Albertino

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Albertino di Mirko Capozzoli

Albertino è protagonista di una serie di avvenimenti tragici che incrociano la vita di altre persone e influenzano la storia della società italiana tra gli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta.

Genere: documentario Durata prevista: 52 minuti SocietĂ di produzione: Fourlab (Roma) Contatto: Paolo Trombetti <paolo.trombetti@fourlab.it>, Simone Morandi <simone.morandi@fourlab.it>

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TRATTAMENTO A Sassi la città sembra lontanissima, tutto è infinitamente più piccolo rispetto ai soliti grandi cimiteri delle nostre metropoli. Difficile incrociare altri sguardi, una volta dentro si ha la sensazione di aver lasciato tutto alle spalle. Un inaspettato terminale mi aiuta a trovare la tomba con estrema precisione; digito Alberto Bonvicini, mentre per la mente mi scorrono decine di altri nomi: «nuovo insediamento, campo due, fila seconda». Ogni cosa è ordinata, pulita; Sassi è un cimitero per famiglie benestanti, anzi borghesi come era d’abitudine dire solo fino all’altro ieri. Non c’è foto sulla tomba, forse è un bene; così tutto è più facile, tutto più freddo come quel maledetto marmo. Nome, cognome, anno di nascita, trattino, anno di morte. Ho letto da qualche parte che noi siamo quel trattino; alla fine dei nostri giorni tutto si riduce in quel sintetico trattino. Immagino i visitatori ignari posare gli occhi su questa tomba senza sapere quanta vita nasconde. Perché c’è vita e vita, e quella di Albertino è stata densa come quella dei poeti che vanno controvento, spesso solo per uno scherzo del destino. Il segreto è tutto nel nome, Albertino non è mai stato Alberto; non troverete nessuno in questa storia che non adoperi questo diminutivo: amici, parenti, avvocati, giornalisti, medici, politici. Questo nome nasconde un mondo intricato e sorprendente, euforico e drammatico, un lampo di vitalità svanito all’età di trentatré anni. TRA LE MURA DI VILLA AZZURRA L’Italia si accorge di Albertino in un giorno di festa, il primo maggio 1969, quando esce sul quotidiano «L’Unità» un articolo a nove colonne: «Un bimbo sano di mente rinchiuso per sette mesi a Villa Azzurra». Villa Azzurra si trova a Grugliasco, in provincia di Torino, è un padiglione del grande e vicino ospedale psichiatrico di Collegno. In un’enorme scritta presente sulla facciata si legge «sezione medico-pedagogica», ovvero, manicomio per minori. È il professor Giorgio Coda che nella veste di vicedirettore si occupa personalmente di curare i piccoli pazienti. La terapia delle psicosi alcoliche, uno dei suoi libri più importanti, descrive il metodo degli elettromassaggi, cioè l’uso sistematico della corrente elettrica nella cura delle malattie mentali. La pratica consiste nel collegare gli elettrodi alla parte del corpo da curare, per lo più la zona del cranio e quella pubica. Al di là della ferrovia che separa Grugliasco da Collegno, gli internati dell’ospedale psichiatrico portano sulla propria pelle i segni degli elettroshock: da tutti Coda è soprannominato «l’elettricista».

Villa Azzurra, 2007

Interno di un reparto di Villa Azzurra, 1970*

Albertino ha nove anni quando assieme ai suoi compagni di camerata è vittima delle pratiche mediche adoperate a Villa Azzurra. Viene costretto a letto, cinghiato ai polsi e alle gambe, minacciato dalle infermiere, legato ai termosifoni e costretto a sanguinosi incontri di boxe. Probabilmente in virtù di queste e altre sofferenze patite sin dai primi anni di vita, Albertino sviluppa straordinarie capacità di sopravvivenza che, unite a un’intelligenza al di sopra della media, ne fanno un bambino assai scaltro. Ogni occasione è buona per fuggire, se necessario calandosi dalle finestre e dalle terrazze dell’istituto. Nel diario clinico si legge: «Ammette di aver fatto tutta una serie di monellerie culminate ieri in una spettacolare fuga sui tetti. Anche questa mattina voleva uscire dalla finestra del 1° piano. Alle infermiere risponde: “Io son fatto così” ». Ma nonostante queste «spettacolari fughe dai tetti» Albertino è sempre malinconicamente riacciuffato. Nell’aprile 1968 l’assistente sociale Maria Répaci del Centro di tutela minorile di Torino redige un esteso rapporto al Presidente del Tribunale per i Minorenni: «[…] È lecito chiedersi come possa accadere che un “minore normointellettivo” debba rimanere 45 giorni in O.P. e circa sei mesi in un Istituto psicomedicopedagogico perché vengano diagnosticate anomalie comportamentali dovute in gran parte a carenze affettive e pedagogiche e come possa accadere che tali carenze vengano curate con tranquillanti e castighi pesanti». Con Copyright Fourlab

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il passare del tempo il dossier su Villa Azzurra si accresce di documenti e testimonianze sino a quando il 7 settembre 1970 il pubblico ministero chiede che Coda sia incriminato per il reato d’abuso di mezzi di correzione. Sette giorni dopo il giudice istruttore riceve un esposto dell’Associazione per la lotta contro le malattie mentali, sezione di Torino; vi si accusa Coda di violenze terribili nel periodo in cui prestò servizio nell’O.P. di Collegno. Nella primavera del 1971 i due procedimenti vengono unificati: Coda è accusato anche di maltrattamenti aggravati. COM’È POSSIBILE CHE ALBERTINO SIA FINITO IN QUESTA STORIA? Nel 1960, quando Albertino ha due anni, il padre abbandona la famiglia per entrare nella legione straniera, la madre si rifugia nell’alcool e in breve comincia a prostituirsi. Il bambino inizia un lungo viaggio negli orfanotrofi piemontesi che s’interrompe in seguito a un piccolo incidente di gioco che lo conduce dapprima all’ospedale di Casale e successivamente a Villa Azzurra, dove arriva il 25 agosto 1967. Il giorno stesso, poiché nessuno può garantirgli la retta, viene trasferito nel vicino manicomio di Collegno dove rimane quarantuno giorni assieme ai malati più gravi. Rientrato a Villa Azzurra, Albertino viene affidato alle cure del noto «elettricista». PROCESSO ALLA FABBRICA DELLA FOLLIA Il processo che vede Coda sul banco degli imputati si chiude l’11 luglio 1974. Lo psichiatra è condannato ad anni cinque di carcere (tre condonati da un’amnistia) per maltrattamenti, interdizione perpetua dai pubblici uffici, e per cinque anni dall’esercizio della professione medica. Invece è assolto per insufficienza di prove per i fatti relativi a Villa Azzura, dunque Albertino non ha giustizia per ciò che gli è accaduto. La pena inflitta a Coda, anche se tenue, non ha solo portato alla luce del sole un caso di malasanità, ma come ha scritto sulla «Gazzetta del Popolo» Pier Paolo Benedetto «ha rotto il metro tradizionale col quale si misurano le distanze tra il «sano» e il «malato, tra la società emarginante e l’emarginato. Ha stabilito che anche i meno fortunati hanno dei diritti»; finalmente «è saltato un muro di omertà costruito nei decenni coi mattoni della paura e del ricatto, degli elettromassaggi e delle urla di terrore». Ancora più dura la definizione che Natalia Aspesi dà dell’«elettricista»: «Ovunque deve aver portato il suo disprezzo da nazista per l’imperfetto, l’emarginato, lo sconfitto, appunto i bambini subnormali, i bambini difficili, i bambini disperati; e gli ammalati di mente, le vittime che in questi giorni sfilano, testimoni della propria inflitta degradazione, al processo di Torino». La realtà manicomiale è stata svelata agli italiani attraverso la testimonianza diretta dei malati, per la prima volta ammessi in un’aula giudiziaria. Questo processo ha rappresentato in maniera paradigmatica una stagione che sta mutando l’Italia, un paese diviso che nell’aula è stato simbolicamente rappresentato da avvocati con visioni opposte: da un lato il conservatore Giovanni Mussa, assistito dal figlio Carlo, dall’altra Bianca Guidetti Serra e Giampaolo Zancan, futuri protagonisti di processi eccellenti. Giorgio Coda durante il processo, luglio 1974 *

UNA NUOVA FAMIGLIA Nel corso dell’iter giudiziario il destino di Albertino ha continuato a fare il suo corso. Nell’aprile 1968, uscito da Villa Azzurra, torna in orfanotrofio che frequenta sino al dicembre 1971, quando all’età di tredici anni viene affidato ufficialmente alla nuova famiglia. L’architetto Franco B., ex comandante partigiano, insegna presso il Politecnico di Torino; sua moglie Bianca, ex staffetta durante la Resistenza, insegna scienze naturali in un istituto superiore; hanno due figli entrambi maggiorenni. Conducono una vita agiata, abitano in un grande appartamento alle pendici della collina torinese, tra i loro amici figurano numerosi intellettuali e scrittori, tra i quali Italo Calvino. È Bianca a volere a tutti i costi accogliere Albertino, mentre il marito cerca di opporsi, vedendo nel passato burrascoso un ostacolo troppo grande. Effettivamente sin dall’inizio Albertino ha problemi di ambientamento, scappa frequentemente da casa e porta lo scompiglio a scuola a tal punto che si proclamano assemblee straordinarie. Tuttavia sa anche essere affettuoso e capace di slanci di generosità, ama leggere e inventare storie. Albertino cerca di sopravvivere, come un animale nella foresta, è in perenne contraddizione con se stesso e alla ricerca di qualcuno che gli voglia bene. Albertino con la famiglia affidataria, 1973

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Bianca lo segue da vicino e Albertino, bisognoso di conferme, la mette perennemente alla prova: sottrae oggetti preziosi e denaro, sparisce per giorni e ricompare di notte rientrando dalla finestra, continuando con le sue «spettacolari fughe sui tetti». Sfida le autorità e chi cerca di aiutarlo; è un periodo oscuro nella vita di questo bambino che sta diventando un uomo. Non si sa bene chi frequenti, di certo come una potente calamita attrae su di sé giovani sbandati dei quali diviene guida e compagno nel compiere alcuni reati, per lo più furti d’auto, che lo portano a girovagare tra gli istituti di correzione, da Torino a Genova. SETTANTASETTE: CREATIVITÀ E VIOLENZA Sono gli anni della contestazione, dei golpe mancati e delle rivoluzioni imminenti, ma sempre rinviate. Albertino si avvicina a elementi dell’estrema sinistra e assieme a un ristretto gruppo di amici fonda il primo circolo del proletariato giovanile torinese: il circolo Barabba nasce il 6 febbraio 1977 al termine di una manifestazione indetta a Porta Palazzo con l’obiettivo di rendere pubblico il disagio dei giovani. Alla fine del corteo un gruppo di 700 ragazzi occupa lo stabile di via Plana 2, locali fatiscenti adibiti ad archivio comunale. Gli occupanti espongono uno striscione con la scritta “Circolo Giovanile Barabba” e provvedono a una sommaria pulizia dei locali. L’occupazione ha una grande eco sui giornali, il 19 febbraio il sindaco comunista Novelli e alcuni assessori si recano senza scorta nell’edificio per chiedere di sgomberare, ne nasce una storica assemblea che mette a confronto due generazioni. Nel periodo in cui il circolo non ha una sede specifica, gli appartenenti si disperdono in gruppi che gravitano tra Palazzo Nuovo e la centralissima piazza Castello. Ma è soprattutto la fontana Angelica di piazza Solferino a diventare un luogo abituale di ritrovo, un posto dove ci si incontra al di là degli impegni politici prima di finire a bere alla piola del Quinto di corso Valdocco. Albertino è uno dei protagonisti di queste serate, ama stare al centro dell’attenzione e avere il rispetto dei compagni, continua a essere una “calamita”. Divide la leadership del gruppo con Ciccio e Franky, e da circa due anni è insieme a una ragazza carina, figlia di un primario dell’oftalmico. I due si vogliono bene, ma Albertino è tanto affascinante quanto imprevedibile nei comportamenti. Qualcuno sospetta che faccia uso di droga, ma lui nega categoricamente, e più nega e meno viene creduto perché ha fama di grande bugiardo, ma le sue non sono semplici bugie, sono semmai il frutto di un’incredibile fantasia. Anche se adesso è un uomo, non ha abbandonato le contraddizioni dell’infanzia: è pronto a tutto per aiutare un amico, ma allo stesso tempo sfugge dalle quotidiane responsabilità; non riesce a mantenere una promessa, non rispetta gli appuntamenti; ama e cerca di distruggere ciò che ama. Il biennio 1976 - 1977 è un periodo ricco di fermenti culturali ma anche di violenza; non c’è manifestazione che non termini con tafferugli tra frange del movimento e polizia, anche un avvenimento apparentemente innocuo come potrebbe essere il concerto dei Santana sfocia in incidenti e feriti. Il comitato dei circoli boicotta l’avvenimento per protestare contro il caro-prezzo della musica: si verificano scontri durissimi durante i quali Albertino tenta di rubare un bus di linea. I ragazzi del ’77 non fanno distinzione tra vita pubblica e vita privata, è una fase in cui eros e thanatos vanno a braccetto, almeno sino a quando il secondo non soppianta del tutto il primo. Tra il 23 e il 25 settembre si svolge a Bologna un convegno nazionale della sinistra extraparlamentare, sarà il canto del cigno del movimento; Albertino è tra le centinaia di torinesi che affollano la città emiliana. ANGELO AZZURRO: L’INIZIO DELLA FINE Il 30 settembre a Roma un giovane di Lotta Continua, Walter Rossi, viene ucciso a colpi di pistola da un neofascista. Il giorno seguente in tutta Italia monta la protesta; a Torino numerosi militanti dei circoli e simpatizzanti della sinistra extraparlamentare convengono fra le 9.30 e le 10.00 in Piazza Solferino, qui ben presto sorgono contrasti sul modo di condurre la manifestazione. Una parte decide di dirigersi verso la facoltà di architettura, un’altra invece, circa 200 persone, dietro lo striscione di Lotta Continua, verso corso Francia, dove ha sede la federazione provinciale del MSI-DN. Giunti a destinazione, un gruppo di persone comincia a lanciare bulloni, pietre e bottiglie incendiarie; respinti dagli agenti, gli stessi decidono di puntare prima alla sede della Cisnal e successivamente verso via Po, dove, all’altezza di via Sant’Ottavio, circa 50 persone si portano davanti al bar Angelo Azzurro, all’interno del quale vengono lanciate alcune bottiglie incendiarie che determinano velocemente la distruzione del locale. All’interno del bar si trovano i due titolari, il barista

Roberto Crescenzio dopo il rogo del bar, 1 ottobre 1977 *

e due clienti, tra cui Roberto Crescenzio. Dopo essere stati malmenati, i più riescono a fuggire dall’uscita di sicurezza; Roberto invece si rifugia nella toilette dalla quale poco dopo cerca di raggiungere l’uscita principale attraverso le fiamme che ormai hanno invaso il locale; nella corsa inciampa in una sedia e, caduto, viene avvolto dalle fiamme che lo ustionano gravemente. La morte tragica di Roberto, avvenuta dopo tre giorni di agonia, crea all’interno del movimento una spaccatura senza precedenti, molti esponenti si allontanano dalla politica, altri all’opposto aderiscono alla lotta armata.

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CHE FINE HA FATTO GIORGIO CODA? Alcuni giorni dopo le fiamme dell’Angelo Azzurro, il 19 ottobre 1977, si apre il processo d’appello allo psichiatra Coda. I difensori sostengono che il loro assistito in quanto giudice onorario del Tribunale per i Minorenni non avrebbe dovuto essere processato a Torino, dunque la sentenza di primo grado andrebbe giudicata nulla. La Corte d’Appello non accoglie e non respinge questa tesi, sospende il giudizio e invia gli atti alla Corte di Cassazione perché si pronunci. Il processo dunque potrebbe dichiararsi nullo e l’intera istruttoria ricominciare in un’altra città: c’è il rischio fondato della prescrizione. La notizia passa quasi inosservata sino a quando il 2 dicembre dello stesso anno un commando di quattro persone che si firma «Squadre Armate Proletarie» penetra nello studio privato dello psichiatra ferendolo gravemente alle braccia e alle gambe dopo averlo legato al termosifone, evidente richiamo alle pratiche manicomiali di Villa Azzurra. CINQUE PASSI OLTRE IL MURO Nel febbraio 1978 Albertino lascia il circolo Barabba, soprattutto per diversità di opinioni con Franky, ormai leader incontrastato. L’addio diviene pubblico quando decide di affiggere all’interno della sede un volantino nel quale spiega le ragioni dell’abbandono. In compagnia di due amici si reca a Londra, dove studia con dedizione inglese e svolge lavori di ogni tipo, sognando di raggiungere la cifra che gli permetta di continuare a viaggiare. Ma qualcosa va storto, dopo momenti di iniziale euforia Albertino si trascina stancamente, è depresso, forse è cascato nuovamente nel giro della droga.

Lettera di Albertino alla famiglia - Londra, 7 febbraio 1980

Ritorna a Torino nell’autunno 1980 e il 2 maggio dell’anno successivo viene arrestato in seguito alle dichiarazioni di un pentito. I magistrati lo accusano in particolare di essere stato responsabile della squadra del Barabba, del ferimento del dott. Coda e dell’irruzione nel bar Angelo Azzurro. Dal verbale dell’interrogatorio: «Per quanto riguarda il Barabba, esso era un circolo giovanile che faceva lavoro sociale contro l’eroina, per assicurare spazi ai giovani nel quartiere e toglierli dai bar. Il mio distacco dal circolo fu il frutto di una mia visione personale, per cui anteponevo la mia vita individuale rispetto all’impegno politico. Non ho mai avuto nemmeno la sensazione che all’interno del Barabba vi fosse qualcuno tra noi che praticasse azioni armate. Volevo andarmene da Torino, il mio programma era quello di fare un po’ di viaggi; lavorare in Inghilterra per poter andare poi in Sud America». Albertino è recluso prima a Vercelli, poi a Torino, nell’area dei detenuti politici, anche se non si è dichiarato tale. Comincia un diario, una vera e propria cronaca delle giornate trascorse nella cella: vi descrive il proprio stato di salute, il rapporto con i “coinquilini” e quello esile con il mondo esterno con il quale comunica attraverso le lettere e i colloqui settimanali; ma il diario è anche un modo per fare i conti con il proprio passato. UNA GENERAZIONE SOTTO PROCESSO Tra il 4 e il 13 gennaio 1983 si svolge il processo di primo grado sui fatti dell’Angelo Azzurro. Dopo cinque anni e mezzo d’inchiesta la magistratura ha portato in tribunale otto indagati che devono rispondere di omicidio colposo e detenzione illegale di bottiglie molotov. Copyright Fourlab

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Albertino è difeso dall’avv. Guidetti Serra e dall’avv. Annoni; la famiglia Crescenzio dall’avv. Carlo Mussa. L’impalcatura accusatoria si regge soprattutto sulle testimonianze di tre pentiti tra cui il più noto è Roberto Sandalo. I giudici condannano in primo grado per omicidio colposo Albertino, il suo vecchio amico Franky e altri tre indagati. Per l’avv. Guidetti Serra «è una sentenza ingiusta che fa ricadere su alcune persone la responsabilità penale di un fatto gravissimo che è da attribuirsi invece come responsabilità morale e politica a un gruppo più ampio». Nel giugno 1983 si svolge a Torino il primo maxi processo a Prima Linea, organizzazione di estrema sinistra nata ufficialmente nel novembre 1976 e seconda, per numero di militanti e di attentati compiuti, solo alle Brigate Rosse. Tra gli oltre cento imputati, nelle cui fila ci sono nomi eccellenti come Sergio Segio, Fabrizio Giai e Marco Donat Cattin, c’è anche Albertino che è accusato di aver militato all’interno delle Squadre Armate Proletarie. Infatti Prima Linea ha un impianto fondato su una struttura orizzontale interna ai movimenti di massa e formata dalle Squadre, piccoli nuclei armati. Albertino nega l’appartenenza a Prima Linea e di aver passato a qualcuno della Squadra le informazioni necessarie per il compimento dell’azione contro lo psichiatra Coda. Del resto gli stessi giudici non trovano conferma alle dichiarazioni dei pentiti e inoltre devono tenere conto della dissociazione pubblica che Albertino stesso ha fatto affiggendo il volantino d’addio nei locali del Barabba. Per queste ragioni è assolto per insufficienza di prove ed è dichiarato non punibile per il reato di partecipazione a banda armata. La sentenza definitiva della seconda Corte di Assise di Torino arriva il 10 dicembre 1983, due giorni dopo Albertino è libero per decorrenza dei termini massimi di carcerazione. VERA LIBERTÀ? Finalmente libero, ma psicologicamente fragile ed estraneo al mondo, Albertino ha 25 anni, ma è come se ne avesse vissuti almeno il doppio. Gli amici del Barabba non ci sono più: c’è chi è morto di overdose, chi è andato a vivere in Centro America, chi è in carcere e chi invece è latitante, e infine ci sono quelli che semplicemente sono svaniti nel nulla, che hanno cambiato vita. L’unica compagnia che ritrova è quella dell’eroina e di chi come lui ne fa un uso disperato. È ormai chiaro che a Torino non può più vivere. Bianca cerca disperatamente, ma inutilmente, una comunità che gli possa offrire riparo. Giunge in aiuto l’amico Enrico Deaglio, ex direttore di Lotta Continua, che dal febbraio 1985 dirige a Roma con Adriano Sofri il giovane quotidiano «Reporter». Ad Albertino viene affidato il compito di reperire le fotografie per gli articoli, un lavoro che fa con creatività. Albertino, 1984

In redazione stringe amicizia con tutti, ma soprattutto con Giuliano Ferrara. Purtroppo il giornale ha vita breve e quando nel 1986 il direttore di Rai Tre Guglielmi chiama Ferrara per affidargli la trasmissione «Linea Rovente», l’ex funzionario del PCI sceglie immediatamente Albertino come segretario di redazione. Tra i due inizia un’intensa collaborazione che continua con «Il testimone» e «L’istruttoria». Albertino sembra finalmente essersi messo alle spalle gli anni bui, vive in un piccolo alloggio di Trastevere, il lavoro procede egregiamente e talvolta lo si vede comparire in video.

Albertino e Moravia, Roma 1988

Tessera di riconoscimento per la sede Rai di Roma

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SCACCO MATTO Tutto bene dunque, ma la partita a scacchi non è finita: si presentano i primi segni di una malattia imprecisata. L’esito di successive e più approfondite analisi non lascia speranze: è il 1988 quando Albertino si scopre sieropositivo. Per due anni il fisico lo sostiene, poi il ricovero diviene inevitabile. Nel settembre 1991 viene trasferito all’Amedeo di Savoia di Torino dove muore il 5 ottobre. I funerali si svolgono nel piccolo cimitero di Sassi, ai piedi della collina di Superga; vi partecipano familiari, amici e semplici conoscenti, l’avvocato Guidetti Serra fa una commovente orazione. Ognuno di loro ha dentro una propria visione di Albertino: il compagno di barricata, l’assassino, l’amico fraterno, il fidanzato traditore, il bugiardo, il bimbo torturato, il sognatore, il giullare, il fratello da coccolare; semplicemente Albertino. * Le foto di Roberto Crescenzio, di Giorgio Coda e quella relativa al reparto di Villa Azzurra provengono dal fondo Gazzetta del Popolo e sono a disposizione dell’autore su concessione dell’Archivio Storico della Città di Torino.

NOTA D’INTENTI Il documentario vuole ripercorrere la storia di Alberto Bonvicini, una vita che merita d’essere raccontata per l’alto valore simbolico e per le tematiche che attraversa: la chiusura degli ospedali psichiatrici, il movimento del Sessantotto e quello del Settantasette, la lotta armata, il carcere e il diffondersi dell’eroina. Al centro Albertino, prima bambino, poi adulto, protagonista non sempre volontario d’avvenimenti durante i quali incrocia con conseguenze imprevedibili l’esistenza di altri uomini e donne. Una personalità straordinaria e contraddittoria: chi è stato Albertino? Sincero e leale o affabulatore e grande bugiardo? Vittima o carnefice? Lo spettatore sarà incalzato dagli eventi e spinto a porsi delle domande che determineranno l’ordine di esposizione: si scorrerà il tempo a ritroso dal 1980 al 1958 e viceversa, giungendo sino al 1991, anno della morte di Albertino. Il racconto si aprirà con un evento storicamente significativo: il 14 ottobre 1980 migliaia di impiegati Fiat sfilano in silenzio, è la cosiddetta «marcia dei quarantamila» che chiude simbolicamente una lunga stagione di rivendicazioni sociali cominciate oltre dieci anni prima. In questo stesso periodo Albertino ritorna da un lungo soggiorno londinese vivendo in maniera precaria sino al giorno del suo arresto. In carcere scrive un diario; servendoci di questo e di altri documenti, quali ad esempio le lettere, sarà lo stesso Albertino a traghettarci lungo il racconto, grazie al prezioso contributo dell’attore Fabrizio Gifuni che interpreterà la voce over. Le riflessioni raccolte nei suoi scritti, coadiuvate da altri elementi diegetici, ci condurranno attraverso flashback là dove gli avvenimenti si sono svolti: gli ospedali psichiatrici di Collegno e Grugliasco, il vecchio carcere di Torino e quello di Vercelli, le dolci colline dell’entroterra ligure, e ovviamente alcuni luoghi del capoluogo piemontese. I personaggi principali verranno incontrati nelle location appena citate; essi ci riveleranno le differenti sfaccettature del protagonista. La piccola e la grande storia saranno raccontate attraverso due tipi di testimonianze: nel primo caso ascoltando gli amici e i famigliari, nel secondo alcune personalità tra le quali l’ex sindaco di Torino, Diego Novelli, gli avvocati Bianca Guidetti Serra, Giampaolo Zancan, Carlo Mussa, il magistrato Rodolfo Venditti, l’ex questore Rodolfo Poli, i giornalisti Enrico Deaglio e Giuliano Ferrara, il leader di Prima Linea Sergio Segio. Tutti portatori di un tassello parziale, ma prezioso per ripercorrere il filo che lega Albertino al contesto sociale torinese e italiano. Luca Rastello e Alberto Papuzzi ci aiuteranno a sbrogliare la matassa della narrazione: il primo, scrittore e giornalista del quotidiano «La Repubblica», è stato un testimone attento della realtà torinese degli anni Settanta e Ottanta; il secondo, giornalista per «La Stampa», ha seguito da cronista il caso giudiziario dello psichiatra Coda ed è autore su questo stesso argomento del libro Portami su quello che canta. Entrambi ci condurranno in due tra le location più significative, Rastello sarà ripreso negli ambienti abbandonati del carcere Le Nuove, Papuzzi tra i reparti dell’ex manicomio minorile Villa Azzurra e il parco antistante. I materiali adoperati saranno di diversa tipologia: il diario e le lettere scritte e ricevute da Albertino; gli atti giudiziari con le testimonianze e le sentenze dei processi; le cartelle cliniche; le fotografie amatoriali raccolte tra gli amici e i famigliari, e quelle di cronaca, ad esempio quelle possedute dall’Archivio Storico della Città di Torino; i filmati di repertorio provenienti da archivi pubblici e privati. Questi documenti saranno confrontati e inseriti adeguatamente, sovente faranno da sfondo alla voce over, ma anche ai commenti degli intervistati. In alcuni casi sarà dato spazio alle sole immagini con un tema musicale appropriato per dare respiro al racconto e far riflettere lo spettatore anche in considerazione della mole di informazioni che la vicenda contiene.

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BIOGRAFIA AUTORE Mirko Capozzoli vive a Torino da quando è nato nel 1974. Si è laureato con il massimo dei voti al DAMS con la tesi Ritratti di Gian Maria Volonté e successivamente ha conseguito il diploma regionale di Tecnico Superiore per la Comunicazione e il Multimedia, ma la sua formazione è avvenuta principalmente durante l’infanzia, trascorrendo le giornate tra i ballatoi e i cortili di borgo Vanchiglia, luogo simbolo dell’immigrazione meridionale. Negli ultimi anni ha svolto con soddisfazione attività di montaggio video collaborando con la società Ars Media e altre realtà torinesi. Contemporaneamente ha coltivato la passione per i documentari collaborando a diversi progetti e in particolare all’inchiesta e alla sceneggiatura di Indagine su un cittadino di nome Volonté prodotto da Atacama Film. Dal gennaio 2006 è nel direttivo di Videocommunity, associazione che sviluppa, produce e diffonde programmi televisivi che danno spazio a tematiche provenienti dal territorio. PROFILO SOCIETÀ Fourlab è stata fondata all’inizio del 2005 da Simone Morandi, Paolo Trombetti e Simone Caldani. Simone Morandi è partner dal 1997 dello studio legale Cau-Morandi-Minutillo Turtur, che vanta un’esperienza poco meno che cinquantennale nella tutela e promozione degli autori e nella contrattualistica in campo cinematografico, televisivo, letterario, musicale e nello spettacolo in generale. Punto di forza di Fourlab in campo cinematografico è l’opportunità di godere di un “osservatorio” del tutto privilegiato sulle tendenze cinematografiche, con la possibilità di selezionare i progetti che risultino più interessanti e portarli ad una più avanzata fase di sviluppo, per poi cercare partner produttivi e finanziari, sia in Italia che all’estero, al fianco dei quali affrontare la fase produttiva vera e propria del film. Fourlab si propone così lo sviluppo e la produzione di corto e lungometraggi, tentando di contenere i costi di sviluppo, produzione e distribuzione, e di privilegiare gli aspetti artistici della scrittura, della recitazione e della regia rispetto ad altri elementi più appariscenti e costosi. La società, per lo sviluppo e la produzione dei propri progetti, guarda prevalentemente all’estero, avvalendosi della strada delle coproduzioni e dei fondi di sviluppo europei. Nonostante la “giovane età”, Fourlab ha già ottenuto molti riconoscimenti istituzionali sia a livello nazionale che a livello Comunitario.

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