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Formazione a Distanza Estratto da

EuVision

Numero di Accreditamento Provider: 77 Data di Accreditamento Provvisorio: 22/04/10 (validità: 24 mesi) La Fabiano Group è accreditata dalla Commissione Nazionale a fornire programmi di formazione continua per medici chirurghi con specializzazione in Oftalmologia e Ortottisti/Assistenti in Oftalmologia e si assume la responsabilità per i contenuti, la qualità e la correttezza etica di queste attività ECM. Iniziativa FAD rivolta a Medici Oculisti e Ortottisti/Assistenti in Oftalmologia. Obiettivo formativo: Innovazione tecnologica: valutazione, miglioramento dei processi di gestione delle tecnologie biomediche e dei dispositivi medici. Technology Assessment Modulo didattico n. 1 del percorso formativo “Euvision” (Rif. 77-966) della durata complessiva di 12 ore. Numero di crediti assegnati al programma FAD una volta superato il test di apprendimento: 12

Provider: Fabiano Group S.r.l. - Reg. San Giovanni 40 - 14053 Canelli (AT) Tel. 0141 827827 - Fax 0141 033112 - fad@fabianogroup.com


Indice dei contenuti 4

Luce blu ed apparato visivo - prima parte Pasquale Troiano, Bruno Piccoli

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Luce blu ed apparato visivo - seconda parte Pasquale Troiano, Bruno Piccoli

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Neuroprotezione nel glaucoma: ruolo della citicolina Nicola Pescosolido, Barbara Imperatrice, Claudia Ganino, Monica Autolitano

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Case report: Orbital Rhabdomyosarcoma Gyanendra Lamichhane, Pradeep Bastola, Gulshan Bahadur Shrestha

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Metastasi dell’orbita: revisione della letteratura Paolo Amaddeo, Stefano Fontana, Rolando Ghilardi

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Le fotostimolazioni neurali sono tutte uguali? FSN integrata versus FSN customizzata Paolo Limoli, Laura D’Amato, Filippo Tassi, Roberta Solari, Riccardo Di Corato, Enzo M. Vingolo

44

Case report: Rhino-orbital mucormycosis Garg Pragati, Khanduri Sachin

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Neuroprotezione nel glaucoma: ruolo della acetil-L-carnitina Nicola Pescosolido, Barbara Imperatrice, Claudia Ganino, Monica Autolitano

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Luce blu ed apparato visivo PRIMA PARTE Pasquale Troiano Clinica Oculistica dell’Università di Milano - Fondazione Policlinico di Milano IRCCS

Bruno Piccoli Istituto di Medicina del Lavoro - Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma

ABSTRACT Blue light is a significant factor in causing a damage in the retinal tissue, particularly in the macula. Main source of blue light is the sun, even though progressively more diffuse is in indoor environments the use of lamps emitting in the band of blue. It has been demonstrated that blue light is capable of increasing substantially the visual cycle and consequently the production of Reactive Oxygen Species (ROS), toxic compounds (A2E) and catabolites (lipofuscin). All this leads to the development of drusen, which are considered, according to the literature, an early stage of Agerelated Macular Degeneration (AMD). Young people are the most sensitive subjects (due to the high transmissibility of light by the optical media) and particularly subjects who underwent cataract surgery, where the intraocular lens is not “blue shielded” and retina is less resistant to the high photic damage induced by blue light. For these reasons it would be very useful if light fittings producers provide adequate information on the light spectra emitted by the lamps employed, with specific regards to the work places.

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RIASSUNTO La luce blu rappresenta un rilevante fattore di rischio fototossico in particolare per la macula. La fonte principale di luce blu è il sole, ma sono sempre più diffusi negli ambienti confinati di lavoro, sistemi artificiali di illuminazione che emettono luce blu. La luce blu è, secondo la recente letteratura, sicuramente in grado di accelerare in modo significativo il processo del ciclo visivo, inducendo la produzione di maggiori quantità di sostanze ossidanti (Reactive Oxygen Species, ROS), di sostanze tossiche (A2E) e di cataboliti (lipofuscina). Questo tipo di sollecitazione luminosa della retina porta alla formazione di drusen che sono considerate lo stadio evolutivo iniziale della degenerazione maculare senile (Age-related Macular Degeneration). I soggetti più esposti agli effetti della luce blu sono i soggetti giovani (dove la trasmissione della luce alla retina è ottimale) e, soprattutto, i soggetti operati di cataratta (dove la lente intraoculare impiantata non è sempre in grado di filtrare il blu e la retina è meno resistente alla intensa sollecitazione luminosa indotta dalla luce blu). Per le suddette ragioni sarebbe estremamente utile introdurre l’obbligo per i costruttori di apparecchi illuminanti di allegare un foglio illustrativo sulle caratteristiche di emissione dei diversi apparati, soprattutto per le apparecchiature ad impiego lavorativo. Sull’altro fronte, altrettanto utile sarebbe codificare tutti i tipi di lenti (intraoculari, oftalmiche, a contatto, da sole) in base alle loro capacità di filtrazione delle diverse lunghezze d’onda della radiazione ottica, come del resto avviene, ad esempio, per le creme solari.


Moreover, it would be very helpful to make available the transmittance of the blue wavelengths in all sorts of lenses (intraocular, ophthalmic, contact, etc.), as it is normally done, for instance, with sun creams. The availability of personal samplers, as it is currently done to workers exposed to ionizing radiations, and the implementation of adequate ergophthalmic health surveillance appears to be essential to prevent retinal damage in the operators exposed. KEYWORDS: blue light, macula, phototoxicity, drusen, AMD.

INTRODUZIONE Si definisce “luce blu” la radiazione luminosa compresa tra i 380 ed i 520 nm (Figura 1). A queste lunghezze d’onda ed in determinate condizioni di esposizione, l’occhio può essere soggetto a danni retinici che possono essere di natura termica o fotochimica. Il danno termico è determinato da un aumento significativo della temperatura dell’area retinica irradiata dovuto ad elevati livelli di potenza della radiazione luminosa per tempi d’esposizione anche molto brevi (milionesimi di secondo). Il danno termico è pressoché indipendente dalla lunghezza d’onda della luce ed è raro. Il danno fotochimico, invece, si verifica in assenza di un aumento significativo della temperatura nella zona retinica irradiata, con bassi livelli di potenza della radiazione luminosa anche a seguito di esposizioni di più lunga durata (minuti), ed è fortemente dipendente dalla lunghezza d’onda della luce (massima lesività a 441/442 nm). La dose soglia per la lesione fotochimica è data dal prodotto della potenza per il tempo di esposizione (energia totale assorbita), ed è quindi soggetta al principio di reciprocità. Ne deriva che, ad esempio, la lesione fotochimica blu-indotta può essere conseguenza dell’osservazione di una sorgente ad alta intensità per un tempo breve o di una sorgente meno intensa, per un

In ambito lavorativo la questione si presenta, allo stato attuale delle conoscenze, assai più complessa (bibl lavoro dBA Modena), date le grandi difficoltà che ancora esistono, sia per una misurazione affidabile del “blu” emesso dalle molteplici ed assai diversificate sorgenti luminose artificiali presenti nell’industria e nel terziario, sia per una attendibile rilevazione delle reali condizione di esposizione (tipologia dei compiti lavorativi svolti). È infatti da questi parametri che dipende l’effettiva “dose assorbita” dal lavoratore, la cui quantificazione è assolutamente imprescindibile, in ergoftalmologia, ove si voglia accertare (i) l’esistenza di un rischio di natura occupazionale, oppure (ii) dimostrare l’esistenza di un rapporto di causa-effetto tra le alterazioni retiniche presenti e le condizioni di lavoro che le avrebbero determinate. PAROLE CHIAVE: luce blu, macula, fototossicità, drusen, degenerazione maculare senile (DMS) tempo più lungo. È il valore di dose accumulata il parametro fondamentale in grado di determinare la soglia oltre la quale si produce il danno retinico. Inoltre, le caratteristiche dei soggetti esposti condizionano notevolmente sia la dose di luce blu in grado di raggiungere la retina che gli effetti sulla retina (danni in rapporto alla dose assorbita). La principale sorgente naturale di luce è il Sole. Esistono poi le sorgenti artificiali, vale a dire progettate dall’uomo per i più differenti scopi oltre a quello primario dell’illuminazione. Le diverse sorgenti artificiali possono essere distinte in due tipologie principali: quelle che emettono luce ad alta monocromaticità e coerenza rappresentate dai laser, e quelle a “larga banda” con emissione incoerente che include tutte le restanti. Il nostro interesse è rivolto unicamente alle sorgenti di luce incoerente ed in particolare alle emissioni nella banda inferiore del visibile, nonché ai loro effetti sulla retina. La radiazione ottica proveniente da queste sorgenti artificiali è ampiamente utilizzata in applicazioni industriali, commerciali (solarium), mediche e di ricerca scientifica ed anche abitative. Per queste sorgenti la letteratura internazionale ha sollecitato, nell’ultimo ventennio, l’attenzione di ricercatori e produttori su uno specifico problema, ormai noto come “rischio da luce blu”

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Figura 1. Spettro elettromagnetico totale e frazione del visibile

(Figura 2). Tale denominazione deriva dal tipo di spettro prodotto da alcuni particolari elementi illuminanti, che si mantiene nella regione della banda violetto-blu. L’organo “bersaglio” di questo tipo d’emissione luminosa è l’occhio ed in particolare la macula. Scopo di questo lavoro è analizzare gli effetti a livello retinico indotti dall’esposizione a “luce blu”, nell’obiettivo di evidenziarne i possibili effetti anche in rapporto all’eventuale presenza di ipersuscettibilità individuali.

Figura 2. Esempio di esposizione rischiosa a radiazioni elettromagnetiche ad alta frequenza

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LA RADIAZIONE OTTICA Il comportamento della radiazione ottica è regolato dai fenomeni tipici della meccanica ondulatoria, quali riflessione, diffusione, rifrazione, assorbimento, interferenza, diffrazione, polarizzazione ecc. ma, ai fini dell’interazione con i tessuti biologici, la maggiore rilevanza va attribuita ai primi quattro. Riflessione, diffusione e rifrazione giocano un ruolo importante nella formazione delle condizioni di esposizione: la riflessione della radiazione da parte dei tessuti, ad esempio, può contribuire in modo sostanziale nel ridurne l’assorbimento, mentre un mezzo diffusore (sia esso l’atmosfera o un vetro opalino) posto tra sorgente e tessuto biologico, è in grado di attenuare anche notevolmente l’energia emessa in una determinata direzione. È comunque del tutto evidente che, ai fini dell’effetto biologico, il fenomeno fondamentale è quello legato ai processi di assorbimento di energia che portano a profonde modificazioni nella struttura dei tessuti oculari attraverso interazioni con atomi e molecole. La risposta biologica di questi ultimi è fortemente legata all’energia dei fotoni incidenti. Tali interazioni di tipo fisico possono produrre lesioni a carico del tessuto retinico. È opportuno ricordare che “poten-


zialmente dannose” non sono solo le sorgenti artificiali; anche il sole è responsabile di diverse patologie oftalmiche, in particolare a basse latitudini e nelle sempre più estese aree suscettibili all’influenza del cosiddetto “buco nell’ozono”. La “normale” esposizione alla luce solare non risulta dannosa, sia per effetto dei riflessi spontanei di protezione, che per la collocazione anatomica del globo oculare, il quale risulta protetto dai rilievi osteocutanei orbitali, dalle ciglia e dalle palpebre. Nella Tabella 1 sono riportate le ampiezze delle bande spettrali della radiazione ottica. Nella Tabella 2 sono riportati gli intervalli di lunghezza d’onda che corrispondono indicativamente alla percezione delle principali tonalità cromatiche. Le prime indicazioni sul fatto che la radiazione ottica può comportare un rischio per le strutture oculari si hanno fin dal-

Denominazione della Banda

Ampiezza della Banda

UVA

100 – 280 nm

UVB

280 – 315 nm

UVC

315 – 400 nm

LUCE

400 – 780 nm

IRA

780 – 1400 nm

IRB

1400 – 3000 nm

IRC

3.0 µm – 1 mm

Tabella 1. Bande spettrali della radiazione ottica

Tonalità cromatiche

Lunghezza d’onda in nm

Viola

400 – 425

Indaco

425 – 486

Blu

486 – 493

Blu-verde

493 – 510

Verde

510 – 552

Verde-giallo

552 – 573

Giallo

573 – 587

Arancio

587 – 645

Rosso

645 - 780

Tabella 2. Intervalli di lunghezza d’onda indicativi per le principali tonalità cromatiche

l’antichità, proprio in rapporto alle osservazioni solari. Il più antico riferimento lo si trova già negli annali cinesi risalenti al 2158 a. C. In tempi e luoghi più vicini a noi troviamo Platone che nel Fedone, per bocca di Socrate, avverte come una non corretta osser-vazione del Sole possa danneggiare la funzione visiva. La prima descrizione scritta di un danno retinico da luce viene da Botenus nel 17° secolo1. Il primo lavoro sperimentale sui danni retinici da luce è stato condotto da Czerny nel 1867; il quale utilizzando delle lenti positive focalizzò la luce solare sulla retina di diversi animali2. La prima pubblicazione realmente scientifica giunge alla fine dell’ottocento, grazie a Dufour che studia numerosi casi di cecità osservati nella popo-lazione in relazione all’eclissi di sole del 19 luglio 1879. In seguito, praticamente dopo ogni eclissi solare, trovia-mo riportati in letteratura casi di cecità che trovano una prima sistematizzazione nel lavoro di Verhoeff e Bell del 19163. La scoperta del danno retinico da luce blu è relativamente recente4,5, ed ha consentito di chiarire alcuni aspetti della patogenesi della maculopatia fototossica legata alle procedure di microchirurgia della cataratta, che nel 1995 rese necessario un avvertimento pubblico da parte della Food and Drug Administration statunitense6. Per lungo tempo, infatti, si è creduto che la maculopatia fototossica fosse correlata al danno termico indotto dagli infrarossi, ma gli studi relativi alla conduzione e dissipazione del calore del tessuto retinico, hanno consentito di portare precise e sostanziali critiche a questa teoria. STRUTTURE OCULARI E LUCE BLU La luce blu è un fattore di rischio per la retina anche perché è compresa nello spettro di radiazione visibile per l’occhio umano. La capacità di trasmissione della luce da parte delle strutture oculari sane è molto buona, con un coefficiente di trasmissione complessiva appena al di sotto del 100%. La retina viene raggiunta dalla radiazione ottica con lunghezze d’onda comprese tra 380 e 950 nm. Anche se circa l’80% della radiazione ottica che raggiunge la retina è compresa tra 380 e 780 nm, l’assorbimento da parte della retina della radiazione ottica è massima nell’intervallo di lunghezza d’onda compreso tra 450 e 550 nm. La radiazione ultravioletta ad alta energia (minore di 300 nm) viene totalmente assor-

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Figura 3. Assorbimento percentuale della radiazione ottica inferiore a 360 nm da parte delle diverse strutture oculari (tratto da Luce e UV di B. Piccoli e S. Orsini – Biblioteca della Luce Reggiani, 1998)

bita dalla cornea. Le lunghezze d’onda comprese tra 300 e 360 nm vengono quasi del tutto assorbite da cornea e cristallino. La quota di radiazione non precedentemente assorbita (meno del 2%) viene completamente arrestata dal vitreo. Un’altra osservazione relativa all’interazione della radiazione ottica con le strutture oculari riguarda l’angolo con cui la radiazione ottica colpisce l’occhio. Infatti, i raggi obliqui vengono variamente riflessi dalla superficie oculare e da questo ne consegue che solo una parte della radiazione ottica verrà trasmessa all’interno dell’occhio ed una parte ancora minore sarà assorbita dalla retina (Figura 3). Con l’invecchiamento la densità ottica di tutti i mezzi diottrici aumenta, ma soprattutto aumenta quella del cristallino cosicché la retina viene raggiunta da una minore quantità di luce: ad esempio, a 75 anni il cristallino trasmette 3 volte meno luce che a 15 anni. La trasmissione

di luce dai mezzi diottrici alla retina con l’invecchiamento è nettamente più ridotta per le frequenze del blu e del verde rispetto alle altre frequenze; questa differenza di trasmissione giustifica la differente percezione cromatica che si accompagna all’invecchiamento. Con l’invecchiamento si riduce anche il diametro della pupilla. La riduzione complessiva con l’avanzare dell’età della trasmissione di luce alla retina ed in particolare delle basse frequenze d’onda, può apparire progettuale alla difesa della retina sempre più suscettibile, con l’invecchiamento, agli insulti luminosi. Oggi, grazie alla notevole evoluzione della chirurgia della cataratta, che consente risultati funzionali inimmaginabili solo tre decenni fa, la sostituzione del cristallino con lenti artificiali ripristina una trasmissione luminosa che la retina non è sempre in grado di affrontare. (Fine prima parte)

BIBLIOGRAFIA 1. DUKE-ELDER S, MAC FAUL PA. “Non mechanical injuries” in Duke-Elder S. System of Ophthalmology 1972, vol.14:837-916 Mosby. 2. CZERNY D. “Über Blendung der Netzhaut durch directes Sonnenlicht” S. B. Akad. Wiss. 1867, 6:409-411. 3. VERHOEFF FH, BELL L. “The pathological effect of radiant energy on the eyes” Proc. Am. Acad. Arts. Sci. 1916, 51:630-759. 4. HAM W. “Ocular hazard of current knowledge” J. Occup. Med. 1983, 25:101-103. 5. BERLER DK, PEYSER R. “Light intensity and visual acuity following cataract surgery” Ophthalmology, 1983, 90:933. 6. PUBLIC HEALTH ADVISORY. Retinal photic injuries from operating microscope during cataract surgery. United States Food and Drug Administration, October 1995.

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NOTE


Luce blu ed apparato visivo SECONDA PARTE

Pasquale Troiano Clinica Oculistica dell’Università di Milano - Fondazione Policlinico di Milano IRCCS

Bruno Piccoli Istituto di Medicina del Lavoro - Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma

LA DEGENERAZIONE MACULARE LEGATA ALL’ETÀ: IL PARADOSSO RETINICO La retina ed in particolare la macula rappresentano un paradosso poiché mentre la loro funzione è quella di ricevere e trasformare la luce mediante l’ossigeno, contemporaneamente l’interazione tra luce e ossigeno è alla base del danno fotochimico della retina. La degenerazione maculare legata all’età (Age-related Macular Degeneration, AMD) è stata messa in relazione allo stress ossidativo subìto dai fotorecettori e dall’epitelio pigmentato retinico (EPR)7. Sia le cellule fotorecettoriali che quelle dell’EPR sono cellule post-mitotiche non in grado di riprodursi e devono sostenere per tutta la vita i processi ossidativi indotti dalla luce8,9. Nei primi 40 anni, la retina produce una grande quantità di antiossidanti che sono in grado di contrapporsi efficacemente allo stress ossidativo. Dopo i 40 anni la produzione di antiossidanti si riduce e, contemporaneamente, i pigmenti protettivi come il “lenticular 3-hydroxy kynurenine” e la melanina vengono chimicamente trasformati da antiossidanti in pro-ossidanti e i cromofori fluorescenti come la lipofuscina cominciano ad accumularsi nell’EPR, cosicché la retina diviene sempre più ai danni conseguenti alla stimolazione luminosa10,11. La luce assorbita dai fotorecettori è uno dei fattori principali per la produzione di ossidoradicali che inducono il danno molecolare nel tessuto retinico. Le lunghezze d’onda nell’ambito del “blu” producono un potente stress os-

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sidativo nella retina e sono le principali responsabili del prolungamento degli effetti di precedenti stress ossidativi12. Dato che il danno fotorecettoriale indotto dalla luce è proporzionale alla quantità di luce assorbita dai fotopigmenti, la parte blu della luce incrementa notevolmente il danno ossidativo attraverso la sua capacità di indurre la cosiddetta “fotoinversione dello sbiancamento”. In condizioni normali, infatti, quando i fotopigmenti assorbono la luce, la cellula fotorecettoriale “sbianca” divenendo incapace di assorbire altra luce fino a quando il ciclo visivo non avrà ricostituito i fotopigmenti. Se invece i fotopigmenti assorbono luce blu questa, anche se il ciclo visivo non si è ancora completato, rende i fotorecettori immediatamente disponibili ad assorbire ulteriori quantità di luce ed il processo si ripete13,14. Il danno fotossidativo indotto dalla luce blu porta alla formazione nel segmento esterno dei fotorecettori di sostanze tossiche indigeribili come ad esempio l’Nretinil-N-retinilidene-etanolamina (A2E)15. La stessa A2E quando viene colpita dalla luce blu produce notevoli quantità di ROS (Reactive Oxygen Species)16. Alti livelli di esposizione a luce blu possono indurre una sufficiente produzione di ROS da determinare la morte dei fotorecettori. Infatti, quando si raggiungono alte concentrazioni di A2E, questa sostanza ha un effetto di tipo “detergente” sulle membrane cellulari e induce il rilascio da parte dei mitocondri di proteine apoptotiche17.


Anche bassi livelli di esposizione alla luce blu producono danni ossidativi che contribuiscono alla degenerazione a lungo termine della retina. In particolare, bassi livelli cronici di esposizione a luce blu inducono danni ossidativi a carico delle cellule prossimali dell’EPR che, giornalmente, assorbono i prodotti di scarto derivanti dal metabolismo delle cellule fatorecettoriali18. Il danno molecolare da stress ossidativo a carico del segmento esterno dei fotorecettori (dove avviene l’assorbimento della luce) si accumula nell’EPR e diviene il più importante fattore di deterioramento a lungo termine della retina che si osserva sia nell’invecchiamento “normale” che nello sviluppo della degenerazione maculare senile la cui patogenesi iniziale coinvolge proprio le cellule dell’EPR19. Il deterioramento dell’EPR inizia quando diviene incapace di degradare alcune componenti del metabolismo fotorecettoriale come l’A2E che, come abbiamo già detto, è indigeribile. L’EPR accumula nel tempo materiale tossico non trasformabile come la lipofuscina. La lipofuscina si accumula prevalentemente nelle cellule dell’EPR sottostanti la macula. Sia la lipofuscina che l’A2E originano dai “retinoidi”. Non può essere solo una coincidenza il fatto che la macula ha anche la più alta concentrazione di pigmenti visivi contenenti 11-cis-retinale come semplice conseguenza della densità dei fotorecettori. L’elevata capacità di assorbimento di fotoni conferita alla macula dalla concentrazione di pigmenti visivi si traduce in una elevata probabilità che tutto il “trans-retinale” divenga disponibile per la formazione di A2E20. Dei metodi sicuri ed economici per ridurre l’accumulo di lipofuscina e A2E sotto la macula sono limitare l’esposizione alla luce intensa e, soprattutto, limitare nettamente l’esposizione alla luce blu. Infatti, anche la lipofuscina quando viene colpita dalla luce blu fotoproduce tanto più alte quantità di ROS e di ROI (Reactive Oxygen Intermediates) quanto più è bassa la lunghezza d’onda della luce (440-400 nm) che la colpisce21.

Le ROS ed i ROI danneggiano il DNA cellulare e inducono l’apoptosi delle cellule dell’EPR22. L’accumulo di alte concentrazioni di lipofuscina nelle cellule dell’EPR e la sua esposizione alla luce blu sono stati collegati alla perdita di fotorecettori ed alla comparsa di AMD17. In un contesto di questo tipo deve essere tenuto in considerazione anche il fatto che la retina è dotata di recettori specifici per il blu non solo, come è ben noto, a livello dei coni (coni S con picco di sensibilità è 430 nm, da cui derivano il nome di coni short o coni per il blu), ma anche a livello delle cellule ganglionari della retina dove sono state individuate cellule con capacità recettoriale specifica per il blu denominate “intrinsically photosensitive Retinal Cell Ganglion” (ipRCG)23. L’AMD inizia con lo sviluppo di drusen quando le cellule dell’EPR non sono più in grado di contenere la lipofuscina e cominciano a eliminare rifiuti ossidativi nello spazio tra EPR e membrana di Bruch24. Le drusen si formano quando i rifiuti eliminati dalle cellule dell’EPR in questo spazio si legano a componenti provenienti dal circolo coroideale formando legami crociati con la membrana di Bruch25. La presenza di drusen tra il circolo coroideale della membrana di Bruch e le cellule dell’EPR interferisce con il regolare apporto di ossigeno e nutrienti ai fotorecettori che si trovano in corrispondenza delle drusen che non essendo adeguatamente nutriti muoiono. Questa progressiva degenerazione dei fotorecettori porta alla forma “secca” di AMD26. Anche la forma “umida” di AMD è collegata all’accumulo di danni ossidativi ed alla fotoproduzione da luce blu di ROS. Le ROS alterano la barriera ematoretinica formata dalla membrana di Bruch e dall’EPR favorendo l’invasione dello spazio retinico da parte di piccoli vasi di origine coroideale27. IL RISCHIO DA LUCE BLU Divenute più chiare le potenzialità dannose della luce blu è necessario definire i soggetti

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Figura 3. Sulla sinistra uno spettroradiometro computerizzato utilizzato per rilevare l’emissione dell’illuminatore ad alogenuri metallici da 4 kW, sulla destra

più suscettibili e le condizioni di esposizione più rischiose. La luce blu fa parte dello spettro visibile e, pertanto, è sempre presente sia nella luce naturale sia nella luce artificiale. La quantificazione della luce blu all’interno della radiazione ottica è complessa e costosa in quanto richiede l’utilizzo di strumenti estremamente comples-

Figura 4. Lampade ad alogenuri metallici in un grande magazzino, solo le lampade cerchiate in rosso emettono luce blu

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si come lo spettroradiometro con monocromatore (Figura 3). Le problematiche di esposizione alla luce blu hanno indotto i principali organismi internazionali quali l’International Commission on Non Ionizing Radiation Protection (ICNIRP) e l’American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH) ad emettere indicazioni sui valori limite di esposizione28,29 a seconda delle caratteristiche dell’attività lavorativa e delle caratteristiche della radiazione ottica emessa. Infatti, essendo l’effetto della luce blu sui fotorecettori retinici funzione della sua lunghezza d’onda con massima lesività per lunghezze d’onda comprese tra 435 e 440 nm, a questa verrà assegnato peso 1. L’analisi della sorgente considerata deve pertanto essere effettuata conoscendo l’energia emessa per ogni singola lunghezza d’onda o banda di poche lunghezze d’onda, in modo da poter “pesare” correttamente l’esposizione. Oltre al sole, tutte le sorgenti di luce artificiale sono fonte di luce blu. Tra le sorgenti di luce artificiale più diffuse certamente quelle con la maggiore emissione di luce blu sono le lampade ad alogenuri metallici (Figura 4). La loro diffusione è legata anche al fatto che emettendo uno spettro luminoso ampio consentono una buona discriminazione cromatica. Per le suddette ragioni sarebbe estremamente utile introdurre l’obbligo per i costruttori di apparecchi illuminanti di allegare un foglio illustrativo sulle caratteristiche di emissione delle sorgenti, soprattutto per le apparecchiature ad impiego lavorativo. Sull’altro fronte, altrettanto utile sarebbe codificare tutti i tipi di lenti (intraoculari, oftalmiche, a contatto, da sole) in base alle loro caratteristiche di filtrazione della radiazione ottica allo stesso modo delle creme solari. Di assoluta rilevanza, in ambito ergoftalmico, sarebbe l’esecuzione di una sorveglianza sanitaria mirata in cui, accanto ad una anamnesi lavorativa accurata fossero effettuate valutazioni sullo stato anatomico della macula (ad esempio le rilevazioni della presenza di dru-


sen) orientate ad evidenziare qualsiasi stato degenerativo precoce che possa essere in qualche modo associato a lesioni indotte da esposizioni acute e/o croniche a “luce blu”. Infine, un’attenzione particolare meritano i soggetti operati di cataratta i quali, per l’assenza dell’azione filtrante prodotta da un cristallino “opacato” per effetto dell’età, diverrebbero maggiormente suscettibili di danno. Va però rilevato che sono state recentemente rese disponibili sul mercato lenti intraoculari in grado di filtrare anche il blu, senz’altro utili ai fini di limitare questo tipo di rischio. Nei soggetti con particolari livelli di esposizione o con caratteristiche oculari che li rendano maggiormente suscettibili all’azione della luce blu (giovani, afachici, pseudofachici, con drusen) devono essere fortemente raccomandati dispositivi di protezione individuale. Questi sono rappresentati dagli occhiali da sole e dalle lenti a contatto. Gli occhiali da sole devono avere uno schermo laterale che, comunque, li rende inadatti a filtrare la radiazione ottica proveniente dall’alto o dal basso; inoltre, presentano dei limiti nell’utilizzo in ambienti illuminati artificialmente. Le lenti a contatto già da qualche anno possiedono filtri efficaci per la radiazione ultravioletta. Mentre, solo da pochissimo tempo sono disponibili sul mercato lenti a contatto in grado di filtrare anche la luce blu. Esistono due tipi di queste lenti con una diversa colorazione e curva di trasmissione dello spettro luminoso, ma entrambe in grado di filtrare la luce blu. La curva di trasmissione della luce della MaxSight Grey-Green (Figura 5) ci dimostra la capacità di queste lenti di filtrare oltre a tutte le basse lunghezze d’onda, anche una parte di giallo-arancio; per questo trova una migliore applicazione in condizioni di luce intensa e brillante, mentre può risultare troppo “scura” in condizioni di luminosità variabile. La curva di trasmissione della luce della

Figura 5. Curva di trasmissione della luce della MaxSight Grey-Green

Figura 6. Curva di trasmissione della luce della MaxSight Amber

MaxSight Amber (Figura 6) ci dimostra la capacità di queste lenti di filtrare tutte le basse lunghezze d’onda senza interferire su quelle dove l’occhio umano raggiunge la sua massima sensibilità; per questo trova una migliore applicazione in condizioni di luce variabile o artificiale. Il vantaggio principale di un dispositivo di protezione individuale come le lenti a contatto rispetto agli occhiali da sole è rappresentato dal fatto che la lente a contatto ricopre interamente la cornea e, quindi, annulla il rischio correlato alla luce proveniente dall’alto o riflessa dal basso. ■

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NOTE


Neuroprotezione nel glaucoma: ruolo della citicolina Nicola Pescosolido Università di Roma “Sapienza” - Dipartimento di Scienze dell’Invecchiamento

Barbara Imperatrice, Claudia Ganino, Monica Autolitano Università di Roma “Sapienza” - Dipartimento di Scienze Oftalmologiche

Neuroprotezione nel glaucoma: ruolo della citicolina Sottoposto alla redazione il 19 Novembre 2009 Accettato per la pubblicazione il 4 Gennaio 2010

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RIASSUNTO Il glaucoma è una patologia degenerativa che colpisce le cellule gangliari retiniche del nervo ottico dando luogo ad una progressiva escavazione della papilla ottica, dal punto di vista anatomopatologo, che si traduce nella progressiva perdita del campo visivo. Essendo una patologia ad andamento progressivo gli sforzi clinici e medici mirano a raggiungere l’arresto della degenerazione cellulare attraverso quella che viene chiamata neuroprotezione. Numerose sostanze sono state e sono tutt’ora oggetto di studio per raggiungere tale scopo in modi e tempi differenti. La citicolina, a questo proposito, sembra avere un’azione neuroprotettiva, confermata, da studi in vivo ed in vitro, nei confronti delle cellule gangliari retiniche che vanno incontro ad apoptosi. Questa molecola è un nucleoside endogeno precursore della fosfatidilcolina, componente indispensabile per la sintesi dei fosfolipidi, che ha varie azioni all’interno della cellula, tra cui il mantenimento di una membrana plasmatica e mitocondriale strutturalmente integre e l’azione antiossidante che impedisce la degradazione della fosfatidilcolina in acidi grassi con conseguente produzione dei radicali liberi dell’ossigeno. PAROLE CHIAVE Glaucoma, Pressione intraoculare (IOP), Citicolina, Radicali liberi dell’ossigeno (ROS), Mitocondrio.

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INTRODUZIONE Il glaucoma è la seconda causa di cecità nei paesi industrializzati e attualmente ne sono affetti circa 67 milioni di persone (Quigley e Broman, 2006). Questa è una sindrome caratterizzata da neuropatia ottica a evoluzione progressiva e difetti tipici del campo visivo, nella quale l’aumento della pressione intraoculare (IOP) è il principale fattore di rischio. Studi recenti hanno dimostrato che il rischio di cecità in pazienti con glaucoma ad angolo aperto in terapia è considerevolmente più alto rispetto a quello che sarebbe da aspettarsi, con una percentuale pari a circa il 27% di probabilità di sviluppare cecità monolaterale dopo 20 anni (Grant e Burke, 1982; Hattenhauer et al., 1998; Bergea et al., 1999; Ricard et al., 1999). Il fatto che alcuni pazienti continuino a sviluppare danni al campo visivo nonostante la pressione intraoculare (IOP) sia normalizzata è causa di frustrazione e ha sollevato numerosi dubbi e perplessità sul tradizionale trattamento ipotensivo dei pazienti glaucomatosi (Bengtsson, 1981; Krakau, 1981; Varma et al., 1992; Brubaker, 1996) e nel contempo la patogenesi del glaucoma resta materia di dibattito, in quanto rimangono irrisolti numerosi quesiti (Pescosolido e Imperatrice, 2006). Quindi, anche se, ormai è accertato che un fattore determinante nell’eziopatogenesi del glaucoma è l’aumento della IOP, tale incremento da solo non è sufficiente a determinare l'instaurarsi della patologia (Gaasterland e Kupfer, 1974). Una conferma di quanto espo-


sto è rappresentata dalle evidenze cliniche, emerse in seguito a numerosi studi, che in uomini e donne con la stessa IOP media, l'incidenza del glaucoma a pressione normale, è doppia nelle donne (Flammer, 1995). Sommer et al. (1991) hanno osservato inoltre che, nonostante la IOP di uomini bianchi e neri sia praticamente la stessa, l’incidenza del glaucoma è 4 volte maggiore nei neri, con un’uguale distribuzione in America, Europa e Giappone e in quest’ultimo paese la IOP diminuisce con l’aumentare dell’età (Anderson, 1989; Murakami e Okisaka, 1998). Perciò, è stato esaminato con particolare attenzione il rapporto causa-effetto tra la IOP e il danno glaucomatoso del nervo ottico (Mittag et al., 2000). L’incremento della IOP è dovuto ad un alterato equilibrio tra formazione di umor aqueo e suo efflusso attraverso il trabecolato ed il canale di Schlemm (Quigley e Maumenee, 1979; Quigley e Addicks, 1980; Haefliger et al., 2000; 2001; Lütjen-Drecoll, 2000). Rohen e Witmer dimostrarono nel lontano 1972 che nei pazienti affetti da glaucoma primario ad angolo aperto era presente a livello subendoteliale del canale di Schlemm una formazione simil-placca, responsabile di una riduzione del deflusso di umor acqueo. Questi studi supportano l’ipotesi che il glaucoma sia dovuto primariamente ad un’alterazione delle strutture trabecolari, responsabili poi dell'incremento della IOP (Kass et al., 1976; Gaasterland et al., 1978; Hitchings, 2000; Mittag et al., 2000). Questi concetti sono stati successivamente ridimensionati in seguito alla presenza della neurootticopatia glaucomatosa anche in occhi con IOP normale, riducendo pertanto l’aumento della IOP ad uno, anche se il più importante, dei diversi fattori di rischio implicati nella patogenesi della malattia glaucomatosa (Mao et al., 1991; Cioffi e Wang, 1999; Henry et al., 1999; Bonomi et al., 2000). Tutti i dati finora riportati vanno quindi verso una unica direzione: non solo incremento della IOP e peraltro nella forma di glaucoma a pressione normale (NTG) i trattamenti ipotensivi, almeno in una percentuale dei casi, non sem-

brano rallentare la progressione della malattia stessa (Collaborative normal-tension glaucoma study group, 1998; Bautista, 1999). In sintesi, un incremento della IOP è notevolmente rilevante per questa patologia anche se il danno al nervo ottico non è un fattore direttamente correlato ai livelli della pressione intraoculare e questo è dimostrato dalla possibilità del verificarsi di danni al campo visivo in pazienti con IOP inferiori a 20 mmHg e dalla possibile assenza di danni campimetrici a valori di IOP superiori a 30 mmHg (Richler et al., 1982; Green e Madden, 1987; Vogel et al., 1990; Shirakashi et al., 1993; Suzuki et al., 1999; Bellezza et al., 2000). Tuttavia, nella maggior parte dei pazienti si verifica un miglioramento della funzione visiva riportando i valori alterati di IOP in ambiti fisiologici e un suo peggioramento quando la IOP alterata non è trattata (Novack et al., 1990; O’Brien et al., 1991; Curcio et al., 1996). Il glaucoma, da quanto esposto, viene a considerarsi una malattia multifattoriale in cui sono numerosi i fattori di rischio implicati e tra i quali l’aumento della pressione intraoculare è il più rilevante (Wilson et al.,1982; Fechtner e Weinreb, 1994; Nicolela e Drance, 1996; Anderson, 1999). Da ciò si evince che se la malattia glaucomatosa è l’insieme di patologie che terminano in una neuropatia ottica, una terapia volta a prevenire i processi che innescano il danno, più che a ridurre i fattori di rischio, potrebbe rappresentare un enorme potenziale terapeutico. In questa ottica si instaura il concetto di neuroprotezione in quanto questa è volta alla protezione del nervo ottico dalla degenerazione che si verifica in corso di glaucoma. La ragione per la quale il ruolo della IOP è stato notevolmente ridimensionato nella patogenesi dei danni campimetrici è, oltre la constatazione di un glaucoma a bassa pressione, che in ogni paziente glaucomatoso ci sono variabili difficili da valutare e controllare come la presenza di grandi cambiamenti della pressione intraoculare durante l’arco diurno o ancora il diverso grado di evoluzione del danno glaucomatoso prima dell’inizio del trattamento

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Figura 1. Immagine di una papilla ottica normale

Figura 2. Immagine di una papilla ottica con escavazione

(Chauhan e Drance, 1992; Teus et al., 1998; Bergea et al., 1999; Cooper, 1999). Findl et al. (2000) hanno per altro dimostrato, così come altri ricercatori, che la riduzione di perfusione della testa del nervo ottico è caratteristica in pazienti con glaucoma ad angolo aperto e ad essa è legata la comparsa di danni al campo visivo. Nonostante ciò, rimane ancora da stabilire se la compromissione del flusso sanguigno a livello del disco ottico e a livello coroideale contribuisca al danno al nervo ottico tipico dei pazienti glaucomatosi o se semplicemente sia un fenomeno funzionale secondario. La neurootticopatia glaucomatosa è normal-

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mente classificata in base ai cambiamenti morfologici della regione papillare e peripapillare della testa del nervo ottico e dello strato delle fibre nervose (Figure 1, 2). Queste variazioni includono la misura dell’escavazione del disco ottico, la misura della configurazione del bordo neurale, la posizione e l’emergenza dei vasi retinici dalla lamina cribrosa, la presenza e la localizzazione di emorragie superficiali peripapillari, la misura, la configurazione e la localizzazione di aree di atrofia corioretinica peripapillare e infine il diffuso o locale restringimento delle arterie retiniche (Green e Madden, 1987; Evans et al., 1999; Gherghel et al., 2000; Jonas e Budde, 2000). Tutti questi fattori sono elementi di aiuto non solo nella diagnosi di neuropatia ottica glaucomatosa ma anche nel follow-up e trattamento terapeutico dei pazienti stessi qualora siano meglio conosciuti i processi attraverso i quali si manifesta il danno. La complessità di questa patologia ha portato nel tempo a cambiare le definizioni eziologiche del glaucoma. Recentemente, però, si è arrivati a concludere che il glaucoma deve essere visto come una patologia neurodegenerativa e come tale deve essere trattato. Nel corso degli studi di laboratorio, si è concluso che la neuroprotezione è la terapia a cui tendere gli sforzi scientifici e che essa può essere raggiunta sia farmacologicamente che immunologicamente (come si vedrà più avanti). Gli interventi farmacologici (ad esempio usando agonisti α2-adrenergici selettivi) andranno a neutralizzare alcuni degli effetti tossici rilasciati nel sito della lesione nervosa e, possibilmente, andranno anche ad incrementare l’abilità dei neuroni non danneggiati a resistere a condizioni di stress dell’ambiente extracellulare. Gli interventi immunologici, invece, dovranno stimolare quei meccanismi di riparo propri del singolo individuo al fine di neutralizzare tutte quelle molecole e fattori tossici prodotti nel sito della lesione (Schwartz, 2001). In questo lavoro prendiamo ora in considerazione una delle sostanze più note che viene oggi utilizzata per la sua azione neuroprotettrice: la citicolina.


La citicolina è il precursore naturale nella sintesi dei fosfolipidi soprattutto della fosfatidilcolina, importante per il mantenimento di una membrana cellulare strutturalmente integra (Secades, 2001). Sappiamo infatti che la membrana cellulare è essenziale alla vitalità cellulare in quanto partecipa a vari processi indispensabili alla cellula, come il mantenimento dell’ambiente intracellulare costituendo una barriera discriminante che regola il passaggio delle sostanze all’interno della cellula e che controlla la differenza di potenziale elettrico. Inoltre, a ridosso delle membrane cellulari avviene la maggior parte delle reazioni biochimiche e nel suo contesto sono localizzati i recettori di superficie che permettono il dialogo della cellula con le cellule circostanti e il resto dell’organismo. Una lesione della membrana cellulare porta a tre importanti eventi: 1. alcuni ioni normalmente concentrati nell’ambiente extracellulare, in particolare il Ca2+, e altre molecole potenzialmente tossiche, possono entrare in modo incontrollato nel citoplasma alterando i processi vitali della cellula; 2. la capacità di comunicare tramite i recettori di superficie viene perduta; 3. il contenuto intracitoplasmatico, ricco di enzimi litici, può riversarsi all’esterno della cellula determinando un’estensione del danno alle cellule contigue. Pertanto, un’alterazione del turnover dei fosfolipidi compromette la validità dei sistemi di protezione della membrana. Oltre a mettere a rischio la funzionalità specifica della cellula, può causare uno squilibrio tra i segnali di sopravvivenza e i segnali di morte in favore di quest’ultimi. La via dei fosfolipidi è, quindi, al centro di questo equilibrio. Infatti, numerosi segnali di morte vengono attivati quando la sintesi della fosfatidilcolina è insufficiente a garantire un adeguato turnover dei fosfolipidi. Il mitocondrio è un altro sito cellulare dove la sintesi dei fosfolipidi svolge un ruolo importante in quanto una funzione mitocondriale ottimale è l’elemento indispensabile per bloccare o limitare l’attivazione dell’apoptosi e dal momento che le reazioni enzimatiche energe-

tiche avvengono in prossimità delle membrane interne del mitocondrio, la loro integrità strutturale è indispensabile per mantenere un adeguato apporto energetico alla cellula. Nel caso dei neuroni periferici, come le RGC, la peculiare lunghezza delle loro terminazioni assonali rende queste cellule particolarmente sensibili a qualsiasi alterazione nei sistemi di protezione della membrana cellulare. La citidin-5’-difosfocolina (CDP-colina), nota comunemente con il nome di citicolina, è un nucleoside endogeno naturalmente presente nell’organismo. È un precursore, come detto, della fosfatidilcolina, componente indispensabile per la sintesi dei fosfolipidi. La sintesi della citicolina è la tappa limitante nei processi di sintesi dei fosfolipidi, soprattutto durante i processi di riparazione delle membrane danneggiate di cellule non dotate di capacità replicative. Si ritiene che implementare i precursori dei fosfolipidi sia fondamentale in condizioni di stress ischemico, degenerativo o meccanico delle cellule nervose (De Gregorio, 2004). In particolare, nelle patologie a eziologia vascolare (come nello stroke) si rileva una perdita di componenti fosfolipidici conseguente a una alterazione nel loro metabolismo (Cohen, 1973), che conduce a lesioni irreversibili delle membrane cellulari dei neuroni. Biochimicamente, si osserva una perdita di fosfatidilcolina, che durante i processi ischemici viene degradata in acidi grassi con produzione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS). Studi sperimentali suggeriscono che la somministrazione di citicolina possa indurre una riattivazione dell’anabolismo dei fosfolipidi con minore degradazione di fosfatidilcolina e quindi ridotta formazione di ROS (Mykita et al., 1986). La citicolina, una volta somministrata, va incontro ad una rapida dissociazione in colina e citidina che entrano entrambe nelle cellule nervose, ma separatamente e provvedono alla neuroprotezione mediante l’aumento della sintesi di fosfatidilcolina (Grieb e Rejdak, 2002). La colina è considerata una “quasi” vitamina in quanto il fabbisogno giornaliero è molto elevato, con una RDA (Recommended

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Daily Allowance) di circa 800 mg. La sintesi endogena è insufficiente e quindi deve essere integrata con l’apporto dietetico. Promossa dalla scuola di Virno (Pecori-Giraldi et al., 1989; Virno et al., 2000) in più lavori (10 anni di studio), è stato osservato che ripetuti cicli (ogni sei mesi) di iniezione intramuscolare di citicolina prevengono il deficit perimetrico glaucomatoso con un meccanismo neurotrofico ed emodinamico (Virno et al., 1993). Un altro studio di 8 anni di follow-up portato avanti da Parisi (2005) ha documentato i miglioramenti delle risposte bioelettriche retiniche e corticali a seguito del trattamento con citicolina di 30 pazienti con glaucoma. Ciò è stato possibile grazie all’uso dei potenziali visivi evocati (VEP) e dei pattern-elettroretinogrammi (PERG) che hanno quindi evidenziato un miglioramento nelle funzioni elettrofisiologiche suggerendo un potenziale uso di questa sostanza a complemento della terapia ipotensiva (Rejdak et al., 2003). A supporto dell’azione neuroprotettiva della citicolina, vi è anche il lavoro di Park et al. (2005) in cui si documenta la protezione esercitata dalla citicolina verso un danno retinico indotto dall’acido kainico nei ratti. Esiste anche una serie di risultati sperimentali che suggerisce un effetto neuroprotettivo della citicolina mediato dall’inibizione dell’attivazione della fosfolipasi A2 (PLA2) (Rao et al., 2001). Tale azione sembrerebbe molto importante in quanto da essa deriverebbe una serie di inibizioni nei riguardi di alcune cascate enzimatiche, con un effetto conclusivo protettivo per la struttura della cellula nervosa. Tra esse sono state segnalate: la protezione della cardiolipina (o difosfatidilglicerolo, il principale fosfolipide della membrana interna dei mitocondri) e della sfingomielina, la protezione del contenuto di acido arachidonico e della fosfatidiletanolamina e l’attenuazione della perossidasi lipidica. Inoltre, l’inibizione dell’attivazione della PLA2 sembrerebbe indurre anche una riduzione del rilascio di glutammato dalle cellule danneggiate e quindi una riduzione dell’azione eccitotossica di questo aminoacido. Sperimentalmente, è stato anche os-

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servato che la somministrazione combinata di citicolina e MK-801 (un inibitore specifico dei recettori NMDA del glutammato) ha un effetto sinergico sulla riduzione del volume dell’area infartuata in un modello di ischemia cerebrale nel ratto (Onal et al., 1997). Dal momento che la citotossità del glutammato è un meccanismo importante di morte cellulare che interviene nel glaucoma, la capacità della citicolina di ridurre il rilascio di glutammato mediante l’inibizione dell’attivazione PLA2 potrebbe rappresentare un ulteriore proprietà neuroprotettiva. Oltre alle già descritte e documentate azioni metaboliche nei processi di sintesi dei fosfolipidi, nelle reazioni energetiche mitocondriali e nella sintesi di alcuni neurotrasmettitori, la citicolina sembrerebbe anche indurre un lieve aumento della pressione arteriosa, sia sistolica che diastolica, quantificabile in circa il 5% dei valori basali, che potrebbe essere di beneficio nel sostenere la perfusione del nervo ottico (De Gregorio et al., 1992; 2003). In conclusione, il profilo farmacologico della citicolina spiega il miglioramento della sensibilità retinica e l’arresto della progressione del deficit perimetrico osservato in un’elevata percentuale di pazienti glaucomatosi. Gli effetti della citicolina sul campo visivo si mantengono per circa tre mesi e risultano ripetibili nel tempo (l’assenza di effetti collaterali durante il trattamento con citicolina garantiscono un eccellente rapporto rischio/beneficio). Ancora un altro studio (Schuettauf et al., 2006) documenta le proprietà neuroprotettive della citicolina in un modello sperimentale di compressione del nervo ottico nel ratto. In questi esperimenti, gli Autori hanno valutato la percentuale di RGC protette dal trattamento singolo con citicolina, da quello con il litio e dalla somministrazione combinata dei due farmaci valutando anche il possibile meccanismo anti-apoptotico dovuto ai due farmaci. Il litio è un catione monovalente largamente impiegato nei disordini bipolari del comportamento, ma è anche in grado di proteggere i neuroni in vitro ed in vivo da vari insulti (Chuang et al., 2002). I meccanismi d’azione della neu-


Figura 3. Immunoreattività a Bcl-2 di sezioni retiniche radiali di ratto dopo 3 giorni dalla compressione del nervo ottico. Dopo la compressione si osserva un aumento dell’espressione di Bcl-2 in modo predominante nelle cellule dello strato gangliare in ratti trattati con citicolina (C2), litio (C3) e combinazione citicolina-litio (C4) rispetto alla retina trattata con soluzione salina (C1) (modificata, da Schuettauf et al., 2006)

Figura 4. Immunoreattività a Bcl-2 di sezioni retiniche radiali di ratto dopo 7 giorni dalla compressione del nervo ottico. Dopo la compressione si osserva un aumento dell’espressione di Bcl-2 in modo predominante nelle cellule dello strato gangliare in ratti trattati con citicolina (C2), litio (C3) e combinazione citicolina-litio (C4) rispetto alla retina trattata con soluzione salina (C1) (modificata, da Schuettauf et al., 2006)

Figura 5. Immunoreattività a Bcl-2 di sezioni retiniche radiali di ratto dopo 21 giorni dalla compressione del nervo ottico. Dopo la compressione si osserva un aumento dell’espressione di Bcl-2 in modo predominante nelle cellule dello strato gangliare in ratti trattati con citicolina (C2), litio (C3) e combinazione citicolina-litio (C4) rispetto alla retina trattata con soluzione salina (C1) (modificata, da Schuettauf et al., 2006).

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roprotezione fornita dai due farmaci non sono ancora del tutto chiari, ma potrebbero avere un effetto additivo, con l’indiretta attenuazione della stimolazione della fosfolipasi A2 (come discusso precedentemente) e della formazione di radicali idrossilici come processi attribuiti alla citicolina (Adibhatla et al., 2003) mentre l’aumento dell’espressione della proteina anti-apoptotica Bcl-2 nelle RGC come effetto neuroprotettivo indotto dal litio (Chuang et al., 2002; Huang et al., 2003; Rowe e Chuang, 2004). Negli esperimenti degli Autori è stato osserva-

to un aumento dell’espressione di Bcl-2 nelle tre condizioni operative con una maggiore induzione nel trattamento singolo con litio (Figure 3-5) ma si è potuto dimostrare per la prima volta che gli effetti neuroprotettivi della citicolina potrebbero essere anche mediati dall’aumento dell’espressione di Bcl-2. In conclusione, la riduzione della IOP è solo uno degli aspetti da prendere in considerazione nel trattamento del glaucoma a cui se ne deve associare uno neuroprotettivo, la citicolina, da quanto esposto, è un farmaco che si è ■ rilevato utile allo scopo.

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NOTE


Case Report

Orbital Rhabdomyosarcoma Gyanendra Lamichhane, Pradeep Bastola Lumbini Eye Institute, Bhairahawa, Nepal

Gulshan Bahadur Shrestha B.P. Koirala Lions Centre for Ophthalmic Studies, IOM, Kathmandu, Nepal

ABSTRACT Orbital Rhabdomyosarcoma is not so commonly encountered in ophthalmic practice. Here we report a 3 year male child with gradually progressive nodular swelling over the left lower lid and protrusion of same eye ball for one year and was diagnosed as having alveolar type of Orbital Rhabdomyosarcoma with lymph node metastasis after incisional biopsy. It was managed with chemotherapy. KEY WORDS: Rhabdomyosarcoma, Nodular swelling, Protrusion.

Orbital Rhabdomyosarcoma

Sottoposto alla redazione il 7 Dicembre 2009 Accettato per la pubblicazione il 18 Febbraio 2010

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INTRODUCTION Rhabdomyosarcoma is the most common soft tissue tumor in children1. The incidence is 6 cases per 1,000,000 population per year (approximately 250 cases) in children. The name is derived from the Greek words rhabdo, which means rod shape, and myo, which means muscle. Although Weber first described rhabdomyosarcoma in 1854, a clear histological definition was not available until 1946, when Stout recognized the distinct morphology of rhabdomyoblasts2. Several distinct histological groups have prognostic significance, including embryonal rhabdomyosarcoma (ERMS), which occurs in 55% of patients; the botryoid variant of ERMS, which occurs in 5% of patients; alveolar rhabdomyosarcoma

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(ARMS), which occurs in 20% of patients; and undifferentiated sarcoma (UDS), which occurs in 20% of patients3. CASE REPORT A 3 year young male child presented with gradual progressive nodular swelling over left lower lid for one year which was initially small, painless and only present nasally. Along with the swelling parents noticed bulging of the left eyeball. Gradually the lid swelling and the bulging of the eyeball progressed; patient couldn't close his left eye. The swelling became diffuse, the left eyeball displaced outward and up and developed redness and pain. Initially treated with topical ointment, eye drop and some oral medication (no document) from the nearby medical shop. Parents also give history of diminution of vision in left eye from last six to eight months. There was no history of trauma, Leucokoria, fever, weight loss. He had normal birth history with all milestone of growth achieved in time. Visual acuity of left eye was difficult to access due to pain and swelling. The eye lids were diffusely swollen, hyperemic with visible tortuous vessel over it and lagophthalmos. Eye ball was proptosed superotemporally. A non tender firm mass of approx. 7x8 cm, located in the inferior part of globe was palpated that had extended posteriorly, base not palpable (get above the swelling not possible), immobile, not separated from the globe, no bruit heard over the mass. Retropulsion and Pulsation


were absent. There was Crusting with Keritinization of bulbar as well as lower tarsal conjunctiva, congestion and chemosis present. Cornea showed inferior puntate keratitis. RAPD was present and just faint fundal glow was present. The examination of the right eye was normal. General examination showed normal vitals. Multiple lymhnodes in the submandibular region were present and few of them were matted, local temperature not raised non tender, rubbery feel and not attached with overlying skin, average size of around 2x3 cm, immobile, attached to underlying structure. A mobile tender lymph node of around 5x5 cm size, firm, not attached with overlying skin or underlying structures in the preauricular region on the Left. All systemic examinations were found normal according to paediatric consultation. CT scan of head and orbit showed large ill-defined predominantly homogenous soft tissue attenuation mass lesion of approx 55x52 mm size seen involving left orbit projecting anteriorly and showing extension in to the retro orbital region with obscuration of whole of the orbital and retro orbital structures including optic nerve. However no obvious calcification or intracranial extension noted. Routine blood investigations, Liver and Renal function tests were normal. Peripheral smear, CXR and USG abdomen were also normal. A provisional diagnosis of Left orbital Rhabdomyosarcoma was kept and an incisional biopsy of the left lower lid mass and exci-

sional biopsy of the enlarged lymph node was planned and done under GA. The HPE report showed proliferation of tumor cell arranged in psedopapillae, alveolar pattern, lobules solid nests with multiple pseudo rosette having central fibrovascualr core. Cells composed of small round to oval cells with minimal Pleomorphism having scanty cytoplasm and hyperchromatic nuclei with inconspicuous nucleoli some of the areas showing cells arranged in solid sheets. The section from cervical lymhnode showed almost complete effacement of nodal architecture replaced by tumor cells proliferation similar to that seen in orbital mass suggesti-

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ve of alveolar type of rhabdomyosarcoma. Thus final diagnosis of Alveolar type of Rhabdomyosarcoma (made depending upon the HPE report) with lymph node metastasis was made. Paediatric consultation was repeated and as per advice chemoreduction with vincristine, Adriamycin and Ifosamide tried. The mass did not reduce in size so planned for debulking surgery and second cycle chemotherapy but patient got discharged against medical advice. DISCUSSION Although the tumor is believed to arise from primitive muscle cells, tumors can occur anywhere in the body except bone. The most common sites are the head and neck (28%), extremities (24%), and genitourinary (GU) tract (18%). Other notable sites include the trunk (11%), orbit (7%), and retroperitoneum (6%). Approximately 87% of patients are younger than 15 years, and 13% of patients are aged 1521 years. Our patient age is also quite same as

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in a case series mentioned by Kaliaperumal et al.4 where the age of the patients ranged from 3 to 29 years. The finding of proptosis in children as the most common presenting sign in our patient underlines the importance of orbital rhabdomyosarcoma in the differential diagnosis of such a presentation. Jones et al., have reported that 100% of the cases in their study had proptosis5. However, Schinter et al., have documented 71% of cases with proptosis6. Boparai and Dash, in their case series had eleven out of 14 cases presenting with acute onset proptosis with inflammatory signs7. The symptoms in our patient arise as a small lid mass. There are also case reports on rhabdomyosarcoma in which the cases have presented as palpable lid nodules and on occasion felt to be a chalazion, cystic lesions or lid tumor of vascular origin8,9. Awareness about these less common presentations of this fatal malignancy is essential to ensure early detection and initiation of treatment. X-ray is not of much help in the diagnosis but CT scan gives an idea of the total extent of the lesion. CT scan is also of tremendous value in follow up to detect recurrence. Metastases are found predominantly in the lungs, bone marrow, bones, lymph nodes, breasts, and brain. Four histopathological subtypes of rhabdomyosarcoma have been described: embryonal, alveolar, botryoides and pleomorphic10. It is believed that the embryonal, alveolar and botryoides variants are of mesenchymal origin and that the pleomorphic variant is derived from mature skeletal muscle. The pleomorphic type is the most differentiated type and carries the best prognosis followed by the embryonal and botryoides types10. The alveolar type has been shown to carry the worst prognosis. Thus our case was the one with the worst prognosis. Earlier orbital rhabdomyosarcoma was treated by orbital exenteration. In 1979, Abraham et al. demonstrated irradiation alone or in combination with chemotherapy to be more effecti-


ve than exenteration for both control and longterm survival11. Reports of the efficacy of combined radiotherapy and chemotherapy were confirmed by the Intergroup Rhabdomyosarcoma Study, which showed a three-year survival rate of 93% in a total of 127 patients with localized orbital rhabdomyosarcoma12. Radiotherapy and chemotherapy have also been enlisted in treatment of local recurrences and metastatic disease13. In conclusion, the primary modality of treatment of rhabdomyosarcoma is combining ra-

diotherapy and chemotherapy, which appears to permit effective control and possible cure of this disease. At the time of biopsy, maximum debulking is essential. Exenteration is mutilating and induces the most unfortunate cosmetic appearance postoperatively. However, exenteration may be indicated in cases of incomplete tumor regression or in cases of recurrence after treatment with chemotherapy and radiotherapy. Judgment by the experienced therapist may be valuable in maximizing the gain and minimizing the risk of therapy in individual cases. â–

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Metastasi dell’orbita: revisione della letteratura Paolo Amaddeo, Stefano Fontana, Rolando Ghilardi U.S.C. Ch. Maxillo-Facciale Ospedali Riuniti di Bergamo

Metastasi dell’orbita: revisione della letteratura

Sottoposto alla redazione il 30 Novembre 2009 Accettato per la pubblicazione il 15 Febbraio 2010

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ABSTRACT Orbital tumors are rarely frequently diseases, the incidence of malignant tumor is 2/1.000.000 till the sixt decade, after this age the incidence is redoubled and after the eight decades is 10/1.000.000. The incidence of orbital secondarism made by nearly tissues is present in 5 % of the children, 11% in the adult popolation and 21% after the 65 years old. Secondarism are more present in female population due to the high incidence of the breast cancer; 75% of the diagnosis of orbital tumors have a positive anamnesis for malignant cancer. At the moment of orbital tumor diagnosis the 71% to 85% of the patient have a secondarism in an other district. The survival after orbital tumor diagnosis is between 6 to 70 months and is increased by better and better medical therapy. There are no specific symptoms due to malignant orbital tumors but the swiftness and the gravity of the symptoms are disproportionated instead of non tumoral diseases. Diagnosys can be obtained thanks to breast palpation in female population, rectal sounding in male population and abdomen palpation in the children. KEYWORDS: Orbital tumors, Orbital metastasis, Maxillo-facial surgery

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RIASSUNTO I tumori orbitari rappresentano una patologia relativamente infrequente; l’incidenza di tumore primitivo maligno dell’orbita è di circa 2/1.000.000 fino alla sesta decade di vita, si raddoppia oltre i 60 anni e raggiunge circa 10/1.000.000 oltre gli 80 anni. L’incidenza dei secondarismi orbitari a partenza da strutture contigue che si presentano nel 5% nel caso dei bambini, dell’11% negli adulti e nel 21% negli anziani. Le metastasi più frequentemente si riscontrano nel sesso femminile in relazione all'’elevata incidenza del carcinoma mammario, tre quarti dei pazienti hanno un’anamnesi personale positiva per un qualsiasi carcinoma. Al momento della diagnosi della metastasi orbitaria, una percentuale oscillante tra il 71% ed l’85% dei pazienti presenta altre metastasi in un altro organo. La sopravvivenza media, dopo la diagnosi di metastasi orbitaria, oscilla tra i sei ed i settanta mesi; ed è in aumento grazie alle cure sempre più raffinate. Non ci sono dei segni clinici tipici di metastasi a localizzazione orbitaria, ma in genere la rapidità e l’importanza dei sintomi possono essere sproporzionati in rapporto con altri processi espansivi non cancerogeni dell’orbita, bisogna tener conto anche degli esami clinici specifici, come la palpazione mammaria nella donna, l’esplorazione rettale nell’uomo e la palpazione addominale nei bambini.


INTRODUZIONE I tumori orbitari rappresentano una patologia relativamente infrequente; l’incidenza di tumore primitivo maligno dell’orbita è di circa 2/1.000.000 fino alla sesta decade di vita, si raddoppia oltre i 60 anni e raggiunge circa 10/1.000.000 oltre gli 80 anni1. La cisti dermoide è invece la più comune massa orbitaria riscontrabile in età pediatrica, mentre è infrequente nella popolazione adulta. I tumori linfoidi rappresentano il 3% dei tumori orbitari nel bambino, l’8% nella popolazione generale ed il 28% nell’anziano ed anche nell’incidenza dei secondarismi orbitari a partenza da strutture contigue che si presentano nel 5% nel caso dei bambini, dell’11% negli adulti e nel 21% negli anziani1. METODO Grazie alle migliori tecniche terapeutiche, la durata della vita dei pazienti oncologici si è allungata ed il numero di metastasi orbitarie diagnosticate, conseguentemente, è aumentato. Sfortunatamente, dopo la diagnosi di metastasi orbitarie, le possibilità di sopravvivenza restano ancora piuttosto flebili e la maggior parte dei pazienti sopravvive poco più di un anno. Spesso il trattamento non è che palliativo2-3-4-5-6. La reale incidenza delle metastasi orbitarie è piuttosto difficile da determinare con precisione; studi anatomici su cadaveri mostrano che le metastasi oculari sono più frequenti rispetto a quelle orbitarie, probabilmente ciò è dovuto alla maggiore vascolarizzazione della coroide2-3-7. Le metastasi più frequentemente si riscontrano nel sesso femminile in relazione all’elevata incidenza del carcinoma mammario3-4-6 (Figura 1-2). Tre quarti dei pazienti hanno un’anamnesi personale positiva per un qualsiasi carcinoma, mentre nel 25% dei casi la metastasi orbitaria rappresenta il primo segno della malattia generale. Al momento della diagnosi della metastasi orbitaria, una percentuale oscillante tra il 71% ed l’85% dei pazienti presenta altre metastasi in un altro organo, con maggior prevalenza per il polmone e per l’osso4-6-7.

33%

67%

Uomini

Donne

Figura 1. Presenza delle metastasi orbitarie per sesso (Freedman M.I. e Folck J.C., 1987)

37%

63%

Uomini

Donne

Figura 2. Prevalenza delle metastasi orbitarie per sesso (Goldeberg R.A. e Rootman J., 1990)

Prevalenza delle metastasi orbitarie in relazione ai tumori primitivi: le metastasi mammarie rappresentano, a seconda degli Autori, una percentuale oscillante dal 42% al 53% dei casi, quelle broncopolmonari dall’8 all’11%, quelle prostatiche dal’8,3 al 12%, le metastasi da melanoma dal 2% al 5,5%, le gastrointestinali dal 4,4 al 5,2%, le renali il 3,2%, il 12,9% da tumori vari come: il carcinoma tiroideo, quello testicolare, pancreatico, uterino, parotideo,

4%

3%

3% 2% 2% 49%

6% 8%

9% 14% Mammella Polmone Gastrenterico Sconosciuto

Melanoma Prostata Testicolo

Neuroblastoma Vescica Tiroide

Figura 3. Prevalenza delle metastasi orbitarie per tumore primitivo (Freedman M.I. e Folck J.C., 1987)

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ovarico, pleurico tra l’8 ed il 11% dei casi il tumore primitivo resta misconosciuto3-4-5-6-7-89 (Figure 3-4-5-6).

11% 44% 14%

3%

Etiopatogenesi L’orbita, posteriormente al setto, non contiene vasi linfatici, dunque le metastasi raggiungono l’orbita per via ematica dopo aver percorso la circolazione polmonare. È teoricamente possibile anche che le metastasi possano arrivare per via retrograda a livello orbitario attraverso il tronco vertebrobasilare. Le cellule neoplastiche viaggiano attraverso il sistema carotideo e giungono così a livello orbitario attraverso l’arteria oftalmica2-6.

4% 5% 8%

Figura 4. Prevalenza delle metastasi orbitarie per tumore primitivo (Goldeberg R.A. e Rootman J., 1990)

11%

Mammella Polmone Prostata

Melanoma Gastrenterico Rene

8%

2%

Vari Sconosciuto

1% 53%

5% 5% 6%

8% 12%

Figura 5. Prevalenza delle metastasi orbitarie per tumore primitivo (Shields J., 2001)

Mammella Prostata Polmone

Melanoma Gastrenterico Rene

Sconosciuto Parotide Surrene

6% 6%

44%

11%

11%

11%

Localizzazione orbitaria Per lungo tempo si è ritenuto, a torto, che il lato più frequentemente interessato da metastasi fosse quello sinistro, per una ragione anatomica: l’arteria carotidea comune a sinistra prende origine direttamente dall’arco aortico, mentre la corrispettiva destra nasce dalla biforcazione del tronco brachio cefalico, si è ritenuto quindi che il passaggio delle cellule tumorali fosse più agevole a sinistra. In generale la distribuzione dell’incidenza delle metastasi risulta essere equamente divisa3-4 (Figura 7). Secondo alcuni autori, i quadranti preferenziali sarebbero il quadrante superiore ed il quadrante esterno con una percentuale di frequenza pari al 39% per il quadrante esterno e del 32% per quello superiore2 (Figura 8). Localizzazione tissutale La metastasi può interessare il contenente, quindi l’osso orbitario, oppure il contenuto, rappresentato dal bulbo, dal grasso e dai muscoli extra-oculari, infine può coinvolgere diffusamente e contemporaneamente tutta l’orbita. L’osso ed il grasso sono coinvolti circa nel doppio dei casi rispetto al muscolo. L’interessamento di una struttura rispetto all’altra dipende dalla natura del tumore primitivo; per esempio, le metastasi mammarie coinvolgono preferenzialmente la componente grassa, le metastasi prostatiche coinvolgono più spesso l’osso2.

11%

Figura 6. Prevalenza delle metastasi orbitarie per tumore primitivo (Holland D., 2003)

32

Mammella Polmone Prostata

Melanoma Tiroide Gastrenterico

EuVision Peer-reviewed Journal of Ophthalmology 1/10

Sconosciuti

RISULTATI Sopravvivenza La durata media della sopravvivenza dipende


Clinica Non ci sono dei segni clinici tipici di metastasi a localizzazione orbitaria, ma in genere la rapidità e l’importanza dei sintomi possono essere sproporzionati in rapporto con altri processi espansivi non cancerogeni dell’orbita. Bisogna tener conto anche degli esami clinici specifici, come, per esempio, la palpazione mammaria nella donna, l’esplorazione rettale nell’uomo e la palpazione addominale nei bambini2. I segni tipici di un interessamento metastatico possono dipendere dall’istologia del tumore, anche se la capacità dell’orbita è di circa 30 ml ed un aumento del suo contenuto porterà ad esoftalmo. I segni più comune-

8% 50% 42%

Sinistra

Destra

Bilaterale

Figura 7. Incidenza delle metastasi per orbita (Goldeberg R.A. e Rootman J., 1990)

30% 38%

12% 20% Superiore

100%

Inferiore

Interno

Esterno

Figura 8. Incidenza delle metastasi nei quadranti orbitari (Goldeberg R.A. e Rootman J., 1990)

95%

90%

85%

80% Percentuale di sopravvivenza

dalla natura del tumore primitivo, generalmente le metastasi sopraggiungono, in un periodo variabile da quindici a circa trentun mesi dopo la diagnosi di tumore primitivo, con una grande variabilità in funzione dell’istologia del tumore stesso. Generalmente la sopravvivenza media, dopo la diagnosi di metastasi orbitaria, oscilla tra i sei ed i settanta mesi; ed è in aumento; tuttavia il 58% dei pazienti decede nei sei mesi successivi la diagnosi di metastasi orbitaria2-6-9 (Figura 9). I pazienti affetti da tumori sensibili ad ormonoterapia, come per esempio il tumore prostatico e quello mammario hanno una maggiore sopravvivenza a lungo termine. Il periodo che intercorre tra la diagnosi di carcinoma mammario primitivo e quello di metastasi orbitaria è lungo e la sopravvivenza media, dopo la diagnosi, è superiore ad un anno. Nel caso del melanoma cutaneo, la disseminazione metastatica è molto rapida e la sopravvivenza è ridotta dopo la diagnosi di metastasi orbitaria. La sopravvivenza più lunga si riscontra nelle metastasi da carcinoma mammario, prostatico e da tumori carcinoidi. In contrapposizione, tumori broncopolmonari, renali, oppure gastrointestinali hanno un comportamento clinico più aggressivo ed alcune volte la diagnosi di metastasi orbitaria precede quella del tumore primitivo; l’evoluzione è rapida e la sopravvivenza media risulta essere inferiore a sei mesi dalla diagnosi di metastasi2.

70% 65% 55% 60%

70% 60% 50% 40%

35%

30%

25%

20%

15%

10%

10% 5%

0% 0

20

40

60

80

100

120

Tempo (mesi)

Figura 9. Sopravvivenza con metastasi orbitarie (Holland, 2003)

mente presenti sono: diplopia, alterazione della motilità estrinseca oculare, effetto massa con spostamento del bulbo, ptosi oppure sensazione di una massa palpabile2. La diplopia e le alterazioni della motilità oculare sono le manifestazioni tipiche di un interessamento muscolare od adiacente ai muscoli; la palpazione di una massa, la riduzione dell’acuità visiva e

1/10 EuVision Peer-reviewed Journal of Ophthalmology

33


5%

5%

30% 24%

Figura 10. Presentazione clinica di metastasi orbitaria (Goldeberg R.A. e Rootman J., 1990)

Massa

Infiltrativo

Funzionale

10%

Infiammatorio

30%

12%

13% 18%

17% Diplopia Dolore

Figura 11. Presentazione clinica di metastasi orbitaria (Goldeberg R.A. e Rootman J., 1990)

Ptosi Edema occhio

7%

Edema palpebra Massa

2% 23%

11%

16% 23% 18%

Figura 12. Presentazione clinica di metastasi orbitaria (Holland D., 2003)

Diplopia Edema Rossore

Proptosi Dolore Rid. Visus

Enoftalmo

l’esoftalmo sono segni caratteristici. Tipicamente le metastasi mammarie causano un esoftalmo che si può riscontrare anche nel 25% dei casi nelle metastasi polmonari e gastriche. Anche la sede risulta influenzare la clinica, la localizzazione anteriore risulta essere

34

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responsabile d’edema, di ptosi e di una massa palpabile con, spesso, disordini oculo-motori; le localizzazioni posteriori, si caratterizzano per una riduzione dell’acuità visiva ed un esoftalmo irriducibile, solo successivamente si verifica un interessamento della motilità oculare2. Goldberg e coll. distinguono cinque manifestazioni cliniche di presentazione: effetto massa (66% dei casi), con spostamento del bulbo o palpabilità in caso di localizzazione anteriore; effetto infiltrativo (24% dei casi), quando l’infiltrazione può determinare diplopia, esoftalmo, ptosi e compromissione dei movimenti oculari; effetto funzionale (5% dei casi) nel caso in cui i pazienti presentino una riduzione dell’acuità visiva; effetto infiammatorio (5% dei casi) se il dolore è il sintomo più frequente, spesso esacerbato dai movimenti ed associato a chemosi, edema periorbitario e palpebrale; in ultimo l’esordio può essere silenzioso, se non si ha nessun sintomo e la diagnosi spesso è radiologica e casuale2-7. Comunque sia il segno più frequente risulta essere l’esoftalmo monolaterale accompagnato da modificazioni palpebrali e disordini oculomotori, edema papillare diagnosticabile all’esame del fondo oculare, riduzione dell’acuità visiva per compressione del nervo ottico, solo tardiva risulta essere la palpazione di una massa2-3-4-5-6-7-8 (Figure 10-11-12). DISCUSSIONE Diagnosi Le metastasi compaiono spesso tardivamente a distanza dal tumore primitivo, il quale spesso è stato anche già trattato con successo tanto da non essere neppure riportato in anamnesi dal paziente. Nel sospetto di una patologia orbitaria di possibile significato metastatico, bisogna eseguire un’accurata anamnesi e, in assenza di diagnosi di tumore primitivo, compiere sempre una palpazione mammaria nella donna, una valutazione prostatica nell’uomo e broncopolmonare in entrambi i sessi2-5-6-7. Dal punto di vista degli esami di laboratorio può essere utile il dosaggio di alcuni markers tipici delle neoplasie come: A.C.E. (antigene carcino-embrionario), un suo au-


mento può coincidere con un tumore del grosso intestino o della mammella; P.S.A., (antigene prostatico specifico), un suo valore elevato può essere connesso con una neoplasia prostatica; H.C.G, (gonadotropine corioniche umane), specifiche per i tumori del testicolo. Per quello che concerne la diagnosi strumentale, fondamentale è il ruolo dell’ecografia, esame non invasivo e di buoni risultati che, di fronte ad un esoftalmo monolaterale, eliminerà la diagnosi differenziale con una miopia unilaterale2-5. L’esecuzione di una T.A.C., in scansioni sia assiali quanto coronali, permetterà anche eventualmente una ricostruzione tridimensionale. Tipicamente l’immagine di una metastasi sarà caratterizzata da una massa mal definita, densa rispetto al tessuto grasso intorno, d’intensità simile a quella muscolare, associata spesso ad erosione ossea. La T.A.C. può anche mostrare il quadro di un’infiltrazione diffusa ai tessuti orbitari, con enoftalmo come nel caso delle metastasi a partenza dalla mammella, dal polmone, dal pancreas o infine dall’intestino2-5. La presenza di aree di osteolisi evidenzia la partenza dalla tiroide e dal rene, mentre, la comparsa di osteocondensazione può far presupporre un interessamento prostatico, infine un coinvolgimento muscolare con un ispessimento della muscolatura medesima può essere riconducibile ad un melanoma cutaneo2-5. La risonanza magnetica nucleare, contrariamente alla T.A.C., non risulta essere un esame di prima scelta; può essere utile per ulteriori dettagli anatomici sia delle parti molli quanto del nervo ottico. La possibilità di ottenere maggiori dati riguardo le caratteristiche tissutali può significativamente aumentare le possibilità diagnostiche. Ad esempio l’intensità del segnale in T2 può essere discriminatorio per distinguere patologie infiammatorie idiopatiche (bassa intensità) da linfoma o metastasi (alta intensità)5. Qualora le tecniche non invasive non fossero dirimenti, l’ago-aspirato può rappresentare un efficiente, economico e relativamente sicuro metodo per ottenere materiale per studi citologici2-5. Una delle migliori applicazioni dell’agoaspirato risulta essere proprio nella diagnosi

delle metastasi orbitarie. Quando è positiva può risparmiare al paziente l’onere ed il rischio di una biopsia a cielo aperto, soprattutto quando non è possibile l’exeresi radicale. Se il materiale è sufficiente, si possono compiere studi sui recettori ormonali e sugli antigeni di superficie direttamente sul campione prelevato dall’ago, come per esempio nel caso del carcinoma prostatico e mammario2-5. L’ago-aspirato, nei tumori dell’orbita, è una tecnica non univocamente riconosciuta ma che in mani esperte può portare ad una diagnosi specifica in un’elevata percentuale di casi9-10. Diagnosi differenziale La diagnosi differenziale deve porsi nei confronti dei tumori primitivi dell’orbita, in quelli a partenza dal seno frontale per contiguità, ma anche per patologie infiammatorie pseudo-tumorali, malformazioni artero-venose e fistole artero-cavernose2. Terapia Spesso è palliativa, guidata da due imperativi: il benessere generale del paziente ed il mantenimento della vista. La tecnica di prima scelta è quella della radioterapia; con un dosaggio da 30 a 50 Gray, in dosi frazionate, si ottiene una riduzione della massa e del dolore con un successo stimabile tra il 70% ed il 90% dei casi. Spesso, inoltre, gli effetti secondari della radioterapia non sono visibili per l’esiguità della vita restante. L’uso dell’ormonoterapia è utilizzabile per tumori responsivi come il tumore della mammella trattato con antagonisti estrogenici e progesterone ed il carcinoma prostatico trattato con antagonisti del testosterone. L’approccio chirurgico generalmente è limitato solo ai casi di metastasi isolata o quando esiste una problematica compressiva maggiore2-5. La biopsia a cielo aperto è indispensabile nel caso in cui l’ago-aspirato non abbia portato ad una diagnosi certa; l’importante è prelevare del tessuto non traumatizzato per poter realizzare le tecniche immuno-isto-chimiche e per la valutazione dei recettori ormonali. Varie possono essere le vie di accesso per la biopsia

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a seconda della localizzazione della metastasi; si potrà avere un approccio anteriore transattale a livello della palpebra superiore, mediante orbitotomia anteriore transcongiuntivale laterale o mediale garantendo un accesso nella parte posteriore dell’orbita od infine grazie ad

un orbitotomia laterale secondo Kronlein. In conclusione le differenti manifestazioni cliniche delle metastasi orbitarie conducono, qualche volta, ad un ritardo nella loro diagnosi, soprattutto se il tumore primitivo non è stato individuato2-5.

BIBLIOGRAFIA 1. DERMICI H., SHIELDS C.L., SHIELDS J.A., HONOVAR S.G., MERCADO G.J., TOVILLA J.C. Orbital tumors in the older adult popolation. Ophtalmology, 2002, Vol. 109, Number 2, 243-248. 2. MORAX, Pathologie orbito-palpébrale, Parigi, Masson, 1998. 3. FREEDMAN M.I., FOLCK J.C. Metastatic tumors to the eye and orbit. Patient survival and clinical characteristics. Arch. Oftalmol. Sept. 1987, Vol. 105, 1215-1219. 4. GOLDEBERG R.A., ROOTMAN J. Clinical characteristics of metastatic orbital tumors. Ophthalmology, 1990, 97; 620-624. 5. GOLDEBERG R.A., ROOTMAN J., CLINE R.A. Tumors metastatic to the orbit: a changing picture. Surv. Ophthalmol., 1990, 35; 1-24. 6. AMADDEO P., FONTANA S. I tumori dell’orbita: revisione della letteratura e presentazione della nostra casistica. Minerva Oftalmologica 2009 Giugno; 51(2);59-78. 7. SHIELDS J.A., SHIELDS C. L., BROTMAN H.K., CARVALHO C., PEREZ N., EAGLE R.C. Cancer metastatic to the orbit. Ophthalmic Plastic and Reconstructive Surgery. 2001. Vol. 17, 5; 346-354. 8. HOLLAND D., MAUNE S., KOVACS G., BEHRENDT S. Metastatic tumors of the orbit: a restrospective study. Orbit 2003. Mar, 22 (1); 15-24. 9. CANGIARELLA J.F., CAJIGAS A., SAVALA E., ELGERT P., SLAMOVITS T.L., SUHRLAND M.J. Fine needle asipration cytology of orbital masses. Acta Cytol., 1996 Nov-Dec, 40, 1205-1211. 10. MIDENA E., SEGATO T., PIERMAROCCHI S., BOCCATO P. Fine needle aspiration biopsy in ophtalmology. Surv ophtalmol., 1985, MayJun, 29(6), 410-422.

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NOTE


Le fotostimolazioni neurali sono tutte uguali? FSN integrata versus FSN customizzata Paolo Limoli, Laura D’Amato, Filippo Tassi, Roberta Solari, Riccardo Di Corato Low Vision Research Centre, Milano

Enzo M. Vingolo La Sapienza University, Roma

Le fotostimolazioni neurali sono tutte uguali? FSN integrata versus FSN customizzata Sottoposto alla redazione il 23 Dicembre 2009 Accettato per la pubblicazione il 29 Gennaio 2010

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RIASSUNTO Lo studio mira a confrontare la stabilizzazione della fissazione nell’ambito del PRL e il secondario incremento delle performance visive nei pazienti ipovedenti riabilitati con fotostimolazione neurale customizzata rispetto a fotostimolazione neurale integrata. Il campione analizzato è omogeneo e già sottoposto a riabilitazione visiva e a fotostimolazione neurale. A distanza di sei mesi, il campione effettua un ciclo di 5 sedute di fotostimolazione integrata e, a distanza di un anno un ciclo di 5 sedute di fotostimolazione neurale customizzata. Prima di iniziare ogni ciclo di Fotostimolazione

neurale, integrata o customizzata, viene analizzato, mediante microperimetria MP1, il PRL più vantaggioso per il paziente, inteso come quello ottenuto dal minor decentramento possibile, e viene fissato attraverso il Biofeedback sonoro il punto di fissazione preferenziale. Viene inoltre analizzato il BCVA, PEV, il visus per vicino residuo in cp, il visus per vicino con eventuale sistema ingrandente, la % di fissazione nei 2° centrali, la % di fissazione nei 4° ottenute con microperimetro MP1 e la velocità di lettura in parole al minuto.

OBIETTIVI La fotostimolazione neurale è una metodica di stimolazione finalizzata al miglioramento della qualità della visione e delle performance riabilitative in pazienti ipovedenti. È in grado di incrementare PEV, visus, velocità di lettura e stabilità di fissazione. Abbiamo ipotizzato che la fotostimolazione abbia come meccanismo principale quello di stabilizzare le fissazioni con modalità a cascata a partenza dalla detezione foveale e tutti gli altri parametri visivi. Non tutte le metodiche di fotostimolazione neurale sono uguali ma ognuna ha caratteristiche differenti associabili per raggiungere un risultato riabilitativo più efficace.

Questo studio mira a confrontare la stabilizzazione delle fissazioni all’interno del PRL (preferred retinal locus) e il secondario incremento delle performance visive nei pazienti ipovedenti riabilitati con la fotostimolazione customizzata rispetto a quelli trattati con fotostimolazione integrata.

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PAROLE CHIAVE: fotostimolazione, PRL, ipovisione

PAZIENTI E METODI Abbiamo considerato un campione di 21 pazienti ipovedenti clinicamente stabili già sottoposti in precedenza a riabilitazione visiva e fotostimolazione neurale. La fotostimolazione neurale è una metodica di stimolazione basata sul biofeedback capace di migliorare il risultato riabilitativo e con-


seguentemente la qualità della visione in pazienti ipovedenti. Tali stimolazioni sul sistema neurovisivo del paziente sono ottenibili con diverse apparecchiature e metodiche. 1. L’I.B.I.S. (Improved Biofeedback Integrated System) è stato introdotto nel nostro Centro a partire dal 1997. Si tratta di uno strumento che coniuga la stimolazione flicker ad un feedback sonoro che il paziente deve imparare a mantenere stabile ed acuto. La frequenza di lampeggiamento del flicker deve essere superiore (di circa 5 millisecondi) al Periodo Critico di Fusione (PCF) di ciascun paziente, dove per PCF si intende il punto di confine tra la percezione e la non percezione del tremolio del flicker. Il training viene effettuato alternando un occhio all’altro per una durata complessiva di circa 10-15 minuti. 2. Il Visual Pathfinder (VP) consiste in un sistema di fotostimolazione neurale volto a potenziare in maniera obiettiva e soggettiva le performances visive di un paziente ipovedente od ambliope; durante il training con questa apparecchiatura il paziente viene invitato a guardare un pattern a scacchiera le cui dimensioni possono variare a seconda del visus di partenza del soggetto e dell’occhio considerato. Viene pertanto stimolato un occhio e coperto l’occhio controlaterale; al paziente vengono applicati tre elettrodi per la registrazione del potenziale visivo evocato (PEV), in tempo reale, durante la stimolazione stessa. La durata della stimolazione è di dieci minuti per ciascun occhio per un totale complessivo di 20 minuti. 3. Il Biofeedback sonoro (MP1) viene effettuato con lo strumento per microperimetria MP1. Tale apparecchio permette, tramite la visualizzazione diretta del fondo dell’occhio del paziente in trattamento, di proiettare nella zona foveale o maculare di maggiore sensibilità (precedentemente identificata tramite esame microcampimetrico) lo stimolo di fissazione che, in

questo caso, è generalmente una croce rossa, le cui dimensioni possono essere variate in base al visus del paziente ed alla presenza di eventuali scotomi. Il segnale sonoro rimane continuo solo quando il paziente mantiene la fissazione costante nel punto prescelto. In questo modo si riducono notevolmente i movimenti di ricerca e la fissazione diventa di volta in volta più stabile. Quest’ultimo tipo di training è il più impegnativo ed ha una durata massima di 60 secondi per occhio. Ha il vantaggio di poter personalizzare il trattamento fotostimolativo per ogni paziente: l’operatore infatti può scegliere il target di fissazione nell’area migliore (PRL), quella più sensibile o meno decentrata rispetto a quella fisiologica danneggiata. Il segnale sonoro rimane continuo solo quando il paziente mantiene la fissazione costante nel punto prescelto. Già in passato abbiamo ottenuto delle performance visive migliori integrando le varie metodiche qui presentate. Per realizzare questo studio abbiamo sviluppato una nuova metodica di stimolo denominata fotostimolazione customizzata che integra due tecniche: Visual Pathfinder e Biofeedback sonoro. 1. Il Visual Pathfinder (10 minuti ad occhio). 2. Il Biofeedback sonoro, effettuato con microperimetria MP1 (2,5 minuti ad occhio). La fotostimolazione integrata, associa tre metodiche differenti: 1. Stimolazione al VP (10 minuti a occhio) e contemporanea registrazione dei VEPs. 2. Stimolo con IBIS (5-7 minuti a occhio). 3. Biofeedback sonoro all’MP1 (1 minuto ad occhio). Nell’ambito del campione considerato sono stati esclusi gli occhi che hanno avuto recidive della malattia oculare causa di ipovisione. I pazienti sono stati trattati con 5 sedute di fotostimolazione integrata e a distanza di 6 mesi con 5 sedute di fotostimolazione customizzata. Nella fotostimolazione customizzata, dopo aver individuato il PRL attraverso il microperimetro, si inizia con Biofeedback sonoro

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mediante MP1 (2,5 minuti ad occhio) e successivamente con stimolazione mediata da pattern ottici ottenuti con VP (10 minuti a occhio). All’inizio e alla fine di ogni ciclo sono stati analizzati fissazione entro i 2° e i 4° centrali, con score di stabilità, BCVA per lontano, visus residuo per vicino, visus per vicino con sistema, PEV, velocità e coefficiente di lettura. A tal fine è stato impiegato un ottotipo per lontano in Snellen, un ottotipo per vicino in corpi di stampa elaborato dal Centro Studi Ipovisione di Milano, un microperimetro MP1, il quale esegue una microperimetria attraverso il programma autotracking ad alta frequenza, e un apparecchio per rilievi elettrofisiologici Visual Pathfinder. Il campione esaminato è composto da 34 occhi (21 soggetti con età media di 58 anni e un range compreso tra 24 e 81 anni). RISULTATI In tale campione il ciclo di fotostimolazione integrato ha portato il BCVA da 0,31 a 0,48, il visus residuo per vicino da 24,24 a 16,16 cp, il visus per vicino con sistema da 9,27 a 7,31 cp, la sensibilità da 6.53 a 8,19 dB, la stabilità delle fissazioni nei 2° centrali dal 48,24 al 58,28%, il decentramento da 3,00° a 2,16°, i PEV da 2,64 a 3,82 microVolts, la velocità di

lettura da 80,50 a 95,50 par./min. Il ciclo di fotostimolazione customizzata effettuato sei mesi dopo ha portato il BCVA da 0,40 a 0,53, il visus residuo per vicino da 18,5 a 14,8 cp, il visus per vicino con sistema da 7,5 a 6,8 cp, la sensibilità da 8,4 a 8,1 dB, la stabilità delle fissazioni nei 2° centrali da 41,9 a 68,9%, il decentramento da 3,05° a 2,29°, i PEV da 1,7 a 3,3 microVolts, la velocità di lettura da da 83,1 a 94,60 par./min. Abbiamo poi confrontato le variazioni ottenute con le due diverse tecniche di fotostimolazione neurale (Tabella 1) (Figura 1). CONCLUSIONI Si conferma che la fotostimolazione, attraverso una maggior collimazione della fissazione entro i 2°, determina un aumento della detezione foveale (riduzione del decentramento e stabilizzazione delle fissazioni nel PRL), questo a sua volta favorisce un incremento del visus, PEV e delle performance di lettura (Figure 2,3,4). La tecnica di fotostimolazione customizzata, stimolando direttamente il PRL, sembra ottenere performance visive migliori nel paziente ipovedente e pertanto può essere impiegata con vantaggio durante il processo riabilitativo.

FSN integrata

Tabella 1.

40

FSN customizzata

T0

T30

Delta %

T180

T210

Delta %

% T210/T0

BCVA

0,31

0,48

53,93

0,40

0,53

35,30

72,40

Cp residui

24,24

16,16

33,33

18,5

14,8

20,03

39,02

Cp con ausilio

9,27

7,31

21,16

7,5

6,8

10,04

26,81

Sens. MP1

6,53

8,19

25,36

8,4

8,1

-3,77

23,44

Dec°

3,00

2,16

28,13

3,05

2,29

24,91

23,66

Fix % 2°

48,24

58,28

20,81

41,9

68,9

64,39

42,89

Fix % 4°

80,85

88,47

9,43

69,2

88,5

27,82

9,40

PEV

2,64

3,82

44,36

1,7

3,3

96,20

25,27

Par./Min.

80,50

95,50

18,63

83,1

94,6

13,91

17,53

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Sopratutto è migliore nell’aumentare la percentuale di fissazione nei 2° centrali, nell’incrementare i PEV e nel mantenere elevati i valori del visus residuo e con ausili sia per lontano che per vicino. Non ci sono differenze significative nella capacità di miglioramento del grado di visione eccentrica (Figura 5).

Poiché le performance visive tendono a regredire nel tempo il trattamento fotostimolativo va ripetuto ciclicamente per ripristinare gli incrementi ottenuti. La FSN customizzata richiede inoltre meno tempo (25 minuti a seduta) rispetto alla FSN integrata (35 minuti) dimostrandosi meno impegnativa per il paziente e per l’operatore.

BCNearVA CHANGE by Integrated NPS before vs Customized NPS after

Words/minutes changes by Integrated FSN before and Customized FSN after

30 Residual points Aid points

24,4

20 15

18,5 Integrate

d NPS

10 5

14,8

16,6 Customized NPS

7,31

7,5

9,27

100 Words per minute

Points

25

6,8

Int.NPS T0

Int.NPS T30

85 80

Int.NPS T0

Cust.NPS T180 Cust. NPS T210

dN

PS

3,84 3,3

ize

dN

2,64

om

2,00 1,50

1,7

1,00 Int.NPS T0

BCDistance CHANCEG by Integrated NPS before vs Customized NPS after

Int.NPS T30

Snellen

ate

PS

gr Inte

Cu st

Micron Volts

Int.NPS T30

Figura 2.

4,00

2,50

83,1

80,50

75

VEPs CHANGES by Integrated NPS before vs Customized NPS after

3,00

94,6

90

Cust.NPS T180 Cust. NPS T210

Figura 1.

3,50

95,50

95

0,6 0,55 0,5 0,45 0,4 0,35 0,3 0,25 0,2

Figura 3.

0,40 0,31 Int.NPS T0

Cust.NPS T180 Cust. NPS T210

0,53

0,48

Int.NPS T30

Cust.NPS T180 Cust. NPS T210

Figura 4.

Eccentric Vision

Eccentrical Vision Changes by Integrated FSN before and Customized FSN after 3,20 3,00 2,80 2,60 2,40 2,20 2,00

3,00

3,05 2,29

2,16 FSNi T0

FSNi T30

FSNi T180

FSNi T210

Figura 5.

BIBLIOGRAFIA 1) CHEN WR, WILLIAMSON A, SHEPHERD GM, SPENCER DD, KATO K, LEE S. Long-term modifications of synaptic efficacy in the human inferior and middle temporal cortex. Proc Natl Acad Sci USA 1996;93(15):8011-5. 2) MARTINEZ IL JR, DERRICK BE. Long term potentiation and leaming. Ann Rev Psychol 1996;47:173-203

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NOTE


Case Report

Rhino-orbital mucormycosis Garg Pragati Associate Professor, Department of Ophthalmology, Era’s Lucknow Medical College, Sarfarazganj, Lucknow, U.P. (India)

Khanduri Sachin Associate Professor, Department of Radio-diagnosis, Era’s Lucknow Medical College, Sarfarazganj, Lucknow, U.P. (India)

ABSTRACT Rhino-orbital mucormycosis is caused by the class Zygomycetes (e.g. Mucor). These fungi can cause serious and rapidly fatal infections, particularly in the immunocompromised, such as poorly controlled diabetics. The most frequent form begins in the nose and paranasal sinuses and can reach the brain. Unless early diagnosis and treatment is established mucormycosis leads to death. In rhino-orbital infections, inhalation is the natural route of infection. Our case is a female of 40 years of age, known diabetic on poor glycemic control due to very irregular treatment, presented initially with complaints of restlessness, headache, weakness, vertigo and loss of appetite which further progressed to ptosis and complete right sided ophthalmoplegia, proptosis, chemosis and fifth nerve paresis leading to decreased sensation over right side of face. She was empirically started treatment for mucormycosis and the biopsy from maxillary sinus was taken which later confirmed the diagnosis.

Rhino-orbital mucormycosis

KEYWORDS: Mucormycosis, Rhinoorbital, Diabetes mellitus.

Sottoposto alla redazione il 11 Dicembre 2009 Accettato per la pubblicazione il 10 Febbraio 2010

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INTRODUCTION Mucormycosis is a rare necrotizing fungal infection caused by the class Zygomycetes and the order Mucorales1. These fungi can cause serious and rapidly fatal infections, particularly in the immunocompromised, such as poorly controlled diabetics2. The most frequent form begins in the nose and paranasal sinuses and can reach the brain. Unless early diagnosis and treatment is established mucormycosis leads to death. In rhino-orbital infections, inhalation is the natural route of infection. The authors present the case of rhino-orbital mucormycosis who responded to medical and surgical therapy. CASE REPORT A 40 year old woman with a history of diabetes mellitus for more than 3 years, on highly irregular treatment, was admitted with complaints of restlessness, headache, weakness, vertigo and loss of appetite. There was no history of trauma, tuberculosis and bronchial asthma. On examination she was ill looking, had poor oral hygiene, pulse 90/ min, respiration 22/ min. and blood pressure of 150/100 mm of mercury, temperature was 98.6 0F. On investigations her fasting and post prandial blood sugar was 254.5 mg% and 498.3 mg % respectively. Her blood urea was 37.0 mg/dl, serum creatinine was 0.89mg/dl. Sugar was present in the urine, while ketone bodies were absent. Further during her stay in the hospital, next day she developed right sided facial swelling with pain.


On oto-rhino-laryngological examination she was diagnosed as a case of acute bacterial maxillary sinusitis. Intensive treatment with intravenous (IV) insulin therapy and IV antibiotic with local treatment of sinusitis was started. Despite general improvement, the patient’s facial findings progressed with swelling over right side of cheek and right periorbital region with ptosis and complete right sided ophthalmoplegia, proptosis, chemosis and fifth nerve paresis leading to decreased sensation over right side of face. Purulent discharge was present through right nasal cavity. Fundus examination revealed mild haziness of disc margins, mild retinal pallor. Peripapillary arteries were attenuated with presence of cherry red spot. Patient was advised CT scan of head, paranasal sinuses and orbit which reveaed no definite evidence suggestive of any focal parenchymal or space occupying lesion in brain, there was cellulitis involving right side of face and cheek with granulation tissue in right maxillary and bilateral ethmoids with blocked right osteomeatal unit. Diagnosis of rhino-orbital mucormycosis was suspected and IV Amphotericin B injection was initiated, in the dose of 20mg as a loading dose followed by 10-15mg after an interval of 2 hrs and biopsy was taken from the maxillary sinus. The biopsy specimen contained fungus with nonseptated hyphae in the tissue and invading blood vessels. Later on culture of the specimen revealed characteristic hyphae of mucor and the diagnosis of mucor mycosis was confirmed. An orbital exenteration with partial maxillectomy was done along with the medical treatment. The tissue removed was necrotic. Patient showed improvement and was discharged after 2 weeks and was then lost to follow up. DISCUSSION The zygomycoses are infections caused by fungi of the class Zygomycetes, comprised of the orders Mucorales and Entomophthorales. Fungi of the order mucorales are causes of mucormycosis, a life threatening fungal infection almost uniformly affecting immu-

Figura 1. CT images of sinuses showing granulation tissue in right maxillary and bilateral ethmoids with blocked right osteomeatal unit.

nocompromised hosts in either developing or industrialized countries. Both mononuclear and polymorphnuclear phagocytes of normal hosts kill mucorales by the generation of oxidative metabolites and the cationic peptides defensins3-5. Hyperglycemia and acidosis are known to impair the ability of phagocytes to move toward and kill the organisms by both oxidative and nonoxidative mechanism6. Rhinocerebral mucormycosis continues to be the most common form of the disease, accounting for between one third & one half of all cases of mucormycosis7. About 70% of rhinocerebral cases are found in diabetic patients in ketoacidosis8. The initial symptoms of rhinorbital mucormycosis are consistent with either sinusitis or periorbital cellulitis9,10 and include eye or facial pain and facial numbness followed by the onset of conjunctival suffusion, blurred vision and soft tissue swelling11-13 as was observed by authors in present case. If untreated, infection usually spreads from the ethmoidal sinus to the orbit, resulting in loss of extra ocular muscle function and proptosis as was seen in this case. Marked chemosis may also be seen. The infection may rapidly extend into the neighboring tissues in absence of early suspicion, which was averted in present case due to prompt and early

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aggressive management of the case. Diagnosis of rhino-orbito-cerebral mucormycosis is made either by a successful culture of infected tissue or microscopic identification of the nonseptated fungus. Result of routine laboratory examinations are variable and non diagnostic14,15. Management of infection begins with the control of the underlying disease process. This enables the host to regain his or her natural resistance. Surgical debridement of all infected tissue which may be extensive should be done Therapy should also include treatment with the fungistatic antibiotic agent amphotericin B as was done here in this case. The use of systemic steroids & antibiotics should be judicious.

CONCLUSION A high index of clinical suspicion is required to make the diagnosis of rhinoorbital mucormycosis in a patient with uncontrolled diabetes who presents with headache, facial pain and proptosis. Imaging techniques may be suggestive of mucormycosis but are rarely diagnostic. Surgical exploration with biopsy of the areas of suspected infection should always be performed in high risk patients to confirm the diagnosis. It is critically important to understand that if mucormycosis is suspected, initial empirical therapy with amphotericin B should begin while the diagnosis is being confirmed16.

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NOTE


Neuroprotezione nel glaucoma: ruolo della acetil-L-carnitina Nicola Pescosolido “Sapienza” Università Roma - I Facoltà di Medicina e Chirurgia - Dipartimento di Scienze dell’Invecchiamento

Barbara Imperatrice, Claudia Ganino, Monica Autolitano “Sapienza” Università Roma - I Facoltà di Medicina e Chirurgia - Dipartimento di Scienze Oftalmologiche

Neuroprotezione nel glaucoma: ruolo della acetil-L-carnitina

Sottoposto alla redazione il 8 Gennaio 2010 Accettato per la pubblicazione il 26 Febbraio 2010

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RIASSUNTO Il glaucoma è un’importante causa di cecità nel mondo e si presenta come una sindrome caratterizzata da neurotticopatia progressiva e difetti del campo visivo. Dal punto di vista eziopatogenetico, il glaucoma è una malattia multifattoriale di cui è stata individuata un’ampia varietà di fattori causali importanti nella genesi dell’insulto a cui vengono esposte le cellule gangliari retiniche accanto al fattore di rischio più importante quale la pressione intraoculare (IOP). In primo luogo gli astrociti, normali costituenti del tessuto nervoso del nervo ottico, che possono andare incontro ad attivazione eccessiva provocando morte dei neuroni. Importante è il ruolo delle eccitotossine e in particolar modo del glutammato che provocando un’eccessiva stimolazione del neurone post-sinaptico, ne determina la sua morte. L’ossido nitrico e le endoteline possono parte-

cipare alla cascata di eventi che determinano apoptosi cellulare agendo sulla vascolarizzazione, sulla IOP e direttamente nelle vie intracellulari di attivazione dell’apoptosi. Anche lo stress ossidativo sembra essere implicato nella morte dei neuroni determinando denaturazione proteica, perossidazione lipidica e produzione di fattori chemiotattici. Riveste perciò particolare importanza la neuroprotezione e le sostanze riconosciute come neuroprotettrici quali la acetil-L-carnitina (ALCAR), molecola endogena con molteplici azioni fisiologiche che potenziando il metabolismo cellulare e la sua efficienza permette di rendere le cellule gangliare retiniche più resistenti agli insulti.

INTRODUZIONE Clinicamente, nei pazienti glaucomatosi si verifica una progressiva perdita dello strato delle fibre nervose gangliari che conduce alla progressiva e caratteristica escavazione della testa del nervo ottico e alla degenerazione assonale del nervo stesso (Quigley et al., 1981; Sommer et al., 1991). Il primo strato retinico coinvolto in questa neurootticopatia è quindi quello delle cellule retiniche gangliari (RGC) che vanno incontro ad apopto-

si (Nickels, 1996; Pescosolido et al., 1998; 2000;

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PAROLE CHIAVE: Glaucoma, Pressione intraoculare (IOP), Ossido nitrico, Tumor necrosis factor α (TNFα), acetil-L-carnitina

Quigley, 1999; Rankin, 1999; Desantis et al., 2000) mentre lo strato dei fotorecettori è a lungo conservato (Wygnanski et al., 1995; Kendell et al., 1995). Dal momento che nell’uomo il 90% delle RGC proietta al corpo genicolato laterale, il danno potrebbe estendersi dalle cellule gangliari retiniche ai centri cerebrali della visione (Gupta et al, 2006; Caprioli e Garway-Heath, 2007). Studi recenti hanno confermato che le cellule


gangliari retiniche non muoiono contemporaneamente ma a differenti livelli e resta da stabilire quale è l’esatta dinamica del danno. Sono state formulate due ipotesi a tale riguardo. La prima ipotesi afferma che il danno primario produce un esteso insulto a tutte le cellule ma queste morirebbero in tempi diversi in base alla diversità di spessore e funzionalità cellulare (sistema magno e parvicellulare). La seconda ipotesi, invece, considera una degenerazione primaria che colpisce i neuroni interessati direttamente dall’insulto inducente morte cellulare e una degenerazione secondaria che interessa i neuroni sani circostanti a quelli primariamente interessati, a causa della liberazione, da parte di questi ultimi, di sostanze eccitotossiche quali il glutammato (Osborne et al., 1999). La neuroprotezione potrebbe intervenire, concettualmente, proprio in questa seconda fase impedendo pertanto la degenerazione secondaria delle cellule gangliari retiniche (Murakami e Okisaka, 1998; Yoles e

Schwartzl,1998a; Neufeld, 1999; Weinreb e Levin, 1999). Il nervo ottico non contiene alcun corpo cellulare neuronale. Al suo interno sono presenti fasci di fibre nervose, provenienti dalle cellule gangliari retiniche, sostenute strutturalmente e funzionalmente dalla macroglia: gli oligodendrociti e gli astrociti (Figura 1). Gli astrociti in condizioni fisiologiche normali

Figura 2. Sezione di nervo ottico che mostra la disposizione colonnare e ordinata degli astrociti tra le fibre nervose

Figura 3. Stravolgimento della disposizione ordinata degli astrociti in seguito a stress ipertensivo che suggerisce una loro attivazione

Figura 1. Disegno schematico della morfologia e dei rapporti della macroglia: oligodendrociti e astrociti

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svolgono le loro mansioni rimanendo geograficamente stabili e vengono definiti come astrociti maturi quiescenti. Essi, però, possono cambiare fenotipo, in seguito a danni nel sistema nervoso e diventare reattivi (attivati) esprimendo morfologie e funzioni diverse (Figure 2, 3). Il fenotipo attivato delle cellule astrocitarie, come pure la microglia, rilascia citochine, specie reattive di ossigeno, ossido nitrico e TNF-a e svolge un ruolo essenziale per ciò che concerne il rimodellamento della lamina cribrosa. Negli ultimi anni è stata segnalata la partecipazione del fattore di necrosi tumorale a (TNF a) alla morte apoptotica delle RGC nei pazienti glaucomatosi. Tezel et al. (2001) hanno rilevato un’aumentata espressione del TNF a e del recettore 1 del TNF a nella testa del nervo ottico e nelle sezioni retiniche degli occhi glaucomatosi. Uno studio condotto su colture cellulari ha inoltre evidenziato che le cellule gliali, esposte a elevate pressioni idrostatiche o sottoposte a stimolo ischemico, incrementano la secrezione di TNF a, portando a morte per apoptosi le cellule gangliari retiniche presenti nella stessa coltura. Tale effetto può essere attenuato con la somministrazione di anticorpi neutralizzanti diretti contro il TNF a (Tezel e Wax, 2000). Inoltre, in forme patologiche (come appunto nel glaucoma) si evidenzia una disorganizza-

Figura 4. Sezione longitudinale di nervo ottico di ratto decorato con anticorpo anti-GFAP: si possono osservare le cellule astrocitarie colorate in marrone

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zione a livello degli astrociti nelle regioni anteriori del nervo ottico associate a una loro ipertrofia e all’aumentata espressione della proteina acida fibrillare della glia (GFAP) (Figura 4). Nei pazienti glaucomatosi, gli astrociti della testa del nervo ottico esprimono elevati livelli di mRNA che codifica per la 20(3)-diidrodiolo deidrogenasi (AKR1C1 o DDH), un enzima del metabolismo degli steroidi in grado di inattivare i prodotti della perossidazione lipidica (Hernandez et al., 2002). Uno studio condotto da Malone e Hernandez (2007) su astrociti umani della testa del nervo ottico ha messo in evidenza un aumento dell’espressione di AKR1C1 e altri enzimi antiossidanti dopo esposizione della coltura cellulare al 4-idrossi2E-nonenale, uno dei prodotti più tossici della perossidazione lipidica. L’attivazione della glia è quindi un meccanismo reattivo che contrasta lo stress ossidativo cronico e promuove la riparazione delle cellule (i.e. ubiquitina, proteine dello stress e PCNA) (Figure 5-7). Paradossalmente, il rilascio di sostanze quali le citochine e l’ossido nitrico può a sua volta innescare danni nelle cellule della retina e produrre eventi neurodegenerativi. Comunque, qualsiasi sia la causa scatenante del fenotipo attivato delle cellule gliali, si può innescare un meccanismo perverso che porta a un peggioramento degli effetti del danno primario, sino alla morte cellulare con modalità apoptotica (Figura 8). Le eccitotossine sono sostanze normalmente coinvolte nell’attivazione delle membrane cellulari ma con elevato potenziale tossico a livello neuronale. Il principale rappresentante è il glutammato, sostanza abbondante nelle terminazioni presinaptiche, che gioca un ruolo importante in numerose funzioni neurologiche come la cognizione, la memoria, il movimento e la sensazione (Lipton e Rosenberg, 1994). I recettori glutammatergici ionotropici eccitatori sono particolarmente abbondanti nella retina e sono strettamente associati alle RGC (Levin, 1999; Logan et al., 2000). Il danno eccitotossico comprende una cascata di eventi che si autoalimentano alla cui base


Figura 5. Attivazione degli astrociti. A) Sezione di nervo ottico di controllo; B) Sezione di nervo ottico decolorato con anti-ubiquitina. L’ubiquitina è una proteina dello stress cellulare e avvia le proteine danneggiate al sistema degradativo proteosomale. Inoltre è coinvolta nei fenomeni regolativi della morte cellulare programmata

Figura 6. Attivazione degli astrociti. A) Sezione di nervo ottico di controllo; B) Sezione di nervo ottico decolorato con anti-NOS. L’aumento della immunoreattività per l’iNOS è indice di espressione di elevati livelli di ossido nitrico sintetasi e quindi di produzione a livello delle cellule gliali del nervo ottico di NO.

Figura 7. Attivazione degli astrociti. A) Sezione di nervo ottico di controllo; B) Sezione di nervo ottico dopo stress ipertensivo che mette in risalto la presenza della proliferating cell nuclear antigen (PCNA), una proteina espressa in seguito a stress e sotto il controllo di p53 che può partecipare all’attivazione del programma di morte apoptotica della cellula

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Figura 8. A) Sezione di nervo ottico di controllo; B) Sezione di nervo ottico dopo stress ipertensivo che mostra l’espressione della caspasi-3, una proteina effettrice del processo apoptotico

vi è la perdita dell’omeostasi ionica e che comporta in ultimo la morte cellulare. I principali cambiamenti ionici coinvolti nella patologia molecolare sono: (i) un iniziale influsso di Na+ e (ii) un aumento del Ca2+ intracellulare. Queste alterazioni avvengono in parallelo e sono responsabili di una continua depolarizzazione e amplificazione della lesione con il persistente rilascio di glutammato, necrosi e

Figura 9. Recettori del glutammato e vie di trasduzione intracellulare presenti nel tessuto nervoso

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morte Ca2+-dipendente (Figure 9, 10), (Casson, 2006). La depolarizzazione ha inizio dall’attivazione dei recettori AMPA (metabotropici) e successivamente da quella dei canali del Na+ voltaggio-dipendenti (ionotropici). La depolarizzazione cronica causa la rimozione del blocco del recettore NMDA dato dallo ione Mg2+ così da permettere l’influsso di Ca2+ attraverso il canale. L’iniziale influsso di Na+ è seguito dall’influsso passivo degli ioni Cl- che seguono il proprio gradiente di concentrazione e da quello dell’acqua lungo il proprio gradiente osmotico. L’aumento intracellulare di acqua può portare al rigonfiamento degli organelli citoplasmatici ed eventualmente a una lisi cellulare con rilascio del contenuto intracellulare, incluso il glutammato, nell’ambiente extracellulare. Dreyer et al. (1996) furono i primi ad analizzare la forte correlazione tra eccitotossicità indotta dal glutammato e danno glaucomatoso. Questi Autori misurarono le concentrazioni di 14 aminoacidi nel vitreo sia di pazienti glaucomatosi che di scimmie con glaucoma sperimentale e trovarono che il glutammato era l’unico significativamente aumentato rispetto ai controlli. La concentrazione trovata in pazienti glaucomatosi in terapia era infatti di 23 mM rispetto ai 10 mM dei soggetti sani di controllo con concentrazioni maggiori di glutammato nel vitreo posteriore rispetto all’anteriore a


conferma della teoria secondo la quale il glutammato è rilasciato dalla retina (Dreyer e Lipton, 1999). Studi successivi hanno supportato questa ipotesi dimostrando che in seguito all’incremento della pressione intraoculare per brevi periodi di tempo si verifica un’ischemia retinica, responsabile dell’incremento dei livelli del glutammato (Kapin et al., 1999; Osborne et al., 1999b). Una molecola che può contribuire alla cascata degli eventi, attivata dal glutammato, che porta alla morte delle RGC è l’ossido nitrico (NO) la cui produzione può essere indotta dalla ossido d’azoto sintetasi neuronale (nNOS) o NOS-1 in seguito all’aumento della concentrazione del calcio intracellulare. Comunque, si pensa che l’eccitotossicità indotta dal glutammato può portare all’attivazione di diverse vie di trasduzione che da ultimo contribuiscono alla morte delle cellule gangliari retiniche (Sucher et al., 1997). Nell’occhio, l’ossido nitrico (NO) e le endoteline (ET) sono mediatori cellulari implicati nella regolazione della pressione intraoculare, nella modulazione del flusso ematico oculare e nel controllo della morte delle cellule gangliari retiniche, tre aspetti implicati nella patogenesi del glaucoma (Moncada et al., 1991; Lipton et al., 1993). Sono state identificate tre isoforme della NOS: la NOS-neuronale costitutiva o NOS-1, NOSinducibile o NOS-2 e NOS-endoteliale costitutiva o NOS-3. La NOS-1 e la NOS-3 vengono attivate da segnali biologici che incrementano la concentrazione del calcio intracellulare in modo transitorio essendo enzimi calcio-dipendenti e sono presenti in diversi tessuti in condizioni fisiologiche. In condizioni patologiche, la NOS-2 può essere indotta in numerosi tessuti, compresi i neuroni, astrociti e cellule endoteliali. In particolare, un importante pathway di trasduzione del segnale implicato nell’induzione della NOS-2 in risposta all’aumento della IOP a livello degli astrociti, è quello che coinvolge il recettore tirosin-chinasico dell’EGF (fattore di crescita epidermico) (Neufeld e Liu, 2003). Quando è presente nel SNC, la NOS-2 produ-

Figura 10. Schema dell’attivazione dei recettori NMDA del glutammato e loro conseguenze intracellulari

ce eccessive quantità di NO il quale interagisce con il radicale superossido O2.-, formatosi per il danno indotto, dando luogo a specie altamente ossidanti quali i perossinitriti in maniera del tutto analoga a ciò che accade all’interno dei fagolisosomi di un macrofago. Questi ultimi inducono nitrosilazione di proteine cellulari, lipidi e DNA mediando la morte cellulare per apoptosi (Shareef et al., 1999). In occhi di ratto sottoposti a un cronico e moderato aumento dei livelli di pressione intraoculare è stato osservato un aumento dell’espressione della NOS-2, parallelamente a un aumento della produzione di NO (Shareef et al., 1999), così come negli occhi glaucomatosi umani, (Neufeld et al., 1999), mentre non è stato riscontrato un aumento dell’espressione della NOS-3 (Shareef et al., 1999). In pazienti affetti da glaucoma ad angolo aperto, è stato osservato che nella regione prelaminare, nella regione laminare e postlaminare molti astrociti esprimono la NOS-2 e molti di più esprimono la NOS-1, rispetto a individui sani in cui gli astrociti non esprimono affatto NOS-2 e pochi e sparsi degli stessi esprimono NOS-1. Così, è stato ipotizzato che, il NO, che negli occhi glaucomatosi prodotto in queste regioni dagli astrociti, reagisce con il radicale superossido, prodotto dai mitocondri e presente negli assoni delle RGC. Questa reazione porta alla formazione di perossinitriti i quali reagiscono con i residui di tiroxina di proteine strutturali ed enzimi, provocando nelle RGC perdita di struttura e di funzione (Neufeld, 1999) ed eventualmente all’apoptosi (Muijsers et al., 1997). Studi

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in vitro su astrociti della testa del nervo ottico hanno mostrato che la NOS-2 viene indotta in risposta a citochine quali TNF-a da solo o in combinazione con TNF-a/IL-1a (Liu e Neufeld, 2000; Tezel et al., 2000). La NOS-2 potrebbe anche essere indotta direttamente da uno stress meccanico quale la pressione intraoculare (Liu e Neufeld, 2001). L’endotelina-1 (ET-1), il più potente vasocostrittore fisiologico conosciuto che entra nella complessa regolazione della perfusione del nervo ottico, viene rilasciato dalle cellule endoteliali ed è coinvolto, insieme al NO, nella patogenesi del glaucoma (Flammer, 2000). Kim et al. (2000) hanno condotto un esperimento in cui somministravano endotelina nella regione perineurale del nervo ottico anteriore in 4 conigli per un periodo di 2 settimane. Il gruppo di controllo è stato trattato con soluzione salina bilanciata. Sono stati prelevati campioni di vitreo ed è stato misurato il loro contenuto in aminoacidi. I risultati hanno evidenziato un aumento statisticamente significativo del glutammato, aspartato e glicina negli occhi trattati con endotelina. Da ciò gli Autori hanno dedotto che vasocostrizione e ischemia del microcircolo della papilla portano a un aumento di tali sostanze nel vitreo. Questo studio si ricollega a quello condotto da Wang et al. (2000) in cui gli Autori hanno introdotto endotelina nello spazio neurale periottico in tre scimmie per 6 mesi. Gli occhi hanno sviluppato escavazione e in un occhio diminuzione dello strato delle fibre nervose retiniche come pure alterazioni al mPERG e danno assonale superiore al 44%. Nelle aree corrispondenti al danno assonale veniva riscontrata una proliferazione reattiva degli astrociti. I radicali liberi sono sostanze che possiedono un elettrone spaiato e, di conseguenza, reagiscono con lipidi, acidi nucleici e proteine. I radicali liberi più noti e meglio studiati sono quelli che derivano dalla degradazione dell’ossigeno molecolare, in particolare l’anione superossido (O2.-), lo ione ossidrile (OH.) e l’ossigeno singoletto (1O2). Queste molecole reagiscono in vivo con gli aminoacidi contenenti gruppi solfuro e con gli acidi grassi insaturi,

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determinando, di conseguenza, fenomeni quali la denaturazione proteica, la perossidazione dei lipidi di membrana che si traduce in un’alterata permeabilità di membrana, la produzione di fattori chemiotattici, l’alterata sintesi di collagene attraverso una diminuita attività enzimatica e un’aumentata infiltrazione cellulare. Non è stato ancora possibile stabilire in vivo quali siano le strutture più colpite dai danni prodotti dai radicali liberi anche se in vitro sembra che essi esercitino la loro azione soprattutto a livello delle cellule endoteliali, delle cellule gliali e gangliari retiniche (Pescosolido e Guglielmelli, 1994). Infatti, Lieven et al. (2006), misurando lo stress ossidativo delle RGC sottoposte ad assotomia, hanno osservato l’aumento del livello intracellulare dell’anione superossido. L’anione superossido può essere prodotto in vari siti all’interno della cellula tra cui il mitocondrio ed è proprio il livello di anione superossido generato nel mitocondrio che aumenta. Verosimilmente è questo lo step che innesca il signaling dell’apoptosi. Gli effetti neurodegenerativi dei radicali liberi non sono però limitati a stimoli acuti come nell’ischemia, ma sono coinvolti anche in patologie del sistema nervoso centrale di tipo cronico quali la sclerosi laterale amiotrofica e la sindrome di Alzheimer (Mc Namara e Fridovich, 1993). Diversi fattori di crescita, le cosiddette neurotrofine, sono considerati di importanza significativa per il fisiologico sviluppo della via visiva e per questo cambiamenti quantitativi e qualitativi delle neurotrofine o dei loro recettori che si verificherebbero nelle prime fasi dell’ipertensione oculare potrebbero precedere l’estesa morte cellulare e le caratteristiche cliniche del glaucoma. Il brain derived neurotrophic factor (BDNF), in particolare, favorendo la sopravvivenza e la differenziazione delle RGC in coltura, è stato identificato come il principale agente neurotrofico per tali cellule. Il suo RNA messaggero (mRNA) è stato individuato nella retina, nel nervo ottico e nei collicoli superiori, confermando così la sua presenza in queste sedi


della via visiva (Quigley et al., 2000). Come ulteriore conferma è stato individuato, a livello delle RGC, il recettore ad alta affinità per il BDNF la cui attivazione si ritiene sia responsabile dell’innesco dei processi metabolici intracellulari in risposta al fattore di crescita stesso. È stato ipotizzato che tale fattore venga rilasciato dai neuroni del corpo genicolato laterale nelle prime fasi dello sviluppo quando cominciano a stabilirsi le prime interconnessioni sinaptiche tra le cellule di questa area cerebrale e gli assoni delle RGC (Aguayo e Bray, 1990; Nickels, 1996). La formazione delle sinapsi consente l’acquisizione dei fattori di crescita che vengono così trasportati nelle RGC, consentendone la sopravvivenza. È stato accertato, infatti, che le cellule che non riescono a stabilire le connessione, non ricevendo i fattori di crescita, vanno incontro a morte cellulare per apoptosi. Questo processo determina, nei primi mesi di sviluppo fetale, l’eliminazione di circa il 40-70% delle cellule retiniche originali (Unoki e La Vail, 1994; Gao et al., 1997). Anche nel corso del glaucoma, vi è una simile interruzione del flusso assonale di tipo rapido (sia anterogrado che retrogrado) sia nell’uomo che nei modelli animali come accertato da diverse indagini sperimentali (Quigley et al., 1981; Ricard et al., 2000). Da ciò si evince che questo ostacolo che interrompe il flusso del BDNF o di altri fattori di crescita dal cervello alla retina, può ipoteticamente influire sulla sopravvivenza delle RGC (Mansour-Robaey et al., 1994; Peinado-Ramon et al., 1996). A conferma di quanto esposto, Quigley et al. (2000) hanno dimostrato che il trasporto retrogrado del BDNF veniva inibito dall’incremento acuto della IOP con conseguente morte cellulare per apoptosi delle RGC. Un’ulteriore conferma di questa ipotesi è offerta dalle ricerche che documentano come la sezione del nervo ottico induca morte cellulare per apoptosi nel 50% delle RGC dopo una settimana (degenerazione primaria) e del 90% dopo due settimane (degenerazione secondaria) e come un’unica somministrazione nel vitreo di BDNF, il giorno della lesione, prolunghi la sopravvivenza delle

cellule di oltre una settimana (MansourRobaey et al., 1994; Klocker et al., 1998; Ko et al., 2001). Inoltre, la somministrazione di BDNF è in grado di indurre la rigenerazione neurale mediante l’aumento del numero di neuriti delle RGC nella retina umana (Takano et al., 2002). È ben nota l’azione di uno dei farmaci di prima scelta nel trattamento del glaucoma quale il betaxololo, un beta-bloccante selettivo, che protegge la retina dai danni indotti dall’ischemia/riperfusione proprio attraverso un incremento dei livelli di mRNA per il BDNF a livello delle RGC (Desantis et al., 2000). Inoltre, questo antagonista b-adrenergico blocca la morte cellulare dovuta all’azione eccitotossica del glutammato (Mitchell et al., 2000). Le RGC danneggiate possiedono un programma genetico che le rende capaci di rigenerare nuovi assoni verso cellule target. Questo programma, però, non viene portato a termine probabilmente a causa della presenza di molecole nell’ambiente extracellulare che vanno a inibire proprio il processo riparativo di crescita assonale. Si potrebbe pensare che siano le cellule non-neuronali, ovvero le cellule gliali, che circondano le RGC, a impedire la riattivazione della proliferazione assonale. La possibile ragione del fallimento della rigenerazione può essere la presenza di molecole inibitorie come ad esempio le semaforine. Esse appartengono a una grande famiglia di molecole guida assonali che possono conferire segnali attrattivi o repulsivi (Goodman, 1994; 1996; Kolodkin, 1996; Tessier-Lavigne e Goodman, 1996). In generale, le semaforine sono coinvolte soprattutto nel fallimento della rigenerazione assonale in seguito a lesione. Infatti, Shirvan et al. (2002) hanno dimostrato una marcata induzione della proteina semaforina III nelle retine ipsilaterali di ratto subito dopo assotomia e ciò accadeva molto prima della comparsa di ogni evidente segno di cambiamento morfologico associato all’apoptosi nelle RGC. Ciò suggerisce che la neutralizzazione della funzione repulsiva delle semaforine potrebbe rappresentare un valido approccio di trattamento delle lesioni traumatiche del si-

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stema nervoso centrale e delle patologie oftalmiche con particolare attenzione al glaucoma e alla neurootticopatia ischemica. L’effetto neuroprotettivo è quindi quanto mai importante come la riduzione della IOP e una sostanza a ciò testata, l’acetil-L-carnitina, si può rivelare utile allo scopo. Morgan et al. nel 1999 hanno esaminato il ruolo degli astrociti come iniziatori del danno assonale in quanto queste cellule sono maggiormente sensibili ai fattori meccanici e ischemici e sono fondamentali per il mantenimento della fisiologia delle RGC. La possibilità che l’interazione astrociti-assone sia importante nello sviluppo della neuropatia ottica glaucomatosa suggerisce nuovi possibili traguardi terapeutici nella prevenzione della morte delle cellule gangliari retiniche in pazienti glaucomatosi (Morgan, 2000). Infatti, Fan et al. (2005) hanno documentato la modulazione della rigenerazione del nervo ottico attraverso la riduzione degli effetti inibitori sulla sua rigenerazione da parte degli astrociti reattivi o attivati. Dopo aver ristabilito la funzione del gene Bcl-2 (in un topo transgenico), la rigenerazione del nervo ottico è stata promossa dalla riduzione degli effetti inibitori evidenziati negli astrociti reattivi dimostrando così che gli astrociti attivati sono un importante fattore che va a inibire la rigenerazione del nervo ottico e prospettando una nuova direzione per la terapia neurorigenerativa del glaucoma. Il processo di degenerazione primaria è autoperpetuante, in quanto l’insulto primario attiva una serie di meccanismi all’interno della cellula che producono mediatori tossici. Questi sono rappresentati, come detto, oltre che dal glutammato e dal calcio, anche da radicali liberi e da elevate concentrazioni di K+, responsabili, a loro volta, dell’attivazione di una degenerazione secondaria a livello delle cellule gangliari della retina (Yoles e Weinreb, 1998). Nelle cellule attivate dal glutammato queste sostanze tossiche possono essere generate da una serie di reazioni biochimiche (Coyle e Puttfarcken, 1993). La calpaina, ad esempio, libera l’anione superossido (O2.-) dalla reazione di conversione della xantina

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deidrogenasi in xantina ossidasi. Analogamente, l’attivazione della fosfolipasi A2, che determina il rilascio di acido arachidonico dalle membrane cellulari, si associa al rilascio di radicali liberi. Si è acquisito che questi composti, rilasciati dai neuroni sotto stimolazione del glutammato, determinano l’attivazione del processo apoptotico (Coyle e Puttfarcken, 1993). Inoltre, è stato osservato che nella fase di riperfusione sanguigna a seguito di un insulto ischemico retinico, l’attivazione dei recettori del glutammato si associa al massivo rilascio di radicali liberi che intervengono nel processo di neurodegenerazione attraverso la perossidazione degli acidi grassi e degli acidi nucleici, nonché attraverso la rottura dei legami tra le proteine (Pellegrini et al., 1990). Peraltro, questi composti sono coinvolti nella modulazione dei recettori di tipo NMDA del glutammato. È stato osservato, infatti, come l’applicazione in vitro dell’acido nitrobenzoico, un agente ossidante, incrementi le correnti ioniche attraverso i canali del recettore; tale effetto viene invece inibito dall’applicazione di agenti riducenti (Pellegrini et al., 1990). A seguito di quanto esposto, è stata analizzata la acetil-L-carnitina (ALCAR) per la neuroprotezione. In generale, la carnitina interviene in diverse reazioni fisiologiche; il suo ruolo eclettico è dovuto all’esistenza di numerose carnitine acil-transferasi (CAT) dislocate nel citosol e nelle membrane mitocondriali, le quali interconvertono gli esteri degli acidi grassi del coenzima A (acil-CoA) e della carnitina (acetil-carnitina). Tra le reazioni in cui la carnitina riveste un ruolo di primo piano troviamo: l’aumento del metabolismo aerobio dello zucchero e della velocità di fosforilazione ossidativa, la promozione dell’escrezione di alcuni acidi organici e, soprattutto, l’ossidazione degli acidi grassi che ha luogo nella matrice mitocondriale. Prima di poter entrare all’interno della matrice mitocondriale, gli acidi grassi devono essere attivati e tale attivazione avviene sulla membrana mitocondriale esterna a opera dell’enzima acil CoA-sintasi. Per attivare gli acidi grassi è necessario che venga a formarsi un lega-


me tioestere tra il gruppo carbossilico dell’acido grasso e il gruppo sulfidrilico del CoA; in questa reazione l’acil CoA-sintasi richiede l’ATP come cofattore per generare acil-CoA e AMP. Le molecole di acil-CoA a catena lunga presentano una diminuita permeabilità di membrana rispetto a quelle a catena breve; questo fa sì che esse necessitino di un meccanismo di trasporto particolare per attraversare la membrana mitocondriale interna: il carrier deputato a tale compito è la carnitina (Borum et al., 1983), formandosi acil-carnitina, mediante CAT I. A questo punto, l’acil-carnitina viene trasportata attraverso la membrana mitocondriale interna da una carnitina traslocasi. Una volta giunto nella matrice mitocondriale, il gruppo acile viene di nuovo trasportato sul CoA (acil-CoA) mediante CAT II, mentre la carnitina ritorna al lato citoplasmatico della membrana sempre mediante la carnitina traslocasi (Bremer, 1976). Nella matrice mitocondriale, l’acido grasso va incontro ad un processo biochimico detto b-ossidazione, che consiste in una serie di quattro reazioni: un’ossidazione, un’idrolisi, una seconda ossidazione e una tiolisi. Questo procedimento provoca l’accorciamento di due atomi di carbonio della catena di acido grasso. Per ogni molecola di acetil-CoA così ottenuta si forma una molecola di FADH2 e una molecola di NADH. L’acetil-CoA entra poi nel ciclo di Krebs e viene ossidato ad anidride carbonica con produzione di una molecola di ATP, tre molecole di NADH e una di FADH2. Il FADH2 e il NADH sono, a loro volta, ossidati nella catena di trasporto degli elettroni dove per ogni molecola di NADH e FADH2 si generano, rispettivamente, tre e due molecole di ATP. Il bilancio energetico totale prevede quindi che, per ogni molecola di acetil-CoA prodotta dalla b-ossidazione degli acidi grassi, si ottengano diciassette molecole di ATP. L’ALCAR è un estere a catena corta della carnitina prodotto a partire dalla carnitina stessa e dall’acetil-CoA, tramite l’azione dell’enzima carnitina acetil-transferasi. L’ALCAR esplica molte delle sue attività biologiche grazie agli effetti metabolici delle sue componenti carnitina e acetile: tra gli effetti metabolici della

carnitina va ricordato, come riferito, l’importante ruolo che essa ricopre nella b-ossidazione degli acidi grassi mentre, per quanto riguarda la componente acetilica, questa può essere usata per il mantenimento dei livelli di acetil-CoA; in più, le proprietà acetiliche dell’ALCAR possono essere usate per acetilare i gruppi funzionali –NH2 e –OH negli aminoacidi come lisina, serina, treonina, tirosina e gli aminoacidi N-terminali delle proteine, con la possibilità, quindi, di modificare la loro struttura, funzionalità e turnover. ALCAR è anche in grado di comportarsi come chaperon e interagire con grandi molecole come proteine e lipidi di membrana, provocando un cambiamento conformazionale cui consegue un’alterazione della loro attività funzionale (Pettegrew et al., 2000). Le ipotesi a oggi più accreditate riguardo il ruolo protettivo dell’acetil-L-carnitina nei confronti delle cellule indotte in apoptosi sono qui di seguito riassunte. 1. L’acetil-L-carnitina come induttore dei fattori di crescita In letteratura è stata più volte descritta l’elevata attività antiapoptotica mostrata dai fattori di crescita. L’acetil-L-carnitina si è dimostrata essere una molecola in grado di modulare l’attività di diversi fattori di crescita tra cui il fattore di crescita neuronale (NGF) (Taglialatela et al., 1994; Pettegrew et al., 2000; Pescosolido et al., 2008) e il fattore di crescita degli epatociti (HGF) (Revoltella et al., 1994). In particolare, il meccanismo proposto per la modulazione dell’attività dell’NGF, prevede la possibilità che l’estere della carnitina acetili uno o più aminoacidi del fattore di crescita (McDonald et al., 1991), legandosi all’NGF stesso, oppure incrementando la trascrizione del gene grazie all’acetilazione di proteine istoniche associate al DNA (Pettegrew et al., 2000). Infatti, a seguito della somministrazione di ALCAR, si ha una minore frammentazione e condensazione del DNA genomico in cellule indotte in apoptosi per deprivazione da siero (Galli, 1993). Vi è la possibilità che l’attività modulatrice dell’ALCAR non sia dovuta a

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un’interazione diretta con l’NGF, bensì a un’interazione indiretta con il recettore del fattore di crescita. Infatti, Taglialatela e i suoi collaboratori hanno proposto che l’ALCAR stimoli i recettori dell’NGF in colture di cellule PC12 sebbene non sia del tutto chiaro il meccanismo d’azione di tale processo (Taglialatela et al., 1992; 1995). 2. L’acetil-L-carnitina porta a un aumento del metabolismo mitocondriale L’ALCAR è una molecola endogena che interviene nel metabolismo mitocondriale; fornire ALCAR come fattore esogeno equivale, quindi, a un ulteriore apporto di elementi, quali carnitina e gruppi acetile, che permettono un aumento dell’efficienza metabolica del mitocondrio (Pescosolido et al., 2008). La componente carnitina dell’ALCAR influenza positivamente l’ossidazione che avviene nella matrice mitocondriale, in quanto la carnitina funge da molecola trasportatrice fondamentale per il trasporto degli acidi grassi attivati all’interno del mitocondrio. Per quanto concerne la componente acetilica, anch’essa influisce sul metabolismo mitocondriale: gli acetili sono, infatti, elementi che vengono coniugati al coenzima A all’interno della matrice e nella forma di acetilCoA entrano nel ciclo di Krebs con formazione di CO2, ATP, NADH e FADH2. Questo si traduce in un aumento del potere riducente a disposizione del mitocondrio per la generazione del gradiente elettrochimico di ioni H+. Inoltre, il NADH produce H2O durante la sua scissione in NAD+ reagendo con l’O2 e tamponando in tal modo i radicali liberi dell’ossigeno; mentre l’ATP, composto dall’elevato contenuto energetico, rifornisce di tale energia la cellula per le sue funzioni metaboliche. 3. L’acetil-L-carnitina mostra azione protettiva sull’integrità di membrana del mitocondrio La somministrazione di ALCAR influisce in modo positivo sulla composizione e sulla stabilità della membrana mitocondriale interna. Osservazioni a tale proposito sono state evidenziate con esperimenti eseguiti su cervello

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(Villa et al., 1988) e su cuore (Paradies et al., 1999) di ratto. Riguardo a quest’ultimo modello, è stato dimostrato che il trattamento con ALCAR ristabilisce i livelli mitocondriali di cardiolipina in ratti adulti (che mostrano una riduzione di circa il 40% di tale fosfolipide) rispetto a ratti giovani (Paradies et al., 1999). La cardiolipina è un “doppio” fosfolipide (con quattro code di acidi grassi) che costituisce circa il 20% del tenore lipidico totale della membrana interna del mitocondrio. Si ritiene che la cardiolipina renda particolarmente impermeabile la membrana agli ioni (Bishop et al., 1988) ed è stato inoltre dimostrato che tale elemento è essenziale per una corretta attività della traslocasi del piruvato, enzima situato sulla membrana mitocondriale (Nalecz et al., 1991). Sulla base di quanto detto, il decremento di cardiolipina è, quindi, correlato alla diminuzione del trasporto e ossidazione di piruvato nel mitocondrio. È stato infatti dimostrato che l’ALCAR è in grado di ripristinare una corretta attività del trasportatore del piruvato, non per aumento del numero di molecole del trasportatore, bensì grazie alla sua capacità di riportare il contenuto di cardiolipina membranario a livello basale. Il meccanismo a tutt’oggi più accreditato per il ripristino del contenuto di cardiolipina prevede che l’ALCAR influisca positivamente sull’attività della cardiolipina sintasi (Cao, 1995). In conclusione, l’aumento dei livelli di piruvato, a seguito dell’intervento di ALCAR, porta a un incremento del metabolismo mitocondriale. 4. L’acetil-L-carnitina incrementa le interazioni proteiche tra la membrana cellulare e il citoscheletro. Butterfield e Rangachari (1993) hanno proposto un’ulteriore ipotesi sulla modalità di azione dell’ALCAR. La loro ricerca ha portato alla formulazione dell’ipotesi secondo la quale ALCAR incrementerebbe le interazioni tra le proteine presenti nella membrana cellulare e le proteine del citoscheletro, conferendo in tal modo un’elevata stabilità alla membrana cellulare stessa. Questo incremento di stabilità non si è dimostrato correlato a variazioni della composizione lipidica di membrana; è stata,


invece, osservata una alterazione della stabilità del bilayer imputabile a variazioni della dinamica membranaria in un modello di eritrociti umani (Arduini et al., 1990). A seguito di questi presupposti nel nostro laboratorio di Biologia Cellulare e dello Sviluppo presso l’Università degli Studi di Roma “Sapienza” abbiamo utilizzato l’ALCAR per la prevenzione del danno neuronale e retinico da ipertono sperimentale nel ratto. Si è dimostrata la morte cellulare per via apoptotica sia nelle cellule gangliari retiniche sia nelle cellule astrocitarie del nervo ottico, evidenziando un processo di morte per danno a livello mitocondriale (con formazione di ladder a seguito dell’attivazione delle caspasi). È stata dimostrata la funzione dell’acetil-Lcarnitina quale molecola capace di proteggere le cellule dall’apoptosi indotta su occhi di ratto grazie al nostro modello sperimentale. Le nostre conclusioni, riguardo al meccanismo con cui l’ALCAR potrebbe proteggere le cellule dall’apoptosi, ipotizzano che la maggiore stabilità di membrana, favorita dalla somministrazione di tale composto, sia conseguenza di un’acetilazione delle proteine della membrana

mitocondriale, come già suggerito in lavori precedenti (Pettegrew et al., 2000). L’aggiunta di gruppi acetile alle proteine ne modifica attività e conformazione: secondo la nostra ipotesi, il processo di acetilazione avverrebbe su residui di proteine implicate nella permeabilizzazione della membrana mitocondriale (MMP), processo cruciale dell’induzione apoptotica; ad avvalorare questa ipotesi, vi sono alcune evidenze che indicano l’ALCAR come molecola in grado di acetilare proteine transmembrana quali recettori e canali ionici (Pettegrew et al., 2000; Taglialatela, 1995). I nostri esperimenti sono stati condotti introducendo l’acetil-L-carnitina in camera anteriore (0,6 mM) attraverso una tecnica invasiva che non può essere usata nella pratica clinica. Il passo successivo sarà, dunque, quello di valutare se altre vie di somministrazione, come l’instillazione congiuntivale, permettono di ottenere risultati terapeutici altrettanto soddisfacenti. In conclusione, la riduzione della IOP non è il solo target da valutare e raggiungere nel trattamento del glaucoma ma bisogna considerare anche l’uso di agenti neuroprotettivi e l’acetil-L-carnitina può ritenersi utile a tale scopo.

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