

STORIE DI CLUBBERS
Le notti che hanno segnato una generazione
Ci sono sensazioni che non puoi spiegare, perché non esistono parole per descriverle.
E se non le vivi, non potrai mai comprenderle.
A volte durano il tempo di un attimo ma ti rimangono dentro una vita.
E basta riascoltare quel disco, sentire quella cassa nello stomaco che un brivido ti percorre tutto la schiena e ti arriva dritto al cervello.
In quei momenti, chiudi gli occhi e balli.
Come se non ci fosse più nessuno intorno a te.
Te ne fotti dell’orgoglio.
In un attimo dimentichi tutti i problemi e il male della vita.
E anche se a volte, rischiamo la follia per questi attimi di luce, alla fne, sappiamo sempre, che ne è valsa la pena.
We are the real clubbers.
PREFAZiONE
Negli anni ‘90, la Toscana era una delle culle del clubbing italiano. Un movimento sotterraneo ma vibrante, fatto di luci stroboscopiche, casse dritte e un’energia collettiva che si alimentava ogni weekend. Non era solo musica, non era solo ballare: era un rituale, un viaggio condiviso tra anime affamate di libertà e nuove esperienze.
Le serate iniziavano molto prima di varcare l’ingresso del club. C’erano i viaggi in macchina, le cassette mixate che giravano tra amici, le dritte sui DJ set più caldi del momento. Le informazioni non si trovavano online, si passavano di bocca in bocca, tra fyer lasciati nei bar giusti e numeri di telefono scritti a penna su foglietti sgualciti. Il passaparola era la rete sociale di allora, e chi sapeva dove andare aveva in mano la chiave per entrare in un universo parallelo.
I DJ erano veri e propri sacerdoti di questa cultura. Non erano semplici selezionatori di brani, ma narratori di storie sonore che guidavano il pubblico in un viaggio. I loro set non erano facilmente accessibili: le registrazioni delle serate fnivano su cassette duplicate decine di volte, passavano di mano in mano, diventavano colonna sonora dei ritorni a casa all’alba. Quelle compilation non erano solo musica, erano testimonianze, reliquie di notti irripetibili.
Ogni club aveva la sua identità: c’era chi spingeva la techno più oscura, chi abbracciava l’house più calda e chi sperimentava contaminazioni inedite. Ma ovunque regnava la stessa flosofa: lasciarsi andare, essere parte di qualcosa di più grande, vivere il momento senza pensare al domani.
Avvertenza per il corretto uso di questo libro.
Le storie raccontate in questo libro sono state realizzate in un tempo chiuso da clubbers professionisti e non vogliono in nessun modo suggerire comportamenti da imitare, anche perché non sarebbe una cosa impossibile in questo mondo di oggi.
I protagonisti sono ancora vivi, godono di ottima salute e non sono fniti sotto i ponti.
Nonostante le numerose ricerche in materia di danni celebrali procurati dalle sostanze psicoattive, al momento, i soggetti citati non riscontrano nessuna conseguenza sulle loro capacità cognitive o altri particolari problematiche da ricrodurre, riconduer, ricondurre all’uso di tali sostanza in quanto, un momento, che,...che...cazzo volevamo dire?
Aut.Min.Neg. Leccare sul retro della copertina.
G.R.A. USCITA RAVE
E poi: il lampo. Un’esplosione di luce a cento metri, un fash che ci fotte la retina, il cuore che salta un battito.
Silenzio.
Poi la pioggia riprende, la macchina riparte, e noi con le mutande bagnate e i battiti accelerati cambiamo rotta: si va al Mithos di Ostia, l’unico after-hour della capitale. Strade mezze allagate, un testacoda sulla rampa d’accesso, la Clio che danza da sola come un’ubriaca e noi fermi, girati nel senso opposto, con il Black che scende dalla Clio, e in mezzo alla corsia ci guarda e mimando la piroetta dice.
“MAMMAMIA! DA PAURA!...VISTO CHE HO FATTO?!
Non rispondo, perché se apro bocca lo strozzo. Arriviamo al Mithos col sole che sorge, il cielo che si tinge di rosa. Ma la scritta sulla porta è una pugnalata:
CHIUSO.
Non esiste. Noi non torniamo a casa così. Portiere spalancate, stereo a palla, ci mettiamo a ballare davanti al cancello. Occhi iniettati, facce strafottenti, musica che spacca la quiete domenicale. Le macchine rallentano, ci scrutano. Noi niente, avanti e indietro come alieni su MDMA, fnché qualcuno grida: “VOLANTI!”
Spariamo via, al buio, sulla litoranea. Braccio fuori dal fnestrino, pelle umida, il beat ancora nel sangue.
Mi ripeto “Devo fare piano. Nessun rumore. Entro in casa e
nessuno si accorge.”
Abbasso lo stereo duecento metri prima. Scendo piano. Chiudo lo sportello in silenzio. Saluto il Black con un cenno muto. Mi avvicino al cancello, mano leggera sulla maniglia.
E suono il citofono.
CAZZO.
La luce del giorno mi ha tradito.
“KEEP THE RAVE GOING”
DESTRA O SINISTRA
piccolo dettaglio: Nando, accasciato dietro come un cadavere tiepido, ha ancora le sorpresine addosso. E Kallina non ci sta.
“Oh raga, non possiamo andare in giro con ‘sto coglione carico come un mulo. E se ci fermano?”
È un tipo previdente, lui. Uno che pensa al bene comune. Così, senza manco svegliare Nando, gli infila la mano nel giubbotto, arraffa la bustina e… beh, problema risolto nel modo più ovvio.
Si parte. Brusco guida con la precisione di un bradipo strafatto, io e Nando dietro, con Nando che continua a dormire il sonno dei giusti. Kallina accanto, a fare da navigatore.
Col senno di poi, è stata una pessima idea. Perché Kallina, prima di partire, s’è mangiato tutto il malloppo di Nando come fossero caramelle. Risultato: ogni cazzo di bivio diventa un trip mentale.
“Di qua raga, sicuro. Destra.”
Giriamo a destra.
“…O forse era di là?”
E giù inversioni, deviazioni, bestemmie. Due ore in un limbo di strade uguali, prigionieri della mente impallata di Kallina.
Due ore di giri senza senso, mentre l’auto diventa un
girone dantesco su quattro ruote. Il destino è segnato: o diventiamo anime erranti su ‘sto asfalto maledetto, o ci riportiamo Kallina a Roma e buonanotte ai suonatori.
Poi, all’improvviso, la svolta. Il miracolo. “Fermate, fermate! Mi sa che è qua!”
E lo era, Cristo santo.
Ancora oggi ringrazio la mano invisibile che ci ha portati fin lì. Perché, giuro su Dio, se non fosse andata così, saremmo ancora là, a girare a vuoto. O peggio. Molto, molto peggio.
“S E NON T i iM PORTA D OVE SE i, NON T i SE i PERSO .”
TORO SEDUTO HA BUCATO
Era l’estate del ’95, l’estate in cui il caldo ti schiacciava il petto e la realtà si piegava sotto il peso del sudore e dell’MD. Era l’estate in cui c’era THE WEST. La riserva. Il richiamo della giungla sintetica echeggiava da giorni nei nostri cervelli fritti, e noi ci preparavamo come dannati a quel battesimo tribale di bassi e delirio. Una settimana di fomentazione, chiamate clandestine, dosi nascoste nelle scarpe e corpi afflati come coltelli per il grande rito.
Noi, branco di sciamani tossici in costume da indiani post-apocalisse. Chi con una piuma rubata a un gabbiano morto sulla spiaggia, chi con un poncho di pelle cucito da una nonna inconsapevole, chi, come me, con un gonnellino di felpa tagliata male, una maglietta fuorescente dell’Olanda e i capelli biondo platino. Guerrieri del caos. Avanguardia della rovina.
Ore quattro del mattino. Siamo pronti. Sembriamo un carnevale psicotico su ruote. La mia diligenza: una Rover 111 nera, quattro metri quadri di disagio meccanico con interni in alcantara rovente, un cesso su quattro ruote con pretese da macchina seria.
A bordo con me: Marc, torso nudo, vernice blu sulle guance e un sorriso da squilibrato; Pecca, la sua fotocopia con più piume e meno sinapsi funzionanti; e Roberta, ribattezzata “Gnocca Seduta”, un mix letale tra Pocahontas e una pornostar da VHS.
Statale Aurelia. Le prime luci dell’alba sfregiano il cielo, la cassetta nell’autoradio gira in loop da ore, il basso pulsa, le ruote mangiano chilometri. La bottiglia d’acqua, arricchita di pastarelle sbriciolate e francobolli psichedelici, passa di mano in mano. Ridiamo. Dio, se ridiamo. Senza motivo, senza sen-
so, solo per sentire il suono della nostra esistenza dissolversi nell’aria calda della notte.
Poi. Bibbona. Il Destino ha voglia di scherzare.
BUCATO. Posteriore destra.
Merda.
Accosto. Corsia d’emergenza. Domenica mattina. Sette e qualcosa. Sole che scava crateri nelle tempie. Scendo dalla macchina, incazzato. Loro? Loro ridono. Bastardi.
“Scendete e datemi una mano, cazzo!” urlo.
Scendono. Continuano a ridere. Pecca si accascia sul guardrail come se fosse un divano imbottito di ketamina. Marc si specchia nel fnestrino cercando di capire se la vernice blu gli dona. Gnocca Seduta mastica una Big Babol come se fosse l’ultimo pezzo di cibo rimasto sulla Terra.
Io cerco il crick. Cerco la chiave. Cerco la ruota di scorta. Loro, niente. Statua.
Poi, il rumore di un motore. Le risate muoiono all’istante. Un brivido mi sale lungo la schiena. “Se sono le guardie, siamo fottuti.”
Mi alzo.
Non sono le guardie.
È una Fiat Marea.
Dentro, una famiglia da pubblicità di biscotti. Papà, mamma, nonni e una bambina con gli occhi sgranati incollata al fnestrino. Sguardo fsso su di noi, paralizzata dallo spettacolo di quattro schizzati travestiti da indiani che ridono istericamente accanto a una Rover mezza sfasciata.
Per un attimo penso: “Ma che cazzo ci guardano?”
Poi realizzo.
Siamo IL delirio incarnato.
Se io fossi stato al loro posto, avrei premuto forte il piede sull’acceleratore e me ne sarei andato nel più breve tempo possibile. Ma loro no. Restano lì, imbambolati, con la bambina che probabilmente quella notte farà sogni in cui Pocahontas si spara linee su un cofano bollente.
Troppo. È troppo. E ci pieghiamo dalle risate. Quelle risate pure, che sanno di eccesso e disperazione, di trip e di catarsi, di vita che sfugge tra le dita ma che in quel momento non potrebbe essere più perfetta.
E quella risata non ci ha più lasciato. Mai più.
Neanche adesso, mentre lo scrivo.
Perché questo è THE WEST.
Dove tutto è possibile.
“È ARRiVATA LA CAVALLERiA, Ci ATTACCANO ALLE SPALLE”
Brusko Sandro è una leggenda. Di quelle sporche, marce, che tutti conoscono ma che nessuno vuole ammettere di conoscere. Compare dal nulla, occhi pesti, sorriso storto, e ti inchioda con un’altra delle sue storie al confne tra il reale e il trip mal gestito.
Un metro e settantacinque, settantasette chili di disastro su due gambe. Sempre con gli stessi pantaloni di una tuta viola in pail, bruciati qua e là dai tizzoni delle canne, e un bomber rubato in discoteca che da anni ripassa con l’Uniposca per tenere viva la scritta ‘Duplè paura’.
In testa, un cappello con la scritta metallizzata ‘King’, che gli copre la calvizie che nega con ferocia. Da dietro, una coda di cavallo lunga fno alla schiena, ultimo baluardo di una gloria andata, reliquia di quando si credeva il re della pista invece che un relitto da after.
Brusko Sandro non lavora e non ha mai lavorato.
Eppure, c’era sempre. In ogni festa, ogni club, ogni rave. Un infltrato perfetto, un ninja dell’imbucata, un maestro dello scrocco. Nessuno lo voleva, ma c’era sempre.
Sandro ti agganciava e non ti mollava più. Ti svuotava il cervello con storie che nessuno aveva verifcato ma che lui raccontava come se fossero vangelo. Si buttava per terra, mima scene, interpreta ruoli, urla, ride, piange. Un attore tossico senza copione. E tu? Tu restavi lì, intrappolato, sperando che un miracolo lo facesse sparire.
Viveva in un buco vicino Roma, ma aveva infestato mezza Italia. Emilia compresa. Piccole truffe, scambi loschi, spac-
cio di fuffa.
Guidava una Renault viola con la spia della riserva fssa accesa e l’abitacolo sommerso da cassette dal ’90 a oggi, un museo ambulante della techno italiana.
Guida con le ginocchia, rolla con una mano, con l’altra smanetta tra le cassette. Ogni traccia ha una storia. Ogni storia è più assurda della precedente.
“Oh, una volta ho visto uno pisciare in pista al Duplè… Un’altra ho trovato una piotta per terra... E quella volta che ho venduto le pillole della nonna per delle paste? Ahahaha!”
Era un’ombra. Una piaga. Un problema per tutti i buttafuori d’Italia. Io l’ho visto entrare all’Exogroove al Momà di Perugia, venti gorilla all’ingresso, cento sacchi per entrare. Lui? Ha puntato una ragazza a caso, le ha urlato “ASPETTA!”, si è inflato nella folla ed è sparito.
Ho visto scambiar mezza pasticca fnta per mezza vera. Ho visto aspettare la fne della serata per rastrellare paste, fumo, soldi e documenti da rivendere al miglior offerente. I buttafuori lo conoscevano. Lo odiavano. Lui era il buco nel loro sistema.
Io ci sono uscito un sacco di volte, con Brusko Sandro. Ma lui preferiva girare da solo. Da solo arrivava ovunque. E giuro su Dio, non l’ho mai visto uscire di casa con più di diecimila lire in tasca. Ma tornava sempre con almeno cento. Sempre.
Lui era l’ultimo a lasciare la festa. Fumava con tutti, parla-
va con tutti, raccontava cazzate fno all’alba. E quando non c’era più nessuno, quando tutto era fnito, lui era ancora lì.
Sull’ultimo marciapiede, con l’ultima canna, pronto a raccontarti tutto. Lì, nella sua Renault viola, con la cassetta della serata inflata nel mangianastri. Naturalmente, gratis. Naturalmente, strappata al DJ di turno per sfnimento.
E ora vi chiederete: ma ‘Brusko’ è il suo cognome o il suo soprannome?
Beh, Brusco era il cognome di un povero disgraziato che una sera, al The West (Manila), si è trovato depennato dalla lista omaggi.
Perché? Perché Sandro, con la sua vista da sciacallo, ha letto il nome Brusco sulla lista, lo ha urlato all’ingresso e si è inflato dentro. Da quella notte, per tutti noi, lui è stato Brusko Sandro. E lo sarà per sempre. Il motto di chi lo conosce?
Di Brusko Sandro ce n’è uno, ma basta e avanza.
Non ho la più pallida idea di dove cazzo mi trovo, ma cazzo, so perfettamente da dove vengo, dove sto andando e con chi. Dietro di me ci sono io, il Marcio e un napoletano preso dal marciapiede, uno stronzo dell’autostop che non sa nemmeno che cazzo gli sta succedendo.
Alla guida c’è uno dei fratelli “Mo t’acchiappo”, l’altro è al suo fanco, Kallina, sempre con quegli occhi rossi da semaforo rotto. La notte al Deskò ci ha svuotato il cervello e ora
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QUESTO È FUORi ORARiO
E NON Ci PiOVE”
POSTI DI BLOCCO LIVELLO PRO
siamo diretti al Gatto e la Volpe, l’after del cazzo di Syncopate. Troppa house per i nostri gusti, ma c’è quella cazzo di saletta techno-progressive che fa paura, e la consolle... una roba da metterti a rischio penale per un paio di ore di follia.
Il viaggio? Come sempre, un cocktail di illegalità, stereo a palla, canne che si accendono a raffca come se avessimo appena trovato una scatola di fammiferi in famme. Ma stavolta c’è qualcosa che mi rode dentro la testa, un tarlo che non mi molla.
Dovevamo mollare un mezz’etto di roba a un amico di Vada, nascosto nella carrozzeria della Golf, vicino al fanale posteriore destro. Ma, ovviamente, quella merda si è incastrata. Non c’è cazzo di modo di tirarla fuori. E ora? Ce la portiamo in giro per l’Italia come se fosse un ordigno nucleare pronto a saltare.
Ci siamo organizzati. Un sacchettino con due pastarelle a testa, per ogni evenienza. Kallina se le tiene in bella vista sul cruscotto, come se stesse trasportando Fisherman’s Friend. Ma al casello, niente sorprese. Pula è sparito. Tutto fla liscio, come da manuale.
Chiediamo al casellante: “Girate là, viale lungo, poi sul ponte e siete arrivati.” Facile, lineare. Ci sentiamo al sicuro. Ah, beata ignoranza. Usciti sul viale e BAM!
Benvenuti al festival della polizia. Volanti dei carabinieri ogni cinque metri, agenti con scatole di guanti in lattice sui tettucci. Dall’altra parte? Camionette pronte a perquisire ogni angolo. Non è un flm, è peggio. Sembra Scarface, ma senza villa e senza soldi.
Kallina, che in quel momento sembra il cazzo di Sherlock Holmes della lucidità, capisce subito che la situazione puzza. Fa sparire la roba come se fosse un mago. Tocca al napoletano. Dove metterla? Le mutande. Così, in un batter d’occhio, siamo fermi.
“Documenti. Patente. Scendete.”
Il giorno del giudizio fnale. Le forze dell’ordine sono fuori controllo. È un’operazione di recupero post-apocalisse, decine di auto fermate, decine di perquisizioni. La nostra fne è scritta. Ci smontano la Golf, ma niente.
Neanche un cenno al portabagagli. Se non siamo degli scemi, non si aspetteranno mai di trovare roba lì. Noi, però, la portiamo incastrata nella carrozzeria. Geniali, eh?
Arriva il momento della perquisizione personale. Uno di noi deve spogliarsi nella camionetta. Kallina, che un minuto fa sembrava l’incarnazione della lucidità, si offre volontario.
Peccato che si è dimenticato che ha due pastarelle nelle mutande. Per una botta di culo che non si può spiegare, i caramba lo guardano e si diffdano. “Troppo entusiasta.” Così scelgono il napoletano.
Occhi che si scambiano. Lui ha la roba addosso. È fnita, lo sappiamo.
“Noi non lo conosciamo, eh!” mormoriamo all’unisono. “Gli abbiamo dato un passaggio. Non sappiamo nemmeno come si chiama…”
L’attesa è una tortura. Poi il napoletano esce dalla camio-
È TANTA ROBA È FUORi ORARiO
AH AH AFTER HOUR”
“
WE LOVE CLUBBERS. REAL CLUBBERS.
E come ogni notte si consuma il nostro rito con i suoi profeti e i suoi discepoli: il santifcatore della consolle, il re del centro pista, chi muove solo la testa e chi la testa l’ha già persa da un po’.
Quello che siamo tutti fratelli, quello che io sono io e voi non siete un cazzo, chi ha le molle nelle gambe e chi si è già arreso su un divanetto. Chi è perso nel suo viaggio, chi sta per cominciarlo, chi compra, chi vende e chi FLASHHH.
E poi c’è chi ancora una volta ha davvero esagerato, chi cerca solo sigarette e chi ogni disco è un missile. Chi rompe il cazzo al DJ e lo cacciano dalla consolle.
Quello tiratissimo, quello che da sabato prossimo cambierà vita... e quello che è sempre l’ultimo ad arrendersi.
We love clubbers. Real Clubbers.