IL ROSARIO DI PERLE di Giovanna Adelante

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Il rosario di perle Giovanna Adelante

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Dora proprio non ci sarebbe voluta entrare da quel cancello. Più che altro perché non sapeva se ne sarebbe uscita. Tunin sarebbe stato d’accordo con lei. Erano Marianna ed Miranda che non ne avevano voluto sapere di lasciarla a casa. In pace, tra i mobili e i soprammobili, anche se Dora aveva cercato di essere chiara con le sue figlie. Lo aveva detto. Che cosa sarebbe stata lei senza più neanche i soprammobili e le cianfrusaglie con cui per 50 anni aveva riempito la casa e che le ricordavano la vita di lei e Tunin tutta insieme? Così aveva preparato le valigie nei due giorni che le figlie le avevano dato: i vestiti, le camicie da notte, la vestaglia, la tuta ed il rosario di perle. Da Riparolo alla periferia di Torino la strada era stata lunga, o almeno così le era parso. Non aveva dovuto neppure inforcare gli occhiali per scorgere i casermoni della periferia, ai lati della

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tangenziale. Erano enormi ammassi grigi, senza balconi. Una volta non c'erano. Quanto tempo era passato da quando con la littorina, che era partita dalla stazione di Riparolo, era arrivata fino alla stazione di Torino ? Li', quando lei e Carla erano scese a Porta Susa l'ultima volta, avevano preso il tram fino a Piazza Castello. E quando avevano scorto Palazzo Madama , erano scese e si erano incamminate sotto i portici di Via Roma, sul pavimento tirato a cera, fino a Piazza Carlo Felice. Dora non riusciva pi첫 a contare al contrario, se non con le dita, dove sfilavano i decenni. Ma non voleva farsi vedere da Marianna che, delle due figlie, era sempre stata la pi첫 severa, quella che lasciava cadere le sentenze, come aghi di pino sul viso in una giornata ventosa. E Dora la lasciava fare. Tutti pensavano che chi lasciasse perdere, fosse pi첫 fragile, invece era il pi첫 forte e percio ' se lo poteva permettere. Ma questo era uno dei tanti segreti che aveva scoperto contando gli anni in avanti. Marianna e Miranda questa volta non le avrebbero dato retta. Tanto valeva tacere.

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Dopo che era morto Tunin dapprima le avevano cercato un'infermiera che si potesse occupare della sua insulina e della spesa. Alfonsa, si chiamava. Una donnetta veloce e schietta, con l'acconciatura a coda alta di capelli rossicci, che andava a coprire la caduta di quelli vicino all'attaccatura, sulla sommitĂ della testa. Dora se ne era accorta mentre Alfonsa leggeva le istruzioni della nuova penna che avrebbe usato al posto della siringa, per iniettarle il farmaco che le avrebbe permesso di tenere sotto controllo lo zucchero del suo sangue. Prima le sue figlie avevano insistito perchĂŠ se ne occupasse da sola, ma lei aveva finto di non riuscirci. CosĂŹ si era garantita ameno quelle visite tre volte al giorno, compresi i festivi.

Prima, quando Tunin era vivo, loro due si facevano compagnia. Lei usciva per la messa delle sei ogni mattina, poi passava da sua sorella Norma , nonostante la sclerosi l'avesse resa bizzosa e irascibile, e poi ai commestibili dove ogni mattina comprava il pane fresco, il latte, il semolino, le prugne per l'intestino, il giornale. Poi andava in macelleria da Giacomo. Chissa' perche' ad un certo punto Tunin dal fratello non ci era piĂš voluto andare, e allora passava lei a comprare due fettine di carne una volta alla settimana, come in tempo di guerra.

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E poi rifaceva la strada a ritroso, sempre di gran fretta, sempre che non incontrasse la sua amica, la Carla che già da bambina abitava nella casa accanto e se avessero litigato, una delle due avrebbe dovuto uccidere l'altra. Se lo dicevano sempre ogni volta che si vedevano, tanti erano i segreti che avevano mantenuto nel tempo, soprattutto di loro due. Tunin un amico cosÏ, non lo aveva mai avuto e poi si chiedeva che segreti mai avesse potuto avere quel buon uomo di suo marito. Poi, tornata a casa, dopo aver inforcato gli occhiali, gli leggeva a voce alta i necrologi, scegliendo solo quelli del paese e dintorni oppure di piÚ lontano, ma solo se si trattava di qualche Dottore o Professore importante. Allora, come nel caso di defunti conosciuti, leggeva, come durante un rosario, tutti i nomi dei parenti che lo ricordavano, finendo la frase con:" Fu un integerrimo marito e uomo operoso" oppure "Fu una madre esemplare che noi figli porteremo sempre nel nostro cuore". Poi si faceva un conto dei rosari e delle Messe a cui doveva partecipare, facendo sommariamente un programma della settimana. Se le figlie avessero telefonato, ecco le dispiaceva tanto, proprio tanto, ma non avrebbe potuto riceverle, neppure per un caffè. Che venissero il giorno appresso.

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Se invece telefonava Cecilia era diverso. Tunin l'avrebbe aspettata a casa e Dora sarebbe rientrata col fiatone, poi avrebbe preso le gocce per il cuore, cinque gocce per calmarlo, il tempo di preparare il caffè . Tanto Cecilia non aveva mai fretta: avrebbero sorseggiato il caffè nelle tazzine del servizio buono, quelle con il bordo di oro zecchino che le erano sempre piaciute da quando era bambina ed era stata affidata loro di nascosto un'estate che Miranda era scappata con un altro uomo. Era un vecchio brizzolato e ricco, che a loro non era mai piaciuto e da cui la figlia era stata così sciocca da farsi mettere incinta, mentre era ancora coniugata , all'epoca poi che non c'era ancora il divorzio. Una storia che Dora non poteva neanche più sentire. Cosicché l'affidamento consensuale era continuato almeno per altri quattro anni, finché il genero lo aveva scoperto. Una mattina gelida di novembre, mentre Tunin era in casa da solo con la bambina e lei si era attardata con Carla, era ritornata sempre di corsa e Tunin la aspettava con la porta aperta per dirle che Cecilia gli era stata portata via. Il tempo di suonare alla porta , di far leggere la sentenza del tribunale a Tunin, di dirlo a Cecilia, di poter preparare una valigia veloce coi vestiti della bambina. Mentre il genero non aveva voluto saperne di entrare ed era rimasto sulla

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strada, davanti alla porta, in modo che tutti quelli del paese lo vedessero. E Tunin era cosĂŹ sconvolto che neanche le venne in mente di prenderlo di nuovo per il bavero e buttarlo fuori. Ora c'era la bambina e per fortuna non se ne era accorta. Anche se aveva vomitato. Quella volta avevano pianto davvero insieme, e Tunin pareva non trovare pace. Lo vide disperato come non lo aveva mai visto prima, neanche durante la guerra. Neppure quando aveva rischiato di essere licenziato perchĂŠ non aveva voluto prendere la tessera fascista e avevano dovuto aspettare una settimana per sapere se in fabbrica lo avrebbero tenuto lo stesso, dopo che l'avevano convertita da azienda di pezzi di ricambio a una di armamenti. Che sciocca quella volta l'aveva anche difesa Miranda, davanti a tutto il paese. Ed ora sembrava essersene dimenticata. Proprio lei, infatti, era alla guida dell'automobile. Dora guardo' fuori per un momento, dopo aver disegnato un cerchio coll'indice sul finestrino appannato. Non dovevano essere ancora lontane. Le avevano detto che la residenza sarebbe stata vicina alla casa di Cecilia , ed allora si era un poco rincuorata l ultima volta, una settimana prima, quando la nipote era

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andata a trovarla a casa e le aveva detto dopo un respiro lungo, quasi avesse dovuto prendere fiato per fare una corsa: Nonna, mi dispiace. La mamma e la zia Marianna mi hanno detto che non ce la fanno ad occuparsi di te e del tuo diabete. Hanno cercato un bel posto. Mi hanno detto che ti troverai bene. Ed io verrò a trovarti sempre, quando potrò, lo sai. Di questo puoi stare tranquilla . E Dora si era tranquillizzata. Un poco. Miranda fermò l'auto sullo spiazzo per i disabili . "Iniziamo bene" pensò Dora a voce alta. "Come dici, mamma? E' un bel posto. Il migliore di Torino. Ti piacerà " le rispose Miranda, mentre finiva la manovra del parcheggio .Neppure il tempo di rispondere e la portiera era già aperta e anche il baule ,cosicché Dora si affretto' per non stare in corrente. " Mi fa venire i dolori la corrente" bofonchio' e dal di fuori pareva contenta di entrare nella struttura, a meno che qualcuno avesse avuto voglia di guardarle la bocca. Allora avrebbe scorto una smorfia che le storceva il labbro e poi un piccolo, quasi impercettibile, tremolio di quello inferiore che le prendeva ogni volta che cercava di non piangere e di non urlare.

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Dora entrò con un piglio deciso, portando la stampella sulla mano sinistra, pensando che con quella destra avrebbe dovuto aprire qualche porta. Mentre le figlie erano già andate avanti, senza aspettarla. La sorpresero le porte automatiche e le parve di entrare in un enorme acquario dove non era piÚ l'aria l'elemento dominante: le comparve un salone grande ed illuminato a giorno, la reception al fondo con una ragazza vestita di verde d'ordinanza che l'aspettava con un sorriso di cortesia e poi vecchi ovunque, in carrozzina o seduti su poltroncine rosse, nei pressi di tavolini di mogano, cosÏ piccoli da non andare bene neppure per giocare a scala quaranta. Ma non ne sentiva le parole. I loro suoni la raggiungevano ad ondate come quelli delle figlie che si parlavano tra loro, mentre si avvicinarono coi documenti di Dora al bancone. Mentre lei rimase in mezzo alla stanza, come inebetita, a guardare tutte quelle carrozzelle, sparse ed isolate una dall'altra separate, lei e loro, dall'acqua. Cosi tante insieme le aveva viste solo a Lourdes, durante uno dei pellegrinaggi a cui aveva partecipato con i parrocchiani di Riparolo, lasciando a casa Tunin che non era mai stato un uomo devoto. Anche se per farla contenta, alla domenica invece di aspettare fuori con gli altri uomini, sul piazzale, entrava in Chiesa con la sua stazza da marinaio, dopo essersi tolto il cappello.

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La signorina in verde, che si chiamava Paola, dopo essersi presentata, la accompagnò nella sua camera al piano terra. Le mostrò il bagno con la doccia e gli asciugamani puliti, l'armadio a muro dove avrebbe sistemato i suoi abiti ed il letto, con le sbarre di legno, che all'occorrenza, avrebbero potuto contenerla, se invecchiando ancora fosse uscita di senno. Ma questo fu un pensiero solo suo. La vicina di letto era già in soggiorno per il pranzo, disse Paola . Poi la accompagnarono , giusto dopo averle dato il tempo di sfilarsi il cappotto di lana buona, in una sala dal puzzo di minestrone e di purea. La fecero accomodare di fronte ad una donna che le sorrise, mentre sorseggiava un bicchiere di Barbera. L'unico segnale familiare da quando era entrata. Miranda e Marianna si congedarono in fretta promettendole che Cecilia sarebbe andata a controllare dopo un giorno o due. Usarono proprio la parola controllare, mentre dalla loro bocca uscivano nuvole di bolle. Bevve un sorso dopo aver sollevato il calice alla salute di se medesima e dei giorni a venire.

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Non sapeva se avrebbe mangiato, non avvertiva il senso di fame, ma avrebbe dovuto pur buttare giù qualcosa per evitare che la puntura le inducesse l'ipoglicemia. Non era sua intenzione perdere i sensi proprio adesso che era appena arrivata. Non era in programma per ora, comunque. Le inservienti le avevano portato il pranzo . L'insulina se l'era praticata in bagno quando aveva detto alle figlie che doveva urinare. Copio' gli stessi gesti di Alfonsa: ruotare la parte superiore della penna fino allo scatto, che era già fissato sul cinque, infilare l'ago sotto la pelle dell'altro braccio e premere fino al fondo. Le mani le tremavano e non aveva con sé il disinfettante, ma non sarebbe morta per questo. Così dopo, a pranzo , di fronte all'altra vecchia che aveva gia finito, mangiò un piatto fondo di ravioli al burro e salvia, una fettina di arrosto con la purea ed un crem caramel, bevendo due bicchieri di vino, annacquato. La sua vicina di letto si presentò: si chiamava Nora. Aveva la sua stessa eta' , gli abiti curati, una collana di perle al collo, uguali ai pendenti degli orecchini. Le cominciò a raccontare che era stata l'unica figlia del medico condotto di un paese di provincia. Aveva studiato all'Università di Medicina di Torino, e aveva prima aiutato il padre per poi sostituirlo nella gestione dello studio medico, fino all'era

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fascista quando,ridotto il potere lavorativo delle donne , aveva continuato a visitare i pazienti solo a casa, nel nome del padre. Le disse che si era accorta dei buchi che Dora aveva sulle spalle. Pensava che bere tutto quel vino non le avrebbe fatto un gran che bene, così le disse, ma che per oggi si poteva fare un'eccezione, visto che era il suo primo giorno lì dentro. Anche Nora beveva volentieri dopo che il figlio e la nuora avevano disdetto il pranzo insieme a lei per una partenza improvvisa per Cuba. "Quel cretino di mio figlio avrà tradito di nuovo la moglie e cercato in fretta e furia un viaggio per aggiustare ancora una volta questo matrimonio tenuto su per le apparenze ed il buon nome del Dottore", terminò infine, con una smorfia. "Ah sì , mi ero dimenticata di dirglielo:siamo una famiglia di medici facoltosi, nonché tremendamente soli" disse ancora, ridendo. Anche Nora aveva alzato un po’ il gomito. Dora si congedo' . Era dispiaciuta ma oggi non aveva proprio voglia di parlare. Gli altri commensali rimasero nella sala da pranzo.

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Si scuso' spiegando che era un po' stanca per il viaggio ed il trambusto del cambiamento, spinse indietro la sedia dal tavolo e si allontanò. Non accenno' minimamente dell'acquario a nessuno, anche se rise un poco quando, tornando indietro lungo il corridoio fino a trovare il suo nome sulla targhetta della porta, entrò in bagno, si chiuse la porta alle spalle, e vi trovo' una spugna naturale ancora incartata nel suo cellophane trasparente. Anche lei aveva esagerato col vino, probabilmente. Si sdraio' sul letto su cui era appoggiato ancora il suo cappotto di lana buona e si addormento'. E sogno' di quando era bambina.

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Dora entrò nel piccolo edificio grigio che dava sulla piazze tta, con i suoi finestroni impolverati. Ci andò a piedi quella mattina, come tutti gli altri, anche s e lei abitava lontana dalla scuola. Sua madre Ester le aveva raccomandato di mettersi il vestit o buono, quello della domenica, anche se sopra aveva dovut o indossare il grembiulino nero. Almeno per quel primo ottobre avrebbe calzato le scarpe ch e si era portata nella sacca insieme ad un quaderno, l'abbece dario, la scatoletta di legno con la matita , il cannello con il pennino, il calamaio e l'inchiostro per poter scrivere e la car ta assorbente per le macchie. Le scarpe le avrebbe cambiate solo prima di entrare dal portone per non rovinarle, al posto degli zoccoli, e si era portata appresso anche il ciocco di le gno per la stufa, anche se non faceva ancora troppo freddo e per ora non l'avrebbero accesa. Quando varco' la porta noto' che la classe era numerosa e m ista, con i maschi a destra e le femmine a sinistra, come in Chiesa.

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Quelli della prima classe come lei, si erano accomodati al p rimo banco e di lì allontanandosi dalla lavagna, a ritroso, av eva trovato i ripetenti, e mano a mano i più grandicelli fino a quelli che erano arrivati fino in quinta. Così le era capitato di vedere anche alcuni grandicelli nell'u ltimo banco, che continuavano a ripetere perché non aveva no i genitori che lavoravano la campagna e non avevano tro vato altri lavori e così continuavano a frequentare. Alcuni , dopo aver ripetuto l'anno, invece si fermavano dop o la seconda elementare. E dopo aver imparato a firmare, anziché apporre una croce t remolante come i loro genitori e ad aver imparato a sillabar e, anche senza riuscire a dare un senso compiuto alle frasi, l a piantavano con la scuola. Si svegliavano la mattina alle qu attro per andare coi genitori nei campi ad arare in autunno, facendo trainare l'aratro ad un cavallo stanco che doveva es sere spronato con la biada e le parole gentili sussurrate all'o recchio. La maestra aspettava tutti sulla porta con la bacchetta tra le mani. Dora aveva sentito da sua sorella di bambini messi dietro al la lavagna, con le mani sotto le ginocchia. Ma Dora iniziava dal primo banco e lei non sarebbe retrocessa per nessun mot ivo.

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Questo si era ripromessa in quella mattina. Poi la maestra fece l'appello, nominandoli ad uno ad uno a c ui tutti risposero. Poi la signora maestra proseguì con l'ispezione di pulizia: o sservò loro le unghie , scruto' le loro orecchie ed il collo e quelli che li avevano sporchi venivano mandati subito in ba gno a lavarsi, ancor prima di iniziare la lezione e controllo' i capelli per vedere che in mezzo non ci fossero pidocchi. Non si poterono più alzare fino alla campanella del mezzogi orno, neppure per andare ad urinare. E poi recitarono un Padre nostro rivolti tutti, anche la Signo ra Maestra , verso il crocifisso che si trovava in alto dietro alla cattedra. Furono avvisati che quando entrava il direttore o un altro in segnante tutti avrebbero dovuto alzarsi in piedi e avrebbero dovuto salutare ad alta voce, ma senza alzare il tono, fatto c he potevano evitare con l'entrata del bidello. Dora guardò dietro nella fila accanto, quella dei maschi, un po' spaurita finché incontrò lo sguardo benevolo del suo dir impettaio Tunin. Era il fratello di Giacomo, il suo amore segreto da sempre. Giacomo era intelligente e brillante, aveva preso dal padre ed ormai stava frequentando l'avviamento, poiché era più gr ande di loro.

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Invece Tunin, non aveva lo sguardo molto acuto, indossava un paio di calzoni alla zuava con le toppe alle ginocchia che spuntavano da sotto al grembiule ed il colletto di una camic ia a quadrettoni che gli era stata passata da Giacomo, quand o l'aveva dismessa. Era di due anni più grande di lei, ma sta va ripetendo la prima, perché le aveva detto lui, che pur app licandosi molto , proprio non gli andava giù di far di conto, che però nella vita ti può sempre tornare utile aveva rispost o lei. Ed almeno su quello si erano trovati d'accordo . Tunin l'aspetto' all'uscita della scuola quel mezzodi' e tutti g li altri a seguire e pareva persino noioso in questa sua abitu dine, con lei che invece adorava le improvvisate e sicurame nte si sarebbe più interessata se lui si fosse fatto aspettare, a lmeno una volta nella vita. Invece Tunin era uno zuccone, come a scuola . E come pareva non volergli entrare in testa il far di conto, a meno che non fossero addizioni semplici, così non gli entra va che a lei tutta questa devozione, questo aspettarla sempre sotto casa, proprio lei che doveva farsi spazzolare i capelli e rifare la treccia ogni mattina da sua madre, non la sopport ava. E un giorno glielo disse chiaramente. "Senti, senza offesa. Preferisco parlare con le mie compagn e che ci vedano parlare me e te. Già la gente di Riparolo mo rmora, ma io avrò un futuro radioso, che ti credi? I miei dop

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o mi faranno fare l'avviamento, lavorero'. Sarà diverso per me che per le altre femmine. Non vedi come vado bene a sc uola e che sono la cocca della maestra? Lei parlera' con mio padre, ne sono sicura, e lo convincera' a farmi proseguire ne gli studi. Ora se vuoi, posso insegnarti qualcosa a scuola, m a fuori no, preferisco fare altro". E lo congedo' così su due piedi, mentre lui abbassò lo sguar do, senza dire una parola. Paonazzo e sudaticcio si allontan ò. Così passò l'anno e Tunin fu promosso e lasciò la scuola per andare ad aiutare suo padre a portare le vacche al pascolo e a pulir la stalla, oltre ad occuparsi dei raccolti a rotazione e delle vigne. La madre Ester ripeteva sempre a Dora quanto Tunin fosse un buon ragazzo ma lei aveva altre aspirazioni: avrebbe con tinuato la scuola fino all'avviamento e poi si sarebbe impieg ata alla Stipel, magari in città, anche se tutta insieme l'idea f orse pareva sin troppo grandiosa. Ed infatti se la cullava di notte, prima di dormire, tenendose la tutta per sé, che sua sorella Norma le avrebbe chiesto chi si credeva di essere. E le avrebbe riso in faccia, prima di ad dormentarsi. Ed infatti si può solo immaginare come ci rimase Dora, qua ndo alla fine della scuola, conclusa a pieni voti dopo i due e sami, suo padre non volle neppure sentire di andare a colloq

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uio con la Signora Maestra e la mamma Ester le disse che n on aveva voce in capitolo e Dora capì che anche lei avrebb e seguito l'orma della maggiore, che era sì era stata mandata in città , ma come badante della casa di una famiglia benest ante, in altre parole a fare la serva. Così anche Dora, quell'estate del 1938 , partì subito dopo la fine dell'anno scolastico per Via Medici, prima che la famig lia di cui sarebbe stata ospite stipendiata, oltre a vitto ed all oggio, partisse per Bordighera per la villeggiatura e lei pote sse acquisire un poco di dimestichezza con l'abitazione ed i l suo governo. Allora aveva dodici anni. Da quando era piccola sua madre le aveva insegnato a riord inare, poi a rassettare la cucina, lavare i piatti, attizzare il fu oco della stufa, svuotare il cassetto della cenere , e poi a lav are al lavatoio pubblico della piazza i vestiti mentre le lenz uola gliele faceva bollire con la cenere che le sbiancava e p arevano nuove. Suo padre quella mattina la accompagnò alla stazione a Ri parolo con la bicicletta. Pareva ancora notte quando la mise sulla littorina da cui sarebbe scesa a Porta Susa: " Non puoi sbagliarti. Scendi quando il treno non si muove più " le diss e con piglio deciso. Pagò il biglietto al controllore prima del suo fischio prolungato e aggiunse :"Copriti e comportati be ne".

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Lei avrebbe preferito un abbraccio, come aveva fatto la ma mma quella mattina, mentre le consegnava la valigia già pr onta ed il rosario di perle. Invece papà non lo si era mai visto abbracciare nessuno, s e non sua madre il giorno che era rimasta vedova. Il viaggio fu più breve del previsto. Alla stazione , quando s cese, c'era già il Commendatore Alberto Maria in persona a d attenderla. Era amoso al paese per aver sovvenzionato un Circolo rionale fascista e versato notevoli somme di denaro ai segretari federali, che si erano recati a visitare il suo stabi limento . E lui ne parlò subito a Dora, che di queste faccende politic he non ne capiva nulla ,dicendo che al paese era molto risp ettato per questo e tuonò :"E i denari che ho ereditato dalla mia famiglia sono serviti per mettermi in luce favorevole p er la felice conclusione dei contratti con le autorita' fasciste e militari romane", e fu l'unica frase che disse il Cumenda p er tutto il tragitto , mentre con il tram arrivarono nella nuo va casa. In realtà Dora si ricordò che sua madre aveva detto al marit o, sussurrando al buio di una sera tardi in cui pensavano che le figlie dormissero, che questo Cumenda non gli piaceva m olto, per l'amor di Dio persona caritatevole ad offrire il lavo ro alla loro figlia ,ma che aveva sentito voci.

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Sua sorella le aveva raccontato che il figlio piÚ grande che lavorava per il Cumenda si lamentava che la Direzione eser citava da anni pressioni fortissime su tutti gli operai, facend o loro compilare fogli, scritti apposta per tutti quelli che no n avevano il coraggio di rifiutarsi. Una brutta storia, disse p iano. Ma il marito la zitti' subito:" Sei la moglie di un contadino c he deve mandare le figlie a servire. Ma chi vi credete di ess ere tu e quelli della tua famiglia? Bisogna mettere i buoi do ve tira il carro" urlò infine suo padre per chiudere il discors o e Dora pensò che non avrebbe mai fatto la vita di sua mad re. Anche se la amava tanto e per gentilezza non glielo avre bbe mai detto. In casa ad attenderli c'erano la Signora Olga, e il loro figlio, il Signorino Alfredo che li aspettavano nel salotto buono. Dora per distrarsi dall'imbarazzo degli sguardi puntati sui s uoi vestiti di terza mano, cercava controluce la polvere sui mobili. Di quella si sarebbe occupata per prima, poi delle la trine. Lei era abituata ad andare nel bagno all'esterno per i bisogni , usando carta di giornale per pulirsi e di notte il vaso. Nor ma invece le avevano raccontato di cessi di ceramica da luc idare con l'aceto, sempre che i padroni avessero avuto l'acc ortezza di buttare l'acqua dentro dopo ogni volta. Altrimenti

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avrebbe dovuto usare la varechina, cercando nel mentre di n on respirare. Norma le aveva detto che dai cessi delle case si capisce se i signori lo erano per davvero di stirpe o fossero solo degli ar ricchiti, senza vergogna. Degli zozzi. E lei non vedeva l'ora di poter buttare l'occhio nella latrina del Cumenda. A casa di Dora avrebbero beneficiato delle sue rimesse e de l suo contributo anche se l'avevano fatta partire con il buio per la vergogna che però Dora non aveva sentito per niente. Sarebbe stato solo un periodo di passaggio. SÏ , aveva sentito altre storie di ragazze che invece di restar e solo a servizio, mandando i soldi al padre, si erano poi an che sistemate, sposando magari qualche ricco e vecchio sig nore, ma erano storie di maldicenze che non l'avevano mai i nteressata . A lei che invece intendeva emanciparsi. E nessuno sarebbe riuscito a toglierle questa idea da dentro la testa. La Signora la accompagnò nella sua camera, una soffitta d ove Dora riusciva a stare comodamente in piedi, mentre la Signora rimase sulla porta ad illustrarle l' armadio a muro, il comodino su cui giaceva il candelabro, da accendere solo p er necessità , il giaciglio, sotto cui avevano posizionato il va so da notte che avrebbe dovuto svuotare come prima faccen

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da al mattino, dopo essersi lavata viso e mani nel catino sott o al lucernaio, prima di scendere in cucina per la colazione. Come se la loro latrina fosse intonsa , pensò Dora, che ann uì senza parlare. Avrebbe cenato per ultima quella sera, come tutte le altre se re dopo che avrebbe servito a tavola, sparecchiato e rassetta to la sala da pranzo mentre alla cucina ci avrebbe pensato la cuoca Norina:" Ben più vecchia ed esperta di te, non avrai a ltro che da imparare da lei ", aggiunse la Signora, chiudend o la porta. E Dora notò che nella toppa non c'era la chiave e che dove va sperare che lì dentro non volesse mai entrare nessun altr o. Spinse allora il comodino, dopo aver appoggiato il candelab ro accanto al letto, fino alla porta, cercando di fare piano. D isfo' la valigia ed infilo' sotto al materasso il rosario di perl e che le aveva lasciato mamma Ester tra le mani quella matt ina. Le disse che lo aveva fatto benedire il giorno prima dal sacr estano in persona, perché la proteggesse anche se sarebbero state lontane. Poi trascino' il comodino a ritroso, piano, fino al suo posto originario e si sedette in attesa di essere chiamata, ascoltand o i rumori da fuori.

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La Signora divorava così tanti romanzi d'amore, che Dora tutto subito non ne aveva capito il perché. Quando la Signora ne finiva uno Dora se ne accorgeva perché il libro passava direttamente dal suo comodino alla libreria o dietro la prima fila di libri dell'ultimo scaffale, se la Signora lo ritenesse particolarmente scabroso. Allora Dora andava a prenderlo, contando sul fatto che per un poco l'altra non lo avrebbe cercato. E di questo ne erano a conoscenza solo la Signora che si occupava di occultarlo e lei che si occupava della polvere, all'insaputa una dell'altra. Ed era stata così meticolosa che un giorno mentre in casa non c'era nessuno, anche se la signora le aveva proibito tassativamente di usare la scala alta a pioli in assenza sua, Dora si era arrampicata, portando la gonna alle ginocchia per salire agilmente senza intralci ed era andare a togliere la polvere con il piumino, per poter curiosare. Così aveva spostato il primo volume della prima fila e subito dietro aveva trovato "Ottocorna" di un'autrice molto

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famosa allora, anche se non ricca come la Signora, subito dopo "Signorno' " e " L'amore perduto", che aveva divorato uno dietro l altro, di sera al lume della candela, in camera sua, dopo che tutti gli altri si erano ritirati nelle proprie camere e allora sapeva di avere il permesso di ritirarsi anche lei. E da lĂŹ in poi aveva fantasticato che la sua vita sarebbe passata accanto ad un aviatore, come il marito della sua eroina, che si era innamorata di un militare coraggioso ed audace. Ed audaci erano a volte le frasi del libro, audaci gli incontri segreti dei protagonisti, audaci i baci appassionati. Dora arrossiva da sola , mentre la luce della candela faceva tremolare le parole, mentre leggeva non solo di casti baci sulle gote, come quelli che aveva visto scambiarsi dai suoi genitori , non solo di baciamano deliziosi dei signori quando si incontravano in pubblico, ma di baci umidi e vigorosi con lingue che si intrecciavano e si intrattenevano nella bocca di uno dei due, scambiati in nascondigli dopo appuntamenti concordati in gran segreto. Il Cumenda, che in privato si faceva chiamare da lei Albi , come nomignolo, dal primo giorno che era entrata nel loro salotto buono, si faceva trovare nei duecento metri quadri di casa tutti i giorni.

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O lo incontrava perché lui si attardava con la colazione, prima di andare in azienda, o perché rientrava per il pranzo o altrimenti sicuramente lo avrebbe visto a cena. E la fissava ogni volta in un modo che quasi la imbarazzava. Soprattutto quando la Signora ed il figlio erano un po’ distratti, e questo succedeva spesso che i Signori fossero presi da altri pensieri. Soprattutto in un momento in cui imperversava la Guerra in Europa e si aveva timore che i disordini sarebbero arrivati in Italia. Per ora, i Signori, soprattutto il Cumenda pareva molto soddisfatto per l’incremento delle commesse dell’azienda ed infatti a cena, ne parlava sfregandosi le mani, ripetendo che sovvenzionare i circoli fascisti era stata non una buona, ma un’ottima idea. Ripeteva: “ Salire sempre sul carro del vincitore. Sempre”. E riempiva la sua bocca a di ogni ben di Dio preparato dalla devota Norina. La quale era sì relegata quasi solo in cucina, ma usciva di tanto in tanto se Dora si trovava in difficoltà con qualche incombenza che la lasciava la Signora. E Norina che era una donna attenta, si era accorta degli sguardi languidi e bavosi del Signore nei confronti di Dora e glielo aveva anche detto.

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Aggiungendo: “Stai attenta Dora. I Signori sono degli zozzi. Ti allisciano e ti incantano con i sonagli, ma di natura restano sempre serpenti. Come io e te due serve. Chi striscia non inciampa, soprattutto se molto ricco. Non avertene a male”. E mentre le parlava Dora vedeva il figlio di Norina, Ciro, un ragazzino magro e dinoccolato che entrava ed usciva dalla dispensa, con le vivande che ogni mattina comperava al mercato di Porta Palazzo. Si teneva impresso a memoria l’ordine della spesa dei Signori, perché non sapeva leggere e allora la madre gli leggeva a voce alta la lista e lui se l’imparava a memoria, tutte le sere. Ciro era un ragazzetto simpatico, ma quel nome Dora non l’aveva mai sentito messo a nessun altro in vita sua e glielo aveva domandato il perché di quel nome. Allora Norina era intervenuta di malavoglia, senza guardarla negli occhi quella volta e le aveva detto che era un nome di origine meridionale, come il padre che lo aveva messo al mondo e poi abbandonato. Poi aveva concluso che non si sarebbe dovuto parlare mai più di quella vicenda. Dora allora si era fatta l’idea che scegliendo quel nome per un bambino scuro di pelle e di occhi come la pece e di capelli ricci e ispidi, la madre avesse fatto come un voto al

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ritorno del padre sui suoi passi e alla decisione di non occuparsi più di nessuno dei due. Ma evidentemente non era andata come sperava, se dopo 15 anni, che era l’età di Ciro, Norina era ancora a servizio dai sui signori di Torino, per campare. Però non ne parlarono mai più. Quando si ritrovavano a pranzo insieme, anche a Ciro era concesso di mangiare con loro dopo le commissioni e prima del riordino delle parti esterne .E Dora nel dopo pranzo ne approfittava per leggergli qualcosa ad alta voce. Dei libri che sottraeva di nascosto alla Signora ovviamente non ne aveva fatto parola con nessuno e neppure del vizio che aveva la Signora di leggere libri scabrosi. Proprio lei che usciva vestita di tutto punto già dalla stanza da letto ed il bagno lo faceva una volta alla settimana, dopo che Dora si era preoccupata di riempirle la vasca di acqua messa a scaldare in cucina e miscelata con quella fredda, dove la Signora si immergeva vestita di una sottana lunga fino ai piedi. E pare dormisse anche così, visto che quando Dora rifaceva i letti e sprimacciava i cuscini, trovava sotto lo stesso tipo di sottana di cotone spesso, con la manica lunga e castigata estate ed inverno. E poi invece cosa leggeva, cosa.

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E Dora rideva da sola a tal punto quando ci ripensava alle letture della notte, che doveva trattenersi se i Signori o il Signorino erano in casa per non destare sospetti. Per carità, essere licenziate per curiosità, che la Signora maestra aveva detto a suo padre essere segno di intelligenza. Ma lì Dora non era pagata per essere intelligente , ma per lucidare mobili e pavimenti e latrine, appunto. Che non se lo dimenticasse mai. Albi una sera l'aveva aspettata di fronte alla porta della cucina. Lo aveva trovato appoggiato alla sedia , con le braccia e le gambe incrociate, in attesa che lei spingesse la porta col corpo, le mani occupate dal vassoio con cui raccogliere i piatti. L'aveva aspettata con la scusa che le servisse un po' di cognac invecchiato. La Signora era già nel salotto buono, vicino alla finestra che stava ricamando. Non aveva sentito. "Allora Signorina Dora" iniziò lui" come si trova a casa nostra?" "Bene" rispose Dora, stupita della sua presenza. Poi posò il vassoio, asciugandosi per bene le mani sul grembiule.

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"Lei è molto bella. Lo sa, vero?" continuò lui" Ed è per questo che mi tormenta i sogni, da quando è arrivata?" le disse non mollando un attimo di fissarla. "No, Signore" rispose lei "Sa bene che sono una ragazza qualunque" mentre in cuor suo pregava che no, che lui dicesse che lei era una ragazza speciale, che nessuna le rassomigliava. E infatti lui continuò :" Hai gli occhi che brillano di intelligenza, per essere una donna, invece" disse. E lei avrebbe dovuto capire che non erano frasi di gentilezza vera, invece tacque inorgoglita all'idea che il Signore vedesse finalmente in lei la donna che era e non solo una serva. "Se mi consente, signorina", continuò lui "un giorno che siamo io e lei soli potrei venirla a trovare in camera sua", ed abbassò ancora la voce, " Se la cosa non la infastidisce, ovviamente. Se trova un po' di tempo per me" e se ne andò, lasciandola lì su due piedi, come se fosse stata una visione. Dora rientrò subito in cucina, rosse le gote. E Norina se ne accorse. "Allora? " domandò " Cos'è questo ritardo? Ti stavo aspettando per finire di rassettare, sono stanca"disse, indispettita. La fissava.

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Ma Dora era tutta orgogliosa di se' e mormorò :" Almeno il Signor Alberto si è accorto di ciò che valgo. Pensa che sono una ragazza speciale, lui"rispose Dora, tenendo botta. Ma Norina la rimprovero' quella sera, con una rabbia incontrollata che la faceva sembrare fuori di senno, quando alla fine le gridò in faccia:" Non permettere mai che entrino in camera tua. I Signori sono degli zozzi che ti useranno e poi ti faranno cacciare. Non sei la prima , Dora ,che deve tornare a casa di corsa. Al Signore piacciono le nuove gonnelle anche se è sposato da lunga data e potrebbe essere tuo padre. Si divertirà con te, ti farà male e poi ti manderà via come ha fatto con le altre. Chiedi a Ciro, se non mi credi". Ed uscì dalla cucina con lo straccio davanti alla bocca, per soffocare le parole. Ciro era seduto al tavolo, che tentava di sillabare, come le aveva mostrato Dora a pranzo. "Mia madre te l'ha detto malamente, ma ha ragione" sentenzio' lui" Al Signore piacciono le gonnelle e quello che ci sta sotto". Non rideva più. Ma Dora aveva un nuovo sogno da cullare, ora che quello di continuare la scuola aveva dovuto abbandonarlo, e anche quello di lavorare alla Stipel come segretaria .Non c'erano facce che le facevano compagnia, mentre sognava di volare, lanciandosi dalle montagne, poi sulla collina, fino alla

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prateria verde, con un uomo a cui aggrapparsi per non cadere. Aveva le spalle larghe ed un corpo sano e forte come l'aviatore del libro che le faceva compagnia fino a notte fonda. Adesso avrebbe avuto anche una faccia. E la sua esistenza sarebbe stata piĂš felice. CosĂŹ almeno aveva voluto credere.

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Da qualche giorno Dora vedeva i signori pensierosi, soprattutto il Cumenda. Lui , in particolare si lamentava di non poter utilizzare l'auto per andare in azienda, e di poter ancora prendere il tram perché, per fortuna, la fabbrica non distava molto dalla loro casa in centro. Dora aveva notato che Ciro era in difficoltà a reperire quello che gli chiedeva di comprare la Signora. In città si trovava solo più pane nero, duro come pietra che però Ciro e Dora bagnavano nel latte che lui riusciva ad andare a procurarsi in bici, portandosi dietro un contenitore di alluminio da un amico del Cumenda, che aveva un cascinale in periferia. Il resto Ciro lo scambiava al mercato in nero magari per zucchero o sale. Il resto lo pagava, anche se il caffè non si trovava più neppure a peso d'oro e Norina aveva iniziato ad industriarsi nel preparare quello d'orzo.

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La sera facevano le prove di oscuramento. Avevano messo i teli neri alle finestre e al suo lucernario che dava sul tetto e Dora saliva a tentoni su per le scale, senza neanche poter accendere la candela. La sera che il Signor Alberto decise di entrare nella stanza di Dora per prenderla fu la stessa della deflagrazione. Erano circa due anni oramai che Dora viveva da loro e che lui le faceva battute, le assicurava che avrebbe passato il pomeriggio seguente a casa con lei o il giorno di riposo e poi non si faceva vedere per tutto il giorno, con la scusa del lavoro. Non rientrava neppure per pranzo, diceva la Signora, per un impegno improvviso. E quando lei oramai se ne era fatta una ragione e tornava con Ciro dal centro dove magari avevano passato il pomeriggio di riposo a passeggiare sui pavimenti tirati a cera di via Roma o sul pavĂŠ di Via Garibaldi, o tra stradine lastricate dove ai lati giocavano bambini , o al cinema, lui invece quando arrivavano li aspettava sulla soglia con fare agitato. La spingeva da parte e le chiedeva dove mai fosse stata per tutto quel tempo, dopo che aveva spedito Ciro malamente in cucina dalla madre. In seguito la sorprese piĂš volte fuori dalla porta della cucina con baci appassionati ed umidi che le facevano dimenticare che era la serva di casa.

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Ultimamente aveva preso da aspettarla mentre rientrava nella sua camera al buio e mentre la baciava, le infilava le mani a cercare i capezzoli induriti, spingendole contro una durezza dei pantaloni che Dora non capiva, infilandole la mano sotto la gonna, tra i peli radi della pubertà. Mentre lei si chiedeva sempre se la Signora fosse già nel letto e se non si fosse già insospettita dei ritardi del marito. Quella sera, l'11 giugno, per l'esattezza, Dora lo trovò davanti alla porta della sua camera, che le impediva il passaggio. "Se non mi fai entrare, non entri neanche tu" le disse scherzando, con la sua voce ormonale. Lei si fermò e lui iniziò a baciarla tutta, sul viso, gli occhi, le labbra, con la lingua cercò la sua, le orecchie, i capelli, il collo. Aprì la porta e furono dentro, le tirò su la gonna e in un attimo le fu dentro. Dopo un bruciore intenso segui' una sensazione di tepore strano, mentre lui si muoveva sopra, mentre lei solo cercava di non irrigidirsi per non aumentare il dolore. Poi mentre già tutto era confuso nella testa di Dora ,ecco lo scoppio: i vetri tremarono, anche il comodino e i quattro mobili , la porta si aprì. Lui indietreggio' di colpo, non prima che la Signora comparisse sulla porta e urlasse.

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Non si capì mai bene se per il primo bombardamento su Torino o per la scoperta del Signore dentro Dora o tutte e due le cose insieme. E le sue grida si confusero tra le sirene antibombardamento che attaccarono in ritardo ed i fischi delle bombe e gli urli della gente che stava scappando in strada verso i rifugi. Mentre Dora rimase impalata per un lasso che parve ad entrambe assurdo e fuori tempo. "Con te ce la vediamo dopo" urlò la Signora" Adesso scappiamo". Ed in un batter d'occhio furono tutti di sotto, solo mezzi vestiti, le mantelle di lana scura tirate addosso perché le ore sarebbero state lunghe là fuori. Ed uscirono nella notte, confondendosi tra la folla che cercava di decifrare nel buio le case con la lettere "R" sulla porta. Dora fu la prima a trovar riparo lungo il corridoio sotterraneo che portava alla stanza del rifugio. C'era odore di sudore e muffa, i bambini presi in braccio tiravano su il moccolo tra un lamento e l'altro, mentre altri si addormentarono ad uno ad uno. Poi i fischi tacquero ed anche le sirene. Dora prese sonno anche lei contro la parete umida e sogno' di cadere durante il volo, questa volta. E si svegliò di soprassalto, sbattendo il capo contro il muro.

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Era mattino e doveva tornare a casa dei Signori. Quando entro' in cucina Norina le disse che per lei non c'era nulla da mangiare:" Ordine dei Signori" disse" Ti avevo avvisata". "Ah, ora decidono assieme" pensò Dora. Ma era troppo tardi per le considerazioni. Ciro non mangiava, gli consegnò un pezzo grande di pane duro di nascosto dalla madre:" Ti servirà per il viaggio" le disse. Poi continuò:"Hanno già mandato un messaggio ai tuoi dal telefono del bar del tuo paese stamattina presto. Il Signore ha fatto dire a tuo padre che non hanno più soldi per tenerti a servizio per via della guerra" continuo' lui ," Qui in citta'sta diventando davvero pericoloso. Ci telefoneremo se vuoi, o ci scriveremo così ti mostrerò i miei progressi nello scrivere e dovrò leggere le tue lettere che non faranno altro che migliorarmi." Faceva tenerezza, Ciro. Era veramente affranto."Io non credo ad una parola di ciò che dicono di te i Signori. Dicono che non facevi altro che imbarazzare il Signore con le tue nudità , alzando la gonna sopra il ginocchio per eccitarlo o scoprendo le spalle per mostrare il petto. Non credo ad una parola Dora, voglio che tu lo sappia" continuò lui, le lacrime agli occhi.

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"Ti prego anche di perdonare mia madre, che è molto adirata con te perché non hai voluto ascoltarla e teme che tu possa rovinarti la vita come ha fatto lei. Mi ha detto di dirti di aspettare un mese e che poi sei salva, se compare il sangue. Se no di trovarti in fretta un marito con cui aggiustare la tua vita, Dora. Io non ho ben capito, Dora, ma lei mi ha assicurato che tu avresti compreso. Sembra dura come la roccia mia madre, ma è una brava donna e sa cosa dice, anche se non ha studiato e passa la vita a servire."terminò lui. Dora bacio' Ciro sulla guancia e salì in soffitta per prendere le sue cose. I suoi vestiti erano già in valigia, l'ultimo libro che stava leggendo, lo aveva nascosto sotto il materasso vicino al rosario di perle. Li infilò entrambi tra le mutande ed il busto, prima di uscire dalla stanza. E il libro lo getto' nella prima fossa che trovo' uscendo. Lei e la Signora avrebbero custodito i loro segreti per sempre in quel tombino. In casa non era rimasto nessun altro a salutarla.

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Uscì in via Medici, tra le macerie dei palazzi che scoprivano le viscere, tra lavandini e cessi a vista. Cessi zozzi tutti, che si vedessero almeno. Dora camminava accanto agli operai che avevano cominciato a scavare trincee lungo le vie della città, tra gli orti cittadini del Valentino, coltivati a patate, lungo il fiume che continuava il suo incessante scorrere lento, come se quella notte in città non fosse successo niente. Dora voleva tornare a casa sua. Aveva attraversato la città sventrata dalle bombe di quella notte e, nel cesso della stazione aveva dovuto togliersi le mutandine e lavare a mano le macchie di sangue rosso e rimettersele addosso bagnate, perché nessuno se ne accorgesse. Suo padre non la salutò neppure quando arrivò, dopo il viaggio in treno e poi quello estenuante a piedi fino al paese. Sua madre invece la abbraccio'. Norma le chiese se stesse bene. Dora consegnò i soldi che aveva guadagnato negli anni a servire a suo padre, il pane lo regalò a sua madre. Durante il viaggio non ne aveva toccato neppure un pezzetto. Poi corse in strada a cercare Tunin. Norina era stata chiara. " Cercare un marito per non avere la vita rovinata".

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Ma Tunin non c'era, le disse la madre. Era partito per la guerra come marinaio e glielo riferì tutta orgogliosa. Ma Dora aveva fretta e volle rispondere alle sue lettere al posto della madre, dove diceva che era venuta a casa apposta per lui e che si sbrigasse a tornare, che le era mancato molto e che lo voleva sposare. E neanche sua suocera, la mamma di lui, non ci poteva credere, né stava più nella pelle, nonostante la guerra, quando andò ad imbucare la lettera con le novità per il figlio. Quando Dora rivide Tunin, era un ragazzone di un metro E novanta. E cinquantadue di piede. "Ma dove le compri le scarpe?", le aveva chiesto lei. Mentre lui ora la fissava con i suoi occhi che parevano il mar d'Africa da cui era riemerso come caposilurista di un sommergibile, e non più bassi come a scuola. Ecco che aveva trovato il suo militare audace e coraggioso. E cosi lui torno' per due giorni soli, per chiederne la mano al padre, per toccarle i seni ingrossati disse, è la maturità rispose lei, mentre si infilava la mano di lui tra i peli e lui non capì più nulla dei suoi vent'anni e venne. E allora lei gli raccontò che un po' di seme le era rimasto sulla mano e che la loro prima bambina sarebbe stato destino. Invece il sangue dopo arrivò, eccome.

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Abbondante, rosso, doloroso. Dora non capiva niente allora. Le era sembrato solo più abbondante del solito, con grumi coagulati su stracci che non si potevano lavare e che aveva infilato tra i ceppi, giù nella catasta di legno che suo padre aveva preparato per l'inverno. Poi tutto sembrò passare in fretta: l'attesa di Tunin, la guerra, le corse a scendere dalle biciclette per gettarsi nelle rive al passaggio degli aerei che mitragliavano all'improvviso, le sere a casa con i vetri oscurati, il pianto del bambino della famiglia che era scappata dalla città e a cui avevano affittato il ripostiglio, le notti a sentire a bassissimo volume Radio Londra. Ed insomma a Tunin , quando torno', gli aveva detto sì. E si erano promessi di sposarsi. Dopo che tutti in paese si stupirono. Persino la sua amica Carla che non ci credette fino a che non vide le pubblicazioni al Municipio. Dora si era promessa come sua sposa una domenica in piazza, dopo la Messa. Così lui poi l'aveva chiesta in sposa a suo padre, dopo che sua madre si era messa a piangere per la felicità di non vederla partire come monaca , dopo che anche Norma si era congratulata. E anche Carla se ne era convinta, alla fine.

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Così Dora aveva iniziato a preparare il corredo, ricamando sul cotone delle lenzuola e sulla canapa degli asciugamani le proprie iniziali. Lei e Tunin si parlavano dopo la Messa delle dieci, e durante la stessa Messa si erano sposati. Quella mattina c'era il sole alla Chiesa di S.Ponso. Dora aveva passato tutta la notte a parlare al buio con Norma e non aveva dormito. Ma la cipria della maggiore avrebbe coperto la stanchezza dei suoi occhi. Indossò il vestito bianco lungo fin sotto il ginocchio, la madre le fece la crocchia più bella dei giorni di festa. Poi le coprì il capo con una veletta bianca , lunga e garzata, da cui poteva vedere la vita come se tutto fosse un quadretto. Dopo il lancio del riso, il viaggio di nozze fu una biciclettata fino al santuario di Belmonte, a piedi all'andata, su per la strada impervia e poi giù sul tubo della bici di Tunin , mentre lui con la scusa l'aveva tenuta stretta tutto il tempo. Norma la sera prima delle nozze le aveva raccomandato di rimanere vestita, dopo che fossero andati nel letto matrimoniale lei e Tunin , e di stringere i denti , senza lasciarsi scappare gemiti , come si confaceva ad una vergine perbene.

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Norma non immaginava neppure tutti i libri che Dora aveva letto dalla signora, per cui non aveva affatto paura, e neppure di tutto il resto che era capitato con Albi, figuriamoci. Solo che non immaginava che il dolore non sarebbe stato lancinante come l'altra volta, ma dolce, e si sforzava di non gemere e di non assecondare i movimenti del bacino del marito per non apparire impudica. E le piacque abbastanza. Ma non disse niente a Tunin né quella sera, né mai. Lui si alzò per pulirsi con un fazzoletto bianco, intonso. Magari si chiese perché non fosse rosato. Ma non ne parlarono mai , come Dora non gli parlò mai del Signore e di cosa fosse successo. Lui tornò a lavorare come operaio per la fabbrica del paese vicino, otto ore alla catena di montaggio. E Dora accettò allora di sposare Tunin anche con un occhio solo ma un cuore grande. Anche se quell'occhio azzurro spento ed i piedi fuori misura, lei quasi non riusciva a guardarli. Partorì in casa Marianna, la prima figlia femmina, e lei e Tunin riuscirono a comprare , a sacrificio di carne una volta a settimana, una grande casa nel centro del paese.

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Tunin usciva al mattino all'alba per andare in fabbrica e tornava al pomeriggio inoltrato, mentre lei dopo aver portato le figlie a scuola, e fatto le faccende, lo aspettava per andare insieme a lui a prendersi cura dei campi. Il sabato facevano insieme il giro delle sorelle di lei e dei fratelli di lui. La domenica Dora si alzava presto per preparare il pranzo, poi si dava un'aggiustata ai capelli e indossava l'abito buono e la veletta prima di entrare in Chiesa. Al pomeriggio passeggiavano per il paese d'inverno, mentre in estate tornavano a Belmonte a fare una gita. Dormivano in una stanza al piano di sopra, senza riscaldamento, con i letti delle figlie accanto, il catino per lavarsi il viso, che d'inverno gelava e lo scaldaletto , con il carbone, per le sere piÚ fredde. Tunin la cercava ogni tanto, spesso quando aveva bevuto di piÚ, dopo che si era fermato al dopolavoro e lei, passata una certa ora andava a riprenderselo, tra le donne tettute in grembiule che servivano ai tavoli e gli altri operai che ridevano mentre gli urlavano :"Tunin, è ora. E 'arrivata il generale". Poi Dora lo assecondava , senza spogliarsi, nÊ gemere. Storceva la bocca e il labbro inferiore un po' le tremolava, come quando qualcosa proprio non le garbava tanto e le

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tornava in mente ogni volta la notte della deflagrazione ed il dolore, di cui non fece piĂš parola con nessuno. Ed in cittĂ non c'era piĂš voluta tornare e si chiedeva sempre, come un'ossessione, se quello, proprio solo quello fosse tutto l'amore che si poteva ottenere in una vita.

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Cecilia era riuscita ad andare a trovare la nonna solo dopo due giorni dal arrivo di Dora in residenza. E le parve strana. Girellava nei pressi del cancello come se volesse approfittare di un apertura inattesa per poter uscire. Ma per andare dove, esattamente? Nonna Dora sapeva bene che non sarebbe più riuscita a badare da sola a se stessa, soprattutto ora che era diabetica e dipendente dall’insulina. Sua madre Miranda le aveva detto che nonna Dora pareva essersene fatta una ragione, di vivere lì dentro. Ma a Cecilia non pareva. Le si avvicinò da fuori, al di là della cinta alta di recinzione, in effetti troppo alta, aveva notato Cecilia. Nessun vecchio sarebbe mai riuscito comunque a scavalcarla, neanche con una scala. Due videocamere ai lati la spiavano muovendosi con scatti robotici.

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Ciao nonnina contenta.

trillò Cecilia, cercando di apparire

Dora alzò lo sguardo che per un attimo sembrò riaccendersi. Ah, ciao. Come stai, tesoro della nonna? tutta d un fiato. Bene, nonna. Meglio se mi fanno entrare. E strano, non trovi, parlarsi da qua? .

rispose Dora un po

"Ah, guarda se almeno a te aprono rispose Dora Mi pare di essere ad Alcatraz, fai attenzione a quello che dici. Ci spiano, guarda là e tese la stampella ad indicare una delle videocamere, a lato della cancellata. Adesso ci penso io , rise Cecilia, soprassedendo sulla presenza degli occhietti metallici. E suonò al campanello, a lungo, finché la notarono da dentro e le aprirono. Ciao nonna", Cecilia volò al collo a Nonna Dora, che la abbracciò forte. Sapeva di cipria e di glicerina e vagamente di naftalina, che teneva tra le maglie di lana contro dalle tarme. Allora cosa mi racconti, piccolina? , chiese Dora curiosa.

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Aveva bisogno di sentire parlare d altro: basta anziani malati, carrozzine, tutori, dolori e fisioterapia. "E tu piuttosto? Non hai niente da dire alla tua nipotina preferita?" chiese Cecilia. " Mah. C'e uno qui, lo conoscevo da ragazza. Allora gli avevo insegnato a sillabare, figurati. Ora lui mi sta insegnando a ridere, in questo postaccio che hanno scelto per me le mie figlie. Ma mica glielo dico sai, a quelle due megere? E guai a te se ne fai parola. Quelle due sono tutte casa e Chiesa, chissà cosa penserebbero. Eppure cara, il cuore mi batte più veloce del solito quando mi parla, nonostante le gocce. Strano non trovi?". "Ma vieni, vieni" continuò " Ma mi raccomando, fai l'indifferente. Io non te ne ho mica parlato, intesi? E' pieno di donne qui che gli fanno la corte. Io, cosa vuoi sono tra le più vecchie". E rideva nonna Dora. "Com'e' bella", pensò Cecilia mentre la guardava, ma non disse niente. "Per ora pare che sia io la prescelta ma insomma qui bisogna stare all'occhio. Un attimo e te l'han soffiato. E non è che qui dentro ci sia tanta mercanzia". E rideva nonna Dora, come se la rideva.

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A Cecilia le sembrava un poco matta, ma era sempre stata una gran chiacchierona , che aveva dovuto sopravvivere in un paese dove i pettegolezzi non ti lasciavano respirare, scambiando un grammofono in cambio di un marito. Ed infatti nonna Dora aveva sempre di gran lunga preferito la città anche se non vi era più ritornata, se non quella volta, poco prima che succedesse lo scandalo. E anche adesso era contenta di esserci ritornata, anche se quelle recinzioni proprio non si potevano sopportare. E poi arrivò lui , Ciro: alto, in jeans e maglia a dolcevita ,cintura a tenere su i pantaloni di una vita troppo magra. Solo le scarpe erano da vecchio: un paio di mocassini marrone scuro, lisi. Si avvicinò col sorriso splendido, un baciamano veloce a nonna Dora ,ed un inchino a lei. Le altre signore guardavano lui con ammirazione e loro due con invidia , parlottando te loro. Anche Nora le osservava da lontano. "Ma tu guarda" si disse Cecilia " Ma chi l'avrebbe detto". E sorrise tra sé. Nonna Dora non pareva affatto affranta come le aveva raccontato sua madre. "Buonasera signor? " si affretto' a dire.

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"Ciro Esposito .Ma mi chiami pure Ciro. Gliene ha già parlato di me la nostra Dora?" chiese l'uomo. Rispose con educazione:" Veramente no, signor Ciro". "Ebbene allora gliela racconto velocemente io, la storia" proseguì lui. "Io e Dora, cioè io e sua nonna ci conosciamo da quando lei venne a servizio a Torino dai Cumenda, dove mia madre, per un equivoco della vita, lavorò come cuoca per anni mentre io cercavo di imparare a leggere, grazie a sua nonna, nevvero Dora?" mentre si rivolgeva alla nonna che abbassava lo sguardo. "Veramente mia nonna mi stava raccontando che vi ha insegnato a sillabare" rispose Cecilia, facendogli l'occhiolino. "Ciro, tuo figlio e' al telefono,"sentirono la voce di Paola. E lui,si congedo' di fretta',infilandosi nella cabina del telefono pubblico, dopo aver socchiuso la porta, lasciandole così su due piedi. Dora provò a sgridare la nipote per la confidenza che si era presa ma a Cecilia pareva di riconoscere nei modi di Ciro la semplicità di chi ha condotto una vita umile, cosicché le pareva che non si sarebbe offeso per le cose che lei già conosceva di lui. Le pareva già di sapere con chi aveva a che fare.

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E lo trovava simpatico. Ma sì, si disse, in fondo cosa può succedere in una casa di riposo tra due anziani che cercano il modo migliore di far passare il tempo che resta? Nessun peccato, quindi. Cosi salutò nonna Dora dicendo che doveva andare, il telefono squillava e ci sono telefonate che non si possono rimandare. "Pronto?" disse, già sorridendo, mentre leggeva il display. Una telefonata leggera. Ci voleva proprio a quel punto della giornata, dopo il lavoro, la visita a nonna Dora e prima della continuazione in famiglia. "Ciao bella fighetta, Pensavi che mi fossi dimenticato di te?" disse una voce ormonale dall'altra parte. "No, certo che no. Arrivi giusto a fagiuolo, oggi. Ho avuto una giornatina pesante" rispose. Rideva lui. "Ci vorrebbe un incontro dei nostri, Ceci. Un po' di endorfine che girano e ci aggiustano le giornate". E ridevano entrambi. E rideva Ceci, mentre la' fuori diventava buio, e una pioggerellina leggera cominciava a coprirle il vetro della macchina, mentre azionata i tergicristalli. Rideva come non le succedeva più da anni. Come se non ci fosse stato un domani.

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E il tempo avrebbe potuto fermarsi li, pensava. Il giorno dopo Cecilia tornò alla Residenza Arzilli. Aveva bisogno di parlare di una faccenda importante a sua nonna. Voleva chiederle un consiglio, se ne avesse trovato il coraggio di iniziare a parlarne. Non la vide in giardino, perciò suonò a lungo, finché le aprirono. Entrò nel salone ma nonna Dora non c'era. Andò in camera a cercarla, era troppo presto per la cena. Niente. Tornò alla reception per chiedere se l'avevano vista, la Signorina Paola le disse di guardare in giardino: l'aveva vista passeggiare lungo il viale che portava nel giardino dietro la struttura. Era un po' in imbarazzo, le parve, anche se non capiva il perché. Uscì, si stava spazientendo Cecilia, tutto quel tempo in cui avrebbe potuto parlarle, ora che le sembrava di aver trovato il coraggio, sprecato così a fare la caccia al tesoro. In giardino nonna Dora non c'era. Cecilia guardò sotto tutti gli ombrelloni mentre anche gli altri pazienti guardavano lei, altri con lo sguardo perso nel vuoto. Fece il sentiero avanti ed indietro due volte fino all'entrata, poi una vecchietta con gli occhietti vivaci le fece segno di voltare sulla destra, rideva con la mano davanti alla bocca sdentata, era Nora, la vicina di letto.

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Proseguì dietro la struttura: vide un'altra videocamera vicino all'uscita di servizio, quella che dava su di una strada secondaria, mentre stava entrando il furgone della biancheria. Poi, da lontano, intravide una panchina di metallo, sotto un salice piangente e ,sulla panchina, mise a fuoco due figure. Guardò meglio, sperando di sbagliarsi per la fretta: nonna Dora e il signor Ciro si stavano baciando con le bocche aperte. Oddio. Scappò via. Non era proprio vergogna, riconobbe l'imbarazzo però, quello puro, mentre sudata fece la strada a ritroso in retromarcia finché rivide Nora che la fissava. "Allora, l'ha trovata " disse la vicina. "Si, sì, grazie", rispose sovrappensiero. Poi raggiunse Paola al bancone:" Un caffè forte, Paola, grazie". "Giornata impegnativa, Signora?"chiese mentre sbatteva il filtro del caffè usato in precedenza per riempirlo con quello macinato di fresco. "Sì, diciamo impegnativa", rispose.

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Pagò il caffè, lo beve d'un fiato e senza aggiungere parola fece per uscire. Paola la fermo':"L'ha trovata sua nonna, alla fine?"le domandò . "Sì, alla fine, sì . Ma non posso fermarmi oltre. Me la saluti. Tornerò nei prossimi giorni ", rispose tra i denti. Paola sorrise:" Va avanti da un po'. Non sapevamo come dirglielo, Cecilia. Ci dorma sopra. Poi domani le parlerà . Buona sera".disse. "Anche a lei, Paola. A domani" rispose. E stavolta uscì davvero e si infilò in auto. Avrebbe dovuto parlarne con suo marito Franco, ma lui avrebbe iniziato con le battute sul fatto che si sapeva che nonna Dora era stata una ragazza di facili costumi. Glielo ripeteva sempre anche sua madre Miranda, mentre lei si infastidiva parecchio . Allora chiamò il geriatra , che seguiva nonna Dora anche per il diabete. Il telefono suonò un paio di volte poi il medico rispose. " Dottore? Buona sera , sono la nipote della Signora Dora. Si ricorda.? Bene Dottore, scusi se la disturbo.

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No, no, mia nonna sta bene, grazie . Anzi mi pare in gran forma. Ah si. Perché la chiamo? Veramente non è difficile ma a me pare un po' complicato da raccontare, imbarazzante, ecco.". Un lungo sospirò. Dai Ceci, ce la puoi fare. "Per farla breve, Dottore, ho trovato mia nonna che si baciava con un uomo. Perché sembrò sconvolta? Ma le pare normale a 85 anni?. No, io non lo so ,è lei lo specialista. Ah ecco. Il cuore non invecchia. Si, mi pare siano entrambi liberi, cioè mia nonna è sicuramente vedova. Ah ecco, eh beh certo, non pare facciano nulla di male. È solo che a me fa po' strano. Ah ecco, cioè sarebbe normale innamorarsi ed avere pulsioni di desiderio anche in età senile? Ah, si. Scusi. E'che non ci avevo mai pensato. Grazie Dottore, scusi per il disturbo. Si, si, la chiamerò se mia nonna si scompensa. Ma come le dicevo, mi pare in gran forma. Buonasera, grazie".

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Cecilia attaccò e buttò fuori tutta l'aria che le rimaneva nei polmoni. Adesso sarebbe stato un vero delirio dirlo a sua madre e sua zia. Anzi non bisognava proprio dirglielo, ecco. Sarebbe dovuta tornare domani a cercare di parlare con nonna Dora, di farla ragionare. Cioè non è che si poteva incasinare la vita a 85 anni. Passi lei che ne aveva 45, quell'età dove ti pare di non poter più piacere, che poi arriva la menopausa e gli ormoni ti fregano, proprio adesso che, se non sei stata mai una ragazza bellissima ma sei diventata una bella donna. Cioè i complimenti fanno bene a tutti, specie poi se a casa non si accorgono neanche se sei stata dal parrucchiere, se ti sei comprata un vestito nuovo, se sei pensierosa, se hai la testa da un'altra parte. O il cuore. Perché testa e cuore mica stanno sempre insieme, e mica vanno sempre d'accordo . Sarebbe tutto così semplice, altrimenti. Insomma nonna Dora, io sono venuta oggi apposta per raccontare una cosa importante, proprio a te che mi hai cresciuta, che mi hai insegnato l'Angelo di Dio al mattino e ad usare il vasino la notte, proprio a te che hai scelto di avere una vita integerrima accanto al nonno a cui hai

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promesso:" Ti sarò fedele sempre nella gioia e nel dolore, finché morte non ci separi". Sono venuta per chiederti qual è il segreto per rimanere fedeli, dopo che passano gli anni ed i sospesi si incancreniscono, e i silenzi diventano muri, che ti paiono impossibili da buttare giù. E allora scegli la strada che ti pare più veloce per la serenità: un nuovo uomo, un nuovo amore, una nuova passione che ti ha risvegliato proprio quando pensavi che la tua vita fosse segnata su quel tracciato obbligato come le rotaie di un tram che avevi scelto, felice, il giorno del tuo "Sì ". E tu mi freghi così, nonna Dora. Cecilia stava piangendo da sola in macchina, mentre il traffico seguiva la sua corsa. Zigzagando anche lui, come impazzito.

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Dora ne parlava spesso di cosa fosse l'amore con la sua amica Carla ,quando si era appena sposata. Lei invece, donna sola, da poco aveva iniziato ad intendersela con il macellaio. L’aveva incontrata tutta entusiasta una mattina ,mentre tornava a casa dopo essere stata in macelleria, e quasi non l'aveva riconosciuta ,da quanto sorrideva quel giorno. "Ma cosa ti è successo?" le chiese Dora con la mano sulla bocca per non far neanche leggere il labiale alle altre donne che camminavano lungo il bordo della strada , e che dovevano superarle , e sicuramente tendevano l'orecchio nel frattempo , per poter origliare . E Carla le confessò allora il gran segreto, sussurrando. " Se ti scopre la Lena sono guai" disse Dora, spalancano la bocca, alla fine. Carla era rimasta zitella seppur fosse una donna molto bella.

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"Cosa vuoi farci ,Dora, non tutti si accontentano, oppure sono così fortunati da incontrare l'uomo della loro vita al momento giusto. Guarda me. Ho incontrato Giacomo proprio adesso che e ' già impegnato e che i giochi sono fatti", rispose Carla, guardandola negli occhi. Giacomo, il fratello maggiore di Tunin, di cui Dora era innamorata segretamente da tutta la vita. Lui sì che era un gran bel ragazzo, dagli occhi blu come il fratello, ma anche molto intelligente e che aveva anche finito gli studi di avviamento. Anche se a Dora non l'aveva mai considerata perché era più piccola, una bambina, quando parti' per Torino. Sposatosi poi per gran fortuna con Lena , figlia unica del macellaio del paese, di famiglia nota di macellai. E ricchi. Dora sospiro'. Quindi questo sarebbe stato il doppio segreto che avrebbe mantenuto con suo marito, mentre di sua cognata Lena non gliene importava un bel niente. Era ricca sfondata e taccagna come un ragno, la prediletta dal suocero che così aveva ottenuto la carne gratuita per tutto l'anno, mentre a lei e Tunin, in tutto quel tempo, non avevano mai passato sottobanco neppure un osso da brodo. E come diceva il proverbio l'avaro non è buono con nessuno, pessimo con se stesso.

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E che fosse cornuta le stava pure bene alla Lena, ma Dora non doveva farsi scappare parola con nessuno, men che meno con Tunin. E anche se Dora era scettica su questo amore nato tra salami e salsicce , ascoltava le stramberie di Carla perchĂŠ erano amiche da quando erano bambine e le voleva bene. E soprattutto la faceva ridere. Pero' l'aveva messa in guardia alla Carla :" Guarda che gli uomini vogliono solo una cosa, cara mia. Prima ti allisciano per ottenerla, ti incantano con i sonagli, ma sempre serpenti rimangono" . E le venne in mente Norina che l'aveva rimbrottata malamente, tanti anni prima, ma che doveva averle voluto bene sul serio anche lei. Lo capiva adesso. Pero ' Carla si era proprio incaponita per Giacomo. E per non far insospettire la moglie che stava sempre alla cassa come un falco, andava a comprare due fettine senza osso e due ossibuco ogni martedi mattino, di ogni settimana dell'anno. L'appuntamento tra i due amanti di solito era al mattino dietro al macello, dove Giacomo andava due volte a settimana a scegliere le bestie. LĂŹ vicino c'era un capanno dove teneva gli attrezzi del mestiere e i grembiuli sudici.

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Il posto era lurido e lo facevano in piedi. Prima lui le infilava un dito per farla bagnare e poi le alzava la gonna, prendendola da dietro, e al culmine le urla di entrambi erano coperte dal muggire delle bestie, tra l'odore di sangue e carne fresca. Carla raccontò a Dora che non si era mai eccitata così tanto in vita sua, e voleva sconvolgerlo a Giacomo . E così aveva deciso di andare a Torino a comprare un paio di mutandine di seta per fargli una sorpresa e chiese a Dora se potesse accompagnarla, lei che a Torino vi era stata e conosceva a menadito le mercerie del centro e poteva consigliarla. Dora disse:" Ci penso su. È dalla guerra che non vado a Torino e avevo deciso di non tornarci più ". Ma Carla insisteva: "Ci facciamo un giro, magari rivedi vecchi posti, vecchie persone". Chissa perché non l'aveva mai convinta del tutto quella storia che Dora aveva raccontato che era dovuta scappare all'improvviso dalla città e poi tutta la fretta che aveva avuto di sposarsi con Tunin proprio, per cui fino a poco prima non avrebbe dato neppure mezza lira. E lo sapevano tutti in paese. Ma anche a lei, che erano tanto amiche, Dora non aveva mai raccontato niente. Taceva all'improvviso quando qualcuno gliene parlava, fosse stata anche sua madre o sua sorella. Taceva, si asciugava le mani sul grembiule, si

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arrovellava i capelli, arrotolando la ciocca fino alla radice. Poi usciva a prendere una boccata d'aria e quando rientrava, stava già parlando d'altro. Due giorni dopo Carla andò a cercare Dora per organizzare il viaggio ma Dora la accompagnò fuori subito, perché all'interno dello stesso cortile si era trasferita sua sorella Norma che nel frattempo si era ammalata di sclerosi e si era incattivita e restava tutto il giorno ad origliare da quella grande vetrata che si era fatta sostituire al posto della porta di legno dal marito sarto, con la scusa che tutto quel vetro potesse servire da vetrina. "Allora?" chiese impaziente Carla "Ci hai pensato sul da farsi?" "Si", rispose Dora " Dirò a Tunin che andiamo a Torino a comprare della lana buona che mi servirà per confezionare mutandoni lunghi e ghette per l'inverno e tu mi accompagni ". Poi continuò :" Tu devi informarti degli orari e comprare i biglietti, io non posso chiedere altri soldi a Tunin ". "Come io non posso aiutarti con la carne" rise Carla tutta contenta. Anche se , secondo Dora , non c'era proprio niente da ridere per nessuna delle due, se qualcuno l'avesse scoperta con Giacomo.

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Dora avrebbe negato di saperne niente, che Carla si arrangiasse. Erano amiche sì dall'infanzia ma non a costo di mettere a repentaglio già il rapporto compromesso che Dora aveva con il suocero, di cui Lena era già la nuora preferita. Così, dopo qualche giorno, Dora e Carla salirono sulla littorina e scesero a Porta Susa , che era stata ricostruita, dopo i bombardamenti. Lei e Carla si erano agghindate a festa, con le scarpe buone in tinta col vestito, mentre la collana di perle e gli orecchini li avevano portati nelle borsette, per non essere troppo appariscenti alla partenza e li avevan messi su prima di scendere alla stazione. E passeggiavano per Via Roma come due gran dame, tra le altre signore che mangiavano il gelato e parlottando tra lo sferragliare dei tram e qualche motore. La miglior merceria della città era in una viuzza nei pressi di Piazza Carlo Felice: guardarono entrambe estasiate le vetrine agghindate di manichini senza testa, vestiti di velluti preziosi e sete venduti al metro, prima da fuori. Poi entrarono. Il campanello avvertì le commesse del loro arrivo. La biancheria intima era nei cassetti dietro al bancone all'interno.

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Carla si fece coraggio e chiese di poter visionare la biancheria intima pelle d’uovo, cosi aveva letto sui giornali di gran moda . Poi, strizzando l'occhio a Dora, scelse, perché non si poteva provare, la mutandina più morbida e ardita tra le occhiate severe delle commesse, che dovevano essersi accorte che non erano signore di città dall'accento che Dora e Carla cercavano di camuffare in modo buffo, sottraendo i " ne' " a tutte le frasi, sperando che bastasse. Poi Carla si fece mostrare delle calze di nylon sottile e morbido. Mentre già pregustava la faccia paonazza di piacere di Giacomo la volta dopo, al capanno. Quando uscirono dalla merceria, Carla era trafelata e Dora presa dai ricordi. "Non è che mi accompagneresti in Via Medici per rivedere la casa dove ho vissuto come dama di compagnia?" domandò all'improvviso Dora, e Carla, che le doveva un favore, acconsentì. Non avrebbero allungato di molto la strada verso la stazione. E come sembrava lontano a Dora il tempo prima della guerra, interrotto poi bruscamente per "un piccolo incidente" , cosi raccontò a Carla, che però questa storia non se l'era mai bevuta.

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Passeggiarono un po' per la via, mentre Dora indicava all'amica le finestre di ciascuna stanza della casa dove aveva servito. Era al secondo piano e guardando verso l'alto riusciva a distinguere ancora le finestre. Lì c'era il salone, là la sala da pranzo con la tappezzeria in seta, laggiù la cucina. Mentre stava con il naso all'insù , contro sole, tanto che doveva tenere la mano sugli occhi, apparve sul balcone un uomo col sigaro: era vecchio, quasi calvo, zoppicava appoggiandosi ad un bastone, riuscendo a sedersi malamente su di una poltroncina. Quando si sedette Dora non riuscì più a scorgerlo. Ma fu sicura come non mai che quello fosse proprio il Signor Alberto in persona. Aveva sempre pensato di odiarlo, quell'uomo senza scrupoli che non aveva fatto altro che guadagnare, stare dalla parte dei forti e distribuire dolore. Alla moglie a cui aveva reso la vita un inferno di bugie e infedeltà e alle altre donne in buona fede. Dora aveva capito da Norina di non essere stata né la prima , né l'unica ragazza di cui aveva approfittato. Seducendole e rimandandole a casa con un ricordo indelebile indosso, come un marchio. Invece, mentre immaginava il vecchio ingolfato che masticava tabacco, tra una boccata e l'altra, all'improvviso aprì il tombino proprio sotto il balcone. Era rimasta solo la

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copertina plastificata dell'ultimo romanzo che aveva letto e poi gettato lì dentro prima di andarsene. Appallottolo' la carta e la infilò nella buca del cumenda. Lui e la moglie avrebbero capito che era stata lì. E non sentiva né più la paura di incontrarlo, né la vergogna per quando era stata sorpresa. La verità era che lui l'aveva presa con l'inganno, mentre lei allora era solo davvero una bambina. Dora e Carla tornarono verso la stazione senza più parlare,ognuna presa dai propri pensieri e così anche per tutto il viaggio, fino a casa. " Mi raccomando " le disse Dora " Non essere imprudente". "Stai tranquilla" rispose Carla " in fondo io non ho niente da perdere". Ma così non era. Carla andò al capanno la mattina dopo, cosi erano stati gli accordi dell'ultima volta con Giacomo. Lo sentiva armeggiare da fuori con la porta socchiusa e allora entrò. E lui la accolse con baci appassionati, tirandole su i capelli per guardarle meglio il volto. Poi infilò la mano e senti la seta tra le mani ruvide, poi i peli, poi il calore. Non riusciva a fermarsi, tra le natiche scoperte e le cosce calde. Lei si bagnava di un umore sconosciuto e si leccavano come gli

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animali nella stalla a fianco. Poi lui la girò verso la finestra e la prese in un attimo. Fino all'ultimo movimento possibile, fino allo spasimo dell'ultimo nervo, fino all'oblio. E colava poi il seme lungo le mani di Carla, mentre Tunin spalanco' la porta ed entrò di scatto. Non aveva voluto credere a Lena, né a suo padre, né che Dora potesse essere la complice di un tale inganno. Perciò era voluto andare di persona quella mattina a controllare, senza farne parola con nessuno. E mai ne avrebbe fatta, neppure dopo. Li guardò senza parlare, suo fratello sudato fradicio e lei che tentava di asciugare la mano. Carla fu la prima a parlare:" Tunin , che vuoi fare?" domando' tremando quasi. Lui scosse la testa grande che aveva, mentre indietreggiava, mentre li squadrava. Non avrebbe fatto niente. Neanche parlato con Dora, ben sapendo che Carla non ne avrebbe accennato all'amica, cosicché tutto sarebbe finito così come era cominciato. Ognuno di nuovo chiuso nella propria vita, come in una gabbia dorata, dove non erano concessi né sogni, né desideri.

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Quelli appartenevano ai signori. Loro povere contadinelle o uomini di paese dovevano rimanere al loro posto, senza troppe stramberie. Carla continuò ad indossare le sue mutandine di seta e le calze di nylon tutte le domeniche mattina, per andare alla Messa. Giacomo non si faceva più trovare in macelleria. Preparava il pacchetto con la carne al taglio e con una scusa, scendeva al capanno, tutti i martedì mattina. Carla lo vedeva solo più fuori dalla Chiesa, mentre lui guardava dall'altra parte. Tunin era tornato a casa e aveva detto a suo padre che non aveva trovato nessuno al capanno, che erano idee strampalate della Lena, che Dora gli aveva fatto i mutandoni di lana buona prima dell'inverno e che era tutto a posto. Però a Dora una sera nel letto, poco prima di addormentarsi, chiese se avesse comprato le stesse mutande di seta di Carla a Torino. E Dora si chiese come faceva a saperlo quello zuccone di suo marito, che non le aveva mai viste in vita sua un paio di mutandine così.

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Cecilia due giorni dopo tornò alla Residenza. Erano due notti che non dormiva e due giorni che litigava con suo marito Franco. I ragazzi la facevano impazzire con la loro adolescenza bizzosa, la loro indolenza, i loro silenzi, i loro musi lunghi. Col più grande aveva dovuto prendere un appuntamento per potergli parlare dopo che era stata chiamata a scuola per una quasi sospensione, ma lui non si sentiva di parlarne adesso. " E quindi quando?" gli chiese Cecilia spazientita, mentre stava uscendo di casa. E Franco che invece di supportarla diceva che insomma a scuola tutti avevamo combinato qualche guaio e che non era una tragedia. Sola. Ecco, si sentiva tremendamente sola. Ovunque. " Ma andate al diavolo" urlò, mente si tirava dietro la porta. Così entrò in macchina come una furia, un respiro lungo, profondo, addominale e poi fece il numero.

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"Ciao Ceci. Come sta la ragazza più bella del mondo?". E lei ragazza non era, “ma chi se ne frega” pensò, pulendosi i denti dal rossetto, mentre si aggiustava i capelli guardandosi nello specchietto retrovisore. "Ciao, bene. E tu come stai?" stava mentendo, ma tanto la loro storia era un castello di bugie. Era la ragazza piu bella del mondo, quella che intanto sorrideva nello specchietto. "Adesso che ti sento sto meglio. Non sapevo quando mi chiamassi. Stavo aspettando. Quando ci vediamo?" tagliò lui corto. Era un uomo concreto, ormonale. " Non so. Ho un po' di casini, al solito. Sto andando da mia nonna". "Va bene, io sto andando a iniziare le visite. Per pranzo riuscirò a liberarmi. Mia moglie è fuori città. Ce la fai, signorina, a dividere un panino con me?". " Non vedo l'ora di vederti" aggiunse sottovoce, quasi rauco. " Ti faccio sapere" rispose lei ridendo, che era già un sì. "Ok, allora ti telefono quando ho finito" rispose lui, chiudendo la conversazione.

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Neanche il tempo di rispondere "ciao". Ma già si vedeva Cecilia al tavolo del bar del centro a ordinare un piatto di qualunque cosa perché aveva lo stomaco stretto , acqua naturale che avrebbe finito lui dopo la sua frizzante , mentre le diceva di quanto era bella e di quanto la aveva voluta dal primo giorno - che l'aveva rivista. E lei ci voleva credere la Ceci, che potesse essere tutto più facile e lieve, senza i litigi con Franco, né coi figli, né i colloqui coi professori, né la pesantezza della quotidianità che era solo più fatta di doveri. Eppure Fabrizio le raccontava che con la moglie erano rose e fiori, che il loro rapporto andava a gonfie vele, che il sesso funzionava. E lei apprezzava tutta questa sincerità anche se qualcosa strideva, come di unghie sui vetri, mentre lui raccontava, e si chiedeva perché se la vita di lui fosse così felice come raccontava, perché la cercasse sempre. Quasi come un'ossessione. "Mi faccio troppe domande, come al solito" si disse, mentre ritirava il cellulare. E un moto di leggerezza la pervase. Bene, ora poteva andare da nonna Dora.

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Doveva chiedere a nonna Dora cos'era quella faccenda con Ciro, se lo poteva raccontare a qualcuno, e poi doveva dirle assolutamente di quell'uomo nuovo che era entrato nella sua vita, che gliel'aveva scombussolata, più di quanto lei avesse voluto, anche se ora le andava bene tutto: le telefonate, i pranzi, gli incontri al buio, i baci in macchina come gli adolescenti, senza farsi vedere da nessuno che l'avrebbero capito che non erano marito e moglie. E poi una domanda:" Ma perché, dopo, non ci si bacia neanche più? Appassionati, intendo, come voi due sulla panchina all'ombra del salice? Eravate così belli. Siamo così belli tutti, quando ci baciamo". Spense il motore. Era arrivata. Entrò in Residenza, le porte scorrevoli si aprirono poco prima del suo passaggio. Basta così poco per sentirsi una regina. Nonna Dora stava giocando a scala quaranta al tavolo più lontano, vicino al corridoio che portava alle camere. Di fronte a lei, seduta con accanto il bastone da passeggio, c'era la signora Nora, sua degna avversaria. Ciro era in piedi, dietro nonna Dora, guardava le carte ed annuiva ad ogni sua pescata, la mano rugosa appoggiata al mento.

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"Ciao nonnina, buongiorno a tutti " disse forte Cecilia, mentre i vecchi risposero sovrappensiero. "Ah, ciao. Siediti, stiamo giocando" le rispose nonna Dora. "Chi vince?" chiese." Lei, naturalmente " rispose Ciro inorgoglito. "E' sempre stata la più brava a far di conto" finì di dire, mentre nonna Dora rideva e tirava giù le ultime carte, chiudendo il gioco. "Allora Cecilia, come stai?" le domandò Nonna Dora quasi sottovoce, mentre sorseggiava il tè che le avevano appena servito, dopo che ebbe finito di riordinare i due mazzi di carte nella sua scatola rivestita di velluto rosso. "Ne vuoi?" le chiese poi, asciugandosi il lato della bocca col fazzoletto bianco che, dopo, finì all'interno della manica della maglia. Era come un suo gioco di prestigio che Cecilia aveva sempre ammirato, fin da piccola. Un fazzoletto, bianco, stirato ed intonso che usciva dalla manica di sua nonna come un asso nei momenti del bisogno, per asciugare una lacrima, la saliva, una macchia, per poi rientrarvi alla fine e diventare invisibile, fino alla nuova necessità . "No, grazie, nonna. Ho appena fatto colazione.

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È una bella giornata oggi, che ne diresti di passeggiare fuori un po' con me?" provò a dire Cecilia. In fondo era passata per questo. "Certo, Ceci, aiutami ad infilare la giacca e andiamo". Nonna Dora non usava il bastone, aveva una stampella che portava sempre con sé , ma che non appoggiava neanche quasi in terra. La usava come un prolungamento del braccio destro per indicare oggetti o persone, come per farsi intendere meglio, mentre parlava. "Noi andiamo in là" disse, salutando tutti "Ci si vede dopo", aggiunse. E sia Ciro che la signora Nora le salutarono. Furono fuori, la mattina era fresca, ma la giacca sarebbe bastata. Il sole faceva loro strada tra gli arbusti fino al viottolo che le portava un po' più lontane. Cecilia doveva parlare con sua nonna, senza farsi sentire da altri. "Allora Cecilia ti trovo bene, se non fosse per quei pensieri che vedo di tanto in tanto nei tuoi occhi, in cui ti perdi. Cosa c'è ?" chiese Nonna Dora , senza tanti preamboli.

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Era una donna concreta, con tanti anelli sulle mani, come le vite che aveva vissuto, come gli anelli del tronco solido della quercia che stava sfiorando con la stampella, mentre parlava. "Nonna, ti ho vista l'altro giorno, con Ciro sulla panchina" disse tutta di un fiato. "E allora ?" chiese Nonna Dora, mentre la fissava negli occhi. Erano occhietti vispi, marrone scuro, su cui brillavano le pupille come onice al sole, sotto palpebre che si erano appesantite col tempo. Le rughe, invece, le ricordava sul viso di sua nonna da sempre, perciò non le parevano aumentate con gli anni. Nonna Dora sorrise. "E' un brav'uomo" disse alla fine, "E mi fa passare il tempo che ancora avrò da qui alla fine più veloce. Ti sembra una faccenda che non si possa comprendere, un peccato mortale? Tu Cecilia hai ancora il tuo lavoro, tuo marito, i tuoi figli, la tua casa. Io non ho più niente, da quando mi hanno messa qui in sosta. Tu sai quanto possa essere lunga una giornata, senza niente da fare, Cecilia? Senza più niente?". Dora tremava, non voleva, ma lo stava facendo.

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Allora le prese quella specie di smorfia che le faceva tremolare il labbro inferiore verso il basso, come tutte le volte che cercava di non piangere e non urlare. SentĂŹ anche il labbro superiore tremare ed assumere l'espressione di quando dici una frase, che avresti voluto ricacciare dentro, per non essere tu a sentirla per prima. Non voleva far pesare proprio a Cecilia quanto si sentisse sola lĂŹ dentro ed ingabbiata tra quei muri alti mentre gli occhietti delle telecamere si muovevano ad inseguirle. In fondo quel bacio era stato un atto di ribellione: che la vedessero, che si vergognassero di lei, che si ricordassero che era stata una giovane che aveva cambiato sempre i ragazzi con cui parlava, che la portassero via, che finisse questa storia, che non aveva piu nessun senso da quando Tunin se ne era andato. Era novembre, il mese dei morti, e lui non stava bene. In pochi giorni aveva perso la memoria e non gli piaceva piĂš niente : ne' mangiare, nĂŠ bere il vino, ne' che Dora gli leggesse il giornale, neppure le notizie principali, quelle a caratteri grandi. Non voleva dire niente alle figlie, neanche di farsi ricoverare se ne parlava.

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Poi Dora aveva chiamato il dottore di nascosto: era preoccupata le aveva detto sottovoce al telefono, mentre Tunin dormiva. E lui non si era più alzato dal letto, neanche per urinare. Usava il pappagallo, e a volte si bagnava. Ma Dora non diceva niente a nessuno, metteva degli asciugamani sotto per raccogliere l'urina di suo marito, che poi lavava a mano. Lui beveva solo più con la cannuccia e piangeva quando si svegliava e si accorgeva che non riusciva ad alzarsi. E solo quando arrivava Cecilia andava per poco a sedersi al tavolo, a bere il caffè. Finché una sera non si alzò più e morì, così in casa come era nato e come avrebbe voluto. Erano loro due soli. Mori' guardandola fissa negli occhi, con quell'occhio azzurro come il mar d'Africa da cui era arrivato per salvarle la vita. Quanto tempo era passato? Dopo era stato tutto un tempo senza tempo. Cecilia vide sua nonna tremare per la prima volta in vita sua e pensò che avesse freddo. Le prese la mano inanellata, che Dora lasciò andare al peso della stampella, e la guidò fino all'entrata. "Vieni nonna, torniamo dentro. Fa freddo qui"

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E rientrarono. Dei suoi pensieri glielo avrebbe raccontato un'altra volta.

Cecilia uscì dalla residenza pensierosa. Mai aveva visto sua nonna tremare così tanto da non riuscire a reggere la stampella. All'improvviso le sembrò un uccellino senza piume di protezione, a pelo nudo. E Cecilia non si dava pace perché non aveva capito che pensiero avesse ridotto sua nonna così. Forse non avrebbe dovuto dirle che l'aveva vista con Ciro. Ma se non l'avesse avvertita ,e al suo posto fossero arrivate sua madre e sua zia all'improvviso, non sarebbe stato peggio? Fece uno squillo. "Pronto, ragazza? Ho appena finito. Ci vediamo al solito posto per le tredici?"rispose la voce rauca di Fabrizio. "Anch'io ho finito, piu o meno", si aspettava una domanda, un poterne parlare. Non aveva iniziato a vederlo per poter di nuovo parlare? Invece niente. Non c'era posto nel loro castello per le faccende tristi.

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Ci stavano i complimenti, i baci, le telefonate, i pranzi, qualche ora in albergo, ma i problemi no, le domande no. Se lo erano promesso il primo giorno. "Ma sÏ, passerà ". Aveva pensato Cecilia mentre andava verso il centro. Lui l'aspettava in macchina, poi scese quando la vide arrivare. "Ciao", neanche un bacio in pubblico, non si poteva. Però era bello camminare per le viuzze del centro, tra le vetrine addobbate per Natale, sotto le luminarie. Si erano fermati davanti alla vetrina di una bottega di giocattoli di latta, ad ammirare i trenini, che giravano in tondo sempre nello stesso verso. Loro due invece erano usciti dal binario. Poi erano entrati nel bar. A volte Cecilia li' ci era andata con qualche collega in pausa, con Franco mai. Per i baristi oramai lei e Fabrizio erano una coppia. E che coppia. Lui non smetteva di fissarla con quegli occhi che parevano di ghiaccio. Lei arrossiva come una ragazzetta e si sentiva meravigliosa, mentre glielo diceva, stupita:" Sei tu che mi vedi cosi". Eppure cominciava a crederci sul serio di essere splendida.

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Bellissima non lo era mai stata, lo sapeva, ma ora che si avvicinava ai quaranta, notava la differenza con le altre donne. Molte parevano più vecchie di lei. Ma era stata questione di fortuna. E di genetica. Cecilia provò a nominare Nonna Dora, ma lui la interruppe di nuovo per sapere se voleva il caffè. E poi gli aveva detto di essere di corsa, si erano salutati sulla porta e lui era di nuovo scappato verso un improvviso impegno di lavoro. E Cecilia restò così in automobile, con in mano solo lo scontrino accartocciato assieme alla bustina vuota dello zucchero. Li gettò dal finestrino, "Nessun indizio gli aveva detto lui". Se lo doveva ricordare. Tornò a casa, anche se non ne aveva voglia. I figli avevano mangiato pranzo e lasciato i piatti nel lavandino, anziché nel lavastoviglie e Franco non aveva detto loro nulla come al solito. Salutò e andò verso il bagno. Aveva bisogno di immergersi nell'acqua calda.

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"Com'e' andata da nonna Dora? Sta bene? Hai pranzato la'?" , Franco la subisso' di domande a cui Cecilia non aveva voglia di rispondere. Com'e' strana la vita, pensò. Pagheresti perchÊ chi ti sfugge ti ascoltasse ed invece chi ne ha voglia, non vedi l'ora che taccia. Vita strana ed ingiusta. Senza dubbi.

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Poi all’improvviso suonò il telefono di casa, segno strano, pochi conoscevano il numero e quelli chiamavano solo all'occorrenza. "Pronto, chi parla?" chiese Cecilia. Era nonna Dora:" Scusa, cara, se ti disturbo"disse la nonna. Era agitata. "Ma da dove chiami?" Cecilia sentiva in sottofondo delle urla, un mescolio di voci in sottofondo , sua nonna con la voce indecisa. Strano, pareva tremasse ancora. "Telefono dalla Residenza, ti ho fatto telefonare dalla Paola. Stanno portando via Ciro, i suoi figli. Lui non vuole, spero non faccia sciocchezze, sono tanto preoccupata". "Arrivo". Disse Cecilia e volò a vestirsi, non sapeva cosa avrebbe fatto, ma a sua nonna glielo doveva. Avviso' Franco ed i ragazzi e guidò veloce fino alla Residenza.

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Era ancora in macchina che stava parcheggiando quando vide l'ambulanza con le luci blu che ruotavano senza sirena e pensò al peggio. Poi vide la barella con le ruotine scendere dalla rampa. Sopra, un uomo senza coscienza ed imbragato con due cinghie arancio, giaceva sotto una coperta militare. Di fianco, un uomo ed una donna che gli assomigliavano molto, nonostante l'uomo sulla barella avesse la faccia scarna e pallida, accompagnavano lui e i portantini. Di fianco ancora, con al braccio un monitor, un medico vestito di rosso lo sorvegliava a vista, finché tutti entrarono nel mezzo, dopo aver fatto scivolare dentro per prima la barella. Cecilia spero' tanto che non fosse successo niente di grave a Ciro che riconobbe appena, ma l'ambulanza partì subito con le sirene spiegate ,tagliando l'aria ed i rumori del traffico. Cecilia entrò a cercare sua nonna. Era su di una sediolina senza braccioli, accanto alla porta del bugigattolo dove stava il telefono. Sembrava così piccola e magra. Cecilia le corse incontro mentre Dora storceva in una piega il labbro inferiore, mentre se lo mordeva. "Nonna, allora?" domandò Cecilia.

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“Me l'hanno portato via" disse con una lacrima che arrivò fino al mento. "Sono venuti i figli per prenderlo, e lui non voleva andare. Allora hanno cominciato a discutere fino a che lui si è accasciato con un dolore al petto, che lo stringeva, come una morsa, diceva. E poi si è seduto accanto alla mia sedia, e sussurrava -Non mi potete fare questo, non ho più niente, non abbiamo più niente, se non i ricordi. Cosa volete ancora da noi?Non era in sé. Non l'ho mai visto così. E poi ha perso i sensi . E sono corse le infermiere e hanno chiamato l'ambulanza e io ti ho telefonato perché mi sono tanto spaventata. Tanto, sai Ceci? Come quando sono dovuta scappare per il bombardamento quella notte qui a Torino e non sapevo dove andare e se sarebbe finito, capisci?", nonna Dora la guardava con gli occhi atterriti, gli stessi di quella notte. Cecilia la abbraccio' come aveva fatto nonna con lei sempre tutte le volte che aveva avuto paura davvero: quando l'aveva punta una vespa mentre raccoglieva l'erba medica per i conigli, quando aveva fatto indigestione di prugne, quando era caduta con la faccia in mezzo alle ortiche e tutte le volte che aveva avuto davvero paura di morire.

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E si dondolava nonna Dora come una bambina, e tirò fuori il fazzoletto bianco dalla manica, giusto il tempo di asciugarsi il mento, poi la bava ai lati della bocca. "Chissà dove me lo portano" disse alla fine.

Passarono i giorni e Cecilia trovava sua nonna sempre accanto al telefono, accanto alla porta del bugigattolo. Ci si sarebbe seduta dentro, se avesse potuto. Ma di Ciro nessuno aveva più notizie. Allora Cecilia si avvicinò a Paola, alla reception, per chiedere se avesse saputo qualcosa o almeno dove cercarlo. Ma Paola scuoteva la testa, mentre faceva segno che era presente il titolare e non se ne poteva parlare. "Sì, scusate" disse Cecilia" E' che sono un po' preoccupata per mia nonna. La trovo sempre accanto al telefono ad aspettare una chiamata e volevo solo darle un po' di conforto ". "Sì la capisco, signora. Ma davvero nessuno di noi sa nulla", rispose il titolare. Ma non era più tempo di attendere.

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Cecilia si ricordò che la signora Nora era la madre di un medico e Cecilia penso' che le sarebbe potuta essere di aiuto. Così andò a cercarla. La signora Nora era nella sua camera intenta a guardare le fotografie della sua famiglia. In effetti tutte le volte che era andata alla Residenza , Cecilia non aveva mai visto parenti accanto a lei. Busso' alla porta, piano per non spaventarla e si avvicinò al letto. Mentre stava per farle la domanda a Cecilia cadde l'occhio sulla fotografia che Nora aveva in mano. Fabrizio? Che ci faceva Fabrizio nella foto mentre abbracciava Nora sul balcone di un alloggio fronte mare? Così cambiò momentaneamente la richiesta che le frullava in mente per aiutare nonna Dora. "Buonasera signora Nora, la disturbo?"chiese appoggiandosi al letto. "Ma no, cara, venga. E' un periodo cosi difficile questo, per tutti noi, soprattutto per la sua nonna. Ma mi dica: come sta ,ora? Io, mi scusi, ma la lascio tranquilla, si facevano una gran bella compagnia, con quel Ciro. Uomo di spirito, simpatico, una persona a modo. Non avrebbero dovuto

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portarlo via così in un modo quasi brutale, guardi, per essere figli. Sua nonna è molto fortunata ad avere lei Cecilia. In genere noi vecchi siamo abbastanza sfortunati, quelli che stanno in posti come questi, intendo" concluse, abbassando la testa. E quanto Nora stava con la testa a penzoloni a guardar quella foto quanto la domanda stava sulla lingua a Cecilia come quelle caramelle alla menta che le comprava sua nonna prima di prendere la littorina per Riparolo. Erano così forti che prima le pareva le ustionassero la lingua e poi la guancia su cui le appoggiava e allora le sputava di nascosto nel posacenere che si apriva sul retro di ogni sedile, dicendo a sua nonna che erano buonissime. Così se la lasciò scappare, come la caramella dalla bocca. "Che bella foto Signora Nora, dove siete?", chiese, tralasciando apposta di domandare con chi fosse. "Siamo al mare, nel mio alloggio. Questo è mio figlio Fabrizio, il medico di cui le ho parlato. Non l'hai mai visto, vero? E' incredibile, ma non viene mai a trovarmi, né lui , né sua moglie. Non hanno figli, perché lei non può averne, poveretta. Ma lui ha provveduto con un'altra donnetta che si è fatta ingravidare per avere il vitalizio.

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Ah, mia cara Cecilia, che guai combinano i soldi. Lei si fa passare come la segretaria tuttofare, quella che lo segue ai congressi, che sta in studio fino a sera tardi, per ragioni di lavoro. Intanto lo ha incastrato al mio povero figliolo, con un ragazzetto che è di una vivacità che non si può tenere. Lo capisco, senza padre quasi e con una madre che si allontana sempre, per inseguire lui, poveretta. Come se servisse. Fabrizio è tutto suo padre, che andava a pisciare in giro, ma poi tornava sempre a casa. Ed io ho sopportato per anni, per i figli, per la mia famiglia che non avrebbe accettato la separazione. Sa, Cecilia, sembra incredibile, ma noi donne non avevamo mica il divorzio. E poi la sua carriera che sarebbe stata rovinata dalle voci e lui me l'avrebbe fatta pagare cara. Così ci siamo accordati io e mio marito, la sera che scoprii che se la faceva con la mia migliore amica, quella che credevo che lo fosse " disse Nora. Poi un colpo di tosse. "Sono troppo dura, ragazza?", proseguì. Cecilia fece cenno di no col capo. "È che la vita ti mette alla prova così tanto che pensi quasi di non farcela, invece ti si rinforza solo il cuore, senza che

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tu te ne accorga. E un poco il viso, ma quelle passano per rughe innocue. Invece sono solchi spartitraffico, tra quello che era prima e quello che non sarà mai più come prima. Ma l'annoio, Cecilia?". E la vecchia Nora si interruppe, giusto il tempo di tirare un respiro. Lungo. "Ma no, si figuri" disse Cecilia, mentre le uscì un suono strozzato attraverso le corde vocali. "Così quella sera lo aspettai a casa, dopo che avevo messo a letto Fabrizio che faceva i capricci perché di nuovo non aveva visto suo padre per tutto il giorno. E' ciò che a mio marito non ho mai perdonato e' stato di essere un padre assente. E non ho mai perdonato a me di averlo scelto così malamente. Ma ero giovane, Cecilia, tanto giovane, una laureanda di buone speranze e lui era così affascinante nell'aspetto e nei modi. Capii solo dopo averlo sposato che mirava a sostituire mio padre in studio, acquisendo tutti i pazienti come medico condotto, che gli dovette lasciare prematuramente poiché si ammalo' di cuore. E a me non permise di continuare la professione Mi disse che dovevo badare a Fabrizio e mi mise alle corde, prima ancora che suonasse il gong. Ma allora amavo mio marito e lo stimavo. E gli credevo soprattutto. Finché cominciò a tornare con il rossetto attorno alla patta dei pantaloni. Neppure il pudore di farli

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portare in lavanderia dalla nostra donna di servizio, per dire. Così la voce non si sarebbe sparsa. Quante lacrime, ho pianto Cecilia, lei sapesse. E lui ogni volta prometteva che non sarebbe più successo, che era colpa mia che non ero abbastanza donna, che lo trascuravo , che ero solo più la madre di nostro figlio. Ed invece Cecilia ero solo stanca, perché fare la mamma stanca e poi Fabrizio piangeva tutte le sere quando suo padre non tornava e voleva rimanere a dormire sul tavolo del soggiorno per poterlo salutare. Allora io mi mettevo a braccia incrociate vicino a lui e aspettavo che lui si addormentasse, per portarlo nel lettino senza svegliarlo. Lei non sa Cecilia quante notti Fabrizio ha dormito vestito, perché non voleva neppure indossare il pigiamino. Ed invece mi è diventato come lui, nostro figlio. Che è l'ultima cosa che avrei voluto. La mia vera disgrazia. Non me lo perdonero' mai cara, lo sa? Ed è per questo che sopporto che non mi faccia visita, è il suo modo di farmela pagare. Ed il mio modo di pagare il conto. I soldi non bastano per tutte le cose".

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Cecilia pensava a quante donne hanno avuto una vita grama due volte. E chi non è stato in grado di progredire rispetto alle colpe dei propri genitori, avrà la certezza di avere vissuto tutta la vita invano. Cecilia abbraccio' la signora Nora. Non c'era più colpa nella consapevolezza. Non più. Ma la caramella bruciava eccome ancora adesso, sulla lingua, sulle gote. Ancora piu forte di prima. Cecilia doveva sputarla , se no avrebbe vomitato. "Ma la moglie, scusi se chiedo, perché accetta tutto questo da suo figlio?" E allora sì che la sputo' fuori con tutta la forza che aveva in corpo. Tutte quelle giornate ad aspettare che Fabrizio si liberasse, le telefonate a cui non rispondeva mentre erano insieme e diceva- ritelefono dopo, ora ho cose più importanti da fare con te- il tempo contato col minutario: e finalmente i dubbi che alla fine si dipanavano come quando un raggio di sole attraversa la nebbia ed è di nuovo giorno in un solo istante. Decise di cercare Fabrizio al telefono, ne aveva abbastanza delle sue bugie. Era dall'inizio che la pervadeva uno strano sentore, un puzzo di acque torbide ogni volta che gli si avvicinava.

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Anche se prevaleva sempre quel profumo, insistente, inebriante, che copriva sempre gli altri umori. Troppo. Troppo profumo fuori misura. Troppo ovunque. Ma lui aveva staccato il cellulare. Cecilia guardò l'ora. Erano le cinque, sarà già stato a casa. Chissà in quale, a questo punto. E si malediceva Cecilia, per la sua ingenuità, che la esponeva sempre a fregature. Ma perché doveva essere solo un difetto avere fiducia nell'umanità? Perché non voleva rendersi conto che non tutti erano uguali a lei? Che esistevano gli uomini crudeli, i malfattori, i bugiardi, gli assassini? Eppure non era una ragazzina. Ma perché non aveva imparato proprio niente in quei suoi quarant'anni? Tornò a casa, i ragazzi avevano riordinato la loro camera e fatto i letti, mentre Franco stava passando l'aspirapolvere per raccogliere le briciole, che avevano fatto cadere a terra, mentre lei non c'era. Parevano tutti affabili. "Franco li avrà avvertiti che sono stanca", pensò Cecilia mentre si stava sfilando il giaccone, mentre i ragazzi e suo marito la stavano guardando. E si sentiva sollevata di essere rientrata a casa. A casa pareva tutto più semplice.

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Eppure pareva distratta, rispondeva alle domande dei figli in modo automatico, non voleva ferirli, ma proprio non le interessava della riunione di classe dell'uno , né della festa dell'amico dell'altro. Né di Franco che chiedeva , dosando i toni e le parole, come stesse nonna Dora . Purtroppo Cecilia non riusciva a pensare ad altro che non alla rivelazione della signora Nora e alle sue parole. Che le avevano cambiato all'improvviso la prospettiva, come in una proiezione ortogonale, dove era cambiato il piano, senza preavviso. Dove dapprima l'unica vista che scorgeva era quella principale, anche se scelta arbitrariamente perché pareva quella più rappresentativa. Ma dove la regola fondamentale era non mostrare gli angoli né gli spigoli nascosti. Impossibili però da celare se guardati da un piano inclinato. E ora, inevitabilmente, Cecilia avrebbe iniziato a rialzare la testa e a guardare la sua vita di traverso, per capirla meglio. Decise che Fabrizio doveva scomparire dalla sua vita. Lui, le sue bugie, la sua doppia tripla vita, il suo cellulare. Allora gettò il secondo cellulare che lui gli aveva regalato nel sacco nero e lo portò fuori nel bidone.

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L'aria era fredda, l'alito che le usciva dalle narici disegnava riccioli opachi nel buio. Le lampadine colorate dei balconi attirarono la sua attenzione, le ricordarono quando nonno Tunin scendeva in cantina a prendere l'albero finto e le palline e allora loro tre, compresa nonna Dora ,lo addobbavano in un modo diverso ogni anno. Prima sistemavano le palle grandi, poi quelle piccole, poi i boa scintillanti d'oro, poi le lucine e per ultimo nonno Tunin la prendeva in braccio e la sollevava fino che lei arrivava a sistemare la stella in cima al ramo piĂš alto. E allora tutti e tre battevano le mani, come quando si porta a termine una impresa gloriosa . Tra poco sarebbe stato di nuovo Natale. Torno' dentro casa, stringendosi nel giaccone. Aveva voglia di parlare con Franco dei regali dei ragazzi. E di quello per loro due.

Domani sarebbe tornata da nonna Dora.

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Avrebbe dovuto assolutamente scoprire cosa era successo a Ciro. L'indomani Cecilia trovò nonna Dora in camera che dormiva. Era insolito per lei a quell'ora. Era mattina inoltrata e nonna Dora era stata sempre mattiniera, fin da giovane, fin da quando per arrotondare andava al mercato di Riparolo con la bici a mano, con le due ceste zeppe di mele profumate sul manubrio, una per lato, impegnandosi a tenere l'equilibrio, lungo la strada, solo mantenendo il movimento, per non finire nel fosso, lei con tutte le mele. Cecilia la fissò. Aveva la faccia stanca nonna Dora, con le occhiaie non coperte dagli occhiali, che aveva appeso al collo e teneva tra le mani, insieme al rosario. Da quando Ciro era stato portato via dalla residenza non l'aveva più vista ridere. Non era possibile che nessuno sapesse niente, era ora di andare a cercarlo. Arrivò all'ospedale di zona. Avrebbe chiesto in guardiola, facendo finta di essere la nipote, sperando di non incontrare i parenti, anche se loro non l'avevano mai vista. Si avvicinò all'oblo' del vetro della portineria. "Buongiorno , scusi cerco il signor Ciro Esposito. So che è stato ricoverato qualche giorno fa. Mi può dire in che reparto posso trovarlo, per favore?" ostento' una voce

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sicura, di chi sa cosa vuole. Ed in effetti Cecilia voleva una risposta certa. " Aspetti che guardo "disse la donna in uniforme e scorse col dito il foglio coi nomi scritti al computer. "È stato qui , in effetti, ma ora è stato portato alla Residenza Anni verdi, mi dispiace non posso dirle altro, signora". "È stata fin troppo gentile, la ringrazio. Anni verdi ha detto?" la receptionist annuì mentre già diceva :" Avanti!" ad un signore che aspettava dietro. Cecilia avrebbe cercato quella residenza e lì le sue risposte.

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Cecilia guido' fino alla Residenza Anni verdi. Penso' che erano strani nomi quelli scelti per residenze per vecchi. Mentre guidava verso la periferia della città e poi più lontano lungo la tangenziale, accendendo i fari quando incontrava muri di nebbia, si chiedeva cosa mai potesse essere passato nella testa di Ciro, mentre lo allontanavano dalla città, i suoi stessi figli, dal primo amore che aveva reincontrato per caso e con cui avrebbe potuto finire i suoi giorni. Mai Cecilia aveva visto ridere i due vecchi in quella maniera. Ciro attaccava a chiacchierare con qualcun'altra anziana signora, agghindata come per andare ad una festa di Gran Galà, mentre invece dovevano solo salire al quarto piano ed andare a braccetto di qualche inserviente che li accompagnava a turno nel salone grande delle feste ,dove la signora Cinzia già li aspettava seduta di fronte al pianoforte

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a coda e strimpellava qualcosa facendo le prove generali, prima dell'audizione vera e propria. Allora nonna Dora, che Cecilia non si ricordava fosse mai stata gelosa prima, lo chiamava a gran voce :" Ciro, aspettami", mentre allungava la stampella a toccargli una gamba. E lui allora la aspettava, la prendeva a braccetto e la faceva accomodare per prima in ascensore con un inchino, allo stesso modo in cui le avrebbe aperto la portiera, se avesse avuto l'automobile. E allora si faceva tutto piÚ lieve. Le mattine erano interminabili. Dora si alzava per prima e chiedeva a Paola:" Cosa c'è da fare oggi?". Allora Paola guardava il piano settimanale e diceva :" Oggi c'e il bingo" oppure" Lettura ad alta voce" oppure " Le prove di canto" e lÏ allora Dora si entusiasmava come una bambina e batteva le mani e i piedini allo stesso modo. PerchÊ andava forte di canto, quasi piÚ che con le carte ed il far di conto. Aveva dovuto rinunciare al ballo per un marito, ma al canto non aveva rinunciato mai. Ed infatti talvolta quando Cecilia andava a trovarla, lei intonava canti seri ed improvvisati, con Ciro che applaudiva e tutti gli altri che lo seguivano a chiedere il bis, mentre Cecilia un po' si vergognava, e nonna Dora invece, si alzava

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in piedi in suo onore e reggendosi sulla stampella, continuava fino alla fine delle rime. E Cecilia restava innanzi ad osservarla con quel leggero magone di quando si guarda qualcuno sapendo che non lo si potrà vedere per sempre. Cecilia seguiva le indicazioni del navigatore e la linea continua della strada, tratteggiata solo nei tratti in cui incrociava altre vie. Entrò nel paese. Un piccolo paese in provincia di Asti. Non lo aveva mai sentito nominare. Poi proseguì per la Frazione Serra e, alzando gli occhi, vide la nebbia scomparire completamente e il comparire delle colline, come se fossero sbucate all'improvviso dalla terra che fino a quel tratto era stata piatta, mentre ora la strada, così stretta da essere priva di riga al centro, si snodava sinuosa in saliscendi morbidi. Cecilia li percorreva guardando fuori, la giornata era fredda. Gli alberi spogli erano coperti di fiocchi argentati, come tutto pareva d'argento, i prati, i campi di terra arata, le tegole dei tetti. In uno spiazzo vicino alla Chiesa il navigatore segnalava la meta . Cecilia scese dall'auto ed entrò dal cancello semiaperto. Non c'era il campanello e trovò così diverso dalla residenza

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di Torino quella sorta di castelletto in mezzo alle colline che non lo avrebbe riconosciuto come pensionato. Tant'è che mentre camminava muovendo coi tacchi i ciottoli del sentiero, pensava di essersi sbagliata. All'entrata trovò un portone pesante di acciaio grigio che poco pareva a che fare con il resto della struttura. Suonò e sentì il clac della serratura. Dovette spingere con vigore: nessun vecchio avrebbe avuto la forza di aprirlo per uscire. Forse quello era il segreto. Entrò con circospezione: i soffitti erano alti, l'odore acido di urina la fece quasi vomitare, sulla destra vide delle feci con sopra una traversa, come quelle di ospedale. "Oh ,Santo Cielo" pensò "Ma che posto è mai questo". E mentre si aggirava nell'enorme entrata deserta in cerca del bancone in cui chiedere le informazioni, incontrò un'inserviente, la stessa che probabilmente le aveva aperto, che le disse ,alzando leggermente la voce, che l'orario di visita era finito. E Cecilia guardava il respiro uscire dalla bocca stretta della donna con la cuffia ed il grembiule sudicio, che era opaco, tale e quale fossero state all'aperto, dove la differenza tra il freddo dell'ambiente ed il caldo del respiro creavano nuvole di fiato.

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Ma i vecchi dov'erano? Guardò l'ora. Erano le due del pomeriggio e probabilmente stavano riposando. Solo una vecchia sdentata con indosso il cappotto ed il foulard si aggirava nei pressi degli escrementi, mentre si grattava il didietro. Allora Cecilia le allungò un fazzoletto di carta, che lei infilò nella borsa di plastica che portava a braccetto e si allontanò di poco, ridendo con la lingua di fuori. Mentre l'inserviente le urlava dietro:" L'hai rifatto un'altra volta Mariuccia. Adesso basta!". Mentre intanto puliva le piastrelle dagli escrementi, pareva più per la visita inattesa, che per dovere vero. Allora Cecilia parlò :"Scusi, buongiorno. Sono venuta a cercare il signor Ciro Esposito, sono una cugina. Se vuole le faccio vedere il mio documento". "No" rispose la donna "Non serve. Il Signor Ciro lo hanno portato via la settimana scorsa. Strano che gli altri parenti non l'abbiano avvisata. Aspetti che chiamo la Direttrice". E mentre la donna con la cuffia si allontanò su per le scale barocche che portavano al piano più alto,la vecchia si riavvicino' a Cecilia e le sussurro': "E' caduto dalle scale, voleva tornare a Torino. Da quando era qui aveva provato

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tutti i giorni ad andarsene, fino a che lo hanno legato ed è caduto con tutta la carrozzella. Ed è morto, poverino". Alla vecchia non sembrava importasse niente. Questo posto pareva essere l'anticamera del purgatorio, con questi odori, questo freddo, dove già sopravvivere poteva ritenersi la prova di passaggio prima del congedo verso l'eternità.

Cecilia corse verso l'uscita, mentre una voce dall'alto la chiamava. Trovò l'apriporta in alto a destra e schiaccio'con foga. Con la stessa foga con cui corse giù per il viottolo fino all'uscita, poi dopo il cancello fino alla macchina e poi di corsa con la vista appannata dalle lacrime fino alla fine della strada in mezzo alle colline, tra i filari spogli di fili di metallo, e gli spaventapasseri e le cornacchie che gracchiavano cosi forte, più forte del suo dolore. Il sogno di nonna Dora ed anche il suo erano finiti in due giorni. E due sogni finiti in due giorni alla vigilia di Natale sono troppi per chiunque.

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Cecilia doveva parlare con nonna Dora. Tra poco sarebbe stato Natale. Bisogna chiudere i cerchi a Natale. E' doveroso come mettere la stelle sul ramo più alto degli alberi. Parcheggio' l'auto di fronte al cancello della residenza. Il telefono squillo'. Era Fabrizio. Gli accordi non erano quelli, non si sarebbero mai dovuti telefonare sui telefoni ordinari. Mai senza preavviso. Ma gli accordi erano saltati. I patti, la stima e tutto quanto insieme era saltato, come una mina dopo un passo falso, dove per fortuna nessuno ancora aveva perso nulla di importante come una mano, o un dito. Rifiutò la chiamata e così avrebbe fatto da adesso in poi. "Il silenzio non è già una risposta, e' la risposta" pensò. Un uomo che l'aveva riempita di bugie sulla sua vita non meritava neanche più una domanda.

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Cecilia sentì la nausea acuirsi. Le capitava da quando era bambina e non aveva il coraggio di dire a suo padre che lo amava ma che non avrebbe rinunciato a vivere con sua madre. Che non poteva farlo contento, solo per punire quella donna che, secondo lui, gli aveva rovinato la vita. E allora vomitava, come se con quel rigurgito acido la liberasse ed infatti dopo per un po' le pareva di sentirsi meglio. Anche se suo padre continuava a chiedere a nonna Dora perché Cecilia non la smettesse con questa questione del vomito che lo imbarazzava tanto. Con tutto quel puzzo poi. Che il dottore diceva essere solo acetone, e perciò sarebbe dovuto già passare. Nonna Dora annuiva e non diceva niente. Le preparava the al limone zuccherato a colazione e riso in bianco a pranzo e le lavava tutti i vestiti prima che tornasse a casa Tunin, che quel suo genero sciagurato se no lo avrebbe preso per il bavero un'altra volta. Solo le sussurrava in un orecchio: "Non esistono persone che ti rovinano la vita Cecilia. La vita, tuo padre, se l'è sei rovinata da solo".

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Entrò in camera. Nonna Dora dormiva. Sentiva il suo russare nella penombra. Sembrava che sbuffasse dalla bocca, come chi è davvero stanca. Cecilia si avvicinò piano a lei, dopo essersi sfilata il giaccone. Poi infilò le mani tra le sbarre. Doveva essersi agitata molto nonna Dora , perché la contenessero. E allora le appoggiò le mani sulle sue, incrociate sul petto. Si era addormentata, pregando. "Ceci, amore della nonna, ti stavo aspettando. Che mani fredde che hai. Da dove arrivi?". Si era svegliata. "Ciao nonnina" rispose Cecilia"Devo dirti una cosa importante. Mi dispiace non riesco a tenermela più dentro, nonna". "Dimmi, hai qualcosa che non va?"chiese Dora. "E' tutto così sempre complicato. Non so da dove cominciare", continuò sconsolata Cecilia. "Sai, nonna. Ho conosciuto un uomo. Ci facevamo delle belle chiacchierate all'inizio" continuò. "Anche io e tuo nonno. Ah, che chiacchierate Cecilia. Passavamo le giornate a raccontarci i fatti della vita, di

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quando eravamo giovani. Sai io, io ero una gran chiacchierona e lui non aveva tanti amici perciò stava lì ad ascoltarmi. Anche se io glielo raccontavo da capo tre o quattro volte. E lui faceva finta di non averlo ancora sentito. Oppure se lo vedevo distratto, sai ogni tanto trafficava, io gli dicevo di ripetermi tutto per filo e per segno e lui ripeteva, per farmi contenta. Quello zuccone di tuo nonno. E' sempre stato uno zuccone, già a scuola. Te l'ho detto Cecilia che non riusciva a sillabare? Ed invece io leggevo, leggevo, come leggevo. Ma non avrei voluto avere un'altra vita, sai Cecilia, se avessi voluto cambiare anche solo una virgola di questa l'avrei fatto io. Resta con un uomo con cui si possa chiacchierare molto, Cecilia, perché da vecchi sarà l'unica cosa che contera' davvero. Il resto sono state solo debolezze "disse ancora. "E tu Cecilia, tesoro, sei felice, si? "domandò poi. "Si, nonna. Sono felice". "Sono contenta" rispose nonna Dora.

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Ma non la guardo'. Altrimenti avrebbe scorto una smorfia che le storceva il labbro e poi un piccolo, quasi impercettibile tremolio di quello inferiore che le prendeva ogni volta che cercava di non piangere. Anche Cecilia le stava mentendo . Non era mai stata felice neanche da bambina, se non per attimi piccoli. Ci sono persone che nascono con la malinconia dentro. E nessuno riesce a strappargliela via. Ci aveva provato suo nonno Tunin quando, che dopo avere messo il fazzoletto a Cecilia coi nodini in testa, la portava spingendola forte sulla carriola con le mani grandi che aveva, fino all'ombra del ciliegio piĂš robusto e sceglieva per lei le ciliegie piĂš rosse e gliele metteva alle orecchie dicendole che era la sua principessa. Ci aveva provato comprandole i cicles rotondi che le macchiavano la lingua e ridevano mentre lui le faceva le linguacce blu. Ci aveva provato quando la portava al fiume Orco per costruire una diga coi sassi e poi tagliava le canne con il coltellino da tasca e le legava per fare un mulinello dal moto perpetuo. Ma durava un attimo. Il tempo di un sorriso e poi Cecilia diventava di nuovo una nuvola imbronciata.

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Ci aveva provato Franco, che l'aveva fatta innamorare con la sua pazienza ed il suo accontentarla in tutto. Lei voleva la casa in campagna e lui l'aveva comprata, anche se era allergico all'erba. Poi aveva voluto un gatto, poi due figli. E per lui era andato bene, tutto. Ma non si può legare una nuvola. Occorre lasciarla andare, a costo di perderla. Cecilia lasciò le mani di nonna Dora che si era riaddormentata. Di Ciro non le aveva più chiesto niente. E più ne avrebbero parlato. "La perdita della memoria è la saggezza dei vecchi o la loro salvezza" penso'. E tornò fuori dalla stanza, a ritroso nel corridoio con le luci già notturne accese, doveva essersi fatto tardi. Guardò il cellulare. Con l'ultimo squillo si era spento. Era un segno. Tornò da Franco, che come suo nonno non aveva mai finito un libro.

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Che come suo nonno non sapeva mai bene che fare per accontentare nonna Dora, eppure ci aveva provato sempre, eccome se lo aveva fatto. Che aveva mantenuto i segreti , come se non avesse mai capito niente. Uno zuccone da cui sarebbe sempre ritornata. Come le aveva insegnato sua nonna. Come fanno sempre le nuvole prima di un giorno di pioggia.

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Dora proprio non ci sarebbe voluta entrare da quel cancello. Adesso sapeva perchĂŠ. Anzi lo aveva sempre saputo, ma c'era Cecilia che aveva ancora bisogno di lei. Se lo sentiva. Ultimamente veniva a trovarla di corsa, sempre distratta, il cellulare sempre a portata di mano. Glielo aveva anche chiesto se avesse dei pensieri. Parevano corvi neri che apparivano nel suo sguardo limpido all'improvviso. Come le succedeva quando era piccola e Miranda, quell'incosciente di sua figlia, gliel'aveva lasciata per una settimana ed invece era scappata con quell'altro uomo ed era ritornata incinta. Allora c'era Tunin che ci pensava. La portava nel solaio e le insegnava a sgranare le pannocchie ,mentre facevano finta che quei chicchi che cadevano nel badile fossero d'oro.

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Oppure la portava in cantina a prendere il burro. Lo tiravano fuori da dentro una gabbietta di legno e grata costruita da lui , in modo che non arrivassero i topi. E Cecilia non aveva mai avuto paura di niente, pareva. Mentre ora qualcosa la turbava anche se Dora non capiva che cosa . E così si distraeva Dora tra una visita e l'altra della nipote, mentre Miranda e Marianna non le aveva più viste dal giorno della sua entrata nell'acquario. Poi aveva fatto amicizia con Nora. È più facile stringere amicizia con le persone che ci somigliano. E poi era arrivato Ciro, così inaspettatamente a ricordarle il passato. A ricordarle che tutti che abbiamo almeno tre vite, in una vita intera. A farle passare il tempo, perché era quello il suo impegno di adesso. Un tempo senza tempo. Cercava di far passare il tempo il più in fretta possibile, tra l'alzarsi e la colazione, tra l'insulina ed il pranzo, tra il dopo pranzo e il the delle cinque e le partite a carte, tra la cena e gli spettri della notte. Perché diceva a tutti che dormiva ma la verità è che non dormiva mai, da anni.

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Un tempo era mattiniera ma andava a letto presto, mentre ora tutte queste giornate ad aspettare solo che le lancette facessero il giro intero del quadrante erano eterne. Come le notti dove arrivavano a trovarla tutti quanti: sua madre Ester, suo padre, sua sorella Norma, chissà che fine avesse fatto la Carla, chissà che novità ci sono a Riparolo. Gli occhiali facevano le parole sfocate, cosicché anche i titoli erano diventati difficili da leggere, non parliamo dei necrologi scritti così piccoli da diventare impossibili. Lei che era sempre stata protagonista, vedeva la vita sfilare da fuori, da dietro la vetrata grande e chiedeva :" Fa freddo? Piove?". Il sole invece lo vedeva anche da dentro. Allora metteva la giacca sulle spalle, inforcava la stampella ed andava a passeggiare tra le foglie in giardino, e gli arbusti e l'odore dell'erba. E si sedeva sotto un ombrellone. Aspettando il niente.

Quella sera non ne poteva più. Cecilia sarebbe tornata più tardi, così le aveva detto. Così cercò la penna che le aveva lasciato Alfonsa prima di salutarla l'ultimo giorno a Riparolo

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Così copio’ ancora una volta gli stessi gesti di Alfonsa: ruotare la parte superiore della penna fino allo scatto, che era ancora fissato sul cinque, infilare l'ago sotto la pelle dell'altro braccio e premere fino al fondo. Il più era fatto. Poi tornò in camera e si mise a letto. Poi senti trambusto, lei che urlava, le infermiere che urlavano, il clac delle sbarre di legno ed intorno solo il silenzio e la voglia di dormire, finalmente. Erano anni che l'aspettava. Poi improvvisamente due mani fredde, una voce conosciuta ed un pensiero:" Sei arrivata troppo presto, piccolina". E poi Cecilia che parlava, che le chiedeva. Le doveva una risposta, l'ultima . "E tu , Cecilia sei felice, si?" domandò allora Dora, facendo lo sforzo più naturale possibile. E quando Cecilia rispose :" Si nonna, sono felice" non si guardarono. Dora non riusciva più ad aprire gli occhi e voleva solo più che Cecilia facesse presto ad andarsene. Questa era una faccenda che si sarebbe dovuta sbrigare da sola.

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