
geografia e organizzazione dello sviluppo territoriale
Studi regionali e monografici 68
Direttore Collana: RobeRto beRnaRDi
Comitato Scientifico: RobeRto beRnaRDi – CaRlo CenCini – PieRgioRgio lanDini – CaRlo Pongetti
Direttore Collana: RobeRto beRnaRDi
Comitato Scientifico: RobeRto beRnaRDi – CaRlo CenCini – PieRgioRgio lanDini – CaRlo Pongetti
a cura di
Alma Bianchetti Andrea Guaran
con un saggio di Giovanna Bellencin Meneghel
Pàtron
Editore Bologna 2014
Copyright © 2014 by Pàtron editore - Quarto Inferiore - Bologna
I diritti di traduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. È vietata la riproduzione parziale, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Prima edizione, maggio 2014
Ristampa
Volume pubblicato con il contributo di G. Bellencin Meneghel e del Dipartimento di Scienze umane dell’Università degli Studi di Udine.
PÀTRON Editore - Via Badini, 12
Quarto Inferiore, 40057 Granarolo dell’Emilia (BO)
Tel. 051.767 003
Fax 051.768 252
e-mail: info@patroneditore.com http://www.patroneditore.com
Il catalogo generale è visibile nel nostro sito web. Sono possibili ricerche per autore, titolo, materia e collana. Per ogni volume è presente il sommario, per le novità la copertina dell’opera e una breve descrizione del contenuto.
Impaginazione e prestampa: Exegi s.n.c.
Stampa: LI.PE., Litografia Persicetana, San Giovanni in Persiceto, Bologna per conto della Pàtron editore.
Questa raccolta di saggi è dedicata a Daniela Lombardi, nel suo ricordo
Prefazione
Franco Salvatori ............................................................................ p. 9
Introduzione
Alma Bianchetti, Andrea Guaran .................................................. » 11
In ricordo di Daniela Lombardi
Giovanna Bellencin Meneghel ...................................................... » 15
Parte Prima
La geografia sociale: quadro concettuale e tematiche principali
La geografia sociale. Un breve profilo
Giovanna Bellencin Meneghel ...................................................... » 23
Genere, luogo, spazio: alcune riflessioni
Gisella Cortesi .............................................................................. » 49
Assoluta, relativa, ambientale. Declinazioni di povertà
Tiziana Banini .............................................................................. » 61
Geografia sociale e processi migratori
Francesca Krasna ........................................................................... » 77
Geografia sociale e spazi urbani: produzione, esclusione e pratiche
Stefano Malatesta, Marcella Schmidt di Friedberg ......................... » 95
Dal modello della globalizzazione ai valori della decrescita.
Oltre la società dei consumi
Alma Bianchetti, Nadia Carestiato ................................................ » 109
Parte Seconda
Approfondimenti tematici
Esperienze nella geografia sociale europea
Mirella Loda, Fabio Amato ........................................................... p. 143
Di chi è il territorio? Per una geografia partecipativa
Mauro Pascolini ............................................................................ » 173
Povertà ed esclusione sociale: una ipotesi di lettura spaziale
Andrea Guaran .............................................................................
“Getting Involved”. Il ruolo del volontariato nella gestione dell’heritage statunitense
Franca Battigelli ............................................................................ » 201
Frammentazione urbana e nuove dinamiche insediative.
Bologna e il suo hinterland
Nico Bazzoli..................................................................................
I Rom e Sinti a Bolzano. Verso il superamento dei campi nomadi?
Claudia Lintner ............................................................................
Si è certamente nel vero nell’affermare che il recente consolidato, significativo recupero di interesse della ricerca geografica italiana nei riguardi della geografia sociale sia da ascrivere, dopo il lavoro pioneristico di Giovanna Meneghel, all’impegno fecondo di Daniela Lombardi.
Dopo il solido impianto di ricerca coltivato nell’Ateneo pisano per la guida di un maestro della geografia, quale Berardo Cori, la compianta Collega, arrivata all’Università di Udine, ha accolto gli stimoli intellettuali e scientifici che in quella sede albergavano e sviluppato un percorso assai originale che faceva della geografia sociale il suo campo di elezione.
Una geografia sociale, quella di Daniela, che recuperava tematiche di duraturo interesse nella pratica di ricerca geografica in Italia, ma declinate secondo una curvatura di osservazione capace di trarne linfa vitale per un avanzamento di sicuro risultato.
Valgono a conferma i suoi studi sull’immigrazione e sul rapporto tra organizzazione urbana e flussi di immigrati: gli argomenti più tipici della tradizione di studio praticato da più generazioni di geografi ne escono profondamente rivitalizzati, attraverso un dissodamento del terreno di indagine che mostra attenzione per un’autentica multidisciplinarietà che sappia penetrare le dinamiche più profonde del rapporto società-territorio.
Bene hanno fatto, dunque, i geografi dell’Ateneo di Udine a voler onorare la memoria della Collega troppo presto scomparsa, attraverso l’allestimento di un volume che raccogliesse scritti di geografia sociale a firma di quanti sono legati al lascito di idee e d’impegno scientifico di Daniela, oltre che alla colleganza e alla amicizia. Un lascito che appare autorevolmente e significativamente testimoniato della dozzina di saggi che seguono, vuoi nella parte di inquadramento teorico e di concetto, vuoi in quella di specificazione e di applicazione argomentativa.
Franco Salvatori
Le geografe (la maggioranza, un segnale su cui ragionare), e i geografi che si sono impegnati nell’opera, affrontano temi e problemi che propongono riflessioni e raggiungono elementi di conoscenza che, in un significativamente unitario quadro, danno conto di quanto sia produttivo il percorso indicatoci da Daniela Lombardi.
Ma anche di come sia difficile accettare la sua dipartita, che lascia un vuoto personale ma anche scientifico.
Franco Salvatori Presidente emerito della Società Geografica Italiana
Alma Bianchetti*, Andrea Guaran*
Abbiamo ritenuto, con una decisione condivisa con tutti i geografi dell’Ateneo udinese, che il modo migliore per ricordare Daniela Lombardi fosse quello di ideare e comporre un volume che raccogliesse i temi di ricerca a lei più cari, quelli riconducibili alla geografia sociale. Abbiamo fin da subito respinto l’idea di un volume collettaneo privo di un chiaro e preciso indirizzo, privilegiando invece la scelta di un testo, ragionato e coerente nella sua struttura, che potesse essere utilizzato non certamente come un manuale per la geografia sociale, ma senz’altro come un testo di approfondimento fruibile nell’ambito di un corso universitario ad essa specificatamente dedicato e, ancora meglio, destinato a valorizzare questo particolare approccio entro gli insegnamenti di geografia umana. In coerenza, abbiamo voluto che il testo uscisse per i tipi della medesima Pàtron che nel 2006 aveva pubblicato l’apprezzato Percorsi di geografia sociale, a cura della compianta collega.
Il volume è organizzato in due sezioni. Le precedono, a cura di Giovanna Bellencin Meneghel, titolare della prima cattedra in Italia di Geografia sociale e maestra di Daniela Lombardi, un ricordo e un profilo bio-bibliografico della collega purtroppo prematuramente scomparsa. Avvia la serie dei contributi un saggio in cui la stessa Bellencin Meneghel fissa, seppur sinteticamente, i cardini concettuali, metodologici e tematici della geografia sociale riprendendoli, in coerenza con la genesi di questa pubblicazione, dai saggi della Lombardi contenuti nell’opera del 2006 da lei medesima curata; e, opportunamente, li rivisita alla luce dell’evoluzione storico-sociale più recente (con il punto di svolta rappre-
* Università degli Studi di Udine.
Alma Bianchetti, Andrea Guaran
sentato dalla crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008) e della ricerca in quest’ambito di studio.
La sezione raccoglie successivamente contributi dedicati ad alcune delle principali tematiche di studio affrontate dalla geografia sociale, affiancando alle riflessioni teoriche puntualizzazioni desunte dalla ricerca sul campo. Apre la serie il saggio di Gisella Cortesi sulle interrelazioni tra genere – nelle sue diverse declinazioni – e spazio/luogo, evidenziando come quest’ultimo possa risultare differentemente connotato in relazione all’identità di genere, tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata. Tiziana Banini, nel suo documentato contributo, analizza con approccio transcalare le diverse manifestazioni della povertà, soffermandosi su concetti cardine ben noti quali quelli di povertà assoluta e relativa, ma anche sul meno considerato, per quanto sia a sua volta motore di rilevantissimi riflessi sociali, concetto di povertà ambientale. Francesca Krasna, invece, si concentra sulle relazioni tra geografia sociale e fenomeni migratori, sottolineando come questi rappresentino un ambito di ricerca trasversale a più campi del sapere, e, anche nel solo contesto geografico, niente affatto esclusivo della geografia sociale. Dedica quindi una particolare attenzione agli esiti dei processi migratori sulle dinamiche organizzative e riorganizzative degli spazi residenziali, soprattutto in contesto urbano. Segue il saggio di Stefano Malatesta e Marcella Schmidt di Friedberg, che affrontano il tema delle relazioni tra spazi urbani e gruppi sociali, mettendo a fuoco i processi e le pratiche di produzione ed esclusione socio-spaziale, ispirandosi particolarmente al pensiero di A. Frémont, H. Lefebvre e M. Castells. Infine, Alma Bianchetti e Nadia Carestiato mettono in luce i modelli concettuali ed economici su cui si regge l’attuale fase della globalizzazione, puntualizzandone la genesi, le declinazioni e soprattutto gli esiti di ingiustizia sociale e di compromissione ambientale: sono gli enormi problemi della contemporaneità al cui superamento mira, in tempi evidentemente non brevi, l’antitetica e spesso travisata visione della decrescita.
La sezione finale riguarda approfondimenti concettuali e tematici, tuttavia imperniati su mirati casi di studio. Come primi, accoglie gli scritti di Mirella Loda e Fabio Amato, che affrontano parallelamente due situazioni esemplari tratte dal contesto italiano, analizzate sulla base dei metodi di indagine propri di due delle principali scuole della geografia sociale, quella tedesca (Loda) e quella francese (Amato). Il concetto di spazio pubblico e la sua articolazione funzionale, ispirati al contesto dei progetti di riqualificazione del mercato fiorentino di San Lorenzo, risultano centrali nella riflessione proposta dalla Loda. Amato punta invece l’attenzione sulla sfera della marginalità, letta in chiave urbana, esaminando la realtà complessa delle periferie napoletane.
Mauro Pascolini prende in esame una delle best practices divenute più consuete nel governo del territorio, in particolare a scala locale, grazie al diffondersi dell’Agenda 21, ossia lo strumento dei processi bottom-up, nella dimensione partecipativa e nella più innovativa logica deliberativa. Applica quindi le riflessio-
ni teoriche all’esempio delle Dolomiti, paradigmatico in ragione del loro essere state inserite nella lista dei siti Unesco riconosciuti “Patrimonio dell’Umanità”.
Andrea Guaran tratta il tema della povertà, sotto il profilo della deprivazione alimentare e materiale, da un’ottica specifica, quella delle politiche di contrasto, sia in ambito pubblico che del privato sociale (no-profit o terzo settore), focalizzando l’analisi su un circoscritto contesto territoriale localizzato nel Nord-Est italiano. Franca Battigelli illustra il fondamentale ruolo del volontariato nella realtà sociale degli Stati Uniti, con particolare attenzione alla gestione del patrimonio ambientale (parchi naturali) e agli interventi nelle situazioni di emergenza (quali incendi, alluvioni, uragani ecc.). In chiusura, si propongono le sintesi di due tesi di laurea magistrale che hanno utilizzato, tra gli altri strumenti di ricerca, quelli della indagine qualitativa di natura antropologica. La prima, di Nico Bazzoli, è tratta dall’elaborato risultato vincitore del premio ad hoc messo a disposizione dalla famiglia Lombardi, e prende in esame le dinamiche socio-urbane recenti, con riguardo alla realtà di Bologna; la seconda è quella di Claudia Lintner, ritenuta meritevole di segnalazione all’interno del medesimo bando, e presenta le problematiche socio-spaziali dei campi nomadi, concentrandosi sulla situazione delle strutture abitative per i Sinti e i Rom a Bolzano.
Già da questa sintetica presentazione dovrebbe emergere come nessun autore si sia circoscritto al semplice caso di studio, ma tutti ne abbiano fornito un adeguato, anche se non ugualmente articolato, inquadramento di natura concettuale e/o metodologica. Sottolineare tale condizione può apparire pleonastico, ma bisogna ricordare che essa è assolutamente imprescindibile e funzionale per le finalità prioritariamente didattiche attribuite a questo volume. Inoltre, in conclusione, sembra di poter asserire che l’elemento trasversale che meglio traspare e funge da collante alla gran parte dei contributi è quello dell’urbanità, dualmente intesa sia in senso spaziale come moltiplicazione ed espansione fisica della città (un processo, questo, oggi di portata planetaria) sia come modello di organizzazione sociale e stile di vita. Tuttavia, nonostante la conferma del ruolo che la città gioca nella contemporaneità come teatro privilegiato di fenomeni e dinamiche socio-spaziali, non va sottaciuto, e infatti lo si evince dagli stessi contributi, come i processi innescati fuori dai contesti urbani abbiano una evidente incidenza sugli spazi urbanizzati, a conferma che i sistemi complessi necessitano di analisi multispettrali.
Giovanna Bellencin Meneghel*
Questo volume vuole tributare un omaggio alla memoria di Daniela Lombardi e raccoglie saggi di geografi italiani impegnati in studi e ricerche che riguardano la Geografia sociale e vanno ad approfondire i temi che a Daniela erano stati più cari e per i quali aveva profuso grande impegno e passione. La pubblicazione affianca l’altra iniziativa in ricordo di Daniela, voluta dalla famiglia, l’istituzione di un premio di laurea per tesi magistrali o di dottorato riguardanti problematiche da lei sviluppate.
Daniela è mancata prematuramente, nel gennaio 2011, dopo una lunga malattia a soli 46 anni. Da La Spezia era arrivata a Udine nel 1996 come vincitrice di un concorso per ricercatore presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, dove nel 2001 diventò professore associato tra i più giovani in Italia. Nei quindici anni trascorsi a Udine ho avuto il privilegio di averla come diretta collaboratrice, il che oggi mi permette di evocare qui il mio ricordo personale. Tra di noi si instaurò un rapporto di reciproca stima e simpatia, che col passare degli anni si trasformò in sincero e profondo legame d’amicizia. Era bella di aspetto ed elegante, sempre gentile e solare; ho sempre apprezzato il suo modo di fare, diretto e schietto, il suo non comune attaccamento al dovere, la sua vivacità intellettuale, il suo spiccato senso di responsabilità, la grande rettitudine, la disponibilità, la discrezione nei rapporti interpersonali, la sua fine umanità. Per queste doti che la distinguevano era benvoluta, non solo nell’ambiente culturale friulano dove ormai da anni era stimata, ma anche e più in generale in Italia. Il suo eclettismo poi le ha permesso di creare una rete internazionale di contatti e di rapporti
* Università degli Studi di Udine.
Giovanna Bellencin Meneghel
scientifici documentati dalle tante pubblicazioni. È stata una donna forte, coraggiosa, intraprendente. Dietro la sua tenace volontà e le sue doti di rigore, si celavano generosità e disponibilità. Docente appassionata e stimolante, aveva infatti un bellissimo rapporto anche con gli studenti. Oltre alla guida sicura nello studio era anche punto fermo negli affetti per i tanti allievi. Era comprensiva, quasi dolce, quando pazientemente ascoltava i loro problemi e condivideva le loro preoccupazioni. Per le persone indifese, anziani e bambini aveva una particolare attenzione. Per il desktop del suo computer non aveva scelto montagne, prati o laghi, soggetti abbastanza comuni per una geografa, ma un bel bambino dagli occhi scuri che le sorrideva. Malgrado la sua salute precaria non si è mai fermata. Durante il lungo percorso di cure, mai lasciò trapelare paura e sofferenza interiore, mai un palese momento di sconforto, mai un cenno di resa nella lotta che condusse costantemente con caparbia volontà. Il suo ottimismo e il suo dinamismo accademico e scientifico erano sempre vincenti. All’Università, che era parte fondamentale della sua vita, ha prodigato generosamente energie, risorse intellettuali e impegno morale.
Ma il suo interesse spaziava anche in tanti altri campi. L’attenzione prestata al paesaggio culturale locale la portò allo studio della lingua friulana che permise a lei, donna dell’Appennino, di comunicare in “marilenghe”. Frequentava corsi serali di canto e modellistica che le permettevano di dare espressione al suo estro creativo e non va dimenticato neppure il suo passato sportivo che l’aveva portata a partecipare a competizioni ciclistiche.
Aveva interessi di ricerca per tematiche che in parte coincidevano con le mie, come geografia della popolazione, movimenti migratori, geografia di genere, qualità della vita e poi la geografia sociale che le ha permesso di succedermi nell’insegnamento quando io sono andata in pensione. In quella occasione ha voluto dedicarmi il libro da lei curato Percorsi di geografia sociale, uscito per i tipi della Pàtron nel 2006.
Non dimenticherò mai Daniela, legata a lei da tanti anni di lavoro fianco a fianco e da un profondissimo affetto. Nel rimpianto per la sua dolorosa perdita, motivo di conforto è che il suo coraggio, la sua operosità e la sua fine umanità saranno d’esempio per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla e apprezzarla e che le sono intellettualmente e umanamente debitori.
Daniela Lombardi.
Daniela Lombardi è nata il 2 ottobre 1964 a Castelnuovo Magra (La Spezia). Ha conseguito la maturità classica a Sarzana per proseguire i suoi studi all’Università di Pisa. Laureatasi a pieni voti in Lettere moderne con indirizzo geografico (1990), ha poi conseguito il dottorato di ricerca in Geografia urbana e regionale (1994) sotto la guida del suo maestro, il Prof. Berardo Cori. In quegli anni ha anche acquisito tramite concorso ordinario le abilitazioni all’insegnamento nelle Scuole Secondaria di Primo grado (Italiano, Storia ed Educazione civica, Geografia) e di Secondo grado (Geografia). È stata docente di ruolo nella scuola materna statale (1995/96), esperienza quest’ultima che impronterà anche successivamente parte del suo percorso di ricerca. Nel 1996, a seguito di vincita di un concorso pubblico, diventa ricercatrice presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Udine e, nel 2001, professore associato presso la stessa Facoltà. Copre negli anni gli insegnamenti di Geografia economico-politica, Geografia umana, Geografia regionale e Geografia sociale. Tiene inoltre, dal 1999 al 2007, l’insegnamento di Geografia umana nella Facoltà di Scienze della formazione. Ha tenuto lezioni e seminari presso le Università di Pisa e “Cà Foscari” di Venezia, nonché presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (Master in Diritti umani e gestione dei conflitti). La vasta rete di relazioni e contatti internazionali che aveva costruito e ampliato nel corso della sua breve attività di ricerca, l’ha portata a coordinare programmi di scambio docenti e studenti Socrates – Erasmus tra le Università di Udine e di Oradea (Romania), Orleans (Francia), Monaco (Germania). Era membro dell’Associazione dei Geografi Italiani, della Società Geografica Italiana e della Società di Studi Geografici, nonché dell’AIIG (Associazione Italiana Insegnanti di Geografia),
Giovanna Bellencin Meneghel
nell’ambito della quale era consigliera regionale (sezione Friuli Venezia Giulia). Faceva altresì parte del Centro interdipartimentale per la ricerca e la didattica (CIRD) dell’Università di Udine e del collegio docenti del dottorato di ricerca in Geopolitica, Geostrategia e Geoeconomia (con sede presso l’Università di Trieste).
Particolarmente lodevole è stato il suo impegno nell’attività di ricerca che ha sviluppato ininterrottamente anche durante l’inesorabile avanzare della malattia. Le difficoltà non hanno mai spento il suo entusiasmo né tantomeno l’hanno fatta deflettere dal proseguire con i progetti e gli impegni presi.
La sua ricca produzione scientifica comprende oltre 80 titoli, fra monografie, articoli, saggi e curatele. Il suo interesse per l’Europa centro-orientale si dimostra già con la tesi di laurea e soprattutto con la tesi di dottorato, incentrata sullo studio di Praga e Budapest nell’ambito del sistema metropolitano dell’Europa centro-orientale (1994). All’interno dell’accordo di cooperazione scientifica CNR ha compiuto diversi soggiorni di ricerca e di studio in Cecoslovacchia e poi in Slovacchia, presenziando con propri lavori a seminari e convegni.
Un altro filone di ricerche è incentrato sugli studi regionali e delle realtà urbane, dapprima in relazione a specifici casi locali, come La Spezia e Livorno quali città di mare; in Friuli, sui magredi e le risorgive del Pordenonese, e sulle città di fiume nell’ambito del progetto nazionale di ricerca Atlante tematico delle acque (2008). Inoltre, ha prodotto ampi e acuti saggi sulle aree dismesse (nel 2003, in collaborazione con Meneghel e Zamolo) e sulla qualità della vita a Udine (2007). Non mancano neppure studi su realtà complesse, come gli scritti sull’Albania e la città di Berlino in collaborazione con A. Bianchetti. Altri lavori originali scritti prendono in esame le questioni del traffico e della mobilità sostenibile (nell’ambito del Gruppo di ricerca nazionale coordinato da Cori), e il problema del risanamento dei centri storici.
Oggetto privilegiato dei suoi studi e sorta di filo rosso che ha attraversato molti dei suoi lavori è stata però la Geografia sociale. Dopo le prime analisi a scala nazionale sulle trasformazioni socio-demografiche in Italia, i suoi interessi hanno privilegiato casi di studio puntuali e particolari angolature del vastissimo campo di indagine della geografia sociale, come le condizioni di vita di gruppi deboli e marginali nella città, gli anziani, le donne, e, soprattutto, i bambini e gli immigrati. Proprio il tema dell’immigrazione è stato sviluppato dalla Lombardi anche nell’ambito di progetti nazionali banditi dal Ministero dell’Università e della ricerca scientifica. L’immigrazione viene esaminata da diverse prospettive: i bambini immigrati, i rapporti italiani-immigrati, l’immigrazione dalla Romania e, infine, nel 2002, il volume monografico, curato da Daniela assieme alla scrivente, su “Immigrazione e territorio”, che raccoglie gli atti del convegno dedicato a Giorgio Valussi nel decennale della scomparsa, a cui Daniela contribuisce anche con un ampio saggio, scritto a due mani con la sorella Liana, sulla condizione dei bambini immigrati in Italia. Ma l’impegnativo quadro concettuale della Geografia Sociale viene affrontata da Daniela nel volume “Percorsi di Geografia sociale” (2006), con una serie di saggi che
si pongono come indiscusso riferimento nel dibattito su questa disciplina. Oltre alla curatela, nell’intera parte prima del volume Daniela ripercorre l’itinerario epistemologico e di studi, dalle origini agli sviluppi più recenti, nell’ambito delle scuole tedesca, francese e anglo-americana, fino all’approfondito focus sulla situazione italiana. Va ricordato, infine, un ultimo blocco tematico, riguardante gli studi su Cipro, un tema che viene sviluppato in più riprese nel corso del non breve arco della attività di ricerca di Daniela. Già nel 2000, al tempo ricercatrice, esordisce con una monografia su Cipro. Dinamiche spaziali recenti. Lo studio dell’isola viene quindi sviluppato nell’ambito del progetto nazionale “Spatial Dynamics of Mediterranean Coastal regions” coordinato da Berardo Cori, al cui volume miscellaneo (2002) Daniela contribuisce con un ampio saggio dal titolo Change and development in a divided island”. La ricerca si è via via approfondita e ampliata prendendo in esame le diverse dinamiche socio-economiche e territoriali connesse alla divisione geopolitica dell’isola, originando nuove pubblicazioni: due articoli sul turismo (2001 e 2006), fino a due più recenti pregevoli saggi sulla questione delle risorse idriche, raccolti l’uno nel volume curato da F. Battigelli su Turismo e ambiente nelle aree costiere del Mediterraneo (2007), l’altro, focalizzato su Water in Cyprus, pubblicato negli atti del Seminario internazionale “Water in the Euro-mediterranean area”, a cura di Carestiato e Guaran (2010).
Non vengono qui elencati altri minori pur significativi percorsi di ricerca praticati da Daniela che si sono concretizzati in numerosi articoli e saggi, apparsi anche su riviste internazionali.
Di seguito, vengono elencate le pubblicazioni di Daniela Lombardi citate nel presente testo ed alcune altre sue specificatamente dedicate ai temi della geografia sociale:
D. Lombardi, “Water in Cyprus: Issues and Problems”, in N. Carestiato e A. Guaran (eds.), Water in the Euro-Mediterranean Area. L’acqua nello spazio euromediterraneo, Forum, Udine, 2010, pp. 71-80.
D. Lombardi, “La Geografia Sociale in Italia”, in I. Dumont (a cura di), Per una Geografia Sociale. Proposte da un confronto italo-francese, in Bollettino della Società Geografica Italiana, 2009, S. XIII, Vol. II, pp. 29-47.
D. Lombardi, “Una realtà turistica emergente: Cipro”, in F. Battigelli (a cura di), Turismo e ambiente nelle aree costiere del Mediterraneo. Regioni a confronto, Forum, Udine, 2007, pp. 127-158.
D. Lombardi, “Mobilità e qualità della vita: il puzzle Udine”, in D. La Foresta (a cura di), Scenari territoriali del governo della sostenibilità e dello sviluppo urbano, Aracne, Roma, 2007, Vol. II, pp. 89-138.
D. Lombardi, “Fruizioni, immagini e identità di genere in una città del Nord-Est: Udine”, in G. Cortesi (a cura di), Luoghi e identità di genere, in Geotema, Pàtron, Bologna, 2007 (ma 2009), 33, pp. 62-67.
Giovanna Bellencin Meneghel
A. Bianchetti e D. Lombardi, “L’Albania vista dall’Italia”, in C. Santoro Lezzi (a cura di), Albania in transizione. Riflessioni di viaggio, Università degli Studi di Lecce – Associazione dei Geografi Italiani, Quaderni di Geotema n. 3, Martano Editrice, Lecce, 2006, pp. 47-65.
D. Lombardi (a cura di), Percorsi di geografia sociale, Pàtron, Bologna, 2006.
A. Bianchetti e D. Lombardi, “La storia dismessa: l’operazione Hauptstadt Berlin 2000”, in U. Leone (a cura di), Aree dismesse e verde urbano. Nuovi paesaggi in Italia. Vol. II, Pàtron, Bologna, 2005, pp. 37-61.
D. Lombardi e M. Zamolo, Territori da proteggere e valorizzare: i magredi e le risorgive friulane. Una lettura critica degli usi, dei fattori di impatto e delle potenzialità, Quaderni del Dipartimento di Economia, Società e Territorio, Università di Udine, 48, 2004.
D. Lombardi e M. Marega (a cura di), Sguardi sul Mondo, Quaderni del Dipartimento di Economia, Società e Territorio, Università di Udine, 49, 2004.
G. Bellencin Meneghel, D. Lombardi e M. Zamolo, “Le aree dismesse nella città di Udine”, in U. Leone (a cura di), Aree dismesse e verde urbano, Pàtron, Bologna, 2003, pp. 291-332.
A. Bianchetti e D. Lombardi, “Paesaggi della nuova Albania”, in S. Gaddoni (a cura di), Spazi verdi e paesaggio urbano, Pàtron, Bologna, 2002, pp. 259-282.
G. Bellencin Meneghel e D. Lombardi (a cura di), Immigrazione e territorio, Pàtron, Bologna, 2002.
D. Lombardi e L. Lombardi, “La condizione dei bambini immigrati” in G. Bellencin Meneghel e D. Lombardi (a cura di), Immigrazione e territorio, Pàtron, Bologna, 2002, pp. 137-158.
D. Lombardi, “Cyprus. Change and Development in a Divided Island “, in B. Cori e E. Lemmi (eds.), Spatial dynamics of Mediterranean Coastal Regions. An international HDPoriented research, Pàtron, Bologna, 2002, Vol. II, pp. 7-44.
D. Lombardi e L. Lombardi, “L’infanzia marginale: la condizione dei bambini nelle aree del sottosviluppo e nelle sacche di degrado dei paesi sviluppati”, in A. Bianchetti e M. Pascolini (a cura di), Studi in ricordo di Guido Barbina. Terre e uomini: Geografie incrociate, 2001, Vol. I, Forum, Udine, pp. 136-161.
G. Bellencin Meneghel e D. Lombardi, La condizione degli anziani in ambiente rurale: il caso del Friuli, Quaderni del Dipartimento di Economia, Società e Territorio, 20, 2000.
D. Lombardi, Cipro. Dinamiche spaziali recenti di un’isola mediterranea, Verasas Editore, Lucca, 2000.
G. Bellencin Meneghel e D. Lombardi, “I recenti mutamenti socio-demografici in Italia”, in P. Dagradi (a cura di), Scritti geografici in ricordo di Mario Ortolani, Società Geografica Italiana, Roma, 1999, pp. 21-38.
G. Bellencin Meneghel, C. Cirelli e D. Lombardi, “La condizione socio-sanitaria dell’anziano in due diversi contesti territoriali”, in C. Palagiano, G. De Santis e D. Castagnoli (a cura di), Metodi di raccolta dati e percezione della salute. Atti del Sesto Seminario Internazionale di Geografia Medica (Roma, 4-6 dicembre 1997), Editrice RUX, Perugia, 1998, pp. 151-174.
N. Tessarin, T. Banini e D. Lombardi (a cura di), Salute, ambiente, traffico, Università degli Studi di Udine – Dipartimento di Economia, Società e Territorio, Udine, 1997.
D. Lombardi, Il sistema metropolitano nell’Europa Centro-orientale. Praga e Budapest fra continuità e transizione, Tesi di dottorato di ricerca, Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze, 1994.
parte prima
Giovanna Bellencin Meneghel*
La geografia sociale nasce per l’esigenza di colmare la lacuna dell’analisi sociologica che prendeva in esame il comportamento umano senza però approfondire gli effetti spaziali che esso produceva. Questa esigenza è stata avvertita nelle varie aree linguistico-culturali in tempi e modi diversi, e ha avuto pertanto una evoluzione lenta e complessa con differenti percorsi, non senza vivaci dibattiti e discussioni, riguardanti sia le problematiche trattate, sia gli approcci teoricometodologici seguiti. La sintesi qui elaborata sui principali orientamenti emersi dalle riflessioni in materia non ha la pretesa di esaustività e completezza, per le quali si rimanda alla lettura della letteratura specialistica.
1. La geografia sociaLe muove i primi passi
«Il termine ‘geografia sociale’ si ritrova già alla fine dell’Ottocento, in alcuni lavori di Edmond Demolins e del sociologo Le Play e dei suoi allievi; tuttavia, è solo dalla prima metà del secolo seguente che, in Francia e in Olanda, se ne fa un suo uso sempre più consapevole. Nei Paesi Bassi ‘geografia sociale’ è il nome conferito, nel 1921, a tutta la geografia umana. L’operazione testimonia chiaramente come la disciplina sia considerata una scienza sociale, ben distinta dalla geografia fisica» (Lombardi, 2006, p. 20)1. Due sono le scuole in terra olandese:
* Università degli Studi di Udine.
1 Come anticipato dai curatori, queste pagine rappresentano, aggiornandola, una sintesi dei saggi sull’evoluzione della geografia sociale di Daniela Lombardi contenuti in Percorsi di geografia so-
Giovanna Bellencin Meneghel
quella di Amsterdam, che conia il termine ‘sociografia’, «che ambisce ad essere una alternativa alla sociologia e alla geografia, o se si vuole, una sorta di ponte tra le due» (ib.); e l’altra di Utrecht, che segue l’impostazione possibilista. «Ad acquisire importanza internazionale saranno però soprattutto le geografie sociali nate in Francia e nei Paesi di lingue tedesca ed inglese» (ib.).
2. La geografia sociaLe in francia
La geografia sociale in Francia prende forma nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del secolo successivo attorno a figure isolate. Sono considerati precursori Elisée Reclus, Camille Vallaux, Jean Brunhes e, ancora, Abel Chatelain.
La geografia di Reclus, geografo anarchico, «punta l’attenzione non sull’ambiente naturale, come era d’abitudine allora, ma sulla storia, e si interessa della popolazione e dei suoi problemi, degli squilibri tra le varie parti del mondo così come tra le classi […]. Essa lascia dunque intravedere una sensibilità che sarà propria della geografia sociale, preoccupandosi di studiare la società, le sue dinamiche, i suoi contrasti» (p. 21). Vallaux, pubblica Géographie sociale: la mer (1908), dove tenta a sua volta di svincolarsi dal determinismo positivista, ma non va oltre un utilizzo dell’espressione intesa ancora sostanzialmente come sinonimo di geografia umana. Saranno di fatto Brunhes e Chatelain a meglio delineare successivamente i tratti di una geografia dei fatti sociali prestando attenzione alla miseria urbana e alla diffusione delle malattie epidemiche.
Quale critica all’approccio del determinismo positivista che, in estrema sintesi, postulava la supremazia dell’ambiente naturale sulle vicende umane (cfr. Ratzel, v. oltre), nei primi anni del Novecento si afferma il possibilismo, la corrente di pensiero che connota la scuola classica di geografia umana francese. Ne è il fondatore Paul Vidal de la Blache (1845-1918), che traghetta la disciplina verso la geografia sociale. Egli introduce il concetto di genere di vita (genre de vie) inteso come «l’insieme delle abitudini e dei comportamenti con cui un gruppo insediato in un territorio interagisce con l’ambiente naturale: così facendo, esso opera una scelta, fra le tante possibili, che è frutto della sua tecnologia, delle sue esperienze, del suo retaggio storico […]. Proprio i geografi vidaliani sono protagonisti di un confronto, presso l’École Normale Supérieure di Parigi, con i sociologi seguaci di Émile Durkheim, che sarà fecondo per il radicarsi di una scienza capace di archiviare le posizioni deterministe […]. Questo rapporto intenso si esplicita anche attraverso la pubblicazione di articoli a firma di geografi nella rivista Année Sociologique e di studi sociologici negli Annales de Géographie» (pp. 21-22).
ciale, Bologna, Pàtron, 2006, nella Parte Prima. Il quadro concettuale, pp. 19-120. Da tale opera, pertanto, ove non sia diversamente esplicitato, sono tratti i passi qui trascritti tra caporali (e seguiti dall’indicazione dei corrispondenti numeri di pagina).
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La scuola cosiddetta vidaliana si concentra sullo studio della specificità delle singole realtà territoriali e, pur presentando un’impostazione di tipo storico, si caratterizza però ancora per l’attenzione attribuita all’ambiente naturale. Trovano ora diffusione le classiche monografie regionali composte da una introduzione sulla geografia fisica di un territorio e da una successiva descrizione degli aspetti umani e storici del medesimo, senza però giungere ai caratteri fondanti di una geografia sociale. «Oltretutto il concetto di genere di vita, pur importante, si prestava bene ad analisi di società semplici (le primitive), ma non altrettanto per quelle complesse (società industriali)» (p. 22). Sarà Maximilien Sorre con la sua opera Rencontres de la géographie et de la sociologie (1957) a concepire una definizione più estesa, «sostenendo che la geografia, studiando lo spazio come ambiente di vita, dove si delineano le relazioni sociali, si muove in direzione degli studi sociologici. Tuttavia, questa geografia con orientamento sociale in realtà è poco più che lo studio della distribuzione» (ib.) dei fatti sociali nello spazio. «Intanto, si diffonde la corrente di ispirazione marxista, che rigetta il concetto di genere di vita, ritenuto ormai del tutto inadeguato a comprendere la realtà contemporanea, e insiste su principi come quelli di struttura sociale, di rapporti e di modi di produzione, di lotte di classe» (pp. 22-23). Il caposcuola di questi geografi viene considerato Pierre George, che pubblica subito dopo la guerra la sua Géographie sociale du monde (1945), di cui darà una versione aggiornata nel 1964, ponendo sempre l’accento soprattutto sulla dimensione economica piuttosto che sulla dimensione sociale dei temi analizzati. Secondo autorevoli studiosi quella di George «è una geografia sociale delle collettività, della loro organizzazione sociale e dunque delle strutture sociali dei loro rapporti con gli spazi» (p. 23).
In questo contesto non adeguato per andare a fondo alla declinazione sociale della disciplina geografica viene edito agli inizi degli anni Sessanta un saggio di Renée Rochefort sulla Sicilia, in cui la studiosa descrive la realtà economica e sociale, i ritmi di vita e i tanti problemi della realtà isolana, denunciandone le condizioni di sottosviluppo e le sue cause. Ella «pone al centro del suo percorso di ricerca la questione del rapporto della disciplina con le scienze umane, ed afferma che nella geografia sociale occorre procedere all’inversione dell’ordine dei fattori – prima il gruppo umano, poi lo spazio» (p. 24). Questo nuovo approccio costituisce fuor di dubbio la base per la ricerca socio-geografica, anche se non ottiene subito la meritata attenzione.
Negli anni Settanta nuovi impulsi vengono da Paul Claval con il saggio Principes de Géographie sociale (1973). Egli costruisce un’opera sistematica che tenta di fare chiarezza sulla disciplina, tracciandone anzitutto il lungo cammino evolutivo, all’interno della geografia, ma anche mettendone in risalto i legami forti soprattutto con la sociologia, e sottolineando come, pur avendo preso forma nell’ambito del pensiero francese, essa abbia subito anche l’influenza di quelli anglosassone e tedesco. Per lui è «importante osservare le ‘collettività’, nelle loro differenziazioni: esse possono, ad esempio, essere identificate rispetto alla loro
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composizione per sesso ed età o alla divisione del lavoro – si pensi alla popolazione divisa per ramo di attività economiche – o per le convenzioni che regolano la vita sociale (i salariati, da un lato, e i datori di lavoro dall’altro), o per il loro credo religioso, o la lingua, ecc. Quando esse sono consapevoli di vivere nella stessa situazione e di avere gli stessi tipi di problemi e di ricompense, si parlerà di ‘classe’. Ma se la geografia sociale vuol capire l’organizzazione della società nella sua interezza deve prendere altresì in esame i sistemi di relazioni sociali. Perciò essa studierà anche l’architettura sociale, che non è altro che “l’insieme delle reti di relazioni codificate e delle organizzazioni che le hanno in carico” (Claval, 1989, p. 87), ossia una sorta di “cornice in cui gli uomini vivono, producono, consumano … [la cui] funzione è quella di permettere ai gruppi di funzionare nel miglior modo possibile” (Claval, 1983, p. 166): di per se stessa, dunque, tutt’altro che statica, e in grado di raccontarci come lo spazio sociale si sia andato costituendo e quali caratteristiche abbia.
Ripercorrendo le fasi di elaborazione teorica della geografia sociale, Claval ritiene che il marxismo fornisca una chiave di lettura più efficace, ma che anch’esso non prenda nella giusta considerazione l’elemento spaziale. La geografia, perciò, deve far riferimento al contempo a una teoria economica, a una sociale e a una politica; essa, acquisendo elementi interpretativi anche da altre discipline, come l’antropologia e la sociologia, riuscirà a comprendere la complessità delle relazioni che si instaurano nel mondo» (pp. 53-54).
Inoltre, «Claval attribuisce ai fattori psicologici e culturali (anche in questo caso mix tra individualità e input dal sistema collettivo dei valori) un peso significativo nella rappresentazione del territorio, nella sua valorizzazione, nella sua costruzione ed evoluzione» (p. 54), rischiando con ciò, secondo alcuni, di scivolare in una geografia del comportamento.
Gli «anni Settanta sono un laboratorio ricco di linee di interesse e di ricerca, che certamente trova linfa in un contesto socio-economico in trasformazione e pieno di tensioni e che porta alla luce questioni forti come la disoccupazione, le ineguaglianze sociali, la povertà, la condizione degli immigrati. In ambito geografico questo si traduce in un più ampio interesse verso la dimensione sociale, che si concretizza nella promozione di una serie di incontri scientifici e, per la geografia sociale, nell’evoluzione da espressione isolata di qualche ricercatore a collante di collettivi di studiosi che vi si riconoscono.
In un primo tempo vengono alla luce gruppi distinti, sotto il profilo teoricometodologico: uno di essi si costituisce a Lione intorno alla figura di Renée Rochefort – ricollegandosi idealmente ad Abel Chatelain e alla geografia umana classica – ed ha tra i suoi rappresentanti André Vant e Marc Bonneville e gli studiosi del Centro di ricerche sull’ambiente geografico e sociale (CREGS). In altre sedi (ad es. Tolosa con Kayser e MontpeIlier con Dugrand, per non parlare di Yves Lacoste e della rivista Hérodote) prende invece campo una geografia sociale di ispirazione marxista, legata alla fìgura di Pierre George. C’è poi una serie
di studi sullo spazio vissuto, che […] fanno emergere come gli spazi di vita siano frutto non solo delle condizioni oggettive (mezzi di trasporto, assi di circolazione) e dell’ambiente culturale in cui gli individui sono immersi, ma anche della professione e del ceto sociale: così il contadino e il manager usano in modo diverso lo spazio, e diversamente lo percepiscono. Esso non è più, dunque, solo l’insieme degli spazi obiettivi, ma è “l’espace pratiqué, perçu et représenté par les hommes et les groupes sociaux” (Frémont et al., 1984, p. 80). Gioco-forza, ci si deve orientare verso lo studio delle classi sociali e dei rapporti sociali (Hérin, 1984).
Accanto a questi tre percorsi, se ne individua almeno un altro che viene sviluppandosi all’interno della geografia della popolazione: qui, infatti, dovendo affrontare questioni come l’invecchiamento o la struttura socio-professionale, o la migrazione, si verifica un graduale passaggio dalla demogeografia alla sociogeografia e infine alla geografia sociale. Non è un caso che sia la Commissione di geografia della popolazione presieduta da Daniel Noin a promuovere il Colloquio di geografia sociale (1982) e la nascita di una nuova rivista di geografia ‘demografìca’ e sociale (Espace, populations, sociétés)» (pp. 55-56).
Negli anni Ottanta la geografia sociale è animata da un dibattito a più voci che fanno capo ad alcune Università dell’Ovest della Francia (Angers, Rennes, Caen, Le Mans e Nantes) ed è segnata da alcuni importanti avvenimenti, come la pubblicazione del volume Géographie sociale, di Armand Frémont, Jacques Chevalier, Robert Hérin e Jean Renard (1984). L’opera è ritenuta «il testo di riferimento per la geografia sociale francese contemporanea. Esso ne ripercorre le origini, interrogandosi poi sui suoi campi di studio e sui suoi metodi, e focalizzandosi quindi su alcuni temi-chiave (i luoghi, le classi, le culture, la mobilità, nei loro effetti); infine, l’ultima parte (intitolata significativamente ‘radicati-sradicati, dominantidominati’) è un bellissimo percorso che ci porta alla scoperta di realtà come quella dei profughi (sradicati per eccellenza) e di ‘contadini senza terra’ o si sofferma sulle società stabili o su nuovi radicamenti (come quello degli strati popolari nelle città del sottosviluppo) e sulle classi socio-spaziali dominanti.
Ma è soprattutto sulla prima parte che ci interessa fermare la nostra attenzione, perché è qui che si definisce la geografia sociale. Come già nell’altro testo, si osserva: “Géographie des faits sociaux, et sociologie des faits géographiques, la géographie sociale consiste fondamentalement en l’exploration des interrelations qui existent entre les rapports sociaux et les rapports spatiaux, plus largement entre sociétés et espaces” (1984, p. 90)» (p. 59).
Circa i campi di studio della geografia sociale, secondo gli autori sopra citati essi sono fondamentalmente quattro, ovvero «gli indicatori sociali, le questioni sociali, i gruppi sociali, le combinazioni socio-spaziali.
I primi, che ricordiamo già la Scuola di Monaco aveva ampiamente considerato, sono di tipologia diversa (dagli indicatori paesaggistici a quelli statistici, assai numerosi e variegati). Tra le questioni sociali di cui è chiamata ad occuparsi la geografia sociale – una disciplina che deve essere attiva, contribuendo alla
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consapevolezza dei problemi e alla loro soluzione – vi sono la disoccupazione, la scolarizzazione, la povertà. Riguardo ai gruppi – per gli autori concetto ampio, che racchiude tanto la parentela e l’etnia quanto la classe sociale –, si ravvisa anzitutto che ciascuno di essi ha con lo spazio un insieme di relazioni più o meno interdipendenti. Dunque, si può costruire una geografia sociale della famiglia rurale, o dei lavoratori dell’industria, o di ciascun gruppo sociale: ad esempio una geografia delle donne, che vada a studiare quale uso esse fanno dello spazio, quale sia la loro mobilità, il loro lavoro, ecc., nelle loro interrelazioni con i loro modi di vita, il loro status sociale e matrimoniale, il loro livello di istruzione…; o una geografia dedicata ai pensionati o agli emigranti stagionali, e così via. Infine, ultimo grande campo di studio è quello che si interessa alle ‘combinazioni socio-spaziali’, ossia agli spazi sociali, che naturalmente possono riguardare dimensioni diverse: così si può fare una geografia sociale del mondo (si pensi a P. George), ma si può anche scegliere l’ambito locale. In ogni caso, studiare le combinazioni socio-spaziali vuol dire per la geografia prendere in esame le complesse interrelazioni tra il ‘sociale’ e lo ‘spaziale’, il che in concreto spesso significa focalizzare la ricerca su un ambito territoriale ristretto, senza tuttavia dimenticarne le connessioni con altri piani; inoltre, ciò implica che la scala più appropriata varia a seconda del periodo storico, del tipo di società, dei gruppi, e così via.
In quest’indagare l’organizzazione della società, nella sua complessa interrelazione con lo spazio, la geografia sociale deve tener conto di quattro serie di fattori – il luogo, la classe, la cultura, la mobilità – ed esaminarne gli effetti.
Ogni attività dell’uomo (lavoro, riposo, divertimento, produzione…) si svolge, naturalmente, in qualche luogo. Premesso ciò, ci si deve domandare se esista un effetto di luogo, ossia se lo spazio sia un fattore dell’organizzazione sociale che si possa identificare e, in caso affermativo, capire in che modo esso intervenga. La questione, più volte esaminata da cultori di varie discipline, è stata poco considerata dai geografi: secondo il gruppo, occorre invece studiare i rapporti che gli uomini hanno con i luoghi che abitualmente frequentano e che prendono il nome di ‘spazi di vita’; sono, invece, ‘spazi sociali’ gli insiemi di questi luoghi frequentati e degli usi e dei rapporti sociali che vi si instaurano.
Venendo all’esame delle società, se ne può rilevare una strutturazione interna in gruppi, classi sociali e strati; secondo i quattro studiosi, “cette structuration exerce un effet essentiel sur l’organisation de l’espace géographique. Inversement, l’organisation de l’espace révèle, traduit et souvent renforce la structuration des sociétés” (p. 183). Per questo motivo, se si vuole capire lo spazio geografico bisogna affrontare anche l’analisi sociale.
In genere, essi osservano, si fa largo uso dei termini ‘categoria sociale’ (ciascuna delle quali è costituita, all’interno di una società, da un insieme di persone della stessa tipologia: si pensi alle categorie socio-professionali) e ‘gruppo sociale’ (dai giovani alle donne, dagli omosessuali agli artisti, ecc…, insiemi di persone che hanno “une certaine cohérence, tel quel, par un ou plusieurs critères, il existe
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plus de cohérence entre les membres du groupe qu’entre ceuxci et les personnes extérieures au groupe”; p. 184). Assai meno viene applicato il concetto di ‘strato sociale’, di derivazione marxista, che “implique une structuration sociale en catégories qui se succèdent les unes par rapport aux autres, soit en fonction d’une certaine hiérarchie sociale, soit en fonction d’une succession historique” (pp. 184-185). Ancor meno utilizzato è, infine, un altro termine-chiave del marxismo, quello di ‘classe sociale’, che identifica “un ensemble de personnes dont les intérêts fondamentaux sont en opposition antagoniste avec les intérêts d’une autre classe et qui ont conscience de l’existence de ce rapport” (p. 185): ne sono esempi la borghesia o il proletariato. Va da sé che per i quattro autori, invece, sia una categoria di analisi fondamentale; inoltre, dal momento che le società non sono immobili, essi ribadiscono la necessità di studiare la dinamica sociale, nei primi anni Ottanta ancora pressoché ignorata.
La cultura è un altro importante oggetto di studio per la geografia sociale; quanto all’effetto della mobilità, essi osservano come essa, oltre che spaziale, sia anche sociale. A questo proposito, evidenziano come la geografia, tutto sommato, si sia occupata poco di quella residenziale, dei suoi motivi, delle sue forme, delle sue conseguenze; grande interesse riveste anche la migrazione di popolazione, in tutte le sue caratterizzazioni e nei suoi effetti.
Quanto ai metodi, la disciplina è stata qualche volta rimproverata di non averli chiaramente esplicitati: tale accusa (che, peraltro, talvolta ha riguardato anche gli obiettivi) viene tuttavia rigettata dal gruppo che si riunisce intorno a Frémont. Esso sostiene, infatti, che la geografia sociale, proprio perché ha come problematica di fondo di individuare le variegate e complesse interrelazioni tra società e spazio, può (e deve) fare ricorso ad approcci e metodi diversi: essere ora deduttiva ora induttiva, riscoprire tecniche e metodologie già sperimentate dalla sociologia e dall’etnologia, così come dalla geografia della percezione, utilizzare sia procedimenti quantitativi e modellizzanti che fare uso di altri strumenti d’indagine. Alle fonti statistiche classiche, dunque, se ne potranno affiancare altre, non necessariamente geografiche, finora poco sfruttate o del tutto ignorate (dalla fotografia alla letteratura, dal cinema alla canzone d’autore, fino al simbolismo urbanistico e monumentale)» (pp. 60-62).
Gli anni successivi sono una conferma degli interessi della geografia sociale francese, che continua a essere attiva soprattutto grazie alla rete delle Università dell’Ovest. A testimoniarne la «vitalità, il ricordo di alcune opere dovute a Di Méo o comunque condotte sotto il suo coordinamento, e contrassegnate da maggiore respiro: la più vecchia (1998) delinea i fondamenti della geografia sociale, studiando la complessa interrelazione tra rapporti sociali e rapporti spaziali, e soffermandosi a riflettere su come i territori siano frutto dei bisogni degli uomini, ne rispecchino la mentalità e l’organizzazione sociale, ma anche i conflitti per i loro usi e la loro strutturazione. Alcuni anni dopo, Di Méo […] coordina un’opera a molte mani (2005) intesa ad analizzare le forme sociali dello spazio:
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[qui] ci si interroga su scelte teoriche e metodi di indagine diversi, ma che comunque spiegano le configurazioni spaziali come risultato dell’azione dei gruppi umani. Esse tendono a perpetuarsi nel tempo e si esplicitano tanto con elementi tangibili, quanto con elementi simbolici, valori collettivi, potere, ecc..: lo studio di tali forme permette dunque di comprendere ‘les structures, les contradictions et les enjeux’ della società» (p. 68).
3. La geografia sociaLe nei paesi di Lingua tedesca
La geografia sociale tedesca nasce solo negli anni ’50, come sviluppo dell’antropogeografia. Tale ritardo rispetto a quanto era avvenuto in Francia, Inghilterra e nei Paesi Bassi, si spiega con diversi motivi. In primo luogo, mancavano in Germania i necessari rapporti e scambi tra geografia e sociologia, dai quali avrebbero potuto scaturire per la geografia nuovi stimoli. Una gran parte dei sociologi tedeschi, infatti, si impegnò per decenni nel campo speculativo e teoretico piuttosto che in quello empirico, oppure si volse ad analisi sociali ideologicamente impegnate. La geografia tedesca era in quel tempo soprattutto geografia regionale e geografia fisica, che rivolgeva il suo interesse quasi esclusivamente alla fisionomia della superficie terrestre e, solo più tardi, anche alla morfologia del paesaggio culturale, senza però tener conto dei fattori non visibili. Anche le circostanze politiche durante il nazionalsocialismo ebbero peso nel ritardare la nascita della geografia sociale: il costituirsi di uno Stato assoluto significò per la scienza la fine di un’attività intellettuale libera e, di conseguenza, indusse gli studiosi ad attenersi a temi di regime (Geopolitica) o neutri. A quel tempo una geografia sociale non sarebbe stata né politicamente né ideologicamente fattibile (Thomale, 1984).
Come precursore della geografia sociale tedesca viene considerato Friedrich Ratzel, che con la sua Antropogeografia (1882-1891), pose la base scientifica per lo sviluppo di una geografia umana, ma sopravvalutò l’effetto-guida della natura nell’evoluzione della civiltà e della storia, poiché intendeva l’ambiente naturale come il motore di ogni sviluppo spaziale (determinismo ambientale). A Ratzel va comunque il merito di aver introdotto l’uomo e la sua azione spaziale nella problematica scientifica della geografia generale e di aver indotto ricercatori contemporanei e posteriori ad allontanarsi da una geografia di impronta naturalistica, per cercare nuove concezioni riferite alla società. A dare importanza alla componente sociale nelle dinamiche geografiche sarà nei primi decenni del Novecento Richard Busch-Zantner (1937). Nell’analizzare la dimensione non fisica dei quadri territoriali è per lui importante spostare l’attenzione dalla dimensione individuale a quella del gruppo. Questa riflessione venne in seguito ripresa da Hans Bobek, che elabora il concetto di ‘funzione elementare’. Influenzato anche dall’ecologia sociale americana, quest’ultimo asserisce che le forme di vita (Lebensform, genere di vita) costituiscono dei gruppi condizionati sia
dall’ambiente sia dalle forze sociali e che, al contempo, modificano con le loro azioni l’ambiente e lo spazio sociale. Le ‘funzioni elementari’ individuate da Bobek possono essere «bio-sociali, eco-sociali, politiche, topo-sociali, migro-sociali, culturali; ma la Scuola di Monaco preferisce rifarsi all’elenco dei sette bisogni individuato da Partzsch nel 1964: abitare, lavorare, approvvigionarsi, istruirsi, ricrearsi, prendere parte al traffico, vivere in comunità. Esse, in qualche modo, si ispirano anche alle funzioni primarie – abitare, lavorare e ricrearsi – individuate nel 1943, in ambito architettonico e di pianificazione urbana, nella Carta di Atene di Le Corbusier […].
Ognuna di queste funzioni, secondo la Scuola di Monaco, dà origine a comportamenti spazialmente significativi, che si traducono in localizzazioni e strutture territoriali (ossia un insieme di flussi e di luoghi funzionali) proprie; naturalmente, si individuano anche dei piani di interrelazione spazio-funzionali, di cui è espressione concreta il paesaggio umanizzato. Ognuna di queste funzioni ha un campo di studio specifico coltivato da una delle branche della geografia sociale e vi sono altresì discipline affini che se ne occupano: ad esempio per ‘approvvigionarsi’ e ‘lavorare’ esse sono la geografia economica, l’economia, le scienze agrarie, ecc.; per ‘vivere in comunità’ la geografia della popolazione e quella del comportamento, la demografia, l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la storia… La geografia sociale ha la funzione di delineare il quadro d’insieme […].
Non esiste una gerarchizzazione delle funzioni, ma è comunque vero che esse, talvolta in competizione tra loro, possono avere diversa efficacia spaziale: alcune lasciano segni evidenti sul territorio (si pensi ad ‘abitare’), in altri casi le localizzazioni possono esser meno palesi (‘istruirsi’); allo stesso modo, i loro raggi d’azione sono di estensione molto varia (ad esempio, quelli legati al lavoro sono più ampi rispetto a quelli di vicinato: basta ricordare il fenomeno del pendolarismo!).
Naturalmente, la loro esplicazione concreta risente anche del contesto in cui si svolgono. Questo significa che per comprendere il territorio così come è organizzato bisogna conoscere la società che lo ha strutturato: dunque, il tipo e il livello di organizzazione, i rapporti intercorrenti tra i gruppi, le dinamiche di appropriazione dello spazio, i processi decisionali e così via […]. Lo scenario è, inoltre, in continua trasformazione: infatti, i ‘comportamenti spazialmente rilevanti’ mutano al mutare delle esigenze, ed è altrettanto vero che cambiano le modalità di espletamento. Siamo dunque di fronte a quelli che vengono definiti i ‘processi socio-spaziali’, cui la Scuola di Monaco presta particolare attenzione. Esplicita bene il quadro di queste interrelazioni lo schizzo di Ruppert sul ‘sistema spaziale sociogeografico’ (Tav. l).
Lo schema si legge a partire dal sistema globale delle informazioni (materiali e non): di queste, non tutte vengono acquisite (vuoi per mancanza di strumenti culturali, vuoi per assenza di interesse), ma quelle percepite e selezionate contribuiscono poi alla formazione di carte mentali. Queste carte influenzano la valutazione dell’ambiente fatta dai gruppi sociali, e dunque, attraverso le attività
Tav. 1 – Schizzo di Ruppert.
Fonte: Maier et al., 1983, p. 34.
spazialmente rilevanti nell’ambito delle funzioni elementari (lavorare, istruirsi, abitare, impiegare il tempo libero, approvvigionarsi), le scelte localizzative.
Da qui la creazione di specifici modelli di localizzazione. Tuttavia la struttura S1 può trasformarsi in S2: infatti, i comportamenti possono variare, promuovendo un processo di trasformazione del modello di struttura territoriale esistente. Ciò, attraverso un meccanismo di feed-back, provocherà nuove informazioni, nuove valutazioni, nuove percezioni, coinvolgendo dunque l’intero sistema.
Questa situazione potrebbe così schematizzarsi: cambiamento della valutazione dell’ambiente per una mutata situazione informativa → variazione del comportamento → promozione di processi socio-spaziali → rielaborazione del modello e formazione di nuove situazioni territoriali.
Nel considerare la relazione tra la struttura e il processo bisogna tuttavia tener conto della possibile esistenza di fenomeni di inerzia: è quello che la Scuola di Monaco chiama il ‘principio della persistenza’. In effetti, le concrete situazioni spaziali, una tessitura complessa di luoghi funzionali (e dunque di strutture e
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infrastrutture, con il loro retroterra di investimenti economici e sociali) e di interdipendenze che l’uomo, nel corso del tempo, ha prodotto sul territorio, esercitano certamente un freno alle tendenze al cambiamento. Ma contribuiscono a rafforzare questa situazione di conservatività delle strutture anche i modelli culturali di chi vi vive, e dunque i valori, le norme sociali, ecc., che si traducono concretamente in abitudini e comportamenti condivisi e consolidati. Ogni processo sociogeografico si trova, perciò, a dover fare i conti con un sistema tendenzialmente conservativo, volto a mantenere intatte le proprie strutture territoriali: per tale ragione, queste ultime si modificano più lentamente dei processi. Il fenomeno si individua facilmente osservando come nella realtà si verifichi spesso la separazione tra fisionomia e funzione, tanto nelle aree urbane quanto in quelle rurali: così, ad esempio, gli edifici si trasformano da residenze a uffici o a sedi universitarie, mantenendo intatto il loro aspetto.
Seguendo quanto già individuato da Bobek, la Scuola di Monaco ritiene perciò che ogni indagine sociogeografica debba focalizzarsi su tre punti: la determinazione delle ‘strutture socio-spaziali’, attraverso l’esame della distribuzione nel territorio dei gruppi spazialmente attivi; l’individuazione del ‘sistema sociogeografico’, cioè il sistema spaziale delle funzioni e dei processi propri a ciascun gruppo; l’identificazione, infine, dei ‘luoghi funzionali’, nei quali la vita si svolge e che dunque strutturano la vita sociale. Così concepito, lo studio della geografia sociale dà adito a due approcci differenti, pur se complementari: quello strutturale, attraverso il quale si possono identificare le differenziazioni regionali delle strutture sociali e dei modelli spaziali delle funzioni elementari dei gruppi umani (e delle cause che li hanno determinati); e quello processuale, focalizzato sui cambiamenti che avvengono in tali strutture o sulla nascita di nuove» (pp. 35-38).
Secondo tale impostazione teorica, «si possono osservare comportamenti simili in un certo numero di individui, tali da identificare dei gruppi omogenei. Sono loro che, esplicando le funzioni, creano le strutture territoriali» (p. 38).
Mentre altri studiosi danno al concetto di ‘gruppo’ un significato ampio, per Bobek il termine ha un significato più preciso e riguarda «individui che hanno lo stesso comportamento in tutte le manifestazioni dell’esistenza e che producono effetti sul territorio» (p. 39), fatto quest’ultimo che lo rende un punto di partenza fondamentale per comprendere l’organizzazione territoriale. «Nel suo percorso evolutivo la geografia sociale tedesca giunge quindi ad includere la componente percettiva nel suo corpus teorico, accettando che ogni gruppo abbia una propria percezione dello spazio e che questo influenzi il suo comportamento spaziale» (p. 44).
Alcuni anni dopo, «Bobek elabora il concetto di ‘funzione elementare’ e asserisce che le forme di vita costituiscono dei gruppi condizionati sia dall’ambiente che dalle forze sociali e che, al contempo, modificano con le loro azioni l’ambiente e lo spazio sociale […].
Nel momento in cui il concetto di ‘funzione’ viene inteso non più come semplice “rapporto di dipendenza di un elemento geografico materiale da un aspet-
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to o carattere della società che quel territorio abita”, ma come “esigenza vitale, compito, attività o aspetto dell’esistenza” (Scaramellini, 1987, p. 167), nasce la geografia sociale tedesca moderna» (p. 27) e si hanno i primi studi di taglio concettuale intorno a Hans Bobek, attivo a Vienna (dove si lavora soprattutto su problemi di ampio spettro), e a Wolfgang Hartke, operante a Monaco, dove si sviluppano prevalentemente studi di micro-comportamento. Per Hartke il paesaggio culturale è come la tavola magnetica che ne registra le tracce. Le impronte delle attività umane diventano indicatori di processi sociali e lo studio del paesaggio la lettura di tali impronte finalizzata all’interpretazione dei processi sociali. «La Scuola di Monaco fa largo uso degli indicatori, strumenti grazie ai quali poter individuare aspetti di non immediata decodificazione e capaci di essere vere e proprie “spie di processi” […], che altrimenti verrebbero identificati solo successivamente. Sono, dunque, uno strumento indispensabile dell’analisi sociogeografica e, oltre tutto, consentono di confrontare tra loro aree diverse, permettendo di riconoscerne caratteristiche, peculiarità, problemi. Inizialmente vengono utilizzati indicatori che fanno riferimento ad aspetti chiaramente visibili nel paesaggio: tra questi, è famoso quello introdotto da Hartke nel 1953, il Sozialbrache [maggese sociale]. Esso indica terreni lasciati incolti non per motivi legati alla povertà dei suoli, ma al passaggio dei contadini al lavoro nell’industria, più redditizio; dunque, è specchio evidente di un cambiamento che è fondamentalmente socio-culturale. Lo stesso può dirsi per il rimboschimento o la regressione a pascolo.
In seguito, il concetto venne ampliato, così da includere anche indicatori non (o non del tutto) percepibili ad occhio nudo: è il caso dei dati statistici strutturali» (pp. 42-43).
La Scuola di Monaco è risultata fortemente innovativa «cambiando nome all’antropogeografia, rinnovandone i contenuti su basi teoriche nuove […] e preoccupandosi anche, attraverso studi concreti, di mostrarne il modus operandi. In effetti, la geografia sociale di lingua tedesca costruisce presto un’impalcatura teorica ben definita – come mostra il suo lavoro più noto (Sozialgeographie), scritto da Maier, Ruppert, Paesler e Schaffer [nel 1977], dando di sé [anche con Geipel, Ganser, Schrettenbrunner] l’immagine di un gruppo compatto di lavoro, chiaramente riconoscibile nel panorama geografico internazionale. E convinto che la geografia sociale [intesa come scienza delle forme di organizzazione spaziale e di processi spazialmente attivi delle funzioni elementari dei gruppi e delle società umane] sia “un nuovo orientamento metodologico dell’antropogeografia, che comprende nella stessa misura tutti i settori parziali della geografia umana”, con effetto integrante (Maier et al. 1983, p. 30). Tale affermazione, naturalmente, non trova tutti d’accordo. Qualcuno rileva come in quest’area il termine ‘geografia sociale’ abbia assunto una connotazione ampia, soprattutto rispetto ai Paesi anglosassoni […]; per qualcun altro, essa si è caratterizzata come componente della geografia umana, più precocemente di altre capace di intrattenere relazioni
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proficue con discipline affini: abituati a fare ricerca empirica a scala locale, i geografi sociali sono in effetti in grado di entrare a far parte di gruppi interdisciplinari su questioni come la segregazione, l’immigrazione, la mobilità» (pp. 27-28).
In un quadro in continua evoluzione, gli anni più recenti si vengono a caratterizzare «per l’ampio ventaglio di stimoli che la geografia sociale tedesca cerca di accogliere, manifestando tanto una volontà di rinnovamento, quanto la ricerca di una sistemazione teorica» (p. 49). E se la disciplina offre oggi di sé nell’area di lingua tedesca un’immagine dominata forse dall’eterogeneità e dal pluralismo, l’aspetto probabilmente più rilevante da cogliere è la persistente validità dell’osservazione di Gerhard Hard (1999), per il quale in Germania quasi tutti i geografi, concepiscono la geografia come scienza sociale, tanto che i termini ‘Geografia sociale’ e ‘Geografia umana’ sono divenuti quasi sinonimi (Loda, 2008, p. 65).
4. La geografia sociaLe in gran Bretagna e negLi stati uniti
La geografia sociale di lingua inglese (prevalentemente anglo-americana) nasce sull’onda del processo di sviluppo economico e industriale nel secondo dopoguerra con l’affacciarsi di nuovi problemi sociali. Manca ancora, all’epoca, tra i geografi l’aspirazione ad elaborare una teoria generale, per cui emerge dai vari lavori una pluralità di approcci applicati ad un ampio ventaglio di tematiche. Il luogo privilegiato di osservazione è la città, con la sua struttura e organizzazione complessa, che si articola in classi sociali e differenti interessi socioeconomici. Nasce così una geografia sociale urbana, le cui radici affondano negli studi della Scuola di sociologia sviluppatasi a Chicago negli anni Venti (Burgess, Park, Mc Kenzie, ecc.)2 .
Per tale retroterra, l’interesse «verso le diseguaglianze diventa, nei fatti, una sorta di marchio di identificazione della geografia sociale anglo-americana e segna un ulteriore elemento di differenza rispetto a quella tedesca, meno interessata a queste problematiche (nonostante l’esistenza di alcuni studi, ad esempio, sui gruppi marginali)» (p. 32). Pertanto, essa «si caratterizza sostanzialmente quale geografia delle dinamiche e delle differenziazioni sociali della popolazione, osservate nei loro processi di sviluppo e nella loro configurazione spaziale, così come degli squilibri tra le aree. Così alcuni, come Smith e Harvey, si focalizzano sulle diversità di fronte alle malattie o alla morte e sulle conseguenze della carenza di strutture sanitarie o di alloggi malsani o della sottoalimentazione, ecc., affrontando anche la questione delle malattie sociali; altri, come Evans o Herbert, si occupano della delinquenza – indagata in molte grandi città (da Chicago a Washing-
2 Ad essa si deve l’elaborazione del noto modello di distribuzione spaziale della popolazione urbana per fasce concentriche a partire dal nucleo centrale del Central Business District.
Giovanna Bellencin Meneghel
ton, a Londra…) o in piccole aree urbane, ma anche a scala nazionale (l’India, ad esempio) – o della prostituzione, della droga, di altre questioni sociali. E poi affrontano il problema della povertà, su cui la produzione è molto consistente: basti, qui, ricordare Geography of the American Poverty, lavoro sistematico sulla sua storia, i suoi significati, i suoi aspetti caratteristici, nelle campagne quanto negli slums e nei ghetti, scritto a più mani – tra cui quella di Peet – ed apparso nel 1979 sulla rivista Antipode. Ma nello studio dei gruppi e dei problemi sociali trovano spazio anche questioni come l’invecchiamento della popolazione e la condizione femminile» (p. 32).
«I Paesi anglosassoni producono dunque molti studi sulle aree urbane, con le loro dinamiche e i loro squilibri. Talvolta essi si concentrano sui fenomeni di suburbanizzazione, ma più spesso si occupano delle aree centrali e della loro divisione socio-spaziale; molti, come ci si poteva attendere, sono i lavori sui ghetti, caratterizzati da forti fenomeni di deprivazione, e sulle parti vecchie delle città, ancora alla fine degli anni Sessanta chiaramente distinguibili in quartieri etnici (così quello irlandese, o quello italiano, o quello inglese, ecc.) e ora in alcuni casi totalmente trasformati e abitati da persone agiate (gentrification)» (p. 33). Quest’ultimo processo di sostituzione dei residenti originari non abbienti e poveri con nuovi, facoltosi, ha a sua volta portato ad analizzare il problema della segregazione urbana e dell’isolamento abitativo non solo dei gruppi sociali più deboli, ma anche di quelli più ricchi (gated communities).
Le problematiche connesse alle diseguaglianze hanno tra gli anni Sessanta e Settanta spostato l’interesse della geografia sociale (incentrato nel periodo postbellico sullo sviluppo capitalistico e sui conflitti sociali della città) verso i temi cari alla geografia radicale (Jones e Eyles, 1977)3 . «Una geografia sociale ‘radicale’ ha in effetti uno sviluppo significativo in area angloamericana, accanto agli approcci alle differenziazioni socio-spaziali cosiddetti ‘liberali’: l’ecologia urbana e quello quantitativo, cui ribatte una geografia behaviorista interessata agli aspetti percettivi. La geografia sociale radicale sostiene la necessità di spostare l’attenzione dalle strutture astratte ai problemi sociali
3 Ma in quegli anni si impone anche la c.d. geografia quantitativa, che si ritiene rivoluzionaria nell’approccio e nel metodo tanto da esser definita la ‘New Geography’. Essa vuol essere «una interpretazione razionale della realtà, che si esplica attraverso l’elaborazione di modelli, ossia rappresentazioni semplificate della realtà, e dove ampio spazio hanno i procedimenti matematici e statistici» (p. 30, nota 8). La reazione a questa corrente di pensiero apre successivamente la strada allo sviluppo della geografia umanistica che, nell’ambito del cosiddetto cultural turn (svolta culturale), dà importanza all’esperienza soggettiva e afferma che gli spazi di vita quotidiani sono frutto dell’esperienza personale degli individui. Tale approccio avvia all’elaborazione delle mental maps e agli studi geografici di percezione ambientale, entro i quali si evidenziano concetti come quello di ‘topofilia’ (Yi-Fu Tuan, 1974), con il rischio di «giungere – come condizione estrema –al trionfo della geografia individuale» (ib.), ossia riflettente esclusivamente la visione del mondo del singolo soggetto.
La geografia sociale. Un breve profilo 37
(mortalità infantile, povertà, fame, ecc.), alle differenziazioni socio-spaziali (ad es. la segregazione), agli squilibri. Essa, in buona sostanza, legge le ineguaglianze tra gli individui come frutto delle varie posizioni sociali e le diversità regionali nel mondo come espressione delle contraddizioni del sistema capitalistico, dei suoi modi di produzione. Per questo motivo, lo studio delle differenze socio-spaziali e delle sue cause non deve avere il suo focus sulla psicologia delle scelte e dei comportamenti individuali (oltre tutto, questa capacità di scelta è in mano a pochi), ma sul ruolo dei fattori economici della produzione e della distribuzione e sui gruppi detentori di questo potere. Sul piano urbano, ad esempio, ciò significherà vedere come la speculazione edilizia abbia trasformato la composizione sociale dei quartieri ed osservare quale margine di scelta abbia lasciato alle decisioni individuali» (p. 31).
«La posizione dei geografi radicali verso la geografia sociale di ispirazione liberale è molto critica: nei loro lavori si ravviserebbe […] una sorta di ‘feticismo dello spazio’, la tendenza a considerare le strutture spaziali come indipendenti rispetto ai processi sociali, che pure li hanno creati, e a non dare alcuna importanza al contesto storico in cui hanno visto la luce, dimenticando che spazio e società sono in interdipendenza dialettica (come evidenzia Peet), che non esiste una società a-spaziale e che lo stesso spazio è sociale. Dunque, una geografia, quella radicale, che è certamente sociale per le tematiche e le questioni affrontate, ma anche, nel suo essere scienza sociale critica, partecipe dei problemi sociali del territorio, profondamente diversa da altri approcci che non connotano di significato politico-ideologico il loro lavoro» (pp. 31-32).
Circa gli orientamenti della geografia sociale angloamericana contemporanea, essa mantiene la varietà di vedute, di approcci e di temi (l’alcolismo, l’ineguale accesso ai servizi, la geografia di genere e la queer theory, il problema dell’integrazione/segregazione etnica, la questione della qualità della vita, ecc.), insomma «la ricchezza quanti-qualitativa» (p. 71) che la connota sin dagli albori.
5. La geografia sociaLe in itaLia
La storia della geografia sociale in Italia è recente. Quando, in occasione del XIX Congresso Geografico Internazionale di Londra del 1964, si fece il punto sulla ricerca geografica in Italia, di questo indirizzo non ci fu menzione (Meneghel, 1987). Per la sostanziale mancanza da allora di un dibattito critico sull’argomento, di una impostazione sistematica con la correlata frammentarietà delle proposte, e per l’assenza di una scuola vera e propria, con un polo universitario di riferimento dedito formalmente alla ricerca geografico-sociale, come avviene nell’area germanica, o alimentato da una rete di università, come in Francia, in Italia «non si è raggiunta una posizione unanime su cosa sia la geografia sociale» (p. 93). Va tuttavia osservato che anche da noi è venuta ma-
Giovanna Bellencin Meneghel
turando una sensibilità profonda verso gli aspetti sociali così che, guardando ai titoli della letteratura geografica nazionale, è costante e rilevante la presenza di ricerche dedicate a problematiche socio-geografiche: in breve, molto di frequente si fa geografia sociale senza preoccuparsi di etichettarla come tale (Ivi, pp. 100-101).
Non sono mancate, naturalmente, anche nel nostro paese figure e opere pioniere. Possiamo considerare precursori Eliseo Bonetti, che già nel 1942 aveva pubblicato I postulati della geografia sociale e anche negli anni Settanta si era occupato più volte di tematiche socio-geografiche, come pure Alberto Mori che nel 1958 «riflette sul fatto che la geografia sociale, sebbene all’estero abbia già conosciuto un tangibile sviluppo, sia nel nostro Paese ancora scarsamente praticata; [e ravvisa] nella geografia sociale anche una valenza applicativa, sostenendo che i suoi studi potrebbero rivestire “grande utilità, in vista delle trasformazioni in corso e delle riforme da apportare al quadro sociale attuale del nostro Paese” [Mori, 1958, p. 165]» (p. 88).
Dopo un lungo dibattito incentrato ancora sul concetto di genere di vita (Toschi, 1958), uno stimolo decisivo alla geografia italiana nel suo complesso verrà da Lucio Gambi, che nel 1966 propone la nozione di “struttura sociale” come insieme di istituzioni e di classi che meglio si conviene ad una società industriale urbana. Una delle prime opere sulla disciplina nel nostro Paese con il titolo Appunti di geografia sociale fu pubblicata nel 1975 da Domenico Novembre che anche in un suo successivo lavoro sul Mezzogiorno esamina aspetti sociali e dinamiche spaziali, individuando gli elementi che definiscono la vita sociale.
Nel peculiare contesto degli anni Settanta, si assiste all’avvio di una ulteriore fase di dibattito significativa per il rinnovamento e l’assunzione di nuovi obiettivi delle riflessioni in geografia. Uno stimolo a questo processo venne, nonostante la sua breve esistenza (1976-80), anche dal movimento “Geografia democratica”, attorno al quale si raccoglieva non poca parte delle giovani leve della geografia accademica: qui interessa in particolare sottolineare uno dei suoi apporti più peculiari, ossia l’accento posto, nel convegno fiorentino organizzato ad hoc nel 1979, sull’importanza dell’inchiesta diretta sul terreno nella pratica geografica, uno dei cardini metodologici della geografia sociale (cfr. anche Vecchio, in Loda, 2008, p. 106). L’evento motore di quegli anni fu con pochi dubbi il colloquio organizzato a Varese nel 1980 da Giacomo Corna Pellegrini su “La ricerca geografia in Italia”, di cui faceva il punto dando conto di fermenti innovativi e di tendenze conservative (Corna Pellegrini, 1987). Negli stessi anni, inoltre, venivano messi in luce i limiti della new geography e delle tecniche di analisi quantitative. Una posizione, questa, anticipata nel quadro di uno studio sul fenomeno urbano condotto dai geografi dell’Università di Torino, il cui caposcuola Giuseppe Dematteis aveva prodotto riflessioni critiche e acute sui principi generali della medesima new geography, conducendo verso una dimensione più riflessiva, attribuendo alla conoscenza geografica la capa-
cità di spiegare le strette interrelazioni tra dinamiche e processi sociali e spazio (Lombardi, 2006, p. 106).
Nel medesimo periodo, un’altra «figura significativa è quella di Giorgio Valussi, cui si deve l’importante iniziativa, insieme a Giovanna Meneghel, della traduzione del testo Sozialgeographie della Scuola di Monaco (1980), che permetterà di conoscerne i principi e i metodi anche nel nostro Paese» (p. 90). La stessa Meneghel (1987) si adopera fortemente perché la geografia sociale ottenga visibilità, fino ad ottenere l’istituzione della prima cattedra presso l’Università di Udine nel 19944 e avvia ricerche nelle quali coinvolge a più riprese i geografi a lei più vicini, tra le quali si segnala l’Atlante socio-demografico della città di Udine (1997). Interessante appare anche il pensiero di Guglielmo Scaramellini (1987) «non solo per lo spazio che dà alla geografia sociale nella sua declinazione tedesca, permettendo al lettore di farsi un’idea dei suoi principi fondamentali, ma anche per la lettura delle affinità» (p. 96) con la geografia umana francese e la cultural geography. Avvicinandosi all’attualità, vanno constatati alcuni fatti. Tra questi, la circostanza che l’insegnamento della geografia sociale sia impartito nelle università italiane ha generato anche l’esigenza di produrre manuali specificatamente dedicati alla disciplina: così hanno visto la luce di recente i testi di Daniela Lombardi (2006), di Mirella Loda (2008) e di Paolo Pegorer (2008). E, aspetto rilevante, sono venute emergendo alcune sedi quali capofila di ricerche geo-sociali tematicamente e territorialmente significative (come Torino, Padova e Napoli). Non mancano specifiche strutture, quale, presso l’Università di Firenze, il Laboratorio di analisi e documentazione socio territoriale sociale diretto da Mirella Loda, che scrive in questo stesso volume. Inoltre, si sono moltiplicati negli anni vicini, accanto a progetti di ricerca polarizzati intorno ad alcune università (quelle sopra citate ed alcune altre), importanti iniziative scientifiche (come la collana Territorio e società coordinata da B. Vecchio per l’editore Pacini, Pisa, che ha l’obiettivo di dare conto dell’apporto della geografia alle indagini più avanzate nel campo degli studi sociali, v. Loda e Hinz, 2011; o i numeri monografici di Geotema su Luoghi e identità di genere, 2007, e del Bollettino della Società Geografica Italiana su Lo spazio della differenza, 2011) e confronti a livello internazionale (come, dal 2008, gli incontri italo-francesi: cfr. Dumont, 2009 e 2011 e Cerreti et al., 2012), che coagulano in modo ormai abbastanza netto ed evidente una importante rete costituita per buona parte da geografe di diversa matrice territoriale.
4 L’insegnamento era però già impartito a Udine da alcuni anni. Corsi di Geografia sociale sono stati istituiti anche presso altre università (Firenze, Padova, Verona, Genova ecc.).
6. aspetti concettuaLi
La geografia sociale si connota, come si è sopra accennato, per una grande diversificazione di posizioni. Alla base di questa varietà di interpretazioni sta certamente la difficoltà di definire la parola “sociale” e il concetto di “spazio”. Tanti lavori con l’etichetta “sociale” trattano prevalentemente – soprattutto in Italia – di classi emarginate e di aree depresse, tanto da dare l’impressione che si abbia a che fare con una geografia di critica sociale. Il campo di studio della geografia sociale è potenzialmente molto più ampio. Per esempio, la visione che ne emerge da Hamnett (Social geography. A Reader, 1996, p. 3) è quella di una disciplina che “is primarly concerned with the study of the geography of social structures, social activities and social groups across a wide range of human societies”. A suo avviso, ciò che è fondamentale «è individuare con chiarezza quale sia l’oggetto peculiare di studio della geografia sociale: tradizionalmente, essa “has focused on those areas of social life and activity which are concerned with social reproduction rather than economic production or politics and organized political activity” (ibidem). A suo giudizio, questa focalizzazione sulle strutture sociali, sulle attività, sui gruppi e sulle loro percezioni e comportamenti va intesa in senso ampio, perché egli ritiene che non avrebbe senso se la geografia sociale si limitasse a studiare solo gli aspetti specifici dell’attività sociale. Quella delineata da Hamnett è perciò una geografia delle maglie larghe, che in quest’ottica arriva ad occuparsi delle divisioni sociali come la classe, il genere, la razza, la famiglia…, a prendere in esame le ‘aree chiave della riproduzione sociale’, dallo housing all’educazione, dal crimine ai festival, ecc. Dunque, se anche per lo studioso è importante che la geografia sociale continui ad occuparsi di problematiche ormai tradizionali, come quelle delle ineguaglianze sociali, della diversa distribuzione delle risorse o dell’accessibilità, tuttavia non può limitarsi solo ad esse. Dalle parole di Hamnett emerge così una geografia sociale di ampio spettro […].
Diversi altri lavori, non necessariamente etichettati come geografia sociale, si sono occupati delle relazioni tra spazio e società. Sono invece dichiaratamente Social Geographies quelle che delineano Valentine (2001) e Rachel Pain et al. (2001) [nonché Ruth Panelli, 2004], i cui titoli esprimono, nel loro declinarsi al plurale, la complessità e la varietà che gli autori le attribuiscono» (pp. 71-73).
La Pain sottolinea l’esistenza nella geografia sociale contemporanea di più approcci e posizioni (positivisti, umanistici, postmoderni). «L’approccio positivista, oggi criticato ma molto diffuso fino ad anni recenti, ritiene la geografia sociale una scienza che deve fornire un quadro generale ed individuare le leggi che regolano le interazioni società-spazio, elaborando modelli geografici dei fenomeni: da qui l’uso frequente di metodi quantitativi; per lo più gli studiosi che si riconoscono in questo approccio fanno proprio l’assunto di una geografia obiettiva, neutrale, e di sé stessi, quello di osservatori value-free. Gli approcci
umanistici, al contrario, rifiutano quest’ultima possibilità, sostenendo che anche le geografie sono frutto di percezioni, opinioni e feelings, dunque anch’esse sono soggettive e coinvolte; la loro è una geografia sociale che conferisce ovviamente un ruolo centrale all’azione umana, così come alle diversità e all’esperienza umana giornaliera. Quelli radicali danno invece alle relazioni di potere e alle strutture sociali e politiche un ruolo centrale nella geografia sociale e quest’ultima riflette il loro impegno morale e politico, chiaramente esplicitato; società e spazio sono analizzate nel quadro di una teoria sociale che ha subito l’influenza del marxismo, del femminismo e dell’antirazzismo. Gli approcci postmoderni, infine, sono naturalmente molto vari, pur nella generale ridiscussione delle forme tradizionali di spiegazione e nel rifiuto delle ‘grandi teorie’ e di termini come certezza e verità; spesso vi si collegano gli studi postcoloniali. Tuttavia, secondo la Pain, il panorama non è chiaro: per qualcuno il postmodernismo è all’insegna del relativismo, per altri esso ha aperto alla geografia spazi ancora inesplorati. In ogni caso, la studiosa avverte che, nella realtà fattuale, la maggior parte degli studiosi piuttosto che identificarsi con uno solo di questi orientamenti, ne opera una combinazione» (pp. 73-74).
«Anche Ruth Panelli sceglie di declinare al plurale il titolo del suo libro (Social Geographies, 2004). Fin dalle prime pagine l’autrice attribuisce grande significato alla geografia sociale e alla sua capacità di comprendere il mondo e ritiene anch’ella che uno dei suoi compiti fondamentali sia quello di individuare e sottoporre ad esame critico le differenze sociali (classi, genere, etnicità e sessualità) e le relazioni di potere ad esse connesse. Dunque, la geografia sociale ha forte valenza interpretativa: “it gives us the chance to ask questions, construct explanation – and discover yet more questions – about where and how social differences and interaction occur” (p. 3) […]. Dunque, è una geografia che fa della differenza il suo punto focale e che è consapevole che la(e) differenza(e) si esplicano in modo ineguale nello spazio, grazie alla costruzione di luoghi specifici; e che è altrettanto consapevole che la conflittualità si sviluppa anche al loro interno […]. Secondo Panelli la geografia sociale è così variegata proprio perché variegati sono i modi con cui i geografi l’hanno intesa e praticata, e questo dipende anche dallo stesso contesto in cui essi lavorano e dalle motivazioni che li spingano (dunque, influenzandone la scelta degli argomenti da trattare, delle modalità di conduzione dello studio, di lettura e presentazione dei risultati, ecc.)» (pp. 74-76).
E comunque lo studio deve orientarsi verso l’azione sociale. L’azione sociale, che Panelli intende come gli atti, le pratiche e le strategie che la gente mette in atto, individualmente o collettivamente, per mantenere, modificare o “challenge the structure/s and/or operation/s of the places, settings and societies” in cui vivono (2004, p. 184), ha infatti un significato importante e vi si possono riconoscere i seguenti «elementi chiave: azioni, attori/agenti, scopo, contesti, ma, anche, spazialità, perché ogni azione sociale si esplica nello spazio» (pp. 109-110).
7. Lo spazio sociaLe
Il teatro delle azioni del gruppo umano è lo spazio sociale. Mentre lo spazio concepito della geografia classica è lo spazio assoluto, lo spazio sociale «è, piuttosto un’astrazione, frutto dei sistemi localizzati delle relazioni sociali, e a loro volta derivanti dalle funzioni elementari [v. supra] dell’esistenza. Anche Jones (1975) si sofferma sul concetto, sostenendo che lo spazio sociale sia una combinazione di spazio reale e percepito. In Francia lo spazio sociale diviene oggetto di attenzione con l’individuazione dello “spazio vissuto” da parte di Frémont [e di cui Isnard darà poi la migliore definizione]: “La société résulte des rapports qui s’établissent entre les hommes engagés dans la production et la reproductions de l’éspace” (cit. in Frémont et al., 1984, p. 108). Tale concetto viene riconfermato dallo studioso alcuni anni più tardi: “ogni società concepisce il suo spazio in funzione del proprio sistema di pensiero e d’azione, e quello spazio è, di fatto, la proiezione, o meglio, l’estensione della società stessa” (Isnard, 1984, p. 610)» (p. 77).
In particolare, è opinione di Frémont (1984, p. 181) che “i rapporti sociali si manifestino attraverso certe ripartizioni spaziali: all’opposto, le strutture dello spazio umanizzato non si possono cogliere senza fare riferimento all’insieme delle relazioni sociali”. Pertanto, lo spazio sociale è per Frémont «l’oggetto di studio comune di sociologia e geografia. Tuttavia, egli sottolinea che spesso il rapporto tra le due discipline è pervaso di ambiguità: la sociologia, infatti, puntando la propria attenzione (ovviamente) sulle relazioni sociali, ha “dello spazio una visione convenzionale, standardizzata, trasponibile di luogo in luogo” (ibidem); i geografi, d’altra parte, se danno ai luoghi un significato fondamentale, manifestano però difficoltà nello studiare i gruppi, le strutture, le relazioni, restando spesso ad un livello di superficie» (p. 78), perché ogni cambiamento dei luoghi è specchio dei cambiamenti sociali.
Quanto a David Harvey, che già nel 1973 aveva affrontato la questione della “filosofia dello spazio sociale”, osservando che si tratta di uno spazio non semplice da configurare, dal momento che ha caratteristiche diverse da quello fisico, afferma (1978) che ciascuna forma di attività sociale definisce il proprio spazio e che manca ogni evidenza che tali spazi siano euclidei o solo che siano lontanamente simili l’uno all’altro. «Ciascun individuo si costruisce una propria rete di relazioni spaziali che sarebbe praticamente impossibile analizzare; tuttavia, secondo lo studioso, tale impasse può essere superato dal fatto che “gruppi di persone sembrano identificare immagini simili rispetto allo spazio che li circonda, e sembrano pure sviluppare modi simili di giudicarne il significato e comportarsi nello spazio” (p. 89)» (p. 81).
La validità dello schizzo di Ruppert viene confermata e rinnovata proprio grazie all’integrazione «con le suggestioni di Harvey, secondo il quale le modalità di costruzione degli schemi mentali sono il risultato complesso di influenze
culturali, di apprendimenti individuali e di gruppo, nei quali anche l’istruzione gioca un ruolo importante, e che possono essere di tipo meccanico o risultare da un processo di elaborazione più complesso; in generale, comunque, lo schema spaziale individuale è il frutto delle informazioni che ciascuno rileva dalla propria esperienza, che permette l’aumento e/o la modificazione della nostra carta mentale. Secondo lo studioso, la natura di questa esperienza può essere fondamentale, per cui, ad esempio, un ricordo spiacevole ci terrà lontani da una particolare zona della città [topofobia]. Dunque, lo spazio sociale oltre a essere diverso da un individuo all’altro, in uno stesso individuo può variare nel tempo» (p. 81).
Resta il fatto che quello di ‘spazio sociale’ è un concetto complesso, perché contempla la spazialità (lontananza, distanza reale, temporale, percepita), ma pure le varie forme di implicazione sociale (pubblica, di gruppo, personale).
8. aspetti metodoLogici
«Pur nella consapevolezza che i diversi approcci alla geografia sociale orientano la scelta di fonti e strumenti, cercheremo qui di dare una carrellata generale di quelli maggiormente utilizzati.
Strumento tradizionale di indagine sono gli indicatori, la cui scelta è andata affinandosi nel tempo. Naturalmente, essi devono essere individuati con particolare attenzione, perché risultino significativi. Dunque, prima di scegliere un indicatore bisognerebbe domandarsi: per chi? A che cosa?, chiedersi, cioè, quale è il motivo per cui esso viene proposto e che cosa vuole monitorare.
A titolo esemplificativo, riportiamo una scelta, da noi operata nell’ottica della geografia sociale, tra quelli individuati da Zajczyk (1998).
Aree tematiche Indicatori statistici
Popolazione
– Saldo naturale, migratorio e anagrafico totale
– Tasso di natalità
– Tasso di fecondità (o fertilità)
– Speranza dì vita alla nascita (totale e per sesso)
– Indice di dipendenza (o di carico sociale)
– Indice di vecchiaia
– Densità demografica
Assistenza sanitaria e sociale
– Istituti di cura per 100.000 abitanti
– Ricoveri per 100.000 abitanti
– Medici per 100.000 abitanti
– Farmacie per 100.000 abitanti
Aree tematiche Indicatori statistici
Lavoro – Tasso di attività (per sesso e classi di età)
– Tasso di inattività (per sesso)
– Tasso di disoccupazione (per sesso e classi di età)
Salute – Morbililà per causa
– Tasso di mortalità
– Tasso di mortalità infantile
Istruzione e formazione
– Tasso di analfabetismo
– Tasso di scolarità (per livello scolastico)
– laureati per 100.000 abitanti
– Rapporto n. alunni/docenti
Criminalità – Delitti denunciati per 100.000 abitanti e per tipo di reato
Trasporti e mobilità
– Tasso di criminalità minorile e giovanile
– Fermate treni intercity (n.d.c.: ora Eurostar)
– Km di rete di trasporto urbane ed extraurb. per 100.000 abitanti
– Automobili circolanti per 100.000 abitanti
– Incidenti stradali per 100.000 abitanti
– Tempo medio e mezzo usato per spostamenti casa-lavoro/studio
Abitazioni – Percentuale di famiglie coabitanti
– Numero di sfratti sul totale popolazione residente
– Abitazioni non occupate sul totale della popolazione
– Indice di affollamento
– Mq di abitazione occupata per abitante
– Indicatori delle condizioni abitative
Disagio sociale – Tossicodipendenti in trattamento in servizi sanitari e strutture
– Persone ammesse nei servizi psichiatrici per gruppi di cause
– Numero di alcolisti in trattamento
– Tasso suicidi per 100.000 abitanti (generale, per sesso e classi d’età)
– Tasso di disagio scolastico (o di dispersione)
Tempo libero – Rappresentazioni teatrali per 100.000 abitanti
– Numero di sale cinem., di musei, ecc. per 100.000 abitanti
– Posti letto in albergo per 100.000 abitanti
– Palestre e impianti sportivi per 100.000 abitanti
Partecipazione pubblica – Percentuali di aventi diritto al voto che votano
– Associazioni artistiche, ricreative e culturali per 100.000 abitanti
– Organizzazioni di volontariato per 100.000 abitanti
Nell’elenco precedente, ad esempio, vi sono alcuni indicatori che meglio riflettono una situazione di benessere/malessere sociale e urbano, mostrando o meno il volto del disagio (es. percentuale di famiglie coabitanti o percentuale di sfratti). Ma sono indicatori tipici di disagio anche i tassi di mortalità infantile e la percentuale di minori abbandonati, i tassi di sovraffollamento e il numero di senzatetto, la quota di disoccupati, i tassi di tossicodipendenza e di alcolismo, gli indici di criminalità o di famiglie sotto la soglia di povertà, e così via.
Per definire la qualità della vita urbana, ancora a titolo d’esempio, si può scomporla in alcune macro-aree: per le condizioni abitative, si utilizzano di solito dati riguardanti la percentuale di case senza acqua potabile o servizi igienici interni, la luminosità e l’esposizione, o gli indici di affollamento (numero medio di abitanti per vano ); per l’abitazione, si valuta l’accesso ai servizi primari come le scuole, i negozi di alimentari, le farmacie e il trasporto pubblico, o la presenza di spazi verdi nelle vicinanze, ecc.; per la città nel suo complesso, si fa in genere riferimento ai livelli di inquinamento acustico ed atmosferico, al grado di congestione del traffico, alla presenza/assenza di aree pedonali, ecc., si esaminano aspetti come l’arredo urbano o la presenza/assenza di ‘luoghi di identificazione collettiva’; per monitorare le condizioni di vicinato si valutano elementi come il livello di segregazione etnica o sociale, indicatori di criminalità, reti di solidarietà, ecc.» (pp. 116-118).
Importanti sono naturalmente anche gli indicatori qualitativi, a partire da quelli di tipo paesaggistico, ma anche le fonti non ‘canoniche’, e tra esse «anche la letteratura, la pittura, la fotografia, il cinema, la canzone popolare e d’autore, possono essere utilizzati quali strumenti di lettura e interpretazione, non convenzionale, di quadri socio-territoriali, così come dei modi di vita di particolari gruppi o classi» (pp. 118-119).
Ogni analisi è frutto della scelta del taglio che il singolo studioso, nel costruire il percorso di ricerca, intende dare ai singoli aspetti, partendo da più punti di vista di osservazione. Secondo la Lombardi (2006, p. 120), infatti, il fascino della geografia sociale, la sua ricchezza, è proprio la sua poliedricità.
9. La contemporaneità e Le sfide per La geografia sociaLe
Va tenuto assolutamente presente «che il mondo attuale è segnato dal globalismo e contraddistinto da forti cambiamenti, che certamente hanno conseguenze sia a livello economico, che sociale, che di organizzazione territoriale. Si pensi, ad esempio, a quali trasformazioni sta conducendo l’evoluzione delle comunicazioni e degli scambi informativi, sia in termini di velocità che di pervasività (dai treni ad alta velocità ad internet): nel villaggio globale le distanze paiono annullarsi. Ciò comporta, dal punto di vista delle reti che formano lo spazio sociale, che alcuni confini siano divenuti talmente ampi da comprendere tutto il globo e che i
Giovanna Bellencin Meneghel
referenti di certe relazioni si siano a tal punto moltiplicati da rendere difficile una lettura a scala locale della realtà presa in esame. La velocità delle comunicazioni ha creato, da un punto di vista spaziale, dei “territori astratti che sfuggono alle vecchie territorialità” (Fiorani, 2000, cit. in Santini, 2004, p. 179). Allo stesso modo, non possiamo ignorare che anche le trasformazioni che a un’analisi superficiale sembrerebbero riguardare la sola sfera economica, rappresentano in realtà un fattore di cambiamento straordinario a più livelli: basti pensare agli effetti della delocalizzazione produttiva sul territorio e sulla comunità locale. Compito della geografia sociale è di comprenderne i tratti essenziali, osservandoli nei loro diversi aspetti. A una società che cambia, a nuovi bisogni che emergono, corrispondono necessariamente trasformazioni sul piano territoriale, più o meno visibili; da questo punto di vista, si comprende il perché dell’interesse che la disciplina mostra verso il paesaggio. Esso è infatti specchio delle società che lo hanno configurato, come la geografia sociale ha da lungo tempo evidenziato: ricordiamo che già la Scuola di Monaco aveva individuato nel paesaggio la possibilità di ‘leggere’ i mutamenti sociali (ed il primo riferimento, naturalmente, è al maggese sociale); poi, il gruppo di geografì francesi riunito intorno a Frémont ne fa uno dei principali indicatori sociali. Gli elementi del paesaggio, infatti, “témoignent d’attitudes, de décisions ou de contraintes, d’évolutions ou de résistances au changement, qui renseignent sur les sociétés et leurs transformations” (1984, p. 122). Da qui, l’importanza di studiarne i tratti» (p. 112).
Naturalmente i processi che hanno condotto e che sono stati indotti dalla globalizzazione configurano in termini nuovi anche gli spazi urbani e di nuova urbanizzazione (la ‘città diffusa’) e i problemi sociali ad essi correlati; e di tali riconfigurazioni la disciplina deve farsi carico, così come dell’evoluzione legata alla maturazione di nuove visioni socio-culturali (l’avanzare rapido, per esempio, dell’empowerment delle differenze – di ogni tipo, a partire da quelle di sesso e genere), ricche peraltro di conseguenze in campo politico (il forte accento posto sulla democrazia partecipativa) e, di conseguenza, anche spaziale, con una rinnovata percezione, per esempio, dei significati e ruoli dello spazio (pubblico/ privato). Così come deve dare conto delle nuove riconfigurazioni sociali, emerse sotto la spinta della crisi economica esplosa nel 2008, per la quale il fenomeno delle ‘nuove povertà’ ha acquisito dimensioni inimmaginabili nel mondo di antica industrializzazione, svuotando quelle classi medie la cui espansione e solidità era tradizionalmente considerata indicatore del benessere economico di uno Stato, e mettendo in tal modo in discussione il senso di poter ancora utilizzare un concetto come quello di classe. Infatti, semplificando, si va configurando a livello mondiale una polarizzazione tra una élite assolutamente minoritaria di ricchi, e immensamente ricchi, e il resto della popolazione in cui gli incapienti sono in costante incremento, così che la distanza in termini di capacità di reddito e di spesa degli antichi ceti medi nei loro confronti si sta rapidamente e progressivamente erodendo.
Molti altri sono i problemi emersi in questi ultimi anni (ad esempio, anche i fenomeni legati alla delocalizzazione/deindustrializzazione, cui si è già fatto cenno in precedenza, con la conseguente destrutturazione degli assetti socio-territoriali nei paesi avanzati; le nuove espressioni della marginalità connesse all’immigrazione e alla carenza o al fallimento delle politiche di inclusione sociale, ecc.), e alcuni di essi verranno affrontati nei saggi presenti in questa pubblicazione.
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Gisella Cortesi*
1. introduzione
È ormai un quarto di secolo che dal connubio fra studi di genere1 e geografia è nato e si è sviluppato un fecondo filone di ricerca, ampiamente riconosciuto come uno dei campi di studio più dinamici e produttivi della geografia contemporanea, sia dal punto di vista dell’elaborazione teorica che da quello degli studi empirici. Il dibattito su quale approccio critico teorico affiancare all’approccio di genere è stato vivace: verso la fine degli anni ’80, l’impostazione teorica femminista e quella marxista hanno trovato nuove argomentazioni interpretative attorno al concetto di “patriarcato”; negli anni ’90, negli studi geografici si sono riflessi
* Università degli Studi di Pisa.
1 Gli studi di genere (gender studies) applicano un approccio, multidisciplinare e interdisciplinare, allo studio dei significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere; non costituiscono dunque un campo del sapere a sé stante, bensì una modalità di interpretazione dei diversi aspetti della vita umana, della produzione delle identità, del rapporto fra individuo e società, individuo e cultura e, per quanto riguarda la geografia, individuo e spazio. L’attenzione agli aspetti di genere da essi sostenuta è applicabile infatti a tutte le branche delle scienze umane. Gli studi di genere si sono sviluppati nel mondo anglosassone negli anni ’70 e ’80 come conseguenza dell’affermazione del pensiero femminista, hanno trovato terreno fertile in Europa nel poststrutturalismo e nel decostruzionismo di Michel Foucault e Jacques Derrida. Essi sono pertanto strettamente legati ai movimenti di emancipazione femminile, omosessuale e delle minoranze razziali, etniche e linguistiche.
Gisella Cortesi
teoria femminista e queer theory attraverso una particolare attenzione alla funzione di rappresentazione dell’identità sessuale e del corpo; il dialogo fra geografia femminista, post-modernismo, post-strutturalismo e post-colonialismo che ha caratterizzato gli ultimi anni del confronto epistemologico nella geografia ha dato ugualmente copiosi risultati. Questa produttiva possibilità di dialogo teorica e metodologica dimostra che nella geografia di genere si sta destabilizzando la centralità dell’ortodossia femminista e si sta sviluppando una crescente interazione con una più vasta gamma di impostazioni teoriche sociali e, in particolare, culturali, riconoscendo che per affrontare i problemi complessi e multiformi della società attuale non si possa attingere ad una singola prospettiva, ma si debba fare ricorso a diversi indirizzi teorico-metodologici e, in molti casi, alla multidisciplinarità.
I temi affrontati dalla geografia di genere ed elaborati in questi anni dalla Commissione Gender and Geography dell’Unione Geografica Internazionale sono stati diversi (Cortesi, 2009), come diversi gli approcci adottati: tuttavia, in tutti gli studi e i programmi viene attribuita importanza centrale al genere2 come categoria analitica e interpretativa.
Sotto la spinta del femminismo e della crescente importanza (presenza attiva) delle donne nelle società avanzate contemporanee, gli studi di genere hanno inizialmente focalizzato la loro attenzione sul ruolo sociale delle donne e sulla loro conseguente azione nello spazio (in confronto con quella degli uomini), stigmatizzando la persistenza di stereotipi tradizionali – come quelli derivanti dal patriarcato – che collocano le donne in una posizione subordinata/subalterna; successivamente hanno messo l’accento sulla pluralità delle condizioni e delle esperienze, in particolare se il confronto viene fatto fra paesi non tanto economicamente quanto culturalmente distanti, e sull’esigenza di indagare le differenze fra le donne e la diversità del mondo in cui esse vivono. È per questo motivo che recentemente si è manifestata la tendenza a prendere in considerazione identità molteplici, in termini di etnicità, nazionalità, età, orientamento sessuale, abilità, e ad analizzarne le combinazioni possibili e le specifiche relazioni spaziali.
2 Al termine “genere” viene riconosciuta la capacità di esprimere i vari modi in cui la cultura marca le differenze fra gli esseri umani, in particolare fra uomini e donne: i loro caratteri, il ruolo che svolgono nella società, quello che essi rappresentano. Il genere è un prodotto della cultura umana e il frutto di un persistente rinforzo sociale e culturale delle identità. Si distingue, in tale modo, il termine “genere”, riferito agli attributi – variabili nel tempo e nello spazio – assegnati agli individui dalla cultura, dal termine “sesso”, riferito all’insieme dei caratteri, fisici e anatomici, assegnati dalla biologia (Domosh e Seager, 2001, p. XXII). Sesso e genere non costituiscono due dimensioni contrapposte ma interdipendenti, in quanto sui caratteri biologici si innesca il processo di produzione delle identità di genere.
2. La connotazione di genere degLi spazi
Il contributo dei gender studies in geografia è riassumibile nell’invito a riflettere sulle relazioni fra i significati attribuiti ai luoghi e agli spazi e la formazione e il rafforzamento delle identità, in particolare di quella di genere. Il concetto di identità di genere è ancora molto discusso: normalmente viene utilizzato per descrivere il genere in cui una persona si identifica (cioè se si percepisce uomo, donna o qualcosa di diverso da queste due polarità). Si ritiene che nella formazione di tale identità intervengano molti fattori: interviene sicuramente il carattere “biologico”, che stabilisce, sulla base della presenza di attributi corporei, ormonali e cromosomici, l’appartenenza ad un sesso o all’altro (maschile o femminile); interviene, in maniera più decisiva, l’aspetto “psicologico”, in quanto fa appello all’interiorità individuale e al sentirsi uomo o donna, talvolta anche in contrasto con i caratteri sessuali; interviene la dimensione “sociale” costruita sulla base delle informazioni e delle rappresentazioni relative al genere trasmesse dalla famiglia, dai mass media, dalle istituzioni.
I modelli di femminilità o di mascolinità proposti dalla società e le loro rappresentazioni (Dell’Agnese, 2009) influenzano la formazione psicologica dell’individuo, in quanto l’adesione o meno a tali modelli può comportare o il rafforzamento della personalità o il disorientamento psicologico e il senso di inadeguatezza. Tuttavia la costruzione delle identità di genere risulta determinante anche per i gruppi sociali, in quanto su tali differenze essi edificano la propria organizzazione sociale, le relazioni di potere, la suddivisione dei compiti, l’assegnazione dei ruoli. Nel ruolo di genere intervengono l’insieme di elementi esteriori, come lo stile (abbigliamento, acconciatura), i comportamenti, gli atteggiamenti, che suggeriscono la collocazione e l’identità di genere, seguendo spesso gli stereotipi della rappresentazione della società; ma intervengono anche dinamiche che tendono a escludere una parte del gruppo dalla gestione del potere relegandolo in un ruolo subordinato e a cristallizzare le relazioni asimmetriche fra gli individui per perpetuarne i rapporti di forza.
I ruoli che vengono associati a un genere o all’altro variano sensibilmente a seconda della società, del periodo storico e del contesto culturale: in alcuni casi le categorie di genere vengono fatte rigidamente coincidere con le categorie sessuali (maschio/femmina) comportando discriminazioni per coloro che non si comportano o non si atteggiano aderendo esattamente a tale binomio.
Si è affermato in precedenza che le identità e i ruoli si rafforzano – e talvolta si costruiscono – sulla base delle relazioni spaziali, in particolare se gli spazi hanno una precisa connotazione di genere. Quelli che Daphne Spain (1992) definisce gendered spaces sono infatti quegli spazi la cui fruizione è destinata particolarmente o esclusivamente a un genere, escludendone altri. Questo avviene in ambito religioso, in quanto conventi e monasteri sono maschili o femminili; nel settore educativo, laddove esistono collegi per ragazzi e per ragazze o scuole con classi
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separate; nel campo lavorativo con la creazione di mestieri o di attività ritenuti maschili o femminili o da gay come l’operaio metalmeccanico, la sartina, lo stilista di moda; nell’ambito sociale se ci soffermiamo sul fatto che in alcune culture i villaggi tribali hanno aree destinate alle donne ed aree attribuite agli uomini, così come nelle culture occidentali pub e club hanno una connotazione maschile e le tea-rooms una destinazione femminile.
La separazione degli spazi, corrispondendo a una dinamica di potere, può assumere le caratteristiche e i significati della segregazione spaziale, il cui scopo è anche quello del delimitare e controllare una determinata area relegando in essa una “differenza” (etnica, linguistica, razziale, di classe, di genere) (Sibley, 1995). Tuttavia, come in ogni processo di segregazione, bisogna distinguere la forza coercitiva esterna dalla volontà di concentrarsi o “auto-segregarsi” in una determinata area (Izis e Macchia, 2011) per i vantaggi psicologici, sociali e di prossimità che questo comporta.
Queste dinamiche sono state analizzate in profondità relativamente a fenomeni quali la ghettizzazione o la segregazione razziale ed etnica, che si è manifestata in numerosi ambienti urbani oggetto di flussi immigratori. Le comunità degli immigrati, accomunate dalla cultura del paese di provenienza, si dirigono solitamente in particolari aree del tessuto urbano, nelle quali si manifesta di conseguenza un processo di concentrazione di persone assimilabili per caratterizzazione etnica, culturale e sociale (enclaves). Allo stesso modo si è acceso un grande interesse per lo studio degli avvicendamenti residenziali che caratterizzano i vari segmenti della città, i quali, oltre ad avere una chiara connotazione di classe, si trovano a rappresentare anche una nuova identità sociale.
Fra i risultati di tali avvicendamenti maggiormente dibattuti e analizzati nella letteratura geografica relativa alla città vi è quello della “riscoperta” del centro delle città da parte della classe medio-alta, noto con il termine di gentrification. È comunemente riconosciuto che la tendenza a ripopolare i quartieri centrali delle città – prima abbandonati perché degradati, rumorosi e mal tenuti – è tipico di una popolazione colta, benestante, la cui identità sociale è basata su cospicui consumi, che apprezza il valore storico degli edifici, l’accessibilità del quartiere, la vivacità della vita notturna. Si tratta per lo più di persone singole o di coppie giovani, ricche, attive, vivaci. Nello studio sulla caratterizzazione dei quartieri residenziali di Edinburgo, Liz Bondi (1998) sottolinea, però, il fatto che molti gentrifiers sono donne o madri singole, che hanno scelto di risiedere in città per avere un migliore accesso al lavoro e/o ai servizi per la cura dei figli. Sorprendentemente questo fatto comporta una sorta di nuova connotazione femminile di alcuni quartieri centrali per la presenza di donne, bambini e domestiche negli spazi pubblici. La riscoperta e il ripopolamento delle are centrali urbane non hanno solo una dimensione residenziale, ma anche una valenza ludica. Si assiste infatti al riaccendersi della vita notturna e alla creazione di spazi sociali a forte connotazione di genere. L’associazione fra gentrification e quartiere gay è frequente, così
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come appare consolidato considerare gay e lesbiche gli attori chiave nel processo di rinnovamento residenziale e commerciale dei luoghi centrali delle città nelle loro qualità di investitori, imprenditori, designers, architetti (Binnie, 1995).
Una connotazione di genere degli spazi vincola a comportamenti e atteggiamenti codificati, che di fatto escludono chi non risulta adeguato. L’identità di genere, costruita sulla caratterizzazione sessuale e sui comportamenti e i ruoli sociali, almeno in una società bipolare, è anche il tratto più macroscopico che gli individui esprimono: chi non risulta consono o non si comporta in conformità con tali modelli viene censurato o addirittura escluso dagli spazi “genderizzati” (Cortesi, Cristaldi, Droogleever Fortuijn, 2004). Ciò avviene, in particolare, negli spazi pubblici su cui viene esercitato un maggiore controllo sociale, mentre si attribuisce agli spazi privati il diritto di manifestare liberamente i propri desideri e le proprie inclinazioni.
3. spazi puBBLici e Luoghi privati
Nell’ottica di genere la definizione di spazio “pubblico” e spazio “privato”3 si arricchisce di nuove interpretazioni. Nella contrapposizione concettuale e fisica dei due tipi di spazio si riflette la distinzione dei ruoli e delle conseguenti aree di competenza: la sfera “produttiva”, attribuita agli uomini, diventa la connotazione fondamentale dello spazio pubblico (per lo meno in una società capitalistica dei consumi); la sfera “riproduttiva” delle donne coincide con lo spazio privato che accoglie e protegge il corpo della donna. In tale distinzione fra spazio pubblico e spazio privato è insita una chiara asimmetria, in quanto lo spazio pubblico – e di conseguenza la sua appropriazione – riveste un’importanza strategica nelle relazioni sociali, costituendo il teatro delle azioni e delle decisioni del gruppo umano insediato in un territorio
Come è stato sottolineato altrove (Cortesi, 2007), il modello della separazione degli spazi, che ha avuto un buon successo in letteratura, fa riferimento ad una categoria ritenuta erroneamente generale, mentre ad un esame più approfondito risulta applicabile solo a determinati tipi di società. Esempi della separazione degli spazi di competenza e di pertinenza maschile e femminile si possono trovare nel villaggio africano o sud-asiatico come nella città europea o americana (Momsen e Townsend, 1987). Tuttavia, vi sono esempi nel tempo e nello spazio di società la cui organizzazione spaziale non è esattamente riconducibile a tali categorie, mentre si possono manifestare profonde divisioni sociali basate su altre tipologie.
3 Per le diverse valenze dei termini pubblico/privato secondo l’interpretazione di genere si veda il saggio di R. Sarti (1995, pp. 19-22).
Gisella Cortesi
Infatti, se si rivolge lo sguardo alle società avanzate e alla loro evoluzione, nella fase pre-moderna non vi sono delimitazioni nette di luoghi di produzione/ riproduzione pur in presenza di distinzioni di ruoli: in un’economia agricola o pre-industriale la divisione del lavoro all’interno della famiglia implica la collaborazione e la partecipazione delle donne e dei bambini in determinate fasi produttive, quali la raccolta dei prodotti o lavorazioni manuali specifiche.
La separazione del mondo maschile del lavoro e della produzione da quello femminile della famiglia e della riproduzione è stato essenziale per l’ideologia del sistema capitalistico, che richiedeva un forte impegno lavorativo in un mercato del lavoro sempre più competitivo e, nello stesso tempo, qualcuno che si prendesse cura della famiglia, preoccupandosi dei bisogni materiali (e psicologici) dei lavoratori e della cura dei figli. I processi di industrializzazione e di urbanizzazione che hanno interessato per primi l’Europa occidentale e l’America settentrionale hanno portato, come è noto, alla crescita della popolazione e delle aree urbanizzate, al cambiamento dell’uso e delle suddivisioni funzionali degli spazi delle città, che implicavano anche un progressivo allontanamento dei luoghi di abitazione da quelli del lavoro.
La distinzione della sfera d’azione femminile e di quella maschile e la separazione degli spazi ad esse destinati hanno progressivamente coinciso, dunque, con la separazione dello spazio del “privato” (femminile) dallo spazio “pubblico” (maschile); di conseguenza, la fruizione dello spazio pubblico, proprio perché considerato maschile, risulta spesso limitata – talvolta proibita – per le donne.
La limitazione dell’uso dello spazio pubblico, in senso sia fisico che metaforico, per le donne può essere esemplificato in vario modo. Da uno studio condotto con interviste su un quartiere storico della città di Barcellona (la Rambla di El Raval) finalizzato alla ricostruzione della percezione dello spazio pubblico da parte di donne di provenienza e di cultura diverse (Ortiz, Garcia Ramon e Prats, 2004) emerge un diverso senso del luogo a seconda della categoria di appartenenza, un progressivo senso di estraneità indotto dalla presenza di nuovi arrivati e immigrati e, contemporaneamente, un senso di disagio, comune a tutte le categorie, per l’occupazione fisica dello spazio da parte degli uomini immigrati. Per le intervistate, soprattutto se spagnole, la presenza di pakistani e di marocchini, spesso seduti a lungo nel tempo libero sulle panchine della Rambla, contribuiva a rimarcare la “mascolinità” e l’“estraneità” dello spazio pubblico e, di conseguenza, a limitarne l’uso da parte delle donne e dei loro figli. Lo sguardo degli uomini (dei flaneurs) spesso rende meno libere le donne nello spazio pubblico, che si sentono osservate e giudicate per come si presentano, come si muovono, come sono abbigliate: ciò può provocare disagio, imbarazzo e condurre persino alla decisione di evitare di “esporsi” nello spazio pubblico. Il corpo delle donne, in questo caso, costituisce un richiamo anche se non esiste da parte loro alcuna volontà di attirare l’attenzione. È il motivo per cui nelle società musulmane le
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donne indossano il chador – o addirittura il burka – che è imposto dalla cultura, ma che diventa uno strumento di difesa da parte di chi lo indossa. In alcuni casi si può giungere a vietare l’ingresso alle donne in un determinato quartiere se non vestite nel modo giusto; è quanto ci ricorda Tovi Fenster (2003) a proposito di alcuni quartieri di ebrei ortodossi a Gerusalemme, al cui ingresso campeggia il cartello di divieto con l’indicazione dell’abbigliamento acconcio (di nero e con il capo coperto) sottolineando la sensazione di umiliazione e di disagio da parte di chi è costretta a scegliere fra il sottostare alle prescrizioni o il non frequentare quei luoghi.
Il corpo, dunque, come espressione della sessualità, è soggetto a norme e valori e suscita una miriade di reazioni emotive, in chi si trova a rappresentarla e in chi la percepisce: vergogna, paura, scherno, disprezzo. In particolare, gli individui che manifestano orientamenti sessuali non-eteronormativi, fuori pertanto dalla relazione dialettica produzione/riproduzione, sono influenzati nel comportamento e nell’uso dello spazio dalla percezione di atteggiamenti di accettazione/ rifiuto ovvero di inclusione/esclusione
Talvolta la limitazione nella fruizione dello spazio pubblico non è frutto di una questione di genere, ma del fatto che non si tenga conto delle particolari necessità di alcune categorie di persone, come i bambini, gli anziani, i disabili. Se releghiamo le donne nella sfera riproduttiva dovremmo, in conseguenza, prendere in considerazione il fatto che spesso le donne si muovono nello spazio pubblico per esigenze legate ai figli o ad altri membri della famiglia. Le difficoltà che incontrano le persone costrette a muoversi in carrozzina sono paragonabili a quelle che incontrano le mamme con i passeggini; e il verde pubblico destinato allo svago dei bambini non può essere lo stesso frequentato da cani, drogati ecc.
Restano i luoghi privati: quelli della libertà, del confort, dell’appartenenza. Nella accezione comune, la casa è definita il “regno” delle donne, dal che si potrebbe dedurre che almeno su questo luogo privato esse possano esercitare un pieno potere, un totale controllo, una esclusiva decisionalità. In realtà, se le donne sono regine, lo sono di un regno di dimensioni modeste, ritenuto di scarso valore e incisività e, soprattutto, condiviso (con un re). L’immagine esterna della casa, la sua dimensione, lo stile e la tipologia, l’ubicazione costituiscono la rappresentazione dello status sociale della famiglia (Bourne, 1989); la localizzazione dell’abitazione di residenza è dettata dalle esigenze del nucleo familiare, dal livello di reddito, dalla distanza casa-lavoro (Bottai, Cortesi, Lazzeroni, 2006); la distribuzione e l’organizzazione dello spazio interno, generalmente progettato dagli uomini, e il suo arredamento riflettono l’immagine dello status familiare. Per Domosh e Seager (2001) l’interno dell’abitazione tende addirittura a riproporre la separazione di genere attraverso la suddivisione in una zona pubblica (salotto-soggiorno) dove si ricevono gli ospiti o i visitatori e in una zona privata. La parte pubblica della casa è inoltre quella in cui gli uomini pas-
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sano la maggior parte del tempo a leggere il giornale o a guardare la televisione, mentre le donne la utilizzano per più breve tempo (Sarti, 1995) o in determinate condizioni.
Il regno, ulteriormente ridimensionato, coincide dunque con il “focolare”, ovvero la cucina-sala da pranzo, poiché costituisce il luogo in cui la donna risiede più a lungo, in cui si intrattengono le relazioni familiari più significative (nei momenti dei pasti) e in cui si esercita maggiormente la funzione di cura, in quanto la famiglia viene nutrita. Il cibo, preparato e distribuito dalle donne, acquista anche un significato simbolico: attraverso il cibo vengono “nutriti”, oltre che i corpi, le relazioni familiari, i legami e gli affetti (Cortesi, 2006).
4. Luoghi e identità
La questione che si pone, a questo punto, è se l’attribuzione di genere degli spazi fino qui esemplificata possa contribuire alla costruzione di una identità di genere e se, nel momento in cui gli spazi acquistano di significato diventando “luoghi”, possano mantenere la connotazione di genere o assumerne di nuove. Come è noto, si parla di luogo (place) allorché gli individui o il gruppo umano che instaura relazioni con lo spazio (space) attribuiscono (riconoscono) ad esso un senso, un valore, un significato (Rose, 2001), oltre che una dimensione, caratteristiche fisiche o funzioni.
I luoghi costituiscono i contesti delle interazioni materiali e immateriali e sono il teatro delle relazioni fra i soggetti. La loro funzione e il loro valore mutano secondo il significato che viene loro attribuito e secondo l’esperienza maturata nella vita dell’individuo: questo è il motivo per cui i luoghi acquistano rilevanza anche nella costruzione dell’identità di genere4. Nella letteratura geografica è stato sottolineato inizialmente il legame di carattere affettivo (topophilia), che si stabilisce fra gli individui e i luoghi (Yi Fu Tuan, 1974), in particolare con quelli che si arricchiscono dell’esperienza quotidiana ed acquistano pertanto una valenza psicologica e culturale (Frémont, 1972); successivamente ci si è soffer-
4 Componendo il binomio “luogo e identità”, si possono sinteticamente individuare due dimensioni, quella individuale e quella sociale, della costruzione dell’identità e delle relazioni con i luoghi. Infatti, nello sviluppo della personalità intervengono aspetti affettivi come l’attaccamento e il radicamento, che hanno una chiara valenza individuale e si alimentano dei rapporti interpersonali, soprattutto a livello delle reti familiari e amicali; essi hanno anche un rilievo di carattere spaziale, in particolare nelle relazioni con i luoghi del vissuto e della quotidianità, in quanto le reti di relazioni si stabiliscono nello spazio e con esso. Nella dimensione sociale si individuano le identità di genere – ma anche le identità etniche, culturali ecc. – in quanto gruppi di individui, accomunati da determinati comportamenti o collocazioni sociali, sviluppano il senso di appartenenza, di condivisione e di solidarietà che hanno come teatro i luoghi di relazione, siano essi spazi pubblici e/o privati, di inclusione e/o di esclusione.
Genere, luogo, spazio: alcune riflessioni 57
mati sull’interiorizzazione (insideness) della conoscenza del significato del luogo (Buttimer, 1993) e sul senso di appartenenza ad esso (belonging) che può essere sviluppato fino all’identificazione con esso (Massey, 1994; 2005). La specificità delle relazioni di genere con i luoghi è trattata in maniera riassuntiva ed efficace da Domosh e Seager (2001), che ricordano come siano state spesso le donne ad avvalorare il senso comune che ci siano dei luoghi più adatti a loro, dove si sentono maggiormente a loro agio, in cui possono meglio esprimersi liberamente. Inevitabilmente questi luoghi, ritenuti anche protettivi, sono i luoghi privati: arroccati, chiusi, marginali. La ristrettezza e la marginalità di questi luoghi inevitabilmente limitano le opportunità di chi ritiene di appartenervi e ne limitano anche le possibilità percepite.
Nel numero monografico di Geotema (33, 2007) dal titolo “Luoghi e identità di genere” (2009) sono state pubblicate le riflessioni del Gruppo di studio italiano Genere e Geografia sul legame fra l’identità di genere e i luoghi (reali e metaforici) e sulla loro rappresentazione. Gli studi empirici che costituiscono questa raccolta rendono possibile l’analisi degli aspetti più contraddittori nell’attribuzione delle identità di genere ai luoghi5 e, nello stesso tempo, l’individuazione di un percorso evolutivo che conduce, da un lato, a una nuova interpretazione del significato dei luoghi e, dall’altro lato, alla creazione di identità di genere che fanno dell’inclusione la nuova chiave esplicativa.
La via che conduce a una nuova concettualizzazione dello spazio passa attraverso il superamento della divisione e della separazione di genere, che, in ultima analisi, porta alla reciproca esclusione, e si basa sull’affermazione che lo spazio è un bene sociale e il teatro di tutte le relazioni fra i soggetti che costituiscono la società. Questa nuova visione è frutto della volontà di una maggiore inclusione nelle dinamiche sociali di tutti i soggetti con le loro differenze, di una partecipazione più attiva alle pratiche della produzione (Hanson e Pratt, 1995), dell’informazione e della conoscenza (Cortesi e Lazzeroni, 2004).
L’identità dei luoghi si costruisce pertanto non su un solo carattere, ma su una molteplicità di attributi derivanti dai soggetti che in quanto “differenti”, ovvero portatori di altro6 (Cortesi, Izis, Lazzeroni, 2011), contribuiscono a creare /for-
5 Gli studi che affrontano i temi dell’identità devono fare riferimento a metodologie appropriate. I metodi di ricerca tradizionali quali le indagini bibliografiche o le analisi di fonti statistiche devono essere accompagnati da metodi di studio innovativi come le analisi comparative, le indagini dirette, le interviste, le biografie (Elwood e Martin, 2000). Tali metodi hanno il pregio di sottolineare le peculiarità senza, allo stesso tempo, perdere di vista il fenomeno generale in un percorso che dagli individui conduce al gruppo sociale di riferimento.
6 Il termine “differenza” deriva etimologicamente da dis-ferre, che significa portare da una parte all’altra, portare oltre, in varie direzioni, portare qua e là. Tale concetto di differenza fa ovviamente riferimento ai soggetti, alla singolarità e irripetibilità di ognuno, ma anche al patrimonio di capacità, di conoscenze e di valori di cui i soggetti (in quanto persone) si fanno “portatori”.
Gisella Cortesi
mare. La molteplicità e l’eterogeneità dei soggetti sono difficilmente riconducibili a categorie chiuse come quella etnica o di genere, poiché un individuo ha contemporaneamente un’appartenenza etnica e un’identità di genere che, insieme ad altri caratteri (età, istruzione, credo religioso…), contribuiscono alla sua identità psicologica, sociale e culturale. I luoghi riflettono la varietà dei soggetti nella loro crescente eterogeneità; in effetti, soggetti diversi vivono relazioni diverse con i luoghi, richiedendo risposte differenziate, a seconda delle esigenze individuali o di gruppo e dei valori ad essi attribuiti.
Ritenere l’identità dei luoghi omogenea e statica è una visione utopica e, allo stesso tempo, riduttiva. I luoghi riflettono le differenze dei soggetti che li plasmano e appaiono, pertanto, eterogenei e multiformi: il disordine e non l’ordine, deve essere la loro chiave interpretativa (Wilson, 1991). I luoghi sono lo specchio del cambiamento della società che, pur mantenendo un forte radicamento, è aperta ad accogliere nuovi modelli culturali e nuove identità. Tradizione e innovazione coesistono nello spazio come nella società: la contrapposizione fra modelli culturali tradizionali e l’affermazione della modernizzazione può talvolta generare conflitti, ma può condurre anche a nuove forme di mediazione culturale quale risultato della fusione di questi due aspetti. Grazie alla loro capacità di conciliare il tradizionale ruolo nell’ambito della casa e della famiglia e la crescente emancipazione culturale, professionale e sociale, per esempio, le donne sono protagoniste nel risolvere le situazioni conflittuali e nel farsi carico di una strategia di fusione. Allo stesso modo l’esperienza migratoria per chi la vive e per i luoghi che ne sono teatro costituisce una opportunità di stabilire contatti e relazioni fra situazioni, condizioni e culture diverse. Ancora in questo caso le donne, attrici principali del fenomeno migratorio a livello mondiale (Boyle e Halfacree, 1999), hanno il privilegio di fare da mediazione fra la cultura di origine e quella dei luoghi dell’accoglienza per il tipo di lavoro che si trovano in grande parte a svolgere a diretto contatto con le famiglie nello spazio più intimo e privato.
Traducendo a livello spaziale le dinamiche di contatto e di relazione interculturale che plasmano le società attuali, si deve prestare grande attenzione ai luoghi dell’interculturalità (Marengo, 2004), dove si stabiliscono, materialmente e metaforicamente, le relazioni e gli scambi fra soggetti differenti per genere, per età, per provenienza, per fede religiosa, per appartenenza etnica e sociale e dove, grazie a tali relazioni e scambi, si sta formando la nuova cultura della convivenza. Pur riconoscendo la persistenza della valenza discriminatoria nell’appartenenza di genere, in base alla quale si continuano a escludere gli individui da alcuni luoghi (dalla politica, dal potere…), si ritiene che il superamento delle dinamiche di esclusione non passi attraverso l’omologazione (e a quale modello?), ma attraverso l’accettazione dell’identità dell’altro e il riconoscimento del differente legame emotivo (Davidson, Bondi e Smith, 2005) che ciascuno instaura con i luoghi.
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Assoluta, relativa, ambientale.
Tiziana Banini*
1. introduzione
Il tema della povertà richiede un ampio e critico contesto di riferimento per essere affrontato, riferibile com’è a un complesso di dimensioni che coinvolgono privato e pubblico, percorsi di vita individuali e politiche di welfare, bisogni sociali e scale di priorità, congiunture economiche e processi di esclusione, storie private, discorsi e pregiudizi che l’hanno storicamente costruita. È argomento difficile da trattare, quello della povertà, sia dal punto di vista teorico che metodologico, ma se ne è sempre parlato, vuoi per le implicazioni etiche, vuoi perché fenomeno da tenere sotto controllo, vuoi perché da come essa è intesa derivano politiche sociali, interventi in favore delle classi svantaggiate, dispositivi per la redistribuzione del reddito o per garantire l’accesso ai servizi sociali, che sono poi argomenti centrali della questione dei diritti di cittadinanza.
La povertà è stata misurata soprattutto dal secondo dopoguerra, quando gli obiettivi della crescita illimitata e le politiche statali dei paesi occidentali crearono un forte nesso tra economia, istituzioni e cittadini, attribuendo centralità alla portata sociale, etica e identitaria del lavoro, nella convinzione che il generalizzato miglioramento dei redditi avrebbe risolto tutti i mali della società (cfr. Touraine, 1993; Bauman, 2004). La storia ha dimostrato che il benessere materiale
* Sapienza Università di Roma.
Tiziana Banini
si è effettivamente esteso a larghi strati di popolazione, ma accompagnandosi a crescenti divaricazioni sociali e territoriali, di livello locale e globale (Milanovic, 2012; Stiglitz, 2012), che la crisi economica degli ultimi anni ha ulteriormente esacerbato, inducendo a nuove riflessioni e provvedimenti1. Nel frattempo, il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale ha comportato l’ulteriore affermazione della teoria economica neoclassica, fornendone un’interpretazione che identifica – ovvero giustifica – la razionalità del comportamento umano nella massimizzazione dell’interesse individuale, sottraendo all’economia l’originario spessore sociale ed etico (Polanyi, 1974; Sen, 2002). Il consumo si è affermato come nuova liturgia sociale, con i suoi miti e i suoi riti, con l’abbondanza a consentire lo spreco, con gli oggetti a costituire lo strumento del mantenimento del sistema sociale ed economico, e il medium attraverso cui si giocano le relazioni sociali ovvero i meccanismi di inclusione/esclusione (Baudrillard, 1976).
Nella società dei consumi il povero è un consumatore mancato o incompleto, e la povertà si traduce nella impossibilità o ridotta possibilità di cogliere le numerose occasioni che il mercato offre (Bauman, 2004), con tutto ciò che ne consegue sul piano della stigmatizzazione e riprovazione sociale da una parte, e del sentimento di inadeguatezza e privazione di fronte alle proprie aspettative che i non pieni consumatori possono sperimentare dall’altra (cfr. Townsend, 1987). Il consumo ha acquisito centralità non solo nelle stime quantitative e qualitative dei poveri, ma anche come chiave di lettura per comprendere il mondo attuale e le sue dinamiche, dai flussi migratori alla gentrification urbana, dai processi di emarginazione sociale alla formazione delle identità contemporanee (McCracken, 1990). Consumo quindi come meta-cultura, che sovrasta e annacqua le differenze culturali, cosicché anche le tradizionali ripartizioni del mondo perdono significato, a vantaggio dell’idea di una società globale distinta per classi di consumatori (Myers e Kent, 2004; Worlwatch Institute, 2004), ove ognuno consuma per quanto può, secondo modelli di riferimento universali, quasi sotto l’impulso di quello che Bordieu (1983) definì habitus, sorta di principio generatore che orienta i diversi gruppi sociali in pratiche di consumo distinte e distintive.
L’aspetto più inquietante di questo passaggio alla globalizzazione dei consumi è proprio dato dall’accentuazione dei processi di esclusione sociale e dalla polarizzazione dei luoghi dell’esclusione, nel senso che, a differenza del passato, i poveri estremi, quelli che non possono permettersi di consumare né di migrare, così come i luoghi ove essi risiedono, semplicemente non servono più (Sachs, 2005), avvalorando la nota distinzione di Bauman tra ricchi globalizzati e poveri localizzati.
1 La povertà e l’emarginazione sono state incluse nelle cinque priorità della Strategia Europa 2020, lanciata dalla Commissione Europea nel 2010; le Nazioni Unite hanno proclamato il 2010 Anno Internazionale della Povertà, inserendo l’obiettivo dell’eradicazione della povertà e della fame estrema tra gli otto Millennium Development Goals.
Assoluta, relativa, ambientale. Declinazioni di povertà 63
Sotto il profilo scientifico, il tema della povertà è stato trattato soprattutto in ottica storica, sociologica ed economica, producendo una vastissima letteratura; più volte soggette a ridefinizioni e aggiustamenti, le questioni relative ai metodi di rilevamento e alla definizione stessa del concetto di povertà restano tuttavia aperte. Anche per questo motivo, la letteratura scientifica recente ha prodotto riflessioni in ordine ad un ripensamento sostanziale del concetto di povertà, a partire dai modi in cui se ne è parlato e dai significati che le sono tuttora attribuiti, ed è in tale direzione che questa ricerca intende collocarsi. Dopo una breve rassegna critica del concetto di povertà convenzionalmente inteso, ci si sofferma sui nuovi modi di concepirla, per concludere con alcune considerazioni sulla necessità di una sua revisione che tragga origine dalla prospettiva ambientale.
2. concetti, metodi, stime suLLa povertà
“Povertà” è un termine ad alto contenuto evocativo: leggendolo, ascoltandolo, pronunciandolo è implicito il richiamo a una condizione esistenziale difficile, insoddisfacente, inadeguata. Il problema è rispetto a quali standard di riferimento si ritiene che una persona, una famiglia, una collettività siano povere, chi stabilisce tali standard, sulla base di quali criteri, rispetto a quali bisogni e a quale contesto sociale e territoriale di riferimento.
Coerentemente con gli obiettivi della crescita economica illimitata e del benessere materiale, la povertà è stata definita come deficit o deprivazione di risorse necessarie per soddisfare le esigenze di un individuo o di una collettività; pertanto lo stato di povertà viene rilevato attraverso indicatori di benessere basati sulla spesa per consumi o sul reddito, valutati in senso assoluto o relativo. La povertà assoluta fa riferimento a un paniere di beni ritenuto necessario a garantire il soddisfacimento dei bisogni primari ovvero uno standard di vita minimo socialmente accettabile; per povertà relativa si intende una disponibilità di risorse inferiore alla media della popolazione di riferimento, esprimendo in ciò una misura della disuguaglianza (Atkinson, 2000). Oltre che alla povertà assoluta e relativa, che fanno capo all’approccio oggettivo e unidimensionale alla povertà, le analisi sulla povertà possono riferirsi a valutazioni soggettive, basate sulle percezioni individuali circa la propria condizione sociale ed economica. Dagli anni ’80 dello scorso secolo, gli studi sulla povertà hanno cercato di oltrepassare il tradizionale riferimento alla mera dimensione materiale ed economica della povertà (Negri, 1990; Liberati, 2009), anche perché si era evidenziato che a parità di reddito potevano sussistere livelli di benessere oggettivi o soggettivi molto diversi, confermando che il benessere esistenziale non sempre corrisponde al benessere materiale (Brandolini e Saraceno, 2007). Della povertà è stato sottolineato il carattere processuale, dinamico, multidimensionale, cumulativo,
Tiziana Banini
come condizione che fa riferimento ad una serie di eventi (compromissione delle relazioni sociali, indebolimento delle reti familiari, perdita del lavoro, ecc.) che interagiscono e si alimentano reciprocamente, innescando un processo degenerativo che in assenza di intervento rischia di cronicizzarsi (Negri e Saraceno, 2003).
Al termine povertà sono stati così associati i concetti di vulnerabilità e di esclusione sociale, che si collocano a monte e a valle di un processo di impoverimento: vulnerabilità come esposizione a quegli eventi della vita che possono predisporre a condizioni di disagio (instabilità del posto di lavoro, rotture familiari, malattia, ecc.); esclusione sociale come processo attraverso cui individui o gruppi sono totalmente o parzialmente esclusi dalla piena partecipazione al contesto in cui vivono (Taylor-Gooby, 2004; Ranci, 2002).
All’evoluzione del concetto di povertà ha contribuito notevolmente il nobel per l’economia Amartya Sen, secondo cui il benessere (well-being) è soprattutto libertà di scelta ovvero condizione che dipende non solo dal possesso di beni, ma anche dalla possibilità/capacità (capability) di utilizzarli per soddisfare i propri effettivi bisogni e le proprie volontà, posto che possedere dei beni non equivalga automaticamente a beneficiarne in modo pieno e soddisfacente (Sen, 1994). L’insufficienza di reddito, nelle stesse parole di Sen, è quindi fattore rilevante ma non determinante dello stato di povertà, a cui concorre una complessa serie di variabili individuali e sociali (età, stato di salute, contesto di vita, ecc.); la povertà, pertanto, si configura come assenza di capability. L’approccio multidimensionale di Sen, pensato soprattutto in riferimento alle aree del sottosviluppo, ha assunto rilievo fondamentale nell’elaborazione del concetto di sviluppo umano e del relativo indice (Human Development Index), così come dell’Indice di Povertà Umana (Human Poverty Index)2. Nel 1990, la World Bank ha invece introdotto l’International Standard of Poverty Line (ISPL), facendo riferimento esclusivamente al reddito (ovvero alla capacità di acquisto di beni) come parametro per la definizione e la misurazione della povertà, che viene calcolata sulla base di determinati fattori di conversione (Purchase Power Parity) stabiliti per ciascun Paese (World Bank, 1990). L’ISPL è divenuta una soglia convenzionale di povertà, adottata a livello internazionale, che definisce povera una famiglia di due componenti la cui spesa per consumi sia pari o inferiore a quella media pro capite della popolazione di riferimento.
Alla povertà economica, espressa in termini di reddito o capacità di consumo, in termini assoluti e/o relativi, continuano a riferirsi le stime prodotte a livello nazionale e sovranazionale, tra cui Banca d’Italia, Istat, OECD, Eurostat, sebbene utilizzando diverse scale di equivalenza (i coefficienti che servono a rapportare
2 L’Indice di Povertà Umana è stato calcolato distintamente per il Paesi in via di sviluppo (HPI-1) e per alcuni Paesi ad economia avanzata (HPI-2) fin dal 1997. Nel 2010 è stato sostituito da un nuovo indice (Multidimensional Poverty Index), strutturato su tre dimensioni (salute, educazione, livello di vita) e dieci indicatori (UNDP, 2010).
Assoluta, relativa, ambientale. Declinazioni di povertà 65
i dati di riferimento all’ampiezza demografica delle famiglie) e soglie (rispetto alla mediana dei redditi o dei consumi). L’assenza di reddito o la scarsa capacità di consumo è dunque ancora il criterio principe delle stime sulla povertà, ad ogni scala geografica; ed è questa l’idea di povertà che viene trasmessa a livello sociale, specie in occasione della pubblicazione dei periodici rapporti ad essa dedicati o delle classifiche nazionali o internazionali sulla qualità della vita (in Italia, sono note quelle del Sole 24 ore).
Le critiche a questo modo di intendere il benessere e la povertà si sono moltiplicate nel corso del tempo, trovando nella Banca Mondiale il principale accusato. All’istituzione bancaria mondiale sono stati contestati i criteri e i metodi utilizzati, la scarsa aderenza alle effettive esigenze umane, le procedure poco trasparenti, l’esito sottostimante del numero dei poveri che ne deriva (Reddy e Pogge, 2010). Si è detto infatti che le stime sulla povertà variano molto in base ai criteri utilizzati (potere d’acquisto, distribuzione dei redditi, propensione al consumo, indici dei prezzi, ecc.) e pertanto la selezione di un criterio anziché un altro si traduce in una scelta politica, in grado di orientare i risultati della ricerca nella direzione voluta. Alla Banca Mondiale, che ha replicato alle critiche esprimendo a sua volta delle perplessità (Ravallion, 2010), sono state contestate anche altre questioni, tra cui il fatto di produrre statistiche in ordine a fenomeni politicamente sensibili, su cui non può garantire obiettività di giudizio, così come in merito al sostegno che essa dichiara di riservare ai paesi con buone politiche economiche, ma che nella pratica è destinato ad alcune economie di mercato emergenti, anziché ai paesi più poveri (Nunnenkamp, 2002).
Di fatto, in base al Multidimensional Poverty Index, risultano in condizione di povertà circa 1,7 miliardi di persone, per il 9,5% riferito alle aree economicamente avanzate (UNDP, 2010). In base all’International Standard of Poverty Line della Banca Mondiale, invece, i poveri estremi che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno (che è la soglia stabilita sulla media dei circa venti paesi più poveri al mondo) ammontano a 1,3 miliardi, mentre coloro che vivono con meno di 2 dollari al giorno (che è la media per i Paesi in via di sviluppo) sarebbero circa 2,47 miliardi (World Bank, 2012): una cifra enorme, comunque la si intenda, e che si riferisce alla povertà vera, quella che non consente di soddisfare nemmeno le esigenze di base, come il nutrirsi adeguatamente, il ripararsi dal freddo e dal caldo, il vivere in ambienti sani3 .
3 Il rapporto della World Bank (2012) rileva che gli obiettivi del millennio relativi al dimezzamento (entro il 2015 rispetto ai valori del 1990) della quota di popolazione mondiale che vive in estrema povertà (1,25 $ al giorno) e che non ha accesso all’acqua potabile sono stati raggiunti con cinque anni di anticipo. Si afferma anche, però, che le differenze internazionali e subnazionali sono considerevoli, e che malgrado il sostegno economico e organizzativo offerto a più di 140 paesi nel periodo 2002-11, la proporzione di persone che vivono al di sotto dei 2 $ al giorno è scesa solo leggermente. Nel Millenium Development Goals Report 2012, invece,
Tiziana Banini
Al di là delle stime su quanti siano esattamente i poveri e come vengano calcolati, il problema di fondo sta proprio nell’enorme distanza in termini di reddito, benessere materiale e opportunità che intercorre tra una minoranza di popolazione globale e la maggior parte della stessa, che emerge da tutte le valutazioni finora approntate, dal PIL pro capite all’HDI, dal Genuine Progress Indicator al Multidimensional Poverty Index4 .
Tra le diverse alternative, è stato proposto di calcolare la povertà sulle fondamentali capabilities, così come intese da Sen, in riferimento soprattutto al soddisfacimento dei bisogni alimentari quantitativi e qualitativi (Reddy, 2006). La novità di tale approccio non starebbe nel considerare la spesa per gli alimenti, che è stata spesso utilizzata nei calcoli della povertà assoluta nazionali e nei contributi dedicati ai bisogni essenziali (Liberati, 2009), quanto nell’elevare tale calcolo a criterio di definizione della povertà su scala globale. Basare i calcoli sul basic need per eccellenza, vale a dire l’alimentazione, consentirebbe in tal senso di porre in evidenza gli squilibri che intercorrono tra le diverse aree del globo ovvero di relativizzare la povertà dei paesi ricchi ai ben più drammatici caratteri di quella dei paesi poveri5 .
è detto che la quota di popolazione che vive in estrema povertà (meno di 1,25 $ al giorno) è diminuita in tutte le regioni in via di sviluppo, Africa sub-shariana compresa, dal 47% del 1990 al 24% del 2008, che nel periodo 1990-2010 più di due miliardi di persone hanno avuto accesso ad acqua qualitativamente più sana, e che la quota di abitanti nelle baraccopoli è diminuita dal 39% del 2000 al 33% del 2012, coinvolgendo almeno 100 milioni di persone (United Nations, 2012).
4 Pur con tutte le cautele del caso, vista la scarsa comparabilità delle situazioni, resta singolare che a fronte dei 2,5 miliardi di persone che vivono con meno di 2 $ al giorno, e degli 1,7 miliardi di persone con meno di 1,25 $ al giorno, vale dire senza accesso sicuro e continuativo all’alimentazione, all’acqua, ai servizi sanitari, ai diritti essenziali (World Bank, 2012), in Italia (ma il parallelo potrebbe essere stabilito con qualsiasi altro paese ad economia avanzata) si parli di 8,2 milioni di “poveri relativi” (13,6% della popolazione totale), di 3,4 milioni di “poveri assoluti” (5,2% della popolazione complessiva), e di 15 milioni di persone a rischio di povertà (Istat, 2012; Caritas Italiana-Fondazione Zancan, 2010). In Italia, per il 2011, la soglia di povertà relativa (per una famiglia di due componenti) è stata fissata a 1.011,03 Euro mensili (che è pari alla spesa per consumi media mensile pro capite). Le soglie di povertà assoluta variano invece in base alla dimensione e composizione per età della famiglia, alla ripartizione geografica e all’ampiezza demografica del comune di residenza: «ad esempio, un adulto (18-59 anni) che vive solo è considerato assolutamente povero se la sua spesa è inferiore o pari a 784,49 Euro mensili nel caso risieda in un’area metropolitana del Nord, a 703,16 Euro qualora viva in un piccolo comune settentrionale e a 525,65 Euro se risiede in un piccolo comune meridionale» (Istat, 2012, p. 10).
5 In tale direzione si colloca anche il Basic Capabilities Index – un indicatore sintetico, introdotto nel 2005 dal Social Watch, per monitorare il raggiungimento dei Millennium Development Goals – che fa riferimento a tre indicatori di base (mortalità infantile al di sotto dei 5 anni, grado di istruzione dei bambini, gravidanze assistite da personale sanitario esperto) (Social Watch, 2005).
3. testi e contesti deLLa povertà
Se buona parte della letteratura scientifica sulla povertà verte sui metodi di rilevamento e sulle definizioni della deprivazione economica, altra parte è dedicata alle condizioni di marginalità ed esclusione sociale che le persone, a diverso titolo considerate povere, esperiscono nei rispettivi contesti di vita.
Gli studi condotti in tale prospettiva sono stati sempre particolarmente fiorenti in ambito anglosassone e dopo un periodo di relativo disinteresse sono tornati alla ribalta, spesso a margine di gruppi di lavoro e iniziative di livello istituzionale (Philo, 1995), con ricerche focalizzate sulla scala nazionale, piuttosto che in riferimento a spazi specifici, dando enfasi al contesto e alla comunità in cui si rilevano condizioni di disagio sociale (cfr. Milbourne, 2004; 2010). Nello stesso tempo, si è manifestato un ritorno di interesse per gli spazi emblematici della povertà e dell’esclusione sociale, sulla scia del filone di studi iniziato con i ghetti, proseguito lungo bidonvilles e borgate, e ora dedicato a banlieues ed ethnoburbs (ad es. Spivak, Bass e St. John, 2011; Montgomery, 2011).
Il revival degli studi sulla povertà si è accompagnato ad un modo profondamente diverso di intenderla e studiarla, anche in geografia. Dalla metà degli anni ’90, infatti, la povertà è divenuta uno dei campi di studio privilegiati della new cultural geography, spostando l’attenzione sui processi che generano esclusione, marginalizzazione, stigmatizzazione sociale per motivi etnici, razziali, sessuali. Si è operato in tal senso un avvicinamento tra geografia sociale e culturale (Loda, 2011), aprendo nuovi orizzonti allo studio della povertà, così come di altri fenomeni sociali, che combinano insieme analisi su processi culturali, geometrie di potere, differenze di classe, giustizia sociale, pratiche identitarie, dinamiche locale/globale. La povertà è intesa come processo sociale e viene studiata non come dato in sé da esaminare nei suoi caratteri strutturali e nelle sue dinamiche nel tempo, ma nelle azioni e nei discorsi che la producono e riproducono (Wilson e Bauder, 2001), problematizzando il tradizionale dittico inclusione/ esclusione (che implica già un punto di vista) e contestualizzando le analisi sugli spazi in cui tali processi avvengono (ad es. Lawson, Jarosz e Bonds, 2008), in ciò dimostrando l’aderenza alla critica post-strutturalista, confluita nel cosiddetto cultural turn.
Sulla scorta delle riflessioni di Foucault e Derrida, la povertà è inserita tra le grandi narrazioni del mondo che hanno prodotto l’idea di esclusione, devianza, razza, etnia, omosessualità, imponendo con le “parole” una visione delle “cose” silenziosa e insidiosa, perché etnocentrica, autoreferenziale, potente e intrinsecamente non incline a considerare le priorità e i significati delle culture, delle visoni del mondo e delle scelte di vita “altre”. Se sono stati i discorsi a costruire la rappresentazione e la riproduzione del mondo, è dunque dai discorsi che è necessario partire per svelare le sovrastrutture che le hanno generate, a partire dai singoli eventi, documenti e testi ovvero dalle meta-narrazioni che ne sono state fornite.
Tiziana Banini
Il costrutto sociale che sottende il concetto di povertà è così ripercorso criticamente, evidenziando le modalità attraverso cui esso prende forma: dalla definizione (povertà come carenza di reddito, beni, possibilità), alla distinzione tra un soggetto che stabilisce chi è povero e un oggetto di studio che è il povero; dalla quantificazione e qualificazione dei poveri alla mappatura cartografica ovvero alla reificazione territoriale della povertà (Yapa, 1996). Mentre si fa tutto questo si costruisce un “problema povertà”, in base a cui si distinguono i poveri dai non poveri, i territori problematici da quelli non problematici, chi ha un problema (e forse non riteneva di averlo) e chi non lo ha, chi deve prendere decisioni e chi sarà sottoposto a quelle decisioni, innescando le relative conseguenze sul piano sociale, nei relativi contesti.
A prescindere dall’adozione o meno della prospettiva postmoderna – che anche nel caso della povertà ha riscosso dure critiche, guadagnandosi l’appellativo di verbal radicalism (Hewitt cit. in Shrestha, 1997) – negli studi recenti si riscontra una generalizzata tendenza ad affrontare la povertà in chiave critica, problematica e contestualizzata. Le ricerche privilegiano la grande scala e in particolare gli spazi urbani, ove le dinamiche dell’inclusione/esclusione assumono i toni più estremi e palesi, generando trasformazioni rapide e per molti versi imprevedibili, per l’arrivo degli immigrati piuttosto che per processi di gentrification, generando conflitti a distanza ravvicinata, giocati proprio sul filo della povertà/non povertà, ovvero su inedite stigmatizzazioni e nuove fratture sociali, che traggono origine da ingannevoli miscugli di percezioni e di esperienze, di fatti concreti e di pura immaginazione (Warr, 2005).
In prospettiva critica si collocano anche gli studi che si soffermano sull’idea dominante che assegna il maggior grado di povertà alle regioni rurali e agli ambiti non-metropolitani degli Stati Uniti, sottolineando l’assenza di adeguato approfondimento critico (Weber et al., 2005); nel caso di alcuni Stati del Northwest, la chiave di lettura delle contraddizioni tra indicatori di crescita economica e stime sulla povertà è ricercata nelle relazioni ricorsive che intercorrono tra logiche neoliberiste e riproduzione delle differenze di classe e razza, che si traducono nella marginalizzazione di specifici gruppi sociali (Lawson, Jarosz e Bonds, 2010). In tale direzione sono state riesaminate anche le relazioni tra povertà e degrado ambientale nei paesi del Sud del mondo, mettendo in discussione l’asserto – riproposto anche nel Rapporto Brundtland – che vede le popolazioni più svantaggiate del pianeta come principali agenti di degrado ambientale per questioni di sopravvivenza, quando in realtà esso ha origine da un complesso intreccio di attori e processi di livello locale e globale (Gray e Moseley, 2005). La prospettiva dell’ecologia politica è utilizzata così come chiave di lettura in grado di riesaminare le interazioni tra povertà e ambiente, dando rilievo alla scala, alle geometrie di potere e alle narrazioni storicamente determinate, rimuovendo i pregiudizi che sono alla radice di tali interpretazioni e che impediscono di trovare soluzioni effettive.
Assoluta, relativa, ambientale. Declinazioni di povertà 69
Lo spostamento di attenzione verso i contesti in cui fenomeni e processi hanno luogo e prendono forma si è accompagnato ad un cambiamento nei metodi di ricerca; il dato statistico su cui prima si basava l’intera opera di individuazione, analisi e gestione delle questioni sociali, povertà inclusa, viene accompagnato se non sostituito in toto dai metodi qualitativi, in gran parte mutuati dalla ricerca etnografica. Si tratta di un trend che ha attraversato tutte le discipline, tanto da far parlare di spatial turn (cfr. Loda, 2011), e che nel caso della povertà si riscontra, ad esempio, nel caso dei servizi sociali dedicati agli homeless degli ambiti rurali (Cloke, Johnsen e May, 2007), piuttosto che nella ricerca sociale dedicata alla salute e alla domanda di servizi sanitari (MacIntyre, MacIver e Sooman, 1993), oppure negli studi di comunità impostati sul concetto di empatia6 . Seguendo tale approccio, diverse ricerche hanno posto in discussione i luoghi comuni a cui sono sottoposti gruppi etnici e quartieri problematici, mettendo in risalto i punti di forza, le qualità positive, i connotati promettenti, come nel caso di Villa Victoria, quartiere popolare di Boston abitato prevalentemente da portoricani, i cui abitanti hanno saputo mantenere e rafforzare il capitale sociale locale, che si esplicita nella forte partecipazione alla vita del quartiere (Small, 2011). Il vissuto dei poveri diventa centrale nelle analisi della povertà e viene indagato negli spazi emblematici dell’esclusione, magari in riferimento alle necessità primarie, quali l’alimentazione, e ai relativi luoghi-simbolo, come nel caso delle mense dei poveri di Bologna (Bergamaschi e Musarò, 2011). La mensa delle associazioni laiche o religiose diventa così luogo paradigmatico, ove si palesa il nesso tra diversità culturale, ingiustizia globale, stigmatizzazioni e solidarietà locali, ma anche ove si manifesta la capacità delle persone fortemente deprivate di pensare e organizzare la propria esistenza al di là delle logiche del bisogno e della loro soddisfazione, stabilendo reti di relazione, strategie adattive e modalità di negoziazione quotidiane improntate sulla condivisione, lo scambio e il dono.
4. La povertà amBientaLe
Il modello convenzionale di sviluppo ha implicitamente imposto un’idea di povertà come condizione che preclude la possibilità di accedere alle opportunità offerte dalle istituzioni e dal mercato, e da cui i cittadini devono guardarsi bene
6 In prospettiva empatica, la ricerca sulla povertà richiede coinvolgimento cognitivo, emotivo, affettivo, relazionale; l’accento è posto sulla comprensione profonda, immedesimante, non giudicante e spoglia di ogni pregiudizio della persona ritenuta povera, che va esperita nei luoghi, nei contesti, nelle situazioni della povertà, poiché è solo attraverso questa immedesimazione emotiva e cognitiva insieme, dunque abbattendo l’idea di povertà come oggetto di analisi esterno alla propria osservazione, che la collettività può fornire idee, proposte e azioni orientate all’effettiva responsabilità e giustizia sociale (Segal, 2007).
Tiziana Banini
dal cadere dentro. Alla povertà è stato attribuito un connotato congiunturale, come fosse un incidente di percorso che può sempre capitare (donde l’incombente rischio di povertà), ma che comunque si ritiene di poter affrontare e superare attraverso i postulati stessi dello sviluppo classicamente inteso (investimenti, crescita economica, creazione di posti di lavoro, ecc.). Il punto è che non è possibile trovare soluzione alla povertà all’interno di un sistema teorico e operativo che in realtà la genera (Yapa, 1996; Shrestha, 1997). Per questo, le politiche di lotta contro la povertà spesso non sortiscono significativi risultati, anche nei Paesi del Sud del mondo che si sono dimostrati più sensibili al tema. Peraltro, se nelle aree economicamente avanzate la povertà può effettivamente assumere connotati temporanei ed è suscettibile di essere superata, nelle aree del sottosviluppo essa è strutturale, ha radici profonde, esiti drammatici e non facilmente risolvibili, dato l’intreccio di dinamiche locali e globali di cui è storicamente esito.
Nella percezione collettiva, la deprivazione economica continua ad essere ritenuta fattore principale delle esperienze di isolamento sociale, stigmatizzazione e minor senso di appartenenza alla comunità che esperiscono le classi sociali a più basso reddito; la recente crisi economica ha anzi esacerbato tale percezione, riportando la povertà al centro della riflessione sociale e politica, stavolta in veste di protagonista di tante storie riferite a cittadini e famiglie normali, appartenenti a quella middle class che ha sperimentato sulla propria pelle cosa significa essere vulnerabili alla povertà e ai processi di esclusione sociale (Dovis e Saraceno, 2011).
Il momento potrebbe essere giusto per acquisire consapevolezza che il perseguimento di un modello che si basa sul benessere economico e materiale – teoricamente aperto a tutti, ma non nella pratica – si accompagna inevitabilmente all’acuirsi degli squilibri sociali e territoriali, così come a una miriade di altre dimensioni problematiche (Holdren, Daily e Ehrlich, 1995), e che quelle analisi che certa critica radicale ha realizzato negli anni ’70 – trovando la ragione di tali squilibri nei rapporti di potere e di classe, ovvero nelle logiche e nelle prassi del modello di sviluppo capitalistico – avevano un loro fondamento, a prescindere dall’impostazione ideologica che rispecchiavano (cfr. Peet, 1975). Di fatto, è stato sufficiente che alcuni paesi prima esclusi dall’economia di mercato si affacciassero anch’essi alla grande corsa al consumo per destabilizzare mercati e istituzioni dei paesi opulenti. In tutto questo parlare di povertà e nuove povertà, tuttavia, sembra sfuggire il dato di fondo, cioè che il modello di sviluppo affermatosi nei paesi economicamente avanzati ed estesosi su scala globale, con i flussi migratori dal Sud del mondo e il passaggio all’economia capitalista da parte dei cosiddetti paesi emergenti a confermarlo, è implicitamente basato sulla diseguaglianza sociale, per evidenti limiti ambientali, troppo spesso collocati ai margini del dibattito. Le risorse del nostro pianeta, come si è evidenziato fin dagli anni ’70 dello scorso secolo, sono limitate e non è possibile espandere su scala globale il modello della crescita economica illimitata ovvero del benessere materiale (cfr. Banini, 2010). Se si resta nel paradigma povertà/ricchezza materiale si incorre quindi in un circolo vizioso
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da cui non si esce, perché è il fondamento concettuale che è fallace: non tutti gli abitanti della Terra possono essere ricchi o middle class, la ricchezza materiale può riguardare una minima parte della popolazione mondiale, ma non 7 miliardi di persone, che peraltro aumenteranno sempre di più. Insomma, la torta è una sola, e se qualcuno mangia di più, qualcun’altro inevitabilmente mangia di meno.
Il dato che interessa ai fini del nostro discorso, che si avvia alla conclusione, è che il benessere economico e le capabilities maturate dai paesi economicamente ricchi derivano largamente dalle risorse, dalle persone e dai territori delle più disparate aree del globo, come hanno dimostrato i calcoli dell’impronta ecologica (Wackernagel e Rees, 1996), ovvero è l’esito di ciò che D. Harvey (2003) ha definito accumulation by dispossession, anche in riferimento agli squilibri globali. Il termine “esproprio”, usa Harvey non a caso, a significare l’azione lesiva del diritto altrui di utilizzare le proprie risorse.
La revisione concettuale della povertà non può prescindere da tale riflessione, che incorpora diverse dimensioni dell’insostenibilità del modello di sviluppo convenzionale: 1) il fatto che la ricchezza dei Paesi economicamente avanzati (e ora anche dei Paesi emergenti) derivi largamente dalle risorse di altri territori; 2) il fatto che l’utilizzo di quelle risorse ovvero l’immissione di enormi quantitativi di materia e di energia – molti di più rispetto a quanto i territori locali potrebbero fornire – ha comportato e continua a generare una profonda alterazione dei cicli ecosistemici e crescenti impatti ambientali; 3) il fatto che le risorse acquisite dai Paesi economicamente avanzati – o meglio dall’élite globale del consumo, perché i consumatori ‘occidentalmente intesi’ sono anche nel Sud del mondo – sono di fatto sottratte ad altre popolazioni, contribuendo ad impedirne lo sviluppo. Adottando questa prospettiva, la dimensione ambientale diventa cardine dei discorsi sulla definizione e il calcolo della povertà, capovolgendo i termini in cui se ne parla normalmente: se la povertà è assenza di capabilities, reddito, beni e servizi, è altrettanto vero che per produrre quei beni e servizi (ovvero per sviluppare quelle capabilities) sono necessarie materia ed energia (ovvero componenti ambientali), e se una determinata collettività – ad ogni scala geografica – non è in grado di supportare da sé quella domanda di materia ed energia, ma detiene comunque elevati livelli di consumo, vuol dire che sta sottraendo risorse (ovvero componenti ambientali) ad altri territori, cioè è in condizioni di povertà ambientale. Si tratta di un concetto che richiama il deficit ecologico derivabile dai calcoli dell’impronta ecologica, ma che utilizzato in riferimento esplicito alla povertà assume altra portata, poiché incorpora due informazioni di fondo: 1) che si sta consumando più del possibile; 2) che si sta consumando a spese di altre popolazioni/ecosistemi/territori. Peraltro, alle aree economicamente avanzate andrebbero computati anche i danni ambientali esportati o prodotti altrove (v. delocalizzazioni industriali, smaltimento di rifiuti tossici e quant’altro), quindi, anche sotto il profilo qualitativo, vale a dire del degrado ambientale, esse risulterebbero, molto probabilmente, le più povere del mondo.
Tiziana Banini
5. rifLessioni concLusive
Concepita in termini di scarsità e collegata ai timori atavici che essa evoca, la povertà ha assunto la configurazione di perfetto contraltare del concetto di abbondanza, a sua volta perfettamente funzionale alle logiche dell’economia e del consumo illimitati; ed è proprio nel consumo critico e responsabile, come proposta politica sollecitata dalla consapevolezza e dall’azione collettiva, che si addensano le iniziative volte ad oltrepassare le contraddizioni della crescita illimitata e pervenire ad una ‘globalizzazione delle responsabilità’ (Barnett et al., 2010).
Rimuovere l’idea di abbondanza su cui la società dei consumi ha costruito lo spreco e il danno ambientale, calibrare i bisogni umani alle dinamiche ecosistemiche (Daly e Ehrlich, 1996), esercitarsi alla condivisione di beni, strutture, servizi, idee e progettualità, ristabilire il nesso società, economia e contesto locale, uscire dalla logica quantitativa e puntare sul benessere qualitativo: posta in questi termini, la povertà si svincola dall’idea dell’impossibilità/incapacità di consumare quantità crescenti di materia e di energia, di accumulare denaro e possedimenti materiali, ognuno per quanto possibile, e capovolge il suo significato, diventa stile di vita, scelta consapevole degli effetti del proprio comportamento, libertà di vivere in modo soddisfacente con poco, senza rincorrere le seduzioni del mercato globale, che di fatto, allontanano gli esseri umani tra di loro e dalla natura, contribuendo a produrre effetti drammatici nell’Altrove, ove la povertà e il degrado ambientale assumono toni estremi7 .
Di fronte alla crisi ecologica, economica e sociale – esacerbata da questi anni recenti di globalizzazione, finanza spregiudicata e incapacità dei decisori locali e globali di fornire risposte – la vera sfida sembra risiedere in un nuovo umanesimo (Morin, 2012), in grado di superare l’opposizione tra uomo e natura, facendo appello alla dimensione relazionale che lega gli esseri umani alle dinamiche ecosistemiche, localmente diversificate e globalmente intese. Se il perseguimento di stili di vita basati sulla cooperazione e la condivisione, sull’idea di benessere relazionale (Taylor, 2011) e sulla piena integrazione con la natura possono costituire la cornice concettuale di un nuovo modo di intendere l’essere-al-mondo, le tante esperienze in corso dimostrano che è possibile partire dalla scala locale e dalle singole comunità per perseguire contemporaneamente obiettivi di partecipazione, sostenibilità, empowerment e benessere collettivo, anche nei luoghi più difficili (cfr. Pick e Sirkin, 2010).
7 Il Rapporto sullo Sviluppo Umano del 2011 (UNDP, 2011), strutturato sul tema della deprivazione ambientale, (dall’assenza di combustibile per cucinare alla qualità dell’acqua, dall’inquinamento atmosferico agli effetti del cambiamento climatico), conferma che nei Paesi del sottosviluppo il degrado ambientale sta incidendo sensibilmente sulla condizione di povertà, compromettendo soluzioni e prospettive.
Assoluta, relativa, ambientale. Declinazioni di povertà
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Francesca Krasna*
1. introduzione
Il presente capitolo possiede due scopi, uno più evidente e in qualche modo di superficie ed uno più “sotterraneo” e profondo. Il primo scopo consiste nel voler analizzare il rapporto che intercorre tra la geografia sociale e il tema delle migrazioni, con una particolare enfasi sui processi contemporanei di migrazione internazionale, indotti dalla globalizzazione e dall’evoluzione degli scenari geopolitici e geoeconomici a livello mondiale. Il secondo scopo si sviluppa, muovendo da questo tema, per interrogarsi però su questioni di carattere più squisitamente epistemologico, legate alla natura, all’evoluzione e anche all’adeguatezza della geografia, con o senza aggettivi, nel cercare di analizzare ed interpretare i fenomeni della realtà che ci circonda. In particolare, si vuole tentare di offrire una prospettiva un po’ diversa sul consueto “dilemma” dell’opportunità di una suddivisione della disciplina geografica in più branche versus, all’opposto, l’esigenza di una sua unitarietà, rovesciando la logica del ragionamento scientifico di tipo tradizionale. Quest’ultimo, partendo dallo studio di un fenomeno, come, ad esempio, quello migratorio, costretto dalla necessità di coglierne le molteplici sfaccettature ed interdipendenze, può, infatti, svilupparsi secondo un modello che comporti, allo stesso tempo, la ricerca di approcci di carattere interdisciplinare e l’integrazione di strumenti e metodi, che tradizionalmente vengono considerati propri di
* Università degli Studi di Trieste.
Francesca Krasna
specifiche articolazioni del sapere e della ricerca geografici. L’unitarietà del tema (geografia delle migrazioni), lungi dal generare un’ulteriore segmentazione disciplinare, permette invece di ricomporre le fratture già esistenti all’interno di essa.
2. iL rapporto tra La geografia sociaLe e i processi migratori: La geografia sociaLe
Scrivere del rapporto che intercorre tra, da una parte, la geografia sociale ed, in particolare, il suo peculiare modo di guardare l’oggetto delle proprie analisi e, dall’altra, il caleidoscopico mondo dei processi migratori, così ricco, articolato e composito è, paradossalmente, facile e complesso. La facilità nel trattare questo tema discende dal fatto che, una volta stabilita cosa sia la geografia sociale, delimitate le sue frontiere più che i suoi confini concettuali1, le sue metodologie e i suoi oggetti di studio principali, risulta evidente come quello delle migrazioni sia davvero uno dei temi più centrali e “caldi” della disciplina. Ciò si realizza per molti motivi. Prima di tutto per ciò che appare immediatamente intuibile e cioè che le migrazioni rappresentano indubbiamente un fenomeno sociale, interessando a vario titolo e in modo diverso le società di origine, di transito e destinazione dei flussi. La mobilità umana è poi un fenomeno che, in generale, induce molti tipi di impatto sull’organizzazione degli spazi. In questi ultimi agiscono già differenti attori “socio-spaziali”, ad esempio la comunità locale nelle sue varie espressioni, autorità politiche, operatori economici, società civile, ecc. Le dinamiche legate ai flussi migratori vengono a sovrapporsi all’azione di questi attori e, in tal modo, diventano essi stessi agenti di cambiamento e attivatori di processi di territorializzazione e deterritorializzazione (riorganizzazione del territorio) sia nei luoghi di origine che in quelli di destinazione. Non bisogna però pensare che questa interazione socio-spaziale produca solo modificazioni nello spazio (che pure sono espressione di trasformazioni sociali); al contrario, essa contribuisce, assieme ad altri fattori, anche al continuo processo di riorganizzazione sociale, che, a sua volta, si manifesta nello spazio e induce cambiamenti in esso.
Su questi aspetti si avrà modo di ritornare; qui preme però sottolineare come il tema delle migrazioni, oltre a rappresentare un aspetto in qualche modo tipico e centrale nell’ambito della geografia sociale, si offra anche come una sorta di laboratorio o punto di vista privilegiato, da cui poter partire per esercitare e sperimentare alcuni degli strumenti teorico-concettuali e metodologici propri di tale ambito disciplinare.
1 Le profonde e complesse interdipendenze che legano la geografia sociale ad altre branche del sapere geografico e ad altre discipline extrageografiche rendono estremamente difficile tentare di darne una definizione precisa e “chirurgica”.
Prima di poter evidenziare e analizzare le molteplici e strette interconnessioni che sussistono tra la geografia sociale e il tema delle migrazioni, resta però da chiarire il punto della complessità, che comunque accompagna questo approccio e cui si accennava in precedenza. Tale complessità deriva dalla natura stessa della disciplina e dalla sua storia ed evoluzione. Nulla è semplice nella geografia; forse proprio perché la sua principale ambizione consiste nel voler interpretare la complessità della realtà, rendendola poi con chiarezza e quindi con una semplicità esplicativa, che non è riduzionismo o semplificazione, ma precisione del linguaggio e, infine, eleganza formale. Con la geografia sociale le cose si complicano ancora un po’. Per comprendere bene di cosa si stia trattando, sono però opportune alcune considerazioni preliminari, riguardanti questioni epistemologiche insolute, legate all’ambito disciplinare in senso lato. Intanto bisogna ricordare che il nodo gordiano del senso di suddividere la geografia in più branche, variamente organizzate da un punto di vista gerarchico, ma tutte puntualmente identificate da un’opportuna aggettivazione, rispetto a una visione più unitaria della disciplina, è stato, più che superato, direi accantonato di fronte ad altre “emergenze tematiche”. L’epoca attuale impone generalmente l’esigenza di una forte specializzazione in qualsiasi campo si vada ad agire, almeno nel caso in cui si persegua come obiettivo l’ottenimento di un “prodotto” del nostro lavoro (qualunque esso sia) di una certa qualità e direi serietà. E questo appare particolarmente vero nel caso dell’attività di ricerca. Tuttavia, anche di recente, in più occasioni e non solo nel campo disciplinare della geografia, si è ribadita la necessità, ma anche la valenza di non perdere, in qualche modo, anche una certa visione olistica della realtà, di non sacrificare tutto nel nome della specializzazione. Si sarebbe tentati di affermare che l’equilibrio tra una concezione e l’altra vada ricercato nel sapersi spostare costantemente tra diverse scale di lettura, geografiche certo, ma non solo: così bisognerebbe muoversi da una prospettiva micro (o locale o specializzata) ad una macro (o globale o “generale”) o quanto meno tenere sempre presente che esistono entrambe queste prospettive (e molte altre intermedie) pur privilegiando di volta in volta una delle due (o molteplici).
Le diatribe epistemologiche attualmente non trovano più ampi spazi, perché le emergenze cui si accennava in precedenza sembrano imporre oggi soprattutto soluzioni operative. Ci si riferisce, ad esempio, alle problematiche ambientali, a quelle energetiche, alla crisi economica, alle disuguaglianze sociali, ecc. Eppure resta il sospetto che fermarsi a riflettere su aspetti più “filosofici” potrebbe essere fondamentale anche nell’identificare adeguate misure concrete di soluzione dei problemi. Un’attenzione più critica e concentrata sull’identificare per tempo i risultati delle scelte, anche in chiave prospettica, stabilendo a priori cosa si vuole e in cosa si crede, appare ancora piuttosto importante. E decidere in che modo vada “organizzata” e “presentata” la verità – o forse un po’ più umilmente – la conoscenza (ovvero ciò che, onestamente, in un dato tempo e luogo, riteniamo possa corrispondere ad una corretta rappresentazione della realtà, senza che poi
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necessariamente lo sia) è affare alquanto delicato e strategico. Ma questo ci riporta alla geografia sociale e alla geografia tout court.
Cos’è la geografia sociale? È da questo interrogativo che muove la difficoltà di cui si diceva in precedenza. In effetti, bisogna riconoscere che non vi è o non vi è stata molta concordanza di interpretazione sulla natura di questa disciplina. La difficoltà nel definire la geografia sociale in modo omogeneo e condiviso e accettarne l’autonomia rispetto ad altri campi di indagine disciplinare con i quali essa presenta moltissimi punti di contatto e ampi spazi di sovrapposizione, è testimoniata dalla sua storia alquanto travagliata e dalle differenti forme e direzioni che essa ha assunto nelle varie aree culturali, ma anche geografiche del mondo, in cui ha attecchito e si è successivamente sviluppata. Non è certo questa la sede per ripercorrere in modo approfondito e dettagliato il percorso compiuto dalla geografia sociale in Italia e all’estero, dalle sue origini ai nostri giorni. Tuttavia sembra ragionevole e opportuno richiamare qui almeno alcuni concetti e aspetti di base, utili alla trattazione del tema oggetto di questa analisi, rimandando chi fosse interessato ad eventuali ulteriori approfondimenti ai riferimenti bibliografici di cui si farà menzione nel prosieguo di questo studio e, come di consueto, al suo termine. Prima di tutto è necessario chiarire che la geografia sociale non è una disciplina di cui si possa fornire sic et simpliciter una definizione univoca, chiara e condivisa2. In effetti il termine comparve già verso la fine del diciannovesimo secolo, ma diventò particolarmente diffuso in Francia e Olanda a metà del secolo scorso. Nel 1921 questa espressione fu adottata per designare in via ufficiale la geografia umana olandese, ma già in questo Paese e fin da allora erano presenti posizioni discordi in merito tra le principali scuole di geografia (Amsterdam e Utrecht). Ben presto il dibattito inerente la natura e i contenuti della geografia sociale fece emergere e consolidò tre principali scuole di pensiero riconosciute a livello internazionale, ciascuna con una propria visione della disciplina, spesso già di partenza non proprio unitaria: quella di area, lingua e cultura francese, quella tedesca e quella anglosassone. Spesso è difficile ravvisare al di dentro di questi tre stessi blocchi una sorta di coerenza strutturale o una qualche forma di organizzazione teorica di tipo sistemico. Forse la più coesa e compatta e anche meglio definita, tra quelle citate, risulta allora l’esperienza tedesca, che, seppure attiva in più centri del Paese, resta fondamentalmente nota per la tradizione della Scuola di Monaco.
2 In merito, scrive Lombardi nel suo contributo sulle origini della geografia sociale: «… si registrano nel corso del tempo interpretazioni diverse, sia riguardo la stessa esistenza della geografia sociale che con riferimento alla sua posizione in seno alla geografia, ai suoi rapporti con la sociologia, ai suoi campi di studio. Tali questioni vengono lungamente dibattute ed alcuni studiosi… puntano l’attenzione sui punti più problematici: dalla mancanza di una definizione universalmente accettata… a una certa ambiguità di fondo della disciplina… dalla poliedricità d’approccio e di metodo… all’eclettismo tematico… È tutto questo che fa dire a Cater e Jones (1989) che la geografia sociale soffre di una crisi di identità» (2006, p. 19).
L’opera Sozialgeographie (Maier et al., 1977) che rappresenta la base di partenza della concezione tedesca della geografia sociale anche contemporanea, ma anche il punto di arrivo di un percorso evolutivo non facile e nemmeno univoco, riprendendo una definizione precedente e puntualizzandola ulteriormente, indica che la geografia sociale va intesa come “…scienza delle forme di organizzazione spaziale e dei processi spazialmente attivi delle funzioni elementari3 dei gruppi e delle società umane…un nuovo orientamento metodologico dell’antropogeografia che comprende nella stessa misura tutti i settori parziali della geografia umana” (1983, p. 30, in Lombardi, 2006, p. 28). Ovviamente dal 1983 ai nostri giorni, la geografia sociale tedesca si è evoluta, rimanendo però fortemente debitrice di questo apporto teorico fondamentale, anche quando si propone di rileggerlo in chiave critica per superarne i limiti, denunciati dalle trasformazioni storiche delle società. Si è già ricordato che, seppure nell’ambito di una qualche tensione intellettuale condivisa, una sorta di cornice “istituzionale” comune alle tre Scuole di geografia sociale individuate in precedenza, queste si siano differenziate spesso anche di molto non solo tra loro, ma anche al proprio interno. In effetti, le differenze, più che investire e riflettersi sul piano delle definizioni, si sono invece espresse maggiormente sulla selezione dei temi di analisi da privilegiare. Così, ad esempio, per lungo tempo la geografia sociale tedesca ha focalizzato la sua attenzione soprattutto sulle aree rurali, mentre in particolare nell’area anglosassone essa si è concentrata fin da subito sulla realtà urbana. Altri temi fondamentali per la Scuola di Monaco, quali lo studio delle funzioni elementari4 o il tema del paesaggio e dei gruppi sociali o dei generi di vita, hanno rivestito un ruolo più marginale negli ambiti di ricerca delle altre scuole, interessate piuttosto ad altri filoni di indagine. Seppure tra mille ostacoli e spesso presentando quello che si potrebbe definire una sorta di sviluppo disciplinare a più voci (ma non sono mancati momenti di forte coesione) un aspetto comune nella storia della disciplina a livello estero è che fin da subito gli studiosi stranieri non hanno tanto messo in discussione la sua esistenza come disciplina autonoma, quanto si sono interrogati piuttosto su quali fossero i temi da privilegiare, gli oggetti e le metodologie specifiche della geografia sociale, che, allo stesso tempo, avrebbero dato un senso a tale campo di indagine in modo indipendente dalle altre discipline “sorelle” (sociologia, geografia economica, geografia culturale, antropologia, ecc.), legittimandone una volta per tutte l’esistenza, e “riempiendola” di contenuti propri e specifici.
In Italia il cammino della geografia sociale è stato ancora più difficile e, essendo partito con un notevole ritardo rispetto alla scena internazionale e con un avvio e un percorso decisamente più lento, ha sicuramente accumulato un certo
3 Funzione elementare è un concetto ideato da Bobek (Fliedner, 1993) e indica le attività tipiche di una data società (ovviamente espletate nello spazio) come le forme dei comportamenti adottati nell’abitare, nel fruire dell’istruzione, nel recarsi al lavoro e lavorare, nel gestire il tempo libero, ecc.
4 Si veda la nota precedente.
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distacco nei confronti dei tre percorsi di sviluppo disciplinare precedentemente ricordati. Invero, si deve riconoscere che la posizione della geografia italiana è stata sempre piuttosto critica e scettica nei confronti della geografia sociale. Per lungo tempo l’orientamento prevalente si è assestato su una posizione secondo cui essa non è altro che un ambito della geografia umana (o antropica5), madre di tutte le altre “geografie” che si occupano a vario titolo delle vicende e dei fatti degli uomini e quindi contrapposta alla geografia fisica, che studia la distribuzione spaziale dei fenomeni che sono il prodotto dell’evoluzione naturale (non umana). All’estremo opposto la critica più dura e radicale ha sposato un’interpretazione più categorica, secondo cui essa coinciderebbe semplicemente con la sociologia. Sia in Italia che all’estero non sono mancati poi tentativi piuttosto funambolici, anche se spesso abbastanza motivati, ma non troppo convincenti, di mediare tra tutte le contrapposizioni, i conflitti e le sovrapposizioni epistemologiche, con soluzioni più sul piano linguistico che su quello sostanziale (geografia sociologica), che di fatto non sono sopravvissute alla prova degli anni.
Partendo tardi e sviluppandosi anche molto lentamente, tra una generale scarsa considerazione, la geografia sociale in Italia, laddove ha attecchito, ha inevitabilmente “guardato” all’esperienza maturata all’estero, lasciandosi influenzare da una piuttosto che da un’altra Scuola. Così, la prossimità geografica e culturale, favorita anche dalla conoscenza della lingua e dall’esperienza personale, portò ad esempio la Geografia sociale di Udine (Meneghel6 e la sua Scuola) e di Trieste (Eliseo Bonetti) ad avvicinarsi soprattutto alla Scuola tedesca. Altrove è stata più forte l’influenza francese7. E molte sono le iniziative, anche editoriali, i convegni, i dibattiti, i corsi di studio (e quindi i manuali) prodotti in questi ultimi anni8. Tutto ciò rappresenta la testimonianza di un interesse sempre più diffuso per questo ambito disciplinare e della volontà di recuperare il tempo perduto, sviluppando un proprio autonomo percorso di pensiero, connotato in modo indipendente rispetto alle tre Scuole ricordate in precedenza, ma attento e sensibile alle sollecitazioni culturali provenienti dalla comunità scientifica internazionale. Certamente ad accrescere l’interesse dei geografi italiani verso la geografia sociale negli ultimi anni hanno concorso diversi e molteplici fattori, tra cui: l’evoluzione sociale a livello globale e locale, indotta dalle trasformazioni dell’economia e soprattutto dagli effetti del progresso tecnologico e dalla globalizzazione economica e culturale; l’evoluzione stessa della disciplina a livello internazionale e la
5 Per altro molto vicina anche alla geografia culturale e pertanto anche all’antropologia umana.
6 Meneghel ottenne sempre su Udine la creazione di una cattedra di geografia sociale.
7 Ricordiamo che da alcuni anni ormai appare avviata un’iniziativa molto importante per lo sviluppo della geografia sociale italiana e non solo, il colloquio di geografia sociale italo-francese.
8 Senza nessuna pretesa di esaustività, ma solo a titolo d’esempio, si menzionano, oltre il lavoro di Lombardi (2006), più volte ricordato nel testo, i più recenti volumi di Loda (2008), Amato (2009) e Cerreti et al. (2012).
sua duttilità nell’approcciare certe tematiche attuali, ponendo il focus su questioni di importante interesse ed urgenza sociale, soprattutto nelle aree urbane, ma non solo (emarginazione, enviromentl justice, ecc.); gli sviluppi della stessa sociologia e il ruolo che essa esplica nell’interpretare la realtà contemporanea assieme al moltiplicarsi delle occasioni di incontro e dialogo tra geografia e sociologia, sempre molto importanti e proficue.
Last but not least vi è un altro fondamentale motivo per cui di recente i geografi italiani hanno cercato di recuperare il tempo perduto e in qualche modo di riappropriarsi del terreno di indagine di tale disciplina sia sul piano teorico che empirico. Di fatto i geografi italiani hanno sempre fatto geografia sociale, verrebbe da dire, spesso senza accorgersene. Lo ribadisce la stessa Lombardi nel suo sintetico, ma significativo excursus storico sulla disciplina in Italia e all’estero (2006). Basta dare una veloce scorsa ai titoli ricordati dalla stessa Autrice, ma anche semplicemente sfogliare gli Atti dei Congressi nazionali più recenti, o quelli di alcuni convegni tra i più importanti e in generale le principali pubblicazioni della comunità, per accorgersi di quanto sia vera questa affermazione. E ciò non solo perché essi hanno affrontato spesso tematiche care a tale disciplina, indagando cause ed effetti (interdipendenze) tra spazio e organizzazione spaziale e fenomeni sociali, ma anche perché ancora più spesso ne hanno usato in modo più o meno consapevole le metodologie e gli schemi di riferimento concettuali. Tra i vari temi affrontati dai geografi italiani inscrivibili nell’ambito degli interessi della geografia sociale, si possono ricordare: le migrazioni, l’organizzazione sociale degli spazi urbani (anche attraverso l’utilizzo di modellistica, nella scia della Scuola di Monaco), il sottosviluppo, l’approccio di genere, ecc. Tra i vari strumenti, teorici e metodologici, è sufficiente citare concetti quali: i generi di vita, i gruppi, gli attori, l’azione, i modelli, soprattutto quelli di matrice tedesca, gli indicatori, quantitativi e qualitativi, ecc. Sarebbe difficile negare che tali strumenti siano di fatto una parte integrante e molto importante nel bagaglio culturale di moltissimi geografi umani (economici, ecc.) nell’accostarsi allo studio dei tanti temi di cui si occupa oggi e si è occupata in passato la geografia.
3. iL rapporto tra La geografia sociaLe e i processi migratori: i processi migratori
Dopo la breve panoramica sulla geografia sociale9, nel presente paragrafo si tratterà infine della geografia sociale delle migrazioni o, come appare più opportuno e preciso, della geografia delle migrazioni. Rovesciando l’ottica di partenza, infatti,
9 Si ribadisce che queste riflessioni sulla complessità della geografia sociale non rappresentano certamente una trattazione sistematica e men che meno esaustiva di tale argomento, ma servono invece da cornice, in cui inserire le successive considerazioni sui processi migratori e il loro ruolo nelle ana-
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appare più corretto partire da una visione unitaria del fenomeno: la geografia delle migrazioni, appunto. Quest’ultima compendia in sé già un’apertura di carattere interdisciplinare (con la sociologia prima di tutto, ma anche con l’antropologia culturale, la psicologia, la medicina, la letteratura di viaggio e non solo, ecc.) ma prima ancora accoglie al suo interno tantissime geografie (della popolazione, economica, politica, culturale, sociale) e lo fa in un modo così interdipendente, che risulta difficile attribuire a ciascuna campi o strumenti di indagine che le appartengano in modo netto ed esclusivo. Proprio per questo motivo, venendo infine al cuore del tema affrontato in questo capitolo ovvero il rapporto tra i processi migratori e la geografia sociale, risulta più corretto cercare di mettere in evidenza quali siano appunto gli aspetti ed apporti principali nello studio geografico delle migrazioni, che sembrano svilupparsi lungo le vie maestre della geografia sociale (sempre con il riconoscimento di una sorta di debito speciale contratto nei confronti della sociologia) piuttosto che ascriverne il dominio assoluto a tale campo disciplinare. Già da quanto osservato in precedenza, si comprende come le migrazioni rappresentino un tema particolarmente centrale nei dibattiti della geografia umana, economico-politica e sociale. Oggi sembrerebbe davvero riduttivo relegarla solo nell’angusto spazio della geografia della popolazione. Si può anzi affermare che tale tema permetta proprio di valorizzare le caratteristiche più interessanti dell’analisi geografica, in quanto, per cogliere tutte le dimensioni di tale fenomeno, è auspicabile e necessario fare “incursione” in molte delle sue articolazioni interne, dalla geografia urbana alla geografia culturale, ecc. Le migrazioni contemporanee, come oggetto di studio, permettono non solo di ricomporre in qualche modo le fratture interne alla geografia degli uomini, quanto piuttosto di superarle, integrando approcci, metodi e concetti in una visione olistica e interdisciplinare; che poi è la vocazione ultima della geografia stessa. Ci si muove quindi nuovamente in un’ottica transcalare, dal generale allo specifico, dal locale al globale e viceversa, dentro e fuori le geografie.
I flussi migratori si originano per diversi motivi, che finiscono per influire sulle caratteristiche dei flussi stessi e sull’impatto che essi esercitano sui luoghi di origine e su quelli di destinazione. In relazione alla variabile della distanza, tradizionalmente, in geografia si distingue tra migrazioni di breve e lungo raggio. Le prime rappresentano movimenti generalmente interni ad uno stesso Stato (ma possono talvolta assumere anche carattere transfrontaliero) mentre le seconde designano solitamente gli spostamenti internazionali. Storicamente, soprattutto nei Paesi come l’Italia, di antica industrializzazione, il fenomeno delle migrazioni di breve raggio ha progressivamente perso importanza, ma ha rivestito un ruolo fondamentale nello sviluppo urbano ed economico successivo al secondo dopoguer-
lisi di geografia sociale. Anche queste ultime devono essere lette ovviamente non con una pretesa di esaustività, ma piuttosto come una carrellata di immagini e citazioni di natura esemplificativa. Per questi motivi, ci si scusa fin d’ora per le inevitabili lacune e omissioni presenti nel testo.
ra. In questo Paese, ma anche altrove, infatti, si è assistito a processi di abbandono delle aree rurali, soprattutto quelle più marginali, con conseguente migrazione ed inurbamento di cospicue masse di popolazione. Questo processo ha avuto, come è noto, anche una forte connotazione geografica, dato che i flussi privilegiavano soprattutto la direzione sud-nord, dalle aree più arretrate del Mezzogiorno verso le regioni più dinamiche ed industrializzate del Paese10. Il fenomeno descritto ha sicuramente permesso la trasformazione di una società prevalentemente rurale e di tipo tradizionale in una moderna società urbana ed industrializzata (e poi anche fortemente terziarizzata), ma ha prodotto anche impatti negativi come il degrado di molte aree agricole abbandonate (particolarmente evidente in alcune zone montane marginali), ha acuito gli squilibri territoriali su scala nazionale e regionale, ha infine indotto processi di crescita urbana ed economica non propriamente equilibrati in molte città, lasciando così aperti molti problemi relativi alla sostenibilità del modello di vita e organizzazione economica ed urbana, che ne è risultato. Se, come si accennava in precedenza, nei Paesi dell’Occidente capitalista il fenomeno delle migrazioni di breve raggio sembra oggi richiedere meno attenzione rispetto alla dimensione e a gli impatti delle migrazioni internazionali, non bisogna dimenticare che esso ha assunto nuovo rilievo in molte delle economie emergenti. Si pensi ai Paesi africani, ma anche e soprattutto a quei Paesi, che, per la loro estensione e popolosità, racchiudono entro i propri confini immense differenze nei caratteri economici, demografici, religiosi, etnici e culturali come, ad esempio, Brasile, India e Cina. In quest’ultima i divari tra le aree costiere, più dinamiche e sviluppate, e l’interno, molto più arretrato e isolato, rappresentano un differenziale capace di attivare movimenti di popolazioni molto consistenti e difficili da gestire. In realtà, al momento, sembra che la Cina preferisca optare per migrazioni forzate di milioni di abitanti delle aree rurali, costretti a trasferirsi nelle nuove città all’uopo costituite.
Oggi, l’attenzione generale sui fenomeni migratori appare concentrata soprattutto sui movimenti internazionali, indotti per lo più da cause economiche e/o politico-religiose (si pensi ai rifugiati). In vero, per tutti i generi di migrazioni, indipendentemente dal raggio della loro ampiezza, analizzandone le cause e motivazioni, per molti anni si è ragionato in termini di push/pull factors ovvero di fattori di repulsione e attrazione dei migranti, che agirebbero rispettivamente nelle aree di origine e destinazione dei flussi. Più di recente questo tipo di approccio è sembrato troppo semplicistico e di sapore quasi deterministico, mentre si è ritenuto che i fattori da prendere in considerazione siano più articolati e organizzati in un sistema complesso di valutazioni non solo oggettive, ma anche soggettive. Perciò ora si tende ad integrare approcci di tipo comportamentale
10 Si pensi al processo di gravitazione attivato in quegli anni dal cosiddetto triangolo industriale, rappresentato dalle città di Milano, Genova e Torino.
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con logiche di tipo più strettamente economico-comparativo. Si osservi come ragionare su questi aspetti significhi anche riflettere sulla natura e sul contenuto dello sviluppo e di quello che, con un termine ormai obsoleto, si definiva sottosviluppo11, temi da sempre cari alla geografia sociale, soprattutto a quella di impostazione marxista, ma non solo.
Per molti anni la ricerca geografica sulle migrazioni (sia in Italia che all’estero) ha insistito nel produrre quadri sintetici locali, regionali e nazionali sulle principali caratteristiche soprattutto quantitative della presenza e distribuzione degli immigrati stranieri e sui principali trend evolutivi del fenomeno. L’informazione qualitativa si limitava all’individuazione della nazionalità, del genere, dell’età e solo successivamente al titolo di studio, alla professione, ecc. Ben presto però ci si è resi conto della necessità di conoscere più approfonditamente e in qualche modo dal di dentro le caratteristiche delle comunità insediate. Ci si è allora concentrati sullo studio e sul tentativo di “ricostruzione” del cosiddetto modello di progetto migratorio ovvero si è cercato di dare risposta a quesiti quali: perché si emigra? dove e per quanto tempo? di quale natura l’esperienza nella comunità ospite? quali le aspirazioni, realizzazioni e delusioni? Ma più che nelle domande di per se stesse, il vero segno del cambiamento di direzione nel metodo di analisi adottato consiste allora a tutt’oggi soprattutto nel voler indagare tali aspetti dando rilievo anche alla dimensione soggettiva, intima e individuale del migrante. Tale approccio implica, tra l’altro, un ampio ricorso al metodo delle interviste e della narrazione; il migrante da oggetto passivo di studio diventa soggetto narrante della propria storia, arricchendo e di molto il bagaglio conoscitivo e la sensibilità dello studioso “spettatore”. È proprio anche grazie a questa nuova sensibilità che sono emerse col tempo tutta una serie di informazioni, che contribuiscono alla completezza e alla profondità di rappresentazione dell’universo migrante. Ciò ha aiutato a comprendere, ad esempio, il ruolo rivestito dalle catene o ragnatele migratorie, intese come reti sociali di appoggio del migrante in terra straniera. Queste ultime sono costituite da connazionali, spesso parenti e amici, emigrati precedentemente e quindi nella condizione di poter offrire aiuto ai nuovi arrivati nella forma di consigli, soluzioni abitative e lavorative e tutta una serie di atteggiamenti utili a favorire e accelerare il processo di inserimento/integrazione nella società locale. Tutto ciò permette di minimizzare quella sensazione e condizione di “spaesamento” che inevitabilmente accoglie qualsiasi straniero all’estero.
Altri elementi importanti nello studio dei processi migratori internazionali riguardano il tipo di relazioni che vengono a crearsi tra immigrati appartenenti ad una medesima comunità e presenti in uno stesso Paese ospite; particolare
11 Oggi questo termine appare troppo evocativo di un approccio politicamente scorretto e si preferisce parlare di differenziale di sviluppo o di maggiore o minore grado di partecipazione alla globalizzazione o ancora di diversi livelli di integrazione dei territori nel sistema capitalistico mondiale.
attenzione va rivolta allo studio delle modalità attraverso le quali essi cercano di mediare tra l’esigenza di “ricreare” in loco il “genere di vita” che avevano nella loro terra di origine (usi, costumi, abitudini, consumi alimentari e non, stili comportamentali, codici di comunicazione linguistica e non, professione di credi religiosi, ecc.) e la necessità di adattarsi ed inserirsi nel nuovo contesto. Altrettanto importante risulta poi decifrare come tali comunità interagiscano con altre comunità di immigrati presenti e con la stessa comunità autoctona, sia a livello individuale che collettivo e in ogni ambito della vita quotidiana, famigliare, istituzionale (scuola, amministrazioni pubbliche,..), lavorativa, ricreativa, ecc. Le modalità di interazione e integrazione sono molto varie, a seconda delle diverse variabili considerate, tra cui la nazionalità, l’età, il genere, la condizione socio-professionale, il livello di istruzione, ecc. Last but not least un importante contributo interpretativo della condizione degli immigrati stranieri nei Paesi di destinazione è fornito indubbiamente dallo studio delle percezioni, rispettivamente degli autoctoni nei confronti degli stranieri e viceversa, ecc.
Già da queste semplici osservazioni, si ha modo di intuire l’importanza, in ampiezza e profondità, del contributo della struttura teorica, ma anche degli strumenti empirici della geografia sociale ai fini dell’arricchimento della conoscenza, interpretazione e decifrazione dell’universo migrante in tutte le sue molteplici sfaccettature, voci e contraddizioni. Gli aspetti in cui essa può spaziare sono davvero molti ed è difficile ricordarli tutti. A parte quelli già menzionati, preme qui almeno accennare alla spinosa questione del modello di integrazione nella società ospite, che inevitabilmente le comunità straniere e quella autoctona sono chiamate a scegliere ed attuare, normativamente e concretamente nella vita di ogni giorno. Le possibilità sono anche qui molte e vanno dalla segregazione alla assimilazione, transitando attraverso forme ibride, meticciati, ecc. In questo ambito rientrano i dibattiti sulle differenti possibilità di riconoscimento della cittadinanza agli stranieri e quelli sui diversi modelli di integrazione, quali quello della multiculturalità (più culture che coabitano in uno stesso Paese) invero ormai praticamente abbandonato in favore dell’interculturalità (più culture che non solo coabitano, ma anche interagiscono in modo intenso tra di loro).
Spostando l’attenzione su problematiche di carattere più “micro” e meno generali, cercando in qualche modo di misurare l’impatto di tali processi di interazione/integrazione nelle aree urbane (ma non solo), e privilegiando questo tipo di approccio più articolato e integrato, le occasioni per fare ricorso agli strumenti della geografia sociale si moltiplicano. Concetti propri della sociologia come quello dei “paesaggi etnici” sono diventati ormai frequentatissimi dai geografi12, che si occupano di migrazioni per indicare i segni esteriori della presenza di comunità
12 Tra i primi in Italia a “recuperare” il concetto di paesaggio etnico elaborato da Appadurai (1996), ma poi diventato di uso molto comune tra i geografi, è stato Papotti (2002, 2004).
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straniere sul territorio, spie di trasformazioni sociali e spaziali sempre più profonde e radicate nel territorio. In realtà bisogna ricordare che proprio questo settore di studi rappresenta oggi una delle realtà di maggiore e più proficua collaborazione tra sociologi e geografi. L’osservazione attenta del paesaggio urbano rappresenta l’occasione per studi più approfonditi sull’impatto che l’immigrazione straniera produce sui modelli sociali e sulle loro organizzazioni spaziali. Le dinamiche relative ai processi di insediamento delle differenti comunità straniere nelle molteplici e differenziate realtà urbane italiane, ad esempio, danno vita a modelli di insediamento e diffusione peculiari, che, al di là della connotazione spaziale, raccontano molto sulle forme di interazione e integrazione degli stranieri nella società ospite. Come accennato in precedenza, il focus sui fenomeni di organizzazione e riorganizzazione socio-spaziale delle realtà urbane è un tema importante e centrale nella tradizione di studio della geografia sociale, soprattutto quella anglosassone ed è certamente uno dei punti d’incontro più interessanti tra geografia e sociologia. Si ricorderà che la Scuola di ecologia sociale di Chicago (Park, Burgess e McKenzie soprattutto) si occupava di analizzare e descrivere la diversa destinazione funzionale del suolo urbano tra le differenti attività (residenziale, produttiva, ecc.); così coglieva anche l’occasione per affrontare la questione della distribuzione di alcuni gruppi sociali, identificati in base al reddito e quindi al potere di acquisto, tra l’altro, di suolo urbano. In continuità con questo approccio, gli studi che si occupano del rapporto tra città e immigrazione straniera, oggi identificano le aree di distribuzione delle differenti comunità, cercando di ricostruire processi di diffusione, che a volte seguono logiche ampiamente distribuite nello spazio e altre volte rivelano situazioni di concentrazione spaziale. Queste ultime spesso di fatto denunciano forme di segregazione, che, a sua volta, può essere il risultato di un processo di auto-segregazione (come accade con la comunità cinese) o comunque assume i toni di una qualche forma di “esclusione” e quindi di emarginazione. Quest’ultima, oltre che territoriale, è ancora prima sociale. Inclusione/esclusione e devianza sono termini della sociologia con cui la geografia delle migrazioni ha imparato a misurarsi ormai da tempo13 . Affrontare il tema della localizzazione abitativa delle diverse comunità immigrate nelle città italiane significa quasi automaticamente interrogarsi sugli spazi divisi e condivisi (Cristaldi, 2012) tra esse e la comunità autoctona. Ricompare allora il filone del paesaggio etnico, rappresentato sempre più spesso dalle epifanie delle attività produttive e lavorative degli immigrati piuttosto che dalla funzione abitativa. Una volta lo stereotipo paesaggistico tipico della presenza degli immigrati stranieri era la forte concentrazione di parabole su davanzali e balconi di abitazioni, spesso localizzate in aree degradate o persino ghettizzate (si pensi alla famigerata via Anelli a Padova); in seguito fu la volta della lanterne rosse, segno distintivo,
13 Si veda, ad esempio, Brusa (1999).
orgogliosamente e nazionalmente ostentato, delle prime attività commerciali della comunità cinese. Ora queste ultime sono sempre più “evolute” e diversificate: dagli iniziali esercizi quasi unicamente collegati all’abbigliamento tessile a basso costo e ai ristoranti, si è passati a prodotti per la casa, bar, magazzini per il commercio all’ingrosso, ecc. In numerosi centri urbani, queste attività tendono ormai ad uscire dalle tradizionali aree marginali o periferiche o dalle zone degradate del centro per “conquistare” spazi pregiati delle aree più di valore, spesso con problemi di conflittualità potenziale o effettiva14. Inoltre le lanterne rosse sono state quasi del tutto abbandonate a vantaggio di un profilo meno connotato etnicamente. Gli esercizi commerciali sembra quasi vogliano mimetizzarsi ovvero confondersi con quelli di origine locale, magari proprio per ridurre anche atteggiamenti di discriminazione o comunque di diffidenza da parte dei consumatori locali.
Oggidì quando si pensa al concetto di paesaggio etnico, spesso ci si figura ampi spazi cittadini, per lo più centrali, connotati dalle diverse e variopinte attività imprenditoriali degli immigrati. Particolarmente interessanti sono gli spazi dedicati alla vendita e/o consumazione di cibo etnico, che rappresenta l’occasione per la comunità straniera di riprodurre in parte spazi e consumi, quindi abitudini e stili di vita (si pensi ai supermercati con zone specializzate, ma anche alle botteghe che trattano quello che per i residenti è cibo esotico in via esclusiva) che appartengono al proprio Paese di origine; ma allo stesso tempo, ciò costituisce anche per la comunità autoctona, un’opportunità per avvicinarsi a questo altrove in casa propria e cominciare o approfondire la conoscenza dell’altro anche attraverso queste peculiari forme “conviviali”. Ma tali fenomenologie conviviali sono anche manifestazioni culturali o meglio espressioni di interazione culturale, che si esplica tra culture diverse (immigrata ed autoctona) e ha impatto sugli spazi, sulla loro destinazione funzionale ed evoluzione. Su questi temi fa capolino la geografia culturale, che tanti punti di contatto presenta con l’antropologia culturale e nuovamente con la sociologia.
Più immediatamente collegato agli aspetti culturali è poi lo spazio religioso e gli immigrati si inseriscono nel paesaggio (urbano e non), spesso in modo non necessariamente vistoso, anche attraverso i loro luoghi di culto. Si ricordi in merito a ciò, ad esempio, la recente polemica svizzera contro i minareti delle moschee islamiche, tacciati come elementi che vanno contro la tutela del paesaggio tradizionale (quindi culturale) nazionale; quello stesso paesaggio che l’Unione Europea ha voluto ufficialmente tutelare in quanto “intrinsecamente meritevole di tutela” con un’apposita Convenzione Europea del Paesaggio. Si comprende, quindi, quanto complessi siano sia i temi da affrontare, sia le interdipendenze interne alla nostra disciplina come interdisciplinari, ma anche concetti quali quello di paesaggio, così
14 È successo di recente a Roma, dove una disposizione amministrativa ha vietato l’insediamento di attività diverse da quelle tradizionali in aree centrali considerate di pregio per contrastare la diffusione dei magazzini all’ingrosso cinesi.
Francesca Krasna
centrale a tutte le discipline di cui si parla in questo contesto e con valenze e sfumature, a volte diverse, ma sempre pregne di significati, come di problemi e interrogativi. Così il senso della conservazione del paesaggio può spingersi fino a cristallizzarlo nelle sue forme passate? Fino a che punto si può parlare di esigenze di conservazione della tradizione versus il cambiamento ovvero il nuovo che avanza? Come si concilia tutto ciò con il principio dell’esigenza di tutelare la biodiversità culturale e l’interculturalità, sempre che si intenda tutelare o promuovere questi aspetti? Alla fine questi interrogativi ci riconducono alla domanda di base: quale società vogliamo in futuro? Deciso questo, anche i conflitti, apparenti o sostanziali, sull’uso e l’appropriazione anche simbolica degli spazi (e spaziale dei simboli15) non diventano certo più agevoli da definire, ma almeno chi risulta investito dell’autorità e della responsabilità di decidere in merito, saprebbe in quale direzione muoversi ovvero in quale cornice di riferimento inserire le misure da adottare. Un’altra forma di trasformazione dell’uso “sociale” degli spazi, indotta dai processi migratori si verifica quando le persone utilizzano i luoghi per incontrarsi tra appartenenti ad un medesimo gruppo sociale, identificato per etnia, lingua, Paese o area culturale d’origine, al fine di socializzare e ricreare spazi di socializzazione, che possano in qualche modo ascriversi alla cultura di origine. Talvolta succede anche che tali luoghi di ritrovo siano in realtà subordinati allo svolgimento di una qualche attività lavorativa; è il caso della piazza Garibaldi a Trieste, da molti anni luogo di ritrovo per le maestranze dei lavori edili, tradizionalmente per lo più di nazionalità serba (oggi più eterogenee) che proprio qui vengono arruolati dai “caporali” per lavori giornalieri o comunque stagionali, spesso in condizioni di irregolarità. Si può ricordare poi il caso delle badanti ucraine, che ormai si ritrovano in molte piazze d’Italia (Genova, Mantova, ecc.) la domenica per celebrare, assieme alla messa, la ricostruzione almeno “virtuale” di uno spazio di incontro, che è evocazione di un altrove lontano, per loro sinonimo di casa, famiglia, sicurezza e conforto.
Quando si parla delle attività lavorative svolte dagli immigrati – spesso identificabili con le 5 P, cioè precari, pericolosi, poco pagati, pesanti, penalizzati (Stalker, 2003) – sia nelle città che nelle campagne, ritornano i temi dello sfruttamento, della schiavitù moderna, della sicurezza sul lavoro (che diventa ancora
15 Si pensi alle diatribe in merito all’opportunità di collocare (mantenere) o meno il crocifisso nelle aule scolastiche italiane e in altri ambienti pubblici o istituzionali, che in fondo si riduce all’interrogativo se tale oggetto si debba intendere come il simbolo di un credo religioso prevalente su tutti gli altri (effettivi o potenziali) o se rappresenti piuttosto il simbolo di una cultura, non solo e non necessariamente nelle sue manifestazioni religiose. Il quesito sembra semplice, ma la questione non lo è. Nel primo caso ci si deve interrogare su quale tipo di società si vuole essere: una in cui prevale un credo religioso, anche per motivi storici, una in cui tutte le fedi stanno sullo stesso piano o una laica? Nel secondo caso, se cioè il crocifisso sia un simbolo culturale, le implicazioni sono così vaste e articolate che qui non si ravvede né lo spazio né l’opportunità di approfondirle.
più grave quando il lavoro è irregolare e in nero), tutti temi da sempre cari alla geografia sociale, che si interessa dei deboli e degli emarginati.
Un altro punto di convergenza tra i mille temi cari alla geografia sociale e i fenomeni dell’immigrazione straniera intercetta un altro filone particolarmente sensibile della geografia umana, quello della geografia di genere. Ormai questo approccio risulta trasversale a diverse altre discipline e si sta diffondendo in ambiti molto diversi tra loro (dalle discriminazioni sui posti di lavoro, sia come prestigio che come remunerazione, ai dispositivi di sicurezza per i viaggiatori in automobile, al tema delle violenze domestiche sulle donne, ecc.). In effetti appare lecito domandarsi se quello di genere, più che un approccio comune a molte discipline, non rappresenti invece la sorgente di una nuova “scienza della differenza”, che trova poi applicazione e aree di incursione in molti altri settori del sapere umano, tra cui quello geografico16 .
4. concLusioni
Lo spazio a disposizione non consente di proseguire con gli innumerevoli esempi che ancora si potrebbero fare in merito allo stretto rapporto che intercorre tra geografia sociale e processi migratori. Molti aspetti e riflessioni restano pertanto sospesi o silenti. D’altra parte lo scopo di questa trattazione non è certo quello di esaurire il tema in oggetto in queste poche pagine. Piuttosto ci si è proposti di sollevare alcuni interrogativi, attraverso degli accenni, una sorta di pennellate di un quadro ben più strutturato e complesso. In particolare, è piaciuto ricordare come la geografia delle migrazioni resti un campo di forte appeal per la geografia sociale, pur non rappresentandone un tema esclusivo. Si è più volte sottolineato come quest’ultima si caratterizzi soprattutto per il suo interrogarsi sulla propria identità e quindi per un anelito ad una continua revisione e autocritica. Questo processo si traduce in uno sforzo creativo continuamente diretto all’elaborazione di nuovi approcci teorici e metodologici. Il tema delle migrazioni, soprattutto quelle contemporanee internazionali, offre certamente molte possibilità in questo campo. Si tratta, infatti, di un fenomeno dinamico e complesso, spesso sottovalutato o letto comunque in modo piatto e semplicistico, ma solo da chi non si sia preso la briga di studiarlo a fondo con oggettività. Proprio per questo suo evolversi di continuo, assumendo connotati sempre nuovi, esso si presta in modo particolarmente congeniale alle aspirazioni della geografia sociale, che può qui ritrovare molti dei suoi temi più importanti e tradizionali, ma anche applicare le sue varie metodologie e soprattutto “inven-
16 Molti sono i geografi e soprattutto le geografe che si sono accostate alle problematiche di genere (Arena, Brunetta, Cortesi, Gentileschi, Cristaldi, Marengo, Bianchetti, ecc.) ed è davvero difficile ricordarle tutte.
Francesca Krasna
tarne” e sperimentarne di nuove. Si tratta anche di un’occasione per la geografia sociale di superare i complessi da sorella minore (e meno fortunata) rispetto alle altre articolazioni della geografia umana. La sua volontà e capacità di offrire un’interpretazione originale e utile della realtà, autonoma rispetto ad altri settori, non deve farle perdere l’occasione di dialogare anche con le altre geografie, senza il timore di perdere la propria identità. L’innovazione metodologica si realizza, infatti, anche attraverso l’impiego di strumenti concettuali e metodi preesistenti, organizzati in modo diverso dal passato e fusi con le nuove direttrici di sviluppo teorico, attente al continuo divenire della realtà.
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Geografia sociale e spazi urbani: produzione, esclusione e pratiche
Stefano Malatesta*, Marcella Schmidt di Friedberg*
1. introduzione1
Riflettere sulle modalità attraverso le quali i gruppi sociali percepiscono, agiscono, organizzano e si appropriano degli spazi urbani implica tenere in considerazione un ampissimo spettro di riferimenti teorici, anche limitando la lettura agli autori più influenti dalla seconda metà del Novecento a oggi; d’altronde, come scrive Edward W. Soja, mai come nel pensiero contemporaneo gli studi urbani sono stati così «robust [and] expansive in the number of subject areas»2 (2000, p. XII). Non solo, presuppone anche la necessità di leggere queste azioni a varie scale e su piani interpretativi spesso molto divergenti. Nel primo caso, ad esempio, le relazioni sociali possono essere osservate e studiate in diversi contesti spaziali: gli ambiti domestici e lavorativi, i luoghi pubblici come le piazze e le strade, il quartiere oppure la scala assai più estesa delle regioni urbane. Nel secondo caso, si pensi, invece, alla possibilità di analizzare le relazioni tra gruppi sociali e spazi urbani concentrandosi sulla sfera collettiva o piuttosto sulle dinamiche di
* Università di Milano Bicocca.
1 Si è deciso di inserire in nota le traduzioni in lingua italiana, a cura degli autori, delle citazioni dai testi originali.
2 «fiorenti [e] caratterizzati da un ampio numero di ambiti di studio».
Stefano Malatesta, Marcella Schmidt di Friedberg
tipo soggettivo e individuale. Ognuna di queste scelte comporta punti di osservazione, finalità di ricerca e strumenti di analisi assai differenti.
Per queste ragioni è stato deciso di dichiarare in apertura il riferimento dal quale trae spunto il presente lavoro, ovvero la ricognizione puntale e approfondita che Daniela Lombardi ha sviluppato nel manuale da lei curato Percorsi di geografia sociale (2006). Nel testo non solo sono messi a sistema gli sviluppi che la geografia sociale ha conosciuto negli ultimi decenni in diversi contesti nazionali (in Germania, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia), ma viene dedicato ampio spazio anche alla riflessione su come alcuni termini chiave del pensiero geografico contemporaneo abbiano avuto una valenza fondamentale per questo sviluppo. Tra gli altri due hanno segnato – dalla geografia radicale fino al pensiero postmoderno – in modo rilevante questa evoluzione, soprattutto se si concentra l’attenzione sullo studio dello spazio sociale nei contesti urbani: la «produzione dello spazio» e le «pratiche spaziali».
Un’ulteriore premessa si rende necessaria prima di articolare l’analisi dello spazio sociale urbano in termini di produzione e di pratica, ovvero l’affermazione che lo spazio urbano è spazio sociale per eccellenza: contesto nel quale, come si dichiarava in apertura, i gruppi sociali percepiscono, agiscono, organizzano, si appropriano e producono luoghi.
2. produzione
All’interno della cornice del pensiero marxista della seconda metà del Novecento alcuni autori si sono dedicati all’indagine dei meccanismi che hanno governato la produzione dello spazio nella città novecentesca; anche se andrebbe fatto notare, come ci ricordava Vagaggini (1978), che la città non ha occupato una posizione centrale nelle riflessioni originarie di Marx. Tra questi autori Manuel Castells, Armand Frémont e Henri Lefebvre sono riconoscibili per il peso specifico apportato all’affermazione della produzione spaziale come categoria interpretativa della geografia urbana contemporanea. Castells (1974) chiarisce la centralità del concetto di produzione spaziale in città quando legge le relazioni tra i gruppi sociali3 in rapporto alle condizioni materiali, aggiungiamo noi fisiche, organizzative e infrastrutturali, che le favoriscono. Al centro viene posta la natura materiale della produzione, riferendosi dunque alla «costruzione» e alla generazione di forme urbane, quali monumenti,
3 Va chiarito, come ci ricorda Daniela Lombardi (2006), che l’espressione «gruppo sociale» entra a far parte del lessico della geografia grazie ai lavori degli autori riconducibili alla Scuola di Monaco (Maier et al. 1980) che pensavano agli individui non come attori autonomi nello spazio sociale, ma come soggetti inseriti in determinati gruppi la cui funzione, composizione e tipologia contribuiscono a influenzare l’azione dei singoli.
Geografia sociale e spazi urbani: produzione, esclusione e pratiche 97
piazze, strade, luoghi pubblici, che agiscono direttamente sull’accessibilità, sulle limitazioni e sui meccanismi di appropriazione dello spazio da parte dei differenti gruppi sociali, all’interno di un quadro di riferimento ben esemplificato in questo passaggio: «space is not a ‘reflection on society’ it is society…Therefore spatial forms will be produced by human action. They will express and perform the interests of the dominant class»4 (Castells, 1983, p. 4). Lefebvre (1974, 1976), ampliando questa prospettiva, lega la produzione spaziale alle relazioni tra gli attori sociali, infatti nella sua visione gli spazi urbani si «concretizzano» nei rapporti tra gli attori e i gruppi sociali e non possono essere letti al di fuori di tali legami. Al di là del piano materiale individuato da Castells, nel pensiero di Lefebvre i meccanismi che governano la produzione spaziale in città vengono concepiti sia come «rappresentazione dello spazio», se si pensa ad esempio alla monumentalità di alcune forme urbane, sia come «spazi di rappresentazione» ovvero come ambiti nei quali tali rappresentazioni hanno luogo. Secondo questa lettura, in particolare nei contesti urbani, l’elemento più rilevante è l’individuazione delle strategie per mezzo delle quali alcuni attori producono forme urbane ma anche elementi immateriali – che fungono da meccanismi di controllo per governare l’accessibilità o l’esclusione dei gruppi sociali. Infatti è chiaro che, come ci ricordano Ugo Rossi e Alberto Vanolo (2010), «con l’espressione ‘spazio’ Lefebvre non si riferisse soltanto allo spazio materiale, quello dell’ambiente costruito ma anche a una sua dimensione metaforica, immateriale e programmatica [e che dunque] il processo di produzione dello spazio urbano implica non solo la costruzione delle strutture materiali della città, bensì anche la generazione di più ampie e multidimensionali relazioni socio-spaziali» (p. 150). Particolarmente attuale appare, infine, l’idea di Frémont di affiancare alla rappresentazione una categoria che meglio definisce il rapporto tra i soggetti e lo spazio urbano controllato da questi meccanismi di esclusione, ovvero lo «spazio alienazione» che spiegherebbe, nelle sue parole, come «l’accessibilità allo spazio si gerarchizza in funzione delle possibilità materiali ed intellettuali di cui dispongono le classi sociali» (Frémont, 1978b, p. 176). Andrebbe fatto notare che Frémont utilizza una chiave di lettura che si discosta in un certo modo dalla critica mossa diversi decenni prima da Lewis Mumford che descrive la città contemporanea come un sistema in grado di generare impersonalità e alienazione tra i suoi abitanti, riducendoli, in questo modo, a individui a-sociali (Mumford, 1938; Amin e Thirft, 2005).
Al di là dell’inquadramento di queste riflessioni all’interno della dialettica marxista, e dunque al di là della primaria attenzione alla produzione dello spazio come generatore di contrapposizioni tra le classi sociali, emerge come alcuni nodi particolarmente rilevanti nella riflessione contemporanea sulla geografia urbana
4 «lo spazio non è una ‘riflessione sulla società è la società stessa…Quindi le forme spaziali saranno prodotte dalle azioni umane, esprimeranno e rappresenteranno gli interessi della classe dominante».
Stefano Malatesta, Marcella Schmidt di Friedberg
siano riscontrabili già negli scritti di questi autori. In particolare Lefebvre affianca al binomio «rappresentazione spaziale – spazi della rappresentazione» una riflessione in nuce sui meccanismi di confronto o conflitto che legano la produzione degli spazi urbani e le pratiche dei residenti, dei lavoratori, ma anche di altri tipi di fruitori che a vario titolo in città si muovono, agiscono e vivono. Tale piano d’analisi viene posto al centro della discussione della geografia sociale contemporanea da alcuni autori, tra i quali ricordiamo Rachel Pain e Ruth Panelli, che, pur inquadrabili all’interno della geografia post-moderna con chiari richiami al pensiero post-strutturalista, per loro stessa ammissione (Pain, 2001; Panelli, 2004) si sono dichiarate debitrici della prospettiva marxista e della geografia radicale degli anni Settanta e, per quanto riguarda nello specifico la geografia urbana, degli studi di Castells, Lefebvre, nonché di David Harvey (1973).
Sempre all’interno della riflessione postmoderna sugli spazi urbani, va richiamato, in questo senso, innanzitutto il lavoro di Soja (2000) che apre la trattazione del quadro teorico sul quale si fonda la sua analisi delle «post-metropoli» sull’assunto che i processi di produzione spaziale e di «making geographies» si originano sia dall’azione dei soggetti, sia dalle relazioni sociali, «on the one hand, our actions and thoughts shape the space around us, but at the same time the larger collectively or socially produced spaces and places within which we live also shape our actions and thoughts»5 (p. 6).
Il richiamo a Pain e Panelli è legato alla loro capacità di attualizzare questi riferimenti, all’enfasi posta dalle due autrici sui processi di esclusione di alcuni gruppi sociali in ambito urbano, nonché alla chiara definizione da loro fornita degli ambiti di competenza della geografia sociale rispetto a questi temi: «social geography is concerned with the ways in which social relations, social identities and social inequalities are produced, their spatial variation, and the role of space in constructing them»6 (Pain, 2001, p. 1). In questa definizione vengono identificati i termini necessari per impostare una riflessione sul legame tra produzione dello spazio e meccanismi di esclusione in ambito urbano. Dunque la dialettica marxista viene in qualche modo ricomposta puntando l’attenzione non tanto su come la produzione dello spazio generi contrapposizione tra le classi sociali, quanto piuttosto
5 «da un lato le nostre azioni e i nostri pensieri danno forma allo spazio che ci circonda, ma allo stesso tempo anche gli spazi e i luoghi prodotti collettivamente e socialmente, all’interno dei quali noi viviamo, danno forma alle nostre azioni e ai nostri pensieri».
6 «la geografia sociale si occupa di come vengono prodotte le relazioni sociali, le identità sociali e le disuguaglianze sociali, delle loro forme in funzione dello spazio e del ruolo che lo spazio ha nella loro costruzione».
Geografia sociale e spazi urbani: produzione, esclusione e pratiche 99
sull’influenza che esercita su ogni tipo di relazione che si attiva tra i gruppi e tra gli individui nello spazio. Fermo restando che l’attenzione principale debba essere mantenuta su come tali relazioni siano spazialmente determinate e prodotte.
Questa ridiscussione regge, all’interno del loro impianto teorico, soprattutto grazie all’attenzione a una categoria utile all’interpretazione delle relazioni tra i gruppi sociali in ambito urbano, ovvero la «differenza» che nelle scienze politiche era stata introdotta un decennio prima da Iris M. Young (1990) e, in geografia, era stata discussa anche da David Harvey (1996). Il richiamo alla «differenza» nell’ambito della geografia sociale consente di pensare innanzitutto alle relazioni che i singoli individui, con i loro background educativi e culturali, con le loro limitazioni e possibilità economiche, con i loro legami emotivi, identitari e esperienziali, attivano con gli spazi urbani. Pain e Panelli usano il termine «geografie sociali» dando legittimità, in questo modo, a quello sguardo plurale cui si faceva riferimento in apertura. Secondo Panelli (2004) affrontare la tematica delle relazioni sociali in città equivale a tenere in considerazione la centralità degli spazi quotidiani, ovvero gli spazi delle relazioni sociali per eccellenza: i luoghi della quotidianità, gli spazi domestici, i luoghi di lavoro e di incontro. Dunque implica fare i conti con i diversi utilizzi, le diverse produzioni e i diversi significati che i gruppi sociali e gli individui singoli attribuiscono a tali luoghi e esperienze, oltre che, ancora una volta, con i limiti e le condizioni diverse di accessibilità imposte ai gruppi sociali a seconda delle differenze di etnia, classe e genere, alle quali Pain aggiunge quella di età e abilità fisica (Pain, 2001). Per queste autrici riconoscere la centralità della differenza come categoria interpretativa delle relazioni sociali equivale a legittimare un doppio oggetto di ricerca nella geografia sociale urbana. L’attenzione ai gruppi sociali da una parte come produttori di geografie personali (Lorimer, 2005) e dall’altra parte come soggetti che subiscono tale differenza nelle loro relazioni quotidiane con lo spazio urbano. In altre parole, «essere nella città non significa affermare diritti astratti o un’ideale essenziale che trascende [razza], genere e sesso» (Amin e Thrift, 2005, p. 197). Inoltre, nuovamente, ricorre la possibilità di osservare i fenomeni sociali in ambito urbano a diverse scale e non solo a quella delle rappresentazione del potere nelle forme urbane o a quella dei conflitti tra i gruppi sociali a scala macrourbana, infatti «the starting point for social geography is everyday experience, and therefore analysis is usually of events and phenomena at a local scale – the neighbourhood, the home, the local park and the body»7 (Pain, 2001, p. 3).
Questa scala di osservazione è ripresa da Pain in misura specifica in relazione all’attenzione ai meccanismi, non solo materiali ma – dato l’inquadramento teorico dell’autrice – soprattutto discorsivi che escludono gli anziani e i bambini dal
7 «il punto di partenza per lo studio della geografia sociale è l’esperienza quotidiana, dunque, solitamente, le sue analisi si concentrano su eventi e fenomeni a scala locale – il quartiere, la casa, i giardini pubblici e il corpo».
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Stefano Malatesta, Marcella Schmidt di Friedberg
pieno utilizzo degli spazi urbani. Queste categorie sono infatti percepite, narrate e rappresentate nel discorso pubblico sulla cittadinanza come gruppi sociali difficili da controllare e da inquadrare in relazione alle diverse esperienze che si possono sperimentare in ambito urbano: la mobilità, l’accessibilità agli spazi pubblici e soprattutto la partecipazione alla vita politica.
Nella geografia contemporanea il tema della relazione tra infanzia e spazio urbano, a differenza di quello riguardante l’anzianità, ha conosciuto una discreta fortuna. Soprattutto in linea con la prospettiva, mutuata dalla Childhood Sociology (James, Jenks e Prout, 2002; Jenks, 2005) e dai lavori sui luoghi di vita dei bambini in città di Colin Ward (1978), ben riassunta da Allison James e Allan Prout (1990). I due autori definiscono l’infanzia come una costruzione sociale distinta dalla condizione di «immaturità biologica», negandole, in questo modo, qualunque attributo universale o naturale e descrivendola come una componente strutturale delle diverse società umane. L’infanzia, nella loro analisi, assurge al ruolo di variabile sociale, al pari del genere o della classe, divenendo, in questo modo, una chiave fondamentale per la lettura – ad esempio – del rapporto tra spazio e società. Questi studi si rivolgono, primariamente, ai «bambini sociali» (Aitken, 2001) ovvero al rapporto tra questi soggetti e l’ambiente, considerando l’infanzia come una «variabile» nelle società contemporanee e non come una categoria accessoria e neutra rispetto all’indagine delle relazioni sociali. L’assunto basilare risiede nella critica al limite nel quale cadono gli studi sui bambini e le bambine nelle scienze sociali, efficacemente riassunto – tra i sociologi – da Chris Jenks con il termine «gerontocentrismo» (Jenks, 2005) e – tra i geografi – da Gill Valentine con l’espressione «meno-che-adulti» (Valentine, 2004), ovvero la tendenza a pensare l’infanzia come una condizione «in divenire», in transizione verso l’età adulta, verso la condizione di pieno esercizio della cittadinanza, e non in quanto variabile attiva della società contemporanea. Infatti «childhood is spoken about as: a ‘becoming’; tabula rasa; laying down the foundations; shaping the individual; […] growing up; preparation; inadequacy; inexperience; immaturity and so on. Such metaphoricity all speaks of an essential and magnetic relation to an un-explicated, but nevertheless firmly established, rational adult world»8 (Jenks, 2005, p. 8). Si tratta di una critica particolarmente interessante dal punto di vista degli studi geografici, infatti tale limite esercita una profonda influenza anche sulla definizione degli spazi pubblici in termini di progettazione, di accessibilità e di appropriazione, soprattutto se si pensa che questi continuano ad essere pensati come ambiti di esclusione per i «non-adulti»9. Questa concezione rafforza la visione della relazio-
8 «infatti, abitualmente l’infanzia viene associata alle seguenti espressioni: ‘in divenire’; tabula rasa; gettare le basi; formare l’individuo; […]; crescere; prepararsi; inadeguatezza; inesperienza; immaturità e così via. Metafore di questo tipo fanno tutte riferimento a una relazione essenziale e magnetica con il mondo adulto, mai esplicitato anche se riconosciuto chiaramente».
9 Così come per i «più-che-adulti» e per i portatori di disabilità.
Geografia sociale e spazi urbani: produzione, esclusione e pratiche 101
ne tra spazio urbano e infanzia come una dimensione da sottoporre al controllo delle istituzioni e degli adulti, ovvero degli unici attori legittimati ad agire nella arena pubblica. Non a caso il rapporto tra la sfera privata, materializzata dalla casa, dalla scuola o da altri luoghi frequentati quotidianamente, e la città è, per molti geografi che si rifanno alla Children’s Geography, uno degli ambiti spaziali di studio più fecondi per l’elaborazione di una riflessione critica sul tema (Horton e Kraftl, 2006). In anni recenti la città infatti ha rappresentato il campo di sperimentazione che ha permesso di integrare e completare l’impianto metodologico della geografia sociale, ma anche della Non-Representational Theory (Lorimer, 2005; Thrift, 2008), all’interno delle ricerche sulle relazioni tra lo spazio e differenza. In altri termini di connettere gli studi sulla percezione e la rappresentazione con quelli rivolti all’azione di questi soggetti socio-spaziali. Questo scarto è avvenuto soprattutto grazie all’analisi delle pratiche attivate negli spazi prossimali come i giardini o i cortili (Lorimer, 2005) e all’attenzione alle differenze di genere e di abilità fisica. In questo solco Pain (2001) individua con chiarezza tre linee di lavoro principali per la geografia sociale in ambito urbano: il controllo parentale sulla vita dei bambini come cittadini; la differenza come categoria che definisce le possibilità di accesso agli spazi urbani; la definizione di una metodologia di ricerca orientata alla partecipazione dei bambini e delle bambine alla vita urbana10 . Dunque esclusione e differenza sono termini fondativi nella riflessione sulle relazioni tra spazio urbano e gruppi sociali, con un duplice accento sia sulla produzione di oggetti, forme, norme e discorsi che alimentano tali differenze, sia sull’esperienza della differenza e dell’esclusione da parte dei gruppi sociali. Siamo in presenza di un binomio centrale delle geografia sociale contemporanea se si pensa ai luoghi urbani come oggetti prodotti e vissuti da gruppi, da comunità e da specifiche categorie che spesso sono pensate come «diverse» rispetto ad una normalità associata con gli adulti, gli eterosessuali e i «normodotati». Come chiarito, nella geografia contemporanea, soprattutto grazie al contributo degli autori citati, è dunque fondamentale il ruolo che la differenza esercita rispetto ai meccanismi di esclusione e inclusione nell’esercizio della cittadinanza e delle piene possibilità praticabili dagli individui come attori socio-spaziali.
4. pratiche
L’affermazione della differenza come categoria interpretativa delle relazioni sociali in ambito urbano non solo permette di leggere la produzione dello spazio in funzione della creazione di meccanismi di esclusione dei gruppi non inqua-
10 Rispetto a questo ultimo aspetto si consiglia la lettura di Francis, 1988 e Francis e Lorenzo, 2002 (op. cit.).
Stefano Malatesta, Marcella Schmidt di Friedberg
drabili nella norma, consente anche di comprendere come i soggetti esclusi, a loro volta, siano produttori di luoghi all’interno dello spazio urbano, proprio in funzione della loro estraneità alla norma. Ciò che intessa maggiormente la geografia sociale in questo caso non è tuttavia il piano della produzione soggettiva né dell’esperienza privata di questi spazi, come nella prospettiva assai cara a Frémont (1978a, 1978b), quanto piuttosto, come già ricordato da Pain (2001), dai modi secondo i quali le relazioni sociali sono costruite, nonché dal ruolo dello spazio in questa costruzione: dunque da come i luoghi siano vissuti, costruiti e dotati di senso a seconda delle relazioni che si attivano tra i diversi gruppi sociali. Oltre la dialettica di Lefebvre e Castells, nella geografia sociale contemporanea si parla pertanto di produzione spaziale come risultato anche delle pratiche messe in atto dai gruppi degli esclusi visti non più unicamente come oggetti delle strategie di produzione dello spazio imposte dai gruppi dominanti, ma in quanto generatori essi stessi di luoghi all’interno del paesaggio urbano contemporaneo. Ad esempio, nella loro analisi dei meccanismi di segregazione messi in atto dalla globalizzazione nello spazio urbano contemporaneo, Peter Marcuse e Ronald van Kempen (2000) ricordano come tali separazioni e concentrazioni siano strettamente connesse, se non addirittura il risultato delle intenzioni, delle azioni e delle dotazioni di senso ai luoghi da parte degli individui e dei gruppi sociali.
A tal proposito, l’eredità di Lefebvre non perde di valore né viene superata, soprattutto se si tiene in considerazione il suo richiamo alla necessità di una visione critica dello spazio sociale, ovvero di una teoria in grado di unire la sua pratica e le sue rappresentazioni (Vagaggini, 1978), viene però integrata da una nuova attenzione ai gruppi sociali come soggetti attivi nella produzione e nella dotazione di significato ai luoghi e in particolare allo spazio pubblico in città. D’altronde lo stesso Lefebvre definiva la città ideale come «una continua opera degli abitanti» (1996, p. 173).
Uno dei contesti «visibili» nei quali tali pratiche e rappresentazioni si concretizzano, ovvero lo spazio pubblico, diventa un oggetto nodale nella riflessione contemporanea. Per il geografo francese Vincent Berdoulay (1997) lo spazio pubblico diventa oggi l’obiettivo, la domanda e il bisogno sulla quale deve agire la società contemporanea. Nella sua riflessione il pensiero e la produzione di spazio in città dovrebbero coincidere con la costruzione di luoghi pubblici e aperti, aggiungiamo noi, per il dibattito, l’azione, il movimento e la vita democratica dei cittadini a prescindere dalle differenze. In altre parole, luoghi che favoriscano l’interazione sociale. Secondo Ash Amin e Nigel Thrift (2005), all’interno della loro riflessione sulle condizioni che favoriscono la cittadinanza attiva e la partecipazione politica, da una parte lo spazio pubblico è stata una costante della storia dello sviluppo urbano durante tutto Novecento, nonché dell’agenda dei pianificatori e dei decisori politici, e dall’altra nella contemporaneità si avverte una crescente richiesta da parte dei gruppi sociali nei confronti della creazione, dell’esperienza e dell’appropriazione di luoghi idonei alla vita pubblica in città.
Geografia sociale e spazi urbani: produzione, esclusione e pratiche 103
Tuttavia, allo stesso tempo gli autori mettono in guardia chi associa automaticamente la presenza di luoghi pubblici come condizione sufficiente allo sviluppo delle relazioni sociali e dunque, in termini geografici, alla produzione sociale di spazi in città. Infatti, secondo gli autori, va tenuta sempre in considerazione la distinzione tra spazio pubblico – nella sua materializzazione in città sotto forma di piazze, luoghi d’incontro, aree pedonali – e sfera pubblica che coincide, invece, con la possibilità che i gruppi sociali extra-norma hanno di incidere realmente nella produzione spaziale e nell’esercizio della cittadinanza.
Questa prospettiva riapre una questione relativa ai temi e agli strumenti con i quali la geografia sociale (ancora una volta ci rifacciamo a Percorsi di geografia sociale) si è misurata a varie riprese: ovvero la difficoltà per la disciplina di studiare le relazioni tra individui e spazio urbano non solo nei termini di produzione soggettiva di senso o di condizionamento e coercizione imposti da un gruppo all’altro, ma anche nei termini di interazione tra gruppi sociali e spazio pubblico. Infatti, come si è visto, da una parte esiste una lunga tradizione (da Castells, Harvey, Lefebvre in avanti) che ha ragionato sui meccanismi attraverso i quali il potere produce forme materiali e normative che generano esclusione; dall’altra nel solco della geografia del comportamento e di Frémont, ma anche in una certa misura all’interno della Scuola di Monaco, a lungo si è ragionato sulle percezioni e le pratiche che i soggetti attivano nelle loro relazioni con lo spazio urbano, anche quando viene letto come spazio pubblico e sociale. In questo senso già Vagaggini (1978) sottolineava questa duplice vocazione della geografia, auspicando una via che aiutasse a pensare lo studio dello spazio sociale in termini sia di percezione soggettiva, sia di produzione.
Una traccia possibile di ricerca, in questa direzione, potrebbe ritrovarsi nello studio dei luoghi e delle pratiche nei quali – e attraverso i quali – si concretizza la partecipazione alla vita sociale e politica della città da parte dei gruppi esclusi, come ci illustrano Amin e Thrift (2005), con un’accezione differente, Rossi e Vanolo (2010) e alcuni contributi recenti della Children’s Geography. Infatti la geografia sociale, nella sua lettura dei modi «in which social relations, social identities and social inequalities are produced, their spatial variation, and the role of space in constructing them»11 (Pain, 2001, p. 3) può assolvere al compito di mappare e discutere questi luoghi e tali pratiche. I primi, d’altronde, spesso coincidono con gli spazi quotidiani della partecipazione e della vita sociale e politica, in accordo con una visione che definisce «le città, spazi ricchi di istituzioni, associazioni, luoghi pubblici e vitalità sociale [che] sono i luoghi di partecipazione quotidiana, di mescolanza con gli altri e di confronto quotidiano fra il privato e il pubblico, fra il cittadino e il potere istituzionale» (Amin e Thrift, 2005, p. 183).
11 Si legga la nota 6.
Stefano Malatesta, Marcella Schmidt di Friedberg
Lo studio di questi luoghi è una via per cercare di ricomporre le diverse dialettiche discusse in questo contributo. Tale ricomposizione passa attraverso l’analisi di tre piani fondamentali: la riconoscibilità politica e sociale dei gruppi «esclusi», che naturalmente non si riduce nella mera visibilità, ma che, tuttavia, da tale visibilità non può prescindere; l’ingresso della soggettività nella sfera politica; l’azione diretta dei gruppi sulle forme e sulle immagini degli spazi urbani. Per osservare questi fenomeni occorre da una parte, come ci ricordano ancora Amin e Thrift (2005), dissociarsi dalla visione delle città come spazi sociali, politici e culturali monolitici e omogenei, dall’altra, come discusso da Marcuse e van Kempen (2000), riconoscere che le barriere e i confini nello spazio urbano possono presentarsi in forma fisica, ma anche sociale e relazionale. Queste premesse aprono la strada alla lettura delle molte forme materiali e relazionali che la produzione dello spazio può assumere in città, a seconda dei legami che si attivano tra i diversi gruppi sociali. Una delle tematiche più interessanti per la geografia contemporanea, ancora una volta sulla scorta della lettura radicale di Harvey (1973, 1996), si riferisce all’analisi dei luoghi nei quali i gruppi sociali attivano meccanismi di rivendicazione di una maggiore partecipazione e giustizia sociale, o meglio all’attenzione alle implicazioni spaziali che riguardano tali meccanismi. Secondo Rossi e Vanolo, infatti, la città è uno spazio dei molteplici luoghi nei quali una maggiore partecipazione dei gruppi «eclusi» può essere discussa e assumere forme che incidono sulla geografia della città. In un certo senso l’attenzione a questi meccanismi richiama la celebre riflessione di Lefebvre (1970) sul «diritto alla città» come base ineludibile per una giustizia sociale che rivendica l’attribuzione «agli abitanti di una voce in capitolo sulle decisioni più rilevanti che riguardano la produzione degli spazi urbani» (Rossi e Vanolo, 2010, p. 151). Dal punto di vista della geografia sociale l’aspetto più interessante riguarda lo studio dei legami tra i luoghi, le relazioni sociali e le pratiche attraverso le quali queste azioni vengono messe in atto in città, ricordando che, come è stato discusso in precedenza, «ciò che motiva questi gruppi a rivendicare la propria presenza nella sfera pubblica è la percezione di una condizione di svantaggio e discriminazione rispetto al resto della società […] le città giocano un ruolo cruciale, non soltanto come siti dove vengono a organizzarsi istanze di riconoscimento destinate ai poteri costituiti, ma anche come spazi che ispirano la messa in discussione di appartenenze di gruppo che si pretende cristallizzate […] come quelle etniche, religiose, di genere o di preferenza sessuale» (ivi, p. 173).
Nuovamente l’elemento principale è l’affermazione della differenza attraverso l’espressione, l’azione diretta e la dotazione di senso ai luoghi. Una possibile mappa di queste pratiche ha come punti nodali: l’esercizio della cittadinanza attiva ad esempio rispetto a tematiche chiave per la vita in città come il diritto alla casa o la qualità ambientale; i processi e gli eventi attraverso i quali i luoghi urbani acquisiscono una nuova connotazione e una nuova immagine; l’occupazione o il cambiamento d’uso dello spazio pubblico; il ruolo delle associazioni e dei gruppi di cittadini nelle istanze politiche a scala locale e di quartiere, si pensi
Geografia sociale e spazi urbani: produzione, esclusione e pratiche 105
al peso che le pratiche attivate da questi attori hanno ad esempio sulla mobilità; il valore politico e culturale delle lingue che si usano nella comunicazione quotidiana, nelle iniziative culturali, nelle scuole di quartiere, negli esercizi commerciali ma anche nella toponomastica delle città.
Rispetto a queste tematiche Rossi e Vanolo ricordano come gli spazi urbani non sono solo un laboratorio dove osservare queste pratiche, ma anche l’ambito spaziale nel quale effettivamente i gruppi «esclusi» nella città contemporanea si riconosco, e producono luoghi dove agire e costruire nuove relazioni sociospaziali. Evidentemente in città l’attivazione di tali meccanismi trova un terreno più fertile rispetto a quanto accade ad altre scale (locali, sovra-locali, nazionali o sovra-nazionali) che non garantiscono le stesse possibilità di esercitare un ruolo sociale e politico in quanto produttori e creatori di senso ai luoghi.
La discussione sviluppata nel presente lavoro va letta alla luce della domanda con la quale Daniela Lombardi (2006) apriva la sua ricognizione delle «geografie sociali» già richiamata in apertura: ovvero se fosse possibile riconoscere un approccio teorico-metodologico proprio di questa disciplina. Quando l’oggetto di studio sono le relazioni socio-spaziali in città, il primo tentativo per rispondere a questa domanda passa attraverso la presa di coscienza, come ci ricorda ancora Lombardi nella sua lettura del contributo della Scuola di Monaco, che «ogni processo socio geografico si trova a dover fare i conti con un sistema tendenzialmente conservativo, volto a mantenere intatte le proprie strutture territoriali: per tale ragione, queste ultime si modificano più lentamente dei processi» (Lombardi, 2006, p. 38). Per questa ragione le relazioni, le pratiche e le dotazioni di senso ai luoghi da parte dei gruppi sociali dovrebbero essere considerate il primo piano di studio che precede l’osservazione e la descrizione delle trasformazione delle forme urbane, alla ricerca di quello che Marcuse e van Kempen definiscono «something different, about the spatial patterns of the cities of today and tomorrow which differentiates them from the cities of yesterday»12 (2000, p. 1).
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Dal modello della globalizzazione ai valori della decrescita.
Oltre la società dei consumi1
Alma Bianchetti*, Nadia Carestiato*
1. introduzione
Globalizzazione e decrescita rinviano a visioni ossimoriche del mondo. Antitetiche per principi, la prima non ha propriamente generato ex novo come suo contraltare l’altra, quanto ha favorito le condizioni perché maturasse, condensando e intrecciando filoni di pensiero ascrivibili a matrici e tempi differenti, una posizione alternativa attorno alla quale sta germogliando un interesse crescente. Il dispiegarsi irrefrenabile della globalizzazione contemporanea nelle sue logiche (crescita illimitata, neoliberismo e finanziarizzazione in primis), nelle sue declinazioni e nei suoi effetti sta infatti alimentando la consapevolezza sempre più diffusa che la sua affermazione ha portato all’aggravamento senza precedenti di tutta una serie di problemi (ecologici, socio-culturali, socio-economici e geopolitici) che non tollerano più indifferenza e miope noncuranza, ma rendono necessaria per ciascuno di noi una disposizione d’animo di attenzione e responsabilità, quei
* Università degli Studi di Udine.
1 Pur nel quadro di una concezione unitaria del contributo, i parr. 1-2.1 spettano a A. Bianchetti, i parr. 3-3.3 a N. Carestiato; la bibliografia è comune.
Alma Bianchetti, Nadia Carestiato
comportamenti e presenze fattive che passano sotto il nome di cittadinanza attiva. Può valere ancora la consunta metafora delle facce opposte della medesima medaglia. Una medaglia, è bene precisarlo, la cui sostanza è l’umanità in carne e ossa, palpitante, che vive quotidianamente con i suoi bisogni, le sue sofferenze, i suoi sogni su un pianeta dalle risorse progressivamente degradate e in via d’esaurimento, dunque più scarse e perciò ancor meno disponibili per tutti2, e i cui equilibri ecologici sono compromessi e in molti casi segnati dall’irreversibilità, ossia dall’impossibilità di ripristinare le situazioni di partenza (cfr. il “picco del petrolio” e i prelievi irrepascibili dei combustibili fossili, o i terreni perduti all’agricoltura per effetto del soil sealing, cioè l’impermeabilizzazione artificiale del suolo, e anche della desertificazione, per essere l’azione umana concausa innegabile del suo dilatarsi).
Tutto ciò trae le sue radici nella rivoluzione industriale europea e nel modello economico capitalistico ad essa sotteso, che hanno innescato una serie complessa di processi dagli effetti globali, i quali si sono peculiarmente accelerati nell’ultimo mezzo secolo sotto la spinta della velocizzazione di ogni fenomeno propria della tarda modernità. Nello specifico, con il qualificativo “globali” si intendono esiti molteplici distinti oltre che dal fatto di essere spazialmente diffusi a livello planetario – “mondializzati” – (omologazione economica e culturale, società liquida e del rischio ecc.) dalla caratteristica di non essere stati «né voluti né anticipati» (Bauman, 2001, p. 67). Detto altrimenti, la globalizzazione è una diversa definizione di “disordine mondiale”, una situazione che, rimandando anche alla fine del mondo bipolare Est-Ovest emerso nel 1945, si connota per l’assenza di un baricentro – di una struttura organizzativa centrale referente, autorevole, regolatrice – e quindi per una natura indeterminata e ingovernabile, in quanto priva di regole ovunque accettate e condivise: con ciò si coglie il nodo cruciale di questi anni, e dei prossimi, dato che non appare a portata di mano l’inverarsi di condizioni nuove, tali da consentire alla speranza in modelli di governance improntata all’etica di far breccia oltre i confini della sfera dell’utopia (Rifkin, 2009). È facile osservare la differenza radicale con le precedenti visioni connesse al concetto di universalizzazione – rigettato negli ultimi decenni dalle correnti postmoderne anti-illuministe – che racchiudeva in sé l’intento e la speranza in azioni o intraprese a scala globale, la volontà di creare un ordine entro il quale rendere migliore il mondo rendendo simili le condizioni di vita e le opportunità per tutti. Si sa a quali aberrazioni e ipocrisie hanno portato, e quanti disastri e sofferenze hanno causato, i sogni universalizzanti concepiti in Europa in seno all’Illuminismo; tuttavia anche nei tempi in cui, superando la barriera degli apparenti egualitarismi, sono riusciti ad affermarsi i movimenti contro le discri-
2 Si stima che, mantenendo l’attuale livello di consumo e di inquinamento idrico, tra non molti anni tre miliardi di asiatici non avranno più accesso all’acqua potabile, il bene comune per eccellenza.
Dal modello della globalizzazione ai valori della decrescita 111
minazioni (di genere, sesso, razza, cultura, religione, ecc.) e le istanze si stanno spostando dal fronte della democrazia partecipativa a quello di una democrazia deliberativa (Vitale, 2013), il riconoscimento di diritti sacrosanti alle diversità si è accompagnato contestualmente anche al moltiplicarsi dei recinti stretti delle identità chiuse e dei fondamentalismi sotto tutte le latitudini. Il generalizzarsi di condizioni di segregazione e di auto-segregazione e l’affermarsi in nuovi termini delle comunità parallele (fenomeni tutti ben evidenti nell’universo dei processi migratori – Guolo, 2003 e 2010) portano a constatare come il mondo della globalizzazione conclamata non sia meno ingiusto e ineguale del precedente3, in cui dominava il diverso e duale sistema del bipolarismo e del condominio ideologico, geopolitico, economico e strategico USA-URSS.
Dovrebbe crescere perciò l’«occhio cosmopolita» (Beck, 2005), la consapevolezza che tutti siamo figli di questo pianeta sempre più finito, preda di effetti globali che possiamo aggettivare in molti modi, ma non come fatali o imprevedibili e ancor meno come ingestibili (non in sé, ma, come attesta la crisi attuale, in quanto non è alle viste quel baricentro etico di cui si è detto poco sopra), certo come indesiderati e incontrollabili (un bell’esempio di retroazione o feedback, direbbe un esperto della teoria dei sistemi), al quale vorremmo poter dare delle chances per un riequilibrio che, per la legge di transitività, possa riflettersi anche su quell’umanità che lo abita, lo cura (troppo poco), lo tormenta e lo sconvolge, per guardarlo e agirlo da una differente prospettiva, dal rovescio della medaglia, ossia cambiando o almeno allungando a nuove profondità l’orizzonte del nostro modo di pensare e di stare al mondo. Insomma, travasarci convertirci avvicinarci (ad ognuno la sua scelta, importante è non restare immobili) a un modello di vita eticamente più rispettoso della salute del pianeta e delle diseguaglianze sociali rispetto a quello della globalizzazione, della società della crescita illimitata, del consumismo fine a se stesso e dello spreco. In tale direzione, una direzione che non si potrà continuare ad ignorare né per noi né soprattutto per i nostri figli, muovono le teorie a cui si richiama la visione della decrescita. I suoi principi, che si fondano su punti di vista altri dal paradigma dominante, e pertanto di non facile, immediata e piena accettazione, criticano il concetto di sviluppo in ogni sua declinazione, inclusa quella “sostenibile”, e ciò per la contraddittorietà e l’inconciliabilità attuale dei due termini (il primo rinvia infatti alla sfera della crescita illimitata, l’aggettivo a quella rispettosa dei sistemi naturali: v. par. 3.2). Tale rigetto trae però molta linfa dallo stato dei fatti, dal dover constatare che sono troppo sporadiche, parziali e scarse, o inesistenti, le azioni alle diverse scale realmente coerenti con il paradigma della sostenibilità adottato plebiscitariamente dagli Stati nell’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992. Pertanto, se lo scollamento tra propositi e pratiche non fosse cresciuto, oggi risulterebbero verosimilmente almeno mitigate le condizioni
3 Cfr. Stiglitz, 2013.
Alma Bianchetti, Nadia Carestiato
socio-ambientali e non avremmo assistito al penoso, netto fallimento dei vertici mondiali successivi a Rio (Johannesburg, 2002 e Rio 20+, 2012) o di quelli sul clima legati al Protocollo di Kyoto per la riduzione dei gas serra e, forse, le riserve dei “decrescenti” sarebbero meno drastiche.
Esigenze di chiarezza e concretezza impongono perciò a questo punto di dare, sia pure sinteticamente, conto del contesto contraddittorio e problematico che ha portato il movimento della decrescita, ed anche la coscienza del valore e la difesa dei “beni comuni”, ad assumere un rilievo di forte significato nei nostri anni: ma ciò, comprensibilmente, in modo particolare all’interno dei paesi che sono stati variamente definiti nel tempo come “primo mondo”, “paesi sviluppati”, “paesi industrializzati”, “paesi opulenti”, “paesi avanzati”, “il Nord del mondo” e, ultima definizione, “paesi di antica industrializzazione”, ossia gli Stati occidentali che hanno dominato dal XVI secolo la scena mondiale, riuscendo ad imporre a livello quasi planetario nel post-guerra fredda il loro modello economico, nella versione neoliberista che tuttora connota il presente.
2. Leggere La gLoBaLizzazione
Gli attuali sono gli anni della globalizzazione: qualche tempo fa incondizionatamente esaltata o soggetta a un ventaglio di critiche che giungevano sino alla sua demonizzazione, oggi è percepita e/o patita anche nei paesi di antica industrializzazione come condizione ineliminabile e imprescindibile del funzionamento del sistema economico dominante. Limitarsi a questa sola dimensione rappresenta però un approccio inadeguato e riduttivo, poiché una letteratura ormai sterminata ha esaurientemente argomentato e documentato (v. ad es. Bauman, 2001; Leonardi, 2001; Sloterdijk, 2002; Cotesta, 2004) che la globalizzazione condiziona fattivamente ogni aspetto della vita del mondo odierno. Ne ha colto in pieno la natura Antonhy Giddens (1994), individuandola come il processo per il quale l’attuale fase della contemporaneità si identifica per una sempre più estesa, complessa e inedita rete di interconnessioni e interdipendenze economiche, politiche, culturali, sociali tra le varie parti del pianeta (senza sottacere delle implicazioni di ordine ambientale, in particolare quelle di matrice antropogenica). Diversi fattori, tra cui l’affermazione del paradigma neoliberista, la rivoluzione digitale nel campo della comunicazione e il nuovo assetto geopolitico mondiale dopo il crollo del comunismo nel 1991, interagendo sinergicamente tra di loro nel corso degli ultimi due decenni, hanno determinato un accrescimento progressivo di questa trama di relazioni e interrelazioni, comportando la novità che le ripercussioni di un evento, lungi dal risolversi in un’influenza esclusivamente locale, si allargano con diversa intensità a paesi società e individui lontani, e, paradossalmente, si riverberano anche dove mancano di ogni ricaduta (identificano infatti gli spazi dell’esclusione o dell’auto-esclusione). Emblematico della tem-
Dal modello della globalizzazione ai valori della decrescita 113
perie dell’era globalizzata è stato per qualche tempo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle “Torri gemelle” di New York, ma ormai un altro è l’evento per il quale si sta vivendo in prima persona l’esperienza dell’interdipendenza planetaria: ossia la crisi economica esplosa nel 2008 a conclusione di un concatenarsi sciagurato di speculazioni (la “bolla immobiliare” USA), che si è poi rapidamente allargata dal campo della finanza all’economia reale (o produttiva) e permane tuttora irrisolta, gravando molto pesantemente anche sull’Italia.
Tale perdurante situazione negativa – da interpretarsi correttamente non come una delle tante cicliche crisi del mercato mondiale bensì come “la crisi del mercato”, una crisi perciò strutturale che, in quanto tale, richiede non semplici aggiustamenti, ma la revisione/cambio delle regole del sistema capitalistico –aiuta a capire perché si possa intendere il mondo globalizzato come una “giungla costruita” (Giddens in Bauman, 2001, p. 68), o, riferendosi più specificatamente al contesto geopolitico, in termini di “disordine globale”. Hanno minore o diverso rilievo le contrapposizioni nel segno del rapporto dominio/subordinazione tra “centro e periferia” del pianeta e “lo scambio ineguale” apprezzabili fino a vent’anni fa (o tra Nord e Sud del pianeta, o tra le espressioni equivalenti di paesi “avanzati” o “ricchi” o “industrializzati” e paesi “poveri” o “in via di sviluppo”, ecc.). Infatti, geopoliticamente ed economicamente la realtà è oggi multipolare: emergono i paesi BRIC e CIVETS4 e i paesi “di antica industrializzazione” sono in sofferenza, e ci si ritrova – venuta meno la coppia delle superpotenze antagoniste gendarmi del mantenimento dei rapporti di forza e degli equilibri geopolitici internazionali, una funzione questa esercitata sotto l’ombrello del terrore della minaccia (purtroppo oggi rinascente) della guerra nucleare – nell’assenza di un baricentro internazionale autorevole, riconosciuto e rispettato, e quindi nell’impossibilità, pur se ce ne fosse un’autentica volontà, di dotarsi di un modello condiviso e accettato di governance etica che vada a ridurre ineguaglianze, iniquità, tensioni e conflitti. Peraltro, in tale vuoto le reti, anch’esse globalizzate, delle grandi organizzazioni criminali hanno trovato le condizioni propizie per espandere in modo tentacolare i loro affari e condizionare governi, imprese, popolazioni e territori (con i traffici di droga, armi, rifiuti nocivi ed esseri umani, con la riduzione in schiavitù ecc.: e ciò grazie alla corruzione, pervasiva e capillare). Ma per meglio comprendere come siano maturati l’interesse per la visione della decrescita e l’ancor più ampia e diffusa sensibilità verso le diseguaglianze sociali, nonché il sentimento di responsabilità verso l’ambiente naturale, vanno ricordati, sia pur sinteticamente, alcuni passaggi storici di rilevanza assoluta5 .
4 Dei due acronimi, i più noti tra i tanti che si vanno diffondendo, il primo è formato dalle iniziali rispettivamente di Brasile, Russia, India e Cina; il secondo da quelle di Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia, Sud Africa. Le “Tigri asiatiche” sono la Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong (v. oltre).
5 Cfr. Bianchetti, 2006.
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2.1. La globalizzazione: radici, declinazioni e crisi
L’attuale fase della globalizzazione6 trae le sue origini da una serie di eventi verificatisi soprattutto negli scorsi anni ’70: tra di essi, il più rilevante è quello passato alla storia con l’espressione “shock petrolifero”, legato al conflitto arabo-israeliano del 1973 (“guerra del Kippur”). L’ennesima vittoria di Israele portò infatti a un’imprevista, clamorosa e immediata azione di ritorsione dei paesi arabi produttori di petrolio associati nel cartello dell’OPEC, che determinò la quadruplicazione subitanea del prezzo di vendita del greggio. Questa risorsa non rinnovabile era divenuta nel corso del XX secolo la fonte energetica più utilizzata a livello mondiale, perciò si può comprendere l’effetto-domino dirompente dell’iniziativa sull’intero sistema economico occidentale. Esso però non tardò a reagire alla crisi generale che ne era derivata (cfr. in Italia il periodo dell’“austerity”), infatti si riorganizzò gradualmente ma radicalmente, introducendo nuove strategie che portarono all’affermazione del pensiero neoliberista a scapito delle visioni keynesiane, che avevano consentito sia il superamento della grande crisi di Wall Street del 1929 sia di affrontare con successo la fase della ricostruzione europea postbellica dopo il 1945 (Castronovo, 1995). Più precisamente, i teorici di tale orientamento economico individuarono nel costo del lavoro il fattore su cui le aziende potevano esercitare risparmi (con tagli all’occupazione e nuove tipologie di contratti flessibili), puntando sulle liberalizzazioni per favorire la competitività tra le imprese e, inoltre, sulla privatizzazione di attività e servizi in carico allo Stato per alleggerire la spesa pubblica7. La netta virata impressa dal corso neoliberista avviò il declino
6 Una “prima” globalizzazione si è in realtà verificata ai tempi del «mondo unico eurocentrico», all’apogeo geopolitico dell’Europa colonialista (tra la metà del XIX secolo e la seconda guerra mondiale: Huntington, 1997).
7 Il neoliberismo, fautore dell’assoluta competitività e concorrenza, privilegia gli strumenti della deregulation (annullamento di norme e regole che vincolino la piena libertà di azione dell’impresa), della privatizzazione e della correlata contrazione delle spese sociali, della riduzione delle tasse (basse e fisse per tutti, quindi non commisurate al reddito) e postula uno “Stato leggero” (con poche funzioni fondamentali: politica estera, difesa, moneta) senza ingerenze in economia: si oppone nettamente al modello di mercato sociale di matrice europea (come già ai regimi statalisti del socialismo reale), in cui lo Stato, oltre ad aver sviluppato importanti politiche di welfare, può detenere un ruolo centrale nel sistema economico. Il programma neoliberista, di cui fu padre Milton Friedman, fu sperimentato nel Cile del generale Pinochet, che l’11 settembre 1973 abbattè con un golpe il governo democraticamente eletto del presidente socialista Allende. Il c.d. “pensiero unico” ha conquistato piuttosto rapidamente consenso in quasi tutti i paesi. L’adozione conseguente di pesanti politiche di abbattimento dei costi del welfare (v. l’aziendalizzazione dei servizi sanitari), di totale privatizzazione e di liberalizzazione ha comportato anche l’eliminazione, rivelatasi funesta, dei vincoli alle attività degli istituti di credito, ciascuno dei quali può ora agire ubiquitariamente come una “banca universale”: infatti ciò ha agevolato il passaggio epocale dall’economia produttiva a quella virtuale, finanziarizzata, poiché le grandi multinazionali, le stesse che hanno attivato i processi di globalizzazione, hanno cominciato a dirottare i propri utili
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quasi ubiquitario del welfare state, giudicato troppo costoso, e, all’inverso, con la sua costante e pervasiva affermazione, l’allargarsi ingravescente e generalizzato della forbice delle diseguaglianze sociali (facilmente percepibile attraverso l’indice di Gini, il quale rileva la distribuzione della ricchezza in un Paese)8 . Procedendo con ordine, si assiste alla fine del capitalismo cosiddetto “organizzato” e all’avvento della nuova fase “flessibile” di marca appunto neoliberista, che trascina con sé il collasso del modello fordista-taylorista9 e quanto esso comportava in campo sociale, politico e territoriale al di là delle relazioni strettamente industriali (Harvey, 1993), nonché l’uscita dalla “fase industriale” e il dischiudersi di quella “post-industriale”. In breve, il capitalismo flessibile, che oggi domina la scena mondiale, non avendo incontrato ostacoli dopo il crollo del socialismo reale, iniziò ad operare sul fronte della demolizione, da un lato, del welfare state (negli anni ’80 ne furono promotori di successo, progressivamente imitati ovunque, il presidente repubblicano degli USA Reagan – e la sua dottrina detta reaganomics – e la premier conservatrice britannica Tatcher) e, dall’altro, del preesistente sistema del mercato del lavoro e delle modalità della produzione. In quest’ultima direzione, l’obiettivo iniziale di abbattere i costi energetici portò a un ben più ampio e articolato sviluppo della ricerca industriale e quindi alla realizzazione di prodotti meno energivori e più efficienti, come esemplarmente dimostra il settore automobilistico: l’innovazione tecnologica, il frutto della ricerca applicata al mercato, diventa la parola d’ordine e la chiave del successo economico10. Inoltre, la volontà di evitare il ripetersi di tensioni e rivendicazioni da parte dei lavoratori per un miglioramento delle proprie condizioni di lavoro nel capitale finanziario, reinvestendoli in Borsa (dove si sono inventati sempre nuovi strumenti, v. i tristemente celebri titoli “derivati”) e non nella produzione materiale, alimentando così un’economia fittizia sempre più pervasiva e sganciata dall’economia reale. Per rendere un’idea, negli anni ’90, il commercio internazionale è cresciuto del 63%, la ricchezza mondiale (PIL) del 26%, ma il movimento di capitali del 300%: e con un balzo esponenziale nel giro di qualche anno, il valore degli strumenti speculativi finanziari che hanno intossicato il mercato portando alla crisi del 2008 – la “bolla immobiliare” USA – corrispondeva a fine 2007 alla stratosferica cifra di 531,2 migliaia di miliardi di dollari $, addirittura superiore all’intero PIL mondiale. Con buona pace di chi sostiene che il mercato è intrinsecamente capace di autoregolarsi correggendo le proprie distorsioni.
8 Nel caso dell’Italia, per esempio, in questi ultimi anni quasi il 50% delle ricchezze del Paese ha finito per concentrarsi nelle mani del solo 10% della popolazione.
9 La filosofia fordista-taylorista lega la maggior produttività a un miglior salario della manodopera, allo scopo di permetterle di destinare parte del reddito anche a consumi non essenziali: maggiori richieste indurrebbero maggiori produzioni e quindi nuovi posti di lavoro, alimentando “virtuosamente” il ciclo dell’economia reale; implica altresì la razionalizzazione dei tempi del ciclo produttivo, attuata tramite il sistema dell’alienante catena di montaggio specificamente ideato per gli stabilimenti automobilistici Ford (taylorismo).
10 Primeggiare nell’economia della conoscenza è oggi fattore discriminante fondamentale per il successo nella realtà globalizzata: il ruolo di “città mondiali” detenuto da alcune metropoli (New
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in fabbrica, spinse contestualmente l’imprenditoria ad investire nei processi di automazione della produzione e nella robotizzazione, in modo da ridurre drasticamente la necessità di manodopera: da tale strategia presero dunque avvio le politiche di taglio dell’occupazione e di contrazione dei salari; e cominciarono ad essere privilegiate forme contrattuali che rendono oggi il lavoro dipendente sempre più “flessibile”, temporaneo, insomma sottopagato e precario.
Con la fase “postindustriale” l’industria ha perciò cessato di essere il serbatoio occupazionale più importante: le è subentrato in tale ruolo il settore terziario o dei servizi. Come è noto, sono gli anni marcati anche dall’avvento della rivoluzione informatico-digitale, che si apre dagli ambienti militari alla società civile: la sua applicazione ai campi dell’economia e dell’informazione/comunicazione11 favorì al tempo, tra l’altro, la creazione di professionalità inedite e consentì sia di recuperare parte della disoccupazione generata dalla ristrutturazione del comparto secondario sia di creare nuova occupazione12. I continui progressi tecnico-tecnologici permisero la dilatazione spaziale della Rete e dei suoi servizi, e con il suo avanzare pervasivo, la comunicazione divenne istantanea tra ogni parte del mondo, determinando per tale via la “morte della distanza” (o “della geografia”) e riducendo il pianeta intero ad un unico “villaggio globale”, proprio come aveva preconizzato il sociologo canadese Mc Luhan (1989) nello studiare i possibili impatti sociali dei nuovi media. La grande fabbrica fordista che concentrava migliaia di occupati cedette il posto a meno rischiosi – per l’impresa – processi di decentramento produttivo (l’appalto all’esterno di parti del ciclo di lavorazione di un prodotto13), i quali determinarono nuovi processi di industrializzazione anche in zone fino ad allora
York, Tokyo, Londra, Shanghai ecc.) si fonda proprio sul loro essere all’avanguardia nella ricerca, per i vantaggi competitivi che ne derivano. Gli effetti sulla geografia del lavoro legati all’economia postindustriale fondata su sapere e innovazione sono analizzati da Moretti, 2013.
11 Fu assolutamente rivoluzionario l’avvento del sistema World Wide Web, creato nel 1989 da Tim Berners-Lee, che fondò il suo progetto ipertestuale non sul pensiero lineare, ma sulla logica associativa.
12 Nei paesi avanzati, è emerso con gli scorsi anni ’90 l’inedito fenomeno dello “sviluppo senza occupazione”, per il quale il superamento di crisi come quella del 1992 ha permesso solo un recupero della disoccupazione esistente e non ha generato lo sviluppo di nuova, più ampia occupazione.
13 La fine della fase fordista ha comportato, con il declino della grande fabbrica, anche una nuova logica industriale: la produzione standardizzata e di massa tipica del capitalismo organizzato (per la quale un bene era destinato a durare nel tempo e perciò la sua produzione poteva essere superiore alle richieste del momento in quanto ne era certa la collocazione sul mercato) fu infatti sostituita dalla logica just in time, applicata pionieristicamente dalla multinazionale Benetton e perfezionata anche nella logistica dal gruppo Zara. Per essa, si produce solo quanto ordinato dai punti vendita affiliati, poiché si vuole evitare la costituzione di eccedenze, divenute oggi un autentico rischio, dato che la proposta continua di nuovi modelli in ogni settore merceologico porta all’osbolescenza immediata dei prodotti della precedente stagione o serie. Sono queste le conseguenze del capitalismo flessibile neoliberista che ha puntato sulla crescita a spirale dei consumi fini a se stessi, inducendo bisogni artificiali, quindi non essenziali, e mode assolutamente effimere: la società «opulenta» del Nord del mondo (Galbraith, 1958) si è pienamente trasformata nella
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marginali e periferiche. Ma il capitalismo flessibile, per rispondere all’imperativo della crescita della produzione e dei consumi fondato sulla competitività e sulla concorrenza sempre più esasperate, andò a ricercare aree e ambienti socio-culturali in cui il costo del lavoro risultasse ancora più conveniente in termini monetari e scevro da rivendicazioni sindacali, e rinvenne tali condizioni in contesti in tutti i sensi lontani dalle regioni di antica industrializzazione in cui aveva avuto la sua genesi14. La soluzione strumentale per conseguire tali obiettivi è sintetizzata dal termine “delocalizzazione”, ossia l’apertura da parte di aziende occidentali di attività produttive in paesi della “periferia del mondo”: la scelta cadde dapprima sulle “Tigri asiatiche” e la Cina (che dalla metà degli scorsi anni ’80 si è aperta al liberismo economico, pur mantenendo il regime comunista) e si dilatò in seguito ad altri Stati (v. nota 2), compresi alcuni già facenti parte dell’Europa del socialismo reale. Un particolare, questo, che esplicita come la caduta del muro di Berlino sia stata assolutamente fondamentale, assieme alle conquiste tecnologiche applicate alla comunicazione e all’economia, per accelerare la mondializzazione del capitalismo e le inedite e crescenti interdipendenze planetarie.
La prassi delocalizzativa ha avuto ed ha risvolti produttivi e sociali pesantissimi, in quanto implica la parallela liquidazione delle attività in essere nei nostri Paesi, e con essa licenziamenti e sviluppo di quella società flessibile e liquida (Bauman), senza certezze, per la quale il futuro è parola semanticamente vuota e buia. Beck (2000) definisce non a caso l’attuale come la “società del rischio” e individua tra le minacce che la attanagliano proprio il modello che regge la globalizzazione e le sue degenerazioni speculative (il “turbocapitalismo” di Luttwack o il “capitalismo selvaggio” stigmatizzato con nettezza da Giovanni Paolo II e ancor di più energicamente da Papa Francesco). Il miglioramento delle condizioni di vita di alcune aree del Sud del mondo in seguito alle pratiche di delocalizzazione si è accompagnato sia all’ulteriore impoverimento delle regioni rimaste ai margini – soprattutto in quanto non interessanti per gli attori globalizzati: v. Africa sub-sahariana – sia alla comparsa e al dilatarsi nei paesi del Nord di quel fenomeno dei “nuovi poveri” che si era originato nei paesi usciti dal socialismo reale in conseguenza del rapidissimo e incontrollato affermarsi del capitalismo flessibile15 . società dei consumi, dell’usa e getta e dello spreco. Una società assolutamente insostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e tuttavia è questo il modello abbracciato dai nuovi, e sempre meno risibili per dimensioni, ceti abbienti dei paesi BRIC e CIVETS.
14 Il riconoscimento di migliori condizioni salariali e soprattutto dei diritti della manodopera (in primis quelli alla salute e alla sicurezza) porterà in futuro a importanti cambiamenti del sistema attuale (cfr. Adamo, 2006, circa il processo di continua dilatazione della globalizzazione a nuovi paesi, dove il minor costo del lavoro rende competitive produzioni non innovative ma ad alta intensità di lavoro manuale).
15 Si è parlato di “globalizzazione dimezzata” o “ad arcipelago” (Deaglio et al., 2004; Zupi, 2004) per indicare come nei fatti alcune aree siano state incluse e favorite nei processi globali ed altre escluse in quanto prive di interesse o rischiose per i global people, gli attori globali (Bauman,
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Bisogna inoltre ricordare che il processo ha portato a risultati non preventivati, ossia diversi Stati, da soggetti globalizzati, sono divenuti a loro volta parti attive e/o attori globalizzatori che oramai sanno determinare a loro vantaggio le condizioni della presenza di iniziative straniere nel proprio territorio. Insomma, tenendo conto anche del fatto che, per esempio, la Cina detiene una grossa percentuale dei titoli del debito pubblico USA, si sta realizzando un autentico contrappasso rispetto alla situazione che portò al predominio incontrastato delle potenze coloniali europee nell’età moderna. È in atto un’inversione dei ruoli economici, e quindi geopolitici, per cui oggi la Cina sta contendendo agli USA la supremazia nel panorama che caratterizza il mondo multipolare uscito dalla guerra fredda, vinta una ventina di anni fa dall’Occidente non con le armi ma grazie all’autoimplosione delle economie stataliste del socialismo reale. Negli stessi primi anni ’90 nasceva tra molte speranze l’Unione Europea, a cui va ascritto però un bilancio molto deludente per le divisioni e gli egoismi manifestati dai Paesi membri che l’hanno dimostrata incapace di progredire sulla strada della propria integrazione e unificazione politica, di costituirsi ad attore davvero autorevole, e quindi ascoltato e decisivo, in campo internazionale (cfr. la guerra dell’ex Iugoslavia o le recenti vicende in Libia); e, in questi ultimi anni, anche per essersi rivelata inadeguata in economia, non avendo saputo contrastare in tempo la crisi esplosa nel 2008 (Morin e Ceruti, 2013), sempre più pervasiva e interdipendente, come è proprio della società globalizzata che manca di regole condivise e rispettate, le sole che avrebbero potuto evitare il suo deflagrare o il suo perpetuarsi e avvitarsi su se stessa, rendendola ancora più grave di quella del 1929. La difficile situazione attuale è specchio fedele di come il modello capitalista flessibile sia generatore di diseguaglianze e iniquità e compromissore degli equilibri ecologici planetari, per l’accelerazione allo sfruttamento delle risorse e del territorio imposta ora anche dai paesi emergenti o del tutto emersi, come la Cina, lo stato più energivoro e forse anche il più inquinante al mondo nello sforzo di sostenere la propria crescita. L’ingiustizia sociale e l’impatto crescente sull’ambiente in termini di consumo eccessivo, di esaurimento e distruzione di risorse e di biodiversità sono stati elementi ispiratori fondamentali di quel Rapporto Bruntland (Our Common Future, Commissione ONU su ambiente e sviluppo,1987) che enuncia i principi dello sviluppo sostenibile, che a tutto ciò voleva porre freno e rimedio. Il nuovo paradigma, consacrato nel 1992 dall’Earth Summit di Rio de Janeiro, esprimeva un evidente compromesso, in quanto dava degli indirizzi di azione “buone pratiche” all’interno del modello di sviluppo dominante, cercando di ridurne progressivamente gli impatti piuttosto che di sovvertirne i criteri ispi-
1999). I “nuovi poveri” rappresentano un fenomeno in ascesa nei paesi del Nord del mondo, dove il perdurare della crisi attuale, unita al venir meno delle politiche pubbliche di tutela sociale, determina processi crescenti di pauperizzazione e di ampliamento delle fasce sociali più deboli: sono pensionati, precari, occupati a più basso reddito ecc., sempre più in difficoltà nel far fronte alle stesse spese essenziali (alimentazione, bollette, affitti).
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ratori (crescita illimitata, dunque insostenibile in un mondo finito con risorse finite). Ha rappresentato comunque un passo in avanti importantissimo, tanto che se gli Stati che avevano approvato i vari Protocolli emanati a Rio avessero onorato gli impegni che ne derivavano, probabilmente l’impronta ecologica planetaria, e a cascata, il debito ecologico, non continuerebbero a crescere e, inversamente, l’overshoot day non anticiperebbe ogni anno la data del suo compiersi16 . Nel corso degli anni ’90, con l’intensificarsi e il dilatarsi dei processi globali permesso dal nuovo assetto geopolitico internazionale e con l’emergere graduale dei fenomeni e dei problemi legati alla nuova fase di interdipendenza, andarono moltiplicandosi le analisi e le voci critiche (ad es. Bauman, Beck, Barbour, Shiva, Klein, Stiglitz e l’ ONU stessa, v. UNDP, 2000) e prese corpo un frastagliato movimento di opposizione, al cui interno si ricomprendevano posizioni diversissime, da quelle radicalmente antisistemiche a quelle antiviolente proprie dei gruppi di ispirazione cristiana, il movimento “No-Global” che, proprio per rimarcarne l’eterogeneità, è stato denominato “i popoli di Seattle” (cfr. Limes, 2009) dopo il controvertice e la grande manifestazione di protesta svoltisi nella città nordamericana in occasione del summit dell’Organizzazione Mondiale del Commercio17 (1999), uno dei grandi sostenitori dell’ordine mondiale dominante assieme al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale. Con l’avvicinarsi all’attualità, la presa di coscienza dell’insostenibilità sociale, ambientale, culturale e politica del modello neoliberista è sempre più patrimonio della gente comune, che la incarna concretamente nei comportamenti quotidiani, come è stato possibile constatare nel 2011 in Italia con la grande partecipazione e la vittoria al referendum contro la privatizzazione della gestione dell’acqua.
16 Impronta ecologica è denominato l’indicatore sintetico che valuta (in termini di ha/uomo/anno) il consumo umano di risorse naturali rispetto alle capacità della terra di rigenerarle e di assorbire i rifiuti prodotti. Dalla metà degli anni ’80 i nostri consumi stanno superando il livello di risorse che il pianeta è in grado di fornire e ricostituire, ossia la biocapacità. Questa è variabile (infatti è stata stimata nel 2005 in una media planetaria di 2,1 ha pro capite, rispetto ai precedenti ha 1,78), ma purtroppo l’impronta ecologica globale è sempre più pesante (nel medesimo 2005 è salita a 2,7 ha pro capite contro i 2,2 ha del rilievo antecedente) e provoca il continuo innalzamento del debito ecologico (cioè la differenza che ne discende: pari, stando ai dati appena citati, a una media individuale globale di 0,6 ha – Banini, 2010, pp. 433-437). Oggi consumiamo risorse corrispondenti a circa un pianeta e mezzo, ma se tutti consumassero quanto gli USA, sarebbero necessari quattro pianeti e mezzo! Così l’overshoot day, ossia la data che segna l’esaurimento del budget naturale disponibile per l’umanità in un certo anno, anticipa costantemente: è caduto il 6 ottobre nel 2007, il 27 settembre nel 2011, e già il 20 agosto nel 2013.
17 Di fatto, è lontana la realizzazione di un mercato veramente libero sostenuta dall’Organizzazione, poiché i Paesi economicamente più forti impongono regole ad essi convenienti o non vi aderiscono. Viene in tal modo compromessa largamente anche la sovranità alimentare di tanti Paesi del Sud del mondo, costretti a produrre per il mercato internazionale e non per soddisfare il proprio fabbisogno, o a importare derrate che le politiche protezionistiche dell’UE e degli USA rendono meno costose. Cfr. Stiglitz, 2006.
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La perdurante crisi induce consumi e stili di vita adattivi (“resilienti”) forzosamente più sostenibili: non è questa certamente la via auspicabile per l’affermazione di comportamenti più virtuosi sotto il profilo del risparmio delle risorse, dato che si stanno allargando a dismisura, citando ancora il caso del nostro Paese, le “nuove povertà” che svuotano le fila dei ceti medi, tanto che tra 2010 e 2011 la fascia dei cittadini in condizione di “grave deprivazione” è salita di 2,5 milioni di persone, raggiungendo i 6,7 milioni di unità, secondo dati Istat-Cnel diffusi dalla stampa (marzo 2013). Ciò significa infatti che si è costretti a privarsi anche del necessario, magari delle cure mediche18. Non è una semplice riduzione del tenore di vita legata alla forte caduta della capacità di spesa di singoli e famiglie, ne va della qualità stessa della vita. È questo un concetto ben più complesso, divenuto oggi centrale per gli studi in materia, che rifuggono ormai dall’utilizzo del solo parametro quantitativo del reddito o del PIL e vanno adottando indicatori molteplici in grado di esprimere con efficacia e veridicità le non semplici e interconnesse condizioni, oggettive e soggettive, da cui discende la percezione di ciò che si può interpretare come benessere psicofisico dei singoli. Va precisato che, almeno nel mondo industrializzato, una volta garantiti i livelli essenziali dei valori standard (reddito, lavoro, ecc.), la percezione soggettiva del benessere dipende prioritariamente dal grado di coesione e inclusione sociale (solidità della rete di relazioni familiari e della solidarietà extrafamiliare), dall’assenza di corruzione, dal grado di libertà personale, nonché dalla salute psicofisica e dall’educazione. Quindi si può comprendere l’importanza, specie in fasi di depressione economica come l’attuale, del supporto di tali reti e di istituzioni eticamente connotate ed efficienti per impedire il crollo di ogni certezza e speranza. Tant’è vero che la crescita del PIL non coincide affatto con l’aumento del benessere: così è per gli USA, dove dal 1960 il primo è cresciuto di 9 volte ma il secondo è rimasto inchiodato al palo. Se già Robert Kennedy, in un celeberrimo discorso del 1968, aveva messo in luce i limiti di una valutazione basata solo sul PIL (in ciò ripreso dal Rapporto Bruntland nel 1987) e se ancora nel 1972 il piccolo stato asiatico del Bhutan, ispirato dalla filosofia buddhista, aveva pensato di introdurre la misura della felicità nazionale fondata sul GNH (Gross National Happiness, la felicità nazionale lorda), si sta finalmente generalizzando a livello internazionale la pratica di analisi fondate sulla selezione e l’affinamento di un complesso di indicatori quanto-qualitativi per rilevare con sempre maggior efficacia la percezione della qualità della vita in un paese: in Italia è stata così introdotta la valutazione del BES, ossia il «benessere equo e sostenibile» (2012), nel quadro di una
18 Cfr. nota 15. Un segno della gravità della situazione è la “Campagna Italia” della nota ONG Emergency contro l’aggravarsi di questo problema proprio tra le fasce più deboli dei nostri connazionali. La situazione sta peraltro continuando a degradare: infatti i dati Istat più recenti (www. istat.it) rilevano che dal 2011 al 2012 le persone in povertà assoluta – cioè in difficoltà anche a garantirsi il fabbisogno alimentare – sono salite dal 5,7% all’8% (pari a quasi 5 milioni di persone). Considerando anche la condizione di povertà relativa (v. Banini in questo volume), in Italia si contano complessivamente 9,5 milioni di poveri.
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rivisitazione dei c.d. “Obiettivi del Millennio” delle Nazioni Unite, che si prefiggono entro il 2030 (fallite clamorosamente le previsioni al 2015) di eliminare le povertà estreme, di incentivare la sostenibilità ambientale, l’inclusione sociale e le politiche governative atte a garantire ai cittadini di poter perseguire il loro benessere19 . Se il periodo attuale è tale da comportare sobrietà, sia forzata per incapienza sia per consapevole rispetto dinanzi alla pauperizzazione crescente in tante parti del mondo (cui corrisponde il citato allargarsi senza pari – praticamente in ogni Paese – della forbice della distribuzione della ricchezza), e da richiedere con forza una maggiore ed effettiva equità sociale20, tuttavia non cessano di moltiplicarsi i templi del consumo: centri e piattaforme commerciali. Ennesima importazione di un modello nordamericano che nei luoghi d’origine si giustificava come strumento per superare l’handicap delle distanze metropolitane e l’assenza storica di strutture di riferimento per la popolazione dispersa nei grandi spazi rurali, nel Vecchio Continente il loro proliferare ha invece comportato pesanti trasformazioni e implicazioni socio-territoriali: la crisi dell’attrattività e della funzione, in particolare delle città medio-piccole, come mercato naturale del loro hinterland, e con ciò delle tradizionali funzioni di aggregazione sociale espresse innanzitutto dalle piazze e dalle strade dello “struscio” del centro. Gli shopping center sono riusciti infatti a tradursi in nodi catalizzatori di nuove urbanità nelle aree periferiche e lungo i tratti e punti nodali delle grandi direttrici di traffico, contribuendo contestualmente ad accelerare la fase più recente (all’incirca dai tardi anni ’80) del processo di cementificazione senza posa delle campagne sotteso dall’utilizzo forzoso del mezzo di trasporto privato (cfr. gli enormi parcheggi destinati ad utenze chiaramente concepite solo come sovralocali). Va ancora aggiunto che queste strutture stanno ormai acquisendo in Europa, e anche nel nostro Paese, parte di quei caratteri funzionali propri dei mall e megamall nordamericani. Esse venivano interpretate negli anni ’90 come uno dei “non luoghi” per eccellenza, erano cioè ritenute, al pari degli aeroporti, luoghi di fruizione e frequentazione privi di tradizioni storiche e pertanto incapaci di generare relazioni sociali solide come era invece proprio delle antiche piazze urbane (Augè, 1993)21 .
19 Si tende oggi ad interpretare il “benessere” sempre meno nell’accezione finora prevalente di “tenore di vita” legato alla posizione reddituale, e a privilegiare quella di uno star bene psico-fisico funzione della “qualità della vita”, che tiene conto di indicatori extraeconomici e soggettivi. Cfr. Banini in questo volume. La visione buddista dell’happiness, puntando su necessità di carattere etico e spirituale, condivide assai poco con il concetto occidentale di felicità, che nella nostra cultura si appunta sul raggiungimento del successo e di traguardi materiali: gli studi sull’economia della felicità hanno ampiamente dimostrato come ambizione, invidia e competizione, dopo la momentanea soddisfazione per un obiettivo raggiunto, comportino la sfida per ulteriori nuove mete, generando condizioni di stress e infelicità (Bruni e Porta, 2004).
20 Bauman qualifica in un recentissimo saggio (2013) tali problemi sociali come “danni collaterali” della globalizzazione, una metafora utilizzata anche da R. Guolo in vari incontri pubblici.
21 Con “non luoghi” Augé (1993) intende una serie di strutture, quali gli aeroporti, le stazioni, i centri commerciali, privi di radici storiche e incapaci di generare legami sociali solidi e duraturi,
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Ma negli ultimi anni le strategie a supporto delle loro finalità squisitamente commerciali si sono affinate, con la dilatazione da un lato dell’offerta merceologica e, dall’altro, con l’attivazione al proprio interno di servizi diversi (alla casa, alla persona, ecc.: ora è il boom dei poliambulatori medici) e accogliendo attività connesse con il divertimento, lo svago e il tempo libero (v. i cinema multisala, con tutto l’indotto di pubblici esercizi destinati alla ristorazione, ecc.): molte iniziative sono state pensate soprattutto per i giovani, tuttavia sono state sinergicamente capaci di rendere questi complessi una meta privilegiata delle famiglie anche indipendentemente dalle necessità di fare acquisti. Sostituiscono spesso la passeggiata in centro città o la “passeggiata fuori porta” di un tempo. L’interpretazione antropologicosociale è così mutata, ed è emersa la nuova lettura dei centri commerciali come “superluoghi”, luoghi di amplissima fruizione a cui la concentrazione di tante attività disparate sta attribuendo una specifica funzione relazionale, dotandoli di una nuova e vera capacità di aggregazione sociale (Agnoletto, Del Piano, Guerzoni, 2007). Un’evoluzione che si accompagna naturalmente con la crescita esponenziale delle loro dimensioni. E tale gigantismo, con quanto comporta in termini di impatti sul territorio, va autoalimentandosi fagocitando, in un quadro di concorrenza all’ultimo sangue tra le diverse società e catene nazionali e soprattutto multinazionali, sempre nuovi spazi, lasciando sopravvivere lacerti del tutto frammentati, sconnessi e illeggibili, irriconoscibili nella loro trama originaria, dei paesaggi storici espressione delle culture e identità locali, i cosiddetti “iperpaesaggi ibridi” (Baccichet, 2011). Queste strutture apportatrici di fattori di compromissione/disintegrazione dei paesaggi culturali, di consumo del territorio (cementificazione e sottrazione di terre agricole), dell’incentivazione a spirale di abitudini sempre meno sostenibili (imprescindibilità dell’uso dell’auto privata, inquinamento, consumi superflui ed enorme produzione di rifiuti, ecc.) sono il simbolo tangibile della dimensione esclusiva in cui il neoliberismo ci ha relegato, quella dell’individuo non utente, paziente o cliente, e men che meno cittadino portatore consapevole di diritti e di doveri, ma consumatore, la sola dimensione che conti nella sua intrinseca strategia, per la quale ciascuno di noi è stato scientificamente scomposto dalle analisi di mercato in base ai generi (incluso l’unisex) e nelle varie fasi e nei differenti ruoli della sua vita (bambino, anziano, studente, lavoratore, sportivo, hobbista, turista ecc.) ed è divenuto target di bisogni, produzioni e servizi specificatamente individuati e, con abili campagne pubblicitarie, artificiosamente indotti22. “Dalla culla alla bara”: un triste capovolgimento del senso dello slogan dell’economia sociale di mercato, del welfare state nella sua più avanzata tradizione, quella scandinava.
ma solo incontri casuali e momentanei tra esistenze parallele. Sono l’opposto dei “luoghi”, carichi di storia, di simboli e di memorie condivise, e perciò fulcro delle relazioni sociali ed emblematizzati dalle piazze dei centri storici europei grandi e piccoli.
22 Sono gli antipodi rispetto al pensiero di Fromm (v. par. 3.1).
3. La provocazione deLLa decrescita
La decrescita si può definire, con le parole di Serge Latouche23, una corrente di pensiero che mette al centro della sua analisi la critica radicale della nozione di sviluppo così come è stata concepita dal modello economico occidentale, basato su una visione antropocentrica e sulla crescita illimitata della produzione e dei consumi. Il termine “decrescita” è usato in modo provocatorio, alla stregua di uno slogan, in opposizione alla parola “crescita”, intesa non tanto con l’accezione di un fenomeno evolutivo (di un organismo – animale o vegetale –, della popolazione, dei rifiuti, dell’inquinamento ecc.), che può essere sia positivo che negativo, ma con il significato più astratto di dinamismo economico (Latouche, 2010)24 . Il concetto di dinamismo economico si può descrivere come un flusso circolare fra “produzione” e “consumo” alimentato dalla continua creazione e immissione nel mercato di nuovi prodotti, per la cui realizzazione è necessaria una certa quantità di materia (risorse) e di energia: per assunto, quindi, in economia si parla di crescita solo quando aumenta la produzione dei beni già esistenti, il che implica, evidentemente, un maggior consumo di risorse. Tale fondamentale aspetto non è stato considerato dalla moderna scienza economica, fondata su una concezione meccanicistica che interpreta il processo economico come un flusso circolare all’interno di un sistema completamente chiuso e autosufficiente: ciò ha impedito di intravedere i problemi ecologico-ambientali connessi a un’economia
23 Serge Latouche, economista e filosofo francese, è tra più noti promotori dell’idea della decrescita, che ha sviluppato in molti saggi Oltre Latouche, sono varie le associazioni impegnate sul fronte della ricerca teorica interdisciplinare sui temi della decrescita. La prima, per il suo sguardo internazionale, è Research & Degrowth (www.degrowth.eu), seguita dall’Associazione per la decrescita italiana di Mauro Bonaiuti, Marco Deriu, Gianni Tamino, Paolo Cacciari ecc., la più prolifica di pubblicazioni, scuole e divulgazioni culturali (www.decrescita.it). Sul versante della promozione di pratiche economico-sociali sostenibili, in Italia il più seguito è il Movimento per la Decrescita Felice di Maurizio Pallante (www.decrescitafelice.it). Sono poi innumerevoli i gruppi locali autonomi, sorti in varie parti del mondo, impegnati nella ricerca di modelli economicosociali diversi da quelli basati sui principi dell’accrescimento indefinito dei profitti, l’accumulazione monetaria, l’intensificazione dei consumi delle risorse naturali e dello sfruttamento umano. 24 È utile soffermarsi brevemente sul significato che i termini “sviluppo” e “crescita” hanno assunto in oltre due secoli di dibattiti sulle teorie economiche nate con la rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800. In origine, gli economisti classici utilizzavano i due termini per spiegare due diversi fenomeni: sviluppo indicava il processo di mutamento di una data struttura, inteso sia come miglioramento (progresso) che come peggioramento (regresso), rispetto a una condizione di partenza; mentre crescita designava specificatamente l’aumento della produzione, e il conseguente incremento del suo valore monetario di mercato (Adamo, 2006, p. 166). Tale distinzione è stata annullata dagli economisti neoclassici ottocenteschi, per i quali i termini sviluppo e crescita sono divenuti sinonimi: ne è conseguita l’interpretazione (ancora oggi largamente accolta) che a una fase di crescita economica, in termini di aumento della produzione capitalistica e dell’accumulazione, corrisponde una fase di sviluppo, inteso in termini di progresso.
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basata sulla crescita illimitata in un mondo le cui risorse, in realtà, non sono inesauribili. Il perdurare di una dinamica autoaccrescitiva nel tempo, se non adeguatamente compensata, infatti, produce crisi e alterazione dell’equilibrio in altri sistemi, nello specifico in quelli sociali e naturali (Bonaiuti, 2013).
Ritornando al termine “decrescita”, si può ricordare che esso ha fatto la sua comparsa nel dibattito economico, sociale e politico occidentale solo nel 2002, in occasione del Colloque International sur l’après-développement intitolato “Défaire le développement, refaire le monde” tenutosi a Parigi presso la sede dell’UNESCO, ma il suo significato interpreta idee che hanno origini più lontane nel tempo e che si legano dapprima alla critica culturale all’economia e, in seguito, alla sua critica ecologica.
3.1. Le origini del pensiero della decrescita
La critica culturale al modello economico sviluppatosi in Europa con la rivoluzione industriale e con il colonialismo nasce e si alimenta nel Vecchio Continente all’interno delle scienze umane intorno alla metà del XIX secolo – dalla sociologia all’antropologia fino alla psicoanalisi – con la messa in discussione sia delle sue basi teoriche, fondate sul modello meccanicistico, sia della sua concretizzazione con le conseguenti ricadute sulla società moderna e i suoi squilibri. Tra gli studiosi che hanno avviato questo filone di pensiero, alcuni hanno rivestito un ruolo fondante nella definizione di teorie che sono divenute dei veri e propri pilastri della decrescita, come la “teoria del dono” formulata dal sociologo e storico delle religioni Marcel Mauss (1872-1950), la tesi della negazione della “naturalità” della società di mercato sviluppata dal sociologo ed economista ungherese Karl Polanyi (1886-1964) e l’opera To Have or To Be? (1976, ossia Avere o Essere?) di Erich Fromm (1900-1980), testo imprescindibile per interpretare la società moderna.
Nel suo Essai sur le don (1923), frutto dell’analisi dei riti legati allo scambio di beni nelle popolazioni arcaiche, Mauss individua nel dono uno dei modi più comuni e universali per creare relazioni umane (oltre che con il divino) in quanto fondato sul principio della “reciprocità”, il quale, se da un lato prevede le azioni di dare ricevere ricambiare (in una logica aliena da ogni forma di interesse), dall’altro non impone regole di legge o costrizioni, poiché semplicemente presuppone l’esistenza di un rapporto di fiducia verso gli altri. A Mauss si riaggancia Polanyi, secondo il quale la società di mercato rappresenta un’anomalia nella storia umana, anche se l’economia non si può considerare avulsa dalla società. L’autore concepisce tre sistemi di integrazione dell’economia nella società: un primo regolato dal principio di reciprocità (v. Mauss), nel quale le relazioni tra individui assumono più valore del bene scambiato; un secondo basato sulla redistribuzione, nel quale i beni e i servizi prodotti sono trasferiti ad un organismo centrale (lo Stato) che ha poi il compito di distribuirli alla collettività; e un terzo
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ove il sistema è regolato dallo scambio di mercato, in cui tutto – natura, lavoro, denaro – diventa merce. Nella “società di mercato”, quindi, la dimensione mercantile – che in altre epoche (e ancora oggi in alcune società) rappresentava solo una parte dell’attività economica – riesce a piegare tutte le attività sociali, anzi la forma stessa della società, alle esigenze del mercato25. A Erich Fromm si deve la proposta umanista di una nuova società da raggiungere attraverso l’analisi introspettiva. In Avere o Essere? lo psicologo stila un elenco delle caratteristiche che l’Uomo deve riscoprire se vuole continuare a vivere nel rispetto di se stesso e della Terra, tra cui sono essenziali – per la logica della decrescita – la gioia di dare e condividere, contro la tensione di accumulare e sfruttare la natura, e l’uomo; l’amore e il rispetto per la vita, in tutte le sue manifestazioni; la rinuncia alla conquista della natura (sottometterla, sfruttarla, violentarla, distruggerla, com’è nell’ottica dell’antropocentrismo e della crescita illimitata) per tentare, invece, di capirla nelle sue dinamiche e nei suoi ritmi (anticipando alcuni concetti oggi consolidati come quello di capacità di carico, di impronta ecologica e debito ecologico), e, in questo modo, collaborare con essa.
Circa la critica ecologica all’economia, essa si fa coincidere convenzionalmente con la nascita negli scorsi anni ’70 di una nuova disciplina, l’economia ecologica, che ha come fondamento l’analisi ecologica dei processi economici (MartínezAlier, 1991). L’ecologia, fondata da Haeckel nel 1866 come scienza che studia i rapporti tra gli organismi viventi e il mondo esterno, diventa più complessa e si fa interdisciplinare, legando tra loro le scienze biologiche, fisiche e sociali (Odum, 1967)26. Ma le prime denunce sugli squilibri ambientali e sociali causati dal modello economico occidentale risalgono al decennio precedente, che peraltro corrisponde al periodo del suo massimo sviluppo: ricordiamo, ad esempio, l’opera Silent Spring di Rachel Carson contro l’inquinamento da pesticidi (1962), e le prime lotte dei movimenti ambientalisti che contribuiranno a plasmare una consapevolezza pubblica sui temi ecologici27. Sono questi gli anni nei quali si
25 Karl Polanyi non considera la reciprocità, la redistribuzione e lo scambio di mercato come sistemi corrispondenti a fasi storiche diverse, ma modalità di scambio economico che possono coesistere.
26 La consapevolezza dell’influenza dell’economia di mercato sui sistemi ecologici era stata maturata già nella seconda metà del 1800 dai primi ecologisti e grazie all’apporto della fisica, che proprio in quegli anni aveva perfezionato la capacità di calcolare i flussi di energia tra Sole e Terra, stabilendo con relativa precisione il bilancio termodinamico del sistema terrestre. E saranno proprio un biologo e un fisico, Patrick Geddes e Rudolf Clausius (padre del concetto di entropia), a porre la grande questione dell’esauribilità delle risorse naturali e il problema del loro approvvigionamento per le generazioni future, anticipando di quasi un secolo il Rapporto Brundtland (v. anche oltre).
27 Tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso si sono andate costituendo le più importanti associazioni ambientaliste a livello internazionale: il World Wildlife Fund (WWF), l’associazione internazionale dei Friends of Earth (Amici della Terra), e Greenpeace, organizzazione non governativa ambientalista e pacifista.
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vanno affermando le tecnologie informatiche che permettono di realizzare le prime simulazioni sugli effetti dell’economia su ambiente e salute, a cominciare da quella svolta dagli studiosi del System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, su invito del Club di Roma, il cui report fu pubblicato nel 1972 con il titolo evocativo The Limits to Growth (I limiti dello sviluppo). Benché le previsioni elaborate dai ricercatori del MIT si siano rivelate troppo astratte (non si era tenuto conto dell’avanzamento della tecnologia e della scoperta di nuovi giacimenti di risorse), il rapporto del Club di Roma riuscì a provocare un cortocircuito nell’ambiente economico, sollevando l’attenzione sulle intricate conseguenze dell’inquinamento e sull’importanza di «far emergere nuovi modi di pensare che porteranno a una revisione fondamentale del comportamento degli uomini e, di conseguenza, della struttura della società attuale nel suo insieme» (Meadows et al., 1972)28 . Negli stessi anni, l’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen formulava la teoria della bioeconomia in The Entropy Law and the Economic Process (1971), un testo divenuto fondamentale. Per lo studioso l’economia deve armonizzarsi con l’ecologia, la biologia e la termodinamica, in particolare con il concetto di entropia legato al suo secondo principio, che, molto sinteticamente, spiega e prova la non reversibilità della trasformazione dell’energia e della materia29. Ne consegue che le risorse naturali impiegate nel processo produttivo possono essere utilizzate solo una volta, e lo scarto è un prodotto irreversibile30
28 Il monito del rapporto del Club di Roma si rivelò in tutta la sua concretezza nel 1973, quando il mondo occidentale in seguito allo shock petrolifero legato alla “guerra del Kippur” (cfr. paragrafo precedente) si trovò ad affrontare il primo duro freno alla crescita. La crisi energetica che ne conseguì, anche se non legata all’esaurimento della materia prima petrolio, obbligò la società e l’economia a prendere atto della questione dell’esauribilità delle risorse o, comunque, della difficoltà di sostituirle nei processi di produzione. I governi europei vararono piani volti a diminuire il consumo di petrolio ed evitare gli sprechi. La crisi spinse inoltre l’Europa a intensificare la ricerca di fonti energetiche all’interno dei propri territori (nuovi giacimenti di petrolio furono scoperti nel Mare del Nord, primi di una serie di ulteriori cospicui rinvenimenti in varie parti del mondo – area caucasica, artica ecc.), oltre che le sperimentazioni di energie alternative derivate da risorse rinnovabili – sole, vento, correnti marine, maree, idrogeno –, ma anche dell’energia nucleare (eventi come quelli di Cernobyl del 1986 e di Fukushima del 2011 hanno però indotto molti ripensamenti sul suo impiego).
29 Poiché il nostro pianeta è un sistema chiuso, che è alimentato dall’energia che arriva dal Sole ma che non scambia materia con l’esterno, accade che la bassa entropia terrestre sia una quantità finita. Il concetto di entropia diventa facilmente comprensibile utilizzando un semplice esempio: se bruciamo un pezzo di carbone, questo non potrà più essere utilizzato di nuovo perché si è trasformato in fumo e cenere.
30 In generale, diversamente dai cicli naturali, nel processo produttivo umano lo scarto è un fenomeno fisico dannoso per diverse forma di vita e, quindi, in modo diretto o indiretto anche per l’uomo: provoca il deterioramento costante dell’ambiente in molti modi (chimicamente, nuclearmente, fisicamente). In alcuni casi gli scarti sono riciclati entro processi “naturali” dell’ambiente
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(Georgescu-Roegen, 1982, p. 190). Al tema della sostenibilità ecologica, l’economista rumeno associa quello della sostenibilità sociale, per un’economia che sia non solo compatibile con le leggi della natura, ma anche giusta (Bonaiuti in Georgescu-Roegen, 2003, p. 8). La sostenibilità sociale implica un nuovo orientamento etico che richiede «di provare una certa simpatia verso gli esseri umani futuri» (Georgescu-Roegen, 1982, p. 71), oltre che per i nostri vicini contemporanei, favorendo una più equa ripartizione delle risorse. Il raggiungimento di tale obiettivo presuppone che l’economia deve fare i conti non solo con la limitatezza delle risorse, e il loro progressivo esaurimento, ma anche con la grande questione della loro localizzazione e distribuzione. Negli anni ’70 i problemi ambientali collegati alla crescita economica evidenziati da Georgescu-Roegen, come dagli altri studiosi di matrice ambientale, diverranno patrimonio anche del dibattito politico internazionale, cosicché da allora ambiente e sviluppo risulteranno un binomio inscindibile. La dimensione sociale legata al concetto di sviluppo verrà considerata in modo più deciso solo nel decennio successivo, grazie soprattutto all’operato delle Nazioni Unite, e dei suoi organismi (in particolare dall’United Nations Development Programme – UNDP)31, con l’organizzazione di fondamentali vertici internazionali, a partire dalla Conferenza sull’ambiente umano svoltasi a Stoccolma nel 1972, e la promozione di importanti inchieste sui problemi mondiali legati allo sviluppo. La più popolare tra queste inchieste, per le implicazioni successive, sarà quella sul rapporto tra problemi globali dell’ambiente e dello sviluppo socio-economico dei popoli affidata nel 1983 a una commissione indipendente, che nel 1987 presenterà all’ONU il suo rapporto finale, il già citato rapporto Brundtland, nel quale è delineata la proposta di una politica mondiale per uno “sviluppo sostenibile” sia dal punto di vista ecologico che sociale.
(questi scarti hanno bisogno di uno spazio in cui rimanere isolati finché non si porti a termine la loro riduzione), altri scarti si possono trasformare in altri meno indesiderati; ci sono poi quelli che non si possono proprio ridurre (v. scorie nucleari). In ogni modo, l’accumulazione di qualsiasi tipo di scarto (dai rifiuti di ogni genere al calore) comporta la difficoltà di stoccarli, data dalla finitezza stessa dello spazio terrestre (Geogescu-Roegen, 1982, pp. 39-40), senza contare che, indipendentemente dallo spazio eventualmente disponibile, alcuni scarti sono un pericolo perdurante nel tempo per l’ambiente e per l’uomo (come le citate scorie nucleari).
31 Attraverso la divulgazione dei Rapporti sullo Sviluppo Umano (pubblicati dal 1990), l’UNDP ha fatto emergere le grandi questioni dell’aumento della povertà e della mancanza di accesso ai servizi essenziali per una larga parte della popolazione mondiale, evidenziando come la componente sociale dovesse essere fatta rientrare nel concetto di sviluppo alla pari di quelle economica e ambientale. All’UNDP si deve, infatti, l’elaborazione del concetto di sviluppo umano, vale a dire di uno sviluppo che deve tenere conto non solo e non tanto degli aspetti quantitativi della vita (v. il PIL), ma soprattutto di quelli qualitativi (istruzione, salute, accesso ai servizi ecc.) e dei principi etici basilari (partecipazione ai processi economici, sociali, culturali e politici, eguaglianza, autorealizzazione ecc.).
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3.2. Decrescita vs sviluppo sostenibile
Il concetto di sviluppo sostenibile, improntato sui tre principi-obiettivi cardine dell’integrità dell’ecosistema, dell’efficienza economica e dell’equità sociale (intra- e intergenerazionale), trovò la sua conferma internazionale all’Earth Summit di Rio de Janeiro (1992): tutti i partecipanti – dalle delegazioni governative alle ONG, al mondo dell’economia, del commercio e della finanza – si impegnarono infatti a definire un futuro sviluppo improntato a un nuovo modo di concepire le relazioni tra l’uomo e l’ambiente e tra popolazioni diverse, attuali e future, attraverso un preciso programma di azione, delineato da una serie di strumenti legali e impegni morali sottoscritti da quasi tutti i partecipanti32 .
Se a Rio lo sviluppo sostenibile fu acquisito come principio organizzativo per le società di ogni parte del mondo (Annan, 2002), gli eventi che hanno segnato gli anni a seguire fino all’attualità, pur a fronte di miglioramenti in termini di efficienza ecologica nella produzione di beni e servizi e di tutela dell’ambiente, ne hanno decretato il sostanziale fallimento. Per molti, le ragioni di tale insuccesso sono insite nella dicotomia fra le due parole che compongono il binomio sviluppo sostenibile: da un lato “sviluppo” inteso come sinonimo di crescita economica illimitata, dall’altro “sostenibile”, termine che presuppone modelli economici e stili di vita che devono tenere conto dell’esauribilità e limitatezza delle risorse naturali (aria, acqua, suolo, sottosuolo, ecosistemi ecc.) e del degrado ambientale derivato dalle modalità del loro utilizzo (inquinamento, desertificazione, cambiamenti climatici ecc.). Per Daly, economista allievo di Geogescu-Roegen, il problema è legato alla vaghezza del concetto, che proprio per questo «piace a tutti, ma il cui significato non è chiaro a nessuno»: accettare un termine indefinito, come nei fatti è avvenuto, ha portato al fiorire di interpretazioni diverse dello stesso, con implicazioni importanti sulle politiche che lo riterranno più vicino ai propri interessi (Daly, 2001, pp. 3-4). Sintesi massima delle molteplici, e molto diverse, interpretazioni cui il concetto è stato sottoposto, sono le due posizioni estreme della sostenibilità forte, legata alla deep ecology, e della sostenibilità debole, sostenuta dalla frontier economics (Banini, 2010)33 .
32 I principali documenti approvati a Rio nel 1992 sono la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo, la Convenzione quadro sul cambiamento climatico (divenuta attuativa con il Protocollo di Kyoto del 1997, che ha però fallito l’obiettivo della riduzione del 5,2% delle emissioni di gas serra entro il 2012, a partire dai livelli del 1990), la Convenzione sulla biodiversità, l’Agenda 21, la Dichiarazione sulle foreste.
33 La sostenibilità forte considera l’ambiente naturale come un sistema in cui ogni singola parte deve essere considerata non come elemento a sé stante, ma per le funzioni che svolge all’interno dell’ecosistema, funzioni che non sono solo e soltanto utili all’uomo da un punto di vista monetario, ma anche sotto l’aspetto ecologico, sociale e culturale. Tali funzioni sono definite “servizi ecosistemici” e corrispondono, ad esempio, alla regolazione del clima e al controllo dell’inquinamento (depurazione delle acque e dell’aria), all’impollinazione, alla formazione del suolo e alla
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Oltre la questione semantica, il fallimento delle politiche decise a Rio si palesa in alcuni dati riferiti all’evoluzione della situazione ambientale, sociale ed economica degli ultimi venti anni: dall’aumento del 58% delle emissioni di gas serra (CO2) dal 1990 (Peters et al., 2013)34 alla perdita di biodiversità (legata ai cambiamenti climatici, all’inquinamento, al sovrasfruttamento delle risorse, alla cementificazione ecc.) che prosegue a ritmo incalzante35, alla grande questione legata all’accesso alle risorse (in primis all’acqua e alle terre coltivabili) e ai servizi minimi in un mondo sempre più popolato in cui le disparità sono in continuo aumento36. Anche i dati sulla situazione della fame nel mondo non presentano un quadro confortante. Infatti, a fronte dei miglioramenti avvenuti nell’arco temporale 1990-2012, durante il quale il numero complessivo delle persone che soffrono la fame è diminuito di 132 milioni (dal 18,6% della popolazione mondiale al 12,5%), specifiche aree geografiche registrano un’inversione di tendenza: risaltano i dati dell’Africa sub-sahariana, dove dal 2007 la sottonutrizione sta aumentando al ritmo del 2% l’anno, e, paradossalmente, quelli dei paesi sviluppati, nei quali le persone che patiscono la fame sono passate dai 13 milioni del biennio 2004-06 ai 16 milioni del 2010-12 (FAO, 2012, pp. 9 e 11)37 . L’attuale situazione è l’esito di politiche che, pur affermando di fare proprio il concetto di sviluppo sostenibile, nella realtà dei fatti hanno continuato fotosintesi, oltre che alla fornitura di cibo, acqua e materie prime, e ai valori estetici, spirituali, educativi e ricreativi ecc. (MEA, 2005; Bagliani, 2006): servizi che sono sempre stati disponibili per l’uomo in modo gratuito (Costanza et al., 1997, p. 257). Questa impostazione prevede un radicale ripensamento delle attuali logiche di prelievo e uso delle risorse, con un’attenzione forte al principio dell’equità intergenerazionale. La sostenibilità debole, di contro, considera l’ambiente naturale in termini di singole risorse utili allo sviluppo, ammettendo la possibilità di sostituire il capitale naturale con capitale tecnologico o comunque artificiale: nel momento in cui una risorsa materiale si rivelasse scarsa, il suo utilizzo potrà essere ottimizzato grazie alla tecnologia (Banini, 2010, pp.58-59).
34 Di tale aumento sono responsabili soprattutto Cina, Stati Uniti, Europa e India, che insieme assommano più della metà delle emissioni globali di CO2 (Peters et al., 2013, p. 6).
35 Secondo le proiezioni dell’Organisation for Economic Cooperation and Development (OECD) relative alle prospettive ambientali per il 2050, la biodiversità del pianeta (calcolata come abbondanza media delle specie, un indicatore dell’integrità degli ecosistemi naturali) diminuirà ancora del 10% entro tale data, in particolare in Asia, Europa e Sud Africa (OECD, 2012). Tale impoverimento rappresenta una minaccia per il benessere di tutto il genere umano, ma in particolare per le popolazioni rurali povere e per le comunità indigene la cui sopravvivenza dipende dai “servizi ecosistemici” offerti dalla natura (v. anche nota 17).
36 Infatti, degli attuali oltre 7 miliardi di esseri umani, circa 900 milioni non hanno accesso all’acqua potabile, e circa 2,6 miliardi non hanno accesso ai servizi igienico-sanitari di base, a fronte di un 12% della popolazione mondiale – quella che fa capo ai paesi ricchi – che ne consuma l’85% (WWF, 2012).
37 Questi dati appaiono ancora più impressionanti se confrontati con quelli relativi allo spreco di cibo. Uno studio commissionato dalla FAO nel 2011 ha rilevato che ogni anno nel mondo sono letteralmente gettate nei rifiuti 1,3 miliardi di tonnellate di cibo (1/3 della produzione totale):
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a praticare i principi dell’economia convenzionale: la fede incondizionata nel progresso tecnologico, la crescita della produzione, dei consumi, dei redditi e del PIL38. In questo contesto, la proposta dalla decrescita appare come una rottura totale non solo con il sistema dominante, ma anche con il paradigma dello sviluppo sostenibile sia intrinsecamente sia per come è stato applicato, proponendo un progetto di cambiamento radicale dei valori di matrice occidentale che hanno condizionato l’economia, e conseguentemente la società e l’ambiente a partire dalla metà del XVIII secolo. Latouche usa l’espressione “decolonizzazione dell’immaginario” per descrivere l’azione indispensabile per trovare soluzioni innovatrici che rimettano al centro della vita umana ragioni d’essere e significati altri rispetto all’espansione della produzione e dei consumi. Un cambiamento che potrà avvenire solo in modo graduale, attraverso delle fasi di transizione che trovano nell’interazione tra riflessione teorica e pratiche il loro modus operandi.
Nella dichiarazione redatta alla Prima Conferenza sulla Decrescita Economica per la Sostenibilità Ecologica e l’Equità Sociale tenutasi a Parigi nel 2008, la decrescita è definita «una transizione volontaria verso una società equa, partecipata ed ecologicamente sostenibile», sostituendo al paradigma della crescita economica illimitata l’idea di una «giusta dimensione» dell’economia a livello sia globale sia di singole nazioni39 .
La via da seguire per arrivare a una società libera dal mito della crescita è rappresentato, secondo Latouche, da otto obiettivi, tra loro interdipendenti, che disegnano «la costruzione intellettuale di un funzionamento ideale» (Latouche, 2009, p. 41): sono le “Otto R”, sintetizzate nella tabella 1. Esse tracciano un percorso che richiede uno sforzo sia intellettuale – con la messa in discussione delle idee che hanno dato corpo al sapere della modernità, orientato in senso antropocentrico e sviluppista (le prime tre) –, sia operativo, con la puntualizzazione delle azioni necessarie a risolvere/prevenire i problemi che affliggono l’ambiente e una perdita che rappresenta un immane spreco oltre che di beni anche di risorse, quali l’acqua e la terra, e di energia (quella impiegata nel ciclo produttivo degli alimenti, con conseguente aumento di emissioni di CO2) (FAO, 2011). Il trend del 2011, purtroppo, resta attuale.
38 Per quanto negli anni siano stati proposti, a livello internazionale, nuovi e diversi indicatori del grado di “benessere” di un Paese (ISU, BES ecc.), il PIL rimane ancora un dogma indiscusso nel dibattito economico-politico attuale (v. supra pp. 120 e 121).
39 Fonte: http://www.decrescita.it/joomla/index.php/chi-siamo/manifesto/9-dichiarazione-sulladecrescita. Dopo l’esperienza di Parigi, il dibattito internazionale sulla decrescita è stato strutturato in conferenze biennali che si tengono di volta in volta in luoghi diversi. Nel 2010 la Conferenza sulla decrescita è stata organizzata a Barcellona e nel 2012 a Venezia; la prossima si terrà a Lipsia nel 2014.
Dal modello della globalizzazione ai valori della decrescita
Tab. 1 – Le “Otto R” della decrescita.
Rivalutare Cambiare il sistema dei valori in cui si crede e in relazione ai quali si organizza la vita, recuperando i valori realmente fondamentali (la cura della vita sociale dovrebbe prevalere sul consumo illimitato, la cooperazione sulla concorrenza, il locale sul globale ecc.).
Riconcettualizzare Provare a immaginare di modificare il contesto concettuale e valoriale di riferimento: ad esempio, i concetti di ricchezza e di povertà, di abbondanza e di bisogno possono essere esaminati attraverso categorie che non necessariamente rispondono alle regole dell’economia produttivista.
Ristrutturare Pensare nuove e più compatibili strutture economico-produttive e rinnovati modelli di consumo, dei rapporti sociali e degli stili di vita.
Ridistribuire Si tratta di ridistribuire le ricchezze per consentire a tutti l’accesso ai beni naturali e garantire ad ogni società (attuale e futura) una vita dignitosa. La ridistribuzione interessa tutti gli elementi del sistema: dalla terra ai diritti di accesso alle risorse, dal lavoro ai redditi e alle pensioni. Riguardo ai rapporti Nord-Sud, non si tratta di dare di più al Sud, piuttosto di predare meno.
Rilocalizzare Si tratta di rilocalizzare:
– la produzione, sostenendo il consumo dei prodotti locali necessari a soddisfare il fabbisogno della popolazione, e il lavoro, con relativa riduzione dei costi e degli effetti dannosi dei trasporti;
– le politiche economiche e sociali, in modo che siano basate sulle necessità reali di un territorio;
– la politica, inventando (o reinventando) forme di autogoverno per la gestione delle risorse locali.
Ridurre Ridurre gli impatti delle nostre azioni sui sistemi naturali (riduzione dei rifiuti, dei trasporti, dei consumi di energia, degli sprechi), ma anche sulla nostra qualità della vita (riduzione dell’orario di lavoro per creare più occupazione e avere più tempo per le relazioni con gli altri, per coltivare le proprie passioni ecc.).
Riutilizzare Usare con rispetto e far durare più a lungo gli oggetti che servono alla nostra vita e procedere a forme di reimpiego, evitando di accrescere i rifiuti e contribuendo al contenimento dei consumi di risorse. Si pensi agli strumenti tecnologici, dal computer agli elettrodomestici, concepiti per durare un tempo molto limitato (obsolescenza programmata) e all’influenza della pubblicità nello spingerci a sostituire strumenti ancora validi con altri di ultimissima generazione.
Riciclare Recuperare tutti i materiali derivati da oggetti non più utilizzabili (recupero di materie prime secondarie) e gli scarti non decomponibili per ri-immetterli nel processo produttivo, imitando il ciclo della natura.
Fonte: nostra rielaborazione da Latouche (2007).
la società – causati dalla dismisura della produzione, dei consumi di beni e risorse naturali –, la cui soluzione deve passare necessariamente attraverso l’imposizione di limiti, individuali e collettivi (Ridoux, 2008, p. 85), per ritrovare il senso della misura e arrivare così a costruire una società sostenibile. Il percorso verso la decrescita, così come proposto dalle “Otto R”, è principalmente pensato per i paesi “sovrasviluppati” e quindi non si potrà realizzare allo stesso modo al Nord e al Sud del mondo (Latouche, 2010, p. 59)40, sia
40 La proposta di decrescita per i paesi del Sud del mondo traccia un percorso diverso, partendo innanzitutto dalla de-connessione con il modello culturale del Nord della crescita illimitata, per avviare politiche economiche autonome (Latouche, 2007, p. 161). Questa possibilità può essere liberata solo attraverso la rottura delle catene dello sfruttamento delle risorse naturali di questi Stati (fossili, minerali, acque, terre impiegate per coltivazioni speculative e anche per la produ-
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perché sarebbe inammissibile proporre di abbattere i consumi a quelle popolazioni che non riescono a soddisfare i loro bisogni minimi essenziali, sia per non replicare le logiche dell’economia standard, come già Georgescu-Roegen ammoniva, le cui leggi, sviluppate dal mondo occidentale, sono state applicate universalmente in ogni ambito geografico (Bonaiuti in Georgescu-Roegen, 2003, p. 23), così come le tecnologie e i saperi. Centrale nella decrescita è, infatti, la considerazione di economie altre rispetto a quella “sviluppista”, economie agricole o informali come quelle dei paesi del Sud del mondo, oltre alla riscoperta – ad ogni latitudine – della dimensione locale, della specificità dei luoghi sia in termini di risorse naturali che di competenze maturate da una comunità (Magnaghi, 2010)41. La decrescita si presenta quindi come una matrice di alternative (Latouche, 2010, p. 59) al modello socio-economico imperante e alle sue regole; e il cambio di rotta verso un nuovo modo di concepire la nostra vita e i nostri bisogni passa attraverso la capacità creativa e inventiva di ogni società, in modo diverso e unico perché legata alle specificità ambientali, storiche e culturali del suo territorio.
Le esperienze e le iniziative verso una società della decrescita sono numerose: si tratta di attività (alcune ormai consolidate) attraverso le quali si sperimentano modi nuovi e diversi di produrre, consumare, mangiare, abitare, muoversi, viaggiare che rientrano in quella che è ormai comunemente individuata come “economia solidale” (Biolghini, 2007)42, la cui operatività si muove sia a livello internazionale sia alla scala micro-locale, come evidenziano le esperienze riportate nella tabella 2.
Le pratiche attraverso le quali si può attuare la decrescita rivelano l’esistenza di una cittadinanza attiva, legata al territorio, che si muove dal basso attraverso
zione di biocarburanti, che impediscono la loro autosufficienza alimentare, e gli spazi espropriati per realizzare grandi infrastrutture – dighe, strade ecc. – e strutture turistiche), di cui la crescita globale si nutre. Centrale in questo senso è la lotta delle comunità locali e indigene per la difesa dei loro territori dallo sfruttamento indiscriminato e senza regole delle multinazionali e/o degli stessi governi locali. La loro azione, diversamente dai movimenti ecologisti storici, si basa su un interesse materiale per l’ambiente come unica fonte di sostentamento e fa appello ai diritti territoriali indigeni o alla sacralità della natura. È una «ecologia dei poveri» (Martínez-Alier, 2009), la cui etica si fonda su una domanda di giustizia sociale: giustizia per quei contadini i cui campi o pascoli sono stati distrutti dall’apertura di cantieri o miniere, per i piccoli pescatori la cui attività è messa a rischio dalla pesca industriale che provoca la distruzione degli stock ittici, per quelle comunità che soffrono e muoiono a causa dell’inquinamento provocato da miniere e fabbriche sorte a ridosso dei loro villaggi o città (Ivi, p. 25).
41 Un altro spunto di riflessione per ridefinire il modello socio-economico attuale viene da J. Diamond (2013), con la sua analisi dei saperi e delle competenze delle comunità tradizionali.
42 L’economia solidale è stata definita come un’economia plurale, in quanto mette insieme i valori dell’economia non monetaria (fondata sull’autoproduzione, il volontariato, il baratto) con la vendita di prodotti e servizi che è propria dell’economia di mercato, cercando allo stesso tempo di instaurare dei rapporti stabili con il settore pubblico (Laville, 1998).
Tab. 2 – Le pratiche dell’economia solidale: principi e modalità operative.
Pratiche Principi e modalità operative
commercio
equo e solidale (fairtrade)
mercati contadini
(farmers markets)
Sistema alternativo al commercio internazionale tradizionale, si fonda sulla cooperazione e collaborazione in primo luogo tra produttori del Sud e importatori del Nord del mondo in un rapporto di uguaglianza e rispetto reciproco; è sottoposto a vincoli precisi (ad es. divieto del lavoro minorile, impiego di materie prime rinnovabili, sostegno della formazione/scuola).
Predilige la filiera corta (numero limitato di passaggi produttivi e intermediazioni commerciali) e la produzione biologica (per garantire la sicurezza di contadini e operai, la salvaguardia dell’ambiente, oltre che favorire le tecniche tradizionali di coltivazione e rispondere alle esigenze dei consumatori per un cibo più sano).
Sono mercati locali che si svolgono all’aperto in cui i produttori vendono direttamente le proprie produzioni (i prodotti venduti sono detti a “kilometro zero” perché percorrono un tragitto inferiore a 70 km). Loro finalità è accorciare le distanze non solo fisiche, ma anche sociali, culturali ed economicoreddittuali, tra il mondo della produzione e il mondo del consumo.
Nati negli Stati Uniti negli anni ’70, questi mercati si sono successivamente diffusi in tutta Europa. In Italia sono presenti solo da alcuni anni e coinvolgono diversi soggetti: piccoli produttori, amministratori locali, soggetti pubblici responsabili delle politiche di sviluppo rurale, organizzazioni professionali agricole, organizzazioni e movimenti sociali.
gruppi di acquisto solidale (gas)
distretti di economia solidale (des)
Sono gruppi di persone che decidono di organizzarsi per acquistare collettivamente dei beni (soprattutto alimentari) da ridistribuire tra loro e che utilizzano il concetto di solidarietà come criterio guida nella scelta dei prodotti: solidarietà tra i membri del gruppo, verso i piccoli produttori, l’ambiente e le realtà più fragili.
I GAS sono collegati tra di loro in una rete per favorire lo scambio di informazioni e la diffusione di questa iniziativa. In Italia l’esperienza è iniziata nel 1994 e oggi conta circa 900 gruppi.
Corrispondono a territori nei quali pratiche virtuose già avviate sono messe in relazione tra loro al fine di sostenersi vicendevolmente: i consumatori e le loro associazioni (ad es. i Gas), le istituzioni del credito e della finanza (Banca e Finanza Etica), le imprese, le istituzioni (in particolare gli enti locali).
Un DES persegue la “sovranità economica” cercando di produrre tutti i beni e i servizi possibili a livello di territorio distrettuale (il pane, gli ortaggi, i latticini, la carne, l’energia, i servizi basilari alla persona, la sanità di base, l’istruzione primaria, la viabilità interna ecc.). Pur perseguendo il massimo di sovranità economica, il distretto potrà procurarsi beni e servizi anche da altri distretti, in uno scambio equo e virtuoso.
last minute market (lmm)
Progetto concepito presso l’Università di Bologna (1998), è volto alla riduzione degli sprechi attraverso la valorizzazione e il riutilizzo di beni immessi nel mercato dalla Grande Distribuzione Organizzata e rimasti invenduti.
LMM recupera tutte le tipologie di prodotti: alimentari, eccedenze di attività commerciali e produttive; prodotti ortofrutticoli non raccolti e rimasti in campo; pasti pronti recuperati dalla ristorazione collettiva (es. scuole, aziende); farmaci da banco e parafarmaci prossimi alla scadenza; libri o beni editoriali destinati al macero; tutti i beni non alimentari.
orti urbani Terreni posti all’interno o nell’immediata periferia delle città in cui è possibile coltivare collettivamente ortaggi, frutta e fiori per l’autoconsumo. L’esperienza degli orti urbani è particolarmente diffusa in tutta l’Europa del Nord e in molte città degli Stati Uniti. In Italia la maggior parte degli orti urbani è realizzata su terreni pubblici attrezzati e assegnati con modalità diverse dall’Amministrazione comunale ai cittadini; altra tipologia è quella degli orti e giardini condivisi, realizzati da gruppi di cittadini che decidono di recuperare un terreno abbandonato del quartiere in cui vivono e di coltivarlo insieme. Oltre l’aspetto utilitaristico, gli orti urbani sono spazi nei quali è possibile ricostruire la socialità e la convivialità tra le persone, lavorare con i disabili, reinserire lavoratori in mobilità, educare all’ambiente, contrastare la speculazione edilizia.
(continua)
Alma Bianchetti, Nadia Carestiato
(segue)
Pratiche
Principi e modalità operative
cohousing Sono complessi abitativi composti da appartamenti privati e spazi destinati all’uso comune e alla condivisione dei residenti (lavanderie, laboratori per il fai da te, spazi-gioco per i bambini ecc.). Le famiglie che convivono costituiscono una comunità di vicinato che gestisce gli spazi comuni in modo collettivo, ottenendo un risparmio economico e benefici di natura ecologica e sociale (la condivisione degli spazi favorisce altre forme di economia solidale come, ad es., la costituzione di GAS o il car sharing).
ecovillaggi Sono piccole comunità rurali o urbane che integrano una struttura sociale basata sulla solidarietà e la condivisione (attuata attraverso metodi decisionali partecipativi) con attività pratiche ispirate a modelli di vita sostenibile. Possono dar vita a nuovi insediamenti o procedere alla ristrutturazione di abitati già esistenti, anche abbandonati.
Gli ecovillaggi rispondono a dei principi comuni: costruire o ristrutturare in maniera ecologica (uso di materiali locali, naturali e di facile riciclaggio), utilizzo di energie rinnovabili, produzione di alimenti biologici su scala locale attraverso il recupero di terreni abbandonati e pratiche agronomiche tradizionali o innovative (come la permacoltura), salvaguardia delle risorse idriche, razionalizzazione dei sistemi di trasporto ecc. Questa esperienza è diffusa in tutto il mondo, sia nei paesi industrializzati sia nei paesi in via di sviluppo.
transition towns
car pooling
Movimento culturale nato tra il 2005 e il 2006 nel Kinsale (Irlanda) e a Totnes (Inghilterra) da un’idea dell’ambientalista Rob Hopkins, e oggi diffuso in tutto il mondo, si pone l’obiettivo di riorganizzare le città in modo sostenibile attraverso azioni creative, applicabili ai settori della produzione di energia, della salute, dell’istruzione, dell’economia e dell’agricoltura.
In Italia sono state avviate diverse esperienze di transition towns che coinvolgono comuni grandi e piccoli.
Modalità di trasporto che prevede la condivisione di automobili private tra un gruppo di persone che percorrono la medesima tratta nella stessa fascia oraria al fine di ridurre i costi e i consumi del trasporto. Secondo un accordo informale, un soggetto del gruppo mette a disposizione il proprio veicolo, mentre gli altri contribuiscono a coprire una parte delle spese sostenute dall’autista.
Tale pratica è ormai molto diffusa in diversi Paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti (qui è stata predisposta una apposita segnaletica stradale), mentre in Italia trova ancora una modesta applicazione (soprattutto nell’ambiente universitario e scolastico).
bike e car sharing Rientrano nelle iniziative volte a favorire una mobilità sostenibile e prevedono la condivisone dell’automobile o della bicicletta.
Bike sharing: servizio di noleggio di biciclette erogato dalle amministrazioni pubbliche per favorire l’uso dei mezzi pubblici (treni, autobus ecc.) secondo la logica del trasporto intermodale.
Car sharing: servizio privato che permette di utilizzare un’automobile su prenotazione, pagando in ragione dell’utilizzo fatto (l’auto da bene di consumo diviene un bene di servizio).
ospitalità gratuita ai viaggiatori e turismo solidale
Forma di ospitalità informale e disinteressata gestita al di fuori dei classici canali del mercato turistico e volta a favorire l’incontro e l’amicizia tra popoli e culture, oltre che per dare un contributo alla pace e alla cooperazione tra i popoli. È gestita da “Reti di ospitalità” o altre associazioni, che operano a livello internazionale: le più importanti sono l’Associazione Servas, diffusa in tutti i paesi del mondo (per l’Italia www.servas.it) e la piattaforma online Couchsurfing (www.couchsurfing.org). Esistono poi forme di ospitalità non gratuita legate al “turismo solidale e responsabile” che vuol sostenere sia piccole economie che iniziative sociali locali
forme di autogoverno partecipato, di mutualità e collaborazione volontaria. Tali comportamenti aprono ad un’altra importante questione, quella dell’esistenza di beni e servizi essenziali per la vita di ogni individuo, il cui accesso non può essere limitato o esclusivo di un singolo o di un dato gruppo sociale. Tali beni e servizi sono definiti con il termine di “beni comuni”: distinti dai beni privati e dai beni
Dal modello della globalizzazione ai valori della decrescita 135
pubblici43, essi corrispondono a tutte le risorse (naturali e/o artificiali), utilizzate insieme da più individui, connotate da processi di esclusione dall’uso difficili e/o costosi, seppur non impossibili (Ostrom, 1990, p. 30) e, soprattutto nel caso di risorse naturali, anche da condizioni di alta sottraibilità, per le quali il prelievo di una risorsa da parte di un singolo soggetto ne riduce la disponibilità per tutti gli altri. Si configurano inoltre come beni inalienabili, in quanto indispensabili per l’esercizio dei diritti fondamentali e lo sviluppo della persona (Mattei et al., 2007).
Nell’ampia tassonomia dei beni comuni è possibile distinguere tra beni tangibili e intangibili, naturali e ambientali, locali e globali, a loro volta distinguibili in beni inesauribili, esauribili e rinnovabili. Da queste distinzioni deriva il loro grado di accessibilità: i beni immateriali, o intangibili (ad es. la cultura e i saperi), per la loro proprietà di essere moltiplicabili in misura potenzialmente illimitata e non essendo frazionabili, possono essere assicurati a tutti in assoluto, senza limiti di misura; alle risorse naturali esauribili (il suolo, l’acqua ecc.) è invece riconosciuto a tutti un grado di accessibilità parziale, ma comunque in condizioni sempre egualitarie (Prestipino, 2005). Tentando una loro identificazione, si possono distinguere almeno tre gruppi di beni comuni: i beni comuni tradizionali goduti da una comunità locale per diritto consuetudinario (prati, pascoli, boschi, aree di pesca ecc.), indicati anche come “proprietà collettive”44; i global commons (beni comuni globali: aria, acqua, foreste, biodiversità, oceani ecc., e anche il paesaggio!); i new commons (la cultura e le conoscenze tradizionali, Internet, le aree verdi in città, i servizi pubblici di acqua, luce, trasporti, le case popolari, la sanità e la scuola ecc.), molti dei quali sono comunemente intesi nell’accezione di “beni pubblici”45 .
43 Privati sono quei beni che appartengono in modo pieno ed esclusivo ad uno o più soggetti. I beni pubblici sono beni utilizzati congiuntamente da più individui parte di una data società/comunità: sono in genere i beni ascritti a vario titolo al patrimonio di uno Stato, il cui diritto all’uso discende di solito dall’essere parte di un gruppo sociale (v. diritto di cittadinanza) e per i quali si può pagare un prezzo non di mercato, ma sociale, cioè inferiore al costo medio di produzione (si pensi ad esempio ai trasporti urbani, alla pubblica istruzione ecc.).
44 La proprietà collettiva si configura come una proprietà indivisa e inalienabile che fa capo ad un gruppo di soggetti (una comunità stabilmente insediata nel territorio nel quale tali beni sono ubicati) il quale condivide diritti e doveri rispetto ad un sistema di risorse. Presuppone un modello di vita associata, strutturato su una stretta relazione tra risorse naturali, comunità e singoli attori (Carestiato, 2010). In molti casi gli ambiti caratterizzati da proprietà collettive coincidono con aree di conservazione della natura definite da trattati internazionali (ad es. la Convenzione sulla Biodiversità). Tali aree, diffuse in tutto il mondo, sono indicate come “Indigenous Peoples’ and Community Conserved Territories and Areas” (ICCAs: territori e aree conservate da popoli indigeni e comunità locali). Cfr. http://www.iccaforum.org/.
45 La loro continua ridefinizione teorica nel corso della storia rende instabile e sottile il confine che separa i beni comuni dai beni pubblici (i quali ultimi si configurano soprattutto come servizi gestiti dallo Stato nell’ambito delle sue politiche sociali, che materialmente si identificano con le strutture fisiche deputate all’erogazione di tali servizi: scuole, ospedali, acquedotti ecc.). Alla luce dell’attuale linea politico-economica di matrice ultraliberista, i beni pubblici così intesi –
Alma Bianchetti, Nadia Carestiato
Al centro del dibattito sui beni comuni si pone la questione della loro gestione, a livello locale e globale, e quindi gli aspetti che riguardano la relazione tra le risorse e le istituzioni designate al loro uso e mantenimento. In tal senso, uno degli aspetti più delicati da affrontare riguarda il diritto all’autogoverno delle risorse da parte delle comunità locali. Su questo fronte sono fondamentali le ricerche svolte dall’americana Elinor Ostrom sulle problematiche legate all’azione collettiva e sulle condizioni che permettono l’autogoverno attraverso l’osservazione diretta di alcuni sistemi di gestione di risorse collettive da parte delle comunità locali46: un lavoro che ha dimostrato la capacità delle comunità di autogestire le risorse del proprio territorio definendo in modo autonomo le regole per il loro uso e appropriazione. La capacità di autogoverno presuppone una responsabilità collettiva al mantenimento dei beni comuni – come sottolinea Silke Helfrich (2102), i beni comuni esistono solo se vengono prodotti, e possono mantenersi o riprodursi solo se ci prende cura di loro –; un impegno che ha però bisogno della legittimazione dei beni comuni nelle carte costituzionali dei singoli Stati. Senza costituzionalizzazione, infatti, non può esserci un sostegno giuridico e, quindi, nessuno potrebbe ricorrere allo Stato per proteggere il diritto ad accedere al bene comune o a garantirne la sopravvivenza come tale (Petrella, 2006, p. 79)47 .
I beni comuni possono quindi rappresentare il paradigma per una società diversa, organizzata a livello locale (comunità) e a partecipazione democratica (Ricoveri, 2010), che partendo dalla cura dell’ambiente, del paesaggio, degli spazi pubblici, dei propri luoghi di vita (Magnaghi, 2010, p. 133) è capace di costruire
dall’istruzione alla sanità, dall’edilizia popolare alla fornitura di energia, all’approvvigionamento idrico – sono sottoposti ad un progressivo smantellamento sotto la spinta della crescente privatizzazione. In tal senso, essi assumono sempre più il valore di beni comuni, così come sono stati precedentemente definiti.
46 La Ostrom è stata una delle massime teorizzatrici dei beni comuni: una delle sue opere basilari è Governing the Commons (1990). Per i suoi studi, nel 2009 le è stato conferito il premio Nobel per l’economia.
47 Così è stato in Bolivia ed Ecuador, che nelle loro nuove Costituzioni riconoscono sia i diritti della natura sia la sovranità delle comunità indigene. La Nueva Carta Magna ecuadoriana (2008) ha adottato un modello di economia “sociale e solidaristica” basata sui criteri del buen vivir (“vivere bene”, ossia la ricerca di armonia e benessere collettivo con la natura), e riconosce, oltre alla proprietà pubblica e privata, la proprietà mista, popolare e solidale, oltre a sancire il diritto umano all’acqua come fondamentale e irrinunciabile e il diritto all’alimentazione per tutti, basata sulla sovranità alimentare. Nella Costituzione boliviana (2009), l’importanza assegnata ai beni comuni si lega alla loro duplice valenza religiosa e sociale: le diverse etnie che compongono la popolazione del Paese si riconoscono nel culto della Pachamama (Madre Terra), che offre loro i beni necessari per vivere; tali beni sono di tutti, così come è responsabilità e diritto di tutti tutelarli e amministrarli. Da qui, il riconoscimento di un ruolo attivo della società civile organizzata nell’amministrazione dei beni comuni (in particolare delle risorse idriche) e nella definizione delle politiche pubbliche.
Dal modello della globalizzazione ai valori della decrescita 137
un futuro svincolato dal modello imperante, produttivista e finanziarizzato, i cui eccessi e deviazioni hanno condotto all’attuale condizione di crisi – non congiunturale e globale nelle sue implicazioni – in cui siamo tutti coinvolti.
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Mirella Loda*, Fabio Amato**
1. QuaLe puBBLico per Lo spazio puBBLico? (Mirella Loda)
1.1. Premessa. Un percorso nella geografia sociale tedesca
Il mio incontro con la geografia sociale è avvenuto nella seconda metà degli anni ’80, quando con una borsa di studio mi recai proprio in quello che veniva considerato il tempio della Geografia sociale tedesca, l’Istituto di Geografia della Technische Universität di Monaco di Baviera, per svolgervi un dottorato di ricerca: l’ormai anziano Wolfgang Hartke ne frequentava ancora le stanze, mentre Robert Geipel e Guenter Heinritz, che ne raccoglievano l’eredità scientifica, dispiegavano una impressionante potenza di ricerca su quasi tutte le problematiche territoriali di rilevanza sociale, mettendo a frutto anni di paziente lavoro di campo ed un’oculata politica accademico-culturale di costante confronto con le altre discipline sociali.
L’incontro non è stato facile. Per chi, come me, si era formato nel clima culturale seguito agli anni della contestazione studentesca, coltivava interessi politici, ed aveva una consuetudine culturale e di studio imperniata sui principi della
* Università degli Studi di Firenze.
** Università degli Studi di Napoli.
Mirella Loda, Fabio Amato
critica sociale, il taglio minuto delle ricerche che quotidianamente si svolgevano nell’Istituto di Monaco appariva quasi un perdersi in dettagli irrilevanti, un irritante scostarsi dai problemi di fondo della nostra società. Strideva in effetti il contrasto fra quell’approccio e la costruzione di sguardi storici d’insieme, o le interpretazioni dei problemi organiche a visioni complessive (ed ideali) dell’ordine sociale cui ero avvezza.
Gli interminabili dibattiti inizialmente avuti con il gruppo di ricerca sulle catastrofi naturali, nel quale venni inserita al mio arrivo a Monaco, erano emblematici di questo diverso modo di porsi di fronte alla disciplina.
Se dovevo occuparmi degli effetti di lungo termine della ricostruzione seguita al sisma del Friuli (1976)1, non dovevo forse descrivere come le modalità di distribuzione dei fondi di ricostruzione avessero agevolato le strategie di deverticalizzazione e delocalizzazione di un sistema capitalistico intento a sbarazzarsi degli effetti collaterali della concentrazione operaia nel sistema capitalistico centrale?
Aveva senso cercare, al di sotto di questa logica universalmente esplicativa, supposte differenze locali nei modelli sociali di ricostruzione (ad esempio fra Venzone, Osoppo e Gemona)? Non si rischiava in questo modo di scivolare in questioni marginali, o, come si diceva allora, in contraddizioni secondarie del sistema?
Nella pratica di ricerca della TUM non vi era spazio per questi grandi interrogativi. Non che i grandi scenari sociali non venissero dibattuti, tutt’altro, ma lo erano durante la pausa pranzo, oppure attorno ad un giro di caffè, insomma in quei momenti in cui la ventina di persone fra professori, assistenti e tecnici che ogni giorno frequentavano l’Istituto, con regolarità ma in modo informale confrontava informazioni, nozioni e visioni del mondo.
Quando però si trattava di definire il problema di ricerca di una tesi o semplicemente di un lavoro seminariale (Fragestellung), il team sfoderava una sorta di lente di ingrandimento, il discorso si faceva straordinariamente concreto ed analitico, e si iniziava a sezionare parole, concetti, immagini o qualsiasi idea ciascuno adducesse al riguardo. In questo modo il problema di ricerca iniziale si frammentava in una costellazione di questioni correlate fra di loro, ma al tempo stesso specifiche, circoscritte e potenzialmente analizzabili in modo minuto e metodologicamente preciso.
In questo contesto la mia propensione a ricondurre i problemi a dinamiche sociali di fondo, ed il senso critico che costituiva il bagaglio culturale più importante appreso negli anni di formazione in Italia, doveva necessariamente confrontarsi con i temi ed i procedimenti di analisi delle scienze sociali, di-
1 Il lavoro sulla ricostruzione in Friuli, che ha costituito la mia tesi di dottorato, è stato pubblicato in Loda, 1989a. Una sintesi in lingua italiana è stata pubblicata in Loda, 1989b.
scipline allora assai lontane dai percorsi della formazione umanistica di un laureato in geografia.
Superato il fastidio iniziale per un procedere tanto minuto e puntiglioso, ho tuttavia cominciato a pensare che quel metodo analitico avrebbe potuto fornire una preziosa integrazione della funzione di critica sociale svolta dalla migliore tradizione geografica italiana, mettendo a disposizione strumenti e tecniche di lavoro a forte valenza operativa.
Apprendere a costruire progetti di ricerca mirati, acquisire dimestichezza con la ricerca sul campo e con le tecniche di analisi praticate a Monaco poteva aiutare a produrre un sapere minuto ma concreto e socialmente rilevante per la gestione quotidiana del territorio.
Si aprì allora nel mio percorso formativo una proficua stagione di incontro con la ricerca socio-territoriale empirica, che ho cercato di coltivare e condividere anche una volta tornata in Italia. L’esperienza di ricerca ormai decennale del Laboratorio di Geografia Sociale dell’Università di Firenze, che di tale sforzo è il frutto, credo stia a testimoniare che la geografia, oltre a costituire una disciplina fondamentale per la formazione intellettuale, culturale e civile, può entrare a pieno titolo nella rosa delle discipline sociali che non solo interpretano, ma anche costruiscono il mondo in cui viviamo.
Al di là della qualità intrinseca e dei risultati conseguiti, lo studio che presento di seguito intende aderire a questo spirito di ricerca, da un lato sensibile alla valenza sociale e politica delle azioni territoriali, dall’altro attento alla costruzione scientifica del discorso disciplinare.
In questo testo2 vorrei esporre alcune considerazioni maturate nel corso di un lavoro pluriennale sul tema degli spazi pubblici, intrapreso studiandone molteplici aspetti, dalle trasformazioni nel modo di fruizione delle piazze nella città contemporanea, alla commercializzazione di spazi pubblici diffusasi attraverso i dehors, fino alla riconfigurazione odierna dei mercati storici3 .
Dopo aver sviluppato alcune considerazioni introduttive di carattere generale, approfondirò il concetto di spazio pubblico come “spazio di resistenza”, sull’esempio di un caso di studio.
Parlando di spazio pubblico non possiamo non partire dalla questione della diversa definizione di questo oggetto di studio in rapporto alla natura degli operatori concettuali utilizzati per definirlo. A seconda della prospettiva (disciplina-
2 Questo testo è il frutto di una rielaborazione del contributo presentato al Convegno “Giustizia spaziale – Justice Spatiale”, Cagliari, 9-10 maggio 2013.
3 I lavori sono stati condotti nell’ambito del LaGeS – Laboratorio di Geografia Sociale dell’Università di Firenze, cfr. Moschi, 2006 e 2008, Ciccarello, 2009, Loda e Hinz, 2011.
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re, ma anche filosofica) si spazia da approcci imperniati sull’idea di spazio pubblico come manufatto fisico-materiale, a definizioni giuridico-formali basate sul diritto di proprietà, fino a quegli approcci che appaiono più critici e comprensivi, in quanto si rifanno a concezioni relazionali, che considerano lo spazio pubblico un ambito di esplicazione di pratiche socio-territoriali.
A queste differenze si collegano (anche se in maniera niente affatto lineare) modi differenti di intendere la collettività (che si riflettono puntualmente nella terminologia con cui la si definisce: public, publics, counterpublics), nonché modi diversi di rappresentare i meccanismi di inclusione ed esclusione sociale.
Gli studi attuali sullo spazio pubblico hanno quindi un oggetto di ricerca polimorfo, e soffrono della stessa “indefinizione” che contraddistingue l’intero campo di studi sul cosiddetto “diritto alla città”4, all’interno del quale essi per lo più si collocano.
La locuzione “diritto alla città”, analogamente a quella di “giustizia spaziale”, si situa in un campo semantico estremamente delicato. Se da un lato questi concetti hanno ispirato un’articolata riflessione sui processi di trasformazione urbana in epoca contemporanea – sul nesso fra urbanizzazione e produzione di profitto nel capitalismo globale5, sul ridisegno delle architetture istituzionali di governo urbano6, sui meccanismi di marginalizzazione sociale innescati dagli interventi neo-liberisti di rigenerazione urbana sui relativi movimenti di resistenza7 – dall’altro essi sono certamente tra i più difficili da definire. Infatti, come diffusamente illustrato da Attoch (2011), entrano qui in gioco concetti complessi come “diritto”, “cittadinanza”, “democrazia”, “pubblico”, dalla declinazione dei quali dipende il modo in cui strutturiamo e rappresentiamo le forme della convivenza sociale/civile.
Quali sono i modelli ideali con riferimento ai quali giudichiamo il contenuto di (in)giustizia di una politica sociale? Quale concezione di “diritto” presiede alla valutazione di un intervento di rigenerazione urbana: diritto di proprietà, diritti sociali, diritti politici, diritti civili? Quali confini assumiamo nel delineare i campi di inclusione/esclusione per l’assegnazione di tali diritti o nella demarcazione fra pubblico e privato? Con quali criteri definiamo la cittadinanza in un contesto globalizzato in cui ciascuno è portatore di identità molteplici ed espressione di altrettante linee di confine interiore?8
4 Com’è noto, questa espressione originariamente coniata da Henri Lefebvre (1968, 1974), ha aperto uno stimolante filone di ricerca sull’uso dello spazio urbano. Ampia parte della riflessione su questo tema è confluita nel convegno di Roma del 2005, i cui atti sono pubblicati in WastlWalter et al. (eds.), 2005.
5 Su questo tema sono classici i lavori di Harvey (1973, 1982, 2008).
6 Si veda ad esempio Brenner, 2004.
7 Si vedano ad esempio Mitchell, 1995 e 2003.
8 Imprescindibile al riguardo la riflessione di Étienne Balibar, 2012.
Questi interrogativi rimangono spesso senza risposta, specialmente quando con la ricerca empirica scendiamo ad analizzare casi particolari, e vengono risolti con riferimenti a costrutti teorici di portata intermedia, definibili come mesoteorie (es. teoria dell’erosione dello spazio pubblico, della spettacolarizzazione della città ecc.), mentre le grandi questioni rimangono sullo sfondo.
Per quanto alcuni autori vedano proprio nell’indeterminatezza concettuale il grande potenziale di queste locuzioni9, l’insufficiente approfondimento delle implicazioni teoriche sottese all’utilizzo di concetti complessi come “diritto”, “cittadinanza”, “democrazia”, “pubblico”, ed il loro impiego diretto (irriflesso) nell’analisi o valutazione di progetti o interventi urbani, è stato stigmatizzato perché all’origine di inquietanti corto circuiti teorico-metodologici. Un esempio illuminante al riguardo è fornito dalla cosiddetta “trappola del localismo” (Purcell, 2006)10, cioè dell’assunzione erronea che determinati valori sociali siano inerenti alla stessa scala territoriale alla quale si situano i processi, e che valori positivi siano impliciti nella scala locale11 . Il contenuto di “(in)giustizia sociale” non è invece definibile in assoluto, e dipende dal modo in cui, a monte di essa, si concepiscono il “diritto”, la “cittadinanza”, la “democrazia”, il pubblico, cioè dai criteri (valori) teorico-filosofici assolutamente astratti che presiedono alla nostra visione del mondo.
Se lo spazio è un fattore attivo nel favorire o produrre condizioni di (in)giustizia sociale, e non solo una sorta di pellicola sulla quale si imprimono, a posteriori, le conseguenze (spaziali) di scelte politiche su una redistribuzione dei risorse costituitasi in maniera da esso indipendente, allora la principale sfida per la ricerca socio-geografica risiede nello stabilire un rapporto più stringente fra la sfera teorica e quella empirica.
9 Mitchell e Heynen (2009) vedono proprio nell’indeterminatezza del concetto il suo potenziale valore di collante nella prassi di lotta politica per i gruppi sociali emarginati.
10 L’espressione richiama il titolo dell’interessante contributo di Purcell (2006) su questo tema.
11 Un esempio di questa trappola è stato magistralmente descritto anche da Richard Sennett (1974), a proposito della reazione della comunità ebraica di Forest Hills (New York, Queens) contro il progetto comunale che prevedeva la costruzione di tre edifici di 24 piani nel quartiere e l’insediamento di 840 appartamenti popolari. Nel contrasto a tale progetto, la comunità, altrimenti mediamente istruita e di orientamento politico democratico, si avviluppa in atteggiamenti fortemente particolaristici. In un gioco perverso in cui il criterio razzista dell’antisemitismo viene paradossalmente chiamato in gioco dalla stessa comunità come vessillo di riconoscimento contro il resto della città, la «community came to think of itself as an island of morality» (p. 303).
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Dal punto di vista scientifico, il problema si configura come necessità di esplicitare in modo corretto (tanto nell’analisi, quanto nell’elaborazione di progetti) il nesso che stabiliamo fra elementi della realtà empirica e criteri che attengono alla sfera astratta dei valori fondamentali, in estrema sintesi il nesso fra progetto territoriale e sotteso progetto sociale.
In questa prospettiva un ruolo fondamentale è giocato dal metodo. Si tratta infatti di costruire percorsi metodologicamente più stringenti di analisi empirica, in grado di evidenziare, ad esempio, i valori di fondo (concezione di diritto, definizione di cittadinanza, ecc.) incorporati in un progetto territoriale, oppure le visioni del corpo sociale che si confrontano nella negoziazione per l’utilizzo di un luogo pubblico, individuando – in un rapporto logicamente necessario e verificabile attraverso i dati – quegli elementi (variabili) che sul terreno empirico inequivocabilmente rappresentano e veicolano tali valori.
L’approccio ora brevemente prospettato si deve confrontare tuttavia con specifiche problematiche attinenti la ricerca socio-territoriale.
La prima problematica è di carattere teorico, e riguarda la mancanza a tutt’oggi di una teoria sociale che incorpori in maniera soddisfacente la considerazione della dimensione spaziale nell’interpretazione del divenire sociale12. Le teorie sociali, com’è noto, sono state a lungo a-spaziali ed i recenti tentativi di incorporare la dimensione spaziale possono considerarsi solo parzialmente soddisfacenti. Nella teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann (1994, 1998) la dimensione territoriale è rimasta in definitiva relegata ai processi premoderni di differenziazione sociale segmentaria, ma è mancata una considerazione del fattore spaziale nella differenziazione funzionale delle società contemporanee. Nella teoria della strutturazione sociale di Anthony Giddens, quella che con più determinazione tenta di assumere il fattore spaziale nell’elaborazione teorica sul funzionamento sociale, la definizione di tale ruolo rimane obiettivamente generica, e non è chiaro come possa tradursi operativamente in ricerca applicata. Permane così una sorta di scollamento fra teoria sociale da un lato, ed analisi del divenire sociale in un concreto contesto geografico dall’altro.
La seconda problematica si colloca sul piano metodologico, e consiste nella difficoltà, con cui è confrontata ogni ricerca empirica, di controllare sul piano analitico la molteplicità di variabili che entrano in gioco nella realtà sociale, la quale di norma si offre al ricercatore come intreccio di elementi, fenomeni e processi, in una trama inestricabile e difficilmente riconducibile a chiari schemi interpretativi. Sovente l’analisi sistematica cede allora il passo alla “descrizione densa” (Geertz, 1973), magari fondata su una lettura “politica” del caso di studio13 .
12 Per una riflessione su questo tema ci permettiamo di rimandare a Loda, 2008, pp. 31-43.
13 Concordiamo con Amin e Thrift sul carattere più evocativo che analitico-sistematico di gran parte degli studi sullo spazio pubblico, «Symptomatic readings and evocation cannot always
Se pure la descrizione densa resta quindi lo strumento principe per gli studi in questo campo, lo sforzo di approssimarsi a modelli analitici più rigorosi, basati su un raccordo esplicito fra riflessione teorica ed analisi empirica, può fornire risultati interessanti, dal punto di vista applicativo e delle indicazioni alle politiche. In questa prospettiva uno strumento utile, anche se per lo più in una visione ex-post, è fornito dalle tecniche comparative. Il metodo comparativo può agevolare l’esplicitazione del progetto sociale implicito nel progetto territoriale. Comparare modelli alternativi di intervento territoriale, o per lo meno interrogarsi su quali potrebbero essere modelli alternativi di intervento, aiuta a definire con maggiore precisione – e con valenza che travalica il singolo caso di studio – in che cosa consista il contenuto sociale di un intervento territoriale, e soprattutto quali siano i fattori determinanti ai quali prestare particolare attenzione nel valutare l’impiego delle risorse (economiche, di spazio ecc).
1.4. Un caso di studio. Il mercato come spazio pubblico
Vorrei esemplificare queste considerazioni ragionando sul caso del mercato centrale di S. Lorenzo, un mercato storico fiorentino sul quale il LaGeS – Laboratorio di Geografia Sociale dell’Università di Firenze, che coordino – sta lavorando per conto del Comune di Firenze. Questo caso si presta ad approfondimenti metodologici in chiave comparativa, perché il mercato è teatro al momento di differenti progetti di intervento. L’analisi delle strategie sottese a ciascuno di essi e dei fattori su cui essi si imperniano è perciò agevolata dal fatto che in questo caso si può ragionare sui progetti quasi “in vitro”: le variabili cosiddette intervenienti (luogo, tempo, attori sociali), che non costituiscono oggetto specifico di studio, ma che interferiscono a determinare la specifica configurazione assunta da progetti e strategie nei concreti casi di studio, possono essere considerate in questo caso costanti.
Sia concesso di rimandare ad altre pubblicazioni sullo spazio pubblico per approfondimenti sull’approccio che il LaGeS ha adottato nella trattazione di questo tema, e che quindi applicherò allo studio del mercato di S. Lorenzo (Loda, 2011). In questa sede mi limito a precisare che la nostra attenzione non si volge agli spazi pubblici nella loro dimensione puramente fisico-materiale, ma – secondo l’approccio che in apertura ho definito critico e comprensivo – ad essi in quanto strumento ed al tempo stesso esito di pratiche sociali di territorializzazione in perpetua ridefinizione nella città contemporanea. Secondo la felice metafora di Sharon Zukin, lo spazio pubblico è infatti «(the) window into the city’s soul» (1995, p. 259), una lente di ingrandimento sul senso e sui meccani-
be a substitute for systematic analysis» (Amin e Thrift, 2002, p. 5).
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smi di funzionamento di quella specifica forma di consorzio sociale che è la città. Lo spazio materiale entra nel nostro campo di osservazione indirettamente, in quanto componente importante di quel setting14 che con le pratiche sociali interferisce favorendole od ostacolandole. Vedremo fra poco come questo approccio allo spazio pubblico sia stato declinato nello studio del mercato.
Il mercato di S. Lorenzo è uno di due mercati alimentari storici della città, costruito nel 1874 da Giuseppe Mengoni (l’architetto della Galleria di Milano). Il mercato, una volta al centro della vita cittadina, ha conosciuto negli ultimi 10-15 anni un considerevole declino, dovuto alla diminuzione della residenza tradizionale nel centro cittadino, ed alla difficoltà degli operatori ad intercettare la domanda dei nuovi residenti, composti in buona parte da studenti fuori sede e turisti stanziali per ragioni di studio o ricerca15 .
A fronte di questa situazione il Comune, nel quadro di un progetto europeo16 al quale partecipano altre città fra cui Barcellona, Genova, Beirut, decide di affidare al LaGeS il compito di sviluppare una strategia di recupero del mercato, valorizzandolo in quanto parte dell’eredità culturale (Cultural Heritage) della città, ed in quanto strumento di riqualificazione urbana17 .
La narrativa, come si vede, fa leva su locuzioni connotate positivamente nel discorso pubblico – Cultural Heritage, riqualificazione urbana – ma tutte da definire nel contenuto, e con esiti sociali potenzialmente divergenti a seconda delle scelte operative concretamente effettuate.
Valorizzare il mercato in quanto Cultural Heritage può significare cose molto differenti a seconda della prospettiva adottata. Se consideriamo lo spazio del mercato dal punto di vista fisico-materiale, la valorizzazione viene concepita, conformemente con la normativa italiana che riconosce valore di tutela ai soli beni culturali collegabili ad un’espressione materiale18, in termini di tutela dell’edificio in cui il mercato è collocato. In questo caso, da un lato si assicura la sal-
14 Inteso come quella specifica combinazione di fattori umani e non umani, che costituiscono la cornice – non neutra – di ogni luogo in cui l’azione sociale si dispiega: «the formative sites of urban public culture – collective forms of being human through shared practices – need not be restricted to those with a purely human/inter-human character, but should also include other inputs such as space, technological intermediaries, objects, nature and so on» (Amin, 2008, p. 7).
15 Il tessuto sociale e demografico del centro di Firenze si distingue dal resto della città per la presenza cospicua di popolazione giovanile e con livello di istruzione universitario. Tale quadro, non rilevato dalle statistiche ufficiali che necessariamente rilevano la condizione della popolazione residente, è stato precisato grazie a ricerche empiriche condotte dal LaGeS: si veda il numero monografico 113 (2006) della rivista «Storia Urbana».
16 Si tratta del progetto europeo denominato “Marakanda”.
17 Gli obiettivi sono stati illustrati in dettaglio e discussi con i partner di progetto nel corso degli incontri di Alessandria d’Egitto (23-24 ottobre 2012) e di Genova (27-28 marzo 2013).
18 Nel sistema giuridico italiano questo terreno è regolato dal Codice dei beni culturali e paesaggistici, legge n. 42/2004.
vaguardia di un edificio storico di pregio, dall’altro si pongono vincoli molteplici per l’utilizzo degli spazi, che, proprio in forza del riconoscimento del loro valore culturale, possono essere parzialmente sottratti alle esigenze della funzione mercatale odierna19 .
Con riferimento alla normativa UNESCO20, che comprende nel proprio raggio di tutela anche beni culturali immateriali (quali danze tradizionali o filastrocche), il mercato potrebbe essere valorizzato ad esempio in quanto vi si commerciano prodotti o piatti tipici, eventualmente da tutelare con procedure di certificazione. In tal caso l’azione di valorizzazione assumerebbe i tratti di un esercizio di classificazione e di tutela di beni, concepiti come beni da fissare nella forma attuale, sottraendoli al processo attivo e continuo di produzione della cultura.
Se infine consideriamo il mercato, come nel nostro caso, dal punto di vista socio-geografico come spazio pubblico, anzi come spazio pubblico per eccellenza, cui l’etimologia del termine chiaramente rimanda21, il mercato viene letto come “fenomeno sociale totale” (Mauss, 1932), dove l’atto dell’acquisto e della vendita si collocano in un sistema più ampio di relazioni sociali, che sono almeno altrettanto importanti quanto lo scambio economico da cui traggono origine. La valorizzazione dovrebbe consistere in questo caso nel rafforzare le condizioni che riproducono il carattere “pubblico” del mercato.
In questa prospettiva è cruciale il modo di intendere il concetto di “pubblico”. Nel nostro caso, il punto di riferimento teorico va individuato in una visione che possiamo definire “classica” dello spazio pubblico, nel senso che – pur con importanti distinzioni rispetto alla forma assunta originariamente da questa teoria – muove dalla convinzione che esso continui a rappresentare una palestra di formazione della collettività urbana (civitas)22. Se anche il fenomeno urbano si è
19 È il caso ad esempio degli ostacoli che si frappongono alla soluzione di una più idonea sistemazione delle scale di collegamento fra piano terra e piano superiore.
20 La Convenzione UNESCO per la salvaguardia dell’eredità culturale immateriale è stata firmata dall’Italia a Parigi il 17 ottobre 2003, e ratificata nel 2007.
21 Il termine che presso i Greci definiva il mercato quotidiano era infatti agorà, lo stesso utilizzato per definire lo spazio pubblico per eccellenza, la piazza. Simile è il duplice senso del latino forum.
22 L’idea di spazio pubblico come luogo di auto-organizzazione dell’opinione pubblica e come palestra di formazione di una civitas distinta dallo Stato e depositaria di virtù civile è stata inizialmente sviluppata trasferendo sullo spazio pubblico, e recuperandola in chiave sociologica, l’analisi storica che Jürgen Habermas compie dell’opinione pubblica come perno della democrazia parlamentare (Habermas, 1962). In tale visione “politica” dello spazio pubblico (ad esempio Putnam, 1993) si stabilisce tuttavia un rapporto necessario tra vitalità dello spazio pubblico, qualità della convivenza urbana e grado di partecipazione politica, rapporto che appare in realtà plausibile solo nel contesto storico esaminato dal Habermas (secolo XIX). Recentemente questa linea interpretativa ha infatti perduto terreno, e si tende a limitare la connessione ai primi due elementi della catena virtuosa (vitalità dello spazio pubblico, qualità della convivenza urbana). È stato inoltre osservato
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definitivamente scostato dal modello della civitas, la città rimane il luogo dove le eterogeneità sociali, le differenze di genere, di classe, di religione, etniche ecc. si danno con la massima prossimità spaziale23, e, all’interno della città, gli spazi pubblici restano l’ambito ove più frequentemente siamo confrontati con situazioni ignote24, e ove più intensi (e visibili) sono i meccanismi di interazione e di negoziazione tra di esse. In questa visione lo spazio pubblico svolge un’essenziale funzione sociale, in quanto palcoscenico sul quale quotidianamente si recita il discorso pubblico di inclusione e di esclusione dei gruppi sociali25 .
La convinzione che lo spazio pubblico, nonostante le profonde trasformazioni recenti, continui ad esercitare questa fondamentale funzione sociale viene peraltro riconfermata dalle più recenti teorie nel campo della sociologia della comunicazione, che stanno rivalutando la comunicazione face-to-face (non necessariamente verbale) per l’equilibrio della nostra vita quotidiana26 .
Recenti ricerche empiriche dimostrano infine che, se pure nello spazio pubblico agisce la “natura circospetta dell’interazione sociale” (Amin, 2008, p. 10), cioè la tendenza ad interagire con persone conosciute, ed a consolidare tecniche di distanziamento dagli sconosciuti, la frequentazione degli spazi pubblici produce una forma di interazione indiretta, per lo meno visiva, con realtà altre, crea un contesto precognitivo favorevole all’accettazione della diversità, e predispone ad atteggiamenti di minore chiusura27 .
che il modello di spazio pubblico come luogo democratico di espressione politica della civitas si fonda sull’idealizzazione dello spazio pubblico “borghese” (Mitchell, 1995; Marne, 2001; Amin, 2006), mentre lo spazio pubblico non può che essere, per sua natura, negoziale e conflittuale.
23 «City is a human settlement where strangers are likely to meet» (Sennett, 1992, p.39), cfr. Anche Young (1990).
24 Cfr. la distinzione fra stranger as outsider e stranger as unknow in Sennett (1992), p. 48. Nel primo caso si tratta della percezione dell’alterità tipica di un contesto caratterizzato da forte senso di identità, dal quale scaturiscono precise regole di appartenenza. La seconda modalità percettiva si determina quando il contesto non dispone forte identità propria.
25 Nel già citato testo, Sharon Zukin definisce lo spazio pubblico «the primary site of public culture» (1995, p. 259). In modo analogo il concetto viene formulato da Ash Amin, secondo cui gli sli spazi pubblici «subtely define performances of social life in public and meanings and intentions of urban public culture» (Amin, 2008, p. 15).
26 Si veda ad esempio Cattel et al. (2007). Si è dimostrato che la pratica quotidiana dello spazio pubblico ed i rapporti interpersonali che vi hanno luogo – sia nella forma di bonding capital che in quella di bridging capital – svolgono una funzione cruciale per il benessere psico-fisico degli individui (Cattel et al., 2008). Riassumendo le riflessioni sviluppate da Marc Granovetter e Robert Putnam, Cattell et al. (2007, p. 546) definiscono i concetti nel modo seguente: «Social capital can be derived from ‘bonding’, supportive, ties between kin or members of an ethnic group, while bridging capital (weak ties) connects individuals to dissimilar groups and additional resources».
27 È interessante al riguardo la diversa percezione del tema della sicurezza riscontrato nei frequentatori abituali delle piazze cittadine, rispetto ai frequentatori degli spazi semi-pubblici di centri commerciali, cfr. Loda, 2011, pp. 70-71.
Passando alla seconda locuzione su cui si impernia la narrativa della rivalorizzazione dei mercati, riqualificazione urbana, i diversi esiti che da essa possono discendere si possono cogliere nel confronto fra una strategia di valorizzazione imperniata sulla visione che abbiamo definito “classica” dello spazio pubblico, ed una strategia di valorizzazione imperniata sulla commercializzazione dello stesso mercato.
Nella visione “classica”, il mercato può divenire un importante strumento di riqualificazione urbana a condizione di rafforzarne la valenza di luogo sociale totale, cioè potenziando la sua capacità di produrre uno scambio sociale in senso lato: di merci, quanto di parole e di idee.
Dal punto di vista pratico tale condizione viene soddisfatta se del mercato si rafforza la funzione di punto di riferimento per attività non solo strettamente mercatali, ma ad esempio creando spazi di sosta, spazi ricreativi e di intrattenimento oppure spazi aperti destinati ad iniziative socio-culturali, su cui possa convergere un pubblico di residenti più ampio di quello che corrisponde all’attuale clientela del mercato. A tal fine, senza toccare la delicata questione del contesto esterno, si richiederebbe innanzitutto un’attenta riconsiderazione della destinazione d’uso degli spazi interni all’edificio del mercato, l’individuazione degli spazi eventualmente disponibili per finalità extra-mercatali e l’individuazione di soggetti interessati al loro utilizzo, facendo leva soprattutto sul potenziale innovativo presente fra gli attuali operatori.
Ricordiamo fra l’altro che una strategia di valorizzazione del mercato anche come spazio ricreativo pubblico recupera una funzione che il mercato tradizionalmente svolgeva: in origine il mercato era infatti circondato da un accogliente giardino (fig. 1).
In questa prospettiva il mercato potrebbe contribuire alla riqualificazione del quartiere di S. Lorenzo innanzitutto elevandone la qualità abitativa, che è al momento compromessa dallo scarto fra l’estrema carenza di spazi pubblici28 e la forte pressione esercitata dalla vicinanza di funzioni di peso (stazione) e dai massicci flussi turistici che transitano nell’area.
28 Per l’impatto esercitato dalla massiccia presenza di dehors nella piazza antistante il mercato ci permettiamo di rimandare a Loda et al., 2011.
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Riportando queste considerazioni generali al caso del mercato, i criteri cui ispirarsi per assicurare il riprodursi delle condizioni che lo rendono “pubblico” possono essere riassunti in molteplicità, apertura, accessibilità.
Passando ad uno stadio più operativo di analisi del mercato, i suddetti criteri si possono trasporre ad esempio nei seguenti interrogativi:
Qual è la articolazione (di genere, generazionale) degli operatori? (Dimensione: varietà)
In relazione all’incremento di imprenditoria migrante, si profilano scenari di “successione ecologica”29? (Dimensione: varietà)
Come viene negoziata la diversità (etnica, di genere, generazionale) fra gli operatori? Sfocia in conflitto o agevola il costituirsi di un soggetto collettivo? (Dimensione: apertura)
Qual è il grado di articolazione fra le diverse componenti (etniche, generazionali, residenziali o turistiche) della clientela? Equilibrato oppure squilibrato a favore di una componente? (Dimensione: varietà)
Come si configura l’interazione fra gli operatori, e fra operatori e clientela? Si delineano forme di commercio transnazionale oppure di ri-omogeneizzazione su base etnica? (Dimensione: apertura)
In che misura il mercato ospita attività/pratiche attrattive non strettamente di scambio economico? (Dimensione: accessibilità)
Esistono margini/spazi interstiziali per attività/pratiche non rigidamente regolamentate? (Dimensione: accessibilità)
La risposta a questi interrogativi richiede naturalmente tipi differenti di indagine: il primo può ad esempio essere affrontato mediante mappature dei prodotti e degli operatori; il quarto potrebbe essere sviluppato con indagine standardizzata; il quinto richiede un approccio qualitativo (analisi etnografica).
La strategia di valorizzazione incardinata sulla visione “classica” del mercato come spazio pubblico, e che il LaGeS si appresta a sviluppare attraverso un ampio set di indagini, si sta tuttavia confrontando con una strategia di valorizzazione alternativa, curiosamente avallata dalla stessa Amministrazione comunale che ha assegnato l’incarico al LaGeS.
L’edificio del mercato si disloca su due piani. Il piano superiore, occupato dai venditori di frutta e verdura, è rimasto chiuso per circa due anni, per consentire lavori di ristrutturazione dell’immobile. A lavori ultimati, l’Amministrazione decide tuttavia di non ricollocarvi i venditori di orto-frutta, che nel frattempo
29 Il concetto di “successione ecologica”, mutuato dallo studio delle dinamiche della vegetazione, è stato introdotto in campo sociologico negli anni Venti dalla cosiddetta Scuola di Chicago. Il concetto evidenzia che «la competizione tra individui e gruppi per le risorse vitali (tra cui gli spazi) si svolge secondo dinamiche più o meno regolari e simili a quelle individuate dai botanici (invasione, successione, dominanza) e sfocia in patterns spaziali caratteristici (le ‘aree naturali’)» (Strassoldo, 1993).
erano stati sistemati sotto un tendone nella piazza antistante l’edificio e poi negli stalli vuoti liberatisi al piano terreno. Stabilisce invece di indire una gara pubblica e di affidare per 15 anni la gestione dello spazio liberatosi al primo piano ad un operatore privato.
La gara viene vinta dalla srl Mercato Centrale, con un progetto che prevede la realizzazione di uno spazio commerciale polivalente nei settori dell’eno-gastronomia, dell’artigianato e della cultura, sul modello del Chelsea Market di New York. Si prevede che vengano realizzati una ventina di stand per la commercializzazione di prodotti tipici fiorentini e toscani, oltre a bar e ristoranti. È infine prevista l’apertura serale con eventi musicali e spettacoli.
Con un’operazione molto promettente dal punto di vista imprenditoriale, l’operatore privato si aggiudica, per la cifra relativamente modesta di 140.000 € all’anno, uno spazio decisamente appetibile: una nuova “piazza” coperta di 2.500 mq situata nel cuore della città, a cinque minuti a piedi dal Duomo e dalla stazione, in un contesto che conta oltre 7 milioni di presenze turistiche all’anno.
La visione di spazio pubblico sottesa a questa iniziativa, ed il tipo di rigenerazione urbana che ne deriva, sono però molto diversi da quelli perseguiti dalla strategia del LaGeS.
Per quanto dal punto di vita della narrativa l’operazione sembri convergere sugli obiettivi assegnati con l’incarico al LaGeS, in quanto intesa a promuovere il mercato, la piazza e l’intero quartiere30, essa costituisce infatti la più importante opera di commercializzazione di spazio pubblico recentemente realizzata a Firenze. Essa va anzi a rafforzare una filosofia di gestione degli spazi pubblici cittadini già ampiamente manifestatasi con la generosa concessione dei permessi per occupazione di spazio pubblico ai moltissimi dehors sorti nell’ultimo decennio (fig. 2), e ulteriormente consolidatasi con la concessione dei più rappresentativi spazi pubblici cittadini per lo svolgimento di esclusivi eventi privati: il caso più noto è la recente concessione di Piazza Ognissanti come scenario per il matrimonio della figlia di un magnate indiano31 (figg. 3a e 3b).
Se per certi aspetti la gestione commercializzata dello spazio pubblico accompagna (e al tempo stesso produce) una trasformazione diffusa nel modo in cui la popolazione urbana percepisce e fruisce lo spazio pubblico32, oltre un certo grado essa condiziona obiettivamente in maniera drastica la distribuzione delle risorse delle risorse di spazio disponibile fra i vari publics che vivono la città, a favore di alcuni gruppi e a sfavore di altri.
30 Tali sono gli obiettivi indicati nel bando di gara.
31 L’evento, il cui allestimento ha richiesto che la piazza fosse sottratta all’utilizzo pubblico per una settimana, ha portato alle casse comunali otto milioni di euro.
32 Su questo unto ci permettiamo di rimandare a Loda et al., 2011, specialmente alle pp. 98-100.
3a e 3b –Piazza Ognissanti.
Con riferimento al mercato, per quanto l’Amministrazione insista sui vantaggi economici che la commercializzazione porta alle casse comunali, l’operazione avviata nel primo piano promette di imprimere un’ulteriore accelerazione a quella che è stata definita la “spettacolarizzazione della città” (Debord, 1967), ampliando lo spazio a disposizione dei city user (specialmente turisti e turisti stanziali) a scapito della popolazione residente33 .
Lo spazio che tale strategia tende a realizzare non è più o meno “giusto” di quello sostenuto dal LaGeS, ma certamente è diverso il pubblico a cui le due strategie si rivolgono, come diversa è l’idea di città di cui sono portatrici, laddove
33 Il pubblico cui l’iniziativa si rivolge è eminentemente costituito nelle ore diurne dai turisti classici che acquistano costosi prodotti tipici, e nelle ore serali da turisti stanziali (studenti delle numerose istituzioni straniere, specialmente americane presenti a Firenze) e dai giovani di un bacino sovralocale, almeno provinciale, alla ricerca di una “città da bere”.
le politiche di commercializzazione spinta appaiono obiettivamente più coerenti con un’idea di città come location per investimenti ad elevato tasso di profitto o come una fantastica destinazione turistica (Harvey, 2008).
La diversità fra le due logiche si pone come una negoziazione estremamente complessa nel momento in cui da un lato il nuovo ciclo neo-liberista tende ad accelerare ulteriormente il ritmo di circolazione del capitale, dall’altro la crescente ristrettezza finanziaria degli enti locali riduce pericolosamente gli spazi di manovra a disposizione degli amministratori, proiettando quasi inevitabilmente la gestione della città in una logica para-imprenditoriale.
Tornando al mercato di S. Lorenzo, le due strategie di riqualificazione urbana che abbiamo descritto esse rispondono a logiche differenti e difficilmente conciliabili. Il progetto avviato per il primo piano non solo appare “vincente” perché può contare sui vantaggi offerti dall’essere gestito da un decisore unico a fronte del consorzio di operatori del piano terra, può contare su tempi di realizzazione molto rapidi e soprattutto sulla disponibilità di risorse finanziarie ingenti; esso rischia anche di inibire la strategia ispirata alla visione che abbiamo definito “classica” dello spazio pubblico.
Lo spazio pubblico del piano terra si configura quindi come uno “spazio di resistenza”34: di resistenza agli effetti indotti dal piano di commercializzazione del piano superiore, che probabilmente tenderà ad accelerare il fenomeno di turistizzazione del quartiere, della piazza e del mercato, già intravisto nella riconversione dell’offerta in funzione turistica intrapresa da alcuni operatori del piano terra; di resistenza perché tenderà a ridurre la capacità del mercato di soddisfare la domanda di consumo degli abitanti e di spazi di socializzazione, in definitiva deprimendo ulteriormente la funzione residenziale del quartiere, che pure la valorizzazione del mercato voleva inizialmente rafforzare.
2. per una geografia dei margini (Fabio Amato)
2.1. Un percorso nella geografia sociale francese
Le origini della Geografia sociale si individuano nelle riflessioni francesi della seconda metà dell’Ottocento, ma, nonostante una vivace fase fondativa, si può affermare che si tratta di una branca relativamente marginale, con la notevole eccezione della rete universitaria delle regioni dell’Ovest, una corrente di studi riconosciuta come unica reale scuola della geografia transalpina (Levy e Lussault, 2003). La rete delle università dell’Ovest, oggi molto affievolita, faceva perno
34 Richiamando il titolo dell’articolo di Mitchell e Heynen (2009), lo potremmo altrettanto efficacemente definire spazio di sopravvivenza.
Mirella Loda, Fabio Amato
sulle sedi di Caen, Rouen, Rennes, Le Mans, Nantes e Angers e su figure di rilievo come quelle di Armand Frémont e Robert Hérin. I miei primissimi percorsi di studio si sono incrociati spesso soprattutto con quest’ultimo che nel lontano gennaio del 1991 (mentre il mondo si infiammava per l’inizio della prima guerra del Golfo) fu organizzatore e animatore di una settimana di scambio Erasmus cui ebbi la fortuna di partecipare da laureando, presentando i primi risultati della tesi. Il tempo, come si sa, edulcora i ricordi e setaccia i momenti difficili, ma credo che l’intensità di quei giorni di scambi in tante lingue (erano presenti anche rappresentati di Portsmouth e Murcia) in giro per la Normandia, in condizioni di condivisione anche abbastanza spartane (fummo ospitati in sedi di convitti scolastici prossimi ai luoghi degli sbarchi angloamericani), ma allietati anche da sortite di tipo turistico (l’immancabile visita di Mont S. Michel). Le lunghe giornate passavano attraverso presentazioni di casi studio che descrivevano condizioni di disagio in contesti abbastanza diversi, tentativi di sintesi sui concetti principali, ponendo attenzione soprattutto alle condizioni e ai luoghi di margine: un modo di fare geografia che guarda alla definizione delle dimensioni spaziali dei problemi sociali come compito prioritario del mestiere di geografo (Hérin, 1991). Un fare militante che richiama l’idea di un impegno sociale, probabilmente imperniato su dimensioni ideologiche, che non ha mai trascurato il bisogno di aprirsi alla società civile usando strumenti di divulgazione e interpretazione semplici.
Forte di questa esperienza, scelsi di specializzarmi presso l’università di Caen nel mio anno di perfezionamento all’estero e le esperienze di campo con i feedback in aula fatti (in una condizione di dialogo molto aperto) attraverso una analitica riflessione sui concetti usati e sull’impostazione metodologica da dare alla ricerca, sulle possibili informazioni tralasciate e, soprattutto, sul bisogno di non fermarsi ad una descrizione superficiale, puntando sulle cause profonde delle condizioni attuali, mi avevano particolarmente colpito. Nel corso del tempo, sono rimasto in contatto con questo gruppo in maniera molto episodica, riprendendo i rapporti negli ultimi anni proprio nel tentativo di stabilire un ponte tra l’Italia e la Francia sul tema della geografia sociale35 .
35 Da un’idea di Isabelle Dumont, allieva di Hérin, è nato il primo seminario italo-francese di geografia sociale tenutosi a Parma nel 2008. Ne sono seguiti altri cinque incontri (Napoli, 2009; Caen 2010; Roma 2011; Nantes 2012; Cagliari 2013) cui ho partecipato attivamente con Claudio Cerreti di RomaTre, Massimiliano Tabusi dell’università di Siena, Robert Hérin e la stessa Dumont rappresentando una sorta di soci fondatori. Si tratta di iniziative dalla struttura leggera (massimo di una giornata e mezza) fondate su una costante comunicazione bilingue e che hanno visto la partecipazione di una sessantina di persone (Dumont, 2008; Amato 2009; Cerreti, Dumont e Tabusi, 2012). Senza voler essere autocelebrativi, in una stagione della ricerca dei saperi sociali così critica, riuscire a dare continuità ad un appuntamento è di per sé un buon risultato. Mi fa piacere ricordare che Daniela Lombardi (che conobbi nello stage Erasmus successivo a
La mia formazione si è, nondimeno, svolta presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Orientale di Napoli dove mi sono confrontato con altre tematiche e aree di studio e altri approcci in una prospettiva eminentemente politica che pur non essendosi mai esplicitamente associata all’idea di geografia sociale ne aveva molti denominatori in comune. In particolare, Pasquale Coppola, capofila di questa scuola, ha sempre dichiarato, senza protagonismo eccessivo, di vedere il suo mestiere come un impegno civile. Era convinto «di avere qualcosa da dire per mettere a nudo le pratiche dell’ingiustizia e dell’esclusione che si dispiegano (nutrendole) nelle dinamiche territoriali e per sondare (non per percorrere in prima persona) le vie del cambiamento, per rischiarare le vie della giustizia socioterritoriale» (Coppola, 2009, p. 10).
In questa prospettiva, al di là del reale esito di quanto ho scritto di questi anni, ho la sensazione di aver contratto debiti più o meno forti con questa modalità di vedere il sapere geografico, nelle scelte che ho fatto di concentrarmi nell’ampia tematica della marginalità con particolare attenzione alle periferie urbane e alla presenza dei migranti in Italia, sempre cercando di guardare e osservare empiricamente questi spazi attraverso indagini di campo.
In questo contributo vorrei ripercorrere la riflessione sul tema della marginalità proponendo alcuni spunti dalle ricerche empiriche effettuate in questi anni che sostanzino il bisogno di indagini di campo per poter leggere e interpretare le trasformazioni dei luoghi36 .
La nozione di marginalità può essere affrontata da molteplici prospettive disciplinari e, come le altre parole chiave che connotano il convegno appena citato, ha fatto registrare negli ultimi anni un interesse quasi inflattivo: non a caso, come un mantra infinito, vengono evocati i lavori di Henri Lefebvre (Le Droit à la ville), di David Harvey (Social Justice and City) e i corsi al College de France di Michel Foucault editi postumi, i quali, parafrasando un vecchio aforisma, si potrebbe dire, sono più spesso citati che letti.
Si tratta di tematiche fortemente multidisciplinari che sarebbe impossibile limitare alla letteratura geografica e la fase di crisi che stiamo attraversando ha, se possibile, accentuato l’interesse per questi termini. Nondimeno, l’idea di marginalità si può declinare in tanti modi.
quello di Caen che si svolse a Portsmouth nel 1992) aveva partecipato al primo incontro di Parma e aveva aderito con entusiasmo anche alla sessione del 2009 da me organizzata a Napoli, per poi dover purtroppo declinare l’invito.
36 Questo testo rielabora una sezione del contributo presentato al Convegno “Giustizia spaziale –Justice Spatiale”, Cagliari, 9-10 maggio 2013.
Mirella Loda, Fabio Amato
I saperi umani e sociali sono collocati ai margini delle dinamiche di ricerca; la geografia – in Italia come in altre realtà – rappresenta un disciplina marginale; noi stessi, nel nostro privato, viviamo un tempo di ampia e profonda riconfigurazione delle cornici di senso che mettono fortemente in discussione le identità personali e professionali. Nel nostro personale, infine, ci sentiamo spesso ai margini e inadeguati al punto tale da inseguire modalità nuove di dire io, di dire noi attraverso legami sociali virtuali che ci pongono in un fittizio centro della rete, ponendoci, in realtà, ai margini in condizioni di profondo isolamento.
Questi sono alcuni degli esempi della marginalità e del conseguente isolamento che si può registrare, ma la dimensione più interessante ai nostri fini è l’accezione sociale, economica e culturale.
Gli effetti perversi delle dinamiche dell’economia capitalistica delineano una piramide sociale dal vertice sempre più sottile e dalla base sempre più ampia: la minoranza al margine cresce in quantità fino a farsi in alcuni casi maggioranza numerica. Sempre più vasta è la condizione di marginalità e di precarietà reale che incide nella condizione psicologica del nostro vivere: si moltiplicano le indagini sulla povertà (reale o percepita) che confermano una condizione di inadeguatezza di “mezzi” rispetto ai bisogni o più genericamente una incapacità oggettiva di riuscire a soddisfare i bisogni essenziali.
Una instabilità sociale che sta crescendo ovunque facendo emergere nuove conflittualità che per essere comprese richiederebbero strumenti analitici di tipo transnazionale e multiscalare. Una condizione che richiederebbe una nuova indagine sulla Misère du Monde come quella svolta da Pierre Bourdieu e dai suoi allievi esattamente vent’anni fa (Bourdieu, 1993).
Eppure, nelle società avanzate, per gli strati sociali più bassi si ipotizzava la definitiva scomparsa o almeno la consistente riduzione e invece finiscono con l’aumentare, coinvolgendo in condizioni di disagio anche categorie socioprofessionali più tutelate, come i famosi ceti medi, feticcio della stabilità sociale.
Ma questo contesto di crisi, per quanto abbia posto i riflettori sulla marginalità, rischia di banalizzare il ragionamento molto mediatizzato. Nella comunicazione quotidiana è difficile che si ponga attenzione alla distinzione tra una dimensione spaziale, sociale, economica e culturale della marginalità.
Una prima definizione fa riferimento all’interpretazione spaziale e topografica, fondata sulla localizzazione fisica e sulla distanza dai centri di sviluppo e di potere, una distanza che genererebbe appunto marginalità.
L’interpretazione societale si focalizza sulle dimensioni umane come la demografia, la religione, la cultura, la struttura sociale e soprattutto la dimensione politica ed economica in connessione con l’accesso alle risorse materiali e immateriali. Queste semplici definizioni ci fanno intendere che la marginalità è un processo che emerge ed evolve continuamente in modalità e scale geografiche differenti. Definire dunque la marginalità e il conseguente isolamento significa confrontarsi con un oggetto in continua trasformazione, a scale e dimensioni plurime.
Il contrasto più forte si registra pensando alla visione idealtipica, dalle rivoluzioni borghesi in poi, di una società dominata da valori di uguaglianza e protesa verso il raggiungimento della libertà e del benessere per tutti. Di fronte a questa idea si delinea, invece, il concreto inasprirsi delle differenze, l’iniquità si traduce in una spazializzazione per compartimenti stagni che separano, dividono piuttosto che consentire processi di interazione.
Di fronte a questo universo così vasto e complesso, proveremo a fornire solo alcune definizioni che aiutino a meglio situare l’idea di marginalità. Questo termine è usato generalmente per descrivere e analizzare sfere socio-culturali, politiche ed economiche, in cui persone svantaggiate cercano di guadagnare l’accesso (sociale e spaziale) alle risorse e alla piena partecipazione alla vita sociale. In altre parole le persone marginalizzate possono essere socialmente, politicamente, economicamente e legalmente ignorate, escluse e messe da parte, risultando fortemente vulnerabili.
In termini più strettamente geografici, il margine si situa, in tanto che limite o frontiera, ad una certa distanza dal centro. Tale distanza può essere quantitativa e misurabile oppure qualitativa e definibile in rapporto ad un polo o uno spazio strutturante (Rioux, 1998). Come ci ricordano sia Antoine Bailly (1983) che André Vant (1986), la marginalità geografica si inscrive nella coppia oppositiva centro/periferia e può essere letta a differenti scale: quella geoeconomica e geopolitica tradizionale che legge gli Stati come attori principali, quella interregionale nell’ambito dei singoli paesi, quella infraregionale, fino a giungere alla scala dei singoli luoghi.
Da quando nella storia dell’umanità si è definito un centro possiamo individuare una zona di margine, una zona di debolezza, ma è a partire dagli effetti del processo di industrializzazione che sono state effettuate indagini e ricerche sulle aree marginali: basti pensare alla Manchester descritta da Friedrich Engels (1972) o alla East London raccontata dal dottor Charles Booth (1902) o ai racconti e i romanzi dell’Ottocento (Hugo, Zola, D.H. Lawrence). La scuola di Chicago, all’inizio del Novecento, ha usato la categoria di marginalità ma è a partire dalle indagini puntuali sulle grandi metropoli del Terzo Mondo che iniziano negli anni Cinquanta del ’900, quando le città erano lette come spazi duali (città coloniale/città antica), che essa viene affrontata in modo sistematico.
Da quel momento il legame tra povertà, marginalità e periferia si nutre di numerose ricerche geografiche in Africa, Asia e America Latina. A partire dalla fine degli anni Sessanta, infine, anche le contraddizioni delle città occidentali sono oggetto di indagine soprattutto da parte di una geografia marxista. Si è assistito ad una relativa eclissi di interesse per i fenomeni di marginalità negli anni Ottanta e i primissimi anni Novanta, quando lo studio delle città del Sud significava studiare spazi residuali e arretrati che devono migliorare secondo precise ricette.
Il vero punto di svolta è rappresentato dalla conferenza UN HABITAT II di Istanbul del 1996, quando il tema degli slums e della crescita urbana delle aree
Mirella
Loda, Fabio Amato
marginali e degradate è tornato prepotentemente alla ribalta: non più fenomeno in via di esaurimento, ma nuovo volto dell’urbanizzazione del mondo. Sul versante opposto della scala, il concetto di “Sistema Mondo”, come descritto da Wallerstein (2003), benché indicasse oltre al bipolarismo “Centro-Periferia” anche un’area semiperiferica di transizione, non pare più sufficiente a descrivere le complesse strutture policentriche del potere in continuo cambiamento attraverso la competizione e il conflitto di sottounità spaziali: la periferia di un tempo sembra destinata a diventare il centro come ci insegnano i paesi che compongono il gruppo Brics e altre realtà substatali, come le stesse città globali che, tuttavia, ospitano al proprio interno forti polarizzazioni come ci ricorda la Sassen (2004).
In termini sociologici, inoltre, la marginalità si inscrive nella coppia normalità/devianza e il margine viene rappresentato come bordo oltre il quale si cade, ma anche questa coppia oppositiva sfuma progressivamente in molteplici possibili definizioni.
In realtà, il sapere geografico sorprendentemente non sembra essersi molto interessato ad una definizione puntuale del concetto di marginalità, probabilmente a causa del peso specifico del concetto di periferia e per la connotazione eminentemente sociologica che si è soliti dare a tale lemma. Non è da escludere che la lezione dello storico prestato alla geografia Lucien Febvre – evocata da Pierre George (1966) – ha forse a lungo condizionato questo tipo di riflessioni visto che diceva «Peu importe la marge, c’est le coeur qui il faut avant tout considerer» : il peso maggiore bisognava dunque attribuirlo a ciò che è importante, visibile e strutturante per gli spazi geografici. Nondimeno, bisogna ricordare che un’importanza ai margini è stata sempre fornita dalla geografia fisica i cui studi morfologici, climatici e biogeografici definiscono attraverso di essi i limiti delle zone e le dinamiche sistemiche degli ambienti. Attraverso il termine marginalità, in sintesi, noi definiamo allo stesso tempo una posizione geografica e uno stato sociale ed è su questo aspetto che gli studi più recenti della Social and cultural Geography anglosassone hanno scritto parecchio, a partire dal cultural turn, ponendo al centro dell’attenzione il protagonismo degli esclusi.
Facendo riferimento al contesto italiano e francese, il carattere posizionale e soprattutto spaziale del termine ha condizionato fortemente le scelte dei geografi: a fronte di una ricca letteratura di casi studio (prima le città coloniali e poi le banlieues in Francia, le aree interne e marginali in Italia) solo in anni recenti si sono effettuate riflessioni sul termine o impostato ricerche utilizzando esplicitamente la parola marge e marginalisation. Non è un caso che queste parole non siano presenti né nel Dictionnaire de la géographie et de l’espace des sociétés curato da Lèvy e Lussault, né nel Dictionary of Human Geography curato da Gregory e Johnston. Inoltre, per restare sul versante anglosassone, nei dodici volumi della International Encyclopedia of Human Geography il termine compare più diffusamente nella voce relativa alla geografia comportamentale, in quella relativa alla geografia elettorale e alla vulnerabilità e, più in coerenza con l’idea che se ne ha,
nelle voci relative ai conflitti etnici e alla geografia femminista, ma non esiste una voce autonoma.
La città è il laboratorio di complesse articolazioni su cui è indispensabile riporre massima attenzione. La società contemporanea, infatti, esprime un modo diverso di essere città che può essere letto solo se siamo in grado di leggere le molteplici sezioni che compongono il contesto urbano. Come ricorda Secchi (1999), la metafora che emerge per definire questa discontinuità è il frammento: alle diverse scale lo spazio fisico, sociale, economico, istituzionale, politico e culturale, connotato da un medesimo grado di frammentarietà, non è l’esito di razionalità molteplici e legittime, ma semplicemente l’accostamento di una all’altra.
Queste co-presenze generano delle fratture, delle frontiere che meritano di essere investigate a scala urbana. Si registrano pezzi di città che restano ai margini dei processi innovativi, del sapere e del mondo del lavoro conservando solo nella collocazione spaziale l’idea di urbano.
Le frontiere interne, le linee divisorie che attraversano i contesti urbani si moltiplicano creando identità e aggregazioni che hanno i due opposti negli slums e nelle gated communities, entrambi periferici, entrambi isolati ma diversamente collocati nella gerarchia della marginalità. Come detto, ai margini del processo di globalizzazione cresce sempre di più questo arcipelago di povertà e disagio e gli esempi studiati di shantytown a scala mondiale sono tantissimi e, a dimostrazione della marginalità crescente, non riguardano più solo il Global South: dall’Argentina al Ghana, dall’India ai barrios statunitensi, dalla periferia del Cairo alle banlieues francesi. Sono condizioni di margine in cui, con le dovute differenze, spesso anche gli elementari aspetti della dignità umana appaiono disattesi, come ci racconta diffusamente Mike Davis (2006).
2.4. Le periferie napoletane
Il mio interesse si è concentrato soprattutto sullo studio delle periferie napoletane (Amato, 1993, 2008) che rappresentano un laboratorio di ricerca significativo in considerazione della diffusa presenza di elementi di marginalità e processi segregativi che si localizzano in maniera discontinua e in contesti dai confini sfumati.
Lo stesso centro storico del capoluogo campano conserva ampie porzioni di degrado e marginalità poco scalfite dai processi di rinnovamento urbano. Disoccupazione, bassi livelli di scolarizzazione, condizioni fatiscenti del patrimonio edilizio, si combinano in alcuni luoghi con un marcato sottodimensionamento dei servizi e una pervasiva presenza di strutture criminali, attore territoriale con cui bisogna fare i conti. Elementi di degrado e di marginalità acuta sono, per-
Mirella Loda, Fabio Amato
tanto, diffusamente presenti nei quartieri che costituiscono il nucleo storico del capoluogo, formando tasselli di una perifericità socio-economica che, tuttavia, dispone di una risorsa di centralità e, pertanto, difficilmente associabile alle condizioni della nuova città sviluppatasi nel corso del Novecento37 .
La perifericità, in tal senso, si può declinare secondo diverse chiavi di lettura siano esse più propriamente topografico-spaziali (la periferia della città, la periferia oltre Napoli e la periferia dell’hinterland) siano esse in termini di strutture socio-territoriali (concentrazione di classi sociali marginali come le classi meno abbienti e i migranti). L’osservazione e la descrizione di questi luoghi ha permesso di declinare al plurale la periferia napoletana. Il debole governo dei processi rappresenta, se non la causa, il moltiplicatore delle condizioni pervasive di disagio e di bassa qualità della vita, la cui materializzazione simbolica è rappresentata dalle condizioni di inquinamento di ampie porzioni del territorio e dalla perenne emergenza della raccolta dei rifiuti, la cui mediatizzazione dell’inizio del 2008 ha rappresentato solo il frutto di un malgoverno sedimentato nei decenni.
Partendo dal comune capoluogo, le descrizioni dei luoghi periferici si è fondata oltre che su documenti e studi pregressi su perlustrazioni osservative, precondizione elementare per qualsiasi comprensione dei luoghi. Per poter definire i confini della esclusione più marcata che attraversano ognuno dei comuni si dovrebbero scorporare i singoli dati delle insule censuarie per sottolineare i luoghi di maggiore concentrazione della marginalità. In questa circostanza ci è utile comprendere che non esiste una “periferia totale”. È possibile, in sintesi, tratteggiare almeno cinque sottoinsiemi – non necessariamente geograficamente continui. a) L’elevata qualità in periferia. Lungo l’arco della provincia è possibile individuare alcune aree di edilizia che ricordano la logica dei sobborghi agiati anglosassoni: sono in particolare parchi privati di Pozzuoli, dove si possono intravedere i caratteri delle gated communties, parchi dotati di notevoli comfort ma raggiungibili solo con auto private. Queste localizzazioni si affiancano a quelle di chi ha scelto di destinare come prima abitazione appartamenti un tempo di esclusivo utilizzo balneare (Penisola Sorrentina e Isole). Un tipo di insediamento dettato, come nel caso precedente, dal bisogno di comfort e tranquillità, oltre all’amenità del luogo, pagato con la distanza dal centro urbano. Pur in assenza delle stesse potenzialità paesaggistiche, possiamo associare a questa tipologia le villette a schiera presenti a S. Sebastiano al Vesuvio. Bisogna, inoltre, ricordare che ampie sezioni di una direttrice vesuviana che coinvolge il centro di Portici, di S. Giorgio a Cremano, ma anche i rioni centrali di Pozzuoli sono oggi dotati di una qualità urbana superiore a molte aree centrali del capoluogo.
37 Sul centro storico di Napoli esiste una consistente letteratura; per una sintesi sugli ultimi vent’anni e per una rassegna degli studi più recenti sia consentito rinviare ad Amato, 2006.
b) La borghesia migrata in periferia. Le aree di recente espansione edilizia, grazie alla promozione privata e cooperativa, costituita da edifici non intensivi e collocata in zone semicentrali dei vari comuni, ospita, a macchia di leopardo, la media borghesia tracimata dal centro partenopeo per l’inaccessibilità del mercato immobiliare del capoluogo. È la parte più consistente degli insediamenti degli ultimi vent’anni. Si tratta, spesso, di giovani coppie che hanno dovuto migrare seguendo il gradiente inverso della rendita urbana. Anche in questo caso, la difesa dal degrado esterno si esprime attraverso una valorizzazione degli spazi di prossimità condominiali se non addirittura nel solo appartamento. Si tratta di una borghesia piccola e media che in diversi casi ha avuto accesso alla proprietà e che, comunque conserva costumi e consumi metropolitani. Il luogo di residenza viene percepito come indifferenziato e funzionale solo al privato delle mura di casa.
c) Il degrado dei casali. Gli antichi borghi rurali, oggi inglobati dalla disordinata espansione edilizia, rappresentano, in alcuni casi, luoghi di particolare degrado. In ogni singolo comune i prezzi di locazione e vendita seguono un andamento decrescente passando dal centro verso la periferia. Nonostante il difficile percorso di recupero e riqualificazione dei brani di tessuto storico ancora presenti, la cui trama insediativa appare sgranata, permane un valore aggiunto per i quartieri centrali. Esistono, tuttavia, realtà, come ad esempio Sant’Antimo, Poggiomarino o Palma Campania, dove la differenza dei prezzi stimati di locazione e vendita è minima tra l’area centrale, quella semicentrale e la periferica. Sono esempi che ricordano, con le dovute proporzioni, quanto accade nel centro di Napoli, dove si alternano luoghi di pregio a sacche di degrado. La differenza sostanziale è che questi centri sono già di per sé periferici rispetto al comune capoluogo. Non a caso trovano maggior spazio nei luoghi centrali di questi comuni le comunità di migranti che possono confrontarsi, per lo più, con la sezione più marginale del mercato dell’alloggio.
d) Le zonizzazioni dell’edilizia sovvenzionata. Come il capoluogo anche il resto della provincia è stato interessato da diverse fasi dell’intervento pubblico. L’intervento della sola Ina-Casa corrisponde ad una cinquantina di localizzazioni, la più consistente delle quali è stata realizzata a Torre Annunziata (nucleo edilizio di via Epitaffio). In generale, questo tipo di interventi, di media qualità edilizia e dotate anche di spazi per attrezzature, ha trovato prevalente localizzazione in zone semicentrali ed ha ospitato i ceti meno abbienti in lenta promozione sociale. Sebbene oggi, nella crisi occupazionale generale, alcune di queste componenti si possano considerare a rischio di povertà, permane una minima articolazione nella composizione sociale. Queste presenze si registrano lungo l’arco dell’intera Piana campana con particolari concentrazioni nei comuni a Nord di Napoli e nel Nolano. Nonostante la prossimità con le aree più antiche si tratta di entità chiuse in se stesse poco correlate con il resto del territorio, secondo la conformazione tradizionale dell’edilizia economica popolare.
Mirella Loda, Fabio Amato
e) Le vere banlieues della periferia. Lo stock di alloggi pubblici nella provincia si è arricchito anche degli interventi seguiti al terremoto del 1980. Si tratta di circa 8mila alloggi che hanno interessato 17 comuni. Queste abitazioni appartengono alla stessa tipologia della precedente categoria ma sono state localizzate in aree ben distanti del tessuto urbanizzato – sospesi in mezzo alla campagna o metà strada dagli abitati tradizionali – e dove il degrado fisico si associa a condizioni di disagio socio-economico estremo. I prototipi possono essere individuati nel Parco Verde di Caivano e nel Parco Salicelle di Afragola, luoghi dove la distanza dal resto del tessuto urbano si combina con uno spaventoso décalage socio-economico e dove la complessità sociale è completamente azzerata. È in particolare la realtà di Caivano, che ha ospitato soprattutto nuclei del sottoproletariato migrati dal centro storico di Napoli dopo il 1980, ad assurgere agli onori della cronaca locale nera e giudiziaria. Altre distorsioni del post-terremoto sono rappresentate dagli alloggi-parcheggio, in origine provvisori. costruiti con l’intervento straordinario per trasferire momentaneamente i nuclei familiari che risedevano in abitazioni da riqualificare. Uno degli esempi più noti è quello del quartiere Penniniello nella periferia nord-orientale di Torre Annunziata, oggetto di ben due contratti di quartiere, azioni dall’incerto esito.
Il fenomeno della presenza dei migranti in Italia, oltre che essere la spia più efficace per descrive il cambiamento del profilo socio-culturale del Paese, rappresenta un altro versante di grande interesse per affrontare le tematiche della marginalità.
Anche in questo caso, pur avendo affrontato riflessioni di carattere generale e a scala nazionale, ho potuto svolgere l’esercizio della pratica di indagine di terreno prevalentemente nel contesto campano e in particolare nel Napoletano (Amato e Coppola, 2009).
La presenza straniera in Campania, secondo le più recenti risultanze anagrafiche, è di 164.268 migranti (dato al 1 gennaio 2011). Tale valore, includendo gli stranieri regolari e non registrati, gli irregolari e i clandestini si stima essere in 200.000 unità. Si tratta, pertanto, di una presenza crescente e sempre più stabile che si concentra nel capoluogo di Napoli e nella sua ampia area metropolitana. Sebbene la centralità napoletana alla scala regionale resti indiscussa, negli ultimi decenni i fenomeni di urbanizzazione hanno tuttavia investito nuovi spazi e ritessuto le maglie territoriali alleggerendo la gerarchia urbana e acquisendo un peso inedito ai nodi intermedi.
L’urbanità sempre più diffusa è un fattore di attrazione e insieme un effetto dei flussi migratori in entrata, diretti nelle aree più significative per l’economia locale e nel contempo in quegli scenari dove il sistema economico appare più flessibile
consentendo l’inserimento nelle larghe maglie del mercato del lavoro informale e nelle nicchie marginali del mercato della casa. Così sono venuti a configurarsi in quest’area spazi di estremo interesse per quel che concerne la presenza dei migranti e la loro incidenza percentuale: sono territori posti perlopiù nelle periferie contigue alle città, ad esse legate da relazioni in divenire, in cui la variabile dell’informalità e, non di rado, quella della criminalità organizzata hanno contribuito alla concentrazione insediativa dei migranti in prossimità dei luoghi di lavoro, in condizioni il più delle volte precarie, in alcuni casi addirittura emergenziali. Le indagini effettuate negli ultimi anni hanno fatto emergere un quadro di particolare complessità che merita rispetto al tema dell’alloggio un approfondimento puntuale in alcuni contesti particolari. Sono soprattutto i tre comuni che fungono da capoluoghi provinciali (Napoli, Salerno e Caserta) ad essere interessati da processi di trasformazione significativa dei profili socio-culturali. I tre capoluoghi, nella loro articolazione, rappresenterebbero i laboratori ideali per una ricerca indirizzata alla conoscenza del fabbisogno abitativo ma si tratta di realtà consolidate nella letteratura sul tema (Ammaturo et al., 2009), e, soprattutto, fanno riferimento a realtà complesse e molto spesso sono relative a scelte abitative promosse dai migranti per un breve periodo iniziale, in funzione di traiettorie di sedentarizzazione verso altre destinazioni. Chi sceglie di vivere in Campania intraprende percorsi di accesso all’alloggio nelle zone periferiche dove il rapporto con la rendita immobiliare è più conveniente. In una recente indagine, promossa dalla o.n.g. Alisei, si è cercato di approfondire in maniera diretta la conoscenza degli spazi sociali “periferici” della grande area metropolitana che da Napoli si snoda a nord e a nord-ovest verso Caserta e a sud-est verso Salerno. Lo studio di campo è stato indirizzato ad approfondire la conoscenza del territorio per prevenire situazioni di emergenza abitativa, attraverso una indagine territoriale che consenta di individuare le situazioni potenzialmente più rischiose e di conseguenza di mettere in atto gli interventi di contrasto più idonei. Solo l’indagine di terreno ha permesso di far emergere condizioni di massimo degrado nelle frazioni litoranee del comune salernitano di Eboli (S. Cecilia e Campolongo). La frazione di Santa Cecilia, più interna rispetto a quella di Campolongo, viene segnalata come luogo di residenza esclusivamente dai migranti che abitano in fabbriche dismesse, tutti maghrebini. La condizione di queste persone è in assoluto quella più disagiata, dal momento che nella quasi totalità dei casi non si dispone dell’acqua corrente, dell’elettricità né naturalmente del riscaldamento. Come si è detto, molti di loro sono provvisti, tra l’altro, del permesso di soggiorno e questo lascia presumere che in parte si tratti degli sfollati di San Nicola Varco (vecchio ghetto sgomberato), tra i quali era nota l’ampia presenza migrante regolare. La frazione di Campolongo rappresenta per molti versi una seconda Eboli, ovvero un territorio ad altissima concentrazione di popolazione migrante, come si può osservare percorrendo la strada litoranea in questo tratto, frequentata quasi esclusivamente da stranieri in bicicletta o a piedi e da persone coinvolte nei giri della prostituzione. La stragrande maggioranza dei mi-
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granti di Eboli abita proprio a Campolongo, non distante dalle distese agricole, che si alternano nel paesaggio ad abitazioni dirupate – degna di nota la presenza di case senza il tetto ma pur tuttavia abitate – roulotte, e vere e proprie baracche. Si tratta solo di un esempio che enfatizza il ruolo del tema dell’abitare per i migranti e soprattutto conferma che studiare le migrazioni – fenomeno connotato da grande opalescenza e difficilmente fotografabile – nella prospettiva geografica non può prescindere da uno studio e una continua osservazione dei luoghi.
2.6. Conclusioni
L’attenzione per i margini, per le condizioni di disagio e di malessere che ho coltivato in questi anni ha diverse relazioni con il modo di intendere la geografia sociale nella scuola del Grande Ovest. Nonostante questo tipo di predilezione, devo ammettere che negli ultimi anni si è insinuato il dubbio sul modo con cui si approcciano questi fenomeni. Il punto su cui vorrei soffermarmi in conclusione è relativo proprio all’uso che se ne fa del termine marginalità, destinando particolare enfasi ad un approccio stadiale e inferiorizzante, che legge i titolari di questo stato sempre per differenza rispetto ad una integrazione sociale o psicosociale. Molto della debolezza del termine è dettato anche dalla facilità con cui si sovrappone all’idea di esclusione e di diseguaglianza aspetti fortemente connaturati all’idea di margine ma che – come nel caso della geografia sociale – non possono esaurire tutto il campo delle possibilità.
L’idea che ci ossessiona è sempre quella di luoghi marginali, sempre quelli periferici, che debbono tendere verso un processo di integrazione e assimilazione ai parametri di un centro delle città mitizzato, possibilmente attraverso logiche partecipative e codificate. Si tratta però di un centro che insegue i dettami del marketing urbano e risulta molto spesso museificato, svuotato di abitanti e di futuro (le generazioni più giovani non abitano lì) e asservito alle logiche del turismo che probabilmente non interessa a chi vive i luoghi periferici e di margine ovunque essi siano localizzati. I luoghi periferici, ad esempio, esprimono nuove modalità di polarizzazione attraverso luoghi del consumo e del commercio distanti, luoghi attraverso i quali le comunità migranti costruiscono nuove geografie private che danno dignità e interesse all’Hinterland. Un interesse che, come ci spiegava Rosario Sommella qualche anno fa, è diventato prioritario anche nelle perverse logiche strategiche delle organizzazioni criminali: la camorra che conta si trova oltre i confini del comune di Napoli (Sommella, 2006).
A differenza di quanto siamo soliti immaginare, questi luoghi ospitano dinamiche e attori plurimi. Tali luoghi divengono realtà che esprimono tensioni, conflitti e proteste e sguardi diversi, una sorta di denuncia in corpore di quanto la città globale non dice più e tenta di nascondere nel retrobottega (Petrillo, 2013). Con pizzico di ottimismo si può immaginare che dai margini si possa costruire un sguardo nuovo che può sollecitare il cambiamento.
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Di chi è il territorio?
Mauro Pascolini*
1. Le nuove “dimensioni” deL territorio
In questi ultimi anni un tema fondamentale del rapporto tra cittadini, comunità locali e decisori da una parte e territorio dall’altra è quello di chi ha “voce in capitolo”, cioè di chi, in ultima analisi, può e deve decidere sulle scelte di gestione e di governo che coinvolgono un territorio nei suoi aspetti multidimensionali e multiscalari. Non è quindi banale porre l’interrogativo: Di chi è il/un territorio? specialmente quando questo assume per caratteristiche proprie, per dimensione, per risorse un ruolo ed una valenza che dalla scala locale si amplia a una dimensione globale; basti pensare, ad esempio, al significato del riconoscimento di Patrimonio dell’Umanità che l’Unesco, sulla base della Convenzione adottata nel 19721 conferisce a specifici ambienti e luoghi del pianeta. Di fatto, la dimensione patrimoniale
* Università degli Studi di Udine.
1 La Convenzione sul Patrimonio Mondiale dell’Umanità è stata adottata dall’Unesco nel 1972 e definisce non solo le modalità d’iscrizione alla Lista, ma pure i criteri di riconoscimento che sono stati definiti in dieci tipologie. I 981 Beni ad oggi iscritti nella Lista Patrimonio Mondiale Unesco e presenti in 160 stati membri sono suddivisi in culturali (759), naturali (193) e misti (29). In Italia sono riconosciuti 49 Beni dei quali solo quattro naturali. A questi vanno aggiunti anche quattro beni iscritti come capolavori del Patrimonio Orale e Immateriale.
si dilata a dismisura investendo gli abitanti in prospettive inusuali e completamente diverse, anche in termini di responsabilità, da quelle di essere proprietario di un fondo, di un edificio, di un bosco, di una porzione di territorio per assumere, superando la mera dimensione di proprietà, quella più complessa di patrimonio al quale sono legati valori, tradizioni, risorse, culture materiali e immateriali.
Ma questa nuova dimensione non può e non deve essere applicata solamente a territori di serie A tutelati e comunemente riconosciuti come eccezionali, ma a tutti i territori, anche quelli che si possono definire di serie B, dove invece è possibile agire liberamente, senza limiti, alla stregua di qualunque prodotto da utilizzare e consumare. Infatti, da tempo anche in ambito territoriale è venuto a consolidarsi un orientamento, quello del marketing territoriale, che vede il territorio come prodotto al quale poter applicare le regole tipiche del marketing (Coiro, 2005). Non solo in campo turistico, dove per la prima volta si sono attuate azioni di promozione, comunicazione e valorizzazione per vendere il territorio a fine di svago e vacanza, ma sempre di più nell’intento «di attrarre in una specifica area o territorio nuove attività economiche e produttive, favorire lo sviluppo delle imprese locali, promuovere un’immagine positiva» (Texier e Valle, 1992). In questa nuova dimensione, fondamentali diventano da un lato le risorse presenti e dall’altro, sia gli attori, i protagonisti, i portatori di interesse, o stakeholder, interni ed esterni, sia le azioni che vengono messe in essere a seconda delle scelte pianificate nell’ambito di progetti di sviluppo, di azioni di governo, di utilizzo di risorse.
Il territorio viene così ad assumere una dimensione multi-valoriale alimentata dalle visioni, dai concetti e dagli obiettivi dei diversi interlocutori coinvolti nell’azione di governance. Si hanno pertanto sistemi valoriali differenti e talvolta contrapposti che possono enfatizzare, a seconda degli interessi, o la dimensione strettamente economica che considera il territorio alla stregua di un bene che può essere venduto, comprato e utilizzato; o, invece, gli aspetti legati al patrimonio ambientale, a quello storico e culturale, al “senso” stesso che i luoghi esprimono per i singoli individui o per la comunità, o ancora alle motivazioni profonde dell’appartenenza. Porre attenzione a queste dimensioni significa anche dotarsi di nuovi strumenti di indagine e di rappresentazioni che mettano in evidenza il complesso sistema di relazioni che costituiscono la trama profonda e l’essenza stessa di un territorio.
L’attenzione si deve quindi concentrare sugli attori delle relazioni, su quei gruppi umani che danno vita con la loro azione spaziale a forme complesse di organizzazione territoriale. Di fatto, facendo proprio uno dei compiti fondamentali contemplati dalla geografia sociale, così come evidenziati nella definizione di geografia sociale, proposta da Schaffer nel 1968, che la esemplifica come «scienza delle forme di organizzazione spaziale e dei processi spazialmente attivi delle funzioni elementari dei gruppi e delle società umane» (Maier et al., 1983, p. 30).
Tra i molti filoni possibili tesi a mettere in luce le azioni spazialmente attive dei gruppi umani, in coerenza con quanto premesso, si intende soffermare l’attenzione su una questione centrale, la quale sta assumendo particolare rilevanza
Di chi è il territorio? Per una geografia partecipativa 175
in questi ultimi tempi in relazione al quesito di chi è il territorio?, o meglio chi deve decidere e come per il suo governo. Tematica questa prepotentemente entrata da protagonista nelle politiche territoriali a partire dal consolidamento teorico e metodologico del concetto di sviluppo sostenibile declinato soprattutto a scala locale, che ha fatto proprio come metodo di azione quello delle pratiche della partecipazione, della condivisione, dell’inclusione, basti pensare, ad esempio, all’esperienza rappresentata dalle Agende 21 locali.
L’importanza della partecipazione come pratica territoriale si è fatta sempre più evidente per la crisi del modello della democrazia rappresentativa, che sta evidenziando tutti i suoi limiti di fronte alle emergenze ambientali varie e ad un uso del territorio figlio delle politiche sempre più impattanti di infrastrutturazione energetica e della mobilità, che sta favorendo l’azione diretta dei cittadini sia nella rivendicazione di partecipare alle scelte preliminari alle politiche territoriali, sia nella gestione diretta delle stesse.
Partendo da queste considerazioni, vista la complessità e l’ampiezza delle tematiche sollevate, si porrà l’attenzione solo su alcuni aspetti che rientrano a pieno titolo nelle tematiche e nei percorsi di ricerca sia della geografia umana in generale, sia più propriamente della geografia sociale, considerata, come indicava Daniela Lombardi nel suo volume Percorsi di geografia sociale, quando scriveva che «la geografia sociale vive nel mondo e per il mondo. Dunque, muta nel tempo i propri focus, ampliandoli o definendoli meglio, perché nel frattempo il mondo è cambiato. E nel fare questo cerca, ovviamente, i migliori strumenti interpretativi […] dati i profondi mutamenti che hanno investito l’economia, la società, il territorio» (Lombardi, 2006, p. 120).
L’intento non è quello di fare una trattazione esaustiva dei singoli temi individuati, ma quello di proporre alcune chiavi interpretative, suggestioni e riflessioni nonché quello di stimolare nuove direzioni di ricerca, atte a sensibilizzare e prendere coscienza dell’importante compito che tutti sono chiamati quotidianamente a svolgere come “animali spaziali”, quello del Buon Governo del territorio dove l’eccezionalità deve essere normalità e dove la normalità va vissuta come eccezionalità.
2. iL ‘vaLore’ dei Luoghi
L’uomo da sempre ha sentito il bisogno di rappresentare il luogo e quanto questo esprime spinto dalla voglia di comunicare il proprio spazio vissuto; uno spazio risultato dall’azione collettiva delle società e dei gruppi umani. Uno spazio che da semplice trama dove dar vita alle proprie funzioni elementari (il vivere, l’approvvigionarsi, l’abitare, ecc.) si è fatto, col tempo, territorio, spazio sociale e relazionale, dove gli elementi quantitativi si fondono a quelli qualitativi e immateriali.
Uno spazio che con il tempo si è caricato di una stratificazione storica e culturale segnato in profondità dal susseguirsi di civiltà e di originali modelli di utiliz-
Pascolini
zo di risorse caratteristiche delle diverse società che si sono susseguite nella storia evolutiva dell’umanità. Al tempo stesso lo spazio, all’aumentare della conoscenza, è stato sempre meglio definito nelle forme dei luoghi, nei loro nomi, nel loro significato simbolico, nel loro trasformarsi da proprietà collettiva in proprietà individuale. Lo spazio diventava così territorio e il territorio diventava paesaggio culturale, dove l’uomo realizza il suo disegno esistenziale, il suo progetto di vita, il suo legame profondo con la terra, con i luoghi e con la storia che i luoghi portano come patrimonio.
È un aspetto importante, questo, che merita una sottolineatura: il paesaggio è figlio del tempo, delle scelte politiche, economiche ed anche valoriali della società che lo esprime, è uno spazio in continua formazione, in continuo cambiamento. Ogni giorno, coscientemente o meno, vengono attivate scelte e comportamenti che generano paesaggio, ma spesso chi le attiva non se ne rende pienamente conto e non lo vive come suo. Specie nei sistemi valoriali viene ricercato il paesaggio del passato e rifiutato quello della contemporaneità, prodotto in nome di un passato, legato, specie in Europa, ad una società rurale che non c’è più. Inoltre, questa posizione è continuamente alimentata dal fatto che lo spazio di oggi è ancora profondamente intriso dei segni della storia e delle civiltà che si sono succedute2, sollecitando continuamente al ricordo del passato.
Il sistema dei valori legati al territorio quindi non è solo figlio di fattori contingenti, ma si carica, in maniera significativa, del vissuto nelle sue diverse stratificazioni di una intera comunità e delle civiltà che le hanno precedute: un sistema di relazioni che da orizzontali si fanno sempre più verticali. Con un salto di prospettiva, non solo giocano un ruolo le grandi questioni che animano le politiche territoriali odierne (quella ambientale, quella dei modelli di sviluppo, quelle della complessa gestione multilivello delle infrastrutture, solo per ricordarne alcune), ma pure quelle figlie del complesso rapporto multidimensionale che lega l’uomo ai luoghi, segnato talvolta da profonde fratture, che enfatizzano e danno rilevanza ad alcuni peculiari fattori.
Questo rapporto con il passato, con le radici, con la memoria dei luoghi porta inevitabilmente a caricare di senso, di significato lo spazio e i luoghi letti a diversa scala. Prende vita così un concetto nuovo di territorio, che non è solo il luogo in cui si vive e si lavora, ma che conserva la storia degli uomini che lo hanno abitato e trasformato e dei segni che lo hanno caratterizzato. Vi è la consapevolezza che il territorio, qualunque esso sia, contenga un patrimonio diffuso, ricco di dettagli e soprattutto di una fittissima rete di rapporti e interrelazioni tra i tanti elementi che lo contraddistinguono. Memoria, appartenenza, senso dei luoghi si
2 Basti pensare ad esempio alla civiltà di Roma, o al periodo medioevale e rinascimentale che portarono con loro la grande trasformazione del territorio europeo con la progressiva messa a cultura di vastissime aree forestali sia in pianura che in montagna, o della stessa Rivoluzione industriale che in pochi decenni ha modificato radicalmente il paesaggio urbano.
Di chi è il territorio? Per una geografia partecipativa 177
mescolano per dare vita ad una dimensione valoriale del territorio che necessita di essere considerata, sia per essere strumento per la governance, sia per le azioni di pianificazione e trasformazione di cui è oggetto.
Valori che una volta misurati, con strumenti di tipo qualitativo, vanno a costituire nuove tipologie di rappresentazione quali le carte dei valori o le mappe di comunità3. Strumenti utili a rappresentare il patrimonio, il paesaggio, i saperi di una comunità e che rendono esplicito il modo con cui la stessa comunità vede, percepisce, attribuisce valore al proprio territorio, alle sue memorie, alle sue trasformazioni, alla sua contemporaneità.
Le nuove tecnologie facilitano la costruzione di queste mappe4 che non sono delle semplici rappresentazioni del territorio ma dei veri processi di ricostruzione della dimensione spaziale della comunità. La mappa come momento di raccolta, di elaborazione, di riflessione, di interiorizzazione, di patrimonializzazione dello spazio di riferimento in una visione multidimensionale ed in continuo cambiamento e arricchimento5. Carte necessarie per individuare gli scenari futuri, i modelli di sviluppo, le potenzialità, i punti di forza e di debolezza di un territorio6 .
E allora sul tavolo delle politiche territoriali devono trovar posto il valore e il senso dei luoghi come parte integrante di un processo di pianificazione e gestione dello sviluppo locale con percorsi e processi di condivisione e partecipazione di tutti gli attori coinvolti.
3 In particolare queste ultime, nate in Inghilterra già agli inizi del secolo scorso e note come Parish Maps, si sono affermate in questi ultimi anni non solo come complessa rappresentazione da parte delle comunità dei luoghi che abitano, ma pure come strumento di elaborazione del significato profondo dei luoghi (Leslie, 2006).
4 Carte dove convivono i luoghi della memoria individuale, frutto della conoscenza e della frequentazione; della memoria emozionale che valorizza i luoghi, talvolta banali, delle vicende personali; della stratificazione storica collettiva che riporta alla luce vicende, mestieri, testimonianze di un passato lontano, ma anche recente; della memoria popolare dove si intreccia la storia alla leggenda alla tradizione. Un bell’esempio è quello della mappa di comunità di Raggiolo nella quale ad esempio vengono citati come luoghi di valore il Lastrone delle fate, lo Scoglio del gallo, il Fosso del colera, la Fonte della Diavolina, la Palaia degli impiccati, il Camposanto vecchio… O la mappa interattiva e plurisensoriale di Parabiago entrambe reperibili in rete.
5 L’utilizzo dei GIS (Sistemi Informativi Geografici) e dei SIT (Sistemi Informativi Territoriali) ha di molto facilitato la realizzazione di sistemi aperti ed interrativi che hanno permesso di realizzare delle mappe e della carte con il contributo diretto della popolazione. Tali sistemi inoltre permettono l’aggiornamento e l’implementazione continua del sistema. Due ottimi esempi sono la Comelicopedia (www.comelicopedia.net) e l’Atlante delle segnalazioni dei valori territoriali della Carnia (www.simfvg.it).
6 Ormai è consolidato l’uso della Swot Anlysis o matrice Swot sia nella pianificazione strategica che nelle azioni di marketing territoriale. In specifico si tratta di costruire una matrice per valutare i punti di forza (Strengths) e di debolezza (Weaknesses), dell’ambiente interno, e le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats) dell’ambiente esterno di un progetto o di una iniziativa.
Quando a Porto Alegre e a Belo Horizonte alla fine degli anni ’80 del secolo scorso vennero attivate le prime esperienze di partecipazione diretta dei cittadini alla cosa pubblica, con lo strumento del bilancio partecipativo, non c’era la consapevolezza che in breve tale approccio si sarebbe diffuso rapidamente non solo in Brasile, ma sarebbe diventato una dimensione operativa che avrebbe segnato in maniera determinante le politiche territoriali e i processi di governance, diventando di fatto, in molte situazioni, non una scelta, ma un obbligo7 .
Oggi l’attenzione attorno ai processi partecipativi si focalizza su molteplici aspetti: alcuni di carattere prettamente teorico metodologico, altri sugli attori, sui decisori e sui portatori d’interesse, altri ancora di natura più applicativa, fino ai molteplici e variegati casi dove hanno trovato attuazione. In poco tempo il dibattito iniziale che era molto incentrato sulle tecniche e sulle metodiche dei processi, si è concentrato sulle nuove forme di democrazia diretta, in particolare sul passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella partecipativa e a quella deliberativa e di come e quando applicarla.
In Italia l’introduzione delle pratiche partecipative è strettamente legata all’esperienza di Agenda 21 e ai processi di sviluppo locale, che di fatto hanno costituito la palestra dove la popolazione ha iniziato a confrontarsi con le procedure della partecipazione. Tali esperienze in particolare si sono dimostrate luoghi di animazione sociale; di diffusione di idee; di confronto tra decisori e popolazione; di progettualità condivisa; di negoziazione tra diversi interessi. La partecipazione così intesa è stata, nella sua fase iniziale, un reale luogo di elaborazione e realizzazione di buone pratiche, una alternativa credibile alle evidenti difficoltà della democrazia rappresentativa8 (Pascolini, 2008).
Sul valore dei percorsi partecipativi e sulla loro attuazione c’è ormai una vasta e consolidata letteratura, ma qui si vuole piuttosto sottolineare come tale esperienza sia servita, nonostante i limiti successivi9, a porre con forza il tema del coinvolgimento diretto dei cittadini nelle politiche territoriali.
7 Dopo la Conferenza ONU su Ambiente e Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, 178 governi di tutto il mondo, tra cui l’Italia, hanno adottato l’Agenda 21, un documento di intenti per la promozione di uno sviluppo sostenibile che tenendo conto degli aspetti sociali, ambientali ed economici può cogliere anticipatamente eventuali elementi di incompatibilità esistenti tra le attività socio-economiche e le politiche di protezione e salvaguardia dell’ambiente. L’adozione di Agenda21 ha messo in essere per la prima volta gli strumenti e i metodi della democrazia partecipativa.
8 Le buone pratiche partecipative messe in essere non sono state sufficienti a fronteggiare il decrescente livello di interesse verso gli appuntamenti elettorali e di fiducia nei confronti della politica percepita come altamente conflittuale, autoreferenziale, costosa e tesa solamente all’auto riproduzione. E in questo senso il caso italiano è emblematico.
9 In particolare si sottolinea che nel momento dell’obbligatorietà dell’adozione dei processi partecipativi in diverse fasi dell’iter progettuale di azioni di sviluppo locale o di realizzazione di
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Il passaggio alla democrazia deliberativa consiste nel superamento della mera fase di partecipazione, spesso ridotta alla sola informazione, per giungere attraverso un dialogo più stretto tra gli attori, comprensivo anche della delicata fase di negoziazione, alla deliberazione vera e propria che prevede il trasferimento del potere decisionale dalle istituzioni ai cittadini. Si passa quindi attraverso diverse fasi10 che vedono aumentare progressivamente il potere dei cittadini, da quella iniziale del solo informare alla successiva del consultare, per passare poi al coinvolgere e al cooperare, per giungere alla fine alla fase del trasferimento del potere decisionale. I processi che portano alla fase finale sono complessi ed articolati, molto più strutturati di quelli semplicemente partecipativi ed implicano una continua ricerca di comunicazione, di consapevolezza, di dialogo per superare gli atteggiamenti di critica aprioristica, di generica e immotivata difesa preconcetta delle proprie posizioni individuali o di piccoli gruppi di interesse.
L’inclusione è l’altro aspetto che contraddistingue la democrazia deliberativa e prevede il coinvolgimento di tutti i soggetti della comunità nel processo di costruzione della decisione finale, con particolare attenzione alle categorie di solito non protagoniste o di scarso potere. È questo un aspetto molto delicato del processo, in quanto implica la necessità di individuare con precisione i portatori di interesse cercando di non escludere nessuno11. Lo sforzo sta nel riuscire a costruire un gruppo di cittadini che assume le deliberazioni, rappresentativo dell’intera comunità e quindi possa di fatto legittimare le decisioni prese, evitando i gruppi auto-proposti che rischiano di rappresentare solo alcuni segmenti della società (Pascolini, 2011).
È questa la situazione tipica che si riscontra in alcuni processi inerenti tematiche ambientali che vedono il coinvolgimento di gruppi pregiudizialmente ed ideologicamente già fortemente orientati, che di fatto vanificano qualsiasi processo di negoziazione più articolata12 .
Uno dei casi più emblematici, in questa prospettiva, è quello della Val Susa e del movimento No TAV, che ha posto all’attenzione generale il tema della realizzazione delle grandi opere infrastrutturali13 e dei diversi livelli di governance coinvolti. In particolare l’attraversamento ferroviario ad alta velocità della Val di Susa, una delle valli più estese ed importanti del Piemonte che collega Torino e la opere, la stessa partecipazione è diventata talvolta una ritualità e una formalità, svuotandola così di fatto della valenza iniziale (Pascolini, 2011).
10 Si può fare riferimento sia alla scala della partecipazione di Arnestein (Rocca, 2010, p. 26) o nella rielaborazione successiva del WHO (Rocca, 2010, p. 28) o ancora quella proposta dall’International Association for Public Partecipation (www.iap2.org) (Pascolini, 2011, p.187).
11 Il rischio è quello di rincorrere da un lato irraggiungibili universalità e dall’altro di creare gruppi ristretti, chiusi e scarsamente rappresentativi della complessità.
12 Si pensi in particolare ai defatiganti ed inutili dibattiti sulla caccia che vede contrapposti in maniera preconcetta cacciatori ed animalisti.
13 In particolare quelle che si riferiscono alla costruzione delle infrastrutture di collegamento stradale e ferroviario, ma pure quelle energetiche quali gli elettrodotti. Nello specifico caso si
Mauro Pascolini
Pianura Padana con Lione e la valle del Rodano, ha dato vita ad un movimento di base, contrario alla realizzazione dell’opera, noto come No TAV, che è diventato icona dell’opposizione alle grandi opere e al tempo stesso della problematicità della partecipazione dei cittadini alle scelte territoriali. Il movimento nato spontaneamente ha dato vita ad una opposizione, che poteremmo definire a diversi livelli d’intensità, coinvolgendo sia le popolazioni locali che attivisti esterni e arrivando da ultimo ad azioni di opposizione violenta. Le manifestazioni attuate in particolare a partire dal 2005, hanno posto all’attenzione pubblica nazionale ed internazionale la questione del ruolo dei cittadini e delle amministrazioni locali nei confronti di progetti deliberati in altre sedi. È questo il tipico caso che rende ineludibili la domanda di chi è il territorio?: dell’Unione Europea?, degli Stati nazionali?, delle Regioni?, dei Comuni? o delle popolazioni locali?
In sintesi, questo nuovo modo di partecipare attivamente alla politica manifesta significativi vantaggi che si possono riassumere: a) accrescimento della cultura civica; b) produzione di decisioni più razionali; c) maggiore legittimità delle decisioni; d) aumento delle probabilità di successo; e) gestione costruttiva dei conflitti. (Lewanski, 2007).
4. un caso esempLare: doLomiti unesco
Risulta utile, per concludere queste brevi riflessioni, cercare di dare una risposta proponendo, in forma sintetica, un interessante caso di studio come quello del riconoscimento delle Dolomiti come Patrimonio dell’Umanità e delle implicanze che tale riconoscimento ha in termini di patrimonializzazione, valori, strategie e modelli di governance. Ma per chiarire meglio l’angolo di visuale può essere utile riportare un breve passo della relazione che Marco Onida, nel suo ruolo di segretario generale della Convenzione delle Alpi, ha fatto in un recente convegno multidisciplinare che aveva il significativo titolo Di chi sono le Alpi? e come sottotitolo Appartenenze politiche, economiche e culturali nel mondo alpino contemporaneo14, dove si esplicita con chiarezza che: la questione che si intende affrontare […] è quella della governance delle Alpi: come fare per assicurare una buona gestione del territorio che faccia coesistere tutela dell’ambiente con economia, esigenze della popolazione residente con tratta delle Reti di trasporto trans-europee e dei Corridoi paneuropei, nell’ambito del Progetto Prioritario 6 (l’asse ferroviario Lione – Trieste – Divača/Koper – Divača – Lubiana – Budapest –confine ucraino).
14 Il convegno organizzato da Rete Montagna è un ottimo esempio di lettura multidimensionale del territorio e di come la tematica della patrimonializzazione sia diventata centrale nell’affrontare gli aspetti della governance territoriale (Varotto, Castiglioni, 2012).
Di chi è il territorio? Per una geografia partecipativa 181
aspettative del settore turistico, accessibilità e mobilità con la conservazione della multiforme cultura alpina, produzione energetica con tutela degli ecosistemi e del paesaggio. E non solo dal punto di vista ambientale, ma anche dell’equità economica e sociale, specialmente in relazione al tema irrisolto dell’uso delle risorse “alpine” (acqua, legname, territorio) del quale la popolazione che vive nelle Alpi oggi non necessariamente trae il giusto beneficio, anzi il più delle volte ne paga solo il costo in termini di danni al territorio. È in questa accezione che possiamo parlare di “appartenenza” delle Alpi. […] Alla domanda “di chi sono le Alpi?” andrebbe risposto “cosa possiamo fare per rendere più efficace e più equo il governo delle Alpi?” (Onida, 2012, pp. 21-22).
Questa introduzione risulta utile per inquadrare nella giusta prospettiva il fatto che le popolazioni dolomitiche si sono trovate proiettate da una gestione locale del loro territorio ad una per conto dell’intera umanità da quando, nel giugno del 2009 le Dolomiti sono entrate a far parte, come bene naturale, del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’Unesco, in base ai criteri VII e VIII15 della Convenzione. Si tratta di un bene seriale che comprende nove siti territorialmente non contigui, ricadenti amministrativamente sotto cinque provincie e due regioni16, e diversificati tra loro per estensione e per alcune specifiche caratteristiche. I nove siti17 presentano inoltre, dal punto di vista del turismo, un grado di sviluppo molto diversificato tra essi: da aree famosissime, quali le Tre Cime di Lavaredo, la Marmolada, le Tofane, per citarne alcune, ad aree meno conosciute quali le Dolomiti Friulane caratterizzate da una forte rinaturalizzazione e da situazioni di marginalità ed abbandono.
Un bene così complesso ed articolato ha reso necessaria l’elaborazione di una strategia di governance innovativa e basata sulla collaborazione e condivisione delle conoscenze, delle informazioni e delle politiche attraverso una struttura ‘a rete’ tra le diverse amministrazioni pubbliche presenti sul territorio. Il Piano di
15 La Convenzione del Patrimonio Mondiale dell’Umanità è stata adottata dall’Unesco nel 1972 e definisce non solo le modalità d’iscrizione alla Lista ma pure i criteri di riconoscimento che sono stati definiti in dieci tipologie. I criteri sulla base dei quali sono state riconosciute le Dolomiti sono quelli di “presentare fenomeni naturali eccezionali o aree di eccezionale bellezza naturale o importanza estetica “(VII) e di “costituire una testimonianza straordinaria dei principali periodi dell’evoluzione della terra, comprese testimonianze di vita, di processi geologici in atto nello sviluppo delle caratteristiche fisiche della superficie terrestre o di caratteristiche geomorfiche o fisiografiche significative”(VIII).
16 Le provincie sono quelle dotate di autonomia speciale di Trento e Bolzano e quelle ordinarie di Belluno, Pordenone e Udine. Le due regioni sono quelle del Veneto a statuto ordinario e quella a statuto speciale del Friuli Venezia Giulia.
17 Per approfondimenti si rimanda alla vastissima bibliografia multidisciplinare prodotta sulle Dolomiti e sulle Alpi in generale e ai materiali illustrativi editi o presenti nei diversi siti istituzionali, nonché al dossier di candidatura (Gianolla P. et al., 2008).
Mauro Pascolini
gestione ha come finalità primaria la conservazione dell’integrità del Patrimonio in relazione all’eccezionalità paesaggistica, alla qualità dell’ambiente e alle condizioni naturali; a questa si aggiungono altri obiettivi di natura più generale, collegati al coinvolgimento e alla partecipazione delle popolazioni locali e degli abitanti delle vallate alpine in una prospettiva di sviluppo economico sostenibile18 . Il riconoscimento Unesco ha dato origine ad un interessante dibattito che coinvolge l’intero territorio dolomitico al di là dei ristretti limiti che circoscrivono le aree del bene. Tema centrale è quello del governo e del modello di sviluppo territoriale allargato a tutte le comunità dolomitiche e, data la notorietà del bene, anche ai portatori d’interesse esterni. Da qui la necessità di una profonda riflessione sul ruolo degli attori, dei decisori degli stakeholder, dei pubblici di riferimento e sull’articolazione dei processi decisionali.
In particolare va compreso il contributo che le nuove forme di democrazia diretta, partecipata o deliberativa, possono dare per mettere in essere le buone pratiche per una efficace gestione del territorio. La sfida è quella di costruire nuove progettualità attraverso i percorsi partecipativi e deliberativi nei quali le comunità possono esprimere quella intelligenza e peculiarità che per lunghissimo tempo hanno permesso loro di operare con saggio equilibrio tra risorse naturali ed umane, nella direzione di una semplice necessità del “buon governare”, nella consapevolezza dell’importanza delle sfide future.
E allora, in conclusione, è lecito porsi l’interrogativo: non solo di chi sono le Alpi o le Dolomiti, ma di chi è il territorio? Al nostro quesito di partenza le molte risposte possibili possono aprire diversi e talvolta contrapposti percorsi di governance se il territorio è delle comunità locali, o dei turisti, o degli imprenditori, o dei pianificatori…, o ancora dell’Umanità?
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18 Va qui sottolineato che sia le aree cuore che le aree tampone lambiscono i centri abitati e quindi di fatto non includono direttamente le comunità locali che invece rivendicano, pur essendo esterne ai confini del bene, un ruolo attivo nella gestione e nelle politiche di sviluppo in quanto comunque da sempre utilizzatrici del bene.
Di chi è il territorio? Per una geografia partecipativa 183
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Povertà ed esclusione sociale: una ipotesi di lettura spaziale
Andrea Guaran*
… non ci può essere pace sulla terra finché ci sarà un solo povero umiliato e offeso nel mondo. (David Maria Turoldo)
1. introduzione
La crisi economica e sociale che a partire dal 2008 sta interessando svariate regioni del mondo, e in particolare il continente europeo, pone in maggior evidenza il fenomeno della cosiddetta povertà, innescando inevitabilmente anche processi di temporanea o permanente esclusione sociale. L’anno 2011 ha visto nell’ambito dell’Unione Europea il coinvolgimento nella spirale del rischio povertà1 di quasi centoventi milioni di persone, corrispondenti all’incirca al 24% della popolazione complessiva, dato d’insieme che nascondeva da un lato situa-
Università degli Studi di Udine.
1 Si precisa che la valutazione del rischio povertà e dell’esclusione sociale deriva dalla considerazione di tre criteri: uno relativo alla soglia di reddito familiare, interessando il 17% della popolazione di EU27, un secondo che contempla le deprivazioni materiali che coinvolgono il 9% della popolazione comunitaria e l’ultimo, concernente invece l’intensità occupazionale, che riguarda il 10% degli abitanti della Comunità europea. Si confronti Eurostat, Newsrelease, 3 dicembre 2012.
Andrea Guaran
zioni molto gravi (Bulgaria e Romania) e dall’altro Paesi con una percentuale di rischio tutto sommato abbastanza contenuta: Repubblica Ceca, Paesi Bassi e Svezia (Eurostat, 2012).
In ragione di tutto ciò appare significativo prendere in considerazione il fenomeno della povertà, circoscrivendolo nei quadranti maggiormente fortunati del pianeta. Nel contesto di questo lavoro si è deciso, infatti, di operare una scelta chiara: si prenderanno in esame le dinamiche, le manifestazioni e le «traiettorie di impoverimento» (Benassi, 2005, p. 9) all’interno delle società sommariamente definite ricche, riservando una particolare attenzione alle forme alimentari e materiali del fenomeno del depauperamento.
Cercando di fornire una chiave interpretativa delle ragioni e dei meccanismi della crisi, si può ricorrere alla precisazione fornita da Luigi Campiglio, in apertura alla presentazione dei risultati della prima indagine sul territorio italiano riguardante la situazione della povertà alimentare. Questi, infatti, puntualizzava che: «Lo squilibrio attuale è quello di un eccesso generalizzato di offerta nel mercato dei beni e dei fattori produttivi, cioè un ristagno della domanda accompagnata da un aumento della disoccupazione e un rallentamento o una riduzione nella crescita dei redditi delle famiglie» (Campiglio, 2009, p. 36), convogliando l’attenzione sulle motivazioni prevalentemente di natura economica, data la forbice crescente tra offerta e domanda, e identificando nella disoccupazione il fattore causale preminente.
Cinque anni di crisi, senza ancora una prospettiva certa di risoluzione all’orizzonte, hanno accresciuto le sconfortanti esperienze di precarietà sul piano occupazionale e a cascata hanno determinato numerose forme di provvisorietà abitativa, di incertezza alimentare e giocoforza anche di problematicità affettiva e relazionale. Si sta effettivamente verificando il paradosso del radicamento in contesti sociali in genere caratterizzati dall’abbondanza, quali quelli delle società “opulente” dell’Occidente dell’Europa, di molteplici forme di scarsità (Campiglio e Rovati, 2009).
Vale la pena rimarcare, inoltre, come i volti della povertà che in questi anni dipingono una condizione di benestare in parte incrinata nelle società del mondo ricco, ingrossando le fasce degli indigenti e dei socialmente esclusi, siano non affatto paragonabili alla disastrosa situazione in cui versano centinaia di milioni di persone nelle regioni del Sud del pianeta, vivendo la condizione definita di povertà estrema. La consapevolezza di una indispensabile distinzione tra i due fenomeni, per quanto per certi versi gli effetti sulle condizioni delle esistenze personali possano risultare a volte e in alcune circostanze anche abbastanza simili, deve emergere con evidenza, pena il rischio di una lettura superficiale e fuorviante dei complessi meccanismi che determinano i disequilibri e le iniquità che a differenti scale geografiche contraddistinguono le relazioni internazionali2 .
2 Al riguardo si confronti il paragrafo 2 del contributo in questo volume di Tiziana Banini.
Povertà ed esclusione sociale: una ipotesi di lettura spaziale 187
Una volta definito che all’interno del contributo si privilegerà l’analisi del fenomeno delle povertà nel cosiddetto mondo ricco, si opta per approfondire, all’interno di un quadro continentale e soprattutto italiano, un caso di studio localmente situato nella regione Friuli Venezia Giulia, in un ambito territoriale che riunisce sette comuni della provincia di Pordenone3 . Un’ultima considerazione di natura preliminare concerne l’approccio dell’analisi. La cornice disciplinare di riferimento è quella geografica, nello specifico geografico-sociale, per quanto si ritiene che un tema come quello della povertà comporti chiavi di lettura e di interpretazione dovutamente trasversali, superando i pregiudizievoli e svantaggiosi diaframmi disciplinari. Tuttavia, il tentativo che si cercherà di proporre, sarà quello che prospetta e sperimenta modelli e valutazioni interpretative del fenomeno della povertà costruiti per quanto possibile sulla variabile dello spazio, categoria nodale anche nello sforzo di definire linee di intervento per contrastarlo il più efficacemente possibile.
2. povertà ed escLusione sociaLe: nodi concettuaLi
Il sociologo anglosassone Peter Townsend, negli anni ’70 del secolo scorso, si poneva alcuni fondamentali quesiti ai quali dovrebbe cercare di trovare adeguate risposte chiunque oggi si ponga nelle condizioni di prendere in esame le preoccupanti forme di deprivazione e di disagio sociale, che possono essere espresse ricorrendo al multidimensionale e multiscalare concetto di povertà. Si domandava, infatti, quali fossero i bisogni da considerare essenziali e chi potesse definirli. E una volta precisati, si poneva ulteriori quesiti in relazione a come e ricorrendo a quali beni tali bisogni potessero essere soddisfatti, ammonendo sul carattere eccessivamente circoscritto e limitato del concetto di povertà assoluta, in quanto riconducibile unicamente alla disponibilità di beni alimentari di base e all’accesso ai servizi considerati indispensabili, non inquadrando e valutando adeguatamente il fenomeno della povertà in un più articolato e complesso contesto ambientale di riferimento (Townsend, 1979).
Inoltre, ai precedenti interrogativi possono essere affiancate altre questioni: «Si è poveri di reddito e ricchezza o delle cose che il reddito e la ricchezza ci consentono di fare? Poveri rispetto ai soli aspetti materiali o anche alle possibilità di
3 La scelta del contesto territoriale, posto a sud-est del capoluogo provinciale di Pordenone, si giustifica con il coinvolgimento dell’autore di questo breve saggio nel quadro di un progetto di definizione delle politiche di contrasto alla povertà alimentare, dal nome “La centrale dai e prendi. La solidarietà non scade anzi si alimenta!”, a cura dell’Ambito distrettuale Sud 6.3 Azzano Decimo (Pn), usufruendo di un cofinanziamento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, all’interno del Programma nazionale per il 2010, Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale.
Andrea Guaran
scegliere e realizzare i propri obiettivi? Poveri, infine, se non si ha potere oppure se non si è adeguatamente rappresentati?» (Istat, 2009, p. 13). Quindi, in relazione alla natura e ai possibili significati della povertà ci si può anche chiedere se essa debba essere giudicata «in termini di basso reddito (una carenza di risorse) oppure in termini di insufficiente libertà di condurre esistenze adeguate (una carenza di capacità)» (Sen, 2007, p. 31). La ricerca delle possibili e più idonee risposte a questi rilevanti interrogativi apre la discussione intorno alla complessa materia riguardante in prima istanza l’individuazione del fenomeno della povertà, a seguire l’elaborazione dei principi utili alla sua misurazione e la indispensabile operazione di messa a punto delle tecniche più idonee per procedere effettivamente a tale valutazione quanti-qualitativa.
In definitiva, si dimostra non agevole esprimere una valutazione di natura quantitativa – Quanti sono i poveri? – e nemmeno di tipo qualitativo – Quali sono i poveri? –. Da un lato si deve procedere alla elaborazione del cosiddetto “paniere della povertà assoluta”4 e conseguentemente al processo di identificazione delle soglie di povertà, al di sotto delle quali una persona o una famiglia sono considerate povere, dall’altro ci sono i tentativi di predisposizione di svariati indici di deprivazione, ai fini della ricerca della misurazione della povertà relativa5, quindi una modalità di valutazione opportunamente calata nel contesto territoriale di riferimento e costruita ricorrendo alla procedura comparativa (Minerba, 2011), intendendo, pertanto, con l’espressione di povertà relativa «l’incapacità di raggiungere uno standard minimo di vita dato il livello medio di ricchezza del contesto in esame» (Benassi, 2005, p. 16). La deprivazione si presenta, tuttavia, come un concetto a più dimensioni: alimentare e materiale senz’altro, ma anche culturale (connessa al grado di istruzione e ai livelli di scolarizzazione) o legata alle forme di inserimento lavorativo (nel caso il lavoro manchi si fa riferimento ad una forma di deprivazione concernente l’assenza delle cosiddette risorse di ‘potere’) o rapportata alla composizione del nucleo familiare, mettendo
4 La povertà assoluta si basa sulla individuazione di un paniere minimo di beni e servizi, l’accesso ai quali è ritenuto come una condizione indispensabile per garantire «[…] uno standard di vita sufficiente a evitare gravi forme di esclusione sociale […]» (Istat, 2009, p. 15). Questo paniere, che naturalmente è soggetto a doverosi aggiornamenti, necessita di essere quantificato sul piano monetario. Nel 2011 la soglia di povertà assoluta nelle regioni dell’Italia settentrionale era di 984,73 euro, in riferimento ad una famiglia con due componenti adulti.
5 Il concetto di povertà relativa statisticamente fa riferimento alle condizioni «di svantaggio di alcuni soggetti (famiglie o individui) rispetto agli altri» (Istat, 2009, p. 13), offrendo una lettura distributiva delle situazioni di disparità e disuguaglianza in relazione alla disponibilità delle risorse, avendo in genere come riferimento il reddito medio delle famiglie presenti nella comunità di appartenenza (Istat, 2010). «Una famiglia viene definita povera in termini relativi se la sua spesa per consumi è pari o al di sotto della linea di povertà relativa» (Istat, 2013) che viene calcolata sui dati dell’indagine sui consumi delle famiglie. Per una famiglia di due componenti nel 2011 tale spesa ammontava ad un valore di 1.011,03 euro mensili.
Povertà ed esclusione sociale: una ipotesi di lettura spaziale
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magari in luce situazioni di mancanza di adeguate forme di sostegno sociale, per non parlare degli aspetti di natura psico-relazionale e di quelli riconducibili allo stato di salute. La ferma convinzione della natura multidimensionale dei fenomeni di deprivazione ha condotto recentemente le Nazioni Unite, nell’ambito del suo ufficio per lo sviluppo, ad elaborare l’Indice multidimensionale di povertà (Multidimensional Poverty Index) contemperando insieme ben dieci indicatori, aggregati in tre macro-ambiti: salute, educazione e standard di vita.
Tuttavia, è necessario procedere ad una attenta considerazione del contesto, fattore in assenza del quale si dimostra più difficile cercare di assegnare una misura alla povertà, valutando che la questione della inadeguatezza delle risorse indispensabili a garantire la conduzione di una vita dignitosa non può non essere posta in connessione con le caratteristiche complessive del quadro sociale, economico e culturale, in definitiva del contesto territoriale in cui una persona risiede e opera6. In effetti, nella società contemporanea «può diventare un ‘nuovo povero’ chi ha in casa un malato cronico da curare; chi perde il lavoro a cinquant’anni per un’improvvisa crisi aziendale; chi, senza una pensione adeguata, si ritrova anziano senza parenti che lo sostengano; chi si trova ad affrontare separazioni matrimoniali e non riesce a mantenersi da solo» (Vittadini, 2009, p. 10), prospettando in definitiva una visione assai variegata e mutevole degli stati di deprivazione e di povertà.
Accanto all’individuazione e allo studio delle situazioni di povertà, facendo ricorso agli indici di povertà assoluta o di povertà relativa, e alla loro comparazione riferendosi a contesti regionali o nazionali differenti (Accolla e Rovati, 2009; European Union, 2010), è opportuno, per evitare i rischi connessi ad una lettura eccessivamente statica, prendere in esame anche la variabile rappresentata dal tempo per definire la durata dei processi, individuali e familiari, di impoverimento. Il parametro temporale, tuttavia, non deve rivestire unicamente una valenza in termini di analisi diacronica del fenomeno della povertà in un determinato contesto territoriale, mettendo a confronto i dati sull’incidenza relativamente a due diversi momenti di rilevazione. La chiave temporale risulta estremamente utile, invece, per cogliere realmente i percorsi di vita delle persone e delle famiglie, tenendo ben presente che soprattutto nei contesti delle società ricche non esiste un limite netto tra poveri e non poveri, «ma un’infinità di condizioni dai confini sempre più labili», considerando che «le stesse persone [soggette ad un rischio di povertà alto] nel corso della loro vita attraversano condizioni di vita molto differenti» (Siza, 2009, p. 9).
Una ultima precisazione concerne il convincimento abbastanza diffuso in merito alla sovrapponibilità del fenomeno della povertà con quello dell’esclusione
6 L’elaborazione ad esempio dell’indicatore del reddito equivalente ne è una riprova, nel tentativo di parificare, sul piano regionale o nazionale, il potere d’acquisto delle famiglie. Le scale di equivalenza rappresentano un aspetto metodologico di importanza rilevante per cercare di rendere comparabili i redditi delle famiglie (Pesole e Raitano, 2012).
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sociale. Pur con la consapevolezza che le forme di povertà intensa e persistente7 possano più agevolmente sfociare in uno stato di esclusione sociale8, le due posizioni fotografano realtà comunque differenti, valutando altresì che molto spesso le persone e soprattutto i gruppi familiari colpiti da fasi di impoverimento, soprattutto se di natura transitoria, non risultano investiti anche da una condizione di esclusione sociale, perlomeno non grave e irreversibile nel caso essa sussista.
3. anaLisi spaziaLe deL fenomeno deLLa povertà
Procedere all’analisi del fenomeno della povertà, indipendentemente dall’angolo visuale dell’approccio e dalle finalità individuate, comporta necessariamente il coinvolgimento della dimensione spaziale. Banalmente i dati sulla dimensione quantitativa del fenomeno comportano una loro contestualizzazione territoriale, alla quale è possibile eventualmente far seguire una analisi comparativa. I repertori statistici che affrontano, dal punto di vista numerico, la questione povertà, presa in esame nel suo profilo assoluto – nell’Europa comunitaria quasi 120.000.000 di persone a rischio povertà censite nel 2011, proponendo un esempio – o nel suo significato relativo – definendo l’incidenza percentuale degli individui a rischio sulla popolazione complessiva di ciascun Paese o sul totale degli indigenti valutati a scala comunitaria –, forniscono dati che sono comunque opportunamente riferiti a contesti geograficamente delimitati. Ne è una riprova illuminante, in ambito comunitario, l’attività di elaborazione statistica e di ricerca condotta mediante il progetto EU-SILC, Statistics on Income and Living Conditions (Istat, 2008; Atkinson & Marlier, 2010) 9 .
Inoltre, la multiscalarità geografica rappresenta una importante chiave interpretativa del fenomeno, proponendone una decifrazione arricchita dal contributo offerto dal fattore della scala territoriale. Questa, infatti, garantisce da un
7 Interessante, relativamente al fattore tempo e quindi volendo considerare l’aspetto dinamico della povertà, è la differenziazione che Remo Siza propone, distinguendo tra forme di povertà persistente, «caratterizzate da un periodo continuato di permanenza in una condizione di povertà di almeno tre anni», ricorrente, se i «periodi ripetuti di povertà [sono] separati da almeno un anno di non povertà» e infine temporanea, quando lo stato di povertà è continuativo ma non supera l’arco temporale del biennio (Siza, 2009, pp. 21-22).
8 Con l’espressione esclusione sociale si fa riferimento ad «un processo multidimensionale e stratificato di progressiva rottura sociale che causa il distacco di gruppi e individui dalle relazioni sociali e dalle istituzioni, impedendo la loro piena partecipazione alle comuni attività della società in cui vivono» (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, 2012, p. 3).
9 Si tratta di un importante strumento che, a partire dal 2004, fornisce una fondamentale base conoscitiva per poter analizzare lo stato economico e sociale dell’Unione europea e dei singoli suoi paesi membri.
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lato la valorizzazione nel processo di indagine delle categorie che possono essere definite relative e dall’altro comporta un approccio diagnostico ancorato alle dinamiche strutturali dei territori interessati, attenuando il rischio di valutazioni eccessivamente generali, non in grado di leggere adeguatamente le specificità espresse dai differenti territori.
Anche l’impegno analitico costruito sulla ricerca qualitativa non può prescindere dalla dimensione spaziale, che contorna e precisa i ruoli, le funzioni e le azioni messe in campo dai diversi attori coinvolti dai fenomeni della povertà e dell’esclusione sociale: i soggetti individuati come indigenti su un fronte, ma anche sull’altro gli enti di ricerca, le associazioni di volontariato, le istituzioni pubbliche e, in alcuni contesti, pure il mondo dell’imprenditoria privata sensibile ai temi della solidarietà (Rimoldi e Blangiardo, 2009).
Il caso di studio, che qui di seguito sarà oggetto di sintetica illustrazione, vorrebbe rappresentare la riprova dell’importanza del fattore costituito dalla scala territoriale di analisi e del ruolo fondamentale che può rivestire la componente dello spazio nell’opera di puntuale identificazione del fenomeno della povertà e nella predisposizione delle più idonee misure di contrasto.
4. La povertà aLimentare e materiaLe neLL’amBito distrettuaLe di azzano decimo (pn). un modeLLo di Lettura spaziaLe
La logica del povero non è la povertà è la condivisione, la comunione che moltiplica i beni e fa sì che nella indigenza e nel servizio di ciascuno verso gli altri tutti siano liberi. (Raniero La Valle)
Il progetto “La centrale dai e prendi. La solidarietà non scade anzi si alimenta!”, già delineato sinteticamente nella nota 2, si propone come obiettivo di: «Contenere e ridurre il numero di singoli e/o nuclei residenti presso l’Ambito Distrettuale Sud 6.3 in stato di povertà alimentare, attraverso specifici interventi e/o misure – non meramente assistenziali e incardinate in un continuum d’azioni tese all’inclusione sociale tout court – tesi a promuovere l’empowerment del soggetto in stato di povertà ed emarginazione e lo sviluppo di una comunità solidale ed inclusiva» (Ambito distrettuale Sud 6.3 – Azzano Decimo, 2010). In questa sede si desidera prendere in esame proprio gli aspetti riguardanti le forme della costruzione, più precisamente del consolidamento, di una comunità solidale, e offrire alcuni elementi di riflessione sulle caratteristiche e sulle dinamiche spazio-territoriali connesse a questo non affatto elementare e lineare processo di definizione e co-costruzione di nuove identità sociali.
Andrea Guaran
Per prima cosa si ritiene indispensabile fornire alcuni utili elementi, irrinunciabili per comprendere il quadro territoriale di riferimento. L’Ambito distrettuale esercita la sua competenza su sette territori comunali, interessando una popolazione complessiva superiore alle 61.000 unità nel 2011 e che ha visto nell’ultimo quinquennio un trend in crescita (variazione media del 6%) decisamente superiore all’andamento regionale, aumento determinato in prevalenza dall’incremento della fascia dei minori, in aggiunta a quello rappresentato dagli anziani oramai caratterizzante per le società dell’Italia settentrionale, un aumento ascrivibile nel territorio di studio alla positività di entrambi i saldi demografici, soprattutto di quello migratorio. I neonati da famiglie straniere forniscono sicuramente un contributo significativo alla definizione dei saldi naturali positivi, con un valore quasi del 30% nel corso dell’anno 2010, a fronte di un dato medio della regione Friuli Venezia Giulia attestato intorno al 17%, mantenendo ad un livello ancora contenuto l’indice di vecchiaia (115%), più di settanta punti percentuali al di sotto di quello medio regionale.
La presenza straniera sembra assumere un ruolo di rilievo nella definizione del profilo demografico della popolazione dell’Ambito, contribuendo per oltre il 13%, cinque punti al di sopra del valore medio relativo all’intero territorio regionale, raggiungendo soglie molto elevate in ben tre dei sette territori comunali, con punte decisamente significative, superiori al 20%. La composizione della componente non italiana risulta assai articolata: ad affiancare al vertice della classifica le due tradizionali comunità europee dei romeni e degli albanesi è presente una nutrita rappresentanza indiana e parecchi sono i cittadini provenienti dal Ghana, a cui fanno seguito, in termini di mera consistenza numerica, marocchini, macedoni, ucraini e varie altre comunità, anche se numericamente abbastanza contenute (Caritas Diocesana, 2010; Osservatorio provinciale sulle politiche sociali della Provincia di Pordenone, 2012).
Una discreta vivacità demografica, come dai dati proposti si comprende, presupporrebbe un altrettanto vivace quadro economico locale. In effetti, i sette comuni sono parte integrante del Nord-Est italiano e presentano un articolato tessuto di imprese industriali e artigianali, legate ai comparti metalmeccanico e in particolare del mobile, affiancato da un significativo settore di servizi alle imprese e di strutture commerciali. Tuttavia, la crisi dell’ultimo quinquennio ha incrinato, in alcuni comparti in maniera consistente, anche la presunta solidità del mondo economico di quest’ambito territoriale, andando ad accrescere sul terreno quantitativo e sul piano dell’intensità il fenomeno della disoccupazione e della sottoccupazione, condizioni che possono prefigurare per alcune categorie sociali un reale rischio di impoverimento e una ipotetica seria minaccia di esclusione sociale. Si consideri che le cessazioni dei rapporti di lavoro sono risultate, in un paio delle annate più recenti, di quasi tre volte superiori al livello medio regionale, con punte rilevanti soprattutto nei comuni che rientrano nell’area distrettuale del mobile.
In questa fase di crisi generalizzata e nel contesto socio-economico locale qui presentato si inseriscono le scelte dei servizi sociali. Quelli di natura pubblica con-
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cretizzano i loro interventi in particolare con misure di sostegno al reddito dei nuclei familiari e con azioni di pronto intervento dinanzi alla casistica più grave. I soggetti privati, invece, affiancano alle operazioni in risposta ai casi di maggior emergenza, anche azioni di sensibilizzazione sul terreno più propriamente culturale. L’azione progettuale dell’Ambito distrettuale, che ha la pretesa di mettere insieme i diversi soggetti presenti sul territorio, pubblici e privati, vuole rappresentare una attività strutturata su diversi assi di intervento, tra i quali uno specificatamente dedicato alla ricerca10, con lo scopo di porre per quanto possibile a sistema i contributi di tutti gli attori al fine di essere in grado di prospettare soluzioni ragionevoli e significativamente efficaci alla grave situazione economica e sociale maturatasi. Il primo obiettivo della ricerca ha riguardato l’analisi degli attori che sul territorio dei sette comuni erano già da tempo attivi o avevano manifestato l’intenzione di rendersi operosi in riferimento alla elaborazione e alla realizzazione di misure sperimentali in tema di contrasto alla povertà, specificatamente di natura alimentare e materiale. Tra gli attori rientrano gli enti pubblici (le amministrazioni dei comuni che costituiscono l’Ambito distrettuale, il servizio sociale dei comuni e la Provincia di Pordenone), i soggetti del privato for profit (istituti bancari, aziende di produzione di alimenti e cooperative di consumo) e quelli non profit (associazioni di volontariato, di promozione sociale, generiche o di categoria, enti ecclesiastici, parrocchie e centri Caritas, cooperative sociali e un gruppo informale costituito dalle rete dei gruppi di acquisto solidale). La somministrazione di una articolata scheda di rilevazione, composta da tre sezioni, ha reso possibile la raccolta di informazioni e dati riguardanti le attività messe in campo da ciascun soggetto allo scopo di fronteggiare il fenomeno della povertà alimentare e materiale e le diverse forme di esclusione sociale, in genere correlate ad esso. Una prima sezione riguardava il profilo dell’organizzazione, identificandone la forma giuridica, la scala territoriale degli interventi e le principali forme di finanziamento a copertura e sostegno delle rispettive attività; una seconda serie di domande è risultata efficace per indagare le azioni che ciascuna organizzazione conduce per ostacolare il crescente fenomeno della povertà, analizzandone le caratteristiche principali, le modalità organizzative, i destinatari, le fonti e l’ammontare delle risorse finanziarie utilizzate; infine, l’individuazione delle relazioni e delle collaborazioni che ciascun soggetto instaura e mantiene con altri attori intorno all’obiettivo comune di fronteggiare l’indigenza costituivano l’interesse dell’ultima parte.
10 L’attività di studio, ancora in corso, denominata Ricerca, povertà ed esclusione sociale (RI.PES), è stata affidata ad un gruppo di lavoro costituito dal Servizio Sociale dei Comuni dell’Ambito distrettuale 6.3, dall’Osservatorio provinciale delle Politiche sociali della Provincia di Pordenone e dal Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Udine. Si precisa che alcuni passaggi di seguito presentati sono frutto di una rielaborazione della prima bozza del rapporto di ricerca redatto in collaborazione con Eliano Fregonese, incaricato di seguire il progetto per conto dell’Osservatorio provinciale delle Politiche sociali della Provincia di Pordenone.
Andrea Guaran
Nonostante non sia affatto semplice venire a conoscenza del numero preciso delle persone che accedono ai servizi erogati dalle strutture sottoposte ad indagine, sia perché si tratta di dati sensibili, sia in ragione della mancanza di una radicata cultura della registrazione puntuale e della costante azione di monitoraggio e di aggiornamento, tuttavia il loro ammontare può essere stimato, nonostante con un margine di approssimazione, intorno al 2% delle famiglie del territorio dell’ambito distrettuale. Dal momento che la misura della povertà assoluta nelle regioni italiane nord-orientali nel 2011 era calcolata su un valore del 3,8% (5,0% quella relativa), si può rilevare che nell’area dei sette comuni presa in esame all’incirca la metà di coloro che sono considerati in condizioni di povertà assoluta11 oltrepassa la soglia psicologica, che funge sicuramente da freno, e si rivolge ai centri di distribuzione gratuita di beni alimentari e materiali o di erogazione di denaro. Tra gli scopi prioritari della ricerca è presente anche il tentativo di far emergere i sistemi reticolari esistenti tra i soggetti che avevano aderito al progetto e tra questi ed altre realtà che con loro collaborano, cercando di mappare non tanto la distribuzione territoriale di ciascuna entità ma il complesso mosaico dei sistemi a rete di cui ogni soggetto rappresenta un nodo vitale e propulsore, individuandone anche il grado di intensità delle relazioni innescate. Un esempio in tal senso è risultata la decisione di investigare se anche sul territorio dei sette comuni che compongono l’Ambito si riscontrasse una fattiva collaborazione tra soggetti profit e non profit, così come si era evidenziato a scala nazionale in occasione della recente prima indagine sulla povertà alimentare. In quella occasione, infatti, era emerso che «L’elemento diretto più evidente attiene ovviamente alla relazione orizzontale, che connette le imprese della filiera agroalimentare e i soggetti di non profit diffusi a livello territoriale e attivi nell’ambito degli interventi caritatevoli di contrasto alla povertà. Si viene in sostanza a determinare un’inedita alleanza tra soggetti profit e non profit, […]» (Pesenti, 2009, p. 97). La conoscenza degli attori che in modo continuativo sul territorio si confrontano sui temi della povertà, cercando con differenti modalità di porvi rimedio, costituisce un risultato di rilievo; tuttavia, si evidenzia la necessità di rafforzare i legami identificati come tenui, instabili e inefficaci per giungere a più solidi sistemi a rete, affrontando l’importante sfida che risiede proprio nella volontà e nella capacità di consolidare le relazioni esistenti e di tesserne delle nuove, affinché l’azione di contrasto al fenomeno in ascesa e sempre più sfaccettato della povertà possa risultare concretamente più efficace e risolutiva.
Possono qui essere ricordati alcuni degli esiti emersi dall’indagine, da assumere come elementi e spunti di riflessione nel quadro di una valutazione che desidera contraddistinguersi per il rilievo assegnato alle categorie dell’analisi spaziale del
11 Si ricorda che si tratta del valore monetario del paniere, calcolato sommando i valori monetari di tutti i beni e i servizi che compongono il paniere medesimo, opportunamente rapportati alle diverse tipologie familiari codificate.
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fenomeno della povertà e soprattutto delle azioni per contrastarla. Per prima cosa è risultato con una certa evidenza il carattere localistico della maggioranza degli attori indagati, sia in termini di ubicazione della sede centrale e delle eventuali sedi periferiche operative, che della sfera di azione di ciascuno, in alcuni casi solamente a scala comunale o subcomunale (borgo o frazione), risultando poco significativa l’iniziativa su scala di ambito distrettuale. Si valuta, invece, assai positivamente l’opportunità di rafforzare l’integrazione e le sinergie a livello di distretto, ad esempio attraverso una specializzazione delle attività messe in campo, finalizzata in particolare alla promozione di risposte più puntuali ed efficaci. Inoltre, è auspicabile la presenza effettiva e attiva di organizzazioni che si collocano su comuni esterni al territorio considerato in quanto potrebbe fornire un contributo determinante, suggerendo le proprie buone prassi nonché permettendo ai soggetti locali di agganciarsi a reti più lunghe, ampie e con ogni probabilità più incisive. Un altro aspetto estremamente interessante, sul quale già ci si è soffermati, concerne la trama delle reti di azione, nel campo in particolare degli interventi di sostegno sociale e di solidarietà, ma anche per quanto riguarda le attività di natura educativa e informativa, legate a funzioni di sensibilizzazione e di orientamento ai servizi esistenti, oltre al sostegno alle capacità individuali per fronteggiare le crisi economiche attraverso azioni di accompagnamento e tutoraggio. Le schematizzazioni grafiche (Figg. 1 e 2) illustrano i legami che pongono in connessione tra di loro le organizzazioni intervistate (Ego) con gli altri soggetti da esse indicati (Alters), disegnando così una rete più ricca e articolata, con casi di
Fig. 1 – Rete organizzativa dei soggetti: visualizzazione dei nodi. Con il triangolo sono indicati gli attori intervistati, con il quadrato più scuro quelli segnalati, con il quadrato più chiaro le entità multiple indicate (Elaborazione dell’Osservatorio provinciale delle Politiche sociali della Provincia di Pordenone).
Fig. 2 – Rete organizzativa dei soggetti: visualizzazione per grado dei nodi. L’intensità del colore grigio e la grandezza del quadrato codificano il grado di connettività del nodo (Elaborazione dell’Osservatorio provinciale delle Politiche sociali della Provincia di Pordenone).
maggiore – la Caritas diocesana in particolare – o minore – ad esempio la Caritas parrocchiale di Prata di Pordenone – centralità dei nodi, quest’ultimi espressi dalle due tipologie di soggetti considerati, e due microreti che enfatizzano in modo emblematico il fenomeno di spiccato localismo già rilevato, nel caso degli ambiti territoriali di Zoppola e di Fiume Veneto (Fig. 1).
I soggetti Ego e Alters, inoltre, possono essere identificati pure per il loro grado di connettività, ovvero per il numero di legami che sono in grado di allacciare e di mantenere in vita; in sostanza su uno stesso nodo incidono normalmente più connessioni relazionali. Dal momento che il legame considerato è di natura bidirezionale, non si distingue tra legami in entrata (quando un soggetto, identificato come nodo, è segnalato da un altro che lo ritiene un importante partner) o in uscita (quando il soggetto nodo ne segnala un altro con il quale intrattiene relazioni). Particolarmente intensa si manifesta, ad esempio, la connessione tra la Caritas diocesana e i cinque Servizi Sociali dei comuni della provincia di Pordenone (Fig. 2).
Dalle informazioni ricavate emergono rapporti, da parte dei soggetti della rete, con parecchie realtà, pubbliche e del terzo settore, non coinvolte dal progetto coordinato dal Servizio Sociale dei comuni dell’Ambito distrettuale, dimostrando un quadro territoriale abbastanza dinamico e che probabilmente deve essere ancora esplorato nelle sue multiformi modalità espressive e nelle sue effettive potenzialità. Il rischio, infatti, è che la scarsa o incompleta conoscenza delle dinamiche della solidarietà che caratterizzano il territorio dell’Ambito possa condizionare l’impegno dell’intera comunità nel fronteggiare il fenomeno della povertà, nelle sue forme più tradizionali e soprattutto in quelle nuove e meno delineate e, come tali, di più difficile riconoscimento.
5. considerazioni concLusive
«Il vero indigente alimentare non è solo quello che non ha il pane: è colui che non riesce a migliorare la propria condizione» (Vittadini, 2009, p. 10). Avendo come costante monito queste parole ed elevando su un piano più generale l’azione di ricerca condotta nel quadro della progettualità di contrasto alla povertà alimentare e materiale realizzata nell’ambito distrettuale preso in esame si sottolinea come sia fondamentale, oltre a garantire il pane a chi non se lo può permettere, anche il conseguimento di un disegno complessivo ben più elevato, anche se forse si tratta solamente di una chimera. Il disegno può distinguersi in due mete, di elevato livello e sicuramente non agevoli da conseguire. Per prima cosa risulta fondamentale tradurre, anche attraverso gli atti formali, la volontà comune di fare squadra, stringendo e arricchendo le maglie delle reti, per dare risposte adeguate ai problemi. Inoltre, appare determinante la convinzione che pure attraverso le forme e i modi, e non solo mediante i meri atti, è possibile favorire un fondamentale processo culturale, contraddistinto dal passaggio dalla cultura della dipendenza, da parte della persona indigente o comunque in grave difficoltà, e dell’azione caritatevole come offerta di una risposta, alla cultura che invece promuove il riscatto individuale e collettivo, mettendo in atto le condizioni affinché i percorsi di affrancamento siano effettivamente ricercati, costruiti e frutto di azioni consapevoli12. Tali condizioni non possono che scaturire da rinnovate politiche di contrasto alla povertà e all’esclusione, frutto di un maggior allineamento tra azione pubblica e attivismo privato, del terzo settore in particolare, avendo ben chiare le problematiche che le società della disuguaglianza e dello spreco pongono.
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12 In questa cornice deve essere interpretato il concetto di attivazione definito da Matteo Villa come il «termine con cui vengono denominate le politiche che mirano a promuovere (e in alcuni casi a vincolare) un’assunzione di responsabilità da parte delle persone nella ricerca di soluzioni autonome e indipendenti sul mercato del lavoro e/o in altri ambiti della vita sociale ed economica, in risposta ai rischi e alle condizioni di povertà ed esclusione» (Villa, 2007, p. 9).
Andrea Guaran
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“Getting Involved”. Il ruolo del volontariato nella gestione
dell’heritage statunitense
Franca Battigelli*
1. introduzione
Il volontariato ha radici profonde nella società americana e ha accompagnato la nazione fin dagli inizi della sua giovane storia1. Ha sostenuto l’avventurosa avanzata pioniera verso l’Ovest, provvedendo ai bisogni essenziali dei nuovi insediamenti; molto di più che un semplice impegno individuale a “fare del bene”, ha coinvolto diversi livelli di una struttura sociale disorganica contribuendo al laborioso processo di costruzione dell’identità nazionale, pur mantenendo, in assenza dello Stato geograficamente ed istituzionalmente lontano, un sostanziale carattere di spontaneità ed informalità, solo in parte inquadrato nella cornice organizzativa offerta dalle diverse Chiese missionarie al seguito della “frontiera mobile”.
Figura di riferimento alle origini del volontariato è Benjamin Franklin. Noto (anche) per le innumerevoli iniziative culturali e sociali realizzate a Filadelfia, fra cui l’istituzione della Public Library, a lui è ascrivibile una delle prime organiz-
* Università degli Studi di Udine.
1 Per la storia del volontariato americano si rimanda ai seguenti lavori: Ellis S. J. and K.H. Noyes, 1990 e Sämi L., 2007, con la bibliografia ivi contenuta.
Franca Battigelli
Fig. 1 – Un ritratto di Benjamin Franklin nella divisa dei pompieri volontari della Union Fire Company (Fonte: www.firehistory.org).
zazioni di volontariato civico istituite in una America che, nel 1736, era ancora colonia inglese: la compagnia di pompieri Union Fire Company, un sodalizio di mutuo soccorso gestito interamente da pompieri volontari –una trentina – che si autofinanziavano e provvedevano in proprio anche ai materiali necessari per gli interventi antincendio2 (Fig. 1). Sull’esempio della Union Company, intorno a quegli stessi anni vennero costituite a Filadelfia altre compagnie antincendio, la cui struttura volontaristica e solidale veniva richiamata in denominazioni quali Hand-in-Hand, Fellowship, Heart-in-Hand 3 . Soprattutto in occasione delle numerose guerre in cui fu coinvolta la nazione tra fine Settecento e Ottocento – la Guerra di indipendenza e quella del 1812 contro la Gran Bretagna, i conflitti con la Spagna e poi con il Messico, fino alla sanguinosa Civil War (1861-65) – il volontariato civico svolse un ruolo fondamentale nelle attività di cura e di assistenza alle truppe ed alla popolazione (nella Guerra Civile su entrambi i fronti in lotta), impegnandosi anche in campagne di raccolta fondi a sostegno dell’impegno bellico (altra cosa è il volontariato militare, che pure fu alla base delle guerre sette-ottocentesche, in particolare nella Guerra di indipendenza ed in quella Civile). Nell’Ottocento videro inoltre la luce diverse associazioni di
2 Come riportato da storici ottocenteschi “Each member agreed to furnish, at his own expenses, six leather buckets and two stout linen bags, each marked with his name and the name of the company, which he was to bring to each fire. The buckets were for carrying water to extinguish the flames, and the bags were to receive and hold property which was in danger, to save it from risk of theft. […] Each member served in turn during a month as a clerk, in which time he notified his associations of the meetings, inspected their buckets and bags, and when they were not in good order reported the fact to the company.” (Scharf J.T. and T. Westcott., History of Philadelphia, 1609-1884, vol. 3, Philadelphia, Everts & Co, 1884, pp. 1884-85. Cfr. anche Isaacson W., Benjamin Franklin, An American life, New York, Simon&Schuster Paperbacks, 2003, pp. 104-5, e www.firehistory.org).
3 Proprio tali modelli precursori contribuirono a creare quel mito dei Vigili del fuoco che è oggi – in particolare dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001 – più che mai sentito nella società americana, così come il volontariato continua a rappresentarne un’importante realtà che, organizzata nel National Volunteer Fire Council, fornisce oltre la metà del personale attivo in tutti i Fire Department statunitensi.
“Getting Involved”. Il ruolo del volontariato nella gestione dell’heritage statunitense 203
assistenza e charities di scala nazionale, alcune di esse destinate a divenire grandi e potenti realtà tuttora impegnate in attività sociali: la YMCA, la Croce Rossa americana, la United Way, la Jewish Federation insieme ad altri sodalizi di assistenza agli immigrati di varia nazionalità.
In ogni caso il volontariato continuava ad essere una sorta di infrastruttura sociale sostanzialmente privata e con funzione para-politica, espressione di uno spontaneo impegno civile di modello grassroots, mentre scarso rimaneva il coinvolgimento del settore pubblico. Solo negli anni drammatici della Grande Depressione – che fra Texas e Oklahoma si combinò con gli effetti disastrosi del Dust Bowl e dell’emigrazione forzata di decine di migliaia di famiglie – si materializzò un deciso intervento governativo, che si esplicò nei diversi programmi di assistenza e di sostegno attivati nell’ambito del New Deal del presidente Roosevelt. Fra tali programmi si colloca anche, come si vedrà, una precoce iniziativa di volontariato rivolta alla protezione ambientale.
Filantropismo, ambientalismo, pacifismo, impegno per i diritti civili e contro la povertà e le ineguaglianze sociali sono gli ambiti dominanti delle innumerevoli associazioni di volontariato nate negli States a partire dal secondo dopoguerra e ad oggi operative anche nell’orizzonte internazionale. Nel complesso, il volontariato americano si dimostra dunque un fenomeno di grandi dimensioni e di non irrilevante ricaduta economica: le statistiche governative4 riferiscono che nel 2010 quasi 63 milioni di persone – ben un quinto della popolazione americana, con una prevalenza di donne – hanno operato come volontari nel terzo settore, contribuendo con più di otto miliardi di ore di lavoro e generando per il Paese, con le loro attività non retribuite, un beneficio economico quantificabile nel sorprendente valore di 173 miliardi di dollari.
2. L’istituzionaLizzazione deL voLontariato
Sostanziata e animata da una miriade di associazioni pubbliche e private, ciascuna con proprie e differenziate modalità di reclutamento e operanti nei più diversi campi di intervento, la multiforme galassia del volunteerism – o Third sector o Community sector – necessitava di una “messa a sistema” a livello nazionale. Si definiva nel contempo l’interesse del governo ad inquadrare tale macroscopico e crescente fenomeno in cornici istituzionali, mediante le quali promuovere e regolamentare, ma anche controllare attività, organi e soggetti di partecipazione sociale, integrando il volontariato nella propria azione e strategia politica (Sämi, 2007). Questa duplice esigenza confluisce dunque, nell’ultimo quarantennio del
4 Fonte: Corporation for National and Community Service, riportato in Ellis S. J. and K.H. Campbell, p. 7.
Franca Battigelli
Novecento, nella direzione di una istituzionalizzazione del volontariato mediante la creazione, da parte delle diverse amministrazioni di governo, di appositi programmi ed organismi a livello federale.
Risale così al 1961, in piena Guerra fredda, l’istituzione da parte del neoeletto presidente John Kennedy dei Peace Corps, struttura di volontariato internazionale cui venne affidata la mission di contribuire ad una cultura di pace e di reciproca comprensione, anche attraverso il sostegno tecnico ed economico a Paesi in via di sviluppo (www.peacecorps.gov). E fu l’amministrazione Clinton che, nel 1993, istituì una agenzia federale indipendente (vale a dire autonoma rispetto all’intervento presidenziale, pur se appartenente all’apparato governativo), denominata Corporation for National and Community Service (CNCS); ad essa fanno capo specifici programmi di volontariato sociale, ambientale ed educativo, fra cui il preesistente (anch’esso kennediano) VISTA-Volunteers in Service to America, gli AmeriCorps e i Senior Corps, questi ultimi rivolti a volontari con oltre cinquantacinque anni di età (www.nationalservice.gov). A sua volta, il presidente George W. Bush nel 2002 costituì, quale struttura-ombrello per il volontariato, un ufficio della Presidenza denominato USA Freedom Corps. Nato, all’epoca, con il principale obiettivo di coinvolgimento della popolazione civile nella sicurezza nazionale all’indomani dell’11 settembre, i Corps hanno ampliato il loro orizzonte di azione sociale, dedicandosi anche ad interventi di solidarietà internazionale, specie in occasione di eventi tragici come lo tsunami del 2004.
Anche l’amministrazione Obama ha rinnovato l’impegno governativo rispetto al volontariato sociale, nello specifico riformulando nel 2009 i Freedom Corps nel nuovo programma “United We Serve”. Sviluppato in collaborazione con il CNCS, questo programma è mirato a diffondere una cultura del volontariato e della solidarietà quale impegno etico per tutti gli ordinary people; vengono in particolare sollecitate e sostenute singole iniziative e proposte di nuovi progetti do-it-yourself a servizio delle comunità locali – ad esempio con la creazione di Banche del cibo – da realizzare attraverso i percorsi guidati e i toolkits suggeriti nella pagina web del programma (www.serve.gov).
Un richiamo all’ethos civile e all’orgoglio nazionale, quale imprescindibile atteggiamento ispiratore di ogni attività di volontariato, è esplicitamente contenuto nell’intitolazione di un altro, più specifico programma federale. Si tratta del Take Pride in America, sostenuto dal Dipartimento degli Interni e mirato alla valorizzazione del patrimonio terriero pubblico attraverso il coinvolgimento dei cittadini, come significativamente richiamato da un logo – “It’s your land, lend a hand” – che gioca sull’assonanza dei termini (www.takepride.goc). Fra le varie iniziative di sensibilizzazione e sostegno, questo programma eroga annualmente un premio – il “Take Pride Award” – a progetti di particolare interesse e di rilevanza nazionale, che vengono valutati anche in base all’impegno, quantificato in numero di ore lavorate e in termini di valore economico: nell’anno 2011, ad esempio, le quattordici associazioni vincitrici del premio hanno complessiva-
“Getting Involved”. Il ruolo del volontariato nella gestione dell’heritage statunitense 205
mente erogato più di 250.000 ore di lavoro, generando un beneficio economico stimato in cinque milioni di dollari.
Va infine citato Volunteer.gov, il principale portale informatico del volontariato rivolto alla conservazione del patrimonio culturale e naturale, che opera quale strumento di informazione e networking dei diversi soggetti ed enti coinvolti e funge da punto di incontro fra domanda e offerta: la funzione “Find a Volunteer Opportunity” con estrema facilità guida la ricerca di proposte di volontariato attraverso diversi filtri, per Stato, città o numero di codice postale, per ente o agenzia, per tipologia di attività (www.volunteer.gov).
A proposito dei siti informativi istituzionali, è significativo rilevare il tipo di requisiti che vengono esplicitamente richiesti ai volontari, ciò che viene definito “lo spirito del volontario”: si tratta di senso di solidarietà e di servizio, desiderio di offrire un contributo personale alla nazione, volontà di condividere tempo e conoscenze, e – non da ultimo – disponibilità a lavorare senza compenso. La continuità di impegno del volontario viene semmai premiata, a fronte di almeno cinquecento ore di attività presso le agenzie accreditate, con l’acquisizione di un pass denominato “America the Beautiful” che consente l’ingresso gratuito nei parchi e nei siti culturali gestiti da tali agenzie.
3. voLontariato ed heritage
Appare utile ora porre l’accento, all’interno del complesso e vasto fenomeno del volontariato negli Stati Uniti, sul tema del servizio svolto per la tutela, valorizzazione e fruizione dell’heritage, il patrimonio ambientale e culturale nazionale. È questa un’attività praticata molto diffusamente, favorita dalla predisposizione culturale e dal senso di appartenenza e di radicamento del cittadino statunitense, notoriamente molto sensibile rispetto ad un heritage che viene percepito come parte essenziale dell’identità tanto nazionale quanto personale, e del quale rendersi attivamente responsabili secondo un atteggiamento sintetizzabile nell’espressione I care! Ad uno sguardo retrospettivo, le premesse per un semi-volontariato in campo ambientale si possono già riconoscere in un programma di sostegno attivato, in piena Depressione, dalla presidenza di Roosevelt nell’ambito del New Deal ed operativo dal 1933 al 1942: i Civilian Conservation Corps (CCC)5. Ispirandosi al saggio The moral equivalent of war del filosofo bostoniano William James, che nel 1910 proponeva paradossalmente una sorta di coscrizione di giovani da arruolarsi “contro” la natura quale strategia pacifista e di cementazione dell’unità nazionale6 ,
5 Per la storia e per una specifica documentazione sui CCC si veda il sito www.ccclegacy.org. Cfr. anche Merrill P.H., Roosevelt’s Forest Army. A history of the Civilian Conservation Corps. 19331942, Montpellier-VR, Perry H. Merril, 1981.
6 Citato in www.constitution.org/wj/meow.htm
Franca Battigelli
il programma CCC era finalizzato al duplice obiettivo di offrire a giovani senza lavoro opportunità di occupazione e nel contempo conservare ed ampliare il patrimonio ambientale pubblico. Molto varie erano le attività che questo “esercito forestale” era chiamato a svolgere: manutenzione di edifici, manufatti e infrastrutture di viabilità, comunicazione e trasporto, conservazione del patrimonio boschivo, floristico e faunistico, nuova afforestazione, prevenzione di incendi ed inondazioni, controllo dei processi di erosione del suolo, interventi di ripristino ambientale successivi a disastri, realizzazione di strutture e servizi ricreativi e di visita. A fronte di un impegno lavorativo di una quarantina di ore settimanali veniva corrisposto un compenso mensile di trenta dollari (di cui venticinque da inviare alle famiglie di provenienza), la cui modesta entità giustifica appunto la qualifica di semi-volontariato che viene attribuita a questo programma. Il CCC, che è considerato come il programma singolo più imponente di conservazione della natura mai realizzato in America, riscosse un notevolissimo successo. Già nel 1935 risultavano attivi – presenti in tutti gli Stati della federazione – ben 2.650 campi di lavoro che occupavano oltre mezzo milione di arruolati, mentre nei nove anni di esistenza del programma vi parteciparono complessivamente circa due milioni e mezzo di persone, i cui pur contenuti guadagni contribuirono ad alleviare le precarie condizioni economiche di molte famiglie durante gli anni difficili della Depressione. Straordinari furono inoltre i risultati sotto il profilo ambientale: vennero costruite 97.000 miglia di strade antincendio e quasi quattromila torri di avvistamento, furono bonificati 35.000 ettari di terreno e piantati quasi tre miliardi di alberi. Il programma venne infine a decadere a seguito dell’entrata in guerra degli USA, dopo l’attacco a Pearl Harbour, quando le risorse del Paese dovettero essere prioritariamente destinate a sostenere l’impegno bellico. Oggi i Conservation Corps, che non sono stati mai formalmente aboliti, continuano ad operare nella nuova veste dei CCC Legacy, custodi di un lascito ambientale ereditato dal passato e da trasmettere alle future generazioni, sempre attraverso il lavoro volontario (www.ccclegacy.org).
Rimanendo nell’ambito del patrimonio naturale e culturale, vengono ora sinteticamente presentati due casi di studio, quali esempi di specifici e simmetrici modelli di volontariato negli States: il modello istituzionale, organizzato e attuato alla scala nazionale da parte di enti governativi secondo un approccio topdown, e, all’opposto, il modello grassroots, ideato e realizzato alla scala locale e da soggetti locali.
4. iL modeLLo istituzionaLe: iL nationaL park service
L’outdoors recreation in parchi e siti naturali è notoriamente una pratica da sempre molto amata dalla popolazione statunitense, la cui diffusione si deve a diverse ragioni: la varietà di ambienti di eccezionale e spettacolare valore paesaggistico, il persistere nella componente anglofona americana di una sensibilità
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ambientale di matrice britannica e l’assenza di un patrimonio storico-culturale antico e direttamente riferibile alla giovane nazione, con il conseguente interesse verso luoghi, ambienti e scenari naturali nei quali si è sviluppata l’epopea della colonizzazione e la storia nazionale: una wilderness che funge da condivisa componente identitaria.
Non sorprende dunque che i parchi siano una “invenzione” americana. A partire dal 1872, anno di nascita dello Yellowstone – primo parco nazionale al mondo – quella che viene promossa come la “America’s best idea, absolutely American, absolutely democratic” secondo la popolare formula dello scrittore ambientalista Wallace Stegner7, si è nel tempo concretizzata nella creazione di un gran numero di parchi, riserve ed aree protette. Per amministrare tale cospicuo patrimonio nazionale venne istituito nel 1916 – con un certo ritardo rispetto all’effettiva esistenza dei parchi – il National Park Service (NPS)8, agenzia federale responsabile della gestione, conservazione e fruizione di “the scenery and the natural and historical objects and the wild life therein”, alla quale nel 1933 fu affidata anche la competenza sui campi di battaglia e sui siti di interesse storico nazionale, nonchè sui monumenti storici qualificati come nazionali, come la Statua della Libertà. Il Park Service è oggi responsabile di non meno di quattrocento siti di interesse ambientale e culturale, che nell’insieme costituiscono il National Park System federale comprendente 58 parchi nazionali, 124 parchi o siti storici, 25 parchi militari, 75 monumenti, 18 riserve, ed inoltre ambiti litorali e lacustri ed aree ricreative: nell’insieme, una superficie di oltre 340.000 kmq (superiore all’estensione territoriale dell’Italia!). Circa novecento fra Centri visita e Contact points sono a servizio dei visitatori, che numerosissimi frequentano i diversi siti: oltre 280 milioni di persone all’anno. Egualmente stratosferico è il budget annuale dell’agenzia, che si attesta intorno ai tre miliardi di dollari.
L’impegno di conservazione e di gestione di un patrimonio tanto vasto, territorialmente distribuito e intensamente visitato non sarebbe perseguibile dalla sola agenzia federale senza la partecipazione e il sostanziale apporto di diversi soggetti, pubblici, privati e del terzo settore, che operano in modalità differenziate – partnership, fondazioni, gruppi di supporter – a formare una rete stratificata di sostegno e collaborazione di impareggiabile importanza.
A tal riguardo, una vivacissima realtà partecipativa è certamente il volontariato, dal 1969 organizzato tramite il programma denominato “VIPs – Volunteers-In-Parks”, che fa leva sul doppio significato dell’acronimo nell’associare la posizione del volontario a quella di una Very Important Person. In tutta la pubblicistica del Park Service si enfatizza il valore di ogni singolo volontario (“You
7 Il motto è stato recentemente ripreso in una spettacolare e fortunata serie di documentari televisivi (The National Parks. America’s best Idea, del regista Ken Burns), cui ha fatto seguito la pubblicazione del volume di medesimo titolo di Duncan D., 2009.
8 Per approfondimenti si rimanda al sito www.nps.gov
Franca Battigelli
are a Very-Important-Person”), ed è costante e marcato il richiamo al ruolo di servizio sociale da svolgere e all’orgoglio di partecipare ad opere di importanza e rilievo nazionale.
Fig. 2 – Il logo dei volontari del National Park Service (Fonte: www.nps.org).
Chiunque può diventare un VIP, di tutte le età – numerosi sono i minori, autorizzati da un genitore – e di ogni provenienza, sia dagli States che dall’estero. A seconda delle specificità del parco, le attività previste possono essere le più varie: information desk, animazione, assistenza e guida dei visitatori, manutenzione delle strutture e della sentieristica, monitoraggio e conservazione del patrimonio naturalistico e culturale, attività amministrative, informatiche e di comunicazione, ecc. Il servizio è, appunto, volontario: non è previsto alcun compenso se non un eventuale pocket money e, in alcuni casi, l’alloggio nel parco, mentre è garantita la copertura assicurativa per incidenti e danni a sé e a terzi. Per tutto il periodo di attività il VIP si avvale di uno speciale distintivo (Fig. 2) e può indossare l’uniforme del volontario: ogni
VIP rappresenta infatti il Park Service e ne è componente ufficiale.
Il programma ha da sempre un grande seguito: nel 2012 vi hanno preso parte 257.000 volontari, i quali hanno contribuito con 6,4 milioni di ore di lavoro, l’equivalente del lavoro che potrebbe essere svolto – come sottolineano gli opuscoli informativi dell’NPS9 – da 2.600 unità aggiuntive di personale.
Molto forte è anche il legame del Park Service con le comunità locali, ad esempio implementato attraverso il programma “Civic Engagement”. È questa una pratica di partecipazione che incentiva un comune impegno collaborativo pubblico-privato-volontario (“a continuous, dynamic conversation with the public”), rivolto alla conservazione e valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale locale e all’offerta di attività per il tempo libero e il turismo quali opportunità di sviluppo e di rivitalizzazione delle comunità.
È quanto si verifica – per fare un solo esempio – nel Parco storico di Lowell, non lontano da Boston, in Massachusetts10. La città di Lowell, nata come centro manifatturiero pianificato negli anni Venti dell’Ottocento, è considerata la culla della rivoluzione industriale americana. Con i suoi opifici tessili azionati dalla forza
9 NPS, National Park Service Overview, 2013.
10 “Engaging Youth at Lowell National Historical Park. A progressive approach”, in NPS, Leading in a collaborative environment, 2010, pp. 19-25. Cfr. anche www.nps.gov/lowe/index.htm
“Getting Involved”. Il ruolo del volontariato nella gestione dell’heritage statunitense 209
idraulica fornita dalle rapide del fiume Merrimack divenne, alla metà del secolo, il principale polo industriale dell’Unione. Fattore che sostenne tale sviluppo fu senza dubbio la copiosa manopera a basso costo, resa disponibile da una immigrazione sostenuta ed ininterrotta. Arrivarono infatti a Lowell diverse ondate di immigrati provenienti dall’Europa, e non solo: dapprima i profughi che rifuggivano dalla Grande Fame degli anni Trenta e Quaranta in Irlanda, poi immigrati dalla Germania e dal Canada francese (fra cui gli avi canadesi dello scrittore mito della beat generation Jack Kerouac, che qui nacque nel 1922 e qui è sepolto); indi, nell’ultimo quarto del secolo, fu la volta di immigrati portoghesi, polacchi, greci, lituani ed ebrei russi. Si vennero così a formare a Lowell diversi quartieri etnici, ciascuno servito da proprie chiese e scuole, che diedero agli immigrati la possibilità di conservare lingua e tradizioni, ma ostacolarono un reale processo di integrazione.
All’avvio del Novecento la città raggiunse l’apice della parabola produttiva e demografica, annoverando una popolazione di 110.000 abitanti, composta per oltre la metà da persone nate all’estero. Dopo la crisi industriale e demografica iniziata all’epoca della Grande Depressione e continuata nel secondo dopoguerra, la struttura produttiva della città si è riconvertita, dagli anni Settanta, nel settore dell’high-tech, divenendo fattore e parte fondamentale di quello sviluppo travolgente che è stato definito come “Massachusetts Miracle”. Furono, questi, anche gli anni di una ripresa dell’immigrazione; in particolare arrivarono a Lowell migliaia di profughi dalla Cambogia che fuggivano dalla sanguinosa dittatura Khmer. Oggi Lowell, divenuta importante centro universitario e culturale, conta 106.500 abitanti, di cui oltre un terzo è costituito da immigrati, la componente principale di origine sudest-asiatica.
Dismesso e abbandonato, rischiava di andare distrutto il ricchissimo patrimonio di archeologia industriale della città: gli opifici, i macchinari, i nove chilometri del sistema di canalizzazione, gli impianti di generazione11. Fortunatamente, nel 1978 venne istituito il Lowell National Historical Park, una sorta di museo diffuso localizzato in 57 ettari nel cuore urbano, finalizzato al recupero della storia della città e alla conservazione tanto delle strutture produttive quanto delle memorie del lavoro operaio e dell’immigrazione, con l’intento però di superare il ruolo di passivo contenitore museale per fungere piuttosto da laboratorio culturale, sperimentale e di formazione. Vennero così avviati programmi di coinvolgimento di diversi soggetti e associazioni locali, che portarono fra l’altro alla istituzione dello Tsongas Industrial History Center12: un partenariato fra NPS e la School of Education dell’Università del Massachusetts, che offre una varietà di
11 A Lowell venne ideata e impiantata, nel 1848, la prima Turbina Francis, che prende il nome dal suo inventore James Francis ed è ancora oggi il tipo di turbina maggiormente diffuso negli impianti di generazione idroelettrica.
12 Il Centro è intitolato a Paul Tsongas, senatore americano nato a Lowell da una famiglia immigrata di origine greca, che fu il principale promotore del Parco. Cfr. www.uml.edu/tsongas
Franca Battigelli
attività culturali e didattiche per i giovani, a partire dalla storia industriale della città. Il rapporto parco-comunità viene mantenuto anche attraverso il coinvolgimento del volontariato: associazioni giovanili e culturali, comunità etniche, organizzazioni non-profit, gruppi civici, privati cittadini collaborano alle iniziative del parco e del Centro Tsongas, che in tal modo divengono anche strumenti di valorizzazione e di integrazione della realtà multiculturale della città.
5. iL modeLLo grassroots: L’associazione vecinos deL rio
Fig. 3 – Animale “suonatore di flauto” raffigurato nei petroglifi di Mesa Prieta (Fonte: www.mesaprietapetroglyphs.org).
Fra le organizzazioni premiate nel 2011 dal programma federale “Take Pride in America”, risultò vincitrice per la sezione “Outstanding Public-Private Partnership” l’associazione non-profit Vecinos del Rio per il progetto “Mesa Prieta Petroglyphs”. Localizzato nello stato del New Mexico (il fiume è il Rio Grande)13 e condotto in collaborazione con l’agenzia federale del Land Management, il progetto si sviluppa nella riserva archeologica del massiccio della Mesa Prieta (che significa Mesa Scura). È questa una dorsale basaltica lunga una dozzina di chilometri che si innalza fino a 2.300 metri di quota, la cui superficie aspra e accidentata è istoriata da antichi petroglifi, realizzati incidendo la superficie ossidata della scura roccia vulcanica per ricavarne segni di coloratura chiara. I graffiti, che sono inclusi nel National Register of Historic Places, sono databili a periodi diversi. I più antichi decorrono a partire da 5.000 anni fa e consistono di disegni geometrici e astratti appartenenti ad un periodo definito come “Arcaico”. La parte maggiore (circa tre quarti del totale) abbraccia un ampio arco di tempo compreso fra il XIV ed il XVII secolo, ed è attribuibile a popolazioni Pueblo. Fra le diverse tipologie iconografiche di questa fase – disegni geometrici, immagini di figure umane e di vari animali – si distinguono per la loro particolarità i misteriosi “suonatori di flauto”, rappresentati sia da figure umane che da animali (Fig. 3); a periodi successivi alla conquista spagnola del 1598 appartengono il simbolo della croce cristiana, i leoni coronati, che sembrano richiamare lo stemma araldico della corona iberica, e le raffigurazioni di cavalli, animali importati fra i Pueblo dagli Spagnoli.
13 Materiale informativo in www.mesaprietapetroglyphs.org e www.riograndenha.com
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“Mesa Prieta Petroglyphs” rappresenta il modello esemplare di una riuscita iniziativa culturale, nata e organizzata interamente su base volontaria. Il progetto ha origine nei primi anni Novanta con l’acquisto, da parte di una privata cittadina, Katherine Wells, di una settantina di ettari nella parte della Mesa più ricca di graffiti; il terreno venne quindi donato alla Conservatoria Archeologica del New Mexico che vi istituì quella che è oggi la Riserva di Petroglifi Wells. Nel 1999, fra l’associazione non-profit Vecinos del Rio e il Bureau of Land Management (che detiene la proprietà di un quarto della superficie interessata dai graffiti) fu sottoscritta una partnership, che si estese poi a numerosi altri soggetti ed istituzioni: gruppi giovanili, associazioni locali dei nativi americani e degli ispanici, proprietari privati, una associazione archeologica, oltre a diversi enti statali e federali fra cui il National Park Service. Il progetto si propone la mappatura completa dei graffiti, la loro georeferenziazione e catalogazione, la creazione di un GIS e di un archivio informatizzato: un obiettivo a dir poco ambizioso, se si considera che i petroglifi sono valutati in un numero compreso fra i quarantamila e i sessantamila, distribuiti su una superficie di quasi diecimila ettari, e che l’intera operazione si basa sul volontariato. Volontari sono, infatti, coloro che si occupano delle diverse funzioni e incombenze, provenendo sia dalle comunità etniche locali (che, oltre agli anglofoni, includono i Pueblo, i Nativi indiani e gli Ispanici) sia dall’esterno: c’è chi è responsabile della ricerca e dell’organizzazione tecnico-scientifica (fra cui archeologi, professori universitari, tecnici informatici), chi si occupa delle pratiche amministrative e di fund raising, chi della manutenzione degli edifici e della sentieristica. Importanti sono le attività formative, di divulgazione e di visita: vengono organizzati campi estivi, moduli didattici per le scuole locali, conferenze e presentazioni, visite guidate su oltre una settantina di percorsi; e ovviamente centrale è il lavoro di rilevazione in campo. I rilevatori – ogni anno una ventina di giovani – devono preliminarmente frequentare un breve corso di formazione tecnica, sottoscrivere un codice di comportamento che li impegni al rispetto dei diritti di proprietà e alla segretezza di immagini ed informazioni ottenute in campo (gran parte dell’area interessata dai graffiti è infatti privata), dichiarando la disponibilità a operare su terreni impervi (Fig. 4). Ad essi viene richiesto un impegno minimo di un giorno lavorativo al mese, per la durata di un intero anno. A fine campagna, per tutti i volontari viene celebrato un “Volunteer Appreciation Picnic” quale momento conviviale e di premiazione delle attività svolte, nel tipico spirito sociale e partecipativo americano.
Come recita la motivazione del premio “Take Pride 2011” 14, il progetto Mesa Prieta “utilizzando un partenariato fra i giovani Nativi americani ed Ispanici, proprietari privati, una associazione non-profit, associazioni archeologiche, è un progetto esemplare che impegna i giovani delle comunità locali nella
14 La motivazione del premio è riportata in www.takepride.gov/honors2011.cfm (traduzione mia).
Fig. 4 – Volontari rilevatori al lavoro a Mesa Prieta. Si notino le accidentate condizioni del suolo. (Fonte: www.mesaprietapetroglyphs.org).
conservazione del proprio patrimonio culturale”, contribuendo alla reciproca comprensione e al dialogo fra le diverse componenti etniche locali e fornendo inoltre dati e materiale informativo all’archivio del Land Management federale. Ciò a fronte di un budget di progetto decisamente modesto – intorno agli 80.000 dollari all’anno – interamente proveniente da donazioni pubbliche e private, dalla vendita dei servizi e di pubblicazioni e dalla campagna “Adotta un petroglifo”.
In conclusione, le esperienze qui succintamente presentate evidenziano come, all’interno del complesso e variegato fenomeno del volunteering americano, il volontariato a servizio dell’heritage mostri a sua volta una grande varietà di modelli di gestione, diversi per stato giuridico, dimensione, scala territoriale, modalità ed entità di finanziamento. Nondimeno, tutti i diversi modelli fanno leva e si avvalgono in modo imprescindibile della straordinaria disponibilità, profondamente radicata nel cuore della società americana, al volontariato, alla condivisione, alla partecipazione, alla gestione del bene comune, alla conservazione del patrimonio nazionale: si tratta, in breve, di un “getting involved” che, mentre offre supporto sociale e culturale, va anche considerato e apprezzato come concreta ed esemplare lezione di democrazia partecipata e di civismo.
“Getting
Involved”. Il
ruolo
del volontariato nella gestione dell’heritage statunitense 213
BiBLiografia
Duncan D., The National Parks: America’s best idea. An illustrated history, New York, A. Knopf, 2009.
Ellis S.J. e Campbell K.H., Volunteering: an American tradition, in «The Spirit of volunteerism», e-Journal USA, U.S. Department of State, 16 (2012), n. 5, pp. 4-9.
Ellis S.J. e Noyes K.H., By the people. A history of Americans as volunteers, San Francisco and Oxford, Jossey-Bass Publishers, 1990.
Nps, Leading in a collaborative environment. Six case studies involving collaboration and civic engagement, in «Conservation and Stewardship», Publication no. 17, NPS Conservation Study Institute, Woodstock, 2010, pp. 19-25.
Nps, National Park Service Overview, April 2013, in www.nps.gov/news/upload/NPS-Overview-2012_updated-04-02-2013.pdf.
Sämi L., Volunteers of America, in «European Journal of American Studies», 1 (2007), Document 5, in http://ejas.revues.org/.
sitografia
www.ccclegacy.org www.firehistory.org www.mesaprietapetroglyphs.org www.nationalservice.gov www.nps.gov www.peacecorps.gov www.riograndenha.com www.serve.gov www.takepride.gov www.uml.edu/tsongas www.volunteer.gov
Frammentazione urbana e nuove dinamiche insediative.
Nico Bazzoli*
1. una contestuaLizzazione
Negli ultimi trent’anni la società ha conosciuto delle evidenti trasformazioni sotto il profilo culturale, economico e sociale ad opera di una crescente integrazione dei mercati e delle relazioni a scala planetaria. L’insieme di tali processi, comunemente identificato con il termine globalizzazione, ha comportato una progressiva immissione degli spazi economici in un quadro transnazionale, segnando considerevoli mutamenti per quanto concerne le modalità di produzione e la centralità assunta dalle città nelle dinamiche globali (Rossi, 2010). Dagli anni Settanta del secolo scorso l’emergere di un’economia di tipo postfordista ha innescato una serie di cambiamenti che hanno riguardato il ruolo dell’innovazione tecnologica, l’organizzazione del mercato del lavoro e le modalità di creazione del valore aggiunto, dando luogo all’esplosione di una new economy che ha decisamente inciso nelle modalità di ricerca del plusvalore e nell’articolazione stessa dell’esperienza urbana. Da questo punto di vista la diffusione di Information and Communication Technology e l’ascesa della società postmoderna hanno caratterizzato l’emergere di una neourbanità (Bonora, 2009) che, attraverso le dinamiche di diffusione simbolica, si è dimostrata capace di rendere ogni utente della rete un potenziale abitante della città-mondo. L’essere urbano non risulta più connaturato dal senso di appartenenza territoriale, si manifesta piuttosto come un concetto che travalica l’estensione
* Università degli Studi di Urbino.
Nico Bazzoli
cittadina diffondendosi negli stili di vita di una società sempre più connessa al proprio interno. Un cambiamento che è proceduto di pari passo con il declino del fordismo come meccanismo regolativo della produzione, implicando crescente decentralizzazione produttiva e flessibilità lavorativa. Il processo produttivo, allo stesso modo dell’esperienza urbana, è andato incontro alla fine del suo legame territoriale liquefacendosi nello spazio reticolare globale. A questa serie di importanti trasformazioni è seguita anche un’evidente disarticolazione della società in grado di indurre un accrescimento delle disuguaglianze tra vari gruppi di popolazione, che sostanzialmente ricalcano le dinamiche della divisione internazionale del mondo del lavoro: a determinati gruppi (o classi) ai quali sono garantite possibilità di integrazione nel sistema globale in termini di accesso al reddito corrispondono gruppi che si situano in posizione marginale a questo sistema. Una sostanziale suddivisione che, pur presentandosi in maniera eterogenea, può essere fatta risalire a quella doppia velocità nei processi di sviluppo che autori come S. Sassen hanno individuato prevalentemente in quelle che sono state definite città globali (Sassen, 1997). Questo genere di differenziazione trova infatti evidente manifestazione nella complessità dei maggiori spazi urbani, innescandosi su dinamiche legate al reddito, all’accesso ai servizi e alle risorse e alle stesse possibilità di integrazione nel sistema economico-produttivo. I centri urbani sembrano oggi quei luoghi nei quali la diffusione dei processi economici trova maggiore localizzazione. Risultano quindi essere degli spazi di concentrazione (Soja, 2007) che connettono scala locale e sovranazionale, contribuendo a dare manifestazione materiale di come le dinamiche globali si innestino nei territori e delle differenziazioni che queste sono in grado di apportare all’organizzazione della società. Le teorie sulla globalizzazione sembrano infatti convergere nell’affermare che all’interno della società contemporanea si assisterebbe ad una diversificazione nei processi di sviluppo che può essere riconducibile alla crescente disarticolazione esistente negli ambiti urbani.
Il presente studio si è posto l’obiettivo di indagare, attraverso il concetto di frammentazione urbana, come tali differenze tra gruppi di popolazione acquisiscano manifestazione all’interno dello spazio urbano. Campo di ricerca quest’ultimo che è stato privilegiato rispetto ad altre espressioni di produzione dello spazio (Lefebvre, 1972), data la stringente connessione che si è instaurata tra città e globalizzazione. Alla luce di questa relazione si intende considerare lo spazio urbano come un ambito di analisi adeguato nel fornire un quadro esplicativo delle forme che oggi acquisiscono le dinamiche di frammentazione a cui sono sottoposti l’aspetto sociale e fisico degli ambiti cittadini.
Il concetto di frammentazione urbana emerge negli Stati Uniti durante gli anni Settanta del Novecento in relazione alla ripartizione amministrativa realizzata in alcune città per rispondere all’emergere di conurbazioni fortemente condizionate dall’articolazione spaziale e sociale. Con la crisi del modello fordista questo concetto tende a subire uno spostamento semantico che porterà ad intendere il fenomeno non più come un processo di suddivisione amministrativa, bensì come una frattura
Frammentazione urbana e nuove dinamiche insediative. Bologna e il suo hinterland 217
all’interno di un contesto precedentemente volto all’integrazione sociale. Attraverso la nozione di frammentazione urbana si intende quindi evidenziare una nuova condizione di disgregazione del tessuto cittadino all’interno della quale intere sezioni si allontanerebbero tra di loro a tal punto da sembrare impossibili da ricomporre in un unico quadro generale. Si è dunque in presenza di una disgregazione teoricamente irreversibile che non può essere equiparata alle divisioni socio-spaziali operanti all’interno della città fordista; dove ogni problematica di segregazione, di accesso ai servizi e di stratificazione reddituale era inserita in una prospettiva di integrazione collettiva orientata verso un miglioramento generale delle condizioni di vita dell’intera popolazione. La ristrutturazione produttiva avvenuta in epoca postmoderna ha indotto una sostanziale segmentazione della popolazione tra chi risulta integrato nel modello produttivo e chi ne rimane escluso o marginalizzato. La precarizzazione lavorativa, la progressiva dismissione delle tutele previdenziali e sindacali e, in termini più generali, l’accresciuta difficoltà di miglioramento delle condizioni materiali di vita si inseriscono nel quadro di un progressivo abbandono dell’idea collettiva di società. La popolazione della città postmoderna tenderebbe quindi a strutturarsi in gradienti caratterizzati da diversi livelli reddituali e dalle più disparate condizioni materiali di vita. All’evoluzione di questa frammentazione sociale contribuiscono una molteplicità di fattori legati al mondo del lavoro, al sistema di auto-rappresentazione collettiva, alle politiche di intervento pubblico, all’individualizzazione dei consumi e alle stesse propensioni mentali mediate dalla cultura di riferimento. Nei paesi a sviluppo avanzato assistiamo ad una tendenza alla disgregazione delle comunità che non si limita ad intervenire nel tessuto sociale, ma trova concrete manifestazioni nello spazio fisico costruito. In questo senso la frammentazione urbana non risulterebbe semplicemente dalle dinamiche di scomposizione in atto nella società, bensì dall’effettiva manifestazione geografica dell’organizzazione sociale, che può essere data solo dal congiunto operare della diversificazione sociale e di quella spaziale, in un contesto nel quale il territorio urbanizzato si scinde in molteplici spezzoni fondati su comportamenti e sistemi di funzionamento dissonanti, in cui si perde il senso di unitarietà dell’urbano e del sociale.
2. iL caso di studio: BoLogna e iL suo hinterland
Il caso di studio si inserisce in un lavoro di ricerca effettuato sulla città di Bologna tra il novembre 2011 e il febbraio 20121, con il quale si è voluto analizzare in
1 Lavoro desunto dalla tesi di laurea Frammentazione urbana e nuove dinamiche insediative: Bologna e il suo hinterland, discussa nel marzo 2012 presso il Dipartimento di Storia Culture e Civiltà dell’Università di Bologna.
Nico Bazzoli
che modalità la frammentazione dello spazio cittadino sia legata alla connessione che si stabilisce tra il reddito disponibile e le scelte localizzative di tipo residenziale effettuate dagli abitanti. Nonostante il concetto di frammentazione urbana sia stato riconosciuto a livello accademico come un processo disgregativo dell’identità e della cultura urbana che investe le modalità di vivere lo spazio cittadino, rimane spesso pervaso da una vaghezza che limita la definizione di un netto quadro concettuale. Le radici di tale fenomeno vanno rintracciate nel contesto economico e sociale, tuttavia non risultano ancora sufficientemente indagati i suoi effetti spaziali nella dimensione urbana odierna. In particolare, è risultato di centrale importanza definire quali siano le logiche sottese all’organizzazione socio-spaziale della città. Tali logiche sono state fatte coincidere con la formazione dei valori immobiliari e le scelte insediative effettuate dalla popolazione; si ritiene infatti che la stratificazione sociale della popolazione possa seguire dinamiche interne al mercato immobiliare e alla disponibilità reddituale. L’obiettivo prefissato è stato quello di stabilire in che maniera il tenore di vita della popolazione possa essere messo in relazione al luogo di residenza e rispecchi i valori immobiliari presenti in una determinata area. Muovendo dalla considerazione che nell’area urbana bolognese sia presente una considerevole diversificazione dei valori immobiliari e che questo sia uno dei principali elementi in grado di orientare le scelte localizzative della popolazione, oltre che la formazione di ambiti diversificati socialmente e spazialmente, si è proceduto all’individuazione di quelli che sono stati ipotizzati come frammenti urbani, ovvero delle porzioni di territorio sconnesse per funzionamento, relazioni, connessioni e composizione al resto della città.
La determinazione delle aree di studio è stata eseguita in primo luogo sulla base di una valutazione fisica del territorio, tenendo presente che il fenomeno della frammentazione urbana agisce secondo dinamiche sia sociali che spaziali. A tal proposito, sono state individuate quelle che possono essere ritenute delle fratture di origine naturale o antropica che interrompono la continuità morfologica tra le parti del contesto cittadino. Successivamente, sono stati vagliati i valori immobiliari, fino a trovare somiglianze tra aree differenti del contesto urbano. Questa metodologia ha portato all’individuazione di due frammenti urbani che corrispondono a due aree della conurbazione bolognese: il quartiere Bolognina e il Comune di Castel Maggiore. In questo modo si è cercato di fornire una delimitazione spaziale delle aree di interesse, trovando nei valori immobiliari un fattore di connessione in grado di stabilire un parallelismo tra le dinamiche del mercato di questi due ambiti, che tuttavia si presentano nella forma e nella composizione completamente divergenti. La scelta dei due casi è stata motivata anche dalla necessità di poter stabilire confronti a posteriori tra ambiti diseguali sia dal punto di vista della popolazione presente che da quello prettamente storico-urbanistico. Per quanto riguarda la Bolognina, da un punto di vista spaziale, sono stati individuati quei manufatti che corrispondono alla sua trama infrastrutturale e la separano dal resto dell’agglomerato urbano generando problematiche sul piano della
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permeabilità e interconnessione con il resto dell’abitato. L’area della Bolognina corrisponde ad un quartiere storico a nord della stazione ferroviaria, dove il modello insediativo di matrice compatta è interessato da artefatti come il passante ferroviario o grandi assi stradali, che la separano fisicamente dal resto della città. Considerando che le dinamiche spaziali che operano nel fenomeno della frammentazione urbana sono in grado di differire significativamente a seconda dell’area presa in esame, per quanto riguarda Castel Maggiore non è stato possibile servirsi degli stessi criteri di delimitazione fisica di questo segmento territoriale. Spostandoci verso la periferia delle conurbazioni, diminuisce la rilevanza dei grandi manufatti come fattori di frammentazione. In questi spazi lo sprawl, sotto l’influsso della grande svolta immobiliarista italiana degli ultimi trent’anni (Bonora, 2009), ha generato un modello di urbanizzazione diffusa che ha progressivamente portato nuovi abitanti desiderosi di decentrare la propria residenza nelle corone urbane. Questa dispersione insediativa, riscontrabile nelle periferie dei maggiori centri abitati del nostro Paese, ha portato con sé una frammentazione generata da isole di lottizzazione dedicate quasi esclusivamente alla funzione residenziale. In tale contesto non ci si trova in presenza di manufatti in grado di ostacolare la permeabilità del tessuto urbano, bensì di fronte ad una carenza riscontrabile nella rete viaria e nel sistema di trasporto pubblico che limita le connessioni tra questo abitato e la città di Bologna, la quale funge da punto di riferimento lavorativo e relazionale per gli abitanti di Castel Maggiore. Si riscontrano dunque motivazioni del tutto differenti in grado di qualificare un determinato ambito come un segmento urbano. Da questa considerazione emerge come la frammentazione urbana influisca nelle dinamiche di formazione e sviluppo della città, generando effetti di natura socio-spaziale differenti al variare del modello urbano. Nello specifico, per essi si possono individuare tre macro-categorie: a) Effetti sulla permeabilità e interconnettività urbana; b) Effetti sullo spazio e sui servizi pubblici; c) Effetti sulla qualità della vita.
Ogni tipologia di impatto acquisisce forme diverse in base alle caratteristiche del contesto analizzato e alla scala di osservazione che si sceglie di adottare. La frammentazione urbana risulta infatti essere un fenomeno di natura multiscalare. Sono quindi state adottate tre diverse scale di osservazione, in ognuna delle quali sono risultati più evidenti alcuni aspetti del fenomeno rispetto ad altri. Una scelta metodologica, questa, motivata dalla constatazione che nella città si assiste a livelli diversi di segmentazione che necessitano di vari punti di vista per essere colti nella loro interezza. In questo caso sono state utilizzate tre tipologie di scale di osservazione: la scala macro (urbana), la scala micro (frammento) e la scala micro (interna al frammento).
La scala macro è stata utilizzata nella delimitazione dei frammenti presi in esame, dato che può costituire un punto di vista adeguato per cogliere le relazioni spaziali tra la porzione esaminata ed il resto del tessuto urbano per quanto riguarda il grado di permeabilità e di interconnettività. Con l’intenzione di spo-
stare l’analisi al singolo insieme territoriale, l’uso della scala locale ha permesso di cogliere le differenziazioni nel modello di urbanizzazione e la distribuzione dell’offerta commerciale e dei servizi, che non risulterebbero evidenti alla scala macro. Tale angolazione si è rivelata capace di evidenziare la natura multiscalare del fenomeno, che non si limita a creare degli ambiti differenziati rispetto all’esterno, ma risulta in grado di produrre fratture anche al loro interno. L’utilizzo di uno strumento come le osservazioni sul campo ha permesso di cogliere una diversificazione spaziale dettata dalla morfologia edilizia, dall’arredo urbano, dalle facciate degli edifici e dalla distribuzione dei negozi e dei servizi. Valutando le caratteristiche dello spazio costruito, è stato possibile risalire alle aree di maggior pregio residenziale in ognuno dei due ambiti di ricerca.
Per fornire conferma di quanto ipotizzato e ricevere informazioni specifiche riguardo ai valori immobiliari della Bolognina e di Castel Maggiore si è utilizzato uno strumento tipico della ricerca qualitativa, ovvero l’intervista non strutturata con esperti del settore. Rivolgendosi ad una serie di agenti immobiliari, come del resto era prevedibile, è stato possibile constatare come gli immobili situati nelle aree di maggior concentrazione commerciale e di servizi, allo stesso modo di quelli che presentano particolari architettonici e finiture di pregio, presentino un valore medio al metro quadro superiore a quello delle abitazioni limitrofe. Queste indicazioni hanno permesso di attuare una suddivisione dei valori immobiliari nei due ambiti di ricerca, relazionando questo dato alle osservazioni effettuate sul campo. Ne è emerso un quadro nel quale l’oscillazione del prezzo delle abitazioni da una zona all’altra può trovare corrispondenze nelle evidenze spaziali osservate.
La diversificazione spaziale riscontrata nel frammento per mezzo della scala locale può fungere da indicatore delle fratture che si presentano nel piano sociale e nella distribuzione dei redditi, tuttavia per risalire in maniera specifica a come la frammentazione urbana si manifesti a livello sociospaziale si è ritenuto necessario adottare una scala di osservazione più allargata, in grado di indagare e connettere la realtà sociale a quella materiale. Questa complessa operazione di relazione, tra due piani di indagine che in molte ricerche di carattere sociale o geografico risultano nettamente distinti tra di loro, muove dalla considerazione che lo spazio fisico costruito non sia semplicemente un contenitore dei processi sociali, bensì risulti il prodotto stesso della società. È da questa fondamentale constatazione che nell’utilizzo della scala micro è stato adottato un altro strumento derivante dalla ricerca sociale come quello dell’intervista semi-strutturata, una metodologia adeguata per comprendere dall’interno il funzionamento delle parti trattate della città. Attraverso l’intervista sono stati raccolti dati riguardanti il tenore di vita, il livello di qualità della vita percepito dagli abitanti e il sistema relazionale intrattenuto con l’ambito di vicinato. Lo strumento è stato applicato ad un campione di intervistati abbastanza esteso per garantire un certo grado di inferenza statistica, ed è stato preceduto da una fase di validazione. La forma semi-strutturata dell’intervista ha permesso di raccogliere una cospicua serie di
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dati quantitativi da elaborare in fase di analisi e si è dimostrata utile anche nella raccolta di dati qualitativi. Tramite l’utilizzo della scala micro sono stati messi in relazione il livello di qualità della vita percepito dagli abitanti ed il reddito dedotto dalle interviste con le osservazioni riguardanti l’arredo urbano e lo stato di manutenzione degli edifici, rilevando come alle zone in cui si presentano deficit di vivibilità corrispondano gradienti reddituali di minore entità, rispetto a quelli riscontrabili in altre parti del frammento. A titolo esemplificativo, è stato possibile constatare come a Castel Maggiore le aree nelle quali si localizzano prevalentemente i residenti meno abbienti siano quelle caratterizzate da un’urbanizzazione standardizzata a blocchi, fatte di piccoli appartamenti principalmente in affitto, in cui gli edifici mostrano una scarsa manutenzione e dai quali i servizi non sono facilmente raggiungibili. Per quanto riguarda la Bolognina tramite la scala micro si è potuto notare come le aree interessate da problemi di vivibilità corrispondano a quelle zone in cui la manutenzione complessiva degli edifici e dell’arredo urbano registrano delle considerevoli mancanze. Le interviste effettuate hanno messo in luce come nei due ambiti di indagine si presentino forme di frammentazione sociale differenti.
Dall’analisi dei dati relativi ai consumi e al grado di frequentazione dell’ambito di vicinato per motivi slegati dalla residenza, si è notato come la Bolognina risulti un quartiere molto vissuto dagli abitanti, nel quale sussistono forti reti relazionali in grado di coinvolgere anche l’atto di consumo. Mercati e negozi di vicinato vengono infatti preferiti alla Grande Distribuzione Organizzata (GDO) nello svolgimento della propria funzione di consumatore per via di un rapporto diretto sviluppato nel tempo, e per la capillarità dell’offerta commerciale presente. Sul piano sociale, la Bolognina (fig. 1) risulta un contesto nel quale il legame territoriale è profondamente radicato; un’affermazione che può trovare conferma nel fatto che la maggioranza dei residenti trovi nel proprio quartiere uno spazio di relazioni adeguato alle proprie esigenze. In questo contesto la qualità della vita risulterebbe molto elevata se non si riscontrassero deficit rilevanti per quanto concerne fenomeni di microcriminalità in determinate aree. In questo quartiere la frammentazione prende piede nella dimensione sociale e si manifesta attraverso differenziazioni nel livello di sicurezza presente nel quartiere, generando diversi gradienti di vivibilità che trovano i picchi più bassi in quelle zone in cui si osserva una scarsa attenzione nella cura dell’arredo urbano.
Castel Maggiore (fig. 2) rimane invece del tutto estraneo a questo genere di dinamiche grazie alla scarsa presenza di microcriminalità. In questo caso, i fattori che incidono sul piano sociale sono piuttosto legati alla dimensione residenziale e diffusa dell’abitato che costringe i residenti ad un massiccio uso della mobilità privata per sopperire alla mancanza di servizi e di socialità. In particolare, si registra una significativa scarsità di relazioni tra gli abitanti; un’insufficienza che può essere fatta risalire al recente sviluppo urbanistico della cittadina e alla considerevole crescita dei residenti negli ultimi due decenni. Prende quindi forma un
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distacco evidente tra luogo di residenza e spazio relazionale che gli abitanti tentano di colmare attraverso l’utilizzo aggregativo degli spazi commerciali; un fenomeno che trova riscontri in gran parte delle aree di dispersione insediativa sorte a partire dagli anni Ottanta del Novecento. L’esplosione della forma urbana e la comunicazione in rete hanno infatti influito in maniera determinante sull’universo relazionale umano ponendo fine alla necessità della vicinanza fisica. Questa trasformazione ha prodotto “luoghi” nei quali il sistema di relazioni sociali non si manifesta più negli spazi di vicinato o nei luoghi di aggregazione ed incontro pubblici, bensì viene permeato dall’atto di consumo. I grandi centri commerciali che costellano le periferie urbane tendono quindi ad acquisire una funzione di incontro e di socialità per la popolazione della città postmoderna.
I fattori che quindi incidono a livello di frammentazione sociale si differenziano nelle due realtà, generando nel primo caso una segmentazione del quartiere in base a gradienti di vivibilità, e nel secondo una frammentazione del piano relazionale che viene mediato attraverso l’utilizzo di ambiti di natura privata.
Pur differenziandosi da questo punto di vista, i due ambiti di ricerca presentano un’ulteriore tipologia di frammentazione in grado di accomunare le dinamiche di scomposizione alle quali sono sottoposti. Analizzando la correlazione che si instaura tra il lavoro svolto, il reddito dedotto dalle interviste e la proprietà dell’abitazione, è stato possibile osservare come in entrambi i casi si manifesti una scissione evidente tra chi risulta proprietario di un’immobile e chi paga un affitto. Attraverso questi tre fattori si è messo in luce come nella maggioranza dei casi la proprietà dell’abitazione sia relazionata al lavoro effettuato e al reddito percepito ed incida in maniera rilevante nella determinazione del luogo di residenza. Procedendo con l’analisi spaziale, si è quindi evidenziato come la differenziazione edilizia e dei livelli di manutenzione di certe aree sia riconducibile a quella che si registra nel contesto sociale. Dalla suddivisione in fasce territoriali dei frammenti urbani studiati sulla base di questi parametri è emerso un quadro complessivo che ritrae l’immagine di due contesti nei quali si instaura una determinante relazione tra frammentazione sociale e spaziale anche in aree relativamente piccole. La frammentazione urbana sembra dunque in grado di generare fratture diverse nella forma e nella tipologia a seconda del contesto di analisi e della scala adottata, che tuttavia trovano una determinante relazione nei valori immobiliari. Dove si registrano cali considerevoli del valore degli immobili, si è generalmente in presenza di aree nelle quali la qualità della vita risulta inferiore rispetto alle zone limitrofe, generando un gap in grado di segnalare in che misura il fenomeno trovi manifestazioni in uno spazio che registra forti diversificazioni anche nelle brevi distanze. Gli ambiti nei quali sono stati osservati segni più evidenti di degrado sono risultati essere quelli nei quali trovano localizzazione i meno abbienti, mentre quelli che mostrano segni di nobilitazione e ricerca architettonica si delineano come ambiti vocati ai possessori di redditi più elevati. I valori immobiliari e gli elementi che intervengono nella loro formazione si qualificano quindi come
Bazzoli
indicatori generali in grado di restituire la tipologia di residenti presenti in una determinata area urbana.
L’indagine è stata in grado di far luce sul rapporto che si instaura tra il reddito disponibile e le scelte insediative, delineando quindi un quadro delle dinamiche localizzative dettato dalla disponibilità economica ed orientato dai valori espressi dal mercato immobiliare. Si è potuto osservare come ad una certa disponibilità reddituale corrisponda una determinata localizzazione residenziale nella quale i valori immobiliari diminuiscono al decrescere della qualità della vita e all’aumentare dei problemi di vivibilità.
Le città contemporanee si configurerebbero quindi come mosaici di spazi discontinui e diversificati nei quali bolle sociali e reddituali delimitabili spazialmente sono in grado di accomunare gruppi dal medesimo profilo sociale. Le porzioni urbane che ne conseguono risultano orientate da un mercato immobiliare che interviene nella formazione di ambiti differenziati dalla disponibilità reddituale, che molto spesso corrono il rischio di essere interessati da fenomeni di segregazione. All’interno del concetto di frammentazione urbana intervengono quindi dinamiche legate alle disuguaglianze esistenti tra i vari strati della società, che possono essere fatte risalire ad un sistema di accumulazione economica sostanzialmente ineguale. La stratificazione sociale derivante dal modello di produzione globale si manifesta nella città attraverso zonizzazioni residenziali che restituiscono l’immagine di un universo diseguale e articolato in miriadi di percorsi di sviluppo autonomi. L’estrema diversificazione sociospaziale rilevabile nei contesti urbani odierni risulterebbe quindi irreversibile, come suggerito dalla teoria in materia, solo accettando l’idea che le disuguaglianze oggi esistenti tra vari gruppi di popolazione non possano trovare delle modalità di ricomposizione in una società più egualitaria.
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I Rom e Sinti a Bolzano.
Verso il superamento dei campi nomadi?
Claudia Lintner*
1. introduzione
In apertura è opportuno fare chiarezza su alcune piccole verità. I Rom e Sinti non sono tantissimi, si parla di circa 100-110 mila persone, giunte in Italia in momenti storici diversi. Quasi la metà di esse ha meno di quindici anni e meno del 3% supera i sessant’anni. Presso queste comunità i tassi di morbilità e di mortalità sono altissimi, la scolarizzazione è bassa e irregolare, l’analfabetismo è diffuso, la disoccupazione è generalizzata (Anolf, 2011). Spesso sono definiti figli del vento, gente «che balla e canta melodie struggenti al chiaro di luna, che dorme sotto le stelle e vive alla giornata» (Monasta, 2009, p. 45). Queste sono le immagini e le proiezioni romantiche che noi, i Gagé, spesso abbiamo dei Rom e Sinti. Ma sono veramente così liberi come sono dipinti? L’immagine positiva, come ricorda Monasta (2009), richiama uno stile di vita, quello del nomadismo, che in Italia particolarmente i Sinti praticavano nel passato. Nella realtà odierna queste comunità non viaggiano più, infatti si sono da decenni sedentarizzate nel Paese, che le considera invece ancora alla stregua di perenni viaggiatori, o meglio
* Università degli Studi di Bolzano.
Claudia Lintner
‘Nomadi’. Vivono all’interno della società italiana e allo stesso tempo ne sono fuori, segregati al confine della città, nei campi-nomadi. Il presente lavoro di ricerca1 vuole offrire un quadro generale della situazione abitava dei Rom e Sinti in Italia, fissando il focus sul campo-nomadi non come espressione urbanistica, ma come strumento segregativo messo in atto da parte dell’autorità pubblica. Partendo dall’esempio concreto della città di Bolzano, l’obiettivo principale che si desidera conseguire è di capire in quali condizioni sociali e politiche e secondo quali modalità la logica dei campi nomadi possa essere superata.
2. i campi nomadi: Quando i figLi deL vento non voLano più
2.1. I Non-Luoghi
I campi nomadi si trovano «tendenzialmente […] lungo ferrovie, tangenziali, canali, discariche e cimiteri, dove gli zingari non sono visibili e il valore fondiario dei suoli è minimo» (Sagona, 2005, p. 18). Il più delle volte sono luoghi che non sono economicamente interessanti per la città, tanto da finire spesso per essere assimilabili ai non-lieux (non-luoghi), per riprendere un concetto chiave dell’antropologia di Marc Augé (1992). In altri termini, sono «spazi senza alcuna determinazione geografica, storica e umana […] svuotati di ogni riferimento per chi li attraversa. Creano smarrimento, isolamento e sono pienamente funzionali al controllo» (Monasta, 2009, p. 32). Spesso circoscritti da un recinto, questi non-luoghi sono un caso estremo di segregazione, in cui si possono riprodurre le stesse dinamiche sociali del ghetto. Lì, come evidenziano Vitale e Brembilla (2009, p. 169), «si sommano le dinamiche di riduzione delle capacità tipiche dell’habitat precario, con un basso livello di personalizzazione degli spazi, ai processi tipici dei luoghi altamente segregati e sottratti alla socialità indifferenziata della vita urbana».
2.2. I campi nomadi come co-costruzione d’emergenza
La logica dei campi nomadi non è un fatto spontaneo, ma è una ‘co-costruzione’ allo stesso tempo sociale e politica, istituzionalizzata e ritenuta ‘normale’ e ‘naturale’ dalla maggior parte della società. La segregazione spaziale di un certo
1 Il presente contributo si basa sulla tesi magistrale «Quando i figli del vento non volano più: verso il superamento dei campi nomadi – Una ricerca sulle politiche sociali e abitative per i Rom e Sinti a Bolzano», discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia nell’anno accademico 2010-2011. I risultati presentati si basano su una ricerca qualitativa condotta a Bolzano nel corso del 2010.
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gruppo di persone diventa dunque, agli occhi di chi sta fuori, un’espressione di un certo stile di vita e di una determinata tradizione culturale. Si tratta fondamentalmente, per ricorrere alle parole di Somma (1991, pp. 17-18), di una «forma istituzionalizzata di distanza sociale che si esprime nella separazione fisica, definisce i confini tra i gruppi, li localizza nella gerarchia e ne regola l’interazione». Facendo riferimento a Sigona (2007), tre sono gli elementi che costruiscono, alimentano e riproducono costantemente la logica dei campi nomadi: i pregiudizi, gli stereotipi e le politiche. Il loro intreccio rende il campo uno dei più potenti strumenti dell’azione pubblica. Di fatto, come afferma Cuomo (2006), per i Rom e Sinti vige l’apartheid. Tutta la legislazione in materia, e quindi anche le politiche sociali che riguardano queste comunità, è influenzata dai pregiudizi e dagli stereotipi esistenti: «Un bambino zingaro cresce così, sotto questo sguardo, in queste condizioni, in questo clima di fastidio, diffidenza, disprezzo. Nell’apartheid […] ed è questo che partorisce anomia» (Cuomo, 2006, p. 62). Inteso così, l’apartheid non è solo territoriale e comportamentale, ma diventa anche apartheid cognitivo: «Segreghiamo i Rom e Sinti nelle periferie oscure della nostra ignoranza per farli riaffiorare nei luoghi mitologici delle nostre paure» (Cuomo, 2006, p. 63), facendoli così diventare le nostre ombre (Giasanti, 2006, p. 50).
In questi non-luoghi i diritti, in particolare il diritto di scelta, diventano fantasmi. Molto spesso non sono loro, ma è la società in cui vivono che sceglie per loro il modo ‘appropriato’ per vivere. La società con politiche abitative di emergenza (nient’altro che questo sono infatti i campi nomadi) impone la scelta abitativa. Spesso, questa cosiddetta ‘scelta’ va di pari passo con le esigenze di ordine pubblico e di pubblica sicurezza proprie dei gagè, come hanno dimostrato e dimostrano ancora gli interventi di sgombero dei campi nomadi o degli insediamenti abusivi in tutta l’Italia. Lo sgombero, un altro strumento dell’azione pubblica basato su di una politica di controllo e d’emergenza, proprio come il campo nomadi, non risolve il problema in sé, ma lo perpetua ciclicamente. Infatti, affermano con ragione Vitale e Brembilla (2009, p. 171): «I campi nomadi e sgomberi sono due facce della stessa politica. […] Sono effetti per nulla paradossali, ma ben prevedibili. Politiche fatte per separare e allontanare, finiscono col produrre più conflitti di quanti ne possano prevenire». Di conseguenza, viene curato il sintomo, ma non eliminata la causa del problema. Poiché il problema fondamentale non sono tanto i campi nomadi, nati come contenitori temporanei di umanità e divenuti produttori permanenti di disagio e criminalità, ma le politiche retrostanti, che hanno prodotto e mantenuto nel tempo i campi come soluzione abitativa, «dando forma a quella tipica ospitalità conflittuale, che relega la diversità entro recinti di alterità, ai limiti stessi del visibile» (Saletti Salza e Piasere, 2008, p. 106).
Da quanto finora precisato, quello dei Rom e Sinti è un caso di «specialismo esclusionario» (Tosi, 2008, p. 79). È cioè un trattamento speciale e nello stesso momento esclusivo, che si manifesta soprattutto nell’invenzione di una politica abitativa di emergenza. «Il trattamento speciale ed esclusivo viene visto come un
Claudia Lintner
segno della riduzione dell’abitare e della cittadinanza stessa» (Tosi, 2008, p. 79). Quello che l’autore ritiene fondamentale è un lavoro di articolazione e d’integrazione delle misure specifiche indirizzate a questo gruppo nell’ambito delle misure comuni, evitando la separatezza che porta alla negazione dei loro diritti fondamentali. Si tratta principalmente di un lavoro di costruzione e decostruzione della questione che chiama in causa non solo le politiche, ma anche le logiche amministrative e di gestione.
2.3. Quali politiche?
Come superare una politica basata unicamente sui fattori del controllo, dell’emergenza e della segregazione e promuovere, invece, una politica partecipata, di avvicinamento, che tenda al superamento della logica dei campi? Questa è una domanda centrale, alla quale vari esperti cercano di dare una risposta (Solimano, 1996; Bezzecchi et al., 2008), ma che, tuttavia, si scontra con varie difficoltà: il clima culturale ‘perbenista’ diffuso, l’atteggiamento collettivo anti-Rom e antiSinti e la difficoltà di riconoscere ed accettare modi d’abitare diversi dal nostro («pensare case diverse» in Vitale, 2009, p. 75). Prima di progettare modalità di insediamenti alternativi, bisogna tornare alla radice del problema, in altre parole rifiutare il principio che ad una popolazione possa essere assegnata una certa forma dell’abitare (Tosi, 2008). Questo implica innanzitutto riconoscere la pluralità e l’eterogeneità dei modi di vivere non solo tra «noi» e «loro», ma anche all’interno dello stesso gruppo. Qualsiasi «formula abitativa» diventa, così, «applicabile e nessuna generalizzabile» (Tosi, 2011, p. 796). Sembra doveroso sottolineare come sia compito delle amministrazioni pubbliche locali esercitare un ruolo decisivo nel rispondere alla domanda del superamento dei campi nomadi. Infatti, nella maggior parte dei casi, le amministrazioni cercano di offrire soluzioni senza prendere in considerazione le risorse e le capacità che i Rom e Sinti possono avere, trattandoli non come soggetti autonomi ma come individui meramente eterodiretti, che possono solo, o addirittura devono, sottostare a decisioni imposte dall’esterno. Sotto questo punto di vista, anche le amministrazioni dovrebbero cambiare atteggiamento, contribuendo positivamente alla risoluzione della questione mediante la differenziazione delle politiche (Tosi, 2008 e 2011). Come afferma Paba (2000, p. 183), «nella città colorata, multietnica e sociodiversa, nel mondo delle mille cittadinanze, e in particolare nel sottomondo dell’esclusione e della marginalità sociale, la necessità di politiche partecipative raffinate e sensibili, di politiche “molto sociali”, diventa decisiva». A proposito di nuove politiche sociali, sta assumendo una crescente rilevanza l’approccio teso a valutare le organizzazioni e i servizi non più come strutture e macchine, bensì come processi orientati a generare relazioni sociali, in grado di valorizzare il coinvolgimento dei diretti interessati (De Leonardis, 2001). Questo recente approccio è caratterizzato da diversi aspetti che sono attributi dei servizi stessi, come la permeabilità,
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la flessibilità, la diversificazione, l’ascolto, il coinvolgimento e l’accessibilità. Per avere una certa apertura al territorio, l’interazione tra servizio e spazio/territorio è indispensabile (Bifulco, 2003). Il doppio movimento ‘entrare dentro e uscire fuori’ fa sì che, da una parte, le porte dei servizi vengano aperte per fare entrare la vita sociale, coinvolgendo le capacità dei diretti interessati, e, dall’altra, che i servizi escano nei contesti della vita sociale a sostenerne la condizione di inclusione sociale. Si parla quindi di processi che riescono a far incontrare su uno stesso livello, all’interno di un preciso territorio, i servizi e i cittadini. Soprattutto per quanto riguarda le politiche abitative per i Rom e Sinti, la distanza tra chi decide e i destinatari del progetto è spesso enorme. Si cerca, comunemente, di liquidare il problema in fretta, senza adeguatamente affrontarlo. E così, prevale l’emergenza sulla pianificazione. Il vero problema, come sottolinea Monasta (2009), è quindi la mancanza assoluta, in alcuni casi, del riconoscimento della necessaria partecipazione dei diretti interessati e l’assenza della costruzione di un reale percorso condiviso.
3. rom e sinti: iL caso di BoLzano
Bolzano è forse il luogo in Italia dove la difficile convivenza tra diversi gruppi etnici si è fatta sentire di più nella storia del ’900, dalla fase della dittatura fascista al terrorismo sudtirolese. I confini che attraversano Bolzano non sono solo simbolici e linguistici, ma si riflettono nella composizione spaziale dei quartieri. All’interno di questo contesto pluriculturale e plurilinguistico si trovano i due campi più grandi dell’Alto Adige: il campo dei Rom si trova a Firmiano, su una collina alla periferia della città; quello dei Sinti si trova presso lo snodo di strade ad alta velocità a sud del capoluogo, ed è noto nella zona con il nome La Spaghettata.
3.1. Il “campo grande” dei Rom
Era un giorno freddissimo di gennaio (2010), il sole stava per tramontare e la temperatura era scesa a -12 gradi. La notte precedente l’acqua all’interno dei tubi del bagno si era ghiacciata. Dopo che qualcuno del campo aveva buttato un secchio d’acqua calda dentro un water, i tubi si erano rotti completamente. In seguito, le famiglie sono rimaste senz’acqua per tre giorni. Nessuna di esse ha l’acqua corrente in casa: «Scommetto che siamo gli unici a Bolzano che vivono senz’acqua in casa! ». A.L.2 (2010) forse ha ragione. «È una vergogna [indicando
2 Per garantire l’anonimato delle persone intervistate, i loro nomi e cognomi sono sostituiti con l’abbreviazione di uno pseudonimo. Le interviste citate nell’articolo sono state realizzate a Bolzano da parte della scrivente tra il settembre 2009 e il febbraio 2010.
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i box bagno in mezzo al campo], guarda, non parliamo più, non si può capire» (P.D., 2010). La piazzola è asfaltata ed è divisa in trenta piazzole più piccole, sulle quali ogni nucleo ha costruito la propria casa di legno intorno alla roulotte già posseduta. La costruzione di queste abitazioni più stabili non era stata autorizzata dalle autorità competenti, ma è stata comunque tollerata. «Durante l’estate fino a settembre si sta anche bene, ma poi quando viene l’inverno fa freddissimo […]. Ho cercato di isolare la mia casa di più, ho messo il legno, l’isolamento, poi di nuovo legno e alla fine ancora un altro strato di legno, ma fa comunque freddo, non so come fare» (T.D, 2009).
Il campo grande dei Rom è stato costruito nel 1996, autorizzato dal Comune di Bolzano, per circa ventisette nuclei familiari. La collina sulla quale esso sorge è situata a circa nove chilometri dal centro urbano, e si raggiunge percorrendo una stradina secondaria. Il campo è collocato in un’area che a lungo è stata utilizzata come discarica di rifiuti altamente tossici. Nel 1996 la montagna di rifiuti è stata semplicemente coperta in breve tempo e l’area è stata adibita a insediamento. All’inizio della sua costruzione, il campo era niente più che una piazzola non asfaltata con sei box bagno, dove le famiglie potevano collocare la propria roulotte. Dopo il 1999, il Comune di Bolzano ha iniziato sostanziali lavori di ristrutturazione dell’area, considerandola non del tutto funzionale. I box bagno, per esempio, sono al centro dello spazio e lontano dalle abitazioni, che sono disposte lungo i lati dell’insediamento (Città di Bolzano e Fondazione Giovanni Micchelucci, 2005; Hüller e Abbadessa, 2008). Questa disposizione crea problemi soprattutto per gli anziani e per i bambini, che si trovano costretti ad uscire dall’abitazione tutte le volte che vogliano recarsi ai servizi. «Le casette attorno e i bagni allineati al centro, totem di disprezzo», è il commento di Monasta (2009, p. 36) sulla situazione del campo di Bolzano. Gli abitanti del campo provengono da situazioni abitative di stanzialità, in quanto in precedenza, prima di arrivare in Italia, vivevano in alloggi in muratura. Il vivere in una roulotte rappresenta per loro una situazione estrema, sconosciuta, estranea e lontana della loro idea di abitare. «I Rom sono diventati Nomadi, perché l’abbiamo deciso noi! E quando si sono trovati nel campo ovviamente hanno cercato di ricreare subito quella che era la loro situazione fuori, con tutti i limiti, ad esempio le problematiche sanitarie» (G.D, 2010). Ed è anche per questo che il desiderio manifestato dalla maggioranza delle famiglie che vivono ancora nel campo è di lasciarlo al più presto e di trasferirsi in un appartamento privato o in uno dei complessi cittadini di edilizia popolare dell’IPES (Istituto per l’edilizia sociale).
3.2.
Il campo per i Sinti, inaugurato nel 1997, non ha tanto a che fare con un villaggio (come spesso vengono chiamati i due campi nomadi a Bolzano dalle autorità comunali), ma è un vero e proprio campo nomadi che rispecchia le ca-
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ratteristiche di quello che Brunello (1996) chiama «l’urbanistica del disprezzo». Il campo sorge a Bolzano sud, all’interno dell’allacciamento tra l’Autostrada del Brennero e la statale che collega la città di Merano con il capoluogo (l’arteria MeBo), in una strettoia nota con il nome la Spaghettata. Come lascia intendere la denominazione, è un posto dove non si fa differenza tra famiglie, culture e appartenenze, ma è un luogo dove tutti i Sinti (di culture e provenienze diverse) sono stati riuniti e mescolati in uno spazio angusto: «Il campo sosta, come ad esempio quello alla Spaghettata, raggruppa i Nomadi senza tener conto delle loro modalità di aggregazione» (S.I., 2010). Un fatto che crea significativi problemi di tipo culturale e sociale all’interno dello stesso campo. Anche per questo la situazione tra le famiglie si è fatta sempre più tesa, così che nel 2009 i gestori ufficiali del Comune si sono ritirati e il campo è diventato luogo di nessuno. Infatti, da quando la situazione è peggiorata, e viene considerata da tutte le operatrici sociali come realtà sempre più pericolosa, il Comune non parla più di un superamento del campo, ossia di cercare soluzioni ad esso alternative. Come si è visto, i due campi presenti a Bolzano hanno una localizzazione che è la diretta espressione spaziale della marginalità sociale a cui i Rom e Sinti sono costretti da parte della società altoatesina. I due campi hanno confini visibili in quanto entrambi sono circondati da una recinzione. Rendere visibile la marginalità, definendo materialmente la segregazione con un recinto, è un’azione che parte dall’idea di generare uno spazio e allo stesso tempo di controllarlo. Lo spazio recintato diventa così un’azione urbanistica e di organizzazione del territorio, «significa inventare un ambito e racchiuderlo, circoscriverlo attraverso elementi che ne mettono in evidenza la sua dimensione, la sua forma, le sue funzioni. Vuol dire anche rendere chiaramente riconoscibile sia gli elementi che vi appartengono, sia quelli che vi rimangono esclusi» (Zanini, 1997, p. 75).
3.3. Pensare ad alternative: appartamenti e microaree
A Bolzano, la maggior parte dei Sinti che si è trasferita negli appartamenti in città vive nel quartiere periferico di Don Bosco. Questo quartiere propone particolari caratteristiche dovute alla presenza di un elevato numero di immobili frutto di interventi di edilizia sociale. La loro costruzione è avvenuta negli anni Novanta del secolo scorso e ha stravolto tanto la precedente morfologia del territorio quanto la composizione dei vecchi residenti. L’edificazione di case popolari ha comportato una fortissima concentrazione di situazioni familiari estremamente delicata dal punto di vista sociale. La maggior parte dei Rom e Sinti che abitano in appartamenti vive nelle strade principali di questo quartiere: via Sassari, via Alessandria e Via Cagliari, denominate dai Sinti stessi ‘le strade degli Zingari’. La segregazione abitativa definita per classi sociali e per etnia è ormai diventata un fenomeno diffuso nella maggior parte delle città italiane, ed è accresciuta dalla crisi della politica nazionale degli alloggi che va colpendo sempre più
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la parte più debole della popolazione. Questa politica urbanistica, che concentra le case popolari in quartieri ben definiti, è un fenomeno che nega il diritto ad un habitat inclusivo e quindi nega il diritto alla inclusione nel contesto urbano (Cammarota et al., 2009). In questo senso si può affermare che in qualche modo l’emarginazione si autosviluppa, poiché allontana i soggetti meno svantaggiati e avvicina quelli socialmente più vulnerabili.
Tra i Sinti, la decisione di andare a vivere in appartamenti è a volte sentita come la scelta del male minore rispetto alla vita nel campo. Ma la maggior parte di loro, soprattutto i più anziani, che tanto tempo ha vissuto nelle roulotte ed è abituata a vivere all’aperto e non rinchiusa tra quattro mura, esprime il desiderio di vivere in una microarea, o comunque di fruire di una soluzione abitativa alternativa che sia più vicina alla sua idea di abitare. Alcuni giovani Sinti, invece, decidono spesso di andare a vivere in appartamenti, o di rimanerci, anche perché tanti di loro non la conoscono neppure la vita tradizionale sinta. Il loro modello di vita originario si rispecchia nelle cosiddette microaree: «I nostri posti si trovano alla periferia della città, vicino al bosco o ai prati vicino la città. Lì ci sono i Sintengri Placi, i luoghi dei Sinti. Il campo nomadi non è stato fatto a posta per i Sinti, né la posizione né l’attrezzatura corrispondono alle nostre necessità e alle nostre idee» (Tauber, 2005, pp. 182-183). Questi Sintengri Placi si trovano interamente fuori città e staccati dalle zone abitative dei Gagé; sono però situati vicino o in mezzo a zone verdi, che per i Sinti hanno un particolare significato. Quello che è importante nell’individuazione dei Sintengri Place è che si trovino degli spazi dignitosi che rispecchino il loro modo tradizionale di abitare (Tauber, 2005). In tal senso, anche il Comune di Bolzano ha progettato un piano di intervento pilota, nel quale per la prima volta hanno potuto dialogare urbanisti, operatori sociali e diretti interessati; l’iter di applicazione del piano è stato bloccato però nel 2010 da un vuoto normativo, e non è stato purtroppo ancora riavviato (2012). «Verrebbero realizzate dal Comune, ma noi pagheremmo l’affitto, tutti gli allacciamenti e non ci sarebbero i costi di gestione dei campi» (P.G, 2010). Come dimostra lo schizzo (Fig. 1), si tratta di case stanziali per una famiglia allargata con un’idea di libertà (roulotte) e autogestione – un desiderio illusorio per il futuro?
3.4. Situazione abitativa e servizi sociali
Appare evidente che il modo d’abitare ha conseguenze pratiche per la vita sociale, poiché determina a quale servizio sociale le comunità si devono rivolgere. I Rom presenti in Alto Adige, e in particolare a Bolzano, sono immigrati o profughi, e quindi i servizi per gli immigrati valgono anche per loro; d’altro canto, sono Rom e godono di un servizio specifico creato per loro in quanto ‘Nomadi’. Per i Sinti vale la stessa cosa, sono contemporaneamente considerati cittadini italiani e ‘Zingari/Nomadi’. Spesso i servizi rivolti a queste minoranze danno l’impressione di conformarsi ai pregiudizi e agli stereotipi esistenti, piuttosto di
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Fig. 1 – Schizzo di una microarea (Gabrielli, Bolzano, 2010).
cercare di superarli per favorire una miglior integrazione dei Rom e Sinti. Basta, infatti, compiere una piccola ricerca in Internet sui servizi rivolti ai Sinti e Rom in Italia per scoprire le denominazioni che a questi servizi sono attribuite. Si parla di «Servizio Nomadi», «Servizi Extracomunitari e Nomadi», «Servizio d’Immigrazione e Nomadi» oppure, come è il caso di Bolzano, «Servizio d’Integrazione Sociale: Sinti e Rom Nomadi». La presenza di questi servizi in tante città italiane dimostra come sia radicata questa percezione e come ciò porti a una situazione di discriminazione e di segregazione (Piasere, 2004).
La particolarità a Bolzano è che il servizio d’«Integrazione sociale: Rom e Sinti Nomadi» (SIS) non è rivolto a tutti i Rom e Sinti presenti nella città, ma solo a quelli che vivono nei due campi. Gli altri, quelli che vivono negli appartamenti in città, si devono rivolgere ai ‘normali’ distretti sociali di pertinenza del quartiere. Si nota quindi che il servizio non si orienta alle persone, ma all’abitazione o al luogo di residenza di una persona. C’è quindi una stretta correlazione tra la prestazione dei servizi e l’abitazione delle persone. Vivendo in una situazione di emergenza, gli abitanti dei campi vengono considerati persone non ancora ‘integrate’ e quindi si devono rivolgere al servizio che si occupa particolarmente di queste realtà ai margini della società. «Chi vive al villaggio se cerca un assistente sociale, si deve rivolgere al SIS. Quindi è uno “non integrato” nella logica dell’azienda sociale, se invece vanno negli appartamenti nei quartieri di Bolzano, devono rivolgersi al distretto del quartiere. Cioè una volta che vivono a Bolzano sono integrati» (E.R., 2010). Le famiglie che oggi vivono ancora nei campi sono costrette a vivere in una situazione, come viene definita da un’educatrice sociale, «anomala» per cui, «vengono trattati in modo anomalo» (E.T., 2010). Si nota, quindi, che il cosiddetto ‘problema Nomadi’ è stato istituzionalizzato e riprodotto quotidianamente da parte delle amministrazioni pubbliche, trasmettendo così un’immagine del tutto distorta della realtà dei Rom e Sinti.
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4. rifLessioni concLusive
Le attuali politiche della maggior parte delle città italiane non si basano su un approccio partecipato. Al contrario, da uno studio comparativo (Vitale, 2009) emerge un quadro preciso di politica locale che spesso viene seguita nelle città: in primis, si usa in modo indiscriminato la categoria ‘Nomadi’, la quale tende perciò a comprendere gruppi assai eterogenei tra loro. In seconda istanza, si usa una connotazione etnica che separa nettamente questi gruppi dal resto della popolazione, anche sul piano morale. Si nega inoltre la possibilità d’interlocuzione, che si dovrebbe fondare sul riconoscimento di una rappresentanza legittima. La riduzione degli strumenti di azione pubblica, così come una forte segregazione spaziale degli insediamenti abitativi predisposti, sono altri elementi che caratterizzano le politiche locali. Piuttosto di ridurre la distanza tra ‘noi’ e ‘loro’, tali politiche si muovono spesso su questa linea e tendono quindi a rinforzarla.
Superare i campi nomadi rappresenta un obiettivo che non può essere raggiunto solo attraverso una risposta urbanistica, ma per il quale devono essere attuate politiche positive che includano sia gli attori urbanistici sia gli attori sociali. Le crescenti difficoltà derivanti dalle condizioni di contesto rischiano di confermare l’atteggiamento dominante e di incoraggiare comportamenti che lo peggiorano progressivamente: oggi l’allarme sicurezza, che amplifica il rifiuto nei confronti di Rom e Sinti, spinge le amministrazioni a interventi incentrati su obiettivi di mero controllo e nel migliore dei casi legittima i tradizionali interventi in termini di emergenza. Si tratta dunque di progettare e gestire un processo di accoglienza, che garantisca occasioni concrete per un armonico e rispettoso inserimento sociale.
A Bolzano, oltre a pensare ad insediamenti alternativi, occorre includere nelle politiche di tipo abitative le politiche sociali. Questo vuol dire innanzitutto dar vita a uno specifico progetto basato contemporaneamente sulla scolarizzazione assistita e generalizzata dei minori, sull’alfabetizzazione di base degli adulti e sulla promozione del recupero delle culture materiali tradizionali. Occorre un progetto efficace per l’integrazione reale di Rom e Sinti nel mercato del lavoro e una promozione dei loro mestieri tradizionali (Città di Bolzano e Fondazione Giovanni Micchelucci, 2005).
Il processo di superamento dei campi nomadi è un’azione che si deve basare sulla decostruzione dell’intreccio tra marginalità ed isolamento, pregiudizio, rifiuto e devianza, che deve includere vari soggetti: i politici, le amministrazioni, i servizi sociali, i diretti interessati e, infine, tutta la comunità cittadina. Questo processo di riconoscimento dovrebbe iniziare con il rendere visibile i Rom e Sinti anche spazialmente, attraverso l’accettazione della loro idea di abitare, poiché «la casa è il punto di partenza, non è un punto d’arrivo» (F.L., 2010).
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56. Gamberoni E., Pistocchi F., L’Africa occidentale. Ritratto di un’Africa che cambia
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58. Cannizzaro S. (a cura di), Per una geografia del turismo. Ricerche e casi studio in Italia
59. Bonfiglioli S., La geografia di Egnazio Danti. Il sapere corografico a Bologna nell'età della Controriforma
60. Bagliani M., Pietta A., Territorio e sostenibilità: gli indicatori ambientali in geografia
61. Giuliani-Balestrino M.C., Dolce-amara terra. Il mio giro del Mondo
62. Krasna F. (a cura di), Migrazioni di ieri e di oggi. In cammino verso una nuova società tra integrazione, sviluppo e globalizzazione
63. Incani Carta C., Geografia e cultura. Temi problematiche riflessioni
64. Cassi L., Meini C. (a cura di), Fenomeni migratori e processi di interazione culturale in Toscana
65. Cannizzaro S., Corinto G.L., Paesaggio in Sicilia. Dialogo territoriale ed episodi paesaggistici
66. De Rubertis S., Spazio e sviluppo nelle politiche per il Mezzogiorno. Il caso della programmazione integrata in Puglia
67. Madau C., Entro i limiti del nostro pianeta. Teorie e politiche della questione ambientale
68. Bianchetti A., Guaran A. (a cura di), Sguardi sul mondo. Letture di geografia sociale
69. Famoso N., La geografia delle città d’Italia. Resoconti dei viaggiatori francesi del Grand Tour
DELLO SVILUPPO TERRITORIALE
Collana diretta da Roberto Bernardi
Viaggi e viaggiatori
1. Ferro G. (a cura di), L’emigrazione nelle Americhe dalla Provincia di Genova. Questioni generali e introduttive
2. Ferro G. (a cura di), L’emigrazione nelle Americhe dalla Provincia di Genova. La parte occidentale della Provincia e il capoluogo
3. Ferro G. (a cura di), L’emigrazione nelle Americhe dalla Provincia di Genova. La parte orientale della provincia
4. Maiello A. (a cura di), L’emigrazione nelle Americhe dalla Provincia di Genova. Questioni di storia sociale
5. Betta P. (a cura di), La scoperta e la conquista del Perù