okkio(marzo aprile)

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MUSICA

Robbie Williams

E

ro un adolescente che frequentava le superiori quando i Take That divennero il fenomeno commerciale che sono stati, col loro inevitabile seguito di ragazzine urlanti e ululanti e qualche madre, ancor più ragazzina, che sbavava di fronte ai balletti dei cinque ragazzotti messi insieme dal manager discografico Nigel Martin Smith. Io li odiavo naturalmente, per molteplici ragioni. Potrei dire, ad esempio, che essendo il sottoscritto un fan del metal e dell’hard rock in generale, non potevo che provare schifo ogni volta che sentivo quei ritornelli melensi studiati freddamente a tavolino, apposta per fissarsi nella testa dell’ascoltatore. Oppure potrei affermare, da amante della letteratura contemporanea, che i testi di quelle canzonette, corrispondenti all’incirca al solito cuore-fiore-amore, avevano in me lo stesso effetto che l’aglio può avere per il buon vecchio conte Dracula. Potrei dire queste cose, e sarebbero tutte vere; ma sarei poco onesto se omettessi il motivo principale della mia antipatia adolescenziale: molto semplicemente l’invidia. Sì, a me, ragazzino alle prime armi, ancora insicuro e ingenuo sotto parecchi punti di vista, dava davvero fastidio che tutte le ragazzine, comprese quelle che mi piacevano, non facessero altro che smaniare per questi cinque farlocchi britannici. Così non avevo che due strade da scegliere: la prima era quella di imitarli, vestirmi come loro, pettinarmi come loro e cercare di avere i loro stessi atteggiamenti. Ma ero troppo orgoglioso per una cosa del genere. L’altra strada era quella opposta: odiarli in maniera profonda e plateale, come solo un adolescente o i personaggi dei romanzi d’appendice sanno fare. Poi, ovviamente, uno cresce, i Take That se li scorda, trova modi molto più pratici e semplici per rimediare qualche ragazza e magari riesce a ricordare anche in maniera simpatica quelle braccia rubate al lavoro. Senza però dimenticare una cosa fondamentale: almeno dal punto di vista musicale, i Take That facevano davvero schifo, questo bisogna dirlo. Anche se, fin da subito, da quegli anni novanta così strani da aver prodotto insieme i Take That e i Nirvana, i Pearl Jam e i Boyzone, fin da subito c’è stato chi si è accorto che in quella che è stata la Boy-band più famosa di sempre, c’era uno che non era poi così ridicolo e destinato a fare la fine di una meteora, uno che probabilmente faceva leggermente meno schifo degli altri e che magari 42 ∫ Okkio

sarebbe stato pure capace (forse) di fare qualcosa di almeno presentabile, decente. Sto parlando di Robbie Williams, quello che se ne andò per primo, colui che ringrazierò tutta la vita, perché nel 1995 pose fine a uno degli strazi musicali più insopportabili della storia. Cosa siano state la sua vita e la sua carriera dopo i Take That è cosa abbastanza nota. Alla faccia dei suoi ex-compagni che, più o meno velatamente, lo hanno sempre odiato, è stato l’unico della band che sia riuscito a costruirsi una carriera nell’industria musicale (sia chiaro: nell’industria musicale) di tutto rispetto, con canzoni radiofoniche e scandali Sex & Drugs & Rock & Roll sempre al punto giusto e sempre in grado di garantire quel mix di bravo ragazzo e ribelle dalla faccia pulita e paracula capace di garantire almeno un milione di copie per ogni album. E così quello che Liam Gallagher definì “il ballerino obeso dei Take That” a causa dei suoi frequenti problemi di peso, ha sfornato in una decina d’anni o poco più ben nove album e non so nemmeno quante hit in testa alle classifiche, robe come Angels, Let Me Entertain You, Millenium, She’s the One, Rock DJ, Something Stupid (cantata con Nicole Kidman), Feel e qualcun’altra che ora non ricordo. Una gallina dalle uova d’oro, in poche parole,


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