
a cura di
ANNALISA SARACINO – FRANCESCO DI GENNARO
VALENTINA TOTARO – CARMEN PELLEGRINO
a cura di
ANNALISA SARACINO – FRANCESCO DI GENNARO
VALENTINA TOTARO – CARMEN PELLEGRINO
con i contributi di A. AMENDOLARA, M. CORMIO, M. CIBELLI, A. DARGENIO, L. DE SANTIS, S. DI GREGORIO, L. FRALLONARDO, R. LATTANZIO, G. MANCO CESARI, R. NOVARA, R. PAPAGNI, G. PATTI, V. SPADA, A. VIGNA
a cura di
Annalisa Saracino, Francesco Di Gennaro
Valentina Totaro, Carmen Pellegrino
Riflessioni da uno scoglio di confine
con i contributi di
A. Amendolara, M. Cormio, M. Cibelli, A. Dargenio, L. De Santis, S. Di Gregorio, L. Frallonardo, R. Lattanzio, G. Manco Cesari, R. Novara, R. Papagni, G. Patti, V. Spada, A. Vigna
Prof.ssa Annalisa Saracino – Università di Bari
Questo libro nasce come iniziativa dal basso. Un giorno, due delle mie specializzande, Valentina e Carmen, entrambe iscritte all’ultimo anno della Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive e Tropicali dell’Università di Bari – di cui sono direttrice da alcuni anni – hanno bussato alla mia porta.
Intendevano mettermi a parte di un loro desiderio: raccogliere e rendere pubbliche le riflessioni maturate nel tempo dai giovani colleghi che avevano fatto esperienza, durante gli anni di specializzazione, di un mese o più di lavoro sul molo Favaloro di Lampedusa, inseriti nelle operazioni di accoglienza dei migranti e di screening sanitario all’arrivo. Queste le loro parole: “Noi non vogliamo suscitare pietà o commiserazione per le persone che arrivano, e neanche vogliamo che sia un’autocelebrazione del nostro impegno. Vorremmo solo poter condividere emozioni e pensieri che sono nati in noi lavorando sull’isola e che ci hanno cambiato come persone e come medici. Vorremmo provocare nel lettore domande e riflessioni al di fuori dei luoghi comuni”.
Non nascondo che l’idea di un lavoro collettivo, realizzato come Scuola, ha avuto subito in me una risonanza profonda. Non ho potuto non pensare a colui che considero uno dei maestri più importanti della mia formazione giovanile, Lorenzo Milani, alla sua Lettera ad una professoressa scritta a più mani, insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana, e all’influenza enorme che quel libro ha avuto su
di me, sulle mie scelte personali e lavorative. E quando si è trattato di individuare una casa editrice a cui proporre il nostro lavoro, ho desiderato che fosse delle edizioni la meridiana, riconoscendo con chiarezza l’impronta indelebile nella mia memoria dell’esempio offerto dal vescovo Tonino Bello, così attento alle popolazioni migranti, figura luminosa, figlia della nostra terra pugliese, al cui impegno la stessa casa editrice si richiama.
Ma faccio un passo indietro e provo a spiegare come nasce il progetto di partecipazione della nostra Scuola alle attività sanitarie che si svolgono sul molo Favaloro, in stretta e feconda collaborazione con tutte le autorità civili e militari e le organizzazioni non governative coinvolte.
La premessa necessaria è che tutte le malattie, e in modo peculiare le patologie infettive, riconoscono dei fattori predisponenti che non solo determinano il rischio di esposizione di ciascuna persona, ma anche ne condizionano il decorso e l’esito: questi fattori non sono puramente costituzionali (e pertanto immutabili, quali ad esempio l’età, il genere, il corredo genetico), bensì includono comportamenti, variabili socio-economiche, ambientali, lavorative. Di fatto l’espressività di ogni malattia dipende dalle condizioni generali di vita in un determinato luogo e momento della storia. Sovente, le malattie infettive sono provocate o esacerbate da tutte quelle condizioni difficili che possiamo ricondurre sotto il termine “povertà”: sia essa materiale, causata da guerre, catastrofi ambientali o climatiche, oppure povertà culturale, poco importa. Questo insegniamo come docenti universitari ai nostri studenti del corso di laurea o di specializzazione, perché è quello che osserviamo come infettivologi tutti i giorni nella pratica clinica. Per lo stesso motivo riteniamo che non possa mancare nel curriculum di ogni medico – e soprattutto di un infettivologo del XXI secolo – un’esperienza formativa che gli permetta di prendere coscienza di tale rapporto, cioè dell’interconnessione della
medicina con tutte le altre scienze e discipline che studiano come l’uomo interagisce con gli altri uomini, le altre specie e il pianeta, e quindi del legame stretto delle malattie con la storia dei popoli e la loro cultura. In questo senso, il lavoro sanitario con i migranti è da considerarsi una sorta di corso intensivo, una modalità di apprendimento in immersione totale, un prezioso acceleratore di conoscenza nell’iter formativo.
Pur essendo personalmente convinta della necessità di integrare questi elementi nella formazione dei miei medici, devo confessare che nulla di tutto quello che affiora dalle annotazioni riportate in questo libro – a volte sofferte e profonde, altre volte leggere e gioiose – sarebbe stato possibile senza l’iniziativa e il contributo fondamentale del mio associato, il prof. Francesco Di Gennaro. Francesco è il mio realizzatore di sogni, la persona con cui non solo condivido desideri e progettualità per la nostra clinica (l’Unità Operativa di Malattie Infettive dell’Azienda Ospedaliera Universitaria del Policlinico di Bari, un grande ospedale di riferimento nel Mezzogiorno d’Italia), ma soprattutto con cui ho la fortuna di confrontarmi su ogni scelta che riguardi il futuro dei nostri medici specializzandi. È una persona con grandi intuizioni ed enormi capacità relazionali e organizzative, e si deve a lui l’idea di inserire l’USMAF (Ufficio di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera), sede di Lampedusa, nella rete formativa della nostra Scuola di Specializzazione, oltre al merito di aver curato il perfezionamento dell’iter burocratico e gli aspetti logistici. L’accordo, firmato dal Rettore dell’Università di Bari con il Ministero della Salute nel 2022, permette ai nostri giovani medici, nell’ambito del loro corso di studi quadriennale, di poter svolgere un periodo di lavoro a rotazione, in genere di un mese, presso il molo Favaloro, sotto la diretta supervisione dello stesso personale USMAF.
Dalla prima collega inviata sul campo (Laura) ad oggi,
non ho mai smesso di ricevere da parte dei miei medici, al rientro, ringraziamenti per l’opportunità di crescita che la Scuola ha loro offerto e unanimi riscontri sullo spessore dell’esperienza vissuta sul molo. Dopo i loro racconti, anche una collega strutturata della clinica (Rossana, fra le autrici) ha voluto lavorare sull’isola spendendovi i suoi giorni di ferie. È una di quelle situazioni in cui si può con verità affermare che ciò che abbiamo ricevuto è molto più di quanto abbiamo dato.
Francesco stesso e io abbiamo effettuato in più occasioni una supervisione delle attività dei nostri specializzandi sull’isola e ne siamo rimasti profondamente colpiti. Innanzitutto, stupiti dal clima di attività operosa e di mutuo aiuto fra tutti i diversi attori in campo: non solo i colleghi, ma anche i tanti uomini e donne della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza che per lunghi periodi prestano la loro opera instancabile per il soccorso in mare, della Polizia di Stato, dei mediatori culturali e delle tante associazioni, laiche e religiose di diverso credo, che si alternano sul molo. Una cooperazione preziosa, che aiuta i miei medici a sviluppare la capacità di lavorare in équipe in condizioni di campo a volte dure e imprevedibili. E poi, soprattutto, siamo stati stupiti e sopraffatti da quei lunghi momenti di attesa silenziosa sul molo prima di uno sbarco, che rivelano un comune peso sul cuore e un’unica muta speranza: che tutti siano salvi, nient’altro.
Sul molo questi diversi attori sono ogni giorno testimoni silenziosi della Storia, nel loro semplice percepire che essa è fatta non solo di grandi eventi, ma dall’insieme delle tante storie quotidiane di persone piccole e sconosciute ai più: alcune in arrivo dopo viaggi interminabili, altre semplicemente rispondenti, con fedeltà quotidiana e senso del dovere e rispetto delle istituzioni, alla chiamata del lavoro che hanno scelto, mondi che su quel molo si incontrano sapendo di condividere un prezioso comune denominatore, l’appartenenza all’umanità.
La maggior parte delle riflessioni riportate in questo libro è stata scritta dai giovani medici subito dopo il loro rientro dall’isola, come contributo al blog della nostra Scuola su una piattaforma social, e non con l’intento di impressionare o conquistare il lettore, ma quasi per la necessità di aprire il cuore affinché la ricchezza di una tale esperienza non restasse nascosta al buio, come una lampada sotto il moggio, e non si perdesse nel ritorno alla routine giornaliera ma contribuisse a illuminarla. Per questo le riflessioni sono riportate in ordine cronologico come in una sorta di diario comune.
Le fotografie (nessuna tratta dal molo, che in quanto zona militare richiede protezione) non hanno alcun intento documentaristico o afflato giornalistico: sono piuttosto da considerare una via di accesso più immediata e intuitiva per cogliere lo sguardo sulla realtà che abbiamo maturato lungo il percorso. Il significato del titolo lo scoprirete strada facendo.
Vi consegniamo questa testimonianza con pudore e con il solo desiderio che possa parlare al vostro cuore come ha parlato al nostro.
Buona lettura
“Staranno tutti bene? Quanti bambini ci saranno?
La barca riuscirà a raggiungere il molo senza che si ribalti?
Da quanto tempo saranno partiti?
Da quanti giorni non berranno un sorso d’acqua?”
Lampedusa. 35esimo parallelo Nord. Porto più a sud d’Europa per me; Porta d’Europa per tutti quegli uomini, quelle donne e quei bambini che si mettono in cammino con in tasca istinto di sopravvivenza e speranza. Null’altro.
Nell’attesa che un barcone scortato dalla Guardia di Finanza – dopo il recupero in mare aperto – approdi, il molo Favaloro si riempie di persone, dall’operatore sanitario al volontario, al funzionario di polizia; ognuno conosce il proprio ruolo, ma la preoccupazione infervora gli occhi di tutti.
Staranno tutti bene? Quanti bambini ci saranno?
La barca riuscirà a raggiungere il molo senza che si ribalti?
Da quanto tempo saranno partiti?
Da quanti giorni non berranno un sorso d’acqua?
Davanti a tutto ciò mi sono sentita trasportata in un’altra dimensione, che però è reale: a queste persone posso solo donare uno sguardo di amicizia, un accenno di sorriso nascosto dalla mascherina, un minuto della mia giornata.
Vorrei dedicare loro più tempo…
VIA.
Due sillabe, tre lettere, diversi significati.
Era la mia ultima sera a Lampedusa, quando con Giulia e le ragazze con cui avevo trascorso tutto il mese al molo, siamo andate a salutare la Porta d’Europa, un luogo simbolo, affacciato sul mare ed eretto sulla nuda roccia, così com’è tutta l’isola. Lì quella sera c’era così buio che si potevano contare le stelle, indovinare le costellazioni e quella lunga scia luminosa, un po’ pallida, quasi un ponte, che era la Via Lat-
tea. Forse mai l’avevo vista così chiaramente. Certo, eravamo al centro del Mar Mediterraneo, su un’isola che è veramente uno scoglio deserto lontano da ogni forma di vita, eppure… E così, ecco davanti ai miei occhi il resoconto di tutto quel mese.
VIA, VIA LATTEA, ANDARE VIA.
Sì, stavo per lasciare Lampedusa con la valigia pronta, avevo salutato tutti e tutto, mi sentivo sollevata. “Via” era una parola felice per me. Quanta stanchezza accumulata, a quanti sbarchi avevo assistito, l’ultimo tra i peggiori, quante contraddizioni. Nella mia memoria, quelle oltre 48 ore consecutive di veglia per la numerosità degli sbarchi e il mio essere un alieno vagabondo davanti a un barchino di soli minori non accompagnati, alle cinque del mattino, con il tramonto di una luna umida e il sorgere rosso del sole. Non avevo avuto più la forza di donare un piccolo aiuto a quei ragazzi e bambini, di provare un sentimento per loro: vuoto, assenza. Io non ero più io.
Quindi via, andare via e lasciarsi tutto alle spalle.
VIA, VIA LATTEA, ANDARE VIA, STRADA E CAMMINO.
Le mie emozioni al centro di quella sera; in realtà non ero stata lì per me, ma per gli altri. Altri per cui Lampedusa non rappresentava un luogo da cui fuggire, ma finalmente un riparo, il primo riparo dopo un lungo, difficile, inimmaginabile viaggio, forse ancora da proseguire chissà per quanto tempo e per dove. E quella moltitudine di persone per cui la Porta d’Europa sarebbe rimasta solo una falsa speranza? Uomini, donne e bambini che si sono persi lungo il cammino, che nelle prigioni libiche o in mare aperto hanno trovato soltanto l’epilogo di una vita migliore e che il Futuro non lo avrebbero mai visto.
VIA, VIA LATTEA, ANDARE VIA, STRADA E CAMMINO, SPERANZA E FUTURO.
Laura (giugno 2022)
© Rossana Lattanzio
“Nel mio cuore non auguravo solo ‘buona fortuna’, italianizzavo la frase pensando di dire ‘buon coraggio’.”
Spesso ci penso a quando invecchierò e la mia memoria vacillerà.
Così spero che i tatuaggi possano raccontare la mia storia a chi si prenderà cura di me. Chissà se capiranno che questo significa che mi sono innamorata della vita due volte: una il 16 dicembre, quando sono nata, l’altra il 12 giugno, quando sono arrivata a Lampedusa.
Ho cominciato a sentire da chi affiancavo “bon courage” al termine di ogni visita e così l’ho fatto subito anche io, ma nel mio cuore non auguravo solo “buona fortuna”, italianizzavo la frase pensando di dire “buon coraggio”.
Spesso ci penso a quel ragazzino che scalzo, dopo aver viaggiato stipato due giorni in mare, alle cinque del mattino si mise al mio fianco per tradurre dall’arabo all’inglese quello che i suoi compagni di viaggio avevano da dirmi, su quella barchetta di soli adolescenti, senza nessuno adulto e senza scarpe. Spero che il suo cuore abbia avuto buon coraggio e che ovunque sia gli arrivi il mio costante pensiero e non creda di essere stato dimenticato dal mondo intero.
Lampedusa è magica, in pochi giorni mi ha insegnato a dire poche frasi essenziali in arabo, inglese e francese ma soprattutto mi ha insegnato a capire la lingua del mare, e il mare sapeva dirmi quante storie avrei incrociato di notte. Stare in banchina ti permette di vedere con gli occhi e il cuore la disperazione, quella che porta a fare un lungo viaggio, spesso senza nemmeno le scarpe, a piedi nudi, che porta a mettere un figlio adolescente solo su una barca, sperando abbia un futuro migliore.
Forse non avranno tutto quello che si aspettavano: spes-
so si sentiranno soli e rifiutati, in un paese che non conoscono e raggiungere è stato faticoso.
Proprio per questo, in banchina ti sforzi di sorridere con gli occhi, di dare il benvenuto sulla terra ferma, anche se non si parla la stessa lingua e speri con loro che prima o poi la vita li ricompensi del torto subito: essere nati solo al meridiano e parallelo sbagliati.
“Sono uomini, donne e bambini, non hanno nulla in tasca se non la speranza di una vita migliore.”
Èfinita ed è iniziata un’altra giornata al molo Favaloro.
Non conti più le ore in piedi, anche sotto il sole.
Negli occhi soltanto le immagini di quei momenti: le motovedette della guardia costiera e della guardia di finanza che approdano al molo dopo il recupero in mare di tante persone.
Sono uomini, donne e bambini, non hanno nulla in tasca se non la speranza di una vita migliore.
A loro non puoi che regalare un sorriso nascosto dalla mascherina e sperare che questa terra possa ripagarli per tutti i torti subiti.
Giulia (luglio 2022)
“Miya Miya”, in arabo, significa “va tutto bene”. Una frase che diventa simbolo di speranza nonostante il mare, le barche sovraffollate, la paura e il dolore, perché quelle parole rappresentano il desiderio di credere in un futuro migliore, per chi arriva e per chi accoglie. Questo libro è un diario collettivo, nato dall’esperienza di giovani medici impegnati sul molo Favaloro di Lampedusa; racconta l’incontro tra chi approda, segnato da viaggi impossibili, e chi tende una mano con solidarietà e con cura.
Le pagine si riempiono di emozioni, riflessioni e testimonianze intense, mostrando il volto umano della migrazione. Un volto fatto di paura e resilienza, di gesti semplici e potenti, di lingue diverse che si incontrano per trovare un significato comune. Accompagnate da immagini evocative, queste storie parlano non solo di chi arriva, ma anche di chi sceglie di restare accanto.
“Proteggere persone, non confini”, recita una scritta sul molo. Il libro ci invita proprio a questo: riflettere su ciò che ci unisce oltre le differenze, oltre il mare. Un inno alla vita che resiste nonostante tutto e un messaggio universale di speranza e di grande umanità.