STORIE DI GENTE CHE SMETTE
D. mollò i francobolli dopo quella notte all'Abacab, fuori Terni. Torna a casa, chiude la porta dietro di sé, si barrica in bagno, tutto buio tranne il rifesso sgranato che gli urla in faccia dallo specchio.
Si guarda in faccia, cazzo, quella merda gli scorre nelle vene e gli fa schifo, ma non è fnita. Prende la roba che gli è avanzata – due strisce, un angolo di carta stagnola – e con una specie di eroica determinazione decide che basta. La scarica nel cesso. Ma, in quel momento, succede.
Un applauso scrosciante, ovazioni, cori da stadio, il rumore di un inferno che ti applaude. Si guarda intorno. Solo piastrelle sporche e il suo volto che si rifette, una faccia che non riconosce. Nessuno a parte lui. L’ultima ovazione prima del blackout. E poi il buio. Come una falce che ti taglia il respiro.
M. smise dopo quella cazzo di notte bruciata in una discoteca a Rivazzurra. Si svegliò all’alba, nel mezzo di un giardino che non conosceva, vestito, ma con quella sensazione strana, come se qualcosa stesse stringendo la sua pelle, come se non fosse più dentro il suo corpo.
Si toglie i jeans e, boom, l’orrore: non sono le sue mutande, ma quelle di un altro. Due taglie più piccole. Strette come un cappio che gli taglia la vita.
Ma cosa cazzo è successo stanotte? Non si ricorda un cazzo, solo una nebbiolina che gli gira nel cervello. Si sente soffocare. Ma è troppo tardi, ormai è solo il corpo che va avanti.
A. decise che il momento di piantarla era arrivato in autostrada, tornava dall’Insomnia. Obsessivo come sempre, con un’idea che gli si fcca in testa come un chiodo e non se ne va. Deve ascoltare quella cazzo di canzone degli 883.
Si attacca al tasto “search” dell’autoradio e, da Firenze Signa a Magliano Sabina, cambia stazione ogni sei secondi. Un’ora di scorrimento, tre ore senza trovare una cazzo di traccia. Il cervello gli esplode. Non la trova. Non trova nemmeno sé stesso. Il buco nel cuore si fa più largo.
E poi c’era F., la sua cazzo di tasca bucata. Partenza da Roma, direzione Jaiss. Nella macchina manca il "carico". Panico. M., il padrone dell'auto, sbianca, si congela. Parte la perquisizione isterica: mani sotto i sedili, piedi sui tappetini, mani che scavano come se cercassero l'uscita da un labirinto.
Poi il raptus: afferra i tappetini e li lancia fuori dal fnestrino, come un pazzo, come se potesse cancellare il problema. Fine della ricerca. Ma, una settimana dopo, il cane del padre di M., annusando i resti della macchina, trova un residuo di sostanza sparso sul tappetino, lo ingoia e fnisce dritto dal veterinario per una lavanda gastrica. Il padre non ha mai capito cosa diavolo ha ingoiato il cane. E il cane lo sa.
M. era il tipo socievole del gruppo. Quello che faceva amicizia ovunque. Al bagno, soprattutto. All’Insomnia si mise a chiacchierare per 45 minuti con un tizio di Bologna tra la Patchwork Place e la Divine Stage. Un’altra volta si incastrò davanti ai televisori, incollato al GP del Giappone con due
sconosciuti, uno di Montelupo e l’altro di Sarzana. Venti giri di pista. Al penultimo, se ne andò, li lasciò lì, con la bocca aperta, a fssare un futuro che non esisteva più.
A. invece, cazzo, era il farmacista del gruppo. Sapeva i prezzi, le fonti, ogni dettaglio di qualsiasi cosa avesse un principio attivo, e anche quelli che non lo avevano. Una volta, a Miramare, in un appartamento affttato per la solita settimana romagnola, si inflò in cucina e aggiunse due “dadi Star” speciali al sugo dell’amatriciana. Bucatini alla follia. Piatto unico, irripetibile. Stu-pe-fa-cen-te. Cazzo, se era stupefacente.
Si dice sempre che prima o poi si smette. Che si cresce. Ma certe storie, certe notti, non vanno via. Restano lì, appiccicate alla pelle come tatuaggi sbiaditi, sospese tra leggenda e delirio, a ricordarti che un tempo sei stato parte di qualcosa di più grande. Qualcosa che non si racconta. Qualcosa che si vive.
“MA PERCHÈ NON VAi DAL MEDiCO...MA CHE Ci VADO A FARE, NON VOGLiO MiCA SMETTERE Di BERE E Di FUMARE”
Era un cazzo di mercoledì tranquillo di aprile del '95. Il sole che sfonda le persiane, una luce che entra e brucia tutto. Ho appena scartato il pacco di vinili arrivato da Firenze.
L'apro con la frenesia di un tossico che apre la busta della roba, la voglia di entrare dentro, di farlo subito. C'erano dentro delle bombe, roba da guerra, roba che ti fa volare senza chiedere il permesso.
Ma poi l’occhio ancora lucido mi cade su un fyer microscopico.
Piccolo, strano, assurdo, come quelli che trovi in fondo alle tasche dopo tre giorni di festa, tutto sgualcito, pieno di segni di vita vissuta. UNIVERSO BETA presenta: INAUGURAZIONE ASHRAM. Mezzanotte - Mezzogiorno. UBJ, Masterfunk, Roby J, Miki, Sandro Vibot, Ciro, Gabri Fasano.
Minchia. E dove cazzo sarebbe ‘sto posto? Fucecchio? Mai sentito. Un buco sperduto fuori dal triangolo del bene e del male: Ponsacco, Tirrenia, Empoli. Mah. Lo fcco in tasca, non ci penso troppo e me ne vado.
Due giorni dopo, il solito gruppo lisergico si raduna al bar.
Discussione seria: dove cazzo passare il sabato? Dove festeggiare il compleanno del C.? E, cosa ancora più importante, che cazzo di spesa fare per il nostro picnic del weekend? Una sola idea rimbalzava tra le nostre teste distrutte.
Che cazzo ti dico a fare? I M P E R I A L E. Non fa male, sale sale. Ma i sogni si schiantano contro un muro di cemento armato chiamato "sghei".
Oh raga, qui non ci stanno i soldi per l’after!". Silenzio.
Ci guardiamo, e il bivio si fa grande come una cassa del Jaiss. O solo imperiale, o questa roba strana lì. Estraggo il fyer, piccolo ma presente. La crew mi guarda come se fossi pazzo: "Fucecchio?!". Nessuno lo conosce, nessuno ci è mai stato. Ma la voce di Ambrogio Fogar, il nostro nume tutelare delle trasferte, sussurra che vale la pena rischiare. Mille chilometri tra andata e ritorno. Che sarà mai?
Il giorno dopo, ore 16:00, siamo stipati nella mia Fiat Uno grigiolina. "Bruno" lo chiamavo. Un catorcio, cazzo, ma fedele. Sessanta all'ora, massimo. Ma ci siamo. Partiamo.
Viaggio lento, cervelli in progressione alterata, tra solfumigi, vodka calda e cassettine di Miki. La Uno diventa un privè ambulante. Quattro ore di ondeggiare e, fnalmente, siamo al casello. Abbasso il fnestrino a manovella e chiedo al casellante: "Scusi, Fucecchio?". "Adiritto". Ok, adiritto dev’essere dritto. Ripartiamo. Poco dopo, manco fossimo Benigni e Troisi, siamo lì. Campi a destra, campi a sinistra, e un’insegna lampeggiante: "Trattoria del Camionista". Perfetto.
Tre ore alla mezzanotte, quale posto migliore per passare il tempo? Entro, chiedo un succo di frutta (l'unica cosa che posso ingurgitare senza rischiare di vomitare un polmone) e mi attacco al biliardo. Stecca in mano, siga in bocca, adrenalina in corpo.
Verso le 23:30, si riparte. "Disco"… beh, chiamamola capannone. La fla c'è, ma noi sembriamo alieni. Ci guardano strano. "Ma questi da Roma che cazzo vogliono?". Lo capiamo subito: non è il solito pubblico, questi sembrano contadini in cerca di un’illuminazione mistica. Qualcosa non quadra. Ma siamo qui, entriamo. Che cazzo è ‘sto posto? Musica c’è, gente pure, ma l’amosfera è strana. Gira, gira, e alle quattro siamo già fuori con l’aria scazzata
METRi E ZERO SEi iN CONSOLLE C’È ROBY J”
QUEL CHE Di VEDE È
Ci guardiamo, ed è un attimo. Si parte. Seguiamo la Golf targata Genova come un branco di lupi. La processione notturna si allunga, un serpente di macchine che si perde nelle campagne toscane, anime disperate in cerca di quella cosa che ti fa battere il cuore e ti fa dimenticare tutto.
È il caos, è la speranza. Ore quattro del mattino. Solo i vampiri sono in giro, ma non ce ne frega un cazzo. Poi, d’improvviso, eccola. La Baita. Finalmente.
Entriamo. L’atmosfera ti entra dentro, ti gela la pelle, ti scuote i nervi. Sound system che ti esplode dentro come un tuono, una consolle che sembra un cazzo di altare sacro.
E sopra la consolle, un cartello gigante: Miki, Farfa, Open Space, Charlie Hall, Paul Cooper, Roby J. Il meglio del sound del Tirreno, pronto a incendiare la notte, a mandarti a puttane tutto il resto.
E la gente… Dio santo, la gente.
Un caleidoscopio che ti travolge. Vite che si intrecciano in un trip mistico, lisergico, al limite del razionale.Occhi sgranati, sorrisi congelati, corpi che si fondono e si lasciano andare al ritmo del cazzo di universo.
Paul Cooper è lì. Sta suonando con un Roland DJ-70. Mentre mixa, solleva una cornetta del telefono, ci parla dentro e la sua voce ci arriva distorta, robotica, metallica, fluttuando sopra un groove alieno che ti fa sentire
È suono che viene dallo spazio. E noi siamo lì, sospesi nel tempo, parte di qualcosa che non si fermerà mai, qualcosa che rimarrà incastrato nel cuore, un momento che non morirà mai.
I movimenti passano, le mode vanno a farsi fottere. Ma certe notti, certe esperienze non te le scordi mai. Resta tutto tatuato nel cuore, inciso nella carne. Perché non sono solo notti, sono visioni, rivelazioni. E quel cazzo di cartello sulla consolle, l’ultimo dettaglio prima dell’alba:
“THE WEST IL FUORI ORARIO. QUEL CHE Si VEDE È!”
Ore 22:00, sabato sera. Appena finito di mangiare, il cazzo di telefono squilla come un dannato. Ogni volta che rispondo c’è qualcuno che vuole sapere della serata. A che ora suona la star? È già arrivata? Mi metti in lista? Ma che cazzo, che mi stai chiedendo? Io ho un mal di testa che mi esplode e vorrei solo mandare tutti affanculo, sparire.
Troppa roba da fare stasera. Lista piena, se tutto va bene stasera mi porto a casa i soldi per la nuova scheda audio. E poi c’è l’inglese. Cristo santo, l’inglese. Dovrò tirar fuori il mio accento da porno anni '90 per scambiare due parole con l’ospite e passargli le tracce. Se gli piacciono, magari finisco sulla sua etichetta. Una traccia giusta, e sei dalla parte giusta, dietro quei cazzo di giradischi.
Laptop pronto, tracce selezionate, cuffie in testa. Bevo un goccio, giusto per sciogliere la tensione, per ammorbidire i nervi che già mi punzecchiano. La gente comincia a entrare. Saluti veloci, mani sudate che si intrecciano alle mie, bocche che parlano ma non sento un cazzo. Ho le cuffie in testa, non capite? Faccio finta di ascoltare, sorrido e intanto butto dentro la prossima traccia. Eccola. Nuova di pacca, spaziale, beat spezzato, una bomba. Ma non piace. La pista è ferma. I cazzi di questi, fermi, a bere e chiacchierare. Stronzo io o stronzi loro? Non gira, non scatta. Forse ho sbagliato setup, forse è solo una di quelle serate che non riesci a salvare. PR che blatera, che cazzo me ne frega. Non mi interessa.
Vorrei essere ovunque tranne che qui, ma non posso permettermelo. Non posso lasciare che qualcuno mi soffi il posto, che mi faccia fuori. Cambio traccia, ne metto un’altra, un’altra ancora. Niente. I mix vengono fuori di merda. La tensione è un nodo che mi sale nella gola. Poi, finalmente, arriva quel break: tappeto, cassa morbida, synth che ti entra dentro, ti ruba l’anima. Un urlo dalla pista. Ecco, finalmente, cazzo.
Sento il brivido. Ho trovato il binario. Un’altra traccia. Mix perfetto. Il mixer è mio, il club è mio. Ora sono io a decidere. Prendo l'energia, la plasmo, la restituisco, e la pista mi risponde. Questa è la droga, cazzo. Questo è il motivo per cui fai il DJ. Per questa cazzo di connessione che ti fa sentire tutto.
Non posso esagerare. La star deve avere il suo momento. Ma adesso, cazzo, tocca a me. Metto un mio pezzo. Lo equalizzo bene, nessuno noterà la differenza. Sicuramente è colpa della scheda audio di merda.
E arriva lui. Si mette lì, davanti. Mi chiede che cazzo sia quella traccia. Gli dico che è mia. Annuisce, un cazzo di complimento. Boom. Secondo brivido della serata. Questo è quello che ti fa andare avanti, non le serate, non la musica, ma l’attenzione di chi è sopra di te, che ti guarda, che ti sente. È quella roba che ti tiene acceso, che ti fa andare avanti.
Fine serata. Busta paga. Mancano soldi. “Recuperiamo la prossima volta.” Ma vai a farti fottere, quante volte l’ho sentito? Quante volte lo sentiremo ancora?
In questo cazzo di mondo la passione e il business
non si incontrano mai. Ti fregano, ti usano, ti svuotano. Ma la fiamma non si spegne. Si affievolisce, si trasforma, ma non si spegne mai. E chi ti ha fregato oggi, domani sarà già dimenticato.
Ore 6:30, domenica mattina. Torno a casa. Incazzato per i soldi, ma con il cuore leggero. Ho fatto quello che amo. Ho fatto divertire. Ho spaccato. Chissà se domani ci sarà una cazzo di mail da quel DJ. Chissà.
“SE NON METTi L’ULTiMO NOi NON CE NE ANDiAMO”
SOTTOZERO? NO, POINT ZERO
Era il 5 gennaio del '95, la vigilia della Befana. Ero lì, buttato nel letto come un cadavere, distrutto, reduce da trentasei ore di coma autoindotto. Capodanno al Cocoricò, after al Cellophane, primo dell'anno al Pachá. La mia trilogia della devastazione, cazzo.
Quando finalmente riapro gli occhi, è mezzogiorno passato, e il mio stomaco è sigillato, chiuso a doppia mandata.
L’anfetamina mi gira ancora nelle vene, mi strizza l’intestino e mi fa venire voglia di scolare solo acqua frizzante e bestemmie. Barcollo fino alla cucina, infilando qualcosa in bocca senza nemmeno sapere cosa sia. E poi il telefono squilla, cazzo. Quasi mi cago sotto. Rispondo.
Massimo, esaltato come un cane rabbioso: — Fratè, stasera si va al Torquemada!
Non ci penso, il mio cervello fa già "sì" prima che possa aprire bocca. — Tienimi un posto!
Il Torquemada era *LA SERATA*. Firenze, Happyland, Campi Bisenzio. Un buco di club, ma con un’anima che faceva tremare tutto, cazzo.
Toscana batteva Riccione uno a zero, senza discussioni. Se volevi sentire i migliori, quelli che ti staccano il cervello con un beat, li trovavi lì. Non serviva altro.
Mi ributto sul letto, sperando di dormire un altro po’,
ma l’adrenalina mi picchia in faccia, mi schiaffeggia. Mi vesto
come un soldato: divisa da guerra, jeans strappati, Doctor Martens slacciati. Pronto.
Alle otto e mezza, la Polo di Massimo mi raccoglie sotto casa. La macchina è piena, tipo *banda del buco*: Massimo al volante, Fabrizio come navigatore, dietro io, Umberto e Fernando. Sorrisi storti, guance di plastica per l’effetto Capodanno che ancora gira nei nostri corpi distrutti.
Il viaggio verso Firenze è un incubo: tra un documentario sulla fauna tossica e un film di sopravvivenza in Siberia. Neve, ghiaccio, micce bruciate per ingannare il freddo.
Ci fermiamo all’autogrill, un incontro ravvicinato con i caramba. Ci conoscono, sappiamo chi sono. Ci sniffiamo l’aria. Documenti, controllo di routine, poi il saluto veloce:
— Ok, fate buon viaggio.
Ripartiamo. Una nube di fiato ghiacciato ci avvolge nell’abitacolo. L’Happyland è un alveare impazzito. Parcheggio pieno, lasciamo la Polo in una vietta, sperando che al ritorno sia ancora lì, intatta.
Dentro è il paradiso. Consolle: Ricky Leroy resident, ospite Miki. Animazione Guta. Il tema della serata: "Point Zero", un traccione che sembra avanti di dieci
anni. Quando parte il pausone cantato, il tempo si ferma, il mondo si scioglie. Brividi, occhi chiusi, mani al cielo. Ci siamo dentro fino al cazzo di midollo.
Alle quattro e mezza, la grande famiglia si scioglie. Saluti veloci, pacche sulle spalle, promesse per il prossimo weekend. Braccia conserte, Doctor Martens slacciati, temperatura che non frega a nessuno. Usciamo cantando "Point Zero" come fosse un inno sacro.
E poi… il drama.
Il finestrino del passeggero fracassato. Frammenti di vetro sul sedile, il gelo ci fischia nelle orecchie. Restiamo lì, fermi, a fissare l’auto come se fosse una cazzo di magia che potrebbe aggiustarsi da sola.
Soluzioni:
1. Restare fino al mattino, cercare aiuto. Ma è il giorno della Befana e siamo con sessantamila lire in cinque, sigarette contate, e il casello da pagare.
2. Ripartire subito, quattrocento chilometri sotto un vento artico che ci strappa la faccia.
Una scelta razionale ci sarebbe. Ma razionalità è roba da stupidi, non per chi si fa otto ore di viaggio per ballare quattro.
Saliamo in macchina. Massimo guida, Umberto davanti, io, Fernando e Fabrizio dietro. Giubbotti tirati fin sopra il naso, cappelli schiacciati sulla testa, io
senza guanti.
Massimo apre il cofano, tira fuori una coperta di lana. Ce la buttiamo addosso come quattro nonni che si riparano dal freddo.
Temperatura: meno due gradi.
Il vento ci trapassa i denti, la faccia è insensibile, le lacrime che si ghiacciano non appena toccano la pelle. Tra un tremito e l’altro, sfottiamo:
— C’ho un pinguino che me sta a fa’ un blowjob!
Proviamo a fumare, ma l’aria ci spegne tutto sul nascere. Dopo settanta chilometri, ci fermiamo all’autogrill. Un caffè bollente che non serve a un cazzo. Il benzinaio ci ignora. Ripartiamo. Cambiamo posti per non congelare sullo stesso lato. Più che un viaggio, sembra una punizione divina.
Finalmente, entriamo nel Lazio. Un altro benzinaio, un’altra speranza. Stavolta ci va bene. Un tipo con l’anima buona si avvicina, ci guarda storto:
— Ma che cazzo avete combinato?
— Duecento chilometri senza finestrino.
— Voi siete pazzi.
Lo imploriamo. Il Messia si arma di nylon, nastro adesivo e cartone. Ci fa un finestrino di fortuna. Poi ci vede fumare e chiede un tiro. Gli diamo tutto quello
“IL VENERDÌ Si VA DAL BiS.”
IL SIGNORE IN AFTER HOUR
vers fosse stato sparato in mezzo a una festa di Laura Biagiotti. Completamente fuori posto. Ma, strano, cazzo, c’è qualcosa che mi attira. Qualcosa che mi fa guardare ancora.
E il mito cresce, come sempre succede quando qualcosa non dovrebbe essere lì. C'è chi dice di averlo visto, chi rac conta che qualcuno l’ha sentito parlare. E poi ci sono quelli
che lo cercano, per fare due risate, per capire se è davvero così strano.
Nel frattempo, Gabry il caccia pompa la musica. Boom boom boom. La gente impazzisce, ma c’è solo una cosa che conta: lui. Lo yuppie.
La creatura che cammina controcorrente, come se fosse in un film sbagliato, come se fosse stato lanciato direttamente in un incubo e noi eravamo troppo occupati a ballare per capire che la sua presenza era tutto quello che ci importava.
Tre ore dopo.
La pista è una palla di corpi impazziti, un masso di carne che rimbalza e si contorce al ritmo della musica. E poi lo vedo, lo sento. Un gruppo di teste intorno a qualcosa, come se stessero cercando di decifrare un enigma. Mi faccio largo, voglio vedere anche io. Cosa sta succedendo?
Lì, al centro, c’è lui. Quello che non apparteneva a
nessuno. Un uomo sulla trentina, ma adesso è diverso. Ha i pantaloni grigi che oscillano, il petto nudo, la camicia bianca legata in vita, cravatta in testa come un bandito.
Si muove come un animale, il corpo che sfida la gravità, volando, ballando, fluttuando sulle onde chimiche che ci stritolano tutti. La giacca che gira nell’aria come se fosse un cazzo di Tony Manero.
È lui. Ma adesso, cazzo, non è più lui. Ora è uno di noi.
E qualcosa mi dice che lo sarà
WE ARE THE REAL CLUBBERS
Ho visto cose che voi non clubbers, nemmeno immaginate.
Ho visto sconosciuti abbracciarsi come fratelli.
Ho visto le inibizioni svanire in un sorriso.
Ho visto carovane capaci di arrivare ovunque.
Ho visto razze diverse parlare la stessa lingua.
Ho visto amare una cassa come una persona.
Ho visto l’alba due volte nello stesso giorno.
Ho visto anche quello che non c’era.
Ma tutto quello che ho visto, non è nulla, senza quello che ho ascoltato.
We are the techno clubbers.
Il caldo è una colata di lava, un coperchio d’asfalto che ci tiene chiusi dentro la Volvo 480 coupé viola. Un colore che non esiste in natura, un colore da cartone animato, un colore che urla “fermatemi, vi prego”.
Gli interni sono in alcantara, la cosa più vicina a una bara foderata di velluto in cui puoi inflarti senza essere morto.
Questa stupenda auto oltre ad essere alta pochi cm da terra, oltre ad avere questi interni che sudano da soli è anche la prima auto con un catalizzatore, il ché si traduce in un forno crematorio, Siamo già sudati prima ancora di partire, impanati di umidità e paranoia.
Perché come se non bastasse questo esemplare unico che puoi ben distinguere e ricordare anche se sei testimone al processo di cosa nostra, la situazione a bordo aggiunge l’inverosimile al paranormale.
Io sono al volante, un Billy Idol da discount con la mia chioma biondo platino che si incolla alla fronte. Indosso una tutina con bretelle a scacchi bianchi e blu, lunghezza bermuda, maglietta aderente grigia che mi si appiccica addosso come una seconda pelle umida, occhiali da sole verde fuo che rifettono il sole come specchietti da porno anni ‘80.
Accanto a me, Apple. Maglietta Walt & Co. con sopra qualche supereroe che sembra volersi strappare via dalla stoffa e scappare lontano da noi. Capello alla Gianduia Vettorello, orecchino al naso che non smette di toccare da oltre 100 km.
Dietro, quello normale. Ma normale non lo è manco per il
saforte chimica su quattro ruote che ci sta portando verso una settimana di disco, after e spaccio sulla riviera toscana. Vada, il nostro Eldorado della devastazione.
Il motore ruggisce mentre divoriamo l’Aurelia, un serpente di asfalto che serpeggia attraverso la costa. Il vento caldo ci sferza la faccia, ma non basta a spegnere il forno in cui siamo rinchiusi. Sudore, adrenalina, le pupille che pulsano dietro le lenti. Poi, all’altezza di Piombino, il primo schiaffo della realtà.
La strada si divide in corsie segnate da birilli arancio fuo. Un colpo nello stomaco.
Arresto cardiaco in corso.
Mega posto di blocco della fnanza.
Ci sono auto in fla, tutte ferme una a una, mentre un fnanziere le scruta, scandagliando facce, facendo segno con la paletta se passare o accostare. Un occhio allenato. Un occhio che ha visto tutto. Che ha sgamato tutto. Che può farti esplodere la vita in un secondo.
E noi? Noi siamo la cazzo di parata del “fermateci subito”.
L’auto viola alieno, il forno di velluto, io con la mia tutina che urla “sono un pagliaccio strafatto”, Apple con la sua maglietta aderente a maniche lunghe!!!! da supereroe e le sue cinquemila ragioni per cui dovremmo accostare e farci prendere a calci in culo direttamente fno a Vada.
Leviamo la techno dallo stereo, mettiamo la prima cosa che
cazzo. Lui è il padrone delle cinquemila chicche stipate nei pannelli della macchina, la sua banca personale, la cassaforte chimica su quattro ruote che ci sta portando verso una settimana di disco, after e spaccio sulla riviera toscana. Vada, il nostro Eldorado della devastazione.
Il motore ruggisce mentre divoriamo l’Aurelia, un serpente di asfalto che serpeggia attraverso la costa. Il vento caldo ci sferza la faccia, ma non basta a spegnere il forno in cui siamo rinchiusi. Sudore, adrenalina, le pupille che pulsano dietro le lenti. Poi, all’altezza di Piombino, il primo schiaffo della realtà.
La strada si divide in corsie segnate da birilli arancio fuo. Un colpo nello stomaco.
Arresto cardiaco in corso.
Mega posto di blocco della fnanza.
Ci sono auto in fla, tutte ferme una a una, mentre un fnanziere le scruta, scandagliando facce, facendo segno con la paletta se passare o accostare. Un occhio allenato. Un occhio che ha visto tutto. Che ha sgamato tutto. Che può farti esplodere la vita in un secondo.
E noi? Noi siamo la cazzo di parata del “fermateci subito”.
L’auto viola alieno, il forno di velluto, io con la mia tutina che urla “sono un pagliaccio strafatto”, Apple con la sua maglietta aderente a maniche lunghe!!!! da supereroe e le sue cinquemila ragioni per cui dovremmo accostare e farci prendere a calci in culo direttamente fno a Vada.
Leviamo la techno dallo stereo, mettiamo la prima cosa che capita per non destare più sospetto di quanto desteremmo a qualsiasi essere sulla terra dotato di senso del crimine.
Ho una fottuta vampata di calore sul calore. Mi sento il cervello sciogliersi nelle orecchie. Ogni muscolo del mio corpo sta urlando. Devo respirare. Devo fare il vuoto. Devo diventare invisibile.
Apple non dice una parola, tiene lo sguardo fsso davanti a sé, come se potesse dissolversi dentro il parabrezza. Io rallento, dieci all’ora, scivoliamo accanto alla fnanza, e in quel momento mi rendo conto che, se fossi stato io il fnanziere, ci avrei fermato. Ma senza neanche pensarci. Solo per la cazzo di Volvo viola con fari a scomparesa. Cioè, il dubbio non si sarebbe manco posto. Avrei fermato me stesso.
Invece no.
Non succede un cazzo. La paletta si muove. Avanti.
Un altro respiro. Il cuore riparte. Siamo ancora vivi.
Se avessi un Jolly da giocarmi con Dio, me lo sono giocato adesso. Fine.
Il resto della vacanza è un buco nero. Frammenti, pezzi di notti che si sbriciolano come biscotti stantii. Musica, sudore, botte di vita, botte di morte, sonni comatosi su divani che puzzano di gin e rimmel sciolto.
E poi.
Poi solo un lampo chiaro, nitido, inciso a fuoco nella nebbia.
Parcheggio all’alba. Un pompino di una brasiliana incontrata dopo l’after in pieno centro a Vada. Lo ricordo bene. Una bocca calda, la testa che va su e giù come un metronomo impazzito. Il primo raggio di sole che fltra attraverso il parabrezza appannato. Gente che passa per andare a prendere il cappuccino. La macchina che odora di pelle, sigarette e segreti. Bello. Bello davvero.
Se non fosse che poi ha sboccato.
Dritta in macchina.
Ma non era la mia.
Era di Apple.Si la Volvo viola era di Apple. Approposito, dov’è Apple.
Cerchiamo di ripulire il tutto alla meno peggio e torniamo dove li avevamo lasciati. A casa di coso. Si coso.
Coso, uno conosciuto al Desko, un ex ristorante coi sofftti a 2 metri trasformato im una saunadiscoteca. Coso è un tossico, di quelli da roba, con la faccia scavata dal tempo e dalle scelte sbagliate. Ci aveva visto, ci aveva annusati. “Se vi serve un posto, venite da me.” Non c’era altro da dire.
Ci troviamo in una casa che puzza di sigarette vecchie e abitudini marce. Il materasso buttato per terra, il tavolino pieno di bottiglie vuote, resti di vita vissuta a caso.
E poi lei.
Sua moglie. Altrettanto, tossica.
Bionda slavata, occhi persi, una canotta che le scivola giù dalle spalle ossute. Ci guarda. Lui sorride, le infla una mano sulla coscia. “Se vi serve roba, magari possiamo trovare un accordo.” Il sottinteso è un coltello che ci scivola dritto nel cervello. Lei non dice niente. Sembra lontana anni luce, come se il suo corpo fosse lì ma il resto fosse evaporato da un’altra parte.
Apple mi guarda. Io guardo lui. Qualcosa si spezza nell’aria.
Non è la nostra partita. Non così.
Prendiamo la roba e usciamo. Lei resta lì, immobile, come un fantasma intrappolato in una vita che non ha scelto.
Vada è il paradiso. Ma anche l’inferno. Dipende da quale porta scegli di aprire.