Michele Amadò - La casa delle muse - LAC

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LA CASA DELLE MUSE LAC Testi di Michele Amadò Fotografie realizzate da studenti in Comunicazione visiva della SUPSI

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Progetto grafico Joshua Althaus Luca Pellegrini Francesca Stockli Fotografia copertina Luca Pellegrini Studenti Corso d1 laurea in Comunicazione visiva SUPSI Il volume esce come supplemento a " Opera Nuova. Rivista internazionale di scrittori e scritture" con il contributo di Cantone Ticino CittA d'

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SUPSI È vietata ogni riproduzione non esplicitamente autorizzata, anche parziale ed effettuata con quals1as1 mezzo. Tutti I diritti riservati.

©2016 Edizioni Opera Nuova, Lugano www.operanuova.com

ISBN: 9788896992166


Michele Amadò

LA CASA DELLE MUSE LAC


Introduzione

Gli studenti del secondo anno del corso di Estetica e retorica del bachelor in Comunicazione visiva della SUPSI hanno prodotto le foto relative ai testi scritti dal collega Michele Arnadò. Una sfida importante per giovani ancora in formazione, che hanno accettato il compito non di non limitarsi a illustrare un testo bensì di progettare un racconto per immagini. Un testo visivo, una narrazione fotografica, nella quale l' inquadratura, e la messa a fuoco, corrispondono alla descrizione di spazio e luce, ali ' interpretazione di luoghi e del loro senso. Anche il progetto editoriale del libro è frutto di studenti. Non è la confezione di un prodotto, ma la sua trasformazione in un "oggetto" che intende comunicare, con la sua forma i suoi contenuti più profondi. Gli studenti sono stati protagonisti nell ' impostazione progetto: alcuni articoli non erano previsti, ma il loro occhio attento ha suggerito nuovi brani; altri sono stati modificati dal docente grazie al loro sguardo. Si tratta di un' opera collettiva, che rende ragione del mestiere di comunicatore visivo, il quale con l'autore condivide la curatela di un atto comunicativo complesso. A differenza della rubrica, questo elaborato cartaceo annovera più immagini e suggerisce nuovi percorsi. Ciò testimonia la passione degli studenti che hanno curato, con loro proposte supervisionate dal collega fotografo Marco Beltrametti, questo volume, spronati dal fatto che la SUPSI e il Corriere del licino gli hanno offerto una possibilità reale di esprimersi pubblicamente.

Laura Morandi Responsabile del corso Bachelor in Comunicazione visiva

Troppo spesso si dimentica che la cultura è innanzitutto fatica, lavoro, molte professionalità antiche e nuove. È progresso culturale e sociale, ma è anche prodotto comunale e nazionale lordo; l'economia della cultura è oggi in molti paesi d'Europa più importante dell'industria automobilistica. Insomma, la cultura rende! E in Svizzera è elemento fondante della fortuna delle principali città. Anche a Lugano la cultura ha oggi il ruolo che le spetta: forti di una buona tradizione, abbiamo riportato la cultura, nel dibattito ( con le parole) e nell'azione (con i fatti), al centro delle politiche di sviluppo, volte a modernizzare e internazionalizzare Lugano e la Svizzera Italiana. Il LAC è il frutto più recente e centrale di questo lavoro, che oggi ogni cittadino e visitatore può vedere con i propri occhi, può vivere e aiutare a crescere. Dopo il polo del sapere dell'USI e delle SUPSI, il LAC ha già ridisegnato Lugano e le ha dato slancio (in anni pur difficilissimi) nel cammino di trasformazione da comune a realtà urbana. " Lugano prima del LAC" e" Lugano dopo il LAC", ha scritto l'autorevole NZZ. Il LAC si fonda però innanzitutto sulla solidità della rete della cultura tutta, che abbiamo chiamato Polo culturale. È una rete pubblica che va dai musei agli artisti, dalle orchestre agli studi di registrazione, dagli attori, alle biblioteche, alle scuole universitarie e professionali, all'associazionismo culturale, e così via, coprendo processi e funzioni diverse

(produzione culturale, fruizione e vendita, mediazione). Senza questa rete, il LAC sarebbe solo un edificio vuoto. Il LAC poi vive e vivrà grazie alla fondamentale partecipazione attiva di privati cittadini e visitatori che lo hanno "adottato", al sostegno morale politico ed economico degli enti pubblici, ma anche a quello fondamentale di mecenati, sostenitori, sponsor privati. Per questo dobbiamo tutti, autorità, cittadini e cittadine e imprese, avere cura di questo nostro LAC e del Polo culturale tutto, oggi importantissimo polo di sviluppo della Svizzera Italiana. Le originali fotografie degli studenti di comunicazione visiva della SUPSI, con i testi di Michele Arnadò ispirati alle antiche Muse apparsi nel Corriere del Ticino e ora pubblicati sotto il titolo "La casa delle Muse - LAC", sono certamente espressione di questa attenzione e cura, e dell' attenzione per il mondo della cultura e delle professionalità creative; li salutiamo quindi con favore. E ci piace immaginare che, a tarda notte, terminate le fatiche e il brulichio dei vivi, quando tutto torna silenzioso, come Arnadò scrive, le Muse, invisibili e brillanti, Calliope, Clio, Erato, Talia, Melpomene, Tersicore, Polimnia, Urania, si diano appuntamento nella sala teatro, e, simili a spiriti, sostino soddisfatte traendo ulteriore ispirazione dal silenzio della loro e nostra dimora, della dimora di tutti i Luganesi e non.

Giovanna Masoni Brenni Vice Sindaca di Lugano


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on articoli scritti da Michele Amadò e foto realizzate da studenti SUPSI, con la freschezza che caratterizza i giovani, sul CdT si è realizzata una rubrica intitolata "Il LAC come casa delle Muse", in attesa dell'inaugurazione a Lugano (settembre 2015) del nuovo Polo culturale della Città: l'operazione di politica culturale più importante e discussa di questi anni, e non solo nel Comune sul Ceresio. Gli articoli conducono nei luoghi dove abiteranno le Muse, che per i greci rappresentano l' ideale dell'arte. I testi espongono il senso di tale albergare. Queste dimore trovano il loro significato nella storia che le ha inventate, e la loro giustificazione se sapranno entrare nel cuore dei cittadini, e del pubblico, anche come motore di iniziative, e di economia. Dietro un museo, un teatro, una sala da concerti, stanno anche luoghi che rimangono invisibili al pubblico. Questo "dietro le quinte" è il propulsore della vita di ciò che viene presentato. I depositi, il sottoscena, la torre scenica, i camerini, le mille attrezzature, e anche la piazza, sono protagonisti silenziosi affinché le sale espositive e di spettacolo possano risplendere. Ammirevole è la vita delle cose, e nulla trapela dai loro gesti, scrive Valerio Magrelli in una sua poesia. Anche per questi gesti presagiti e scelti ne va del successo o del fallimento di quanto li accade, e ancor di più, si gioca la sfida del LAC di saper entrare nel cuore e nella vita dei fruitori e, innanzitutto, della Città.

Raffaella Castagno/a Responsabile Cultura Corriere del Ticino


La suddivisione dei gruppi di articoli descrive un percorso architettonico che parte dall' esterno dell' edificio, l' aspetto più pubblico, conduce al dialogo fra interno e esterno, giunge infine nell' intimo, sino al più celato.


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nome deriva dalle Muse, le dee preposte ali' Arte: le figlie di Zeus e di Mnemosyne, la dea della memoria. Le Muse se ne intendono delle cose del passato. Omero, quando doveva scrivere di eventi che neppure aveva visto, chiedeva a loro l' ispirazione, come poi anche Dante e Shakespeare. Hanno un grande senso pratico, sanno cantare e danzare per allietare. Per lo storico greco Erodoto, Calliope è colei che ha una bella voce, e declama la poesia epica, Clio è la storia, colei che rende celebri, Erato provoca desiderio con la poesia amorosa, Euterpe è colei che rallegra con la poesia e il flauto, Talia festeggia con la commedia, Melpomene con la tragedia, Tresicore con la danza, Polirnnia con la mimica, Urania la celeste punta il dito in alto verso il cielo, è un'astronoma. Una scienziata che oggi, grazie alle tecnologie, può far approdare il celeste museo sulla terra, in città, e a casa propria anche per chi non può accedere fisicamente agli spazi, o far partecipare chi pare impossibile, come delle persone non vedenti a visitare una mostra. Il museo oggi, secondo l'autorevole ICOM (lnternational Conci/ ofMuseums), ha tre obiettivi: il primo è di porre nel cuore delle attenzioni del museo il pubblico; quindi quello di collaborare strettamente con altre istituzioni, università sul territorio, associazioni culturali e professionali, amministrazioni, e con loro proporre attività nell'ambito dell'insegnamento e della didattica, del turismo, dello sviluppo locale; e infine quello di accompagnare un processo di decentralizzazione culturale. Modalità nuove di concepire il museo che è inteso come motore dello sviluppo locale. Tradizionalmente questa istituzione col-

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leziona, conserva, ricerca, espone e trasmette; con la sua modernizzazione, e grazie alle nuove tecniche, il museo si apre ancora di più alla società civile con forme innovative. Piuttosto che delle Muse che si trincerano in una torre d'avorio posta sul loro monte (chiamato Eliconie), gelose della loro fonte (chiamataAganippe), ardua conquista per i visitatori che devono raggiungerla da ogni dove, le nuove dee delle arti viaggiano e scendono a terra portandovi la loro preziosa sorgente per dissetare gli uomini. Traghettano il Museo quasi fosse una nave, quasi fosse il sottomarino Nautilus del capitano Nemo, per scoprire, sondare, recuperare i misteri più profondi e sommersi dell 'animo dell ' uomo, le sue perle, le sue invenzioni, i suoi progetti; opere che il Museo espone, mette in luce, offre, manifesta. Propone al pubblico quanto è ammirevole. Un grande museo ha bisogno di capaci professionisti che collaborano con quelli sul territorio e con chi, con entusiasmo, si mette a disposizione, anche volontariamente, e utilizza le strutture preposte per progetti a lunga scadenza. La buona Musa, dicevamo, entra nel cuore del pubblico. Il museo cosi pensato è anche motore economico: sollecita utenze, tecnici, esperti nei più svariati mestieri; richiama turisti e pubblico tanto più è capace non solo di offrire eventi di qualità, ma di modi di godimento originali e accattivanti, piuttosto che allestire salotti per signore e signori acculturati.


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museo, la sala concerti, il teatro, si affaccia su uno slargo. La piazza, in latino platéa, ha un valore rilevante nel contesto urbano. È un luogo di raccolta, d' incontro, di scambio, vi si tengono delle manifestazioni. È un centro che vuole essere centro. Storicamente è il posto per il mercato, per la riunione della cittadinanza in assemblea, per le celebrazioni religiose. L'agorà - sito di adunanza di Atene - era simbolo della democrazia. La più antica è stata scoperta a Creta. Mettere le cose in piazza significa renderle pubbliche. Anche gli istituti culturali sono messi in piazza (resi pubblici), e tale spazio è contrassegno dell'accesso all'arte. Lo slargo è un prolungamento del museo che deborda oltre le sue pareti, e si apre alla cittadinanza. È simbolo del rapporto fra la popolazione e la storia, sia quella che conosce sia quella che vuole apprendere e che intende trasmettere ad altri. Una sana democrazia tiene molto a questo simbolo. Lo spiazzo di un luogo dell 'arte ha, pure esso, un valore politico. Ogni comunità ha un'identità da serbare, promuovere, accrescere. Il fatto che i tempi sono cambiati si nota dai piazzali che hanno perso la loro funzione: nuove platee e attuali luoghi di incontro sono quelli costruiti davanti ai centri commerciali o ai distributori di benzina, tutti simili fra loro. Il vissuto o il vuoto dello slargo del teatro, della sala concerti o del museo, è il sintomo dello stato di salute di una città. Nel mondo globalizzato, dove tutto è uguale, è un importante segno di distinzione. Icona essenziale per chi vuole essere protagonista nel mondo. Per essere qualcuno è indispensabile avere un' identità, che è il frutto di una storia, della sua Musa: Clio. Una città, senza questo brand, non riuscirebbe a farsi conoscere e, specialmente se ha una vocazione turi-

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stica, attirare gente da ogni dove, e neppure a promuovere i sui prodotti e i suoi servizi. Per entrare nel cuore della gente è indispensabile che la piazza palpiti. Pensiamo ad esempio ai concerti estivi a Lugano o al festival del cinema a Locarno. Si tratta della sala da concerti e di spettacoli che escono all'aperto per offrire luogo d'incontro e di attrazione. Attraverso lo spiano le sale dell 'arte sconfinano dentro la città. Le attività economiche, commerciali, professionali, artigianali - ricchezza della polis - lasciano solo il vuoto senza la presenza delle Muse che testimoniano ed una cultura forte e bella che, se pulsa, contribuisce anche al successo di un'altra piazza: quella finanziaria.

La platea delle arti è un contenitore vuoto che è pronto a essere riempito dal luminoso canto delle Muse; caldo riverbero che si riversa copioso e squillante per le arterie della città.


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n latino si chiama fenèstra, anche jèstra, che esprime il significato di splendere. È qualcosa di chiaro, come una fiaccola. Nel museo la luce è un personaggio fondamentale. È l' occhio del suo volto, sia rivolto verso l'esterno, le piazze, gli edifici, la città, la natura, sia per portare la luce all'interno, negli ambienti che vanno inondati di chiarore. Le aperture sono parte essenziale della gloria del Museo - gloria significa anche lucentezza, come appunto gli occhi per un viso - . Sono soglie che trasformano l' irradiazione solare in parola, in poesia. Le Corbusier inveiva contro le finestre concepite come fori, buchi nei muri. Propose le sue aperture a

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nastro, come spazio architettonico caratterizzante l'edificio; vuoto nel pieno a costruire la geometria magica di un edificio. Tanto più il museo, stabile che è connotato come espressione della cultura, dimora delle Muse, definisce, con le sue aperture, la qualità del suo spazio. L'infisso non è neutrale, non serve solo per portare luce all'interno e per osservare il mondo, poiché, per un'ammirevole alchimia, trasforma la radiazione in racconto. Le vetrate delle cattedrali gotiche non conducono luce all'interno, ma la trasfigurano in spirito di santità e di gloria. Di che cosa parlano le finestre? Del tempo. Dell'in-

timo dell ' uomo, costituito proprio dal tempo che solo nell 'uomo è. Mortale che, grazie alla memoria, si percepisce nello scorrere del periodo, in un presente che sempre sfugge, e corre. Il varco proietta i fasci brillanti in movimento, a causa del viaggiare del sole, da Oriente, la terra del Sol levante, a Occidente, la terra del tramonto; astro che si leva alto sul mezzogiorno, e s' inginocchia due volte al crepuscolo: all' alba, e alla fine della giornata. La finestra è come un orologio, un pendolo: indica l' ora, il navigare delle stelle. Grazie ad essa il museo pulsa della vita quotidiana, allegoria di quella dell'umanità. L' apertura ricorda che s' inizia e si termina, si nasce e si rinasce ogni mattina quando il carro di Apollo conduce la stella in cielo. I vetri riflettono il mondo, la terra e il cielo. Uniscono tra loro l' interno - lasciando trapelare la luce che sortisce, all' imbrunire o di notte - e, come uno specchio, l' esterno - dipingono sulla superficie del museo il mondo circostante rovesciato - . Non incorniciano l'universo che corre senza porre attenzione al tempo che si consuma, ma inquadrano il cosmo che pensa all' affrettarsi dell 'uomo. La luce del museo fissa e ferma questo trascorrere nelle opere esposte che resistono a questo continuo mutare. La finestra mima il mondo, il passare dell'età, rischiarandolo. La sua Musa è Polimnia che permette, a noi mortali, di riflettere assorti e in pace, senza assillo, sulla vita che ci assilla.


Fotografia Nicole Tagliabue

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Ila Scala di Milano campeggiano il camerino dei biglietti, quello degli impresari, la camera degli accordi, l' alloggio del custode, il locale del corpo di guardia, la bottega del caffè per la platea, e nell' atrio, il vestibolo della servitù e infine le porte che conducono alle sale. Al museo o a un teatro si accede attraverso l'accesso principale che porta nella Hall, dove trovano posto diversi servizi, il guardaroba, magari un Bookshop, dei tavoli e delle sedie, un bar, degli ambienti per diverse destinazioni. Dal foyer, si diramano corridori, scale, e l' ascensore. Sono il modo di presentarsi al pubblico e di accoglierlo. È come il primo saluto:

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buonasera, ben arrivato, sei il benvenuto. Sta a indicare che non si è più nel mondo del tran tran quotidiano, si entra in quello della finzione, dello spettacolo, delle luci. È un mondo nel mondo. Ai nostri tempi il volto dei poli culturali bussa sino a casa nostra, anzi vi entra grazie alla rete, ad esempio per acquistare i biglietti, prenotare. Le luci della ribalta iniziano già prima, dove si riceve il fruitore; il sapore e il profumo di quest' articolato volto è già quello dell' ammirevole. Non possono mancare superfici lisce, luccicanti, vetrate riflettenti, magari specchi e cristalli a indicare eleganza ed energia e felicità. I colori sono saturi, i

materiali pregiati. Oltre a orientare il pubblico verso le sale, e lasciarlo albergare per incontrarsi in quel mondo magico, è un ambiente che guarda verso l'esterno, a volte su una piazza o un giardino. Nel 1937, nel teatro San Carlo di Napoli, fu edificato il foyer collegato con uno scalone monumentale a doppia rampa ai giardini reali. Il teatro Carlo Felice a Genova (progetto di Aldo Rossi, e del ticinese Fabio Reinhart), la piazza coperta è unfoyer all'aperto, con pareti rivestite di pietra e colonne e travature in metallo. E che dire, a Genova, della lanterna visibile nel foyer sovrastante l'ingresso che diffonde splendore dal cielo (per quella via entra la Musa Urania) per tutta l' altezza dell'edificio, per i suoi piani, sino alla piazza coperta? Attraverso la Hall si guarda verso l'esterno, dove passanti ignari non sanno quello che si perdono, e la Hall è visibile dal l'esterno, attraverso le vetrate. Fuori spiccano manifesti e striscioni che annunciano gli spettacoli, e verso l'esterno deborda l' illuminazione interna, calda, accattivante, come a dire: entra anche tu. Quando si spengono le luci, ed è ormai buio, qualche bagliore traspare dall'interno e le vetrate riflettono quelli delle case e dei lampioni, degli automezzi, delle insegne luminose, come se incollate ai quei vetri alloggiassero stabili e silenziose le stelle, sia quelle del firmamento sia dello spettacolo e dei concerti e delle esposizioni.


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luoghi delle esposizioni possono essere molto diversi tra loro. Si tratta di sale, ma anche le scalinate e i corridoi, spesso, accolgono benevoli le opere d'arte. Pure i cortili e le piazze possono essere luogo per allestire. La funzione di queste dimore è di donare uno spazio, un vuoto adatto a essere riempito, in distinti modi, da ciò che è esposto. Perciò devono essere ambienti flessibili. Un conto è fare una mostra di quadri, una di gessi, un' altra di sculture, una d'istallazioni di video proiettati, di luci che disegnano l'opera quando il visitatore percorre le sale. ln un' esposizione a Milano (1949), l'artista Lucio Fontana trasformò una galleria in una sorta di scultura vivente, un ambiente spaziale a luce nera di Wood per illuminare gli spazi diventati opera d'arte. Quasi una ceramica, un vaso in cui il fruitore entrava. Vi è qualcosa di analogo al teatro, spazio pronto a essere trasformato in casa, palazzo, paesaggio, foresta oscura, teca di brillante cristallo o buissima caverna. Spazi che devono essere modesti, non nel senso che sono dimessi e senza carattere, ma che sono discreti, al servizio del progettista dell'esposizione che interagisce con altri attori, quali il curatore, gli storici, i designer, i grafici, gli scenografi. L'illuminazione ha una parte importantissima. Molti apparati sono pronti per essere usati secondo i diversi progetti di allestimento, per esprimere i contenuti scelti e presagiti. Spazi e luci che sono delle cornici di ciò che è esposto; che conducono l' utente a osservare al meglio quanto gli è offerto. Bordi e contorni che ci dicono cosa va guardato con attenzione e perché. Spesso ci sono le didascalie che interagiscono con le pareti, i pannelli, la segnaletica, ma il cuore dell 'esposizione sono le cose mostrate, queste possono essere

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anche idee, contenuti. Gli spazi espositivi possono interagire attivamente con le opere, divenendo loro stessi segnaletica; i muri, dai quali nulla sembra trapelare, possono suggerire: vai di lì, fermati, corri via. Devono lasciarsi completamente oscurare e nascondere, per certe mostre, per altre invece devono risplendere per abbracciare ed evidenziare la gloria delle cose che accolgono. Pareti, soffitti, pavimenti, vari apparati, hanno il compito di fare da fondale alle opere, sfondo che è parte essenziale del contenuto delle figure che li sono allestite. Una mostra è un racconto, e oltre alle cose esposte, fatte diventare segni, parole della narrazione.

L'involucro diventa come un libro, come la copertina di un volume, come i suoi capitoli, le sue pagine bianche pronte a essere tinte dal pennino o dalla tastiera del progettista.


Fotografia Francesca Stòckli

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a musica è un'arte del quadrivio, come l' aritmetica, l'astronomia, la geometria. L' uomo, alla ricerca della bellezza, la scopre prima di tutto nelle stelle. Pitagora cercava il suono numerico degli astri. Ha inventato la scala musicale: per Platone fondamento numerico dell' anima del mondo. Fra le Muse vi è Urania, l'astronoma. Per gli antichi i numeri e i rapporti tessono la natura delle cose e degli uomini, più a fondo dei sentimenti e delle emozioni. Per questo le stonature sono sinonimo di errore, di conflitto, di guerra. La musica racconta dell'essenza del mondo. Nel cielo è eseguito un grande concerto ritmato dai moti del sole e dalla luna. Le armonie celesti sono contrastanti analogamente alla lira di Apollo che rovesciata è strumento di morte: l'arco. Come non ricordare, a proposito di vita e di morte, Orfeo? Lo sciamano che fa tramite tra mondo dei vivi e dei defunti. È figlio della Musa Calliope, Museo è suo rampollo. Amava perdutamente sua moglie Euridice, che un giorno fu morsicata da un serpente, e morì. Orfeo cercò di fare I' impossibile: andare negli inferi per strappare Euridice e riportarla in vita. Ma come fare? Come combattere gli inferi? Col canto e la lira, il tipico strumento a corde, sarà possibile questa missione impossibile? Con la musica incantò Caronte, il traghettatore delle anime, il Cerbero, il mostro a guardia del regno dei morti, e via via, per una scala (musicale?) di mille gradini arrivò al centro del mondo oscuro dominato dai demoni, per giungere davanti al trono di Ade stesso (dormiente), e a sua moglie. Con l' armonia commosse la regina ed ella gli concesse di portare via Euridice. Ma la storia finì male, e la musica di O rfeo, capace di far risorgere i morti, divenne espressione di dolore infinito. Armonia che da tonale diventò dodecafonica. Come, ad esempio, quella del compositore austriaco

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che ha operato nel ' 900, Arnold Schl>nberg? Molto si è dibattuto sul senso della melodia dopo Auschwitz, quando dei prigionieri dovevano suonare brani classici mentre altri erano avviati verso la morte. La musica è intima tanto al tragico quanto al comico, tanto alle ste lle quanto alle fiere, tanto ai vivi quanto ai morti. Ci vuole certo anche una sala da concerto. Una mi è particolarmente cara, a Berlino, sala progettata da Hans Scharoun (nel 1963) con la consulenza di Herbert von Karajan, il direttore d'orchestra della filarmonica di Berlino. Ha una forma "strana" nata dagli studi sulla diffusione acustica, in ogni dove si sente in modo qualitativamente paragonabile. Una

sala da concerto, e anche quella del LAC promette un'eccellente acustica, è una sorta di mondo dove l' uomo ascolta i suoni armonici o dissonanti del cielo, delle stelle e degli inferi, scoprendo stupito in sé toni intimi di cui non sapeva neppure l'esistenza.


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e feste principali degli antichi greci assumevano la forma di celebrazioni teatrali, tragedie e commedie. Si svolgevano in primavera ed erano dedicate a un potentissimo dio dal nome Dioniso (Bacco nella traduzione latina). Ciò accadeva ad Atene nel V secolo avanti Cristo. Le rappresentazioni godevano di altissima stima, erano pagate dalle persone più abbienti. Parliamo di un' attività essenziale per la vita politica della polis, non a caso era gestita dal "sindaco" (arconte). li più grande teatro ad Atene è dedicato a Dioniso. Chi è questo potentissimo dio? li giovane figlio di Zeus ha delle caratteristiche paradossali, anzi contradditto-

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rie. Dio della follia (cosa buonissima per gli antichi) che si manifesta sia come animale sia come uomo, sia donna sia maschio. È il dio del vino e dell'ebrezza. Il suo seguito, le Menadi, sono amanti della musica e della danza. Dioniso è una forza della natura, dal vegetale in su. Spesso si maschera, ad esempio veste una pelle di leopardo, ed è attorniato da satiri e sileni. La sua enorme maschera, con occhi smisurati che fissa il pubblico, è il simbolo della sua duplicità, che svela gli enigmi dell'uomo. È legato a Creta, a un particolare edificio, posto sotto il palazzo di Cnosso del re Minosse: il famoso labirinto. La sposa del dio è Arianna, la signora del labi-

rinto. L'edificio fu costruito da Dedalo, il più grande architetto di Atene di quei tempi, grande sapiente e tecnico. Per Omero Dedalo lo costrui come luogo per la danza. Pasifae, la moglie di Minosse, invaghita di un bianco toro sacro, volle avere con esso, ancora una volta con l'aiuto di Dedalo, un figlio; ne nacque il mostro chiamato Minotauro, mezzo uomo e mezzo bovino: una delle maschere di Dioniso. Il teatro è una costruzione geometrica che esprime la complessità dell'esistenza che vede l'uomo sfidare il dio-animale, mettendosi in tal modo in pericolo mortale. Nella finzione, nella rappresentazione teatrale, si parla del conflitto per l'esistenza, anche di quello tra uomo e natura, tra uomo e dio. Sappiamo che Teseo, l'eroe, vinse il Minotauro grazie al filo di Arianna, il filo della razionalità. Tutto questo avviene a teatro, che comunica le emozioni più profonde, le tragedie più atroci, e le commedie più esilaranti. Grazie a quel sottile confine che divide attori sul palco e pubblico in platea, l'uomo è posto nella piena del flusso delle contraddizioni della vita, del dolore più atroce come nel riso più sincero, alla ricerca del senso, senza essere in pericolo, senza l'assillo dell'incalzare degli eventi. Santa finzione! Per questo motivo gli antichi greci non ritenevano il teatro una questione di divertimento per chi può permetterselo, ma un momento essenziale per la costruzione e il benessere dell ' intera comunità.


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ta lì, impassibile, assorto in un celeste enigmatico silenzio. È posto davanti al pubblico. È un luogo sacro, accessibile solo ai suoi sacerdoti, gli attori. Quando le luci si accendono, lasciano attorno a sé una notte buia e taciturna. Come un sole che sorge donando la sua brillantezza al palcoscenico badando bene che il suo contorno - che delimita l' arena delle azioni che li avvengono - , sia ben definito, senza ambiguità. Linea di confine, dogana invalicabile, simbolo del mondo dei sogni e della finzione che in quel territorio trapela. Il palcoscenico non è una superficie, o un volume, o uno spazio, ma un luogo dell' abitare. Non è la dimora degli attori, ma lo è del pubblico, anche se non fisicamente ma simbolicamente. Quella linea che determina il perimetro del palco non è geometrica. O meglio la geometria del confine è un invito al pubblico a lasciarsi trasportare con la mente e l' immaginazione, con le emozioni e i ragionamenti, in un altro mondo. Quasi che la soglia fosse una navicella spaziale che naviga per le costellazioni dell ' universo del mistero che ci caratterizza nell ' intimo. Nel tran tran quotidiano, sul lavoro, a casa, a fare la spesa, s' impone deciso il gravame del presente, con le sue esigenze. Dobbiamo fare, decidere, operare con i nostri attrezzi, in fretta. Non pensiamo alle parole, alle cose, agli strumenti, ma li usiamo. C ' è poco tempo, questo è scandito per cercare di sopportare il peso del presente con le sue necessità. Quella linea tra palco e platea, quasi cippo doganale, permette al pubblico di spaziare avanti e indietro nel tempo. Il limite spaziale spalanca mondi passati e futuri insondabili quando siamo schiavi del succedersi degli accadimenti che non ci danno riposo. Il presente nel suo scorrere, e sfuggirci di mano, grazie a quel casello, quello della finzione, della mimesi, lo pos-

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siamo riprendere in mano, traghettandolo verso la memoria e le attese; siamo in grado di ascoltare il tempo invece che essere semplicemente i tasti da lui pigiati. Davanti ad un incidente siamo chiamati a correre in soccorso, di fronte ad una tragedia rappresentata, la memoria, la ragione, il sentimento, ci assistono, accrescono la nostra consapevolezza, possiamo sperimentare cose che mai vorremmo ~aggiare nel quotidiano, ma che pizzicano le corde della lira del nostro intimo, alla ricerca di un senso. Pirandello, in Sei personaggi in cerca di autore ( 1921) non elimina quella silenziosa e taciturna linea di confine, ma ne associa altre per rimarcare, ripeten-

dola quella, aggiungendo finzione su finzione. Fa scendere una scala dal palco e salire gli attori dal pubblico, per incontrare Polimnia, loro Musa, per farci essere ancora più assorti e coinvolti nel miracolo della finzione che svela quanto più di vero e taciturno abita nei nostri cuori.


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hiamato anche boccascena. Che "bocca" è? s>uella di Mangiafuoco che divora gli attori? E una cornice che definisce le parti principali di un teatro: il palco e la platea. L'arco è anche uno strumento musicale, come quello di Apollo. Nella simbologia antica la lira aveva un doppio significato, sia quello di strumento musicale per addolcire i cuori sia - rovesciata - di arma per colpire e uccidere. Con l' arco si scoccano le frecce, per innamorare e per ammazzare. Anche Orfeo usa la lira come armamento per vincere i demoni dell' inferno, per riportare alla vita Euridice. L'armonia rappresenta la massima tensione della

corda prima di scoccare la freccia. Nulla di blando, di slavato, bensi di brillante, energico, saturo, che è anche il senso degli archi di trionfo disseminati nelle città. I Romani ne facevano grande uso (l'Arco di Tito nel Foro Romano è il tipo originario), e Roma è la città matrice di quelle europee. Lo spirito del voltone è di raccogliere e festeggiare il trionfo in battaglia. Che vittoria si festeggia nell'arco scenico? Quello dell ' arte e non della guerra cruenta. Quella dello spettacolo che gareggia contro il mediocre, lo spento, la routine, la mancanza di coraggio. Una curvatura attraverso la quale il pubblico si confronta con storie tragiche e commedie, con concerti classici o meno,

con eventi sia antichi sia contemporanei. Impressiona che nei nostri comuni, anche i più piccoli, un tempo vi erano due, tre teatri: simbolici archi di trionfo dove cantare le storie, allora povere, di emigranti; dove narrare le cose ammirevoli sperimentate, nel bene e nel male, per trasmetterle ad altri. Sintomo di vitalità, audacia, spirito d'iniziativa. Sono il trionfo del vigore, non per uccidere, ma per costruire la propria epopea. Il boccascena può non aver la forma di un arco. Raccoglie sulla soglia l' uomo e la sua (e altrui) immagine nell' arte, quasi fosse una specchiera che fa vedere il mondo capovolto: l' arco come arma che diventa cetra per suonare, la lira che si atteggia ad arma micidiale. Realtà della finzione che permette di ridere sui propri difetti e in tal modo cercare di correggerli. Grazie allo spettacolo, sono accordate le discordie che domino nel quotidiano. L'arcoscenico è sia bocca dell' inferno sia porta del paradiso come fauci del celeste che aprono il cuore dell'eroe strappato nell'abisso. Grazie a quella soglia i cittadini di Atene, guardando l'orribile destino di Edipo re sul palco, non solo si commuovevano ma si dicevano: se succede a lui, cosi buono e forte, cosa mai potrà accadere a noi? E questo evento era l'occasione per rinsaldare la comunità, rinunciando alle piccole beghe del quotidiano, per marciare insieme risoluti, con tutte le Muse, sotto l'arco, verso il futuro.


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ei teatri dell' antica Grecia, il luogo occupato dal pubblico si chiamava koilon: cavea. Spazio a pianta circolare o ellittica, dove si trovavano le gradinate; prima ancora era uno spiazzo delimitato con panche di legno. L' area degli spettatori, chiamata théatron, da théaomai, osservare, ha imposto il nome all ' intera architettura. Questo perché senza pubblico, senza chi guarda e ascolta, non vi è spettacolo. Platea significa "ampio", infatti, il pubblico necessita di molto più spazio di quanto abbisognano gli attori (ad Atene i posti arrivavano a I 7'000). La platea si suddivideva gerarchicamente. Alcuni erano seggi d' onore, trònoi, occupati dalle autorità o da personaggi illustri. A volte ci sono loggioni e balconate. I biglietti costano ben di più sui "troni" in prima fila che sulle più alte gallerie. I teatri e le sale da concerto, oggi, ostentano spesso un concetto più democratico. Quella di Scharoun a Berlino, permette a qualsiasi persona di ascoltare ciò che avviane sul palco in modo qualitativamente analogo, su ogni poltrona. Tutti insomma hanno il loro trono, dove vi alloggia un re; un sovrano che osserva e giudica, applaude o fischia o resta impassibile; sta zitto o commenta. Ma le sedie raccontano, taciturne, molto di più. La Musa Erato provoca il desiderio amoroso. È l' amore, infatti, che domina sulle sedute. Il pubblico non è semplicemente chi osserva uno spettacolo. La composizione si compie solo nel fruitore. Impassibile è la poltrona, non chi ospita, costui patisce dei flutti della trama, della musica. Subisce poiché diventa il vero protagonista che si lascia catturare dalle melodie dandole in tal modo vita. Un noto compositore della musica del ' 900, John Cage, presentò un concerto che ha mostrato bene que-

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sto rovesciamento di ruoli: l'esecuzione si compie solo in chi li fruisce. È chi ascolta, e non il musicista, che si commuove, che si spaventa, che trema di terrore o ride a crepapelle; che si lascia trasportare nella musica delle stelle o dei fuochi infernali. Nel fruitore accade il miracolo della scena, nel suo intimo, non negli strumenti di questo evento (gli orchestranti, gli attori). Dicevamo di Cage e della sua opera intitolata Quattro minuti, trentatré secondi (1952), per qualsiasi strumento o ensable. Per quel periodo il musicista non suona nulla. Non esegue nessuno dei tre movimenti. In quei 273 secondi - chi dice siano la citazione dei -273 gradi dello zero assoluto termico - , non

è protagonista il silenzio (cuore pulsante della musica). Eroe è il pubblico. Le poltrone ne sono i testimoni. I rumori solitamente chiamati di fondo, i colpi di tosse, i mugugni, il respiro, e il cuore che batte, sono l' intimo del concerto. Solo nel pubblico, nel suo desiderio appagato, palpita sanguigna l' esibizione.


Fotografia Greta Molteni

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1pittore Paul Klee diceva che per visitare un museo ci vuole una sedia. Un luogo raccolto, comodo, che permetta al fruitore di godere senza distrazioni di un'opera. Suggerimento che vale anche per un teatro e per una sala da concerto. Il mobile è il luogo del pubblico per eccellenza. La poltrona lo abbraccia teneramente sostenendolo nel suo godimento. Il pubblico è numeroso, la schiera di sedie lo attende con ansia, tutto è pronto per accoglierlo. A volte merita lustrarsi gli occhi solo a guardare la fila di poltrone vuote ma colme di splendore che sorge dal basso e rischiara lo spazio. Il vuoto ha qualcosa di meraviglioso.

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Se dopo una guerra definitiva, che facesse sparire dalla terra ogni presenza umana, rimanesse solo una successione di sedie, un extraterrestre potrebbe ricostruire le forme delle persone. La poltrona è come un vestito fatto per essere indossato. Il viaggiatore intergalattico scoprirebbe, analizzando la poltrona, che chi la usava aveva delle gambe, una schiena, una determinata altezza e un peso. Lo sgombro del mobile racconta tutto questo. È un vuoto che raccoglie celesti e mortali. I mortali sono la viva carne che lì vi alloggia; corpo pronto a lasciarsi rapire dallo spirito dello spettacolo, del concerto che gode, seduto. In questo luogo sono riunite anche le

Muse che ispirano le opere, che parlano di vita e di morte, delle vicende più semplici come degli oracoli, come quello di Delfi, che comunicano il volere degli dèi. Le sedie dello spettacolo, del museo, sono seggiole per visite brevi, che durano poche ore. A volte sono delle gemme come quelle realizzate da Bruno Munari (sedia per visite brevissime), o quella superleggera di Giò Ponti, o la seggiola Barcellona progettata da Ludwig Mies van der Rohe, simile a una mano aperta per accogliere. Come una bocca luminosa che canta inni. La sedia e la poltrona sono il regno del pubblico. Senza questo reame non vi è alcun lustro nella casa delle Muse. Dimora che vive solamente nell' utente che realizza nella sua mente e nel suo cuore quanto è proposto a teatro, a concerto, nelle sale espositive. Nel vuoto della sedia vediamo noi stessi, chiamati a liberarci di noi per accogliere l' altro, appunto le Muse che bramano narrarci o musicarci le loro storie. Sulla fila di sedute, la notte, quando tutto è silenzioso, le Muse si fissano appuntamento. Invisibili e brillanti, Calliope, Clio, Erato, Talia, Melpomene, Tresicore, Polirnnia, Urania, simili a spiriti, si riposano osservando lo sgombro silenzio della loro dimora. Ascoltano anch'esse il suggerimento di K.lee, e lo spettacolo che più le affascina è proprio quel nulla pieno di presenza, di memoria, di attesa, di aspettativa che dovranno colmare domani e nel futuro. Possono ben dire, loro: ammirevole è la vita delle cose.


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na sala di concerto è uno spazio che bada soprattutto all'acustica. Vitruvio nel De architectura (15 a.C.) riferisce di studi sulla sonorità nell'antichità. Molti sono gli elementi che contribuiscono a tale impresa: le pareti, i mobili, le poltrone, i materiali qualcuno asserisce anche i colori e la texture - , il volume, il numero di utenti, il soffitto. I teatri greci erano senza copertura. L'edificio era costruito a ridosso di una montagna per ridurre il rumore diffuso considerando attentamente le correnti d'aria (le brezze ascendenti). I greci erigevano un muro come fondale del proscenio per riflettere le voci. La sala è la cornice che purifica i suoni. È analoga alla cassa di uno strumento musicale, costruita con la perizia di Stradivari. Non deve essere una caverna che riflette i suoni con ritardo (l'eco). Un conto è la musica da camera e un altro sono i concerti. Il volume e le pareti del luogo dove si ascolta sono parte integrante della qualità dell'armonia, e si tratta di pochi istanti di riflessione per avere un' ottima qualità (meno di 0,02 secondi). La volta ha un rilievo enorme. Spesso vi sono appesi dei pannelli mobili, pesanti e ampli. Il soffitto articolato è un insieme di riflettori del suono, degli "specchi" che espandono e assorbono le vibrazioni. Ci vogliono complicati calcoli scientifici, per questo con Calliope dalla bella voce e a Euterpe con il suo flauto, interviene anche Urania, la Musa scienziata, abile a risolvere complicatissimi logaritmi. Se Urania sbaglia i calcoli, la piaga è chi siede in fondo alla sala che patisce il riverbero. L'elemento superiore è composto di materiali porosi, fonoassorbenti. Secondo la ripercussione regolata anche dal soffitto, le sale possono essere vive o morte, a basse o alte frequenze. Non vi è un locale adatto a

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tutte le armonie. Una va meglio per le voci l'altro per gli strumenti, una per musica Jazz l'altra per un'orchestra sinfonica. Perciò la sala deve essere flessibile, una macchina mobile, che permette di rialzare o abbassare questo o quel musicista, questa o quella tenda o pannello. Anche la volta è un congegno, con tutti i meccanismi necessari al suo funzionamento. Dialoga con le pareti e i pavimenti. Tutto ciò non appare ma l' intero marchingegno, che non si fa sentire, impassibile, funziona quando il pubblico gode dell'ascolto sentendosi immerso nel suono come in un fiume; mentre è avvolto dall' abbraccio della musica.

L' impressione spaziale è data dalle pareti, il soffitto dona una riflessione frontale. Sono fenomeni analizzati prima col computer, e verificati e aggiustati durante e dopo la realizzazione dell'edificio. La forma del soffitto è importantissima. È un copricapo che si adatta alle più diverse esigenze; quello del LAC è analogo alle onde del mare sulle quali navigano le armonie.


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n ogni museo, sala da concerti, teatro, alberga il guardaroba che ospita soprabiti, borse, cappelli, sciarpe, ombrelli. Vi si può accedere in diversi modi. A volte la soglia del servizio è un tavolone o un'apertura per consegnare i propri indumenti, affinché nessuno, vada a rovistare, o a rubare, e il fruitore riceve un biglietto a garanzia di quanto depositato. Spesso in tal luogo sono riposte cose di pregio: pellicce, soprabiti firmati, borse di marca. Le recite vivono della finzione, e anche gli spettatori badano alle loro di apparenze: partecipare a uno spettacolo è anche un'occasione di mettersi in ghingheri. C'è bella

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gente, le autorità, persone distinte, e pure i pettegoli cui piace disquisire sugli altri, commentare, sorridere, denigrare, esaltare. Alcuni gareggiano, come se partecipassero a una sfilata, e allora guai a scoprire che due concorrenti indossano lo stesso tailleur, o visone, o copricapo. Il guardaroba è espressione chiarissima di tutto ciò. Su ometti e portabiti, allineati come soldatini in adunanza, una schiera di vestiari rappresenta il pubblico: signore, signorine, uomini maturi e giovanotti; chi con pretese, chi dimesso, chi elegante, chi casual; sono 11, fermi, impassibili, scelti. Ogni abito dice all'altro: io sono più nobile di te, va da un'altra parte,

che sfiguro. E l'altro sorride: guarda che siamo in democrazia, dovevi arrivare prima, le regole sono uguali per tutti, e non ci penso neppure a spostarmi. Il mio numero è 211, tu tieniti il 212. A volte gli abiti sono messi in cerchio, sembra un carosello. Se non sapessimo che non siamo nella sartoria del teatro, spesso confonderemmo i vestiti con i costumi da scena; a volte sono anche più bizzarri. Le borse sono riposte in appositi scaffali. Anche li vigono i battibecchi. L'una sentenzia all'altra: come sei dozzinale, hai visto chi sono, è scritto qui, mi chiamo Prada, io Gucci, ed io Chanel, io Louis Vuitton, io Marimekko (alcune sogghignano), io Vucomprà (le altre fanno una smorfia schifata mettendosi il fazzoletto sulla bocca). Il locale protetto non ha bisogno di molta luce, e deve essere ordinatissimo. Quando la gente esce, lo fa allo stesso momento, e ha fretta, col bigliettino in mano. C'è, tra questi, chi non trova il foglietto numerato, e gli altri dietro sbuffano: mi aspetta il taxi! lnfine il guardaroba si svuota, non rimane più nessuno, scaffali e ometti non fanno alcun gesto, sono taciturni, la luce si spegne; qualche bagliore illumina le parti metalliche. Vi è rimasta, solitaria, una sciarpa rossa, nessuno l'ha reclamata. Nel silenzio Melpomene, la Musa della tragedia, fa un sospiro pieno di catarsi, che fa oscillare ancora i soldatini, e declama: fino a domani il teatro è finito!


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iò che sta dietro, nella tradizione, grazie a Platone, e faccio riferimento al racconto della caverna, nella Repubblica, è ciò che sta prima, anzi, per certi versi, davanti. La metafora di Platone è che gli uomini, imprigionati in un corpo, sono come degli spettatori di un.film, costretti tutta la vita davanti ad uno schermo: il mondo percepito attraverso i sensi. Sono convinti che il mondo proiettato sia l'unica realtà. Per scoprire cosa vi stia dietro le apparenze devono andare ali' origine, al principio. Dietro allo spettacolo, sempre nel racconto di Platone, vi è uno spazio, costituito da un muretto dietro al quale i più svariati "tecnici" operano, mettono in atto quanto è poi proiettato. Agiscono, portano oggetti, costumi, cose. Gli attori si soffermano nel retropalco, quando non sono in scena, attendendo il loro turno. Si sono già cambiati di costume o di maschera. ln quello spazio operai scaricano e caricano casse, oggetti, strumenti, stoffe; montano e smontano, calano e sollevano. Li si accede ai camerini, magari alla sartoria. Gente vi è affaccendata e corre come formiche. Tutto ciò è invisibile al pubblico. Il retropalco serve anche a Clio, la musa della storia; ne ha bisogno per rendere celebri i suoi racconti. Spazio riempito con aghi e fili, martelli, carrelli, cassoni, sipari, oggetti, faretti, scale, corde e tiranti. Una cosa si rompe va riparata o sostituita subito, in modo silenzioso e impercettibile. Senza il retro il davanti non c'è. Sul palco tutto scorre spontaneamente, pare senza alcuna fatica, anche grazie al sudore e l'impegno e l'ingegno e la prontezza di ciò che accade lì a tergo. Ridiamo e piangiamo davanti alla scena perché qualcuno, dietro di essa, ci permette di non distrarci su altro che agisce ammirevolmente perché nulla trapeli del suo indaffararsi. Luogo magico che si cela allo sguardo affinché il mi-

rare del pubblico osservi ciò che Clio vuole fargli vedere. Quando tutto tace, e nessuno calca la scena, lo spazio di ciò che sta a ridosso del palco, con i suoi muri, con le ombre proiettate su di essi, risuona del vissuto che c'è stato e che ci sarà. Pausa essenziale, silenzio pieno di memorie, e contenitore di future armonie che trovano lì un fondamentale alleato. Non possiamo vedere questo spazio ma lo avvertiamo distinto in ciò che è messo in scena. Come dar torto a Platone: ciò che è davanti non ci sarebbe senza ciò che sta dietro, come un ristorante senza la cucina. Ma ciò che godiamo sulla tavola, magari al lume di una candela ammirando chi ci sta di fronte, non sarebbe pos-

sibile senza il brulicare di cuochi e camerieri, con pentole, piatti, mestoli, coltelli, che si danno da fare affinché noi possiamo godere in pace del momento. Grazie muse che dimorate nel retropalco.


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uanti misteri nel camerino! È il s~lenzioso testimone di tante vicende. E un luogo dove avviene un'alchimia. Vi entra una persona, un professionista, un musicista, ad esempio, e ne esce un personaggio. L' attore non è, una volta sortito dal camerino, un artista che fa un mestiere, è diventato la maschera che rappresenta, analogamente agli spettacoli illusionistici quando in un baule entra docile una donna e in un istante dopo ne esce un feroce leone. Le cose che abitano in questo locale sono quanto serve per questa magica trasformazione. Un armadio che ospita costumi; un tavolo da trucco addobbato, che sembra di essere dal barbiere o dalla coiffeuse, con cosmetici, parrucche e di tutto e di più; un lavandino, e soprattutto, ed è fondamentale, uno specchio. Nel film Vertigo, di Hitchcock ( 1958), quando Scottie (James Stewart) entra nella camera della pensione dove abita Judy (Kim Novale), la specchiera dove i due si riflettono rappresenta il mondo rovesciato, tra inganno e realtà. Nel film si scopre in quel luogo che la realtà sperimentata da Scottie era tutta una finzione. Quella stanza è poi trasformata da Scottie in un camerino nel quale muta Judy (la persona reale) in Madeleine (la finzione, la maschera). L' intera pellicola ha la sua fonte nel camerino, dove si progetta il misterioso capitolo: sia gli eventi programmati sia quelli sfuggiti dalla pianificazione. La superficie riflettente non riverbera una figura, ma libera il prigioniero dello specchio (come in Il libro degli esseri immaginari di forge Luis Borges). Ci sono due mondi: gli abitanti dello specchio hanno fatto guerra agli altri, ma sono

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stati vinti, e l' Imperatore li costringe a fare gli stessi gesti dei residenti dell 'altra parte. Ma un giorno la specchiera si romperà e gli occupanti del mondo degli specchi usciranno e vinceranno la battaglia. I fratelli Marx (The Mirror Scene, The Duck Soup, 1933), spiegano benissimo questo ribaltamento, questa guerra tra i due mondi. Battaglia che per l'attore è tutta interiore, è dentro di lui che avviene tutto ciò, e quando esce dal camerino per andare in scena - spesso grazie ad un interfono che lo informa di ciò che avviene sul palco - è un altro: è chi alloggia nel vetro. Poi vi è camerino e camerino, nel "primo" vi alberga l'attore principale, spesso ha il privilegio di ospitare un divano, per ricevere ospiti. Sia quelli illustri sia gli ammiratori, che magari inviano fiori e regali "corrompendo" qualche inserviente per accedere a quel luogo, ammirevole, come le cose che occupano il locale. Cose vive che sono la memoria taciturna di ciò che li è accaduto e Il succederà. Soglia che serve sia all'abitante dei vetri riflettenti per uscire sia ali' attore per ritornare nel mondo reale. Dove ridere o piangere, o rimanere impassibile. Davanti alla superficie lucida, nella trasformazione a rovescio alla fine dello spettacolo, l'attore imprigiona nel vetro il personaggio; il camerino si tramuta in luogo di fredda riflessione, di scambio: quali errori sono stati fatti, che cosa è andato bene, come fare meglio la prossima volta? Lì la musa Polimnia osserva divertita lo sgargiante cravattino dimenticato dall'attore.


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pesso in un teatro vi è un laboratorio di sartoria. I sarti dello spettacolo operano, beninteso, anche sul palco, ma il più delle volte nello spazio loro dedicato. I loro strumenti sono quelli del modellista ma non confezionano abiti bensì costumi. I costumisti di un teatro devono avere una notevole capacità inventiva da applicare in fretta; di sovente anche sotto la tirannia di una scena in svolgimento. Il tagliatore è una figura importante, che opera in questo locale e che crea il cartamodello; disegna una tela e consegna il lavoro a chi realizza il vestito; abito che ha la funzione di maschera. Il sarto dello spettacolo deve capire, interpretare, progettare il personaggio. Conosce bene la storia dei costumi, i modelli già realizzati nel passato, ne inventa di nuovi modificando i tipi noti. Deve adottare quell'esempio alla persona che interpreta quel determinato ruolo. Tiene in conto anche dei movimenti che l'attore esegue sulla scena, le vesti non devono costituire un impedimento all'azione. Conosce bene il lavoro del truccatore, con cui agisce in consonanza. L'obiettivo non è vestire ma trasformare. I cambi a volte sono velocissimi, e magari capita che attori vadano in panico e non riescano ad abbigliarsi, e alcuni poi strappano per errore le vesti prima di andare in scena, un dramma, anzi una vera e propria tragedia. Ma il sarto e la sartoria sono calmissimi. Il disordine delle cose è strutturato dallo spazio predisposto per aiutare a mantenere le serenità. I percorsi degli indaffaratissimi sarti e dei nervosissimi attori, sono definiti al millimetro, con una suddivisione razionale dello spazio e dei mobili. La distanza dai camerini e dal palcosce-

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nico è esattamente quella che ci vuole. Gli strumenti sono lì a riposare pronti per essere afferrati velocemente, e riposti con cura nello stesso posto. Non ci sono ostacoli strutturali al correre degli occupanti. I colori delle pareti, le luci, sono quelli più adatti, non devono distrarre. La sartoria è un locale di servizio non di spettacolo. Grandi tavoli vi campeggiano, liberi per essere colmati di tutto il necessario. Il locale è il suo vuoto capace di raccogliere in fretta tutto ciò che serve per agghindare lo spettacolo, e, tra una rappresentazione e l'altra, torna in fretta a essere di nuovo sgombro. Gli addetti al mestiere sembrano danzare, a volte con un ritmo frenetico, altre si prendono il tempo per progettare. Tempi di ballo, lento e veloce, tango argentino e tarantella, che connotano lo spazio della sartoria. Fra le Muse, Tresicore, la danzatrice, occupa spesso questa stanza. Le cose che lì si fanno durano poco, o comunque non molto. A perdurare, invece, è il laboratorio: le sue mura, le sue cose, cui nessuno, forse, bada. Locale silenzioso e assorto che sorride delle piroette di chi vi ha operato. Rimangono solo le cose taciturne, le vesti, i costumi, e forse sulle pareti le ombre colorate a testimonianza di quanto li è accaduto, e succederà. Quello che resta risiede nella memoria del pubblico che ha goduto dello spettacolo, della rappresentazione confezionatogli dagli esperti professionisti della sartoria.


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un pinnacolo invisibile al pubblico, come il sottopalco e il retropalco. Le sue dimensioni sono notevoli, infatti, vi albergano gli strumenti e g li attrezzi necessari a far funzionare la scena, utili per le più svariate esigenze. È composto di diversi piani, ballatoi, graticci. Serve sia per disegnare gli spettacoli sia per offrire la miglior acustica, per questo o quel concerto. Un conto, infatti, è se suona un'orchestra sinfonica, una se si tratta di un concerto per piano forte, o di pochi archi, un altro se si svolge di un' opera lirica, o un teatro con musica rock. Nei grandi ed eccellenti teatri e sale da concerto, la

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torre scenica permette di modificare la conchiglia acustica per le esigenze di chi opera sotto questo guscio. Pannelli che scendono e salgono, canucole con motori per ogni esigenza, argani, miriadi di fili. Dietro la pelle di questa conchiglia corrono migliaia di chilometri di cavi, anche elettrici. Una macchina incredibile e sofisticatissima che si nasconde alla vista del pubblico che però gode delle ammirevoli soluzioni tecniche, come se fosse una cosa normale. A guardarla dal basso o al suo interno sembra di essere immersi in un film di fantascienza, di risiedere in un'immensa astronave che viaggia verso Giove, o verso l'infinito e oltre. Luci in ogni dove che, alline-

ate, suscitano sensazioni stellari. Non a caso ci alberga la musa Urania, a volte aggrappata su cavi di acciaio, volando da uno all'altro come fossero liane in una foresta tropicale. Urania, che come ben noto non soffi-e di vertigini, si accorda con tutte le altre Muse per offrire le migliori condizioni per il loro lavoro: per declamare poesie, svolgere concerti, raccontare storie, compiere danze; le Muse, per preparare la scena, ispirano i registi, i tecnici, gli operai, ma anche gli attori e i musicisti. È una torre come quella di Babele, nel senso che in essa si parlano tantissime lingue, quelle dell'elettricista, del meccanico, dei registi e direttori di concerto di tutto il mondo, di attori e musicisti di ogni dove, che suonano le più svariate lingue musicali in accordo con chi gestisce la volta celeste sopra di essi. Ma, al contrario di Babele, tutti si devono capire, intrecciando, come in un tessuto, le competenze più varie e i codici più diversi e segreti. Tutto, al momento del concerto o della rappresentazione è coerente, unico: si parla una lingua sola, quella del misterioso capitolo che li si svolgerà. Chi è seduto sulla poltrona, ad esempio la 119, ascolta un'unica armonia senza neppure immaginare, dato che nulla trapela dalla torre scenica, della complessa meccanica che sta dietro/ sopra a questa semplicità; musica che pare spontanea, naturale, e invece è il prodotto di sudore, fatica, impegno. Sforzo celato, modesto, sopra la vista di tutti.


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Fotografia Melania Agresta

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1 filo di Arianna è noto come metafora della razionalità. Percorre il labirinto affinché Teseo non si smarrisca. Con i loro fili le figlie del destino, Ananke, intessono il fato dell' uomo; le catene del fuso del fato legano il cielo alla terra. Fili, cavi, catene, tubi, sono il tessuto che copre la casa delle Muse. Sono protagonisti della torre scenica, del sottopalco, dei montacarichi, degli ascensori, delle sale espositive, e scorrono dietro la pelle delle pareti e dei pavimenti e dei soffitti. Sono i nervi delle centraline, sono le vene e le arterie del corpo della scena, del concerto, del museo. Vanno dal cielo alla terra, si calano dall'alto e risalgono con moto perpetuo. Non vi è argano senza cavo, impianto elettrico senza fili. L' intreccio del manto di Zas, l' apparenza del mondo, è un insieme di fili e cavi e cavetti tessuti sul telaio architettonico che costituisce la cornice degli spettacoli. Cornice che modella il vuoto e palpita di vita grazie ai fili che lo attraversano come tendini tesi e forti. ln essi passa di tutto, la linfa, il sangue, l' aria. Dall' ultima graticola della torre scenica partono infiniti filamenti metallici che si gettano saldi sino in basso. Sembra impossibile che tutti queste fibre possano agire ordinate come se fossero parte di un organismo vivente sorto spontaneamente, e non di una macchina costruita dall' uomo. Ma l'animato lo è proprio grazie alle funi che, come una rete, attraversano e circondano ogni dove. Come gomene di una nave a tenere legato l'insieme, a connettere affinché sia un tutto. Nessuno può immaginare quante miglia di corde, cavi, fi li, corrono sotto la pelle del LAC. Anche l'apparato di sicurezza palpita grazie ai suoi fili. Come non ricordare molti film dove il ladro deve passare per intricatissime reti di sensori luminosi invisibili a segnalare ogni movimento anomalo, come ad esempio

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Entrapment ( 1999) di Jon Amiel, con il ladro gentiluomo di opere d' arte interpretato da Sean Connery che istruisce l'affascinante Catherine Zeta-Jones a superare danzante i fasci luminosi. Clio, la Musa della storia, chiama le sue corde trama, Urania invece connette con i suoi spaghi le stelle dandogli forma. Tersicore, la Musa della danza, istruisce Sean Connery. Per un' antica leggenda cinese un filo rosso collega le due persone che sono destinate ad amarsi. Il filo può essere conduttore, ma si può parlare anche senza dire un filo di verità, la vita è appesa a un filo, al sarto frettoloso s'ingarbuglia il gomitolo del filo, l'uomo

non è che un filo d'erba rispetto all'eternità, un filo soltanto sostiene la spada di Damocle sulla nostra testa. I fili del LAC sono protagonisti che connettono, appendono, sostengono, destinano quanto di ammirevole li accade e si svolgerà.


Fotografia Greta Moheni

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on solo gli uomini ma anche le Muse, a volte, abitano nel sottosuolo. È un ambiente invisibile agli occhi del pubblico ma presentissimo nello spettacolo. Come ogni cosa che sta sotto, fonda ciò che capita sopra. Elemento essenziale sia per gli attori sia per i tecnici. Se paragoniamo il teatro al cinema, una buona parte del montaggio, in corso d' opera, è realizzato nel piano inferiore. Tra i due livelli, quello superiore e quello inferiore, vi sono degli accessi, come ad esempio delle botole, dei portelli, dei ponti elevabili o girevoli, che fungono da soglia tra i due mondi, come il monolite di Odissea nello spazio 200 I ( 1968) di Stanley Kubrick, o l' ascensore che porta negli alloggi del dottor Tyrell in Biade Runner (I 982) di Ridley Scott, o la cabina telefonica di Matrix ( 1999) dei fratelli Wachowski. Porte che conduco su e giù gli abitanti delle viscere della terra. Dal sottopalco, come dei maghi, gli attori possono lì sparire o far scomparire, o essere inghiottiti negli inferi, come accade a Don Giovanni alla fine deUa sua folle sfida al convitato di pietra. L'articolazione dello spazio scenico, grazie a ciò che sta sotto, permette di elevare lo spettatore dalla sua seduta verso il cuore dell' azione, ovunque essa accada. Gli strumenti riposti nell'iposcenio sono molti, tanti sono i macchinari Il stipati. Possono mancare le carrucole? La vita del palco batte arzilla grazie alle fondamenta dell'edificio che si erge davanti a noi. La musa Urania ci indica la via verso il celeste deUa narrazione, alla trama che ci avvinghia, grazie al terrestre e ai suoi abissi che come Cto-

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nie (antico nome della terra), che costituisce il suo ordito, abbraccia e sposa Urano (il cielo). Moti orizzontali e verticali che formano il tessuto dello spettacolo; stoffa che non esisterebbe senza il pubblico. intreccio di strumenti e vie che, come un manto, coprono ciò che sta sotto, e svelano ciò che abita sopra. Lo spettacolo, per questo, è un insieme di sotterraneo e celeste, che solo grazie a questo intreccio produce il suo effetto, si compie. Senza ordito non vi è trama, senza sottopalco non vi è palco. Anche se non ci fosse, fisicamente, il sottopalco, è una funzione indispensabile per la riuscita dello spettacolo, e i registi inventano altri sotterfugi per compensare alla sua mancanza. Sotto è anche davanti, come quando vi è un' orchestra posta più in basso rispetto al piano del palco, dove dimora spesso la Musa Euterpe, colei che rallegra col flauto. Fossa dell' orchestra che si chiama golfo mistico, cavità tanto amata da Verdi che ne suggerì la costruzione al San Carlo di Napoli. Cavità visibile ma nascosta; con le sue lucine; come il coro del teatro greco che dialoga con l'attore in nome di tutti. Grazie al nascondirnento, per nulla periferico, della macchina-sottopalco, l'attenzione del pubblico che ammira. Stupore di chi, assorto, siede tanto in galleria o in proedria (la prima fila nel teatro greco) o sulle gradinate. Se tutti possono essere avvinghiati dalla trama, immedesimarsi nei personaggi, affogare nei loro sentimenti, è anche grazie al sottopalco che sostiene questo dolce naufragar.


la casa delle Muse

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ome possiamo immaginare un museo senza montacarichi? L'imponente Musée d'Orsay ha dodici ascensori e montacarichi. Un minuscolo Museum, recentemente aperto a New York, occupa lo spazio limitato di un sollevatore. Il Museo espone solo poche cose, di quelle che ha in cura. Le opere sono depositate in luoghi non accessibili. Oggetti che vanno riesumati e portati nelle sale espositive. La macchina museo, per questo motivo, è dotata di elevatori, lift, piattaforme a pantografo, upper, per persone e cose. Il museo è dotato di centraline (oggi armadi poco ingombranti, chiamati FLAT), flessibili e versatili. Parenti di tappeti e scale mobili, che segnalano le continue attività meccaniche di spostamento nel museo che è simile a un'automobile. L'edificio è uno spazio mobile. Gli apparati per spostare e dislocare sono un elemento fondante dell ' intera macchina. Lo stabile, infatti, è in continua trasformazione, vi sono sale con mostre permanenti e altre con esposizioni temporanee, e queste ultime richiedono continue modifiche. Le cose spostate possono essere minuscole o grandi, e poi ci sono le vetrine, i piedistalli, gli espositori. A volte le attrezzature sono progettate per le singole esposizioni, altre sono standard, stipate nei depositi. Gli elevatori sono come le scarpe alate di Hermes. Calzature che la Musa della danza, Tresicore, indossa. Sono come dei canali verticali che collegano le varie parti dell ' edificio, come vasi sanguini che portano il prezioso e vitale fluido a nutrire i distinti organi. Arterie, vene e capillari che danno vita ali' edificio. Alcuni sono lentissimi e altri velocissimi. Il cuore per il pubblico sono le esposizioni, ma quello del museo è ciò che collega depositi, archivi, sale, piani, perché tutte le attività realizzate siano possibili.

Il movimento rilevante, come dice la parola "montacarichi", è quello che di condurre in alto, contro la forza di gravità. L'ascensore sveglia i dormienti, se non i morti, e li porta in alto, verso lo spirito che allieta la mente e il cuore del pubblico. Senza questa elevazione non vi è rapporto tra i due mondi, quello dalle catacombe a quello superiore. Come nel film Metropolis (1927) di Fritz Lang, nel quale campeggiano ascensori che si calano lenti per portare in basso e in alto gli operai. A causa della ribellione e di un'esplosione l' accesso fra i due universi s'interrompe. Cascano i montacarichi. Non ne è più nulla della relazione tra i due mondi. Clio, la Musa

della storia, non può più raccontare nulla. L' intero museo (ecco il perché della suggestiva idea di fare un museo in un elevatore), è un montacarichi che solleva ciò che riposa negli abissi, e lo porta nello splendore delle sale, dove poter contemplare e godere dell'ammirevole vita delle cose.


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n museo, oltre alle sale d'esposizione aperte al pubblico, necessita anche di depositi. Fra i mandati essenziali dell'Istituzione vi è anche quello di conservare opere, collezioni. Una figura importante, fra i professionisti che vi lavorano, è il conservatore. È il responsabile delle collezioni cui sono affidate. Controlla e mette in opera il programma di stivaggio, organizza e fa eseguire l'inventario degli oggetti serbati, bada con puntiglio al loro stato, tiene aggiornata la documentazione sulle opere. Le cura come una chioccia fa con i suoi pulcini, se necessario fa eseguire dei restauri. Si occupa anche di progetti di ricerca, dell' arricchimento e della valorizzazione

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delle raccolte. Contribuisce attivamente alle esposizioni. È una specie di mente grigia del museo, come il tono delle mura dei depositi, che non compare all'aperto. Rispetto al pubblico è modesto e ammirevole, la sua professione permette di mantenere vivo il potenziale di espressione e di comunicazione delle opere, e l'aurea delle cose da lui curate. Per quest'attività ha bisogno di appositi locali e strutture che fondano le attività museali. I depositi sono chiamati anche rèserve. Non sono magazzini, che spesso evocano polvere e a volte confusione. Sono ambienti adatti, con le attrezzature necessarie per la conservazione. Luoghi invisibili eppure presentissimi

all 'Istituzione. Anche i depositi ricordano un poco il labirinto, inteso come luogo in penombra (spesso la luce è causa di degrado); vi si aggira il conservatore con i suoi collaboratori. Di notte vi circolano i guardiani. Tra statue, e opere che osservano, può sorgere un senso d' inquietudine, specialmente nell'oscurità. Opere che paiono prendere vita, o apparire come fantasmi. Qualcuno si ricorderà di Belfagor, dell ' omonima la serie televisiva, il fantasma del Louvre; una specie di Minotauro che si aggira nel labirinto sotterraneo a difesa delle collezioni che serbano misteri di culture antichi e moderni. Tra le Muse vi aleggia sempre Urania, la scienziata, esperta anche del sottosuolo, del profondo, del lavoro che sta dietro una mostra. Urania è impassibile e rigorosa, nulla le sfugge. Gli ambienti in cui lavora sono asettici, l'aria non è mai viziata, l' ordine è assoluto. Locali come scrigno di preziosi. I muri bigi, modesti, raccontano silenziosi di ciò che li è conservato, transitato, e di ciò che arriverà. I mobili sono pronti a raccogliere i gioielli, in riposo. Cose scelte, presagite, dalla vita ammirevole che di tanto in tanto è risvegliata e donata al godimento del pubblico; utenti che nulla sanno di questo riposare sotto il caldo manto del conservatore, delle pareti dei depositi, se non quando, il museo, apre le porte dei suoi locali più segreti, dei suoi inventari e laboratori.


La casa delle Muse

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n grande polo culturale, con museo, teatri, sala da concerto, un' ampia Hall, scale di qua e di là, depositi, locali di servizio, laboratori, spazi per vari scopi, deve funzionare sempre, d'estate e d' inverno; con temperature esterne torride o rigide. Ma dentro vige sempre lo stesso clima; l'umidità e l' aria vanno controllate. Le Muse che vi albergano esigono tutto questo, perché il mondo della ribalta deve risplendere anche grazie alle condizioni ambientali. Per ogni edificio è cosi, ma, considerando le dimensioni del LAC, l'impegno e lo sforzo per avere un cuore pulsante che regola la febbre dell' intera struttura, c' è bisogno anche di un cervello. C'è l'elettricità, con la sua centralina, poi vi sono gli apparati per la sicurezza, che esigono un loro encefalo, e anche la centrale termica abbisogna di una massa celebrale. Grigia, meglio bronzea, luminosa, stipata di cilindri metallici che si riflettono l' un l' altro come guerrieri; come l' esercito in terracotta dell' imperatore Qin a Xi 'an, ritrovato in Cina. Anche la centrale termica può ricordare un mausoleo sotterraneo, una scoperta archeologica. ln Cina i guerrieri fanno la guardia di una tomba, sotto una falda acquifera. Questa centrale è collegata al lago, fonte preziosissima per trasformare energia, con pompe termiche che sfruttano le diverse temperature a distinte quote, per produrre il clima necessario all'armonia vitale dell' intero corpo. La centrale termica è enorme, lucidissima, un articolato racconto fatto di elementi metallici che s' intrecciano come la trama e l' ordito per costruire un tessuto termico che ha il sapore di guerre stellari. Vi alberga la musa Urania, la scienziata. I vari elementi paiono armigeri che combattono battaglie, sulla flotta al comando dell' ammiraglio Ackbar, dando energia al va-

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scello: al museo, al teatro, alla sala concerti. I cilindrici guerreggianti, sono governati da ufficiali a forma di armadi, robot fatti di valvole e cavi, con tutte le necessarie attrezzature, cuciti di lucine verdi e rosse come mostrine che dichiarano il grado, e decidono gli ordini: il "no" brilla di rosso fuoco, il "si" luccica di verde smeraldo. I condotti sono le lunghe braccia dei sorveglianti, che corrono imponenti sui soffitti e penetrano in ogni anfratto, verso le varie sale, come i polipi robot di Matrix. Militari che non uccidono, ma portano ovunque il calore che fa vivere l'intero corpo, tramutato in aria temperata. Centrale come arma d'acciaio, adatta ad

affrontare qualsiasi sforzo. L' impresa della cultura necessità del fuoco che, con l'apporto dell'acqua, in questo caso del Ceresio, tempera l' acciaio, per addomesticare inverni ed estati, affinché il pubblico possa godere, come in tregua, del magico mondo dell'arte. Un esercito per la pace.



Le pubblicazioni di Opera Nuova

Artemis l. Luigi Rossini, Collerico, superbo, nel tempo istesso modesto, benigno. Scritti autobiografici, 2014 Riflessi I. Raffaella Castagnola - Matteo Viale, POESIT. Repertorio bibliografico dei poeti nella Svizzera Italiana, 2012 2. Oscar Mazzoleni - Andrea Pilotti - Marco Marcacci, Un cantone in mutamento. Aggregazioni urbane ed equilibri regionali in Ticino, 2014 3. Michele Arnadò, Disegnare il mondo, 20 15 4. Michele Arnadò, La casa delle Muse - LA C, 2016 Autografica I. Federico Hindennann, Cerchi di luce, 20 I O 2. PriscaAgustoni, Casa delle ossa, 20 l O 3. Pier Carlo Apoli nari, Preludi e foghe senza indicazioni di tempo, 2011 4. Roberto Milan, Il mare alla rovescia, 2011 5. Jacques Dupin, Scarto, 2011 6. Simone Fornara e Mario Gamba, / Cavalieri davanti al.fiume, 2011 7. AA.VV.,// punto i/lustrato, 20 11 8. Sergej Roic, Il gioco del mondo, 2012 9. Pierre Chappuis, Il mio sussu"o. Il mio respiro, 2012 I O. Gilberto }sella, Caro aberrante fiore, 2013 11. Giuliana Pelli Grandini, Le Marfùngole, 2013 12. Sergio Wax, Fragmentos, 2013 13. Michele Arnadò, Nient 'altro che cinque minuti, 2014 14. Sergio Wax, Terra e sale, 2015


Introduzione

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Laura Morandi

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L' arcoscenico

Giovanna Masoni Brenni

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La platea

Raffaella Castagno/a

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La sedia

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Il soffitto

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Il guardaroba

La casa delle Muse

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Il retropalco

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Il museo

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Il camerino

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La piazza

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Lasartoria

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La finestra

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La torre scenica

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Il foyer

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Fili, cavi e catene

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La sala espositiva

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Il sottopalco

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La sala concerti

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Il montacarichi

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Il teatro

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Il deposito

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Il palco

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La centrale termica

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Tutti i testi sono stati pubblicati nella rubrica "Il LAC come casa delle Muse" del "Cernere del Ticino" dal mese di gennaio del 2015 al mese d1 settembre 2015 Stampato a Lugano nel mese d1 gennaio 2016 dalla tipografia Lepori e Storni



Le Muse traghettano il LAC come una nave, quasi fosse il sottomarino Nautilus del capitano Nemo, per scoprire, sondare, recuperare i misteri più profondi e sommersi dell' animo dell'uomo; le sue perle, le sue invenzioni, i suoi progetti; le sue opere. Il Museo è il suo corpo, il Teatro il suo cuore, la Sala concerti la sua anima.

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