Giugno 2015 inserto Ventura colori_Layout 1 16/07/15 15:58 Pagina 2
il
Provinciale
giornale di opinione della provincia di Foggia
ImmagInarIo collettIvo
Anno XXIV - n. 2 Giugno 2015
II
Milano, la seconda città pugliese dopo Bari C
ome forse molti sanno, i genitori di Adriano – Leontino Celentano e Giuditta Giuva – erano di origine foggiana. Emigrati al nord all’inizio degli scorsi anni Trenta in cerca di lavoro: prima in un paesino piemontese; poi in Lombardia, a Robecco sul Naviglio, alle porte di Milano; quindi nel capoluogo lombardo, nel quartiere periferico di Greco, in via Gluck n. 14. Sono tempi duri per tutti. E hanno già 4 figli: Alessandro, Maria, Rosa e Adriana. Ce ne vuole di tempo prima che la fortuna giri: Giuditta (la vera forza trainante della famiglia) continua a fare quello che faceva fin da ragazzina, la sarta; ma Leontino trova un’occupazione fissa come rappresentante di biancheria. Qualche anno dopo, nel 1934, quando sembra che le cose si siano messe per il meglio, piomba sui Celentano la tragedia: l’ultima figlia, Adriana, muore di leucemia, a 9 anni. Mamma Giuditta, donna forte e determinata, regge con difficoltà l’enorme dolore. Al punto che, quando – 3 anni dopo – le viene comunicato che sta per avere un altro figlio, nega persino l’evidenza: convinta invece che si tratti di una grave malattia. E continua a prenderla malissimo anche dopo che i medici le confermano la gravidanza, che peraltro procede a gonfie vele, rifiutandosi addirittura di preparare il corredino per il nascituro: anima presaga del pericolo di mettere al mondo chissà quale balzano da quattro, quale satanasso (Elucubrate, psichiatri, elucubrate...). Ma la natura la costringe alla resa: e così, il 6 gennaio 1938, nasce il quinto Celenta-
Nico
no; battezzato Adriano, in ricordo della sorella, morta 4 anni prima. Via Gluck: quando si dice il destino... Chi era Cristoph Willibald von Gluck? Un musicista tedesco: fra i più grandi compositori di melodrammi. Fatidica via Gluck.... E che scuole avrebbe fatto Celentano? Sembra, soltanto le elementari: sarà lui stesso a definirsi orgogliosamente il Re degli ignoranti. Conservatorio? Per carità... Ancora lui vorrà chiamarsi polemicamente l’Analfabeta del pentagramma. Intanto fa l’apprendista da un urulugé (da un orologiaio). Tic tac, tic tac ... Ed è l’orologio del tempo a scandire le tappe di un’affermazione senza precedenti. I suoi biografi (e i gazzettieri dei rotocalchi specializzati nel gossip) hanno scritto pra-
ticamente tutto di lui: dal suo esordio alla sua irresistibile (inarrestabile...) cantautore, ascesa, come cantante, attore cinematografico e pure regista di film. Naturalmente la sua enorme popolarità è come cantante: e la sua bandiera musicale è il genere rock. Che è un’abbreviazione dell’inglese rock and roll (beccheggio e rullio): un ballo affine al boogie-woogie (un ballo scatenato), scandito con contorcimenti e ondeggiamenti del corpo. Nei gesti e nella mimica, Celentano si orientò principalmente su un dondolio a scatti, che però ebbe anche un effetto di flessuosità: per cui si beccò il soprannome di il Molleggiato, anzi il Super Molleggiato. Ma la sua fama diventa addirittura leggendaria con Il ragazzo della via Gluck: una canzone autobiografica, sul
Carmelo
gusto delle ballate popolari, che – come si dice – coinvolse emotivamente anche il sottoscritto; perché in quelle note identificò subito se stesso e la sua famiglia. Il parallelo riguardava anzitutto le sorti comuni delle nostre famiglie (i Celentano e i Ventura): entrambe costrette a emigrare dalla Puglia (loro da Foggia, noi da Troia); loro con 4 figli (poi sarebbe arrivato il quinto, Adriano), noi – molto peggio – addirittura in 9 fratelli (io, primo di 7 maschi e 2 femmine). Tante altre le analogie tra le nostre due famiglie: e ricordarle adesso sarà come parlare di corda in casa degli impiccati. Ho detto che la vera forza trainante dei Celentano fu la signora Giuditta. E subito va aggiunto che fu mia madre (la signora Giovanna) l’anima della nostra fuga da Troia. Prima però andrebbe detto qualcosa sul problema generale degli immigrati pugliesi, che vivono e lavorano nell’area metropolitana milanese. Ma parlare della Puglia significherebbe riproporre l’eterna questione meridionale: che però oggi non abbiamo né tempo né spazio di riesaminare. Possiamo solo ricordare che la Puglia fu protagonista (dagli anni Trenta agli Ottanta del secolo scorso) di un esodo biblico delle sue forze di lavoro, che trovarono occupazione all’estero e nelle grandi aree urbane del nostro paese. Si è tentato di quantificare il numero degli immigrati pugliesi a Milano (la Terra promessa...) e in tutti i comuni della sua provincia. E si è calcolato che furono 250 mila: tanto da far sostenere che Milano è la seconda città pugliese, dopo Bari.
Proseguiamo col parallelo tra le nostre famiglie: le prime abitazioni furono delle cà de ringhera (case di ringhiera), con i servizi comuni giù nel cortile. Poi i lutti familiari: come già detto, Adriana nei Celentano e, in casa nostra, per un tumore, Nico; il più bello di tutti noi. Molti lo paragonavano a Paolo Villaggio da giovane: io invece ci trovavo una rassomiglianza maggiormente con Little Tony. Naturalmente era diventato Nico a Milano: perché, fino a quando eravamo a Troia, era invece N’còl’ o N’culìn’ (Nicolino) e gli si diceva scherzosamente (come a tutti quelli con il suo nome) N’còl’, pòk’ m’ daj’, e ppòk’ t’ammol’ (Nicola, poco mi dai e poco ti ammolo [ti molo, ti affilo]); molare (molto meno comunemente, arrotare) è il verbo degli arrotini, che – in milanese – sono i muleta (nella grafia convenzionale, i moletta), e – in troiano – i malafróbbc’ (i molaforbici). Per inciso, in milanese, la Morte = Caterinin la Seca (Caterinina la Secca) o Caterinin di custaiør (Caterinina delle costolette [delle costole del torace]) o Cumà Ransona (Comare Ranzona [cioè con la grossa ranza, com’è chiamata – in dialetto – la falce fienaia, con la quale è generalmente rappresentata la Morte]). Ma non posso andare avanti senza parlare del nostro Carmelo, lo scricciolo della nidiata: un martiruccio, che aveva appena 2 anni ed era già stato colpito da gravi patologie cerebrali. Il nostro angelo ora è un vecchietto con la faccia sempre da bambino, che – il prossimo 31 luglio – compirà ben 69 anni: in passato ha dovuto essere sottoposto a diversi interventi neurochirurgici, ma ora sta abbastanza bene (compatibilmente con la sua disabilità); e noi – come direbbero a Troia – r’ngraziam’ Ddìj’, facc p’ nderr (ringraziamo Dio, faccia per terra). E io ci posso scherzare su: lui è ancora vivo e vegeto, che – in milanese – si direbbe viv e vegètt (vivo e vecchietto...). E non ci vuol molto a capire che lo scopo recondito (ma principale...) di questa Bancarella è proprio quello di parlare di lui e
di pubblicare qualcuna delle sue foto: come peraltro cerco sempre di fare, qualunque sia l’argomento di cui sto scrivendo, per ripetere continuamente che Un angelo è venuto ad allietare la nostra casa con la sua gioia di bambino; così è scritto in un cartello incollato alla parete della nostra cucina sopra la spalliera della sediona di giunco, sulla quale da anni trascorre (ormai non più autosufficiente) la sua giornata; ma impegnatissimo, senza soluzione di continuità, nelle sue mille occupazioni. Il nostro giovane... Il nostro ragazzo... Il nostro piccolino... L’unico vero scopo della mia vita: il cuore del mio cuore. Su un’altra parete della cucina c’è anche una striscetta (che riproduciamo). Fu la trovata di un Carmelo (giuro che non me ne ricordo il cognome), candidato al consiglio comunale di Milano nelle elezioni amministrative di qualche anno fa. Era riuscito a farsi dare dall’anagrafe l’elenco di tutti i Carmelo provenienti dal meridione (principalmente pugliesi), residenti a Milano: e spedì loro quella richiesta ruffiana a dargli il voto di preferenza. Se mi capisci, mi capisci... Ma io sono – principalmente e per antonomasia – il servitore dell’angelo (il suo schiavetto, legato mani e piedi...), il suo giullare, il suo clown personale e (bando alla falsa modestia...) e il vero jolly della famiglia, ma soprattutto l’addetto a quel recipiente di plastica, fatto in modo da consentire di mingere senza andare in bagno: il pappagallo. Questo recipiente (in passato, di porcellana o di vetro) è sempre in uso negli ospedali per i malati costretti a letto: al sesso femminile è riservata la padella (che serve anche per l’atto grande pure per i maschietti). L’operazione minzione è estremamente importante, non solo per Carmelo: per tutti. Gino Bartali, intervistato alla televisione al termine di una tappa del Giro d’Italia (durante la quale perse dei minuti preziosi per un impellente bisognino, che lo costrinse a fermarsi per... spandere acqua), ridacchiò: «Se mi capisci, mi capisci...».