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Roberto Mc Cormick, La casa sul retro

La casa sul retro

di Roberto Mc Cormick

Dapprima ho contato sette cicatrici rosa. Ma ne mancavano due. Erano nove, in realtà. Davanti a me avevo nove cicatrici tonde. Alcune sembravano fissarmi.

Sono sempre stato affascinato dalla casa sul retro. Prima di tutto perché è una casa indipendente. Qui nel quartiere quasi tutti vivono in appartamento. Il mio è al quinto piano e affaccia sulla spaziosa costruzione a due piani alle spalle del palazzo.

E poi la casa è un'isola. Dista settantacinque metri dalla strada principale ed è circondata da quattro caseggiati. Il mio dà sulla porta d'ingresso della casa. A sinistra, due palazzi di sei piani si ergono su una presunta entrata secondaria. Dal cancello d'ingresso parte un lungo vialetto a lastroni compatti di pietra grigia che a un certo punto si dirama per raggiungere le due porte. A destra, un altro palazzo ancora più alto guarda con invidia quell'isolotto di vita domestica. Sul retro, un muro di mattoni protegge un imponente poliedro. Tre grandi lettere rosse si stagliano sulla facciata della fortezza: RSI. Fino a poco tempo fa, le lettere erano per lo più nascoste dai folti rami di un abete maestoso che sorge nel giardino della casa.

A una cinquantina di metri dalla strada principale, dopo uno stretto marciapiede, c'è un cancello di ferro che delimita il giardino. A destra un tozzo pilastro di cemento mostra con orgoglio il numero civico: 79. Oltre l'imponente cancello, si vedono due grandi cassette della posta; sono rettangolari e di metallo, ormai consunte dal tempo. Il postino ci infila le lettere allungando la mano tra le sbarre del cancello.

Circa a metà strada dall'ingresso secondario, i proprietari hanno voluto un giardino giapponese. Lì, sulla sinistra del vialetto e proprio di fronte a un trio di palme rigogliose, è stata fatta un'aggiunta: un lungo palo nero incoronato da una lampada bicefala che con le sue sfere di luce illumina le due metà del vialetto. Ufficialmente le due lampade servono a fare luce per chi arriva tardi, ma senza dubbio sono state pensate anche per dissuadere i ladri.

Pur essendo già vagamente a conoscenza degli spostamenti dei due residenti - era inevitabile stando affacciati alla finestra - dopo che la

lampada è stata montata sono diventato ancora più conscio della presenza dei miei vicini. Prima di tutto ci è voluto del tempo per installarla, il che ha comportato la presenza di molti operai loquaci e di altrettanti supervisori che gironzolavano nei paraggi, fumando una sigaretta via l'altra. E non parliamo poi della seccatura dopo che si è messa a funzionare. Le luci erano a dir poco accecanti e, oltre a illuminare il vialetto, proiettavano dei raggi luminosi che arrivavano su fino al mio appartamento, proprio nelle ore in cui avrei voluto stare nel buio più totale, visto che ho il sonno leggero.

Ma la luce si è rivelata un problema secondario rispetto al rumore. In teoria la lampada bicefala era stata programmata per spegnersi in automatico nelle prime ore del mattino. Tuttavia, ed è questa la ragione che mi ha reso così conscio della casa sul retro, il meccanismo era difettoso e, oltre a non spegnersi, faceva un lamento insopportabile, talmente forte che appena cominciava mi svegliavo di colpo. Mi sono chiesto varie volte se gli inquilini - che credevo fossero anche i proprietari - fossero duri d'orecchio o se invece avrebbero perso troppo tempo a chiamare qualcuno per risolvere il problema.

La casa di per sé non è cambiata molto in questi anni. Almeno non da fuori. A un certo punto hanno deciso di tingere i muri di un bianco brillante che persiste tuttora. Hanno anche fatto riparare il tetto, hanno montato nuove grondaie scintillanti color rame e hanno sostituito i tubi di scolo. Pure in quel caso il lavoro è stato lungo: gli operai stavano sul tetto, quasi alla mia altezza, e urlavano l'uno all'altro mentre versavano il catrame, riposizionavano le tegole e martellavano sulle grondaie rilucenti.

Dei due inquilini, la moglie era quella che passava più tempo fuori. Ogni tanto marito e moglie uscivano insieme, incedendo lenti dall'ingresso al cancello sul vialetto grigio, ma raramente ho visto il marito al di fuori dei confini cintati della loro proprietà. Non usciva nemmeno per prendere la posta. A quanto pare, era un mestiere da donne. Forse faceva fatica a muoversi.

Però gli piaceva molto stare in giardino a giocare con il loro collie: gli lanciava in aria una pallina da tennis e lui, abbaiando eccitato, in un balzo la afferrava con i denti. Poi il cane depositava la pallina tanto agognata ai piedi del padrone e abbaiava di nuovo, implorandolo di continuare. A volte era la moglie a rilanciare la palla per placare in anticipo l'abbaio. E poco a poco ha assunto un ruolo predominante, perché più il marito si faceva vecchio, meno interagiva con il cane.

A dire il vero, l'unico ricordo indelebile che ho di lui è un flash fugace in cui è steso supino su una barella, la faccia coperta da una maschera per l'ossigeno; i medici lo portano via in fretta, attraversano il cancello di ferro e lo caricano sull'ambulanza che li aspetta in via Besso.

Dopo quella scena frenetica vista per caso, non l'ho più visto. Sono rimasti soltanto la moglie e il cane. A volte nelle vacanze sono venuti degli ospiti tedeschi ben vestiti - forse qualche parente - ma non si sono mai fermati a lungo. Riguardo al collie, da quando il padrone era sparito, sembrava che non gli piacesse più tanto giocare con la palla da tennis. Aveva anche perso elasticità e si trascinava le zampe mentre accompagnava la padrona a controllare se c'era posta. A volte lei gli lanciava la pallina, ma essendo ingrassato, non era più così divertente saltare e prenderla. Poi non ho visto più nemmeno lui.

Mi vergogno di non avere mai scambiato una parola con la proprietaria, che all'inizio mi limitavo a osservare dalla mia posizione privilegiata. Immagino che anche lei mi riconoscesse, perché a volte nel primo pomeriggio mi crogiolavo al sole o perché innaffiavo le piante sul balcone. Dato che la casa era quasi del tutto nascosta da quell'albero sempreverde, la vedevo solo quando era in giardino. Il che, dopo la morte del collie, capitava sempre meno di frequente. In ogni caso, un'ora prima del pranzo la proprietaria usciva con le chiavi in mano, in contemporanea con Dea che vive in un appartamento di proprietà sopra di me, e attraversava il vialetto diretta al cancello per andare a vedere se c'era la posta.

Di tanto in tanto faceva una capatina al supermercato di fronte a casa, lo stesso in cui vado io. Per qualche ragione - forse perché non volevo ammettere pubblicamente che eravamo vicini - le prime volte che ci siamo incontrati, non le ho rivolto la parola. "Non ci siamo mai presentati" mugugnavo piano tra me e me per giustificarmi. O forse non ero sicuro di come avremmo potuto rapportarci. Come vicini? Come acquirenti in cerca di un affare? Come appassionati di giardinaggio? O perché avevamo lo stesso colore di capelli? Non ero nemmeno sicuro che parlasse italiano, visto che il marito, come quei rari ospiti, sembrava di origini tedesche. In genere, di ritorno dal supermercato dove non ricordo di averla vista interagire con altri clienti o con il personale, come invece piace fare a me - rientrava da un cancello secondario sulla destra che non riuscivo a vedere dalla mia prospettiva.

Si occupava molto del giardino, però, e lì riuscivo sempre a vederla, perché era dal mio lato del sempreverde. Aveva anche dei giardinieri che venivano a potare le siepi, a pulire le aiuole e una volta ogni tanto

tagliavano i rami più pesanti dell'abete maestoso, l'epicentro del giardino. Il giardino giapponese intorno alle luci bicefale aveva soppiantato buona parte della vegetazione: al posto dell'erba avevano posato un'enorme copertura di plastica nera su cui erano stati svuotati interi sacchi di iuta pieni di sassolini. Senza i fiori e i cespugli, era più facile per la padrona di casa tenere il giardino, anche perché non doveva più strappare le erbacce o innaffiarlo d'estate. Hanno anche piantato un pero e dei piccoli abeti e hanno creato dei vasi di legno per le fragole. Ma dopo un paio di anni di scarso successo, il pergolato del pero è stato smantellato. Ancora adesso i pali di legno sono accatastati contro il muretto di pietra che segna il confine dei pomodori. Con quelli è andata meglio, ma non molto tempo fa lei ha lasciato perdere l'orto del tutto. Forse prendersene cura era diventato troppo faticoso.

Spesso mi ritrovavo a guardarla mentre faceva giardinaggio, sia per curiosità sia perché assumeva una posa unica. Quando, per esempio, si chinava a raccogliere le fragole, le gambe, incapaci di flettersi, restavano rigidissime. Quando potava i fiori, e soprattutto quando strappava le erbacce dalle fessure tra le pietre del vialetto, piegava il busto e cominciava a estirpare gli intrusi a mano, sempre con le gambe drittissime. Così facendo, metteva in bella mostra il sedere - un promontorio rivolto al cielo.

Poi un giorno, all'improvviso, un uomo vecchio e distinto con due strisce di vivaci capelli bianchi intorno alla testa rosea ha cominciato a venire a suonare al cancello. Ogni tanto l'ho vista attraversare il giardino per un'uscita domenicale con quel signore distinto ma un po' troppo elegante. Dopo qualche visita, Dea ha detto che tutto quello che succedeva al di là del cancello era meglio di una telenovela - ed era pure gratis! In ogni caso, prima di andare a fare due passi, i due si fermavano a parlare, ma non troppo e mai a voce alta - in effetti sembrava che avessero un rapporto cordiale ma un po' sostenuto. Non ricordo di averli mai visti tenersi per mano o ridere, ma sarà pur successo qualche volta. Ricordo però che un giorno sul viso di lei è comparso un sorriso radioso. Non so se fosse per la rigida formalità di lui o per l'imbarazzo che c'era tra loro, ma per quanto infondata come ipotesi, sembrava quasi che quel galantuomo fosse stato assunto come accompagnatore. Ad ogni modo, per un po' hanno continuato a uscire.

Gli ultimi arrivati sono i custodi. Prima che si trasferissero, gli operai hanno fatto un sacco di lavori in casa. A giudicare dai rumori, hanno buttato giù i muri e ne hanno costruiti altri, poi hanno piallato le porte in giardino per farcele entrare di nuovo. Ho pensato che avessero divi-

so la casa in due unità, o forse anche di più. Hanno fatto i lavori d'estate, magari in previsione del ritorno della proprietaria, in autunno. Ma l'autunno è arrivato, lei no.

Più volte ho visto in giardino giovani agenti immobiliari che, con grande professionalità, illustravano ai possibili acquirenti i punti di forza della casa appena ristrutturata. Anche stamattina c'era un gruppetto a vederla. Francamente, non capisco proprio perché una coppia, giovane o vecchia, dovrebbe volere comprare o anche solo affittare quel pezzo di terra solitario con quattro condomini pieni di curiosi che svettano tutt'intorno. Eppure, stando a quanto mi ha detto Dea, pare che una donna di carnagione scura sulla cinquantina abbia preso residenza nella casa: è una custode, più che un'inquilina; parla spagnolo e ha una figlia piccola, mulatta, che lascia sempre la bici bianca e rossa contro la facciata.

Di giorno la custode lavora e al mattino accompagna la figlia alla scuola elementare, con il suo zaino di libri pesanti retto sulle giovani spalle. A volte resta a casa e accoglie i giardinieri, che a fine novembre stanno ancora potando, gli elettricisti, venuti per montare nuove lampade notturne, o gli operai, che intorno a questo periodo dell'anno vengono sempre a riempire l'impianto di riscaldamento prima che arrivi l'inverno. Per ultimi sono venuti i potatori a occuparsi del sempreverde.

Una volta Dea mi ha detto che moriva di paura all'idea che quell'abete gigantesco, con i rami che superano in statura persino i quattro condomini circostanti, durante un forte temporale avrebbe potuto cedere e cadere sul suo soppalco. L'idea non mi aveva mai sfiorato e il timore mi è parso eccessivo. In fondo, ho buone ragioni per credere che Dea sia una donna paurosa. Lei però ci ha tenuto a esprimere le sue preoccupazioni anche all'ufficio dell'amministratore.

Non so se abbiano avuto paura anche loro o se i proprietari si siano allarmati per le possibili ripercussioni legali, ma a inizio autunno abbiamo ricevuto due circolari in cui ci informavano che la forestale cantonale sarebbe venuta a "sistemare" quella torre d'albero sul retro. Oltre a specificare i giorni e gli orari, i mittenti delle circolari si scusavano in anticipo per il disturbo che l'elicottero avrebbe causato.

Il primo giorno all'alba ho sentito alcune voci maschili provenire dal giardino. Guardando giù, ho visto che due uomini avevano cominciato a imbastire un complesso sistema di funi e carrucole intorno all'abete maestoso. Un attimo dopo, il più giovane si è issato sull'albero - più o meno alla mia altezza - e solo allora ho notato che le carrucole disposte lungo il tronco erano legate a una seduta di pelle simile a un'altalena.

La seduta gli lasciava libere le braccia che brandivano una motosega a benzina, fissata alla cintura portattrezzi di cuoio sul fianco destro. Da vero professionista, il giovane con i capelli rossi ha cominciato a spostarsi sulla seduta regolabile su è giù lungo il tronco e, chissà in base a quale criterio, ha mozzato i rami più pesanti. Mentre cadevano a terra, l'altro li accatastava su un grosso telo cerato steso sotto. Hanno continuato sistematicamente per un pezzo - non so per quanto, perché ero andato in biblioteca per evitare di essere disturbato dall'elicottero che, però, non si era visto.

Il mattino dopo i due uomini della forestale sono tornati e si sono messi subito a testare di nuovo le funi e le carrucole, che erano rimaste là tutta notte. Montando in cima, il più giovane esaminava con aria soddisfatta le conseguenze del giorno precedente e un paio di volte si è fermato a segare qualche ramo sottile, sempre in base al suo schema misterioso. Intanto a terra l'altro cercava di liberare a strattoni i rami impigliati nella parte bassa dell'albero e continuava a impilarli ordinatamente. Il giovane con i capelli rossi segava gli ultimi rami sul suo sellino, senza pensarci troppo, pur assicurandosi che di sotto rimanesse sempre qualche ramo solido a cui aggrapparsi, se mai quell'elaborato sistema di carrucole avesse ceduto. Alla fine, quando tutto è stato pronto, è sceso a consultarsi con il collega, ha fatto una telefonata rapida con il cellulare e si è rimesso in posizione in cima. Subito dopo, tutti nei quattro condomini lì attorno abbiamo sentito il rumore; non ci si poteva sbagliare: erano le pale taglienti di un elicottero che, come nel raid di Apocalypse Now di Coppola, arrivava intrepido a tutta velocità dal caseggiato grigio alla mia destra.

Al passaggio dell'elicottero, i rami degli arbusti e degli alberi hanno cominciato a fluttuare, avvolti dalla turbolenza, mentre i suoni dell'elica rimbalzavano sulle facciate dei palazzi circostanti. L'elicottero si è fermato proprio sopra il giardino e ha mollato un lungo cavo che l'uomo a terra ha fissato svelto a una pila di rami avvolta nel telo cerato. Una volta agganciato, il cavo è stato gradualmente riavvolto e il telo si è alzato in volo, superando la chioma regale del sempreverde. Poi l'elicottero è ripartito in un lampo, tornando a volare sopra il condominio grigio. L'operazione si è ripetuta un paio di volte, la prima con una catasta di rami più spessi e pesanti, poi con un telo voluminoso in cui avevano ammucchiato tutto ciò che era caduto a terra in quei due giorni.

Ma proprio quando la pulizia sembrava conclusa e i residenti sfiniti speravano di tornare alla normalità, in lontananza si è sentito di nuovo

il rumore delle pale rotanti. Subito dopo, sulla scia di quel suono è apparso l'elicottero in cima al palazzo grigio. L'addetto della forestale, con la motosega fissata alla cintura, ha cominciato a darsi degli spintoni contro il tronco con gli scarponi rinforzati, come per testare di nuovo la sicurezza della seduta. Dopo essersi fermato proprio sopra l'albero, l'elicottero ha calato di nuovo il cavo che si è fatto strada tra i rami finché il giovane non l'ha afferrato. Aggrappandosi ai rami sopravvissuti, il giovane ha agganciato al tronco sopra la sua testa la spessa catena di metallo che pendeva dall'estremità del cavo e ha dato qualche strattone per accertarsi che fosse salda. Poi ha brandito la motosega con la destra e, reggendosi ai rami di sotto, ha cominciato a incidere la corteccia spessa ben al di sotto della catena. La lunga lama poderosa ha smesso di ruotare solo quando il tronco, pur sorretto dal cavo, ha ceduto come un birillo del bowling. Accertatosi che il moncone fosse ben fissato, il pilota ha riavvolto il cavo e ha preso il volo verso l'orizzonte architettonico con la testa mozzata dell'abete mutilato.

È stato solo il mattino dopo che, in un silenzio insolito, ho notato le cicatrici rosa. Allora il piano mi è apparso con chiarezza. Le cicatrici si vedevano bene dal mio appartamento e potevo contarle una a una. Alla fine ho capito che fino al giorno prima i rami tagliati sporgevano sulla recinzione che separa il mio palazzo dalla casa sul retro. Ora vedevo tutta la facciata bianca e mi appariva chiaramente anche il muro di mattoni rossi della fortezza poliedrica. Oltretutto riuscivo a scorgere anche i pochi uccelli rimasti in quella stagione che tornavano cinguettando disorientati in cerca della loro casa sull'albero. Erano rimasti pochi rami tra cui scegliere e mentre prima i fitti aghi verdi garantivano un nascondiglio sicuro, ora lo scheletro spoglio dell'albero li lasciava in bella vista. Così come lo erano le cicatrici.

Poi mentre scrutavo quelle orrende ferite rosa, arrivando persino a contarle una a una, di colpo mi sono reso conto che quell'immensa entità di fronte a me non era più un albero. L'abete, un tempo maestoso, era uno specchio a figura intera. Quell'albero, ero io; stavo guardando me stesso.

(Traduzione dall'inglese di Sofia Vinci}

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