LA RUOTA GIRA
Immagina la scena: un neopatentato, uno fresco di patente, il giorno dopo che ha messo le mani sul volante per la prima volta. E bam, gli metti tra le mani una Rover 111.
Una scatola di latta che si crede un’auto seria, ma che in realtà è solo una lattina con le ruote. Ma non è fnita qui. Lo butti su una delle strade più pericolose d’Italia: la Pontina, da Nettuno a Roma. Sabato pomeriggio, una pioggia da monsoni. Pozze gigantesche che volano sulla strada, scavalcando il Jersey e ti piombano addosso come un fottuto tsunami. E i tergicristalli?
Sembra che un bambino stia cercando di salvarsi da un allagamento in piscina. Un disastro totale. E in quei momenti, in quella sospensione, ti sembra di essere in un altro mondo. Non sai più se sei vivo o morto. Se stai correndo o sei fermo. È una di quelle sensazioni che non dimentichi mai.
Eppure, si va avanti. Il viaggio è una curva continua, un tornante dopo l’altro. Passano 60 km e fnalmente, arrivi al GRA, il Graal della guida romana. E accanto a me, il Micio. Un panterone nero di 80 kg, che ora è bianco come una lenzuola da quanto è terrorizzato. Ma siamo vivi, e per ora basta così.
Poi, la direzione cambia. Serpentone della Magliana, dove c’è il mio primo sacchetto di roba da spaccio. Le rosa. Quelle che ti fanno volare in un altro universo.
E il weekend che comincia, il sabato che ti dilaga dentro come un’onda di pura follia. Perché domani c’è *ADIOS WALTER ONE*, e non ci si può arrivare a mani vuote. Si
deve arrivare con il malloppo.
Arriviamo sotto un palazzo che sembra uscito da un documentario su Chernobyl, grigio, devastato, con le fnestre sbarrate. È buio, un buio che non ti aspetti alle 6 del pomeriggio. Lui scende, io rimango in macchina, ma sono nervoso come un cane che ha visto il suo padrone sparire nel nulla.
Non ho idea se me la sto giocando alla grande o se sono un fottuto imbecille. Fumo la mia sigaretta, guardo fuori, aspetto. I minuti si fanno eterni. Poi arriva, con la faccia soddisfatta e il malloppo in mano. È il weekend che può cominciare.
Torniamo a Nettuno, ci separiamo, ma ci rivedremo tra un paio d’ore. È il rito. Ogni volta lo stesso. Ma io non lo so ancora, che il bello deve ancora arrivare.
Dopo un passaggio a casa, mia madre che mi fa il solito sermone da prete, prendo l’auto e scendo al centro paese per incontrarci con gli altri. Voglio piazzare qualche chicca in prevendita, fare qualche soldo. Il sacchetto nel taschino del bomber.
Dieci minuti di pensieri per decidere dove cazzo metterlo. Alla fne, taschino del bomber, fanco destro. Perfetto.
Poi, mentre cammino tra le vie buie, nel centro del paese, il mio mondo si frantuma in mille pezzi. Un gruppo di personaggi, più grandi di me, li conosco.
Ma in un modo che non mi piace affatto. E chi ti appare? La polizia. Due agenti, tre, cinque. Non posso credere ai
duta, dove il buio è pesto. Strade senza nome, completamente nel nulla. E accanto a me c’è il CHE. Il peggio che mi potesse capitare. Pazzo, skinhead, fuori di testa, senza freni. Il suo amico è altrettanto un disastro. Per loro la serata è già partita, si sono già sbafati ogni merda possibile. Io? Mi sento come un chierichetto accanto a loro.
E boom! Buco. Posteriore destra.
“Ma che cazzo,” dico. “È il mio primo giorno al volante, non so nemmeno come si cambia una gomma!”
Il CHE e il suo amico, però, sono già fuori, in trance totale, e in men che non si dica la gomma è cambiata. Si riparte, ma stranamente, in qualche modo, mi sento sollevato. Per ora, sono salvo.
Arriviamo all’Easy Life. Fuori tempesta, dentro un altro tipo di tempesta. Lampi, fulmini, gente fuori di testa. È l’ultima notte di Walter One prima di partire per il militare. Lui è un dio. Un martello del suono, cambia tracce come se non ci fosse un domani. Il delirio.
E io? Ancora niente. Non ho preso una chicca per me. Mi do da fare.
Poi incontro un tipo. Lo conosci, ma in un modo che ti manda fuori di testa. È lì per caso, è la sua prima volta.
Non sa niente di questo mondo. Gli offro una rosa, ma lui: “Io sto con un amico che ha delle Spectrum. Mescalina.”
E qui inizia la follia.
Il tipo mi guarda e dice: “Occhio, è mescalina.” Ma cazzo, io non ho paura.
Scambiamo. Due rosa per una Spectrum.
E in meno di dieci minuti, mi ritrovo a sentire il mondo che mi scivola addosso. Convulsioni, sensazioni di urto, il corpo che non lo sento più. La testa gira. Ho voglia di vomitare, ma non posso fermarmi. La musica è dentro di me.
E in un attimo, il mondo è solo luci, colori, suoni. La consolle davanti, le luci blu sotto i piedi, che non lascerò mai. Sono in orbita. Non ricordo come sono tornato. Non ricordo con chi, quando. Cazzo, non ricordo nulla.
Qualche giorno dopo, mia madre mi dice che la Rover è andata dal gommista. “Ha detto che siete stati fortunati a essere vivi. Avete montato la ruota al contrario.”
E in quel momento, mi rendo conto: ho appena giocato la tripla sulla ruota della fortuna. È ora di smettere. Ma chi sono io per fermarmi?
“SCUSI NON Si È SENTiTO COME HA DETTO? WALTER OOOONEEE”
ADAM. CHECK POINT TO HEAVEN.
Settembre 1994. Roma schiacciata dall’afa, ancora impregnata della puzza di piscio e smog dell’estate. Lavorare di giorno, fare festa di notte, sbriciolarsi il cervello sotto casse che pompano techno. Il ciclo perfetto. Ma ora era tempo di vacanze.
“Dove andiamo?” “In macchina, Amsterdam. Dieci giorni di fumo, feste e shopping psicotropo. Poi torniamo con la merce e ci ripaghiamo il viaggio.” Idea fantastica. Forse la più sobria che ci fosse mai venuta. “Ok, ai nostri diciamo Livigno, montagna, natura, che così non rompono il cazzo.” Partiamo quella mattina con la Clio verde bottiglia di Fabio.
Dentro, pochi bagagli e un cinquino di fumo per il viaggio. Tanto per tenerci rilassati. Tempo di arrivare a Brescia e il cinquino era già diventato storia, dissolto in fumo e risate sguaiate. Facciamo tappa da DJ Choice, il pusher di vinili.
Due ore dentro, ascoltando bombe techno come fosse pane appena sfornato. Lasciamo il 20% del budget in dischi e ripartiamo con ancora più THC nel sangue.
Fabio guida. È la sua macchina. Io ho la patente da tre mesi e smanio per provare il brivido dell’autostrada tedesca. “Mi fai guidare?” “Non ancora.” Stronzo. Ore 23. “Ok, guida un po’ tu, che io chiudo gli occhi.” Marco dietro già morto da due ore, in uno stato tra il coma e il nirvana. Ora ci sono solo io, le tenebre e la Clio che fende la Foresta Nera. Gli alberi sembrano ingoiarci. Strano effetto collaterale di una giornata a canne.
L’alba ci sorprende al confne olandese. Nessun controllo, nessuna divisa, solo il puro e semplice diritto di fare il cazzo
che ci pare. Haarlem ci aspetta, ma la stanza ce la danno solo alle 11. Sono le 8. “Che facciamo?”
Marco ha un’idea geniale. “Andiamo al coffee shop, prendiamo un cinquantino di fumo, cinquanta di erba e ci rolliamo un missile da 100 Gulden.”
Ottima idea. In tre minuti siamo operativi: tre cartine incollate, tre sigarette svuotate. Risultato: 30 cm di nero afghano, 15 di skunk, 15 di marocchino. Una torcia olimpica da paura. Finestrini chiusi, pioggia battente. Due ore di sonno e un trip mentale che nemmeno Tim Burton sotto acido. Quando riapriamo gli occhi, è pomeriggio. Strisciamo fno alla stanza e ci spegniamo fno al giorno dopo.
Amsterdam è una calamita. La capitale dello sballo, il laboratorio alchemico che cucina pasticche per il mondo intero. Ma prima, la nostra Mecca quotidiana: un negozio di dischi per DJ. Il titolare, DJ Paul, un grande. Discreto, ma con la merce giusta. La nostra cassa di Pandora. In quattro giorni ci sputtaniamo i soldi destinati a dieci. Il dilemma: usiamo i fondi per l’investimento?
No. Quei soldi sono per le pillole. Pillole che qui costano come i tortellini a Bologna. Ma trovare la roba buona è un’altra storia. A Dam ogni angolo è una trappola, una giungla tossica. Te li trovi ovunque: sbandati che ti sussurrano all’orecchio “ecstasy? speed? coke?” ma il 90% è merda.
E infatti cadiamo in una trappola. Vicolo stretto, due tizi davanti. Uno si gira, agguanta Fabio per il collo e gli punta un coltello enorme alla gola. “Dammi i soldi o sei fottuto!”
Un tossico italiano, eroinomane marcio. Il compare ci fruga.
Niente di grosso addosso, gli molliamo un cinquantino. Il bastardo ci lascia andare, persino scusandosi. Un cinquantino per placare la scimmia. Noi quasi ci pisciano addosso.
Soluzione: chiuderci in un coffee shop e riempirci i polmoni. E qui entra in scena John, afro-olandese molleggiato. Ci vede, ci squadra.
“Quante ve ne servono?” “300.”
Ride. “Sicuri di avere i soldi?”
“Certo, ma non te li diamo prima. Appuntamento domani a Haarlem, testiamo il prodotto e poi vediamo.”
John accetta. Non esistono ancora i cellulari, quindi vecchia scuola: appuntamento alla stazione alle 15. Il giorno dopo, John si fa trovare.
Puntuale come la cassa di Speedy J. Ci infliamo nella Clio, direzione boschetto ai margini della città. Fabio gli tocca il bomber per capire se ha una pistola. Solo un sacchetto. Dentro, 300 pillole bianche.
“Questa è roba buona,” dice. “Testatene una.”
Prima che fnisse la frase, già le avevamo ingoiate. Poi al bar, cocktail, biliardo. Due ore. Nulla. Nessun effetto. Nada. “John, che cazzo ci hai venduto?”
John sbianca. “Ah, voi volete quelle vere! Domani, Amsterdam, questo indirizzo.”
“Sì, John, sicuramente.” Col cazzo. Lui capisce, ci lascia il
riconosce più. Passiamo per le strade di Amsterdam, la città che ci ha mangiato vivi e ci ha restituito una versione distorta di noi stessi.
Arriviamo al negozio di vinili, la nostra piccola oasi nel marasma della follia che è diventata la nostra vita. DJ Paul ci sorride appena entriamo, e non è il solito sorriso da venditore, ma quello di chi sa che, per quanto la nostra giornata sia appena iniziata, potrebbe prenderci per il culo e farci credere che è il paradiso.
Facciamo quello che sappiamo fare meglio: mettere i dischi e sperare che il groove ci faccia dimenticare quanto siamo stati scemi. Shaolin Wooden Man - S.W.N., la nuova bomba, quella che ha fatto scattare la scimmia al The West, era sul piatto. Ma non era solo musica che ci scuoteva, era la consapevolezza di non aver ancora trovato le cazzo di pillole. Eppure, quando glielo raccontiamo, DJ Paul, che è sempre stato il nostro tipo di contatto, ci fa un sorriso strano, uno di quelli che fanno pensare “questo ci ha fregato”.
“Ragazzi, il vostro problema è risolto,” dice, sussurrando come se fosse in trattativa per una droga ancora più pesante della musica. “Abbiamo Fido Dido, Adam, Olimpioniche, Dollari. 10 Gulden l’una.” Il prezzo è ridicolo. Per 10 euro, volevamo credergli, ma la verità è che avevamo messo in gioco la nostra vita per quelle pillole. Una risata nervosa ci sfugge, e ci guardiamo, come se fnalmente avessimo trovato l’oro in fondo al tunnel.
Salta in macchina con noi. Ci porta nel cuore di un quartiere di Amsterdam, parcheggia sotto un palazzo decrepito e ci dice di aspettare. I minuti passano, ci guardiamo l’un l’altro
e il dubbio ci assale. “E se ci avesse fatto un pacco?” La paranoia cresce, si fa spazio tra le nostre ossa e ci blocca. Ma, in fondo, sappiamo che il nostro Paul non ci tradirebbe. Eppure, i secondi si allungano, i minuti diventano ore, e la macchina è un forno che sfrigola di fumo e ansia.
Quando fnalmente rientra, con il sacchetto nelle mani, sembra che il mondo si fermi. Le 300 Adam, rosse e calde al tatto, emanano un odore di chimica che ti fa perdere la testa solo a respirarlo. “Assaggiatele, ragazzi. Non vi preoccupate, sono buone. Ma state attenti alla frontiera.” E con questa frase, ci lascia lì, facendoci capire che l’unico vero amico che abbiamo è la sua merce. La fronte si accalca, la bocca sa di chimica e la mente scivola di nuovo nel buio.
Le pilole sono come la promessa di un altro mondo, uno dove non esistono limiti, dove tutto può accadere. Subito ci spariamo le prime, e non c’è più ritorno. Inizia la festa.
Un’orgia chimica che non si ferma mai, una botta che arriva come un colpo di fucile. Siamo fusi, con la testa che gira in un vortice di emozioni. La sintonia è totale: l’euforia è pura, l’estasi è nostra e il tempo si frantuma in un’infnità di attimi che sembrano non fnire mai.
La notte si consuma tra le alterazioni e le cose che non dirò mai, ma la mattina ci svegliamo con un pensiero fsso. Le pillole. Dobbiamo nasconderle. I confni ci aspettano, ma prima dobbiamo trovare un posto sicuro per il nostro carico.
Dopo ore di paranoia, decidiamo di nasconderle nel cofano anteriore della Clio, smontando il serbatoio del liquido per i tergicristalli. I dettagli, la precisione. La caccia al nascondi-
glio perfetto diventa una questione di vita o di morte.
Poi la Clio riparte, con il nostro cuore che batte all’unisono con la macchina, ma la scimmia ci ha già preso e non ci lascia. Le pillole sono sotto il cofano, ma il nostro viaggio è solo all’inizio. La frontiera ci chiama, e sappiamo che il rischio è sempre lì, a un passo da noi, con il suo volto minaccioso e le mani pronte a sbatterci dietro le sbarre.
E arriva il posto di blocco. La paura ci attanaglia mentre il poliziotto si avvicina, ma siamo pronti, lo sappiamo. I cani, il controllo. La tensione è insostenibile. Eppure, quando il poliziotto apre il cofano, ci guarda e trova solo un cappello dell’Ajax, un scontrino che sa di Amsterdam, e la nostra faccia da fuggitivi. Il cane impazzisce. È tutto dentro la nostra testa, in quel momento la macchina è una prigione che non riesce a trattenere il caos. Ma dopo un’ora di terrore, ce la facciamo. La multa arriva, ma le pillole sono ancora al sicuro.
Rilassati, pensiamo di averla fatta franca. Ripartiamo, ma la realtà ci sta già raggiungendo. Una frontiera italiana ci fa capire che il gioco non è fnito. L’incubo non è mai stato tanto vicino.
L’Inferno. Immaginate questa merda: noi tre, facce giallognole, occhi coperti da occhiali da sole per mascherare la nostra sbornia interiore, il fegato che grida vendetta dopo giorni di viaggi, pillole e fumo. Siamo scheletri che camminano, ma ce la facciamo, ci diciamo. E poi lui, il comandante della Finanza, che si avvicina al fnestrino con il viso di uno che non ha mai visto il mare e ti guarda come se fossi già colpevole, solo per il fatto che respiri.
to, dobbiamo trovarli. Marescià, apri ogni copertina, uno per uno.”
Il suo collega non dice nulla, ma la sua mano corre dentro ogni angolo come se volesse toccare il cuore della nostra esistenza. Noi restiamo zitti, quasi impassibili, ma l’ansia è come un pugno stretto.
Poi arriva la parte bella. Un bagaglio alla volta, e due fnanzieri con guanti usa e getta che si inflano tra i nostri vestiti. Passano dalle tasche, setacciano ogni angolo come se stessero cercando oro.
“Questo è tuo?” mi chiedono, indicando Marco. “Sì.” E loro continuano, annusando ogni cucitura. Il cane è con loro, futando la macchina come se volesse divorarla. Poi arriva il mio turno.
“Hai qualcosa da dichiarare?”
“Sì,” rispondo, sapendo che sono nel panico.
“Un grammo di nero afghano dentro un calzino.” Silenzio. Congelamento. E pensi: “Ok, ora è fnita. È fnita.”
“Un grammo di fumo? E prendilo, sto grammo di fumo!” dice il fnanziere con un sorriso strano. Mi prende il sacchetto, lo pesa. Un grammo preciso, 1,00.
“Un grammo. Bravo, mi hai detto la verità,” dice con tono che mi fa venire voglia di sputargli in faccia.
“Però non ci credo che avete solo questo,” aggiunge.
“Spogliateli!”
Iniziamo a spogliarci, uno per volta, mentre il cane futa ogni angolo, come se ci stesse cercando la parte più sporca di
noi. Poi ci mettono a nudo, dentro un’ulteriore umiliazione che ci strappa l’anima, e il fnanziere più giovane, con un tono beffardo, mi fa:
“Ma almeno sai che fumo è questo?”
“Sì, nero,” rispondo, cercando di sembrare calmo, ma dentro c’è solo panico.
“Questo è nero afghano,” dice lui, e lo butta nel secchio come se stesse sbarazzandosi di un rifuto.
“Fate passare i cani in macchina,” ordina il comandante, la voce che non lascia spazio ad obiezioni.
Il cane entra nella macchina, scruta ogni angolo, l’aria si fa pesante, come se ogni respiro fosse un crimine. Poi, l’incubo di ogni viaggio: Giovanni, il meccanico della Finanza, un tipo con la tuta che arriva come un insetto pronto a smontare tutto. Il comandante lo guarda con quella faccia da psicopatico e gli ordina di smontare la macchina. Un fanale dopo l’altro, un pezzo dopo l’altro. Giovanni, come un automa, esegue, ma ogni movimento mi fa sentire più piccolo, più inutile, come se stessimo perdendo.
Giovanni smonta, il comandante ordina, e la paranoia sale. La macchina è come un mostro da cui non possiamo scappare. Giovanni infla le mani ovunque, e il mio cuore è in pezzi, ogni secondo che passa è un’altra cosa che mi svanisce dentro. Poi arriva il momento, l’ultimo. Giovanni estrae la mano dal vano serbatoio e dice: “Niente, Comandà, non c’è niente. I Uaglioni sono puliti.”
Un sospiro di sollievo. Ma non so per quanto durerà. E mentre il comandante si allontana, quasi soddisfatto, il nostro respiro fnalmente si normalizza. La tensione va via, ma il cuore batte ancora forte.
“Vi dovrei fare il verbale per il grammo,” dice il comandante, ormai più tranquillo. “Per questa volta, andate. E non andate più ad Amsterdam, che è pieno di robaccia.”
“Grazie, Comandante,” rispondiamo tutti e tre, mentre saliamo in macchina, come se fossimo appena usciti da un incubo, ma con la testa piena di dubbi.
Per le prime tre ore non diciamo niente. La paranoia ci ha preso a tal punto che pensiamo che Giovanni ci abbia messo delle microspie dentro.
Non possiamo smettere di guardare ogni angolo, ogni suono, ogni respiro. Eppure, dentro di noi, sappiamo che ce l’abbiamo fatta. La nostra impresa da Ultrà dello sballo, quella che ci ha fatto sentire vivi e immortali, ora sembra un ricordo lontano, ma ancora ci brucia sotto pelle.
“SOMETHiNG FOR YOUR MiND BA BABA BA BA BA”
Ce ne stavano mille, di posti. Mille. E invece no, vanno a beccare proprio il DeJavù. Il privé del Quasar. Quello mitico, dicono. Mitico il cazzo.
Tre sale dentro un budello, un tunnel nero come il colon del diavolo. Il sofftto ti stava addosso, le pareti sputavano ombre. Tutto nero, tutto buio. Ma nero-non-bello, nero-da-sudario.
La consolle? nterrata. Affondata nel pavimento, come una tomba con i bassi. Ti stendeva i battiti nelle ossa, e fn qui ancora... dai, ancora ci si poteva stare. Il problema erano loro. Le due trappole maledette.
La piramide di vetro e la sala con le colonne.
La piramide... una serra per alieni impazziti, piazzata in cima a una scalinata.
Una gabbia trasparente da cui nessuno è mai uscito, perché nessuno c’è mai entrato. Ci provavano eh. Facce sbattute sui vetri, stampate lì come santi su vetrate gotiche.
Umani appiccicati al plexiglass, anime bloccate tra un kick e un’idea sbagliata.
Poi c’era lei. La sala colonnata. Colonne strane, a stella. Tipo spicchi, punte, lame architettoniche ricoperte di specchi.
Tu cercavi un amico? Finivi a fssare metà faccia di uno che manco conoscevi, l’altra metà eri tu. Cercavi la logica. Lo specchio. Il trucco. E invece niente. Solo malessere. Le
sinapsi andavano in corto, la mente a perdere. Gente che si toccava la faccia convinta d’esser diventata liquida.
Fuggivano. Sbagliavano. Sempre peggio.
Perché l’uscita era una bugia. Su per il corridoio stretto, a sinistra le scale illuminate come una trappola di Saw. E lì, la piramide. Di nuovo lei. Che ti guardava. Ti tentava. E tu... coglione, ci provavi.
Ad un certo punto, un tipo salta giù dalla balaustra per accorciare il tragitto. Folle.
Non calcola. Cinque scalini su, cinque giù. Ma il tunnel sotto faceva tipo cinque metri.
Il buio lo ha abbracciato e lo ha sputato giù, ginocchia sfondate, e una manciata di raver intorno a fssarmi come fossi caduto da un’altra dimensione. Quel tipo, ero io.
Ancora oggi ci si chiede come ne siamo usciti e come ne siamo usciti vivi.
Ma una cosa è certa. Ne siamo usciti ridendo. Eravamo nel bel mezzo del rave e della botta che per la cronaca era a base di gettoni del telefono girgi 100% morfna.
Parte la traccia mitica The Sound of Rome. Lory D. Quel campanellino del cazzo che squilla nel mezzo del caos. Fabrizietto mi fa segno. Io sfdo gli specchi, il male, la logica.
Arrivo da lui.
“Questo è il suono delle cime di metallo...che sbattono con-
“COLORS, COLORS, COLORS, COLORS”
DEDiCATO A WALTER, GUTA, ROBY, ATHOS E A TUTTi QUELLi CHE NON CE L’HANNO FATTA.