascia partire dalla bocca un potente fischio in direzione dell’alieno. Questi si volta d’istinto e smette di ridere, guarda verso il turista con fare interrogativo. Il turista riassume di colpo il suo originario aspetto da deficiente e allunga le braccia indicando all’alieno la macchina fotografica. L’alieno sfodera il sorrisone compiaciuto di chi la sa davvero lunga, fa qualche passo in avanti, guarda verso la macchina fotografica con tutti i suoi sei occhi e si mette in posa per il suo trionfo ostentando, vanitoso, la sua poderosa figura. Il turista si porta velocemente la macchina fotografica agli occhi. All’interno dell’obiettivo l’alieno si staglia perfettamente al centro dell’inquadratura. Il dito del turista schiaccia con una lenta pressione il pulsante di scatto fino all’inconfondibile click. L’immenso spazio deserto viene attraversato fino all’orizzonte da un bagliore accecante che brucia l’aria, come il lampo di una bomba atomica, accompagnato da una fragorosa onda d’urto che fa tremare la terra e crollare la baracca. Poi gradualmente luce e polvere svaniscono e le cose ricominciano a prendere le loro sembianze. L’alieno è fermo in piedi, rigido come uno stoccafisso, cristallizzato dal raggio paralizzante del turista, nella sua espressione tronfia da vincitore. L’uomo della dune buggy sembra soddisfatto. Con l’espressione furbetta sul volto muove qualche passo in direzione dei resti della baracca passando davanti al cyborg che è rimasto, nonostante tutto, immobile, morto in piedi col suo buco in pancia. L’alieno e il bounty killer si stagliano contro il cielo al tramonto come due grottesche statue fuori posto. Il turista si china in terra a raccogliere la e-pergamena con la taglia, la osserva attentamente ed esplode in una potente risata liberatoria, poi la arrotola e se la infila in tasca tutto contento. Ripassa davanti al cyborg e gli si ferma davanti, lo guarda serio, scuotendo la testa in segno di sprezzante diniego, allunga una mano verso la spalla del killer, lo tocca con la punta dell’indice dandogli un leggero colpetto, quanto basta per farlo cadere all’indietro con un pesante tonfo. Il turista sistema l’alieno, ancora rigido nella sua posa da bellimbusto, nella parte posteriore della dune buggy. Con i suoi begli occhiali viola calati sul naso, fischiettando allegramente un motivetto cretino, il finto turista si mette al volante, affonda sull’acceleratore facendo salire i giri del motore, ingrana la marcia e parte a gran velocità, alzando una nuvola di polvere dietro di sé. In lontananza la dune buggy schizza veloce sulle dune, fra i rottami. Le testoline del turista e della sua preda saltellano buffe da una parte all’altra e diventano sempre più piccole, fino ad amalgamarsi con i colori di un magnifico tramonto post-atomico. Massimo Tiburli Marini nasce e cresce prevalentemente etrusco. Viterbo lo osserva pascolare per le sue strade con un certo distacco, da sempre ricambiato. Approda a Bologna, al DAMS, poi Scienze della Comunicazione. Scrive e collabora con giornali e riviste. Ama il cinema: frequenta un corso di regia e poi “si tuffa di faccia” sui set delle produzioni più indipendenti, facendo un po’ di tutto. Nel 2004 scrive il corto Oltre S.p.A., coprodotto da Sky, di cui è anche aiuto-regista. Dal 2005 frequenta a Torino un Master in editing e scrittura di prodotti audiovisivi.

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“La tensione del momento è palpabile, l’immobilità silenziosa che precede la resa dei conti è rotta soltanto dai cigolii sincopati dell’insegna e della sedia che incalzano ad un ritmo frenetico.”

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I FIORI DEL MONDO di Oumar Mamadou Ba PROGETTO PER LUNGOMETRAGGIO GENERE: COMMEDIA MULTIETNICA

I fiori del mondo è un progetto coraggioso che, nello sguardo sulla società, colta nel suo reale processo di mutamento, ha la sua cifra interpretativa, la sua arma di difesa contro il conformismo e la sua stessa possibilità di riscatto. Concepito già durante il processo di scrittura come un crocevia di culture, I fiori del mondo ha il merito di restituire un affresco tagliente del nostro piccolo paese all’insegna di una cinica ironia e, allo stesso tempo, di una positività solare. Il genere della commedia multietnica, che individua di solito, quale terreno di scontro culturale, il contesto familiare di una minoranza, è riletto in una prospettiva originale: non è la cultura di una tribù ad essere irrisa, ma è la nostra stessa società, con le sue tradizionali istituzioni, ad essere travolta da ciò che è, in fondo, ibrido, colorato, anarchico. I fiori del mondo è stato sviluppato con il contributo del Programma MEDIA dell’Unione Europea e con il sostegno del fondo per lo sviluppo dell’Istituto Luce. La società Venerdì, che detiene i diritti del progetto, è alla ricerca di un co-produttore. Questo progetto nasce da un’idea di Oumar Ba, immigrato arrivato dal Senegal alla fine degli anni ’80, quando aveva poco più di vent’anni. In Italia Oumar ha fatto l’attore di teatro e cinema (con Virzì e Gregoretti, tra gli altri), ha diretto cortometraggi, ha scritto alcune sceneggiature. Intanto lavorava: fabbrica, bar, alberghi. Senza rinunciare a trovare il tempo per divertirsi. Oumar ha elaborato l’idea de I fiori del mondo nel periodo più difficile della sua vita. Colpito da una grave malattia entrava e usciva dagli ospedali. Purtroppo non ce l’ha fatta, ma con I fiori del mondo ci lascia un testamento di indomabile allegria che è una dichiarazione d’amore per la vita e un atto di resistenza contro ogni rassegnazione al destino e ai suoi dispetti. I personaggi pieni di guai del film sfidano l’impossibile, mentre si fanno beffe della finta serietà istituzionale del paese nel quale hanno imparato a vivere e irridono la falsa correttezza all’occidentale dei rapporti interpersonali. Simpatici ma opportunisti e inconsapevolmente trasgressivi, con i loro tic comici sono figure che cessano presto di essere “un marocchino”, “un senegalese” o “un cinese” per parlare la lingua di tutti. Di fronte ai loro guai pensano alla soluzione più folle, fantasiosa, impossibile. Li spinge la volontà di non adattarsi fino in fondo alle regole del gioco e così, facendosi trasportare da un’idea assurda, ottengono un risultato imprevedibile. Si battono, sapendo, o meglio intuendo, che a volte bisogna spostare lo sguardo dai propri mali per trovare una soluzione. In questo modo essi la trovano. Ma quando sentono che questo risultato può portargli via l’anima, non esitano ad abbandonarlo. Ed è la loro “scorrettezza”, con la fedeltà a se stessi e la capacità di osare, che li rende figure trascinanti e liberatrici. I fiori del mondo è cresciuto con Oumar fin dove è stato possibile. Insieme l’abbiamo immaginato da subito come un film corale, un film che coinvolgesse profondamente Milano, quella che lui aveva eletto a sua città. Questo film rappresenta la città, la città che cambia: da una parte le sue chiusure e le sue tetraggini, dall’altra le aperture vitali che essa contiene e le capacità di costruirsi creativamente la vita. È una commedia concepita da un senegalese e scritta con uno svizzero e un cileno, prodotta da un italiano, con interpreti da tutto il mondo provenienti da un’unica città. Venerdì

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Milano, inizio del terzo millennio. Quattro amici immigrati, un marocchino, uno slavo, un peruviano e un cinese, vivacchiano di espedienti mentre s’affannano a tenere aperto il loro bar-discoteca I fiori del mondo che, spenti i successi degli esordi, se la passa proprio male. Sommersi di debiti, con il locale che ormai raccoglie solo qualche pensionato inacidito, i quattro passano il tempo a litigare su cosa fare per evitare di chiudere. Dopo aver fatto le ipotesi più bizzarre e truffaldine finiscono per scegliere la più improbabile: usare la discoteca per fondare un nuovo partito, il partito degli immigrati. Ovviamente non ci credono affatto, ma dopo averle provate tutte quella sembra loro l’ultima possibilità per attirare clienti: con la scusa di discutere dei loro diritti gli rifileranno birre e panini e risolleveranno le sorti del locale. Baj, Hassan, Hector e Zarko decidono così di richiamare il loro ex-socio Malik, un carismatico senegalese dall’aria principesca e dalla parlantina sciolta che trovano ai giardini della stazione, riverito da una corte di drop out. Sarà lui il capo del partito. Scelto il leader, incominciano a far girare la notizia tra le varie comunità: sta per nascere un nuovo movimento che difenderà i diritti di tutti gli immigrati anzi, di tutti quelli che hanno bisogno di essere difesi. Si chiamerà I fiori del mondo e avrà sede nella loro discoteca. Venite tutti al primo incontro e spargete la voce... Nel frattempo Nino, un avvocaticchio che cura gli affari del proprietario del bar-discoteca, informa il gruppo di amici che da lì a qualche giorno il locale verrà chiuso per insolvenza grave. I cinque lo supplicano di aspettare perché hanno avuto una grande idea, che renderà un sacco di soldi. Che idea? Vogliono fondare un partito. L’amministratore li prende per matti. Arriva la sera del primo incontro per la fondazione del partito. Il risultato è catastrofico: sono presenti solo una trentina di persone, perlopiù scrocconi di varie razze e continenti che non consumano un bel niente. In questo clima Malik, in piedi su un tavolo, fa un’arringa politica che tocca i cuori. Poi spara grosso: domenica prossima ci sarà la più grande riunione di extracomunitari mai vista in Italia, per discutere della fondazione del nuovo partito. Verrà regalata birra a tutti, si ballerà e si suonerà. Una festa memorabile e chi non ci sarà se ne dispiacerà. La mattina dopo la situazione precipita. Nino arriva con la polizia che requisisce il capannone, cambia la serratura e mette i sigilli. A nulla servono le proteste: non c’è più niente da fare. Malik allora decide di abbandonare gli amici: non hanno più bisogno di un leader, perché il partito non c’è più. Lui, uomo libero, non chiede di meglio che tornare libero. D’altronde lo sapeva bene che la storia del partito era solo un gioco... Malik quindi se ne va, lasciando i suoi amici sconsolati. Lo ritroviamo poco dopo in un albergo a cinque stelle, misteriosamente vestito con un abito di alta sartoria, che spende e spande allegramente in compagnia di una bella bionda... Malik... La domenica seguente, come per miracolo, una grande folla si riunisce nel cortile davanti alla discoteca: un migliaio di persone preme ai cancelli e non capisce perché il locale del “Partito” sia ancora chiuso. Avvertiti per telefono da Mado, la ex-barista camerunese, Hassan, Baj, Hector e Zarko si precipitano increduli al locale, forzano la serratura, accendono le luci, mettono la musica a palla e danno fondo alle ultime riserve di birra. Purtroppo Malik non c’è più e quindi tocca ad Hassan, il marocchino, improvvisare faticosamente un discorso sui diritti degli immigrati e di tutti gli emarginati, mentre Baj e Zarko si danno da fare a raccogliere le offerte per il partito; offerte che diventano improvvisamente consistenti appena riappare Malik, elegantissimo, che strappa di mano il microfono ad Hassan e fa un magnifico e travolgente discorso sul “Partito dei Fiori del Mondo”.

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Arriva Nino con due poliziotti per far chiudere di nuovo la discoteca, ma di fronte al muro di folla decide di non intervenire e resta ad osservare quel caos, un vero suk improvvisato dove man mano si finisce per vedere di tutto, razze, colori, giovani, drag queens, mafiosi, e dove si vende di tutto... Finita la festa i soci fanno i conti. Grazie al partito, sono stati raccolti un sacco di soldi: ce n’è per pagare gli arretrati, riaprire la discoteca, fare un po’ di scorte di birra per le prossime riunioni e anche per pagare Mado, che non prendeva lo stipendio da mesi. Il giorno dopo i cinque si precipitano dall’odioso Nino e gli chiedono di riaprire il bar. Nino si è convinto che l’idea del partito potrebbe funzionare davvero e che, unendosi al gruppo, forse la sua vita miserabile potrebbe avere una svolta. Al gruppo di amici dice che cercherà di parlare col proprietario, ma a una condizione: essere coinvolto nella formazione del partito. In fondo avranno pur bisogno di un avvocato. I soci fanno buon viso a cattivo gioco, stupiti dal fatto che quell’ometto ci creda davvero... Intanto le feste de I fiori del mondo continuano e il gruppo comincia a guadagnare soldi. Nino fa sul serio: organizza, in tutta la città, la raccolta delle firme, fa stampare volantini di propaganda, cerca di addestrare Malik al gioco della politica, anche se Malik sa meglio di lui come trascinare le folle. In breve la voce si sparge tra extracomunitari e italiani: c’è un nuovo partito che vuole presentarsi alle elezioni. A quel punto Nino alza la posta: contatta l’Onorevole Alberti, importante esponente di un grande partito moderato e gli espone l’idea di presentare I Fiori del Mondo alle elezioni come partitocivetta. Alberti vuole incontrare i cinque “fondatori”, ma la mattina del fatidico appuntamento Malik non si presenta. È in galera, accusato di avere clonato alcune carte di credito. Nino deve accontentarsi degli altri quattro soci, che non hanno esattamente delle facce rassicuranti. Dopo l’incontro, l’Onorevole Alberti maltratta Nino: è vero, i sondaggi dicono che ci sarebbe posto per un partito degli immigrati, che raccoglierebbe i voti degli italiani scontenti e scettici, ma davvero lui pensa che quei delinquentelli possano fondare un partito? Nino convince l’Onorevole Alberti a far visita alla discoteca, in una sera in cui è particolarmente affollata. Alberti tornerà impressionato dal numero delle persone e si chiederà quanti voti potrebbe fruttare una situazione così, diffusa in tutta Italia. Alberti si è convinto. Convoca i suoi segretari e ordina di mettere in moto la macchina organizzativa per aiutare I fiori del mondo, chiedendo poi ad un prestigioso avvocato suo amico di darsi da fare per far liberare Malik. Grazie all’avvocato, Malik, che si è sempre dichiarato innocente, viene rilasciato senza macchia. Malik è di nuovo in pista a spendere di tv in tv il suo fascino travolgente nelle ultime settimane di campagna elettorale, circondato da uomini marketing, sondaggisti, addetti stampa, auto blu. Ha capito che incredibilmente quella piccola truffa da quattro soldi sta per trasformarsi in qualcosa di veramente grande e che lui, il bel senegalese dall’italiano sciolto, sta diventando una star. Ma gli altri quattro soci sono confusi e non capiscono bene cosa stia succedendo. Sono divisi, sospettosi: il cinese e lo slavo vorrebbero continuare a gestire tranquillamente la discoteca e a far soldi, gli altri due vedono nel partito un futuro più grande e più importante. Qualcuno poi incomincia persino a crederci nella “missione” del partito. Le elezioni si avvicinano e i sondaggi sono favorevoli. L’Onorevole Alberti è così sicuro del successo de I fiori del mondo che fa organizzare una conferenza stampa in discoteca a chiusura dei seggi elettorali, per proclamare in diretta la vittoria del piccolo partito. Poco prima della conferenza stampa Baj e Zarko litigano con Nino, e poi litigano tra loro. Dal partito non hanno ancora visto una lira e l’idea di partenza era comunque un’altra: fare un po’ di

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soldi con il bar, nient’altro. Loro vogliono la loro discoteca: del partito non gliene importa un fico. Ora o Alberti paga o la conferenza stampa si faccia pure altrove. Disperato, Nino corre da Malik, che è con Hassan e Hector. Anche lì la situazione è tesa: Malik è sotto accusa per il suo protagonismo e opportunismo. Hassan è convinto che il partito verrà strumentalizzato per scopi opposti da quelli che dichiara, è disgustato, non si fida più. Hector dissimula a stento una certa invidia per il loro leader e se la piglia con Hassan. Intanto la discoteca si riempie per la conferenza stampa che proclamerà la vittoria. Sul palco del partito degli immigrati ci sono solo bianchi: Nino, Alberti, i consiglieri di Alberti. Tutti aspettano Malik per il suo discorso conclusivo, ma Malik è in ritardo e i giornalisti scalpitano. A questo punto Nino esce, sale sull’auto blu del partito e si mette a girare per la città, come se stesse cercando qualcuno. L’autoradio dà la notizia del grande successo de I fiori del mondo: col 7%, farà vincere la coalizione di governo. Ad un semaforo, un lavavetri del Bangladesh si offre di pulire il vetro. Nino, per tutta risposta, scende, gli mette in mano le chiavi e lo lascia incredulo in mezzo alla strada con l’auto a disposizione. Hassan, Zarko, Baj, Hector e la barista Mado si sono radunati in un parchetto e chiacchierano e ridono di gusto: più che quella sensazionale bravata del fare il partito, gli è proprio piaciuto mollarlo, così, il giorno del trionfo. Ognuno lancia la sua idea su quale sarà la loro prossima impresa impossibile. Arriva anche Malik, vestito da stregone, pedalando su una bicicletta arrugginita. Gli altri lo accolgono felici e ricominciano a fare piani per il futuro. Hector dice che la cosa più bella e impossibile sarebbe fare un film. Tutti sono d’accordo con lui, perché no? Se hanno fatto un partito, perché non dovrebbero riuscire a fare un film? In quel momento arriva Nino e si unisce a loro. Appena sente parlare del film, si accalora. Per fare un film, servirà pur sempre un avvocato...

Venerdì s.r.l. è una società di produzione nata nel 2002 dall’incontro tra alcuni produttori, registi e sceneggiatori per realizzare, con modalità di produzione indipendenti, progetti di film e di documentari in grado di dare espressione a conflitti, attese, problemi, visioni del mondo di oggi. Venerdì ha prodotto La Situazione (2003) di Alessandro Piva, selezionato al Festival di Locarno 2003 e diffuso da Tele+; Un’ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi, prodotto con la collaborazione di TSI e di Tele+ e distribuito da Lady Film e Ro’co Films International (Premio Miglior Documentario al Torino Film Festival 2002, Premio Duel 2002 e Premio Oliva d’argento al Kalamata Documentary Film Festival 2003, Grecia).

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IL CASO ACNA Storie di lotte e di ordinari inquinamenti di Fulvio Montano PROGETTO PER DOCUMENTARIO GENERE: SOCIO-AMBIENTALE

La presentazione di questo progetto rappresenta uno strappo alla regola secondo la quale Plot pubblica storie per lo schermo in fase di sviluppo, progetti che gli autori vogliono far circolare per trovare un produttore interessato a scommettere su di essi. Il Caso ACNA invece, promosso dal Comune di Cortemilia, e grazie alle sovvenzioni della Regione Piemonte e della Comunità Montana Langa delle Valli che hanno permesso di coprire i costi vivi delle riprese, è già in fase di post-produzione e l’autore è ora in cerca di un coproduttore e di un distributore. La redazione ha deciso di dargli comunque uno spazio sulla rivista perché il tema proposto, se da un lato è legato al territorio piemontese, è di certo attuale e, in qualche modo, universale. Il caso ACNA di Cengio, emblematico non solo dell’Italia del boom economico ma dell’intero processo di industrializzazione del Paese, affonda le sue radici in una pratica di sviluppo finalizzata interamente al profitto e indifferente ai costi umani e ambientali che questo comporta. Crogiolo di inalienabili interessi politico-industriali e di anacronistiche istanze contadine, offre alla curiosità dello storico come del documentarista molteplici piste di lavoro: i rapporti città-campagna, operai-contadini, fabbrica-territorio, sviluppo-arretratezza, economia-ecologia... Esempio di lotta possibile e necessaria, la guerra vinta dai valligiani contro il moloc sbuffante che impestava il loro fiume è insieme presa di coscienza di una prospettiva ecologica in embrione e riaffermazione di un’indiscutibile identità di valle mutuata dalla tradizione. Sopprimere l’ACNA, impresa inimmaginabile negli anni del capitalismo rampante e spietato, diventa così obbligo morale in un’epoca di declino, in cui il prezzo da pagare (acqua inutilizzabile e aria irrespirabile) si fa insostenibile per una comunità fortemente radicata nel proprio territorio e per questo in cerca di alternative che si presentano sotto forma di ritorno cosciente al passato. Esperienza pressoché unica di democrazia diretta, spontanea ed autogestita insieme, la protesta condensatasi attorno al nucleo di attivisti dell’Associazione per la Rinascita della Valle Bormida e al giornale Valle Bormida Pulita, ha la capacità di riunire vecchi e giovani, contadini e non, cattolici, ambientalisti ed anarchici sotto un unico slogan: “ACNA chiusa!” Obiettivo del documentario è ricostruire le dinamiche umane e sociali della contestazione attraverso le testimonianze dei protagonisti e il materiale d’archivio, ma anche rintracciare i segni di una contestazione frettolosamente archiviata come concessione di un sistema industriale obsoleto, ma che in realtà rilancia lo storico conflitto tra industria e mondo contadino. Il documentario è stato pensato come progetto in divenire sul campo, sensibile alle istanze e agli spunti che di volta in volta sono emersi nel corso della sua realizzazione. Si presenterà sotto forma di viaggio alla scoperta della realtà presente ma, soprattutto, passata della Valle Bormida, dei suoi paesi, della sua gente e della sua storia. Un viaggio nella memoria e nella geografia dei luoghi e delle persone testimoni degli eventi, che avrà come partenza la città di Acqui Terme, limite estremo della protesta, e come arrivo, risalendo il corso del fiume sino alla sorgente, quel che rimane dell’ACNA Chimica Organica. Una prospettiva storica strutturata sull’alternanza tra la narrazione in prima persona dei protagonisti e materiali di archivio, quali telegiornali e programmi televisivi di approfondimento, fotografie, riprese video e rassegne stampa raccolte dai valligiani e disponibili presso i ricchi centri di documentazione sorti a battaglia vinta. Fulvio Montano

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Siamo nella primavera del 1988 e la carovana del Giro d’Italia è in Piemonte. A Colle Don Bosco, telecamere e giornalisti attendono i corridori all’arrivo, sotto un grande striscione che sovrasta il pubblico assiepato ai lati della strada. Tutto sembra svolgersi come da copione, finché un folto gruppo di persone scavalca deciso le transenne e invade l’asfalto, bloccando completamente l’accesso. Esasperati da quasi un secolo di lotte e di sofferenza più o meno cosciente, gli abitanti ed i sindaci della Valle Bormida invocano a gran voce un po’ di attenzione e, mentre la tappa viene annullata tra la rabbia di organizzatori e corridori, il caso ACNA di Cengio sale alla ribalta della cronaca nazionale. Ma che cos’è l’ACNA? Acronimo di Aziende Colori Nazionali e Affini, l’ACNA nasce a Cengio, in provincia di Savona, nel 1892 come Dinamitificio Barbieri e avvia la produzione di polvere pirica, nitroglicerina e poi dinamite. Situata in un’ansa del fiume Bormida di Millesimo, poche centinaia di metri a monte del confine con il Piemonte, la fabbrica sfrutta la difficile praticabilità del versante piemontese e la vicinanza al porto di Savona, dove approdano le materie prime e le cui vie di accesso sono presidiate da un efficiente sistema di fortificazioni. Altro fattore strategico è sicuramente rappresentato dalla disponibilità di acqua e manodopera a basso costo. Rilevata nel 1908 dalla Società Italiana Prodotti Esplodenti (SIPE), continua a produrre tritolo fino al 1925, quando la SIPE viene a sua volta assorbita dall’Italgas nell’ambito di una strategia volta ad ottenere un’integrazione verticale tra la produzione del coke e quella di gas illuminante. Nel 1929 viene costituita la società ACNA (Aziende Chimiche Nazionali Associate), con stabilimenti a Cengio, Rho e Cesano Maderno, poi comprata a pezzi da aziende straniere (IG Farbenindustrie, Basf) e dalla Montecatini (poi Montedison). Abbandonata definitivamente la produzione di esplosivi, nel secondo dopoguerra l’azienda si dedica quasi esclusivamente alla produzione di coloranti e pigmenti organici per uso industriale: tessile, cuoio e materie plastiche. Si tratta di lavorazioni particolarmente inquinanti, che impongono il divieto di utilizzo a qualsiasi titolo delle acque del Bormida a valle dell’ACNA per un tratto di oltre 100 chilometri, dove il fiume, raggiunta Alessandria, si getta nel Tanaro, a sua volta affluente del Po. In pochi decenni la natura del e attorno al fiume soccombe, rimpiazzata da un cocktail mortale di sostanze tossiche quali solventi clorurati, clorobenzene e diossina che trasuda nel fiume dai bacini di stoccaggio dei reflui (lagoons), mentre le emissioni gassose in uscita dai suoi 152 camini impestano la valle con una fitta nebbia di fenolo e anidride carbonica. Gli scarti di produzione, milioni di tonnellate di rifiuti tossici frammisti a terreno e ghiaie contaminate, vengono interrati a profondità variabili nell’area di naturale esondazione del Bormida e costituiscono il battuto su cui negli anni successivi verrà ampliato lo stabilimento. In una zona prevalentemente rurale, l’incidenza annuale di tumori e neoplasie si fa intanto rilevante, raggiungendo cifre paragonabili a quelle di un’area a forte concentrazione industriale. Gli anni Settanta vedono una forte espansione, anche occupazionale, dell’ACNA che sfrutta la completa libertà di esternalizzare i costi ambientali delle sue produzioni. Nel 1979 l’azienda ha oltre quattromila dipendenti, ma di lì a poco la situazione si farà pessima. Incapace di rinnovarsi e incalzata dalla concorrenza straniera, in soli quattro anni riduce i suoi occupati a 800 unità, mentre la Montedison lancia un piano di ristrutturazione incentrato sull’Impianto di Recupero Solfati (RE.SOL), un inceneritore destinato a smaltire le acque fortemente

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inquinate stoccate nei lagoons che, al contrario di quanto affermano i suoi promotori, avrà come unica conseguenza un ulteriore aumento dell’inquinamento atmosferico. Il progetto RE.SOL, propagandato come unica alternativa possibile alla chiusura dello stabilimento e siglato da un protocollo di intesa tra azienda, sindacato e Ministero dell’Ambiente (allora presieduto dal socialista Giorgio Ruffolo), rappresenta la risposta dell’ACNA alla mobilitazione popolare sviluppatasi nella seconda metà del 1987. L’Associazione per la rinascita della Valle Bormida, fondata nell’agosto del 1987 per iniziativa spontanea di alcuni abitanti dei comuni a valle dello stabilimento, avvia la sua campagna di protesta, denunciando il progetto RE.SOL come semplice ecobusiness che rientra in una strategia piuttosto chiara: rendere redditizi impianti obsoleti, riconvertendoli nel business dei rifiuti e presentandoli come impianti ecologici utili e indispensabili per realizzare una bonifica del sito che esiste solo sulla carta. Mentre l’Associazione, con la pubblicazione del periodico Valle Bormida Pulita, svela l’estrema gravità del caso ACNA raccogliendo consensi tra le associazioni ecologiste (WWF, Legambiente, Italia Nostra), i partiti politici (Verdi, DP), le amministrazioni locali e i residenti, il Consiglio dei Ministri dichiara la Valle Bormida “area ad elevato rischio ambientale”. Al grido di “ACNA chiusa!” vengono sollecitate interpellanze al Ministero dell’Ambiente, organizzate passeggiate di protesta attorno allo stabilimento e presidi sul Bormida da cui sorvegliare gli scarichi. Il feudo Cengio, intanto, si stringe attorno al castello d’acciaio del suo Signore. Il sindaco, dipendente ACNA, invoca l’intervento delle forze dell’ordine per bloccare le manifestazioni e dell’esercito per sgombrare i presidi; i sindacati vietano agli operai di partecipare ai cortei di protesta e ne fomentano la reazione contro i cosiddetti ecologisti. Nel 1993 l’ENI, che ha ereditato i conti in rosso dell’ACNA dopo lo scandalo Enimont, decide di mettere l’azienda in liquidazione, mentre una Commissione ministeriale nominata dal governo Ciampi si pronuncia a favore del RE.SOL. La Regione Piemonte si oppone, denunciando la sproporzione tra le potenzialità di smaltimento dell’impianto e le giacenze dichiarate dall’ACNA, l’assenza di un’indagine approfondita sull’effettiva composizione dei reflui stoccati nei lagoons e la concreta possibilità di smaltirli interamente in loco. Intanto, da un’inchiesta della Procura di Savona emergono responsabilità dei dirigenti ACNA nell’aumento esorbitante del deficit societario e documenti riservati, con preghiera di distruzione dopo la visione, che rinnovano tutti i sospetti sulla fabbrica di Cengio, confermandone la natura di impianto ad alto rischio. Bloccato definitivamente il progetto RE.SOL dai vertici dell’ENI, lo stabilimento langue tra cassa integrazione e ulteriori licenziamenti fino alla chiusura, decretata nel 1999. Il movimento di valligiani ed ecologisti incassa la sua più grande vittoria, mentre le amministrazioni di Piemonte e Liguria si riappacificano attorno al tavolo delle trattative per la più ambiziosa e impegnativa opera di bonifica mai avviata in Italia. I personaggi del documentario Unico testimone imparziale e onnipresente nel caso ACNA, il fiume svolgerà il ruolo di vero e proprio collante tra le situazioni presentate, fissando l’orizzonte geografico e culturale degli eventi. Si è deciso quindi di concentrarsi sui promotori del movimento di protesta, per poi allargare il discorso ai loro avversari (amministrazioni locali e nazionali, azienda, abitanti di Cengio e operai dell’ACNA), nella convinzione che la tensione generata tra i due blocchi gioverà alla comprensione dell’intera vicenda.

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Sono stati dunque intervistati amministratori e privati cittadini piemontesi, testimoni diretti della situazione in valle e del movimento di protesta che affonda le sue radici negli anni sessanta e settanta, quando un manipolo di carbonari, tra mille difficoltà, prese ad occuparsi seriamente del problema. A questi si sono aggiunte le testimonianze dell’allora sindaco di Cengio, di ex-sindacalisti ed exoperai dell’ACNA, così da mettere in luce i tanti risvolti della vicenda. Una suggestiva gita nell’area ex-ACNA, attualmente in fase di bonifica, ha permesso di raccogliere le testimonianze di alcuni operai di allora che hanno accettato l’invito di raccontare il loro particolare vissuto.

Fulvio Montano. Laureato in DAMS (indirizzo cinema) all’Università di Torino con una tesi su Il cinema metafisico di Werner Herzog. Redattore della rivista di critica letteraria LN-Libri Nuovi e redattore della rivista di critica cinematografica Effettonotte. Dal gennaio 2004 è membro del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiano (SNCCI). Da alcuni anni è organizzatore e docente di corsi di avviamento all’audiovisivo presso comuni ed altri enti e collaboratore della casa editrice Einaudi di Torino. Nel giugno del 2003, il suo progetto Come un sasso in uno stagno ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura al concorso nazionale per cortometraggi Cortopotere di Bergamo e, nell’aprile del 2004, è stata finalista al CortoinBra Film Festival.

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“... mentre la tappa viene annullata tra la rabbia di organizzatori e corridori, il caso ACNA di Cengio sale alla ribalta della cronaca nazionale.�

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CONTRE NATURE di Yann Marquis PROGETTO

PER UN DOCUMENTARIO DI CREAZIONE

Se l’uomo non esistesse, il mondo vegetale ricoprirebbe la quasi totalità del globo terrestre. Ma l’uomo ha fatto la sua apparizione e con il suo arrivo ha imposto la città, questo ecosistema in cui il vegetale, ad eccezione di alcuni rari spazi strettamente delimitati, non ha posto. La vittoria dell’uomo sul mondo delle piante sembrerebbe dunque totale... Ma è proprio così? Con il suo ritmo, silenzioso e implacabile, il regno vegetale prende possesso dello spazio urbano. È questo formidabile dinamismo che il film Contre nature si propone di tradurre in immagini e musica.

Il film Contre nature ci trasporta nel mondo segreto delle piante selvatiche, nel cuore delle città. Questo progetto è nato dal desiderio di far riscoprire un mondo che vive al nostro fianco, proprio sotto i nostri occhi, e che pertanto resta invisibile a molti di noi. Da sempre sono affascinato dal dinamismo del regno vegetale e delle sue creature apparentemente immobili, che popolano il nostro pianeta di foreste vergini, fino alle strade delle nostre città. Il mio cammino ha incrociato da alcuni anni quello di un compositore e con lui ho portato avanti diversi progetti di film. Contre nature è nato dal nostro desiderio di scrivere un film sulla base di uno spartito per musica e immagini. Con l’aiuto di un esperto in botanica ho intrapreso delle ricerche al fine di mettere in evidenza le particolarità della colonizzazione degli spazi urbani da parte delle piante. Frutto di queste collaborazioni, Contre nature vuole essere una favola naturalista che mescola rigore scientifico e poesia audiovisiva. Yann Marquis

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Una passeggiata botanica inizia sul marciapiede di una città, la “Città”. Da un lato il traffico intenso, con i suoi effluvi dei gas di scappamento, gli innumerevoli pedoni, il cemento invincibile, dall’altro, in una fessura dell’asfalto, un semplice filo d’erba, fragile e minuscolo: basta accucciarsi per guardare da vicino questo contrattacco del mondo vegetale. Tra i giganteschi palazzi e le foglie verdi è iniziato un combattimento apparentemente squilibrato. Una partita a scacchi si gioca in questo stesso momento, al livello delle nostre suole, al disopra delle nostre teste, nel cuore dei nostri muri, a portata di sguardo per chi sa dove guardare. Dei semi portati dal vento si introducono clandestinamente fino nel sottosuolo delle nostre città. Essi utilizzano e sono persino capaci di dirottare talvolta i nostri mezzi di trasporto. Basta che una palizzata isoli per qualche settimana uno spazio nella Città ed ecco la cineraria del Canada che lacera il catrame per permettere al buddleia del Tibet di installarsi e far mostra dei suoi fiori malva. Non appena l’uomo abbandona i luoghi, anche solo provvisoriamente, il regno vegetale si espande nella sua lussureggiante diversità. Discreti, i vegetali selvatici si sviluppano intorno a noi, con una “volontà” implacabile. Giocando il loro futuro in balia dei venti, approfittando della pioggia che li nutre, sfruttando un semplice raggio del sole quotidiano, insinuando il loro polline dappertutto, le piante sono in Città, sempre pronte a riconquistare nuovi territori.

IL MONDO SEGRETO DELLE PIANTE NELL’AMBIENTE URBANO Il seme Una delle proprietà esclusive più straordinarie degli esseri viventi è la loro capacità di riprodursi. Nella maggior parte dei vegetali, la riproduzione sessuata porta alla formazione di un seme che dà vita ad un nuovo individuo. I vegetali che danno origine ai semi sono chiamati spermatofiti (etimologicamente: piante da seme) e includono il maggior numero di alberi e altre piante da fiore. Tuttavia, il seme non è una tappa come le altre nel ciclo vitale delle spermatofite. Esso costituisce anche un organo di disseminazione e di resistenza. Per mezzo del seme, queste piante sono in grado di compensare la loro immobilità e di colonizzare nuovi territori. Trasportati dal vento o dagli animali, i semi possono percorrere distanze considerevoli e germogliare a migliaia di chilometri dalla loro regione di origine. È così che ritroviamo nel forte di Vincennes delle piante originarie dell’estremo oriente russo. Esse vi sono state portate sotto forma di semi attaccati ai cingoli dei carri armati tedeschi durante la seconda guerra mondiale. La disseminazione sarebbe molto meno efficace se i semi non presentassero anche una resistenza stupefacente alle condizioni estreme. La maggior parte di essi può sopravvivere per molte ore nell’azoto liquido a -170°C senza che il loro potere di germinazione sia compromesso. Inoltre, la longevità di alcuni semi è notevole e può raggiungere, in certi casi, diverse centinaia di anni. Questa incredibile resistenza ha permesso alle piante da fiore di estendersi su tutta la superficie terrestre, e neppure l’attività umana ha avuto ragione della loro colonizzazione. Il polline In primavera, la stagione degli amori, le città si vedono invase dal polline prodotto dalle piante. Quasi invisibile, il polline si insinua dappertutto fin dentro le nostre vie respiratorie, all’interno del nostro corpo! Da una decina d’anni si constata una crescita del numero di persone allergiche al polline, rese certamente più fragili dall’inquinamento atmosferico. La luce nelle città L’architettura e la disposizione delle costruzioni giocano un ruolo essenziale nella crescita delle piante, poiché mascherano o riflettono la luce e il calore. La fotosintesi in città dipende dunque dallo spostamento delle ombre, una danza orchestrata dal sole.

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Nell’ecosistema Città, quando la notte sta per calare, l’illuminazione pubblica dà il cambio al sole. Le piante sfruttano questa illuminazione artificiale per crescere, distogliendo così i lampioni dalla loro funzione primaria. Le reti di circolazione ferroviaria e le reti di fognature Nel cuore delle città esistono degli spazi in cui l’uomo non mette praticamente mai piede sia perché sono troppo pericolosi sia perché sono troppo sporchi. Per la loro pericolosità, le linee esterne del metrò sono dei luoghi proibiti. I vegetali vi crescono senza distinzione e poco importa che un metrò di diverse tonnellate passi al disopra delle loro foglie. Le reti di fogne a cielo aperto, poco frequentate dall’uomo, drenano acque piovane ed acque nere, cosa che le rende molto adatte alla colonizzazione vegetale. Lontano dal nostro sguardo, e tuttavia molto vicino a noi, le piante si sviluppano nelle arterie della Città. La colonizzazione verticale Le piante non si accontentano di colonizzare il suolo. I semi, portati dal vento e dagli uccelli, si depositano un po’ ovunque, sui balconi, sui tetti, tra le fessure dei muri. E così le piante crescono ad ogni livello, al disopra delle nostre teste. Alcune di esse, come l’edera, hanno anche la capacità di arrampicarsi sui muri e sembrano sfidare la gravità. Le aree industriali dismesse Le aree industriali abbandonate hanno delle qualità estetiche e spaziali molto particolari. Sono il luogo del gigantismo: gigantismo degli spazi, immense superstrutture, hangar; gigantismo degli oggetti rimasti: gru, scavatrici, macchine utensili, tubature... Il vuoto che le circonda e le abita è ancora più vasto e provoca un’impressione fisica di libertà, impossibile da provare nei centri urbani. La ripresa di possesso di questi luoghi abbandonati da parte di una specifica natura accresce questo senso di libertà. Questa vegetazione selvatica, in balia dei venti, degli uccelli o dell’acqua, si intreccia alla vegetazione dimenticata dall’uomo. Questi alberi addomesticati e potati che si trovano nei nostri parchi e giardini riacquistano le loro forme originarie, si adattano o spariscono. Queste piante pioniere finiscono per introdursi in luoghi da cui in tempi normali sarebbero state combattute. Buddleia, ailanto... si insinuano nella breccia di un muro e ritracciano i percorsi dei binari abbandonati. I muschi tappezzano un suolo inutilizzato. Ovunque le rovine lascino un po’ di terra e di acqua, una pianta si installa per poi sparire quando le condizioni di vita diventano troppo “civilizzate”. Questa sublime complicità tra cemento, metallo e vegetale è propria delle aree industriali abbandonate.

TRATTAMENTO Nero. Sottofondo di musica misteriosa e accattivante. Appare un’immagine sfocata e in movimento. Dopo alcuni secondi l’immagine inizia a diventare netta e a fermarsi. Si distingue una foresta ripresa dall’alto. Passeggiamo per alcuni istanti in mezzo agli alberi, agli arbusti e ai fiori. Da ciascuna di queste piante proviene il suono di uno strumento ogni volta diverso, come un’orchestra che si accorda prima di una rappresentazione. Incrociamo una vecchia quercia. Da questo albero che sembra essere l’anziano della foresta, un tema musicale di clarinetto basso comincia a farsi strada dal magma musicale iniziale. Tutti gli strumenti iniziano allora a suonare in concerto. La musica segue un leggero crescendo, poi si arresta bruscamente. Con un terribile fracasso, un braccio di pala meccanica si abbatte sulla quer-

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cia. La pala meccanica assomiglia ad un grosso insetto di metallo con le sue articolazioni, i suoi cingoli che frantumano il suolo. Un “combattimento” inizia allora tra questo insetto e la vecchia quercia, con una successione di inquadrature sul braccio meccanico e sui rami dell’albero. La musica si mescola al rumore del motore poi, con un ultimo soffio, è sovrastata dallo sfondo sonoro di un cantiere. Ora siamo nel mezzo di un balletto di gru, bulldozer e betoniere. Il balletto è accompagnato da una sinfonia che unisce i rumori meccanici delle macchine e i rumori organici della terra lacerata sotto i loro assalti. A poco a poco si comincia a sentire il rumore di un centro Città. La camera lascia per alcuni istanti i bulldozer e fa una panoramica verso il cielo; quando si riabbassa, una città si erge al posto del cantiere. Immediatamente ci ritroviamo in strade dove regna una grande agitazione (circolazione di pedoni e motori). Un ambiente di cemento, di ferro e di vetro. Il rumore della Città si fa più presente. I tubi di scappamento urlano e sputano il loro fumo blu. I palazzi sono immensi. L’uomo è secondario, abbozzato o incompleto. Nel mezzo dell’agitazione urbana, ci avviciniamo lentamente a un tronco d’albero tagliato. Di lontano, come un ricordo, arriva il tema musicale della vecchia quercia. Non è lei? Nero. Una pista di aeroporto. Un aereo è appena atterrato. Nella sala arrivi i bagagli sfilano sul tapis roulant. Una mano afferra un sacco scozzese da cui proviene il suono soffocato di uno strumento musicale. Nell’aeroporto sfilano su dei carrelli diversi bagagli da cui emanano gli stessi suoni soffocati. Ritroviamo allora il sacco scozzese posato sul pavimento dell’atrio mentre il suo proprietario sta pagando il parcheggio. Ci avviciniamo al sacco e scopriamo che un seme gli si è attaccato clandestinamente, che ha forse appena attraversato il mondo incollato a questa valigia. Il seme emette dei piccoli gemiti musicali. L’atrio di una stazione. Un treno è appena arrivato. Scarica una fiumana di passeggeri e di bagagli. Assistiamo ancora una volta ad un corteo di valigie da cui provengono suoni di differenti strumenti. Seguiamo queste valigie nei parcheggi, nelle strade... La Città è presa d’assalto da migliaia di semi. Gli strumenti che fino a quel momento gemevano ora suonano all’unisono. In una strada del centro città ritroviamo il sacco scozzese. Il suo proprietario si ferma, lo posa a terra un istante per prendere qualcosa dalla sua tasca, poi riparte. Il seme che si è staccato dal sacco è ora sull’asfalto. Nero. Vista della Città dall’alto, il cielo è carico di nubi. In un boato di tuono il sole sparisce dietro una spessa nube. La pioggia cade sulle strade, ombrelli si incrociano, gambe corrono e saltano al disopra delle pozzanghere in cui si riflettono i palazzi. L’acqua scorre ai bordi delle strade. Torniamo al nostro seme. Sta per germogliare, accompagnato da un assolo di clarinetto. Dietro i palazzi il cielo si scopre. La pioggia smette. Vista della Città dall’alto. Il cielo è blu e soleggiato. Totale di una strada molto agitata. L’ambiente urbano è assordante e i palazzi che delimitano la strada formano un gigantesco corridoio che si perde lontano. Attraverso inquadrature via via più strette, ci avviciniamo ad un punto preciso sul marciapiede. Uno strumento solista trafigge i rumori urbani, che si azzittiscono. Una giovane stellaria spunta da un anfratto dell’asfalto. È da questa pianta che esce il suono. Una scarpa passa a fianco, sembra smisuratamente grande in rapporto alla fragile piantina. Diverse inquadrature macro ci fanno viaggiare per alcuni istanti in questo mondo del minuscolo. Incrociamo differenti mini-piante che crescono nelle fessure del bitume sporco, in mezzo a cicche di sigarette e biglietti di metrò. La banda sonora è ora simile a quella della foresta. Tutti questi giovani germogli sembrano accordarsi per il grande concerto.

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Nero. Il sole appare all’angolo di un palazzo. Le ombre proiettate dai palazzi iniziano ad animarsi sui muri e sul suolo. Questo balletto orchestrato dal sole è filmato in accelerazione. Un’euforbia spunta sul marciapiede. Uno strumento inizia un assolo. Sullo sfondo, le ombre si spostano e il sole inonda a poco a poco la strada fino a raggiungere la pianta. Man mano che il sole si avvicina, l’assolo si intensifica. Dall’alto della Città le ombre continuano la loro ronda. Osserviamo allora diverse piante bagnate dalla luce solare, sono in piena fotosintesi. Lo strumento solista è ora raggiunto dagli altri. Suonano all’unisono il tema del Sole. La Città si stende fino all’orizzonte. Piano piano il sole tramonta. Nelle strade i lampioni si accendono gli uni dopo gli altri con un crepitio elettrico. Un lampione si illumina emanando una potente luce gialla. Ai piedi del lampione, una piccola colonia di chenopodi. Queste piccole piante sfruttano a loro vantaggio questo arredo urbano per crescere durante la notte. Ci avviciniamo ad esse e sentiamo debolmente una parte degli strumenti suonare il tema del Sole. Nero. Sotto una griglia, le fognature. Dietro la griglia, la strada con la sua agitazione urbana. Attraverso la griglia, delle ombre passano. Il suono prodotto svela che sono automobili. Procediamo all’interno delle canalizzazioni in una semioscurità. Sentiamo scorrere un ruscello da vicino, e lontano il rumore sordo della Città. Via via che avanziamo, una musica inizia a risuonare debolmente all’interno delle canalizzazioni... flauto traverso, percussioni. Sbuchiamo in uno scarico a cielo aperto. È una gola di cemento le cui pareti, alte una decina di metri, trasudano acqua. Al fondo scolano le acque nere. Due enormi ambrosie, alte più di un metro, si innalzano davanti all’ingresso del tunnel. La musica è ora molto presente. Nutrendosi di melma o a strapiombo sui detriti, diverse specie di piante si abbeverano lungo il ruscello, aggrappate al cemento. Con una panoramica verso l’alto riguadagniamo la superficie e ci ritroviamo nel cuore della Città. Una galinsoga ispida cresce dentro un muro, a diversi metri dal suolo. L’ambiente sonoro della Città si spegne, annegando a poco a poco nel rumore del vento. Da un balcone una pianta di saggina suona delle percussioni africane, da una grondaia un crespigno l’accompagna con alcune note di clarinetto. In basso si scorge l’agitazione della strada. Sulla curva di un muro un’edera si arrampica con l’aiuto di minuscole ventose. Violini. Sui tetti diverse piante approfittano del sole e una colonia di muschi aspetta la pioggia, nascosta nelle giunture delle tegole. Un piccione sorvola la Città. Atterra sul bordo di un tetto per andare ad unirsi ad un gruppo di consimili. Tra i loro escrementi cresce una piantina. Nero. Dall’alto di una strada dalla quale provengono rumori di traffico. L’ambiente urbano lascia posto a rumori elettronici. Inquadratura di una finestra: è un laboratorio. Su delle stuoie sono appoggiate delle provette, dei microscopi ed altre attrezzature da esperimenti. Dei busti vestiti con camici bianchi si affaccendano intorno alle stuoie, prendono in mano gli strumenti. Su uno schermo appoggiato vicino a un microscopio, un seme di polline è ingrandito migliaia di volte. Di nuovo alla finestra: l’ambiente urbano è annegato dal rumore del vento. Per la strada incrociamo nasi rossi e bocche che starnutano. Viaggiamo per la Città: autostrada, linee esterne di metrò, stazione, zona pedonale, tetto di un palazzo, bordi delle strade... Questi luoghi sono colonizzati da specie differenti di piante che crescono in accelerazione. L’ambiente urbano lascia posto al suono di strumenti come se un’orchestra stesse per cominciare. Le piante sono acconciate con grappoli di semi. Passiamo davanti ad un albero enorme nella cui scorza è inglobato un cartello stradale, come se il vegetale stesse digerendo la Città.

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Nero. Un’area industriale dismessa. I palazzi sono sventrati, i vegetali hanno invaso tutti i piani. Le radici hanno fatto letteralmente esplodere i muri. Sui mucchi di macerie e immondizie crescono avene, amaranti, camomilla romana, inule... è un’esplosione di forme e colori. Qui il regno vegetale si esprime in tutta la sua lussureggiante diversità. Tutti gli strumenti suonano il tema principale. In secondo piano sonoro distinguiamo rumori di macerie e di lamiera metallica. Dettagli di una macchina arrugginita: una pala, dei cingoli e infine un abitacolo in cui crescono dei chenopodi. Nel mezzo dell’area abbandonata giace una vecchia scavatrice, accerchiata dalle piante. Un albero cresce là, in mezzo alle rovine. Inquadratura dal basso sulla cima dell’albero. L’immagine va a sfocare per finire a schermo nero.

NOTA DI INTENTI MUSICALE Il suono e la musica giocano un ruolo preponderante nel film, contribuiscono alla personificazione dei vegetali e creano una dialettica poetica propria al regno vegetale e alle sue relazioni con lo spazio urbano. Dapprima percepita come “musica da camera”, essa trova poco a poco la sua esistenza dentro, mescolandosi agli ambienti sonori captati dal reale, sincronizzandosi con le specie vegetali, esprimendo la forza di ciascuna di esse. La formazione strumentale è composta da un quartetto di archi; flauto, clarinetto, clarinetto basso; arpa amplificata con effetti; percussioni (conchiglie, campane, blocchetti di legno...).

Yann Marquis (1978) studia chimica e fisica all’Università di Poitiers, contemporaneamente segue corsi di fotografia alla Scuola di Belle Arti e gira in video. Nel 2000 porta a termine i suoi studi presso il Dipartimento di Scienze Arti e Tecniche dell’Immagine e del Suono all’Università di Provence, specializzandosi in regia. Membro del Collettivo Terra Incognita, ha già realizzato diversi documentari. Arnaud ROY (1980) studia suono al LISA di Angoulême. Nel 1999 consegue il Certificat de Fin d’Etudes Musicales (CFEM) in arpa all’Ecole Nationale de Musique di Angoulême. Prosegue i suoi studi presso il Dipartimento di Scienze Arti e Tecniche dell’Immagine e del Suono all’Università di Provence. Nel 2002 entra nella classe di composizione di Prof. Georges Bœuf al Conservatorio di Marsiglia. Membro del Collettivo Terra Incognita, registra due album autoprodotti e partecipa a numerosi progetti musicali di creazione.

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“Una giovane stellaria spunta da un anfratto dell’asfalto. È da questa pianta che esce il suono. Una scarpa passa a fianco, sembra smisuratamente grande in rapporto alla fragile piantina.”

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RESISTANCES di Eric Pinoy PROGETTO

PER UN DOCUMENTARIO DI CREAZIONE

Quattro personaggi in transito, un immigrato, un viaggiatore, una viaggiatrice, un rifugiato politico, lontani dai loro paesi d’origine per ragioni differenti, che non si trovano bene là dove si trovano. Tutti sognano un altrove dove vivere meglio. Attraverso i loro viaggi, reali o immaginari, essi rivolgono uno sguardo sul mondo nel quale vivono, e parlano della difficoltà di trovarvi un posto. Ma al di là delle frontiere che separano uomini e paesi e malgrado i desideri differenti dei quattro personaggi, una cosa è comune a tutti: la volontà inalienabile di riappropriarsi di un pezzo di questo mondo. Una volontà comune alla specie umana.

Oggi si parla molto di mondializzazione, di villaggio globale, di circolazione di flussi, di informazioni, di merci, altrettanti parametri che ci propongono una serie di vestiti ideologici da indossare e che rimettono in discussione la nostra identità. Ma se i beni e le merci transitano facilmente da un capo all’altro del mondo, le frontiere continuano più che mai ad ergersi tra gli uomini e ad ingabbiare il loro destino. Il progetto Résistances è nato da una constatazione: lo scopo dell’uomo è aprire costantemente uno spazio, geografico o dello spirito, reale o immaginario. La natura dell’uomo non è sedentaria. All’origine, siamo nati tutti nomadi. Noi proviamo costantemente il bisogno di abbattere il nostro orizzonte, di superarci, di liberarci. Affermando così la nostra indipendenza, il nostro libero arbitrio, non troveremo anche i mezzi per inventarci un’altra vita? È nata così l’idea di realizzare un film sull’esilio e l’erranza, con personaggi alla ricerca di se stessi, attratti verso una linea d’orizzonte che diventerebbe la metafora del loro proprio avvenire... Un film che (ri)traccerebbe il lungo cammino nel corso del quale un uomo, una donna cerca con i suoi propri mezzi di sfuggire alla sua condizione. Résistances, al plurale: resistenza alle congiunture economiche, politiche e sociali, resistenza ad un mondo che si è volontariamente sedentarizzato. Contrariamente a ciò che l’ideologia liberale vorrebbe farci credere, la fine delle utopie non è ancora suonata... Ma bisognerà abbattere frontiere, città e deserti per riavvicinarci a noi stessi e riconciliarci con il mondo. Eric Pinoy

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R E S I S T A N C E S

Non molto tempo fa, guardavo ogni luogo della terra come altrettanti luoghi possibili dove costruire la mia casa...

Ho spesso pensato a questa frase di Henry David Thoreau mentre viaggiavo. Per la sua dimensione poetica ma anche politica, essa ci invita a guardare il mondo diversamente. Essa interroga il mio sguardo. E il mio rapporto con il mondo. Mi ricordo di una notte interminabile, passata dentro un autobus, da qualche parte in America del Sud... Quella notte mi è sembrato che io avessi sempre vissuto là, in quel paese così diverso e così lontano dal mio... Mi ricordo di aver provato un senso di libertà incredibile. Forse essere liberi è questo. Non avere più orpelli, non appartenere più ad un paesaggio. È per questa ragione che il viaggio è diventato per me una necessità? Quello che so è che lo stesso desiderio ha sempre nutrito i miei progetti di film e di viaggi: quello di abbandonare il mondo conosciuto per andare verso l’ignoto. L’amore del lontano, diceva un poeta... Una cosa è certa, il viaggio è inscritto dentro di noi. Gli uomini non hanno mai smesso di cercare nuove terre, nuovi continenti. Non hanno mai smesso di abbattere le frontiere. Ma l’uomo ha sempre sentito la necessità di sedentarizzarsi, di trovare una terra dove costruire un focolare. Viaggiare diventa allora il perseguimento del benessere. E questo perseguimento ci spinge talvolta a trasgredire i divieti: le frontiere geografiche, le formalità che si ergono tra gli uomini e i loro paesi, passaporti, visti, lasciapassare... Altrettanti ostacoli che bisogna aggirare e che sono per me altrettanti segnali che ci ricordano che il mondo è difficile da abitare. E ancora di più nel momento in cui le leggi sull’immigrazione si fanno più restrittive un po’ ovunque. Quale avvenire si prepara per quelle persone che non vogliono vivere in maniera sedentaria, che sono contrari all’esilio? E come vivono questa situazione? Affermando questa volontà inalienabile di riappropriarsi di una parte del mondo, non cedendo alla rassegnazione, noi facciamo atto di resistenza. Come Dary, cambogiano esiliato che consacra tutto il suo tempo passato in Francia a procurarsi i mezzi per ritornare un giorno nel suo paese, e niente gli impedirà di vivere il suo sogno. Come Michel, il viaggiatore errante che rifiuta di piegarsi al modo di vita sedentaria che domina la nostra civiltà, rifiutando di cedere all’istinto della proprietà privata... Come la persona che richiede asilo, un personaggio da trovare, che aspetta di sapere se potrà ricostruire la sua vita in Francia. Una persona tenace, determinata ad andare altrove se gli sarà rifiutato questo diritto. Come Magali, sempre sulla strada - in Francia o in paesi lontani - per la quale il viaggio non è una fuga ma un mezzo per ricostruire una vita che si accordi innanzitutto ai suoi desideri. Quello che fa la forza dei quattro personaggi è la loro perseveranza. Essi non vogliono rassegnarsi al presente come il solo avvenire possibile. Essi non rincorrono un’utopia. Non vogliono scappare dal reale per rifugiarsi in un dolce sogno. È questo che fa la loro forza.

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Ogni scelta implica dei compromessi ed essi li accetteranno lavorando duro per darsi i mezzi materiali e finanziari per raggiungere il loro scopo: Dary fabbricando statuine del presepe, Michel vendendo le sue sculture, Magali e il personaggio che chiede asilo vivendo di lavoretti. Malgrado i contesti e i modi di vita differenti - e malgrado le distanze che li separano - voglio mostrare a che punto essi sono vicini. Scegliendo di partire, di seguire la loro strada, essi tentano di affermare il più possibile la loro libertà, in alcuni casi a rischio della loro stessa vita: come Dary, quando è dovuto fuggire dalla Cambogia, come l’uomo che chiede asilo, il quale vive clandestinamente in Francia, senza risorse. C’è l’urgenza. Questi personaggi sono alla ricerca di se stessi. Il loro percorso interroga il nostro modo di vivere e il posto che occupiamo in questo mondo. Forse invitano anche noi ad abbattere le nostre frontiere, quelle che ci separano dai nostri desideri, dai nostri sogni e che sembrano resisterci così spesso. Perché siamo qui? Cosa c’è altrove? C’è qualcosa, a parte i sogni, al di là dell’orizzonte? Sono queste le domande che il film Résistances si propone di esplorare.

I PERSONAGGI DEL FILM Dary Un cambogiano di una cinquantina d’anni. Vive in esilio a Marsiglia da 28 anni, dopo essere scappato dai campi del regime di Polpot. Malgrado tutto questo tempo passato in Francia, non è mai riuscito ad adattarsi a questa vita. Senza dubbio perché non l’ha scelta: il fatto che parli ancora molto male il francese e che non abbia fatto figli dimostra che non si è mai voluto veramente integrare con una cultura che non è la sua. “Non passa istante senza che io pensi al mio paese.” Dary si è fatto pochi amici in Francia: la sua cerchia si limita a sua moglie, con la quale è fuggito dal suo paese, e ad alcuni altri cambogiani che vivono nel suo quartiere. “Penso sempre alla Cambogia, alla mia famiglia,” mi dice. Poi punta l’indice alla tempia: “Sono malato nella testa perché penso troppo. Perché non riesco a dormire...” Tira fuori dal portafogli un biglietto da visita, quello del medico psichiatra che lo segue. Dary vive ogni giorno il sentimento di essere da nessuna parte, in transito, in un paese che non ha scelto e che non gli andrà mai bene. Da anni si guadagna la vita fabbricando insieme a sua moglie le statuine del presepe di Provenza. Nel suo appartamento ce ne sono dappertutto. Dary le modella, sua moglie le dipinge. Tutti e due lavorano dodici ore al giorno, sette giorni su sette, instancabilmente. Dopo tutto questo tempo aspettano una sola cosa: guadagnare più soldi possibile per poter rientrare finalmente nel loro paese e riprendere il corso della loro vita, mettere fine a questa lunga parentesi.

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Quando Dary evoca il suo futuro in Cambogia, questo suona come un sogno lucido, la descrizione di una vita ideale... la certezza di vedere realizzate le sue speranze... Dary mi mostra un filmino di vacanze girato in Cambogia. Si ferma su un’immagine: mi mostra un terreno incolto sul quale lo si vede accompagnato dalla sua famiglia... Gli chiedo perché tutti stanno tracciando dei solchi nella terra. Mi risponde che è lì che costruirà la casa nella quale spera di finire i suoi giorni... Ma oggi solo l’orizzonte del mar Mediterraneo che osserva dalla finestra del soggiorno, gli permette di evadere un istante dal suo quotidiano... e di sognare delle ore più felici.

Michel Un uomo di 31 anni che ho incontrato a Parigi anni fa. Dormiva tutte le notti in un cartone, sul marciapiede. Ma aveva l’aria molto felice. Mi ha spiegato che era una sua scelta, che aveva un lavoro e che guadagnava bene. “Semplicemente,” mi ha detto, “rifiuto l’idea che si debba pagare per avere un tetto.” E mostrandomi il suo zaino ha aggiunto: “Tutto ciò che possiedo è qui dentro. Il minimo vitale!” Quello che non sapevo ancora è che Michel avrebbe lasciato la Francia dall’oggi al domani, due mesi più tardi. I soldi che aveva messo da parte rifiutandosi di pagare un affitto gli avevano permesso di fare questa scelta senza concessione alcuna. Dopo un viaggio durato cinque anni (India, Madagascar, Birmania, Mayotte), Michel vive attualmente alla Réunion, sempre alla ricerca di un modo di vivere più aderente al suo ideale: “Viaggiare è un modo per conoscere meglio il mondo, per abitarlo meglio dopo, per mettere in pratica una libertà che sia la più grande possibile. È anche un modo di vivere una prossimità più grande con la natura.” Ma la libertà ha talvolta il gusto della solitudine: “Se io rifiuto tutto in blocco, ovvero lavorare, ricevere aiuti, allora diventa molto delicato vivere in società. È quasi impossibile. E alla fine c’è la solitudine.” Michel sarà filmato alla Réunion e in Francia, nella Drôme, dove ritorna ogni tanto. Egli ci parlerà dei suoi viaggi passati, di ciò che gli è rimasto, di quello che ha imparato su se stesso e dei suoi viaggi futuri. Alla Réunion Michel, allontanatosi dall’agitazione di Saint-Denis, la città principale dell’isola, vive nel cirque de Cilaos, tagliato dal mondo. Si è costruito un forno solare ed è tornato alla scultura su pietra e ai vasi. Lui spera, mi ha detto di recente, di vendere le sue creazioni per poter ripartire verso altri continenti, sempre convinto che la sua vita è altrove...

Un uomo o una donna Una persona che chiede asilo politico, appena arrivata sul suolo francese, a Marsiglia. Un destino simile a quello di Jean-Claude, uno del Benin che ho incontrato alcuni mesi fa, qualcuno che sperava di ricostruirsi una vita migliore in Francia.

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È l’inizio di un’attesa interminabile, lontano dai suoi, tra due paesi, con la paura di vedersi rifiutare il suo diritto di asilo. Molti mesi da passare in condizioni di vita insalubri, a sperare, a dubitare... E poi un giorno, il verdetto. Per Jean-Claude, un rifiuto della Commissione. Lui era lì, non voleva crederci, passeggiando per la città, parlando a se stesso: “Che farò, che farò... Tentare in un altro paese... È tanto tempo che non vedo la mia donna e la mia bambina...” Tira fuori le foto, me le mostra, poi le mette a posto, aspettando il momento in cui telefonerà per comunicare loro la terribile notizia... “Se non hai i documenti non sei nessuno... Non un uomo... Che vado a fare in Benin? Non c’è niente da fare in Benin... È qui che voglio vivere...” Poi Jean-Claude è sparito. Alle mie chiamate al telefono rispondeva una voce incorporea: “Il numero selezionato non è più attribuito...” È tornato nel suo paese? No, ho appreso poi che aveva passato clandestinamente la frontiera francese sperando di ottenere asilo in un altro paese europeo...

Magali Una donna di una trentina d’anni, di nazionalità francese. Alcuni anni fa Magali ha vissuto due eventi determinanti: la demolizione della casa di famiglia e la sparizione di un fratello. Più niente la tratteneva là dove aveva trascorso tutta la sua vita. “Partire era per me l’unico modo per rilanciare la mia vita, di liberarmi dal peso del passato, di ritrovare fiducia in me e nel futuro.” Sotto forma di diario di viaggio, con voce fuori campo, Magali si porrà delle domande sullo sguardo che lei rivolge al mondo. Ci parlerà della difficoltà di abitarlo realmente. “Quando io guardo intorno a me, questo mondo ha, a momenti, l’aspetto di un luogo grande e curioso in cui vivere...” Per questo film ho voluto creare un personaggio di finzione che potesse darmi l’opportunità di evocare il viaggio da un punto di vista più riflessivo, e soprattutto più poetico. Una voce che ci accompagna per tutta la durata del film. Magali è questo personaggio di finzione. Tuttavia lei non incarnerà veramente il mio sguardo: noi scriviamo il testo di questo personaggio a quattro mani, confrontando le nostre esperienze e le nostre impressioni di viaggio. “Talvolta io posso guardare l’orizzonte e non vedere niente niente altro che la solitudine. E tuttavia, anche in mezzo alle dune più lontane, ci sono sempre stati dei posti di frontiera e ci sono sempre stati degli uomini ad attraversarli...

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Sugli altipiani del Drâa, tra Marocco e Algeria, è vietato passare, non si può attraversare. Tu credi di essere solo, lontano da tutto, e tuttavia qualcuno arriva: un cammelliere che, malgrado il divieto, continua a passare. Lui mi dice che se ne frega dei militari e ne ride. Mi dice che niente gli impedirà di vendere i suoi cammelli da un lato e dall’altro della frontiera. E aggiunge: qui è la mia terra, è casa mia...” Magali sarà filmata nelle regioni della Francia che offrono una varietà infinita di paesaggi: la Drôme, il Vercors e le Cévennes. Altre immagini già esistenti, in cui la vedremo attraversare il Perù e la Bolivia, serviranno al racconto. Per tutto il film, Magali sarà in uno stato di erranza, in movimento, andando sempre avanti. Infatti camminare è l’azione di collegare. “Amo questa maniera di prendere il mio tempo. Viaggiando ho l’impressione di rendermi più disponibile, di essere e di restare all’ascolto del mondo.” È un personaggio che cerca di trovare il suo posto in un mondo che sembra spesso sottrarsi al suo sguardo, sfuggirle: “È vasta la mia strada, vasta quanto i pensieri che mi rimanda... Talvolta è una trentina di metri che amerei percorrere... Mi dico che là, sulla strada, forse la mia vita mi verrebbe incontro... Come un cacciatore, io cammino per trovare il mio posto...” Come gli altri personaggi di Résistances, Magali nutre sempre la speranza di trovare, un giorno, un luogo in cui fermarsi, o stabilirsi definitivamente per costruirvi la sua vita.

FILMARE L’ESILIO E L’ERRANZA Per tutto il film, i percorsi dei quattro personaggi si incroceranno. Passeremo da un viso all’altro, da un paesaggio all’altro, in una serie di andate-ritorni che avrà per scopo lo spaesamento dello spettatore. Poco alla volta, erriamo in una geografia frammentata, immaginaria, una sorta di terra di nessuno dove le voci dei personaggi saranno le nostre sole guide. In questo viaggio intimo, i visi, ripresi in primo piano, saranno altrettanti paesaggi che ci faranno entrare nell’intimità dei personaggi. I colloqui filmati, così come la vita quotidiana dei personaggi, costituiranno la trama narrativa del film. Filmeremo molto quegli sguardi che sembrano senza tregua volersi sottrarre alla camera, scappare fuori campo, verso il lontano... I quattro personaggi non sono mai veramente dove sono... Il loro spirito è altrove... Focalizzeremo molto la nostra attenzione sugli oggetti che li circondano (ricordi, foto, gris-gris...), altrettante tessere di un puzzle attraverso le quali ricostruiremo la loro storia.

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Le immagini saranno girate con camera a spalla, evitando i movimenti bruschi. Mi piacerebbe così che si percepisse nell’immagine questo leggero sbandamento, questa instabilità che agita ogni personaggio; questo movimento perpetuo dei corpi e del pensiero che contrasta con i periodi di immobilità ai quali non possono sfuggire e che vivono come una costrizione. Le riprese in movimento saranno privilegiate soprattutto per i trasporti: paesaggi visti attraverso il finestrino di un’automobile, di un bus, di un treno, di una barca, di un aereo. La finestra diventa simbolo della frontiera che ci separa dal mondo esterno, ma attraverso la quale noi progettiamo anche un futuro. Altre inquadrature su paesaggi o città lontane, utilizzate con parsimonia, contribuiranno al disegno del film. Esse saranno costruite come dei veri controcampi immaginari, una sorta di “passaggi” che ci porteranno da un personaggio all’altro, da un racconto all’altro. Inquadrature spesso fisse, sempre filmate con camera a spalla, e abbastanza lunghe perché lo spettatore possa abitarle e possa fare anche lui il suo viaggio. Queste inquadrature avranno lo scopo di valorizzare l’immensità dei paesaggi e le linee di fuga, là dove gli sguardi dei personaggi si raggiungono. La texture delle immagini sarà particolarmente elaborata a livello dei contrasti, della saturazione e della grana della pellicola per dare loro una dimensione di finzione: dei piani onirici nei quali i personaggi sembreranno fuggire al loro quotidiano, il tempo di un rinvio. Il suono avrà anche la sua importanza per evocare queste contrade lontane che attirano i personaggi, mantenendo costantemente la presenza di un fuori campo, di un altrove. Le voci fuori campo saranno sempre associate ad un contesto sonoro, ad un luogo in particolare. La musica, composta espressamente per il film, rivestirà un ruolo importante. Essa permetterà di creare dei respiri, delle pause che ci immergeranno in un’atmosfera da sogno. Essa comprende due temi già scritti e interpretati da un compositore: il primo, Vekiya, associato all’attesa, all’immobilità; il secondo Thyanitou, associato al viaggio, al movimento. Alcune riprese frammentarie di canzoni appartenenti al repertorio popolare, che sviluppano il tema del viaggio e dell’esilio, faranno parte della narrazione del film. Esse saranno interpretate da Magali, che è attrice e cantante. Una musica che lascia un grande spazio all’improvvisazione, che sarà in stato di erranza, come i personaggi di Résistances. Eric Pinoy è nato a Parigi nel 1974. Dopo gli studi in cinema e storia dell’arte a Lione, torna a Parigi dove lavora come proiezionista. Qui realizza il suo primo documentario Les ouvriers du crépuscule (Gli operai del crepuscolo), sul mondo della proiezione. Nel 2002 ottiene una borsa per la scrittura del progetto Résistances dal programma Réel en chantier. È autore di diversi videoritratti di artisti contemporanei tra i quali Emmanuel Saulnier, Marc Couturier, Pierre Buraglio. Attualmente sta lavorando ad un altro progetto di documentario su artigiani artisti della regione Drôme Provençale.

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LA FESTA DI CLAUDIA di Fulvio Bergamin PROGETTO PER CORTOMETRAGGIO

Con delicata sensibilità, ma anche con spietata determinazione, l’autore ci prende per mano e ci conduce, passo dopo passo, nel mondo interiore di Claudia, una ragazza “terribilmente grassa”, fino a farci toccare il fondo del suo male di vivere. La storia è semplice, lineare, prevedibile, eppure riesce a sorprendere; l’epilogo giunge inatteso, ma a ben vedere non è che l’esito logico, quasi scontato, di uno scherzo crudele, in un mondo dove sono l’apparenza e la superficialità a dettar legge.

Quando scrivo non parto mai da un’intenzione precisa. Più che altro mi succede di essere colpito da qualche situazione particolare che mi è capitato di vedere o di immaginare. L’intenzione è sempre quella di dare un senso a questa situazione, costruendo un racconto, senza preoccuparmi troppo del significato che alla fine assumerà. La festa di Claudia è una storia sull’adolescenza, ma l’universo che viene raccontato non è quello leggero e scanzonato degli amori giovanili, bensì quello tragico della solitudine, della mancanza di speranza e della cattiveria che non si ferma davanti a niente, neppure davanti alla morte. Fulvio Bergamin

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1. FERMATA AUTOBUS. ESTERNO GIORNO. Alla fermata di un autobus un gruppetto di studenti inganna l’attesa chiacchierando e scherzando tra di loro. Poco lontano, sola e in disparte, c’è CLAUDIA. Ha 16 anni ed è terribilmente grassa. Ha un’aria triste e malinconica. L’autobus arriva, rallenta e si accosta. I ragazzi iniziano a salire. 2. AUTOBUS. INTERNO GIORNO. L’autobus è affollato. Gli studenti salgono e percorrono uno alla volta lo stretto corridoio, andando a occupare i posti ancora liberi. Claudia, l’ultima della fila, timbra il biglietto. Si muove pesantemente, con difficoltà. Dà un’occhiata alle poltroncine disponibili. Sono tutte piccole e striminzite, inadatte a contenere la sua enorme mole. Imbarazzata e visibilmente a disagio, Claudia rinuncia a sedersi e decide di rimanere in piedi accanto all’autista. Dal fondo, un ragazzo la indica all’amico a fianco, sghignazzando. L’autobus riparte. 3. CORTILE DI UNA SCUOLA. ESTERNO GIORNO. Il cortile della scuola è un ampio piazzale di cemento: al centro un campo da basket diviso in due da una rete allentata, tutt’intorno gli spalti occupati da gruppi di studenti che parlano e ridono, consumando la loro merenda in allegria. Claudia siede in disparte sugli scalini, apre la borsa e tira fuori un panino. Lo scarta con esitazione, si guarda intorno e, dopo aver indugiato per qualche secondo, lo riavvolge e lo rimette nella borsa. Attorno a lei, ragazze dai pantaloni a vita bassa e magliettine colorate che evidenziano le linee dei loro corpi snelli e slanciati. Claudia le osserva, mettendo a fuoco ogni singolo dettaglio: le pance scoperte, le curve sottili dei fianchi, lo scintillio di un piercing all’ombelico. All’improvviso un ragazzo le si avvicina. È PAOLO, alto e prestante. Le sorride. PAOLO Stasera do una festa, ti va di venire? Claudia esita, disorientata, non risponde, si limita a sorridere imbarazzata. Il ragazzo le porge un foglietto. Lei lo prende e lo guarda: è un invito. PAOLO È a casa mia. Qui c’è l’indirizzo, interno 318. Ti aspetto. Il ragazzo sorride e se ne va. Claudia fissa l’invito, incredula. Paolo si dirige verso gli spalti ridendo, raggiunge un gruppetto di ragazzi e si unisce a loro. Hanno tutti un’aria complice e divertita. AMICO DI PAOLO Allora, che ha detto la cicciona? PAOLO (ridendo) Viene alla festa. Tutti scoppiano a ridere a crepapelle. 4. BAGNO DI CLAUDIA. INTERNO SERA. Claudia è in piedi davanti a un mobiletto cosparso di boccette e astucci per il trucco. Prende una matita rosa, si sporge in avanti, portando il viso vicino allo specchio e con cura passa la punta della matita sulle labbra, colorandole appena. Scruta la sua immagine riflessa, prova a tirarsi su i capelli, ma poi lascia cadere pesantemente le braccia lungo il corpo. Continua a truccarsi, con mano molto leggera: i colori sono quasi impercettibili. Chiuso lo stick dell’eye-liner, indossa un paio di sandali neri e si esamina ancora una volta allo specchio, di fronte, di profilo, osserva il suo corpo enorme, grasso, pesante, avvolto in un abito nero lungo fin quasi a terra. Una smorfia di insoddisfazione le attraversa il viso: la sua immagine le ripugna. Porta le mani in testa e si spettina i capelli con violenza, urtando inavvertitamente alcuni vasetti per il trucco e facendoli cadere a terra. Arrabbiata, esce dalla stanza di corsa, senza raccoglierli. Il pavimento si tinge dei colori degli ombretti. 5. CAMERA DI CLAUDIA. INTERNO SERA. Claudia è a letto, rannicchiata su un fianco sotto le coperte, dà le spalle alla MADRE che le è seduta accanto.

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MADRE Ti farebbe bene uscire ogni tanto. CLAUDIA Sono le nove passate. La festa ormai è già iniziata. MADRE Allora devi muoverti. Claudia si volta verso la madre. Lei le sorride. MADRE Dai, ti accompagno io. Claudia fissa la madre per qualche istante, poi ricambia il sorriso. 6. AUTO. INTERNO NOTTE. La madre di Claudia è alla guida dell’auto. La figlia è seduta accanto, ha un’aria assorta, gli occhi perennemente rivolti ai bordi della strada. Dal suo finestrino si intravedono ciminiere che sputano fumo, file di fabbriche grigie, nere, tutte uguali, una processione di casermoni dai tetti spioventi come denti di un enorme sega. 7. STRADA DI CITTÁ. ESTERNO NOTTE. L’auto rallenta ed accosta di fronte ad un palazzo altissimo. Claudia scende dalla macchina, saluta la madre al volante e guarda l’auto ripartire ed allontanarsi. Poi controlla l’indirizzo sull’invito, si guarda attorno qualche istante e si incammina verso il palazzo, attraversando il marciapiede. 8. PIANO TERRA DEL PALAZZO. INTERNO NOTTE. All’interno del palazzo Claudia attende l’arrivo dell’ascensore in compagnia di uno SCONOSCIUTO, uno degli inquilini dell’edificio. Le porte dell’ascensore si aprono, lo sconosciuto entra. Claudia invece resta sulla soglia, esitante; osserva lo spazio angusto dell’ascensore. Lo sconosciuto la fissa con aria interrogativa. SCONOSCIUTO Devi salire? Claudia scuote la testa in segno di diniego. Lo sconosciuto preme uno dei bottoni dell’ascensore, le porte si richiudono. Claudia si guarda attorno, poi si dirige verso le scale. 9. SCALE DEL PALAZZO. INTERNO NOTTE. Claudia sale le scale, il suo passo è lento e macchinoso, l’andatura pesante. Dà un’altra occhiata all’invito: interno 318. Mentre sale, controlla le porte delle abitazioni che supera: interno 12, interno 13, interno 14... 10. APPARTAMENTO DELLA FESTA. INTERNO NOTTE. Luci colorate si riflettono sulle pareti di un salone adibito a pista da ballo. Al centro una decina di ragazzi si dimenano al ritmo della musica incessante. Altri bivaccano su un lungo divano color panna, macchiato dalle impronte di un paio di scarpe da ginnastica e occupato da piattini, fazzolettini e bicchieri di carta. Paolo, il padrone di casa, confabula sornione con una ragazza. 11. SCALE DEL PALAZZO. INTERNO NOTTE. Claudia è sempre più affaticata, scalino dopo scalino: interno 39, interno 40, interno 41... 12. APPARTAMENTO DELLA FESTA. INTERNO NOTTE. Nascosti solo da una tendina bianca, un ragazzo e una ragazza si baciano appassionatamente, mentre attorno a loro una schiera di giovani li incita, urlando e applaudendo. 13. SCALE DEL PALAZZO. INTERNO NOTTE. Il respiro di Claudia è affannoso. Si ferma qualche istante per riprendere fiato. Controlla il numero dell’appartamento che le sta di fronte: interno 112. 14. APPARTAMENTO DELLA FESTA. INTERNO NOTTE. Tra grida e schiamazzi, decine di ragazzi continuano a presidiare il salotto della casa di Paolo; alcuni si dimenano al ritmo della musica altissima, altri si ingozzano di salatini, altri ancora assaltano il vassoio degli alcolici.

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15. SCALE DEL PALAZZO. INTERNO NOTTE. Claudia continua a salire: interno 202, interno 203, interno 204... È sempre più stanca, sempre più sudata. 16. APPARTAMENTO DELLA FESTA. INTERNO NOTTE. Tutti brindano in allegria, alzando al cielo bicchieri pieni di vino rosso. 17. SCALE DEL PALAZZO. INTERNO NOTTE. Scalino dopo scalino, passo dopo passo, Claudia sale appoggiandosi al corrimano. Guarda l’orologio, non si dà per vinta e continua a salire: interno 260... interno 289...interno 314... L’interno 318, quello della festa, è proprio l’ultima porta. Claudia raggiunge finalmente la cima delle scale e bussa, ma nessuno viene ad aprire. Attende qualche istante, controlla nuovamente l’indirizzo sull’invito, poi dà un’altra occhiata al numero sulla porta: è quello giusto. Prova a girare la maniglia: la porta è aperta. Claudia entra. 18. TERRAZZO. ESTERNO NOTTE. Di fronte a lei non si presenta la festa, ma un enorme terrazzo deserto, sulla cima del palazzo. 19. APPARTAMENTO DELLA FESTA. INTERNO NOTTE. Paolo e gli altri ragazzi scoppiano a ridere sguaiatamente, sempre più forte. 20. TERRAZZO. ESTERNO NOTTE. In sottofondo, le risate di Paolo e degli altri ragazzi. Claudia attraversa il terrazzo lentamente, la fronte sudata, il respiro appesantito dalla lunga salita. Osserva il panorama con gli occhi velati di tristezza, la città intera che sembra ridere di lei, in modo sempre più ossessivo, sempre più sguaiato. Si sporge leggermente dal terrazzo e guarda giù, la strada, le auto che la percorrono come formichine. Si appoggia al parapetto, senza riuscire a riprendere fiato. 21. APPARTAMENTO DELLA FESTA. INTERNO NOTTE. I ragazzi continuano a ridere di gusto, le facce tirate da ghigni sempre più cattivi, sprezzanti. 22. TERRAZZO. ESTERNO NOTTE. In sottofondo, le risate continuano. Senza esitazione Claudia sale sul parapetto del terrazzo e si lancia nel vuoto. Le risate cessano di colpo. 23. MARCIAPIEDE. ESTERNO NOTTE. Le luci dell’ambulanza illuminano la notte. I medici caricano sul lettino il corpo esamine di Claudia ricoperto da un lenzuolo bianco e lo portano via. Ai piedi del palazzo una piccola folla di persone si è raccolta sul marciapiede, attorno ad un’auto con i vetri in frantumi ed il tettuccio sfondato. Due ragazzi commentano la profonda ammaccatura sghignazzando tra di loro.

Fulvio Bergamin, 27 anni, è autore del cortometraggio Play e del documentario Stradarolo. Nel 2003 ha vinto il Sonar Giovani Sceneggiatori con il progetto per lungometraggio Sottopressione, pubblicato in Plot n°1. Nel 2004, con la sceneggiatura per cortometraggio Il pendolare ha ricevuto il premio della critica ad Arezzo Cortocircuito. Attualmente frequenta il IX Corso di formazione per sceneggiatori Rai/Script.

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CARI PRODUTTORI... Plot - storie per lo schermo pubblica soggetti, trattamenti e sceneggiature che al momento della pubblicazione risultano non opzionate da una società di produzione. I produttori e le agenzie di sviluppo interessate a sviluppare e a produrre una delle storie pubblicate su questo o sui precedenti numeri, possono scrivere alla redazione di Affabula Readings, all’indirizzo info@affabula.it, specificando il titolo del progetto. Provvederemo a mettervi in contatto con l’autore.

CARI AUTORI... Potete inviare progetti per film di corto e lungometraggio, per il cinema e la televisione, documentari, programmi interattivi, in forma di racconti o trattamenti (minimo 6, massimo 30 pagg.), accompagnati necessariamente, previa esclusione, da sinossi, nota di intenti e curriculum dell’autore. Se disponibile, può essere inviata anche la sceneggiatura. Il dossier di progetto deve essere accompagnato dalla scheda di partecipazione e dalla liberatoria firmata, pubblicate sul sito www.affabula.it, alla pagina www.affabula.it/ scheda.htm Il progetto va inviato preferibilmente via e-mail a info@affabula.it o per posta raccomandata a: Associazione F.E.R.T. - programma Affabula Readings Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino Se il progetto viene inviato per e-mail, la liberatoria firmata può essere spedita via fax allo 011 531 490. Per ulteriori informazioni: info@affabula.it tel. 011 532 463

CARI LETTORI... La rivista è in vendita nelle principali librerie italiane specializzate in cinema e in quelle del circuito Feltrinelli. L’elenco completo delle librerie è pubblicato sul sito, all’indirizzo http://www.affabula.it/Plot/abbonarsi.html Diversamente se ne può richiedere la spedizione, inviando un’e-mail a info@affabula.it, pagando il relativo importo di 5,00 euro per numero, più spese di spedizione, con un versamento sul conto corrente postale n° 49502545, intestato all’editore FERT RIGHTS srl, Piazza San Carlo 161 - 10123 Torino.

storie per lo schermo un progetto editoriale di Affabula Readings programma dell’Associazione F.E.R.T. realizzato con il contributo di: Ministero per i Beni e le Attività Culturali Regione Piemonte - Assessorato Cultura Città di Torino - Divisione Servizi Culturali

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