La centoquaranta

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Maggio 2013 LA CENTOQUARANTA

Quella mattina primaverile il sole prometteva una giornata quasi estiva e Duccio decise di mettessi i blu jeans con la polo di fuori. Come piace alle donne. Il profumo dei pini marittimi lo raggiunse dentro la sua cucina, mentre si preparava un caffè con la cuccuma che il suo amico Ciro o’ sceriff gli aveva regalato per il suo quarantesimo compleanno. Ciro veniva chiamato o’sceriff perché spesso si sostituiva alle forze dell’ordine, nella sua Ischia, luogo dove gli unici a rivolgersi alla polizia sono i turisti. Quando il suo amico voleva fare una buona impressione e sembrare un po’ meno brindellone, si sforzava di parlare un italiano che era una sorta di traduzione simultanea napoletano – italiano, da cui nascevano delle espressioni del tipo ‘mi metto vergogna’, tratto dal napoletano ‘mi metto scuorno’. Duccio l’aveva conosciuto una sera mentre, uscito dal ristorante sul mare ‘Il pescatore’, si stava dirigendo a piedi verso il suo albergo che distava un paio di chilometri. Dopo un centinaio di metri s’accorse d’esser seguito da un motociclista senza casco, che essendo così a viso scoperto era chiaro che non avesse intenzioni cattive e allora decise di fermarsi e attendere che il centauro lo raggiungesse. “Buona sera. Lei la mi sta seguendo. Se è pe’ i’ il portafoglio, guardi che un ci tengo nulla.” “Caro signore, io la segui sì. E per il portafoglio, pure. Ma non per rubbarglielo, ma per farle da scorta. Se lei si mette a camminare a piedi da solo, tutto elegante acchussì, lei cerca rogne.” “Allora la ringrazio. A chi devo il privilegio d’avere una scorta privata?” Il ragazzo, che sarà stato sulla ventina, gli fece un sorriso furbo: “Piacere, sono Ciro. Ciro, o’sceriff.” “Il perché ti chiamino o’sceriff, si capisce bene.” “Lei è toscano vero? Si sente dall’accento.” “Sì, vengo da Castiglioncello, ma so’ nato a Firenze.” Duccio, mosso da un guizzo di sesto senso che gli fece intravedere nell’incontro con quel ragazzo una notevole botta di fortuna, aggiunse: “Sciro o’sceriff, posso offrirti da bere?” “Signo’, quando sono in servizio non bevo mai.” “Perché, non tu vorra’ mica dirmi che un è la prima volta che tu accompagni qualcheduno per fargli da angelo custode?” Dotto’, me capitò quasi tutte e’ sere. Ma devo dire che è la prima volta che qualcuno se ne accorge. Si vede ch’avete uocchie ch’arraggiunate. Che fatic fate?” 2


“Un ho capito. I’cchè tu vo’ sape’?” “Che lavoro fate?” “Pallette, allora tu vo’ proprio fa’ l’ore piccole, perché se principio a spiega’ i’ che fo’ nella vita arriviamo a domattina.” “E vabbè. Allora andiamo a berci qualcosa. Salite sulla moto.” “E i’ casco?” “Ah, dotto’.” “Ciccio, basta che al un ci fermi la polizia.” “La polizia? Quando mai. Ischia mo’ tene pure a’ polizia?” Qualche bicchierino e molte chiacchiere dopo Duccio capì che quel ragazzo dal lavoro indefinito era sì, buono come il pane, ma non uno sprovveduto. Come il ‘ciuco’ che si magia dalle sue parti: croccante fuori e non troppo molle dentro. Il giorno dopo si trovarono per una pizza, che non ci fu verso d’offrirgli, e da lì l’amicizia con Ciro crebbe grazie ai fine settimana che Duccio passava a Ischia ospite di sua mamma, perché prenotare un hotel sarebbe stato un affronto. E lui per sdebitarsi, lo invitava spesso a Castiglioncello, e ogni viaggio dalla Campania alla Toscana era un anda e rianda d’arte culinaria da competere con i container di beni alimentari che partono per il terzo mondo. Erano passati sei compleanni da quando Ciro gli aveva regalato quella cuccuma, che lui usava tutte le mattine per farsi il caffè, anche se ciò voleva dire metterci qualche minuto in più; ma da allora i suoi pini marittimi avevano un profumo migliore perché sapevano un po’ anche di Ischia. Ogni tanto lo chiamava per qualche consulto professionale: grazie alla sua esperienza da sceriffo, ne vedeva succedere così tante a Ischia, che solo da lui potevano arrivare certe dritte di quelle che ai suoi colleghi poliziotti non si potevano chiedere. Quando lo chiamava, cominciava a parlare con quel dialetto napoletano che ormai anche Duccio capiva a spizzichi e bocconi. Per tutto quello che non capiva, Ciro si lanciava nelle sue traduzioni simultanee napoletano – italiano da sganasciarsi dal ridere. In quei sei anni il suo amico s’era maritato ed era diventato babbo del piccolo Giuseppe, mentre lui aveva continuato la sua vita da vedovo senza intoppi o grandi emozioni. Duccio s’alzò dal tavolo della cucina e quando ebbe attraversato il portone d’ingresso fu di nuovo investito dagli odori del suo parco che, data la calda giornata primaverile, emersero dal letargo invernale, per fare le prove generali dentro le sue narici. Si sarebbe soffermato un po’, andando fino alla balaustra in pietra per guardare il mare ma, tra ninnoli e nannoli, si erano fatte le nove e allora decise di andare ad aprire la serranda per prendere il suo scooter, originale degli anni ’50. Quel trabiccolo gli costava un occhio della testa in riparazioni, ma per la musica del suo motore, Duccio avrebbe speso quello ed altro. Senza dirlo al meccanico.

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Si infilò il giubbino, l’ascot al collo per non buscarsi un raffreddore, e soprattutto il casco. Perché Castiglioncello, in teoria, dista da Ischia solo cinquecento chilometri; ma in pratica, dal punto di vista dei vigili urbani, è lontana anni luce. Per prima cosa, prima d’andare in commissariato, doveva ritirare la carne dal macellaro, dopodiché doveva andare a fare il biglietto del treno alla stazione, perché due giorni dopo sarebbe andato a Nizza, dal suo amico Vìnsente Mautide, direttore dell’hotel Belle Mer. Il suo nome corretto sarebbe Vincent, con la ‘c’ e senza ‘e’ in fondo, ma lui non riusciva a dirlo bene, se non concentrandosi. E non ne aveva voglia. Vìnsente l’aveva chiamato qualche giorno prima per chiedergli se avesse qualche giorno di ferie da passare da lui. Gli aveva detto di aver bisogno della sua esperienza di poliziotto. E siccome Duccio lo conosceva bene e sapeva ch’era un uomo molto discreto, quando aveva chiuso la chiamata era andato a controllare come fosse messo a ferie. Ne aveva un monte, ma essendo un commissario di polizia, prima di decidere si era confrontato anche con il vice questore, il quale gli aveva detto che non c’erano problemi, ma che per più di quattro giorni non poteva assentassi. Boia deh! Ma i’cche devono succedere tutte ora. Era mercoledì 26 aprile quando Duccio arrivò a Nizza, dopo essere stato per quattr’ore seduto comodamente a leggere il giornale on line, che alcune testate giornalistiche pubblicavano gratis sul computer. Voleva capire se ci fossero dei fatti di cronaca che avrebbero potuto essere il motivo per cui il suo amico Vinsente avesse così furia di vederlo; ma tranne qualche inevitabile e, purtroppo, troppo frequente tragedia familiare, l’unico articolo interessante faceva riferimento ad una rapina in cui c’era scappato un morto circa due settimane prima, ma il tutto era successo lontano da Nizza, alle porte di Parigi. Mentre s’avvicinava al taxi dette una rinfrescata al suo francese a denti strinti, ringraziò sua nonna per averglielo fatto studiare, e chiese di essere accompagnato all’hotel. Il Belle Mer era un albergo imponente e la sua struttura era resa ancor più appariscente dalla sobrietà architettonica degli altri hotel che lo circondavano. Il breve vialetto che, dalla Promenade des Anglais, conduceva fino all’ingresso, era contornato da un tripudio di fiori e ghiaia multicolore, sapientemente disposta seguendo un ordine cromatico che accompagnava l’occhio dalla strada all’entrata principale, partendo da un bianco luccicante al sole, fino ad arrivare a un bordeaux denso di aspettative che chiudeva l’aiuola in prossimità della passatoia d’ingresso. Vinsente era in piedi accanto a un giovane portaborse e, come se fosse stato suo padre il giorno della laurea del figlio, gli stava spolverando le spalline della giacca, con brevi gesti della mano, controllando che gli cadesse bene addosso. Il sorriso un tantino canzonatorio del ragazzo indicava che la pignoleria di Vinsente era una barzelletta da almanacco anche per i suoi dipendenti. Non appena il taxi rese palese il proprio arrivo con il rumore del suo motore, Vincente sfoderò il suo miglior sorriso, che ormai era una promiscuità di buone

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maniere e convenienza anche quando veniva rivolto ad un amico, e si precipitò ad aprirgli la portiera. La commozione che attraverso il sorriso, troppo usurato dalla consuetudine, non era riuscita a venire a galla, affiorò in due lacrimucce di emozionante trasporto che gli occhi non poterono fare a meno di offrire al nuovo venuto. “Duccio! Mercì, mon ami, per essere corso qui da me.” “Vinsente. Grazie a te per esserti ricordato di me, adesso che tu c’ha bisogno di un amico.” “Hai detto bene. Ho proprio bisogno di qualcuno che mi capisca perché, o sono pazzo io, o è pazzo il resto del mondo.” Il francese che era meno alto di lui, gli parlava guardandolo dal basso con occhi tristi e tenendogli le mani ai lati delle spalle. “Ma lasciamo a dopo i brutti pensieri. Adesso seguimi, ti ho riservato la tua stanza preferita.” “La centoquaranta?” “Lei. Sai che alle volte, quando il lavoro me lo consente, entro lì dentro per bermi un caffè e guardo il panorama da quella finestra che si apre sul paradiso della Còte d’Azur.” “Lo so che in quella stanza tutto è più bello e ti ringrazio per la cortesia di mettermela sempre a disposizione.” “Per te questo ed altro. Anche se questa volta c’è anche un altro motivo per cui ho bisogno che tu alloggi proprio lì. Ma non voglio dirti altro: non sei ancora arrivato e già ti rovescio addosso i miei guai.” Duccio entrò a fianco del suo amico, seguito dal giovane lacchè che aveva preso in carico la sua valigia e, mentre attraversava la meticolosità architettonica dell’arredamento che combinava marmi e lampadari di cristallo come se fosse stata la cosa più semplice dell’universo, incontrò Jean Mussier il socio di minoranza dell’hotel a cui Vinsente, in un momento di difficoltà economica, aveva ceduto una parte dell’hotel Belle Mer. “Bonjour Monsieur Cortese, comment allez-vous?” “Je vais tres bien, merci. Et vous mème?” “Je vais bien aussi. Sono contento che siate qui. Au revoir.” Prima di allontanarsi Duccio si voltò a salutare anche il suo amico Vinsente, gli diede appuntamento per un’oretta dopo e prese posto nell’ascensore che il lacchè gli aveva chiamato e dentro cui lo attendeva ligio con la sua valigia. La centoquaranta era incantevole come sempre. Era la quinta volta che ci soggiornava e a lui sembrava di trovare, tra quella quattro pareti e un bagno, la familiarità con cui si è accolti dalla propria casa al mare. La stanza di per sé non era enorme, neanche sontuosa come le suites con salottino dell’ultimo piano, ma era perfetta per tutto il resto. Il sole ci entrava la mattina, ma non troppo presto, e ne usciva poco prima di mezzogiorno quando cominciava a dare fastidio per il troppo calore. Lo spettacolo del mare e della vita dei turisti era incorniciato da due tigli che regalavano un tocco di privacy al balconcino, senza togliere nulla alla vista. Quei due 5


alberi avevano un secolo e mezzo di storia e i proprietari dell’hotel, quando avevano fatto la costosa ristrutturazione, non se l’erano sentita di abbatterli anche se otticamente rompevano la linea delle palme ordinatamente allineate qualche metro più avanti. Un’ora e una doccia dopo Duccio scese per le scale verso l’ufficio di Vinsente e soprattutto diretto verso la sua nuova avventura. Piccola o grande che sarebbe stata, in ogni caso avrebbe contribuito a fare della sua vita un’odissea. Avrebbe voluto fare due passi nel centro di Nizza, fermarsi a prendere un caffè al Cafè Le Matìn o una giacca nuova da Ubert, ma aveva pochi giorni da mettere a disposizione del suo amico e decise di fermarsi subito nella hall a chiedere di lui. Come si avvicinò alla reception, non ebbe neanche il tempo di dire chi fosse che la ragazza gli chiese cortesemente di seguirlo e lo condusse nell’ufficio di Vinsente. Duccio entrò e porse al suo amico l’immancabile bottiglia di Vin Santo, che sapeva essere sempre un cadeau de bienvenue molto gradito dagli amici. Vinsente prese la bottiglia dalle sue mani con un sorriso meno impomatato del solito. Segno che, con un po’ di allenamento, avrebbe potuto tornare ad essere più naturale e meno rifinito e ritoccato a uso e consumo dei clienti. “Anche io ho un piccolo regalo per te mon ami.” E prese dal frigo bar una bottiglia di Vin de Bellet, un nettare di origine controllata appartenente a quella zona quella Francia e di cui veniva prodotto un numero ridottissimo di bottiglie all’anno. “L’ho ordinato cinque mesi fa, perché so che è uno dei tuoi vini preferiti. Se non ci fossimo incontrati te lo avrei spedito.” “Codest’occhio pe’ i tu’ clienti fa di te un grande albergatore, Vinsente. Un credere che le persone vengano qui solo pe’ i marmi dell’ingresso.” “È il mio mestiere.” “No. Couesto è voler bene alla gente.” “Al mio lavoro ho dedicato tutta la vita e, ti sembrerà strano, ma i miei clienti abituali sono per me come una famiglia. Non solo li servirei, come faccio per mestiere, ma anche li proteggerei da tutto.” Duccio continuò, per togliere l’amico dall’imbarazzo di chi non sa da che parte cominciare: “E’ per questo che tu m’hai cercato? E’ successo qualche cosa a de’ tu’ clienti?” “Noto con piacere che hai già colto il nocciolo della questione: alcuni miei ospiti subiscono dei furti.” “Tutti quelli della centoquaranta?” “Si.” “Mentre sono a i’ mare?” “No. Quando sono a casa loro.” Duccio, che stava guardando il piccolo vortice che il vino ambrato faceva nel bicchiere che lui faceva ondeggiare nelle sue mani, alzò la testa di scatto. “Come, prego?” “I miei clienti della centoquaranta subiscono dei furti in casa loro, a distanza di qualche settimana, dopo esser stati qui da me.” Duccio rimase in silenzio e attese con pazienza che l’amico continuasse. 6


“Non ti preoccupare, non ti ho esposto ad un rischio mettendoti lì a dormire, perché i rapinatori non vanno mai fuori dalla Francia. La cosa grave è che due settimane fa è morto un mio ospite durante una di queste rapine.” “Di quante persone la si parla?” “Otto, con quello della settimana scorsa. Dopo quell’ultimo furto ho deciso di chiamarti.” “Mentre venivo qui in treno ho letto d’una rapina durante la quale gl’è morto il proprietario di casa, ma essendo avvenuto alle porte di Parigi un l’avevo ricollegata a i’ motivo della tu’ chiamata.” “Monsieur Arnaud e sua moglie sono stati miei ospiti a febbraio e, come gli altri sette, hanno dormito nella centoquaranta.” “La polizia ha già teorizzato un nesso tra i furti ed il tuo albergo?” “No. Non solo: ho chiamato le commissaire Guerin ma, oltre al fatto che i furti succedono in zone che non gli competono, lui non ritiene che la cosa sia importante. Secondo lui, nel novero dei furti che ci sono in tutto il territorio nazionale, quelli dei miei clienti sono una casistica irrilevante.” “Povero Guerin! I’ su’ intuito gl’è ancora fermo a’ posti di blocco quando i ladri so’ già inquadrati da i’ fotofinish. Ma torniamo a noi: come tu ha’ fatto ad accorgerti de i’ legame tra la centoquaranta e i furti?” “Me ne sono accorto perché alcuni dei miei clienti, chiamandomi per prenotare le vacanze estive e nel raccontarmi del più e del meno, mi hanno raccontato della loro disavventura di aver avuto i ladri in casa. Il tutto è precipitato quando mi ha telefonato la segretaria di Monsieur Arnaud disdicendo la prenotazione perché il suo principale era morto, ucciso da un colpo d’arma da fuoco durante una rapina avvenuta in casa sua. Ed è stato proprio in quella occasione, quando ho cancellato la prenotazione per la centoquaranta, che ho realizzato che gli ospiti derubati erano stati tutti in quella stanza.” Dopo un attimo di silenzio per riprendere fiato e coraggio, continuò. commissaire Guerin delle mie ipotesi, ma non c’è stato verso. Da lì in poi, ho tenuto sotto controllo i fatti di cronaca a ritroso nei mesi precedenti, ed ho appreso che ci sono stati almeno altri due furti, come se la situazione stesse precipitando.” “A quel punto tu ha’ chiamato me.” Duccio tornò a concentrarsi sul Vin de Bellet che aveva continuato a volteggiare nel suo bicchiere e poi si rivolse di nuovo all’amico: “So’ i tu’ ospiti che ti chiedono espressamente di soggiornare nella centoquaranta, o tu gliela proponi te?” “Me la chiedono loro, perché dal giardino dell’hotel notano che quel balcone ha un ché di speciale con quei due tigli secolari davanti. Io non mi permetterei mai di offrirla, perché ho camere più sontuose ai piani alti e non so mai quanto le persone sappiano rinunciare al lusso per la magia di quella stanza baciata dal sole al momento giusto e con una vista incantevole.” “Tu ha’ già controllato che un ci siano microfoni?” “Sì, è l’unica cosa che Guerin abbia ritenuto importante fare. A proposito: stasera viene a cena con noi perché gli farebbe piacere rivederti.”

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“Fa piacere pur’a me. Ma andiamo avanti con le domande: i’ personale che riassetta quella camera gl’è sempre lo stesso?” “Sì, del primo piano si occupano Marguerite e Adeline. Marguerite, lavora con me da quindici anni e per lei metterei la mano sul fuoco. Adeline non ha molta voglia di lavorare e per questo voglio che stiano sempre assieme, in modo che Marguerite la tenga sott’occhio; ma per il resto mi sembra una ragazza a posto.” “Ok. Ho un’ideuzza che mi gira pe’ i’ capo. Mi daresti i cognomi de’ clienti che han subito de’ furti e il periodo in cui han soggiornato qui?” “Te li fornisco molto volentieri. L’elenco dei nomi l’avevo già stilato e, se mi concedi un minuto, ti aggiungo il periodo di permanenza in hotel.” Dopo pochi minuti Duccio Cortese, commissario di Colle, s’incamminò lungo il corridoio che portava alla sua stanza, salutò Adeline che spingeva il carrello con cui riforniva i frigobar e le toilette di ogni stanza, e si chiuse nella centoquaranta. Come una sfida: lui e quella stanza in un duello. Voglio vede’ se riesco a batterti. Fece lui stesso un’ispezione della stanza e in quel silenzio in cui non si sarebbe sentito volare una mosca, verificò che in effetti non ci fossero cimici, ma si sentì comunque nella tela di un ragno. Un ragno molto abile perché, appena ebbe modo di leggere dai rotocalchi on line tutto quanto fosse possibile sulle rapine, Duccio ebbe modo di farsi l’idea che dovevano essere dei professionisti: non c’erano mai segni di scasso, gli antifurti erano sempre stati abilmente aggirati e c’era scappato un morto perché Monsieur Arnaud, che avrebbe dovuto essere al suo club come tutti i venerdì pomeriggio, aveva cambiato idea all’ultimo momento per via di un litigio con la moglie. Quel pomeriggio la servitù era in libera uscita, la moglie era dalla parrucchiera come suo solito di venerdì e lui non era andato al club; ma qualcosa andò storto perché i ladri furono ingannati dal fatto che il pover’uomo avesse lasciato l’antifurto perimetrale attivo e i ladri, vedendo che l’antifurto era attivato, avevano pensato che la casa fosse libera come da schema di tutti i soliti venerdì. Se avessero trovato l’antifurto disattivato, avrebbero intuito che qualcosa non andava come previsto e probabilmente Monsieur Arnaud sarebbe stato ancora vivo. Due dettagli accomunavano tutti i furti e Duccio intuì che lì stava il bandolo della matassa: innanzitutto i derubati erano stati tutti ospiti della centoquaranta e, secondariamente, le porte di casa loro non erano state scassinate, ma semplicemente aperte. Duccio uscì a fare due passi perché aveva bisogno di concentrarsi e il massimo rendimento del suo cervello l’otteneva quando faceva una passeggiata. S’infilò la giacca color cachi sopra la camicia bianca, si legò un ascot al collo e uscì. Arrivato sulla Promenade des Anglais, si sfilò le scarpe di tela in prossimità di una delle tante scalette che portano alla spiaggia e camminò per un paio d’ore avanti e indietro, con le scarpe tenute con due dita di una mano. Essendo aprile, gli stabilimenti balneari non avevano ancora occupato l’arenile con i loro ombrelloni colorati e le sdraio confortevoli; le mamme e bambini stavano 8


in spiaggia liberi, sparsi qua e là a giocare, come tutto l’armamentario che i piccoli sparpagliano attorno a sé quando decidono di cimentarsi a costruire con la rena qualcosa di traballante. Lui li guardava ma non li vedeva neanche. Pure il suo cervello stava costruendo e anche lui si sentiva insicuro sulle sabbie mobili della non-conoscenza di come fossero avvenuti i fatti. Ma una cosa era certa: c’era un disegno ben preciso dietro quelle rapine e non era solo una questione di agguantare gioielli da case di ricchi signori. Verso sera Duccio rientrò in hotel giusto in tempo per cambiarsi e presentarsi al tavolo di Vinsente e del commissario Guerin. Vinsente portava ancora il completo scuro con cui aveva lavorato tutto il giorno, perché non aveva avuto modo di tornare a casa per cambiarsi, mentre le commissarie si era vestito in modo impeccabile per accogliere il collega italiano. Come lo videro arrivare si alzarono in piedi per salutarlo e, quando ebbero terminato i convenevoli, si sedettero assieme. Duccio gli fece notare che lo trovava veramente in forma, aveva perso qualche chilo, segno che sua moglie Marielle riusciva a imporgli un po’ di disciplina alimentare. I capelli rossi e crespi erano pettinati indietro producendo delle piccole onde che, a causa della calvizie incipiente, erano sempre più rade. Come se il mare di capelli, che un tempo le produceva forti e spumeggianti, cedesse sotto l’influenza della bassa marea data dall’età avanzante, lasciando il cranio sempre più scoperto come succede all’arenile quando l’acqua si ritira. I tre uomini cominciarono a cenare e l’antipasto, composto da un’insalata di pesce e una pissaladiere di erbe, li ascoltò mentre parlavano dei vari crimini che succedono nelle due nazioni limitrofe. Nazionalità a parte, i due commissari erano come colleghi che si passavano informazioni su come il crimine incrementasse le proprie vittime in una nazione piuttosto che nell’altra. Per tutta la cena, Vinsente li ascoltava mentre parlavano del loro lavoro e travolto dalla curiosità, li subissava continuamente di domande, uscendo di tanto in tanto in esclamazioni pronunciate in un francese così stretto da essere incomprensibile per il nostro amico italiano. Il senso di quello che diceva lo si poteva comunque intuire dalla mimica facciale e dalla gestualità delle mani. Solo quando furono al caffè cominciarono a parlare della questione dei furti. Le commissaire Guerin espresse nuovamente il proprio scetticismo sul fatto che l’hotel Belle Mer e la sua stanza numero centoquaranta avessero un ruolo rilevante nei furti che alcuni degli ospiti dell’hotel avevano subito una volta tornati a casa. Del resto molti ospiti della centoquaranta non avevano avuto ladri in casa; mentre molti altri ne avevano subiti e non avevano dormito in quella stanza. “Oui, mon ami Guerin, ma tu devi riconoscere che ci so’ de’ punti in comune a tutti i furti, che mi fanno ragiona’ parecchio.” E qui Duccio riepilogò tutti i punti salienti delle sue riflessioni pomeridiane dicendogli che, secondo lui, era opera di professionisti che avevano preso di mira gli ospiti di una stanza in particolare.

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Il commissario francese non si spostò dalla sua posizione e continuò a dubitare che il tutto fosse così importante da aprirci un caso. “Sai i’cchè ti dico, in aggiunta? “Dimmi, mon ami.” “Duplicano le chiavi di casa degli ospiti e risalgono al loro indirizzo tramite i dati che i clienti devono lasciare in reception, quando si registrano al loro arrivo.” Guerin lo guardò con occhi penetranti. “Ritieni che ci sia qualcuno che collabori dall’interno della struttura?” “Ne sono praticamente certo.” Vinsente, rimasto con la bocca aperta e la tazzina del caffè a mezz’aria, cominciò a sudare e, appoggiata nuovamente la tazzina, tirò fuori il fazzoletto per asciugarsi la fronte. “Oh, mon Dieu! E come farebbero?” “Le prelevano dalle camere dove l’ospiti le lasciano, chiuse in cassaforte, quando escono per anda’ a farsi ‘na girata. Pensateci bene: chi, ospite d’un albergo, va a i’ mare portandosi dietro le chiavi di casa? Un le lasciamo tutti nella cassaforte della camera?” Duccio ritenne opportuno chetarsi un momento dopo aver visto il suo amico pericolosamente sull’orlo di uno svenimento. Quando riprese, ammise: “E’ un’ipotesi azzardata ma un riesco a giustifica’ diversamente che un ci sia mai un segno di scasso. Riescono a fa’ tutto in poco tempo: prelevano le chiavi, le duplicano e le rimettono a i’ loro posto nell’arco d’un paio d’ore a i’ massimo, ma anche meno. Tra l’altro, svaligiano gli appartamenti quando i proprietari so’ fòri e i’ personale ha i’ giorno di libertà; segno inequivocabile che le vittime son tenute d’occhio.” “Duccio, se riesci a dimostrarmi in che modo qualcuno che non sia Marguerite o Adeline, sia venuto in possesso delle chiavi, ti metto a disposizione un paio dei miei uomini per aiutarti.” “Tutto sta nel capire in cosa sia diversa la centoquaranta.” “In che senso intendi ‘diversa’. L’ho fatta arredare come tutte le altre.” Vinsente, ancora di un colore grigiognolo, guardava il suo amico con una preghiera negli occhi che chiedeva di dirgli che non fosse vero. Non poteva succedere proprio nel suo albergo. “Intendo di’ che pe’ i nostri ladri quella camera rappresenta qualche cosa di particolare … ma ancora un m’è chiaro i’ loro disegno.” “Senti, collega italiano, secondo me dovresti smetterla di pensare ai disegni, non sei mica un architetto.” “Eppure, collega francese, qualcuno ha architettato un bel piano.” Dopo una serie di battute finali si salutarono con la promessa da parte di Duccio, che qualcosa sarebbe stato in grado di tirar fuori. Non riuscendo a prender sonno, verso l’una di notte Duccio girava ancora per la sua stanza in pantofole ed essendo una serata abbastanza calda, decise di uscire nel terrazzo. 10


Come a teatro ci sono i cambi di scena e un sistema di fili tira giù uno sfondo e lo sostituisce con un altro per accompagnare lo svolgersi dell’opera sul palco, anche lì l’incanto dell’azzurro del mare aveva lasciato la scena alla mezzaluna delle luci dei lampioni che, accompagnando la Promenade des Anglais, formava un semicerchio lungo la costa che meritava il viaggio di arrivare fin lì anche solo per pochi giorni. Duccio ricominciò a ragionare su quello di cui aveva discusso durante la cena con le commissaire. In che gl’è diversa la 140? Stessa dimensione di tutte le altre stanze di quel piano e stessa ubicazione della toilette e dei mobili. Uscì fuori e anche lì controllò nuovamente che l’arredamento esterno e il balconcino fossero identici a quelli limitrofi delle altre camere. Nessun microfono ascoltava e nessuna videocamera spiava. Eppure quella stanza attirava l’attenzione malevola di qualcuno. Seduto con una coscia sul parapetto, allungò una mano per afferrare una foglia del tiglio i cui rami, se non fossero stati potati regolarmente, si sarebbero allargati anche dentro il balconcino. Strappò la foglia e cominciò a mangiucchiarne un angolino, vizio che gli era rimasto sin da quando era un bambino. Prima o poi mi busco un’intossicazione, ma me lo ripetono ormai da quarant’anni. Rientrò di due passi dentro la camera e poi si voltò di scatto. Ecco in cosa era diversa la centoquaranta: era l’unica che avesse un albero sotto il balcone! Vorticosamente preso da una nuova teoria, Duccio cominciò a fare ipotesi: fermo restando che il ladro accedesse alla camera per impossessarsi delle chiavi dei clienti usando l’albero per arrivare fino al balconcino, ma per entrare come farebbe? Duccio verificò che la finestra chiudesse bene e così era; inoltre non c’era possibilità che venisse lasciata aperta durante il giorno perché i clienti la serrano per il freddo invernale e anche per il caldo estivo, preferendo accendere l’aria condizionata. Duccio si allungò con la testa fuori dalla balaustra del balcone, ma non riuscì a scorgere nessun segno sui rami, per via del buio della notte. A quello ci avrebbe pensato la mattina successiva. Rientrando notò che la portafinestra aveva dei graffi sulla parte esterna, ma solo superficiali e assolutamente non in grado di produrre uno scassinamento. Il meccanismo che muoveva la vetrata era di quelli a scorrimento orizzontale: un pannello rimaneva fermo e l’altro scivolava sopra la metà fissa, spinta con un semplice gesto della mano. Non c’erano maniglie, ma solo un tassello verticale, perfettamente mimetizzato nello stipite per dare un ché di continuità all’intelaiatura. Mancando una maniglia, per i clienti sarebbe stato praticamente impossibile accorgersi che la finestra fosse aperta. Con ogni probabilità, chi si premurava di lasciare la finestra aperta, quasi certamente veniva avvertito dal complice di passare a richiuderla non appena quest’ultimo aveva finito il lavoretto di prelevare dalla cassaforte le chiavi di casa degli ospiti, accedendo alla stanza salendo e scendendo dal tiglio. In quel lasso di

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tempo, se anche gli ospiti fossero tornati in stanza non si sarebbero accorti se la finestra era stata lasciata aperta. Ma chi collabora dall’interno? Una volta risposta a questa domanda, trovare il complice esterno sarebbe stato un attimo. Le uniche due persone che si aggirano indisturbate per quel piano sono le due cameriere che, secondo quanto detto da Vinsente, erano brave persone e andavano in giro sempre assieme, in teoria. Ma in pratica il giorno prima lui aveva trovato in giro Adeline da sola con il carrello per rifornire le camere. E, del resto, la cosa in sé non generava sospetti perché era normale trovare una cameriera in giro per il piano delle camere. Ma il suo subconscio lo pungolava, sapeva che non gli avrebbe permesso di addormentarsi, e la domanda che lo assillava era: perché fare tutto ciò per far entrare qualcuno dall’esterno, quando poteva far tutto da solo chi operava dall’interno? Come aveva già accennato a Vinsente e al commissario Guerin, gli ospiti avevano sicuramente lasciato le chiavi di casa e i loro valori dentro la piccola cassaforte posta in basso nell’armadio e, come lui, la combinazione di apertura e chiusura se l’erano inventata, seguendo le indicazioni che riguardavano il meccanismo di funzionamento. E, osservando bene lo sportello, in effetti si potevano notare dei segni di scasso: lievi graffi tra lo sportello e la battuta di chiusura. Troppo bischero! Era evidente che non erano stati quei tentativi di forzatura ad aprire la cassaforte; quello era un evidente tentativo di depistarlo. Quella cassaforte era stata aperta almeno otto volte in modo fraudolento; altro che due graffietti, avrebbero dovuto esserci! C’era qualcosa in tutto quell’organizzazione che non lo convinceva e lo teneva ancora sveglio a quell’ora di notte. Se il ladro si faceva addirittura lasciar aperta la finestra, perché non si faceva aiutare anche per aprire la cassaforte? Lo sanno tutti che questi marchingegni con le combinazioni numeriche possono essere aperte da chi è in possesso di un codice passepartout che viene utile quando, ad esempio, i clienti si dimenticano la combinazione inventata ed hanno chiuso dentro i valori e i documenti. Sì, il nocciolo della questione sta’ qui: perché farsi aiuta’ ma solo fino a un certo punto? Già che c’era, il complice che lavorava dall’interno un poteva fa’ tutto da solo? Un’ora dopo finalmente Duccio riuscì a prendere sonno, ma con il dubbio che qualcuno volesse mandarlo fuori strada, come se volessero imbeccargli una ghiotta soluzione. Il giorno successivo si sarebbe fatto una chiacchierata con le due cameriere che operavano al primo piano, per capire qualcosa di quelle due donne, come per esempio se avessero bisogno di soldi. Nel caso di Marguerite era più probabile che fosse un figlio a metterla nella condizione di doverlo aiutare.

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Il mattino lo svegliò con il bagliore dei raggi del sole che entravano dalla finestra e andavano a solleticargli il viso insistendo sulle sue palpebre. Monelli! Dopo aver provato a fare un po’ di resistenza, il nostro commissario di Colli si alzò deciso ad andare fino in fondo a quella questione anche da solo, se necessario, nel caso che le commissaire non si convincesse che valesse la pena iniziare un’indagine. Nel dubbio decise di portarsi appresso le chiavi di casa. Un commissario di polizia un è un uomo ricco al punto d’ave’ la casa piena di ninnoli preziosi. E se avessero intuito che faccio questo lavoro pe’ passione e non per necessità? Un si sa mai che, vedendomi così raffinato e avendo già il mio indirizzo, ritengano che valga la pena anda’ oltralpe per vedere i’cchè tengo in casa mia. Dopo aver fatto una lauta colazione, Duccio si diresse in prossimità dei due tigli e si dedicò in particolare all’analisi di quello i cui rami finivano quasi fin dentro il balconcino. In effetti, presentava segni di scalata: graffi profondi, la corteccia era sbertucciata in più punti e addirittura un ramo di quelli più alti e sottili, era spezzato a metà e le sue foglie cominciavano a penzolare verso il basso, per mancanza di linfa. Segno che era stato spezzato da poco tempo. Tutto parecchio chiaro. Troppo. Ricapitolando: una persona scala un albero, accede nella stanza facendosi aprire la finestra, apre la cassaforte grazie al codice passepartout che si è fatto dare, e non scassinandolo come vorrebbero far credere, e per ultima cosa ridiscende dall’albero per scappare. Il tutto viene compiuto durante il giorno, con il rischio di farsi vedere per ben due volte sopra le fresche frasche. Se il problema era, per chi collaborava dall’interno dell’hotel, fare una copia delle chiavi in poco tempo, senza doverle tener rimpiattate in tasca troppo a lungo aspettando di poter uscire dall’hotel, non sarebbe stato più facile per quel complice prelevarle lui stesso dalla cassaforte, uscire nel terrazzo e lanciarle a qualcuno che aspettava in giardino, senza esporlo al rischio di farsi beccare mentre cercava di raggiungere la stanza salendo o scendendo dal tiglio per ben due volte? Qualcuno che entrava e sottraeva le chiavi c’era davvero, ma non era lui la mente di tutta quella organizzazione. Le regole le dettava chi collaborava dall’interno, facendo il gioco sporco a discapito di chi faceva la parte ‘esterna’. Le due persone che, con più probabilità di altre, potevano essere implicate in tutta quella faccenda in quel momento stavano facendo i mestieri al primo piano, dove si trovava la centoquaranta e Duccio si diresse di nuovo in quella direzione. Trovò per prima Adeline, la quale faceva svolazzare un panno sopra un mobile con la stessa convinzione con cui avrebbe agitato un ventaglio in un giorno di tramontana. La giovane ragazza francese era ben truccata, pettinata con classe e addirittura aveva le unghie in perfetto ordine. Se non fosse stato per la divisa che aveva indosso e per la foga con cui masticava un chewing gum, si sarebbe potuta confondere per un’ospite di gran classe.

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Dalle risposte che gli dette, non sembrava avesse problemi economici, non aveva un fidanzato in quel periodo e non aveva notato nulla d’interessante riguardo al comportamento della collega. Quando Duccio cambiò stanza e si trovò di fronte Marguerite capì chi si dovesse ringraziare per l’ordine e la pulizia delle stanze di quel piano. Lei era davvero una cameriera, una di quelle che ti strappa la mancia senza chiedertela. Così, perché se la merita e basta. Quando si accorse di lui, era piegata a raccogliere un fazzoletto di carta che si era infilato sotto il letto. Sulla cinquantina e lievemente in sovrappeso, fece fatica a rialzarsi ma riuscì ugualmente a dedicargli un sorriso. Il viso era coperto da una patina di sudore e qualche ciocca di capelli bruni sfuggiva qua e là dal goffo chignon self-made, che spuntava da sotto il cappellino. Probabilmente era costretta a farselo per contratto, ma non aveva la manualità di una parrucchiera e il risultato doveva aver strappato più di un sorriso nel corso degli anni. La divisa, che doveva esser stata perfetta un’ora prima, era stazzonata e testimoniava il fatto che, chi la indossava, lavorasse sodo. Duccio aveva un naso da tartufo per capire le persone e, a quella donna, le sue chiavi di casa gliele avrebbe affidate senza problemi; anzi le avrebbe considerate più al sicuro in mano sua che nella tasca dei suoi pantaloni. Parlò di sé stessa, e raccontò del figlio impiegato in banca e già sposato con una ragazza che faceva l’architetto. Problemi economici non ne avevano né lei, né il figlio. Suo marito lavorava come giardiniere per dei signori che avevano una residenza dalle parti di Antibes. Adeline? Lavorava poco, parlava molto con i clienti e la sera si faceva venire a prendere sempre dallo stesso ragazzo. Da quanto? Da sei mesi circa. Erano fidanzati? Sì, secondo lei lo erano o, almeno, si atteggiavano a tali. Con che macchina arrivava? Un’utilitaria. “Sì che mi ricordo come si chiama: Simon Feuille.” “Che Dio ti benedica, Marguerite. Vieni con me nella centoquaranta per favore, perché avrei bisogno di un occhio attento come il tuo.” Duccio condusse la cameriera nella sua stanza, chiuse la porta alle sue spalle e le chiese: “Ieri e oggi ti sei occupata tu di questa stanza?” “No, l’ha voluta fare Adeline.” Il commissario le indicò i graffi sulla portafinestra e sulla cassaforte: “C’erano già due giorni fa, quando hai pulito questa stanza?” “Assolutamente no. Me ne ricorderei.” “Grazie mille per l’aiuto e scusami per il disturbo.” “Grazie a lei.” Duccio lasciò Marguerite in modo che potesse continuare a prendersi cura dell’hotel. Adeline, la lasciò alla cura di sé stessa. Come arrivò al piano terra chiamò le commissaire e gli chiese di fare una piccola ricerca su quel Simon Feuille, per sapere se avesse dei precedenti per scasso e furto. 14


La risposta non si fece attendere e dopo pochi minuti Duccio venne informato che il ragazzo, incensurato, faceva una vita tranquilla tutta casa e bottega. E a lui parve un tantino strano che quella Adeline, ragazza più sofistica che sofisticata, uscisse assieme ad un bravo ragazzo senza particolari ambizioni. Con che macchina andava a prenderla? Ah sì: un’utilitaria. Figuriamoci! Duccio decise che quella sera stessa si sarebbe fatto prestare la macchina da Vinsente per seguirli e capirci qualcosa in più. Lo raggiunse che era alla reception a dare ordini alla ricezionista. “Vinsente, per favore, stasera tu mi presti la macchina? Un dovrei fa’ troppo tardi.” “Oui, mon ami. Chiamo Jean per sapere a che ora torna, perché in questo momento ce l’ha lui.” “Non ha una sua macchina?” “Sì, ma dice che consuma troppo; perciò, quando deve andare a fare i viaggi di rappresentanza in giro per la Francia, come oggi, preferisce usare la mia.” La loro macchina procedeva a velocità normale e lui non fece fatica a stargli dietro. Adeline, tolta la divisa, aveva indossato un paio di jeans e una giacca di quelle fatte in serie, che s’indossano sempre nelle mezze stagioni. Era un po’ dimessa e sembrava a disagio in quei vestiti, come se non fosse abituata ad andare in giro vestita come una comune mortale. Andarono a mangiare in un fast food, dove Adeline sembrava un pesce fuor d’acqua e annoiata dalla presenza di quel tipo, nonostante qualche moina ad uso e consumo degli spettatori. Sì, perché la sensazione che lui stesse assistendo ad una messa in scena, non lo abbandonava. Dopo aver mangiato si diressero a casa di lui. Aveva ragione le commissaire Guerin a dire che il ragazzo era tutto casa e bottega; infatti abitava in una di quelle villette dove al piano superiore c’è l’abitazione e al piano terra il negozio: due vetrine e un’insegna che toglievano ogni dubbio sul lavoro del proprietario. Il fabbro: ossia colui che duplica le chiavi. Ma i’cche mi prendono, pe’ bischero? Quel ragazzo era la famosa pedina che sarebbe stata sacrificata per salvare il re e la regina. Mentre Duccio guidava per far ritorno all’hotel ripensava alla faciloneria con cui il suo amico albergatore si era fatto tirar dentro. Vinsente tu se’ un bischero! Si accostò per fare una telefonata a Guerin: “Commissaire, vai sul sito dell’hotel alla pagina che parla dei proprietari. Prendi la foto di destra e manda qualcuno dei tuoi al casinò di Nizza a chiedere se quello è uno che gioca forte. Poi fammi sapere.” La sua mente ritornò all’amico Vinsente: era sicuro che in quel momento stesse aspettando con ansia il suo ritorno perché Duccio guidava da spericolato e lui si preoccupava facilmente per gli altri. Ma ancora non abbastanza per se stesso. 15


Quando arrivò nell’atrio dell’hotel, prese Vinsente cingendogli le spalle con un braccio e lo condusse ad un tavolino del bar dell’hotel. “Vinsente, ascoltami bene e concentrati prima di darmi delle risposte.” “Dit moi, mon ami. Ou est le problème?” “È stata tua l’idea di chiamarmi?” “Bien sùr!” “Ti ho detto: concentrati! Ripensaci bene e dammi la risposta giusta sennò te le sòno.” Vinsente congiunse le mani davanti a sé e chiuse gli occhi alla ricerca di maggior concentrazione. Passò un minuto in silenzio e poi rialzò lo sguardo, velato da una nuova preoccupazione. I suoi occhi avevano una certa stanchezza in più da sostenere che non dipendeva dal fatto che fosse tardi e che avesse lavorato tutto il giorno. “L’idea è stata mia, ma nei giorni in cui ho intuito che c’era un collegamento tra i furti e la centoquaranta, Jean mi chiedeva spesso di te. Come stavi e chissà se avevi del tempo per fare un salto da noi. Cose così.” “Ho capito. Tu m’ha’ fatto la telefonata, ma l’idea un è stata tutta farina de i’ tu’ sacco.” “Non inizialmente, e infatti io avevo chiamato Guerin. A te ci sarei arrivato comunque, lo sai.” “Il problema per Jean è che i’ loro gioco gl’era troppo sottile per Guerin. Un l’avrebbe capito e infatti così è stato. Adesso lo chiamo a casa sua perché devo fare una lunga chiacchierata con lui e poi lo raggiungiamo lì.” Mezz’ora dopo furono davanti alla porta dell’appartamento del commissaire; la moglie Marielle venne ad aprire con un sorriso sincero e una stretta di mano bella decisa. I suoi modi facevano intendere che la sapeva lunga sul perché di quella visita. “È di là che vi sta aspettando. Vi porto qualcosa da bere.” “Grazie Marielle. Basta che sia alcolico.” Come raggiunsero l’amico in terrazza, lui confermò che Jean Mussier, comproprietario con Vincent Mautide dell’hotel Belle Mer di Nizza, aveva contratto molti debiti ai tavoli da gioco del Casinò de Nice ed era caduto nelle mani di uno strozzino a loro noto per avere dei metodi poco ortodossi per battere cassa. Arrivò Marielle con un cestello del ghiaccio ed una bottiglia di Champagne che emergeva dai cubetti. “Paul Guerin, tu se’ uno che sa vivere.” “Soprattutto so perdere e volevo festeggiare la nuovelle entreprise de mon ami italien.” Con il suo flute in mano, Duccio si accinse a cominciare le sue spiegazioni dei fatti e dei moventi. “Tutto ha origine con Jean Mussier che gioca a i’ casinò e si copre di debiti; è messo alle strette da’ su’ creditori e fa in modo che a i’ mi’ amico Vinsente venga in mente di chiamarmi pe’ indaga’ in forma privata su ‘na serie di furti sospetti che si verificano a discapito di alcuni loro clienti. Le cose sembrano scollegate fra loro, ma un è così. E che cosa mi fa trovare a i’ mi’ arrivo? Un tiglio con de’ segni di scalata, ‘na finestra con l’intelaiatura graffiata ma ancora perfettamente chiudibile e, da 16


ultimo, ‘na cassaforte con de’ segni di scasso ma anch’essa correttamente funzionante. Tradotto in parole povere voleva portarmi alla seguente deduzione: il ladro viene da i’ di’ fòri, la fa un gran casino per arriva’ fino a i’ balconcino e poi l’apre la portafinestra e la cassaforte in un modo che è eclatante che s’è fatto aiutare; sia perché la portafinestra si chiude perfettamente, sia perché quella cassaforte la un si apre con du’ graffietti. E io mi chiedo: come mai il ladro la si fa aiutare solo da un certo punto in poi?” Duccio fece una pausa, guardò a terra e poi alzò di nuovo lo sguardo sui du’ interlocutori. “A me i casi troppo facili la un mi garbano e qui la mi sembrava d’esse’ imboccato come un bimbo piccino, ogni qualvolta cercassi ‘na risposta. Cominciamo a fa’ i nomi. Adeline, bella ragazza, ha ‘na relazione; anzi due, per èsse precisi. La più importante è con Jean Mussier, uomo pieno di debiti ma co’ ‘na posizione sociale di tutto rispetto e la cosa interessa alla nostra Adeline ancora più de’ soldi; la seconda relazione è co’ un bischero di cui a lei un interessa nulla, se non nella misura in cui serve a lei e a Jean per duplica’ le chiavi in fretta e furia e, alla mala parata, come capro espiatorio.” Le commissaire, che cominciava a intuire alcuni passaggi fondamentali, aggiunse: “Notare che scelgono un fabbro, ossia uno che a duplicare un mazzo di chiavi impiega al massimo un paio d’ore, perché ha tutta l’attrezzatura e la manualità che servono.” “Bravo, vedo che tu mi segui. Ma continuiamo: in sostanza icchè avviene? Jean, che è in possesso de i’ passepartout per accedere alle casseforti e potrebbe tranquillamente passarlo alla complice che ha libero accesso a que’ i’ piano, potrebbe prelevare dalle casseforti tutti i mazzi di chiavi che vòle, e invece un lo fa. Lui e Adeline mettono in scena una gran pantomima facendo venire qualcuno da il di fòri. Addirittura scelgono sin dall’inizio l’unica stanza a cui, avendo un albero sotto i’ balcone, la si può accedere così. E io la mi chiedo: perché? Perché quelle benedette chiavi un le lanciano da qualsiasi balcone di quelle stanze ad un complice che fa finta di passa’ pe’ caso ne’ i’ giardino dell’hotel? Perché loro due, che svolgono i ruoli all’interno dell’hotel, un fanno tutto da soli? E qui entra in scena Monsieur Arnaud.” “Ma è morto. E poi era un uomo onestissimo.” Vinsente, che aveva ascoltato in un crescendo di ansia, tutto il monologo di Duccio, difese con veemenza il suo defunto e affezionato cliente. “Vinsente, Monsieur Arnaud un c’ha colpe se non pe’ i’ fatto che, un essendo andato ai’ club quel pomeriggio, gl’è rimasto a casa a farsi ammazza’.” Nel silenzio che seguì, un sospiro di sollievo di Vinsente sottolineò la considerazione che lui provava per ciascuno dei suoi stimatissimi clienti. “Io credo che all’inizio della vicenda, Jean e Adeline facessero quasi tutto da soli: lei parlava co’ clienti facendosi di’ le loro abitudini per pianifica’ bene i furti, prelevava le chiavi dalla cassaforte e le dava all’amante fabbro, mentre Jean aveva un ruolo che vi spiegherò più avanti. L’unica cosa ch’avevano preventivamente studiato, gl’era quella di sceglie’ ‘na camera con accesso esterno, diciamo così, pe’ i motivi che abbiamo già detto e che poi so’ risultati bòni. Infatti hanno deciso di chiedere a i’ 17


loro collaboratore esterno di fa’ non solo la parte de i’ fabbro, ma anche quella di chi entra da il di fòri, per mandarlo in pasto alla polizia non appena la situazione, a causa della morte di Monsieur Arnaud, sarebbe precipitata. E presto sarebbe successo, facendo emergere tutta la questione de’ furti.” Le commissier Guerin annuì e confermò: “Sono d’accordo. Prima o poi sarebbe successo comunque perché il nostro sistema informatico, quando inseriamo i dati relativi ad un crimine, collega i punti in comune che emergono dalle indagini. Nel caso di furti senza scasso una delle domande più frequenti rivolte alle vittime riguarda il dove e quando loro abbiano lasciato le chiavi incustodite, o comunque fuori dalla loro vigilanza come nel caso della cassaforte di un hotel; capisci Vincent, che prima o poi il nome del Belle Mer sarebbe saltato fuori.” Vinsente era ancora perso nella nebbia perché, non essendo un poliziotto, non era abituato a ragionare cercando di prevenire i delinquenti e allora chiese: “Je suis dèsolè, mes amis, ma io non capisco. Chi commetteva i furti?” Le commissaire intervenne: “Farò i controlli del caso, ma credo che gli usurai a cui si era rivolto Jean, avendo capito che da lui non avrebbero più ottenuto soldi, lo abbiano convinto che se lui avesse fornito delle chiavi di appartamenti di lusso, loro avrebbero provveduto a cancellare una parte del suo debito.” “Per cui il fabbro non è il ladro, ma serviva solo a rifare le chiavi?” “E a farsi trovare con tracce di corteccia di tiglio sotto le suole delle scarpe, non appena si fosse scatenato il putiferio.” “Ma voi come avreste fatto ad arrivare fino a lui.” A quel punto Duccio si scambiò un’occhiata molto eloquente con il collega. “Tu ha’ capito, vero Guerin? Il doppio gioco un era solo a discapito di Simon Feuille.” “Oui, mon ami.” Duccio incalzò l’amico albergatore: “A fare il nome di Feuille ci avrebbe pensato Adeline, per esempio facendo un riferimento, non casuale e ben voluto, a i’ fatto che i’ su’ ragazzo riproduceva le chiavi per mestiere. Ma manca ancora un pezzo. Come faceva il fabbro ad aprire la portafinestra e la cassaforte senza forzarla? I du’ furboni me l’hanno fatte trova’ graffiate ma era evidente che si trattava d’un goffo tentativo di depistaggio. Se avessero voluto depistarmi davvero la finestra me l’avrebbero fatta trova’ con la serratura rotta.” “Che cosa vuol dire?” “Vuol dire che volevano far incolpare anche qualcheduno ch’era all’interno; perché senza un aiuto di uno che faceva parte del personale dell’hotel, essendo la serratura della finestra della camera funzionante, Feuille un sarebbe mai entrato.” “Adeline?” “No.” “E chi?” “Vinsente, beata innocenza, chi negli ultimi mesi prestava spesso la macchina a i’ socio, il quale ci girava tutta la Francia pe’ de’ presunti viaggi di rappresentanza e che invece la passava agli usurai per farci le rapine?” “Oh, mon Dieu!” 18


Quando rinvenne, ebbe la forza di chiedere: “Pourquoi?” “Gli usurai, ai quali Jean lasciava usare la tu’ macchina pe’ fa’ i furti, aveano interesse a deruba’ i tu’ clienti, ma Jean e Adeline alla fine di tutta ‘sta faccenda un volevano rimane’ a bocca asciutta. Suppongo che volessero impossessarsi della tu’ parte d’hotel e, considerato ch’avresti passato i’resto de tu’ giorni in galera per via dell’uccisione di Monsieur Arnaud, sarebbe stato molto facile convincerti a vende’ pe’ pochi soldi.” Un tonfo e una voce: “Marielle riportami i sali!” Vìncente era emozionato e, con le consuete lacrime agli occhi, per smorzare l’imbarazzo che le emozioni sempre generano, si girò verso il bancone e prese il solito gadget che dava a tutti clienti in partenza: un quadernetto con il logo dell’hotel e una piccola matita. “Un petit cadeau: per scrivere una pagina nuova della nostra vita.” “Vìncente, tu la smetti di regala’ i’ lapisse? Passa alle gomme, così tu mi fa’ cancella’ i brutti pensieri.” Duccio andò a far colazione da Martino e poi s’incamminò giù per via di Portovecchio, voleva vedere il mare e, una volta raggiunta la passeggiata, il primo che incontrò fu il panettiere che, da buon livornese, non gliele mandò a dire. “O’ Duccio, t’ho tenuto da parte la poppa di monaha pe’ du’ giorni. La tu’ mi devi avvertì se un tu vieni.” “Tu c’ha ragione. Te le compro tutte domani.” “Tu se’ proprio un fiorentino! Lascia perde’ che ti viene i’ diabete.” Il rumore delle onde del libeccio coprì il suono delle loro voci, e accompagnò le loro risate.

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