Non c'è due senza te

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Luglio 2013 NON C’E’ DUE SENZA TE

La sua macchina decapottabile correva nel buio della notte fresca. Era lunedì primo giugno, l’inizio di una settimana, di un mese e di una nuova vita. Era eccitato all’idea del cambiamento che quella sera avrebbe portato ai suoi giorni e lo scompiglio previsto era paragonabile a quello dei suoi capelli bruni, tutti ben in ordine quando si era messo in auto, e che adesso erano un turbinio di ciocche che si rincorrevano arruffate dall’aria fresca di una serata di fine primavera. Tutto era bello, meraviglioso e armonioso come lei; stasera finalmente glielo avrebbe chiesto e tutto sarebbe diventato nuovo nei suoi giorni da ricco giovane tutto dedito al lavoro e basta. Adesso c’era lei, lui e una nuova vita. Si portò la mano alla tasca interna della giacca dove la scatolina di velluto blu, tanto piccola ma così preziosa, avrebbe acceso il suo sguardo e posto la fatidica domanda senza che lui dovesse balbettarla per l’emozione trasformando un evento così in una situazione così così. La macchina saliva su per via del Bargellino a Fiesole, sulle colline appena fuori da Firenze e gli alberi sulla sinistra emanavano un profumo che accompagnava la vista di Firenze la sera, che sulla destra a tratti compariva adagiata dentro la conca formata dalle piccole alture dei colli che la circondavano. La magnificenza del suo Duomo si stagliava in mezzo ai palazzi bui, mentre il palazzo della Signoria poco più in là accompagnava lo sguardo a immaginare la statua del David, sempre lì pronta a farsi fotografare. La bellezza di quel ragazzo che posò per Michelangelo, aveva suscitato l’ammirazione in tutti coloro che l’avevano guardato, e che a sua volta doveva essersi tramutata in odio da parte degli invidiosi. Solo quando la perfezione di quel corpo, resa immortale dal marmo, era sopravvissuta alla morte del suo proprietario, aveva smesso di suscitare quel sentimento ed era riuscita finalmente a circondarsi solo di amore. Pareva la parodia della sua vita, almeno per come la vedevano gli altri: bellezza, tante donne e capacità sul lavoro. Chissà se, almeno da morto, sarebbe riuscito a liberarsi di questa idea sbagliata di cui la sua vita sembrava la concretizzazione. Tutta la sua vita gli era sembrata una stanza piena di mobili bellissimi e oggetti preziosi accumulati come tanti trofei nei primi trent’anni della sua esistenza. Poi era entrata lei e quello che sembrava un ambiente perfetto era apparso finalmente per ciò che era veramente: solo cose e polvere. Lei non gli aveva chiesto niente, non lo aveva né ammirato e né giudicato, per la sua vita, la sua famiglia o i suoi soldi, lei lo aveva solo guardato dentro agli occhi e

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aveva cominciato a sorridere e ridere di lui e dell’immaginaria aura che gli fluttuava attorno; e il suo sorriso, straccio di una Cenerentola moderna, si era messo a fare la polvere in quella stanza che a lui stava stretta come una cantina, rendendola di nuovo una reggia. Lo aveva aiutato a capire che l’amore semplice e profondo era come il suo sguardo fermo, che non vacillava all’idea di non essere abbastanza accattivante. A modo suo, era stata in grado di chiarirgli che l’amore non è una guerra; e scendere in campo con l’artiglieria pesante, voleva dire solo dire metterci più tempo a spogliarsi. Quella sera le avrebbe detto che aveva scelto lei e che la certezza che si può amare per tutta la vita, adesso era diventata anche sua e non lo spaventava più. All’idea, riportò la mano alla scatolina che portava con sé. Sapeva che non l’avrebbe vista piangere o strillare, ma avrebbe sorriso, sicura che la felicità li avrebbe circondati con o senza quell’anello con diamante attorno al suo dito sottile. La strada che stava percorrendo non era più così stabile, stava oscillando a destra e sinistra, come una culla che con il suo dondolio volesse farlo addormentare definitivamente. Firenze era sempre lì giù dalla collina e a separarlo c’era solo un guard rail e più in basso le cime di alcuni alberi. Dario sperò che quella fascia di metallo sapesse fare bene il suo mestiere; e anche qualcosa in più. Lo schianto, una capriola e un’altra ancora. La sera prima Duccio era nel suo ufficio quando ricevette la telefonata di Simona De Rubinelli, che per lui era semplicemente: Simo. Era stata la sua compagna di classe al liceo e di serate spensierate per tutti gli anni dell’università; come quella al Pacini in cui lei, l’unica a esser rimasta senza cavaliere, aveva accettato di ballare con uno sconosciuto e accendendo la gelosia di Federico Galini che cominciò a menar le mani, facendo in modo che la serata finisse con una scazzottata da saloon. Che botte, ragazzi! Ancora se le ricordava tutte e, nonostante fossero più quelle date che quelle incassate, il suo amor proprio ne era uscito malconcio come la sua faccia. Per non parlare del numero illimitato di volte che Simona lo aveva pregato di lasciargli le chiavi della macchina perché voleva guidare lei, visto che lui non era abbastanza lucido neanche per riuscire a infilarle nel cruscotto. Che tempi lontani! Gl’eran passati vent’anni ma sembrava un’altra vita o, meglio, la vita di un altro Duccio. Attorno a Simona i ricordi si affastellavano l’uno sull’altro gareggiando tra loro per chi gli tornasse per primo in mente, strappandogli un sorriso. Tutto fino a quella telefonata della sera prima in cui gli comunicava con voce strozzata, ma con la consueta pacatezza che la sua educazione e la sua posizione sociale gli imponevano, che suo figlio Dario era morto in un incidente. Volato come un angelo giù da un burrone.

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Il suo primogenito era un bravo ragazzo, sano e buono di natura, di quelli che ‘come lui ce ne sono pochi’. Aveva saputo muoversi negli agi della sua estrazione sociale senza ostentarli o approfittarsene. Gli eccessi non lo avevano mai attirato e, a differenza del fratello minore, per lui le giornate cominciavano all’alba e terminavano la sera abbastanza presto. Lavorava presso la Lampa Tech, la ditta di famiglia che produceva lampadari, e da pochi mesi ne era diventato uno dei dirigenti. Aveva cominciato ad andarci quando era solo un bambino e non avrebbe dovuto neanche trovarsi lì. Di nascosto s’infilava nel magazzino a guardare, toccare, spostare, facendo un monte di domande per avere le risposte a tutti i perché che gli frullavano per il cervello. Quando aveva finalmente cominciato a lavorare, appena maggiorenne, la sera studiava per laurearsi in economia e commercio e il giorno lo trascorreva in azienda ricoprendo i ruoli più umili. Con le ragazze aveva avuto qualche storia semi seria, ma niente di travolgente. Dalle prime analisi era risultato che fosse sotto l’effetto di sonniferi e a Simona quello non tornava. Dario non ne aveva mai fatto uso, a differenza di Matteo, il secondo figlio. La vita che faceva tutta dedita al lavoro, lo faceva addormentare la sera fatica; e se alle volte i problemi che incontrava in azienda potevano togliergli il sonno, si trattava solo episodi occasionali e pertanto non li curava. Per quanto riguarda il momento dell’incidente, la polizia aveva constatato che il ragazzo avesse assunto tanti di quei barbiturici da rimanerci ucciso anche se avesse fatto in tempo ad arrivare a casa incolume e senza fare incidenti. Per questo, in nome della vecchia amicizia, Simona si era permessa di disturbarlo anche se negli ultimi anni, da quando Duccio si era trasferito a Castiglioncello, non si erano frequentati molto. Aveva saputo della sua scelta di tornare a vivere alle origini e di fare una vita semplice come quella dei suoi nonni, dopo gli eccessi di gioventù e soprattutto dopo la morte di Dinda. Da lì in poi Simona aveva invitato alcune volte Duccio a casa sua, facendogli trovare i suoi piatti preferiti e del buon vino. Marcello De Rubinelli, suo marito, andava molto d’accordo con il suo amico di vecchia data e quelle serate finivano, tra una chiacchiera e l’altra, alle prime ore del mattino con Duccio che si appisolava sul divano e successivamente si trascinava nella camera degli ospiti. Quei racconti narravano la vita che gli amici svolgevano a Firenze, divisi tra lavoro e i due figli che crescevano altalenandosi tra le classiche vittorie e sconfitte che fanno parte della crescita di ogni individuo. Lui conosceva bene i due ragazzi e gli piaceva confrontarsi con loro che, a loro volta, trovavano in Duccio una persona dalla mentalità aperta e comprensiva, uno che dava la caccia al crimine e non alle persone. Lui partecipava alle serata raccontando la sua vita da commissario di polizia affogato in mezzo alle piccole e grandi tragedie della sua cittadina, simile a molte altre in Italia, e nel parlare accendeva in Simona l’orgoglio classico delle vecchie 4


amiche, quelle troppo posate e serie, più mamme che possibili fidanzate. Per questo motivo a Duccio lei non era mai piaciuta in quel senso e questo aveva fatto scorrere la loro amicizia sempre al sicuro dentro gli argini della semplice simpatia e del volersi bene. Lei quando lo guardava era orgogliosa e le si poteva leggere negli occhi la classica frase: ‘Oh, questo ragazzo l’ho cresciuto io’. E considerato il numero di volte che lo aveva salvato dalla guida in stato di ebbrezza, in fondo non le si poteva dare torto. Ma non quella mattina, in cui per via dei movimenti lenti e dalle parole mezze biascicate, quella ubriaca sembrava lei mentre lo guardava implorando di aiutarla. Seduta dall’altra parte del grande tavolo di cristallo, gli aveva chiesto apertamente di intromettersi nelle indagini che stavano andando troppo veloci e verso una conclusione tanto scontata quanto sbagliata. Lei sembrava persa e l’assenza del marito Marcello, che per fuggire al dolore si era rifugiato nel lavoro passando gli ultimi giorni in azienda, certo non l’aiutava a essere più lucida. “Come gl’era Dario nell’ultimi tempi? Più felice, più triste o i’ solito ragazzo?” “Da qualche mese a questa parte gl’era più contento e sembra che fosse dovuto al fatto che con la su’ ragazza, dopo un tira e molla che un finiva più, finalmente avessero deciso di sposarsi. Con la macchina gl’è precipitato giù da via Derini, dove fa quella curva maledetta. Quella strada porta a casa di Dalia e in tasca gli hanno trovato un anello di fidanzamento. A me un ne aveva parlato, ma a Matteo aveva detto che quella sera si sarebbe ‘fidanzato con sorpresa’.” “Che sorpresa?” “Forse si riferiva a i’ fatto che fosse ‘na decisione repentina.” La donna fece una pausa di qualche minuto, si alzò dal tavolo e si allontanò di qualche passo per concedersi un pianto passeggero, di quelli simili ai brevi rovesci che, nei giorni di burrasca come quelli, cadono frequenti. Guardava fuori dalla finestra e poi si voltò: “Dalia sta per arrivare e pranzerà con noi.” “Come la sta?” “Credo che si riprenderà presto. Sai, Duccio, lei è una delle poche scelte di Dario che un condividevo. Ma, si sa, nessuna è mai all’altezza de’ propri figlioli, quando si parla di nuore.” “Qualcosa di lei la un ti piace?” “Un ha più importanza ormai.” Ripresero a parlare delle indagini e lei gli disse che, secondo la polizia di Firenze, non era il caso di complicare una faccenda che sembrava lampante. Al ragazzo erano stati somministrati dei barbiturici in dose massiccia e poi si era messo alla guida della sua auto. La certezza del fatto che non li avesse presi di sua volontà era assodata dall’assenza, dentro lo stomaco, delle capsule con cui solitamente s’ingoia quel farmaco. La marca di quei tranquillanti era la stessa di quelli usati dal fratello e il commissario di quel distretto, Dante Sigliani, che conosceva bene la famiglia De Rubinelli, sapeva che tra i due fratelli c’era una forte rivalità che negli anni andava

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crescendo per via della diversa considerazione che gli altri avevano del fratello minore. Unica nota stonata, ma non abbastanza da convincere il commissario Dante Sigliani a cambiare musica, era che Matteo De Rubinelli la sera della morte di suo fratello non fosse in casa. Secondo lui questa certezza era confutabile in quanto il giovane avrebbe potuto rientrare senza farsi notare e aver offerto al fratellone, in vista della serata memorabile, quel cocktail a base di alcolici e barbiturici che gli avevano poi ritrovato nello stomaco. Del resto il giovane ha ammesso che il fratello gli aveva anticipato che avesse intenzione di fidanzarsi proprio quella sera. Il suono del campanello annunciò l’arrivo di Dalia e la ragazza entrò con fare spigliato, guardandosi attorno alla ricerca dell’ospite che sapeva di trovare quel giorno. Quando lo vide si avvicinò con passo pesante, forse dovuto alla stazza robusta e all’incedere a mo’ di marcia militare; gli strinse la mano con fare deciso, ma gli occhi sfuggivano forse per non voler far trapelare il proprio lutto, ma Duccio le fece comunque le sue condoglianze e lei ringraziò abbassando i suoi occhi che, più che abbattuti per il dolore, sembravano sconfitti per la perdita. Cominciò a parlare a macchinetta e a dare ordini alla cameriera perché cominciasse a servire a tavola, come se fosse stata lei la padrona e come se la morte di Dario non avesse influito minimamente su questo aspetto. Simona la lasciava fare perché nello stato emotivo in cui si trovava non riusciva a pensare ad altro che a chi non c’era più e anche la presenza del suo più caro amico, solitamente ben accetto in quella casa, in quella circostanza era solo in funzione del fatto che si dovesse cercare una soluzione per salvare l’altro figlio. Simona si scusò per il fatto che il pranzo sarebbe stato solo a base di pietanze ricche di proteine, perché Dalia stava seguendo una dieta che le proibiva il consumo di carboidrati e di zuccheri, anche sotto forma di frutta e verdura. E siccome non poteva mangiarli lei, le dava fastidio vedere che per qualcun’altro fossero leciti, il che comportava il fatto che tutti i commensali che avevano la sfortuna di mangiare con lei dovessero seguire la sua stessa dieta. Tutto questo la un mi garba. Mentre erano seduti arrivò Matteo, il venticinquenne di famiglia, che aveva l’aria d’essersi appena svegliato. Le borse sotto gli occhi denotavano una certa abitudine a coricarsi quando i più mattinieri s’alzavano e a spendere le prime ore del giorno a riprendersi dai bagordi notturni. Ma era giovane e, del resto, anche lui ne aveva fatte di pelle e di becco quando aveva la sua età. Quello sì, era uno che faceva uso di sonniferi; a occhio e croce, doveva essere abituato a passare dagli stimolanti per svegliarsi al mattino, ai tranquillanti per addormentarsi la sera; usandoli come due binari su cui far corre il convoglio delle proprie giornate carico di poco lavoro e tante giustificazioni. Matteo usò la cortesia di andare a salutarlo, mettendosi una mano davanti alla bocca per evitargli che uno sbadiglio imprevisto si compisse in presa diretta davanti alle sue narici e ai suoi occhi. 6


Dalia lo apostrofò con un ‘buongiorno’ che era più un rimprovero che un saluto e Duccio ebbe la sensazione che non fosse la prima volta che la fidanzata del fratello si permettesse di dissentire sui modi del futuro cognato. La sua Simona invece, da quando aveva rischiato di perderlo per una meningite a quattro anni, non era più riuscita a negargli niente; complice l’innaturale capacità che hanno alcuni figli nel condurti a essere un po’ più accondiscendente del dovuto. Il resto del semi-disastro educativo l’aveva involontariamente fatto Dario diventando un fratello difficile da emulare e per questo una figura troppo ingombrante per un armadio già pieno di scheletri. Quando Matteo si allontanò preferendo al pranzo solo un caffè, Duccio si voltò verso la sua amica e prima che potesse fiatare lei lo fermò con un cenno della mano. “Lo so i’cchè tu sta’ pe’ dirmi: un so’ stata brava come con Dario.” “L’unica cosa di cui la tu ti dovresti penti’ è d’aver fatto differenze tra loro due, ne i’ pretende’ de’ risultati.” “Noto che la nomea di poliziotto dall’acume brillante ha i’ su’ perché.” Il rumore della porta che sbatteva indicava che il figlio se ne fosse andato senza salutare e preferendo il caffè del bar a quello, peraltro notevole, che gli avrebbe preparato la domestica e che Duccio, dopo le serate protratte fino alle ore piccole, aveva gustato molte volte. “Scusami per lui, Duccio.” Dalia la sgridò: “Sarebbe l’ora che tu la smettessi di scusarti a i’ posto suo. Te lo dico da ‘na vita.” “Hai ragione Dalia, ma certe abitudini son difficili da sradicare.” “Adesso che un c’è più Dario, lo dovrai fare per forza se un tu vòi che vada tutto a rotoli.” Dopo questa uscita poco felice sul futuro della Lampa Tech, la ragazza fece a Duccio il grande piacere di salutare e andarsene. Non tanto perché gli stesse antipatica, quanto per il fatto che voleva parlare con Simona apertamente senza che la ragazza s’intromettesse, cosa che avrebbe certamente fatto considerato quale tipo di persona fosse. Come fu abbastanza lontana da non poter udire le loro parole, Duccio si rivolse a Simona con una domanda da infarto e gliela buttò lì senza preamboli, per percepire anche dalla sua reazione istantanea quale fosse la verità. “Esistono delle motivazioni che possono aver portato Matteo a desidera’ la morte de i’ su’ fratello?” Duccio non sapeva se aspettarsi una sberla o un pianto a dirotto e si preparò a tutta la gamma di reazione che avrebbero potuto stare in mezzo a quella due ma, per quanto potesse sembrare impossibile, la risposta di Simona lo prese alla sprovvista lo stesso. “Sì, motivazioni n’aveva, come chiunque rimane a terra a guarda’ l’altri che spiccano i’ volo, ma un lo avrebbe mai fatto, se non altro per convenienza: senza Dario chi l’avrebbe mantenuto una volta che saremmo venuti a mancare noi?”

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Duccio rimase interdetto a sentir parlare una madre in modo così spietatamente imparziale di uno dei propri figli. Lui annuì e lasciò che lei finisse di esporre i suoi pensieri. “Come ti dicevo innanzi, un è un ragazzo cattivo, ma l’abbiamo abituato male e lui avrebbe certamente preferito vivere alle spalle de i’ fratello, piuttosto che mantenersi da solo come fanno tutti.” “Pensi che Dalia gliel’avrebbe permesso?” “Vedo che tu ha colto un’altra volta ne i’ segno. I dissapori che ci so’ stati tra Dario e Dalia nell’ultimo anno gl’eran dovuti ai diversi modi ch’aveano di vedere i’ futuro dell’azienda insieme a Matteo che, ne i’ bene e ne i’ male, ne sarebbe stato proprietario per metà. Già ci so’ stati de’ dissapori perché Dario un vòle … sì, insomma, un voleva concedergli ‘na promozione.” Simona smise di parlare per riprendersi dal flash della morte di suo figlio che quel lapsus freudiano gli aveva acceso davanti agli occhi. “I motivi so’ solo codesti?” “Dario lo minacciava che prima o poi gl’avrebbe fatto ave’ ‘na lettera di richiamo pe’ i’ fatto che arrivasva sempre in ritardo.” Altre motivazioni, oltre a quelle lavorative, sembravano non essercene e Duccio dovette ammettere che come movente erano troppo deboli. “Venendo qui mi so’ fermato a osservare l’asfalto ne i’ punto in cui è successo l’incidente, ma un ho trovato segni di frenata che m’aiutino a capire se Dario stesse effettivamente andando da Dalia o se stesse già tornando. Anche quel poco di lamiera che rimane de i’ guard rail un aiuta capire in che direzione stesse procedendo e allora vorrei parlare con Dante Sigliani pe’ capi’ su i’cchè si basi la su’ ipotesi per cui il ragazzo stesse andando e non tornando da casa della fidanzata.” “Credo che si basi su i’ fatto che c’avesse l’anello ancora in tasca e un gl’avesse ancora consegnato. Per questo so’ convinti che un si fossero ancora incontrati. Perché tu me lo chiedi, hai qualche idea?” “Nulla che valga la pena esternare prima d’ave’ fatto qualche verifica.” Duccio le prese una mano tra le sue. “Ci si vede dopo.”

“Ciao Duccio, come tu stai?” “Bene, Dante. E tu come stai? I tu’ ragazzi procedono negli studi?” “Vanno bene. Mirko sta per laurearsi in ingegneria e Sergio ha la maturità quest’anno.” “So’ soddisfazioni! Fattelo dire da chi un ha figli.” “Lo so. Quello che mi fa ancora più piacere è vede’ che vanno molto d’accordo. Sono proprio affezionati l’uno all’altro e questo mi ripaga d’ogni sacrificio, più di qualsiasi risultato scolastico mi possano dare.” Duccio lo guardò fisso negli occhi con uno sguardo e un sorriso da mariuolo pentito qual’era, e questo bastò perché il collega intuisse la domanda sottintesa.

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“Immagino che tu sia qui perché Simona ti ha chiesto qualcosa di più che presentarti elegante a i’ funerale de i’ su’ filgiolo.” “Già.” “Alle volte la sorte è maligna. Non che ci siano delle scalette di preferenza in cui poter catalogare i figli, ma è certo che perdere i’ figlio che, tra i due, s’era lanciato con più entusiasmo nella vita, rende i’ colpo ancora più duro.” “Sono d’accordo. Soprattutto se a questo s’aggiunge che è preoccupata che tu possa incolpare Matteo per la morte di Dario. Ti spiace se ficco i’ naso in questa faccenda?” “Assolutamente no, se questo può aiutarla a sta’ meglio; ma parliamoci chiaramente, Duccio, quel ragazzo aveva il movente, l’occasione e i farmaci erano i sua. Abbiamo controllato il numero di pasticche rimaste ne i’ blister e, rispetto alla data in cui l’ha comperate, abbiamo notato che ne mancano tante.” “Avete solo questo come prove?” “Sì, ma un è poco. Il fatto che Dario un c’avesse capsule nello stomaco indica che non le ha assunte di su’ volontà.” “Il medicinale è molto amaro. Se gliel’avessero sciolto in qualche bevanda se ne sarebbe accorto.” “Questo è un punto sul quale stanno lavorando i miei uomini. Ma se anche un trovassero ‘na risposta soddisfacente, l’ipotesi che sia stato i’ fratello un vacillerebbe al punto da crolla’.” “A quando è stata stabilita l’ora della morte?” “Purtroppo i’ corpo è in condizioni pessime, e l’ora la si colloca in modo molto indicativo tra le dieci e mezzanotte.” “Boia deh! Un po’ più larghi un si poteva stare?” “Vuoi vedere in che stato è il ragazzo?” “No. Voglio risparmiarmi questo strazio perché tanto un mi servirebbe a molto. Il fulcro della questione è cercar di capire se i’ ragazzo stesse andando da quella benedetta ragazza, o se stesse già tornando.” “Aveva ancora in tasca l’anello.” “Questo un significa nulla; magari avevano bisticciato di nòvo e un gliel’ha dato.” “È difficile, l’aveva comprato la mattina stessa, dopodiché aveva chiamato la ragazza chiedendole di preparare una cenetta con le candele accese perché dovevano festeggiare un evento importante. Tutto questo è confermato da i’ fratello al quale aveva anticipato qualcosa delle su’ intenzioni.” “Posso vede’ i’cche l’avea in tasca?” Il commissario Sigliani s’allontanò e tornò dopo un minuto con un sacchetto di plastica contenete la scatolina di un gioielliere e il telefonino del ragazzo. Il gioiello era un piccolo cerchietto di oro bianco per dita femminili e leggere, sul quale spiccava un diamante di notevole valore. “Certo è che un avea badato a spese.” Il cellulare era costoso e molto resistente, infatti aveva resistito a tutti gli urti subiti ed era ancora funzionante.

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Dopo aver salutato l’amico e collega Duccio chiamò Dalia chiedendole di incontrarsi a casa sua perché voleva parlarne con un po’ di tranquillità. Lei, che si trovava già a casa, gli disse di raggiungerla non appena gli fosse stato possibile e Duccio non si fece pregare due volte. Arrivato davanti al citofono si ricordò di non averle chiesto quale fosse il suo cognome, il dito si fermò a mezz’aria frenato da una ridda di pensieri e dubbi ma si riprese subito e andò deciso verso un tasto. La ragazza abitava in un elegante residence all’interno di un Golf Club e andò ad aprirgli che indossava solo un vestito leggero. Nell’osservarla il commissario di Colle si sorprese di non trovarla magra come si sarebbe aspettato; forse si era fatto suggestionare dal fatto che fosse a dieta, o dal fatto che le precedenti fidanzate di Dario erano magre come giunchi. Duccio si sedette sul divano che lei gli indicò e dopodiché le chiese di raccontargli la sua versione sui fatti della serata. La ragazza lo fece in modo preciso, riferendo che Dario l’aveva chiamata per chiederle di preparare una cenetta a lume di candela perché voleva festeggiare insieme a lei qualcosa di importante che non aveva voluto anticiparle. Mentre la ragazza parlava gesticolava con le mani e non riusciva a frenare le lacrime che scendevano silenziose, senza scenografici singhiozzi lungo le guance. Lei lo aveva aspettato invano fino all’una di notte e poi se n’era andata a dormire. La sua testimonianza non sembrava apportare molte modifiche al decorso dell’indagine che puntava dritta verso l’accusa del fratello, ma qualcosa nell’insieme turbava leggermente il nostro commissario di Colle, anche se ancora non sapeva a che cosa attribuire quello stato d’animo. Mentre usciva di lì, si girò a guardare Dalia e con lo sguardo le chiese il permesso di allungare una mano e portarsi via qualche ciliegia dal cestino in mezzo al tavolo. E come per le ciliegie, per le quali una tira l’altra, anche i suoi pensieri si moltiplicarono in una sequenza in cui ognuno non poteva fare a meno di quello successivo. L’origine di tutto andava cercata nelle abitudini che aveva Dario da vivo. Come passava le sue giornate? Casa e lavoro. Visto e considerato che a casa ci so’ già stato, un mi rimane che anda’ a curiosa’ nella su’ azienda pe’ vede’ se lì riuscirò a trova’ i’cchè mi serve. Secondo me lo nascondeva in ufficio, considerato che dove avrebbe dovuto trovarsi un c’era o, per dirla tutta, c’era ma era della misura sbagliata. La Lampa Tech era una piccola ditta che produceva lampadari dalle fogge moderne e alla moda. Contava all’incirca una trentina d’operai, un fattorino, una decina d’impiegati e i due dirigenti, di cui era stato Dario stesso. Oltre a tutti loro c’era anche Matteo. Il ragazzo ricopriva una posizione indefinita che stava tra il ruolo dell’impiegato, che gli stava stretto, e quello del capoufficio che gli stava troppo largo.

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Il suo arrivo improvviso non creò un gran scompiglio, almeno non molto superiore a quello che c’era già e che era stato causato dalla perdita della persona che rappresentava il futuro per la ditta e per tutti loro. In officina le persone lo videro arrivare guardandolo con occhi grandi e cerchiati, ma si mantennero impegnati nel loro lavoro, come se questo li aiutasse a fugare l’idea che presto tutto sarebbe cambiato. Il capo reparto della produzione fu l’unico a dargli retta e gli descrisse un Dario attento ai dettagli, ligio al dovere, presente in azienda dal mattino presto alla sera tardi, che aveva sempre una parola buona per chiunque ne avesse bisogno e un cazzotto di scherno per chi aveva voglia di scherzare un po’ con lui. Come lui stesso, che lavorava lì da trent’anni e lo aveva visto crescere. Da bambino gli chiedeva di giocare a nascondino e poi correva a nascondersi dietro gli scaffali della merce in magazzino. Una volta nel giocare aveva rotto un lampadario che valeva un milione di lire e se l’era quasi fatta addosso dalla paura che lui, che all’epoca era solo un operaio, gliele suonasse di santa ragione. Due scapaccioni glieli aveva suonati e per diverso tempo, quando lo incontrava in giro, si metteva le mani dietro per paura che gliene toccassero ancora. A distanza di venticinque anni, nel raccontare quell’aneddoto che lo aveva legato in modo particolarissimo al suo datore di lavoro, le luci di quel lampadario rotto avrebbero potuto riflettersi nei suoi occhi lucidi. Prima di girare sui propri tacchi e allontanarsi, si permise inaspettatamente di spezzare una freccia a favore di qualcuno. “… e per quanto sia uno che un vale un decimo de i’ su’ babbo e de i’ fratello, io un ci credo che Matteo l’abbia ucciso. Un è una gran persona, ma un è cattivo.” Uscito da lì Duccio si diresse verso gli uffici per raccogliere altre testimonianze sul carattere dei due fratelli e per avere conferma che lì si trovasse ciò che stava cercando. La capoufficio era una donna di quasi sessant’anni e il suo dolore traboccava da ogni poro della pelle a dai movimenti rallentati, che erano il classico sintomo di mancanza di vitalità, noto a chi perde qualcuno che era davvero importante nella propria vita. Gli presentò gli impiegati contabili, le segretarie amministrative e il fattorino. Ognuna di quelle persone esprimeva il dolore a modo proprio, chi con un eccesso di frenesia e chi muovendosi come un automa, cercando di andare a memoria per ricordarsi per quale motivo fosse lì quel pomeriggio. Una persona si aggirava come se fosse un fantasma, errando da un lato all’altro dell’ufficio solo spirito e niente più. Nel girare tra quelle scrivanie, Duccio trovò quello che stava cercando. Ora bisognava trovare le prove a tutto ciò. Uscito di lì andò a far visita al gioielliere da cui Dario aveva acquistato quella meraviglia di anello.

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Via dei Merciai era una lunga sequenza di negozietti storici che subito dopo il Ponte Vecchio, svoltando a sinistra, portava agli Uffizi. Già quella vietta in sé era una piccola opera d’arte grazie a tutte quelle vetrine mantenute di generazione in generazione, in seno a famiglie che con pazienza avevano dedicato le proprie giornate ad un mestiere. Persone che quando parlano del proprio lavoro non dicono, ad esempio, ‘io faccio’ l’orologiaio, ma ‘io sono’ un orologiaio. Quella differenza tra fare ed essere è un abito di nozioni in più e modi migliori che solo la vocazione per un mestiere ti cuce addosso come un vestito fatto su misura, differenziandoti da quei ruoli lavorativi tutti uguali, come l’abbigliamento fatto in serie che ti provi in un attimo e te lo infili addosso. Il signor Guido Degli innocenti era un orologiaio e gioielliere, figlio e nipote d’arte. Duccio entrò nel suo negozio che vantava una piccola vetrina tenuta perfettamente in un equilibrio di esposizione che permetteva di avvicinarsi a tutti. Rimanendo nell’ambito degli anelli di fidanzamento era invitante sia per chi era ricco e voleva fare il regalo della vita spendendoci una fortuna, che per chi aveva meno soldi e voleva un regalo di fortuna ma per spenderci la vita lo stesso. Duccio stava per entrare in quel negozio sperando di uscire con la soluzione in tasca, in risposta ad un suo dubbio, e come varcò la soglia e la vetrina blindata, lo sguardo di Guido Degli Innocenti s’illuminò, acceso dal buon gusto con cui il nuovo venuto era vestito e da quell’evanescenza di nobiltà che ti rimane addosso anche quando decidi di fare una vita lontano dagli agi, che pochi capiscono. E infatti Duccio non si stupì che come tirò fuori il distintivo l’uomo fece tanto d’occhi, neanche gli avessero ammaccato la carrozzeria nuova. “Buona sera, so’ Duccio Cortese, commissario di polizia e so’ venuto per farle delle domande.” “Io conoscevo un Duccio Cortese qui a Firenze, era i’ figliolo di du’ miei conoscenti che ora la un ci so’ più. L’ultima volta che l’ho visto gl’era un bimbo.” “Mi perdonerà se un mi ricordo di lei.” “Che mi venga un colpo. Potrei ben capirlo, ma quello che comprendo meno è la scelta di fa’ i’ poliziotto. Con tutte l possibilità che tu c’avevi.” “Sa, quando uno ha passione pe’ un mestiere, un c’è verso di sfuggi’ a i’ proprio destino.” “La conosco perfettamente codesta storia, per me è stato uguale anche se quasi tutti credono che io abbia ereditato negozio e mestiere e me li so’ fatti anda’ bene.” Dopo una piccola pausa aggiunse: “Credo che lei sia qui per la morte de i’ ragazzo della mi’ nipote, Dalia Degli Innocenti.” “Esatto. Avevo notato che portate lo stesso cognome, ma un sapevo quale grado di parentela vi legasse.” “Dalia è la figlia di mia sorella e, anche se un la vedo molto spesso, per me è quasi come ‘na figlia. Soprattutto da quando i’ su’ babbo gl’è morto.” “È molto che un la sente?”

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“No, l’ho chiamata il giorno stesso che i’ suo fidanzato è stato qui a scegliere l’anello di fidanzamento. Sa, mia nipote è una persona molto emotiva e poi la mi sento addosso ‘na certa responsabilità ne’ su’ confronti. Un volevo che reagisse male quando avrebbe visto l’anello.” “Perché avrebbe dovuto? Di solito le donne reagiscono benone di fronte a certi gingilli.” “Sì, ma se lo faccia dire da uno che è de i’ mestiere: le donne sono molto permalose e si offendono se si accorgono che chi le ama le vede meglio di quello che so’ in realtà. È come se avessero i’ dubbio d’un esse’ all’altezza delle loro aspettative.” Se Duccio non avesse visto prima l’anello e poi la ragazza, difficilmente avrebbe capito quella frase sibillina e invece uscito di lì si sentì vittorioso per aver ottenuto un’informazione che difficilmente il gioielliere avrebbe mai ammesso di essersi lasciato carpire. Tornò dove era stato poche ore prima e con una scusa qualunque convinse quella persona ad allontanarsi per un momento, giusto il tempo di recuperare quello che stava per sfuggirgli. Un’oretta dopo, di fronte a Dante Sigliani, Duccio tirò fuori quello che aveva sottratto fraudolentemente e si prese il rimbrotto dell’amico. “Duccio, ì’cchè tu se’ grullo? Tu c’avevi bisogno d’un mandato.” “Tu me l’avresti procurato pe’ domani e sarebbe stato troppo tardi, perché la società di raccolta de’ rifiuti la passa stasera e la si sarebbe portata via l’unica prova su cui potevamo spera’.” “Fo’ analizza’ subito questo reperto e ti fo’ sape’ se tu c’ha ragione. Ti confesso che la cosa un mi stupirebbe.” “Grazie. Stasera raggiungimi a casa di Simona pe’ l’otto.” La conferma gli arrivò per le sette e mentre si stava dirigendo a sua volta verso casa De Rubinelli, Duccio non osò pensare a che razza di shock avrebbe avuto la sua Simona, quando si sarebbe resa conto che l’amico non era riuscito nel suo intento di evitarle quel grande dolore. Alle otto, nel salotto della grande casa erano seduti oltre a lui e a Dante Sigliani: Simona, Dalia, Matteo e la domestica di casa loro. Duccio decise di cominciare entrando subito nel vivo della questione. “Quando giunsi qui stamani mi resi subito conto che la prima cosa importante e difficile da stabili’ era se Dario fosse morto mentre si dirigeva casa della su’ fidanza, cosa che la presenza dell’anello ancora nelle su’ tasche indurrebbe a pensa’, o mentre tornava indietro e se lo portava via.” Il silenzio che Duccio fece prima di riprendere era interrotto solo dai respiri ansiosi dei presenti. “La seconda cosa rilevante gl’era capi’ chi conoscesse così bene Matteo da sape’, oltre a quale avrebbe potuto essere un eventuale movente, anche i’ fatto che facesse uso di sonniferi. Qualche minuto fa Teresa m’ha confermato che Dalia è venuta in questa casa i’ giorno ch’è morto Dario, cosa che Simona ha omesso di raccontarmi.” “La un mi sembrava un aspetto così importante.” 13


“I’cchè sia importante in un’indagine lo decido io.” “Io ero passata solamente a prendere de’ libri ch’avevo prestato a Matteo.” “Perché? Aveva paura che in futuro le sarebbero mancate le occasioni? O perché voleva prendere anche una manciata de’ su’ tranquillanti?” Nel silenzio che seguì, Duccio si avvicinò a Dante Sigliani e si fece dare la scatolina contenente l’anello della discordia. In quel lasso di tempo Dalia replicò alle sue allusioni: “Per quale motivo avrei dovuto ucciderlo?” “Mi faccia la cortesia d’infilarsi questo anello.” “Un le sembra di cattivo gusto?” “E a lei un sembra della misura sbagliata? O forse l’ha di già avvertita i’ su’ zio in merito, con quella telefonata ch’è costata la vita a i’ figliolo della mi’ migliore amica?” Simona afferrò i braccioli della sedia e spostò lentamente lo sguardo da Duccio a Dalia. Il commissario di Colle le prese la mano sinistra che la ragazza non ebbe il coraggio di ritirare, e le infilò l’anello all’anulare, ma si fermò crudelmente prima della nocca. “Presumo che su’ zio, in quella fatidica telefonata, deve aver cercato di rassicurarla dicendole che l’anello si sarebbe potuto cambiare, nel caso che un fosse stato della misura corretta. E per lei quella telefonata è bastata per consolidare altri suoi personali dubbi e farle capire che l’anello un fosse destinato a lei.” Duccio si fermò. Non che sperasse che quella ragazza crollasse sotto il peso delle accuse, ma quanto meno che abbassasse lo sguardo: macché. “Come lei stessa ha dichiarato, Dario l’ha chiamata quella mattina, ma non certo per chiederle di prepara’ ‘na cenetta intima per due. Tant’è vero che un ci so’ i resti d’una cena non consumata nella su’ pattumiera, bensì c’erano delle ciliege gettate ancora intere. Mi so’ premurato di prelevarle personalmente oggi quando son tornato a casa sua. Avevo notato un cesto di ciliegie in mezzo a i’ tavolo della su’ cucina la prima volta ch’ero venuto e m’era sembrato strano, visto che lei sta seguendo una dieta che un ne prevede i’ consumo.” “Dario un mangia mai frutta.” Simona intervenne come un automa, in difesa della ragazza e usando ancora il presente indicativo per indicare un’azione che non si sarebbe mai più svolta se non nei suoi ricordi. “Le ciliegie gl’erano solo ‘na guarnizione, vero? So’ la risposta alla domanda che più d’ogni altra mi tormentava: come ha fatto quel benedetto ragazzo a un accorgersi che stesse ingerendo ‘na dose di barbiturici così massiccia da ucciderlo? Il fatto che abbia anche fatto un incidente è secondario. Lui sarebbe morto lo stesso, nella mente dell’assassino il tutto sarebbe dovuto succedere tra le braccia della su’ futura fidanzata.” “Dalia voleva che gli morisse in collo?” Simona non riusciva a seguire il filo dei ragionamenti.

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“No. Stiamo parlando di un’altra ragazza che ha un nome a voi noto, ma un c’interessa, perché la su’ partecipazione in tutta questa faccenda sarà solo quella di portarsi dentro il lutto.” “Ecco perché m’aveva detto che si sarebbe ‘fidanzato con sorpresa’!” Gli occhi degli astanti, dopo aver ascoltato Matteo, si guardarono in giro per cercare un altro elemento femminile in tutta quella vicenda. Ucciderlo è stato semplice come offrirgli un cocktail, aggiungendoci de’ ghiaccioli decorati con una ciliegia congelata ne i’ mezzo e lasciarlo parla’ facendo in modo che sorseggiasse la su’ bevanda poco per volta. Il ghiaccio composto da acqua e barbiturici si sarebbe sciolto lentamente, rilasciando il caratteristico sapore amaro di quei medicinali solo in modo appena percettibile e per tutto il tempo in cui sarebbe durata la bevanda.” Nel silenzio che seguì, Dalia sembrava rimpicciolirsi sempre più. “È presumibile che i ghiaccioli avanzati siano stati gettati via, ma le ciliegie che ho recuperato portano ancora traccia del tranquillante in quantità sufficiente da risali’ a quale ne sia stata la concentrazione all’interno di que’ ghiaccioli.” Simona non guardava più nessuno, stava seduta con gli occhi chiusi. “La conferma di tutto ciò la troviamo ne i’ telefonino di Dario. È controllando quell’oggetto che m’è sorto i’ dubbio che Dario sia morto dopo aver visto Dalia e non prima. Le uniche chiamate che ci abbiamo trovato a partire dalle nove di sera, orario in cui Dario è uscito di casa, risalgono alle tre del mattino e sono quelle partite da i’ telefonino della su’ mamma che, un vedendolo rincasare, lo chiamava perché cominciava a preoccuparsi. E quando ho visto che un c’erano telefonate da parte della fidanzata un ho avuto dubbi su i’ fatto che un ci fosse nessuna cenetta ad attenderlo, con relativa fidanzata preoccupata o arrabbiata pe’ il ritardo. Se lui fosse morto prima d’arriva’ a casa di Dalia, lei lo avrebbe certamente cercato impensierita dal ritardo. E, in questo caso, il dubbio che fosse stato i su’ fratello a offrirgli il cocktail letale sarebbe stato plausibile. Invece le chiamate un ci so’ e quell’anello sarebbe dovuto arrivare ad una ragazza da cui lui aveva intenzione di dirigersi, dopo ave’ incontrato Dalia e averla lasciata per sempre.” “Chi l’è la seconda ragazza.” “Capire dove cercarla è stato facile. Dove passava le su’ giornate, Dario? Casa e ufficio. È stato proprio lì dove ho trovato l’anulare giusto per quel cerchietto.” “T’ho voluto bene come a ‘na figlia.” Simona aveva usato l’imperfetto indicativo e questo significava che almeno quella ragazza, in qualche modo, sarebbe riuscita a seppellirla. Lo so. È per questo che in parte mi sembra d’ave’ fallito: speravo di risparmiarti questo genere di dolore.

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